Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL MOVIMENTO 5 STELLE...CADENTI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL MOVIMENTO 5 STELLE...CADENTI

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA CASTA DEGLI ITALIANI. LA CASTA SIAMO NOI.

POLITICHE 2018: VINCE LA RIBELLIONE, L’ASSISTENZIALISMO O IL POPULISMO?

PENTASTELLATI? SONO SOLO I NUOVI COMUNISTI EVOLUTI...

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

5 STELLE: PAROLE, PAROLE, PAROLE...

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

LA SOLITA FAZIOSITA'.

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

TAROCCO CASALINO.

CHI FINANZIA I 5 STELLE?

L’IPOCRISIA DEL VAFFANCULO…

DIFFIDATE DEI 5 STELLE.

DUE PESI E DUE MISURE.

LA SETTA DEI 5 STELLE.

LE SVOLTE DI GRILLO.

STADIO CAPITALE.

IL MORALISMO DI LUIGI DI MAIO.

I MORALISTI MANETTARI SOMMERSI DALL’INCHIESTE.

INTRODUZIONE. IN QUESTO MONDO DI LADRI.

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

I PARAGURI DELL’ANTICASTA.

SUPER NOVA E L'OMICIDIO DEL MOVIMENTO PENTASTELLATO.

IL WATERGATE GRILLINO, OSSIA IL M5SGATE.

ONESTA’ E DISONESTA’.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

POTERE A 5 STELLE.

I FORCAIOLI SI DELEGITTIMANO DA SOLI.

TUTTI I GUAI DI BEPPE GRILLO.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

IL NUOVO CHE AVANZA.

ANCHE I MANETTARI PIANGONO.

TRAVAGLIO. DELINQUENTE A CHI?

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

GIUDICI IMPUNITI.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

POPULISTA A CHI?!?

PARLIAMO DEI GRILLINI A 5 STELLE.

V-DAY PER TUTTI.

GRILLO, L’ARCANGELO DELLA LEGALITA’ TRA CONDANNE E CONDONI.

IL PARTITO DEI MAGISTRATI.

GOGNA E MANETTE. I 5 STELLE: IL PARTITO DELLE TOGHE. PRIMA DEI PM E POI DI TUTTI GLI ALTRI MAGISTRATI.

GRILLOPOLI: OMERTA’, OMERTA’.

  

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

LA CASTA DEGLI ITALIANI. LA CASTA SIAMO NOI.

Rendiconti addio: così tramonta il mito della trasparenza a Cinque Stelle. Il sacro principio degli scontrini archiviato. Le spese aumentate. I bilanci insensatamente moltiplicati. E il Movimento diventa Associazione. Meno stelle, più Rousseau, scrive Susanna Turco il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Alla faccia della sua pur notevole carica istituzionale, Paola Taverna ti accoglie nel suo video con l’aria nasale e compiaciuta di una annunciatrice: «Sabato e domenica ci sarà una nuova tappa di Rousseau City Lab. Il mouse di Rousseau arriva a Livorno, alla rotonda di Ardenza». È vicepresidente del Senato, sembra un navigatore satellitare, una signorina buonasera, la voce del supermercato: «Entra su Rousseau alla voce Activism. Scopri l’evento che è più vicino a te». L’incredibile video non è isolato: è pieno trend a Cinque stelle. Meno movimento, più Associazione Rousseau. Meno vaffa, più azienda. Riguarda un po’ tutti i volti noti: dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli che si dedica con passione ai video della “Rousseau open Academ” - la più recente creatura del team di Davide Casaleggio- fino al Guardasigilli Alfonso Bonafede, intento a spiegare tutto de «lo scudo della rete», cioè il pool di avvocati cui rivolgersi, come grillini. Così, anche così, col salto al governo il mito dell’anticasta si è tradotto, più che in politica, in tecnica, strategia mediatica e opacità. Slittamenti che si svolgono su vari livelli. La famosa trasparenza diventa qualcosa di sempre più rarefatto, la piazza viene rinchiusa e stipata nel mega mouse gonfiabile della Associazione Rousseau, il tecnoaziendalismo sopravanza insieme con la macchina di Casaleggio. Le Cinque stelle diventano sempre più Rousseau: c’è anche un dominio che lo esemplifica, l’indirizzo web «rousseau.movimento5stelle.it», che porta dritto nel futuro. E ci sono significative mosse mediatiche: a giugno, per distogliere l’attenzione dal caso di Luca Lanzalone – che fra l’altro aveva incontrato Davide Casaleggio a una cena poco prima del suo arresto - Luigi Di Maio ha dato grande spolvero alla pubblicazione del bilancio dell’Associazione Rousseau. Non una parola su quello (rimasto peraltro riservato) della Associazione Gianroberto Casaleggio che pure aveva organizzato l’evento al centro delle polemiche. E, soprattutto, Di Maio non ha dato alcuna pubblicità - come avrebbe fatto fino a poco tempo fa - al mero conto finale delle spese del comitato elettorale presieduto da suoi fedelissimi, che pure aveva raccolto «64 mila euro nei primi due giorni», «quasi cinquecentomila» all’inizio di febbraio e alla fine boh (nel 2013, le polemiche per la mancata pubblicazione partirono a neanche due settimane dal voto – e Grillo si precipitò a raccontare dove stavano i soldi). Ci sono mosse giudiziarie: è la Rousseau e non il Movimento ad aver tirato fuori, in febbraio, i soldi per risarcire una causa persa da M5S. Mosse commerciali: il sito tirendiconto.it ha addosso tutti i segni di un prossimo smantellamento, mentre è già statuito che i 331 deputati e senatori eletti con M5S verseranno ciascuno 300 euro al mese all’Associazione di cui Casaleggio jr è socio fondatore, tesoriere, dominus (totale: quasi 6 milioni in un quinquennio). E ci sono mosse politiche: il più recente bilancio presentato in Parlamento alla Commissione preposta non è quello del partito, ma quello di una Associazione che, per quanto definita «cuore del Movimento», non è quella che ha presentato le liste e depositato il contrassegno elettorale, né nel 2013 né nel 2018; così, i rendiconti non sono più firmati nemmeno da Beppe Grillo, ma da Davide Federico Dante Casaleggio e Pietro Dettori. Sembrava fosse un partito, invece era un calesse. Ma conviene cominciare terra terra, dagli scontrini. Nel M5S non se ne vede più uno da un pezzo. Gli ultimi risalgono alla fine del 2017. Bisogna andare nella preistoria grillina, per ricordare che la scorsa legislatura era cominciata addirittura con espulsioni comminate ai parlamentari per carenze sul fronte della presentazione delle prove di spesa. In piena campagna elettorale 2018, l’esplodere del caso dei finti bonifici ha fatto il resto. E la nuova legislatura è cominciata con il presidente della Camera Roberto Fico che si è visto rinfacciare i rimborsi taxi, quando si è fatto fotografare sull’autobus. Perché mai continuare a prestare il fianco a tutto ciò? Cade così il mantra degli scontrini. I parlamentari saranno tenuti a restituire 2 mila euro al mese, oltre ai 300 destinati alla Rousseau, e avranno diritto a un forfait per le spese di soggiorno, vitto e trasporto di tremila euro, senza dover presentare prove. Non proprio da buttar via, visto che nel 2013 la regola era tenere al massimo tremila euro, non limitarsi a restituirne 2 mila (a «i nostri terranno 2500 euro al mese», proclamava Grillo al tempo dello Tzunami tour). Nel partito mugugnano, ma intanto il famoso “tirendiconto” è in disarmo. Fermo alla scorsa legislatura: ancora col faccione di Alessandro Di Battista, che invece è a zonzo per l’America, o dello stesso Di Maio, che ormai sta a via Veneto tra i ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro. I rendiconti ancora fermi alla scorsa legislatura, a Dicembre 2017: ma nel 2018 li hanno presentati in due. Insieme agli scontrini, faremo più fatica ad avere i minuziosi rendiconti che - soprattutto al Senato - i gruppi parlamentari M5S fornivano. C’è da dire, anzi, che il gruppo Camera si è già aggiornato. Tutt’ora, in ritardo vistoso, non ha ancora fornito il link ufficiale al bilancio 2017, si è limitato a dare anticipazioni all’agenzia di stampa Adnkronos: e in effetti sono bastati a far venire i brividi. Non volevano i soldi pubblici, anzi lo scrivono tutt’ora sul sito: «Non riceve alcun finanziamento pubblico». Ma attraverso i contributi di Camera e Senato ne hanno presi eccome. E tanti: 32 milioni di euro, complessivamente, in un quinquennio. Soldi incassati dal movimento, attraverso i gruppi parlamentari, e poi spesi. Tutti. Tanto da finire in rosso. Osservando l’andamento, si vede che nel quinquennio le spese sono esplose, a partire dal 2015. E hanno finito per rosicchiare i soldi messi da parte nel primo biennio, più virtuoso. Il gruppo della Camera ha certificato un quasi un milione in rosso per il 2017, 803 mila euro per la precisione. Il francescanesimo, totalmente abbandonato. E dove sono andati questi soldi? Oltre che nella sempre crescente numero di dipendenti, in collaborazioni, consulenze e incarichi esterni. Per la “comunicazione” e non solo. Già nel 2016, solo il comparto era lievitato del 375 per cento, superando il mezzo milione di euro di spese. Per il 2017, il caso più notevole è anche il più curioso: quello Domenico De Masi, il sociologo forse più amato - e di certo più pagato - dai Cinque stelle (almeno prima che passasse nel comitato promotore di Leu). Le due ricerche da lui svolte (insieme con un team di 14 persone, ha poi precisato), sono la voce più pesante della spesa di 183 mila euro devoluti in servizi (il restante è andato alla Ipsos, per due sondaggi). Un’enormità. Nella nota al rendiconto, si precisa che i risultati della prima ricerca sono stati presentati, quelli della seconda mai, perché dovevano essere il cuore di un convegno organizzato per febbraio 2018, e «successivamente rimandato a causa delle imminenti elezioni» (evidentemente non preventivabili). La spesa sempre crescente - a fronte di donazioni degli attivisti grillini che si aggirano attorno a una media fissa di 27-29 euro a testa - è del resto un dato comune nei molti bilanci presentati dai Cinque stelle. E si dice “molti” non a caso. Pur non volendo accedere ai contributi pubblici (cioè ai rimborsi elettorali e al meccanismo del 2 per mille), infatti, il Movimento Cinque stelle ha presentato almeno il triplo dei bilanci necessari, in una moltiplicazione di numeri che (per paradosso) si traduce in mancata chiarezza. Secondo quanto risulta pure alla commissione per la Trasparenza, detta Commissione Calamaro dal nome del suo presidente, e alla quale i partiti debbono presentare i loro rendiconti, il Movimento sembra essere uno e trino: cioè per ognuno dei primi tre anni della scorsa legislatura (unici dati finora disponibili) ha presentato tre bilanci. Quello del Comitato elettorale per le elezioni politiche 2013, quello per le europee del 2014, e infine, quello dell’Associazione MoVimento Cinque stelle che si è presentata alle elezioni (si tratta dell’Associazione tra Grillo, suo nipote e il commercialista Nadasi, costituita nel 2012; quella che si è presentata alle ultime elezioni e che ha Di Maio come capo politico ancora non ha presentato bilanci). A tutti questi bilanci si aggiungono i due dell’Associazione Rousseau (nata a metà 2016). Il risultato complessivo rasenta un Picasso nel periodo cubista. Ci sono molti più bilanci di quelli che dovrebbero esserci, perché per la legge l’obbligo a trasmettere i rendiconti è di chi ha ottenuto il 2 per cento dei voti o ha almeno un eletto (ma non hanno obblighi i comitati elettorali, e tanto meno le Associazioni come la Rousseau che formalmente si occupa solo della piattaforma on line di M5S). E si finisce per avere un quadro incongruo: l’unico organismo che dovrebbe aver soldi, cioè il Movimento cinque stelle, non li ha. In compenso, in tutte le sue molteplici incarnazioni, finisce in passivo: non c’è n’è uno che nel giro di un paio d’anni non abbia almeno 4 mila euro di rosso. Per converso, in tanta moltiplicazione, mancano tasselli che logicamente sarebbero fondamentali: manca ad esempio il primo rendiconto del comitato elettorale 2013, cioè quello dei fondi raccolti per le politiche che videro per la prima volta M5S diventare titolare di un quarto dei voti degli italiani. Qualcosa si ricava nel rendiconto successivo, quello del 2014, nel quale si dichiara che l’anno prima c’erano stati un totale di 737 mila euro di contributi (di cui 41 mila dall’estero), e uscite per complessivi 626 mila euro. In compenso, il Movimento vero e proprio conta nello stesso periodo sulle sole quote associative: 600 euro, poi 800, poi mille. Il suo massimo di spesa riguarda la registrazione del simbolo (4 mila euro). Molti più soldi si ritrova a gestire il comitato per le elezioni europee del 2014. Parte con 617 mila euro di contributi (di cui 39 mila dall’estero) ne spende per la campagna elettorale 413 mila. I restanti 200 mila circa vengono in parte girati alla causa del mai celebrato referendum no euro (45 mila nel 2014, 30 mila nel 2015), altri in spese per lo più non specificate. Intorno ai soldi raccolti per le europee si verifica peraltro un caso di strani conteggi: nel counter collocato sul sito del Movimento, in alcuni momenti aumenta il numero dei contribuenti senza che aumenti il totale, in altri momenti accade l’inverso. Come se fossero numeri a caso, il che quantomeno non è estetico: ufficialmente vale alla fine il rendiconto (dove il numero dei contribuenti non c’è). Nel quale si segnala come quello di Beppe Grillo, 54 mila euro circa, sia in pratica l’unico ad aver superato i 10 mila euro. Il tutto, comunque, è niente rispetto ai 32 milioni che arrivati via Parlamento, e ancor meno rispetto a quelli che arriveranno: basti pensare che i parlamentari sono più che raddoppiati da 126 a 331. In questo delirio di bilanci, ecco sorgere l’Associazione Rousseau. Fondata l’8 aprile 2016 da Davide e Gianroberto Casaleggio (quattro giorni prima della sua morte), alla fine di quell’anno era in attivo di 79 mila euro, nel 2017 è già in passivo secondo la solita tendenza: 135 mila euro il disavanzo di gestione. Dice Davide Casaleggio che la maggior parte dei soldi (89 mila euro) sono serviti a rendere i dati degli iscritti più sicuri, dopo che il sistema è stato bucato più volte dagli hacker. Di certo, 31 mila e spicci la Rousseau li ha messi a bilancio nel 2017 prevedendo che le sarebbero serviti, al centesimo, nel febbraio 2018, per pagare una causa persa contro espulsi romani da M5S. Più ancora che i soldi, tuttavia, è il sistema in crescita a dover essere messo sotto la lente. Alcuni fattori mostrano infatti come il sistema Casaleggio sia sempre più attivo ed operante. Il Rousseau City lab che si citava all’inizio ne è un tassello. Casaleggio e i suoi soci girano l’Italia per mostrare come funziona il sistema della democrazia diretta. La tecnodemocrazia. Dentro un bianco mouse gonfiabile, spiegano il futuro. E a illustrarlo, non c’è Luigi Di Maio, capo politico di M5S. C’è Enrica Sabatini, socia di Rousseau. Che parla di «nuovi modelli di partecipazione», «democrazia diretta, invece che delegata», una «rivoluzione culturale» rispetto alla quale «in Italia ci sono pregiudizi», anche se «i risultati ci danno ragione, essendo arrivati al governo di questo Paese». Eccolo, il link, persino spudorato: è la Rousseau, ad essere arrivata al governo. I risultati le danno ragione. Lo stesso Casaleggio, parlando durante la serata de “il mio voto conta” l’ha detto ancora meglio: «La consapevolezza dei propri diritti di cittadinanza digitale si sta alzando, un nuovo tipo di diritti e di strumenti. Oggi gli strumenti per esercitare questi diritti non sempre accessibili, ma quando lo diventano poi si pretendono, proprio come quelli che abbiamo creato con Rousseau». Insomma l’accesso alla rete è «un diritto», persino sancito nel contratto di governo tra lega e cinque stelle, e questo è «un primo passo verso il riconoscimento di nuovi diritti, che stiamo cominciando a costruire anche grazie a Rousseau». Ecco Davide che recupera il padre, le sue direttrici, e le porta su nuovi orizzonti. Senza dimenticare pure l’aggancio con il mito olivettiano: «In un certo senso siamo figli di Adriano. E oggi la sua idea di comunità è il faro che ci indica la strada al centro di Rousseau», scrive Davide su Facebook a inizio luglio. Il mondo che gli gira attorno, del resto, funziona in maniera sempre più integrata. Tra echi olivettiani, e gli approdi più contemporanei. Come quello di Edoardo Narduzzi, amico di Gianroberto Casaleggio, che lavorò con lui alla WebbEgg e costruì la Netikos, esperto di startup, criptovalute e blockchain, è stato uno degli investitori di Pipero, ristorante nel quale si sono incontrati Davide Casaleggio e Luca Lanzalone, pochi giorni prima del suo arresto. Un’altra società di Narduzzi, la Mashfrog, è nella partnership degli organizzatori del master sulle criptovalute organizzato dalla Link University, l’ateneo privato che ha un rapporto privilegiato coi Cinque stelle. L’università che adesso sta per aprire una nuova sede a Napoli. Proprio nell’area della ex Olivetti, ma sarà certamente un caso.

Da Raggi ad Appendino, non c'è pace per gli staff delle sindache. A Roma arriva Foti, l'ennesimo aspirante braccio destro (due suoi predecessori sono finiti in galera). A Torino finisce nei guai Pasquaretta, il portavoce che si fece consulente (ma non pensava fosse un problema), scrive Susanna Turco il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Non c’è pace per gli staff delle sindache grilline. Mentre a Roma Virginia Raggi si ritrova l’ennesimo Mr Wolf in Lorenzo Foti, ex collaboratore di Tamburrano, esperto di criptovalute, vicinissimo a Beppe Grillo (ne ha curato il nuovo sito) e adesso nuovo super consulente al Campidoglio dopo la non gloriosa fine di Raffaele Marra prima, e di Luca Lanzalone poi, a Torino il momento difficile riguarda il principale collaboratore di Chiara Appendino, Luca Pasquaretta, detto “Pitbull”. Ruspante portavoce della sindaca, nulla con lei in comune a parte la Juventus - mondo per il quale lei ha lavorato (lato vertici) e del quale lui scriveva (lato ultras) da cronista sportivo del Messaggero - atteggiamento coi media in pieno stile Casaleggio & Associati (buoni rapporti, peraltro, con l’uomo chiave della Rousseau Pietro Dettori), Pasquaretta assurse per la prima volta agli onori delle cronache perché un giorno volle allontanare un giornalista di Raitre che doveva intervistare Appendino, con l’argomento che per farlo non serviva chi ponesse le domande, bastava la sola telecamera a riprendere le risposte (preparate da lui). Già indagato per una fornitura di maxischermo per la tragica finale di Champions League, ora Pasquaretta si ritrova di nuovo indagato, per peculato. Lo scorso anno, pur da portavoce della sindaca di Torino, svolse una consulenza (5mila euro, poi restituiti) per il Salone del libro di Torino guidato da Massimo Bray. Ma tutt’ora non capisce perché se ne parli tanto: «Non ho mai pensato che tale collaborazione potesse suscitare tanto clamore», è la sua linea.

Assia, segretaria rampante pagata come un primario. I confronti: dall'avvocato al docente universitario, nessuno al primo incarico guadagna così tanto, scrive Giuseppe Marino, Giovedì 19/07/2018, su "Il Giornale". Da «uno vale uno» a «qualcuno vale 70mila euro». La parabola del Movimento 5 Stelle verso la trasformazione in ordinaria casta compie un altro passo con l'assunzione come segretaria particolare di Luigi Di Maio di Assia Montanino, compaesana di 26 anni con nel curriculum una mancata elezione alle comunali. La difesa del ministro che la definisce «onesta e leale» non può far breccia, almeno finché non arriverà il «reddito di onestà». Su twitter, tra i tanti commenti indignati, quello di un medico: «Non faccio un'assenza da 11 anni e sono onesto anch'io, mi date 70mila euro?». In effetti un chirurgo ospedaliero alla prima esperienza (che per un medico richiede comunque una lunga pratica) non arriva a guadagnare 38.000 euro lordi l'anno, poco meno della metà di quanto percepirà Assia Montanino per il suo lavoro. L'emolumento assegnatole grazie all'amicizia con Luigi Di Maio si avvicina invece ai circa 75.000 euro che guadagna un qualunque primario con un posto da dirigente ospedaliero. Normale che scattino i confronti, visto che il Movimento ha spesso attizzato l'odio sociale per chi guadagna grazie alla politica. E la giovane predestinata a 5 stelle può ben dirsi fortunata. Un primo incarico da segretaria di direzione in un'azienda le avrebbe fruttato al massimo un terzo della somma, dai 18 ai 25mila euro. E la fortuna della giovane laureata in economia emerge anche nel confronto con un incarico analogo al suo, capo di una segreteria di direzione, che presuppone però ben altra esperienza: in questo caso la retribuzione mediamente è di 58.400 euro, 15mila in meno di quanto percepirà lei. La comparazione con altre categorie professionali è ancora più impietosa e mostra in modo ancor più chiaro come la conoscenza con un politico possa proiettare la propria carriera oltre l'aspettativa di chi non ha questo tipo di relazioni. Un avvocato, una delle professioni più depauperate negli ultimi anni, fino ai 30 anni in media può aspettarsi un reddito intorno ai 10mila euro lordi annui e dovrà aspettare i 45 per sfondare il tetto dei 40mila, ben al di sotto del «reddito di onestà» di Montanino. Per non parlare di cosa sarebbe successo se la fortunata concittadina di Di Maio avesse perso il treno della politica per salire su quello dell'insegnamento, come fanno migliaia di giovani. A inizio carriera avrebbe portato a casa appena 20mila euro lordi. Solo dopo 35 anni in cattedra in una scuola superiore (nei gradi di istruzione inferiori va ancora peggio) avrebbe potuto ambire a guadagnare 31.325 euro lordi l'anno. Se poi avesse deciso di lanciarsi nella carriera universitaria all'inizio avrebbe dovuto sudare da ricercatrice con 1.300-1.700 euro netti al mese al massimo. E se avesse avuto la fortuna di proseguire fino alla posizione più ambita, quella di professore ordinario, sarebbe rimasta comunque al di sotto dei 72.000 che le pioveranno in tasca grazie alla posizione fiduciaria al ministero. Dove dovrà fare i conti con tanti colleghi che guadagnano meno. Lo stipendio medio a ministeriale è di 29.000 euro, 57mila a Palazzo Chigi. Certo, Assia Montanino è stata ingaggiata legittimamente, sia chiaro: niente di diverso da quanto accaduto in passato con altri ministri. Ma dove sono finiti i curriculum, le selezioni on line, la meritocrazia a ogni costo usati come clava dai Cinque stelle contro gli avversari politici? Fonti M5s provano a replicare che lei ha dalla sua «disponibilità h24, 7 giorni su 7». Ma come, si osserva in Rete, Di Maio non vuole limitare il lavoro domenicale?

Ed è giallo anche sul suo incarico: segretaria o capo, scrive Giovedì 19/07/2018 "Il Giornale". C'è un piccolo giallo anche sull'incarico che Assia Montanino ricopre al Mise (e, forse, al ministero del Lavoro). La 26enne di Pomigliano D'Arco, infatti, sul sito del Mise è indicata chiaramente come «Segretario particolare» di Di Maio, tra i responsabili degli uffici di diretta collaborazione del ministro. Capo della segreteria è invece, sempre secondo il sito del ministero, Salvatore Barca, che era stato al seguito di Luigi Di Maio anche quando il leader M5s era stato vicepresidente della Camera. Eppure, ieri, il Movimento ha pensato bene di precisare, dettando un comunicato alle agenzie di stampa, quale sarebbe il vero incarico di Assia Montanino, anche per giustificarne gli emolumenti non proprio popolari che le spettano per quella poltrona. «Non è una segretaria. Assia è capo segreteria del Ministro del Lavoro e poi sarà anche capo segreteria del Mise. Con lo stesso stipendio. Lavora ed è disponibile h24 sette giorni su sette». Dunque la ragazza di Pomigliano si occuperebbe del doppio lavoro di capo della segreteria di Di Maio sia al Mise che al ministero del Lavoro (sul cui sito, in effetti, non è ancora indicato un nome per il capo della segreteria). Ma perché allora la pagina web del Mise, aggiornata a fine giugno, indica per la Montanino un incarico differente?

L'ira della base M5s: "Sembrate il Pd". Il ministro Di Maio: "Il Giornale si vergogni", ma sui social tanti grillini lo criticano, scrive Domenico Di Sanzo, Giovedì 19/07/2018, su "Il Giornale". «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». La frase è di Pietro Nenni, e oggi più che mai il destinatario è Luigi Di Maio. La trasparenza, il merito, l'idolatria per i curriculum e il dogma della «purezza» stanno diventando un boomerang per il Movimento Cinque Stelle. Dopo la rivelazione del Giornale sull'incarico come «segretaria particolare» dato da Di Maio alla giovanissima e misconosciuta concittadina Assunta Montanino, senza apparenti meriti certificati da Cv, molti tra gli stessi grillini stanno attaccando la scelta del capo politico. La strategia pentastellata, propagata dal profilo Facebook del leader, è sempre la stessa: dare addosso ai giornali e ai giornalisti, ma i fan non sempre abboccano. Di Maio, ieri mattina, legge la nostra prima pagina e sputa tutta la sua indignazione. «Lo schifo che leggo sul quotidiano il Giornale - scrive il vicepremier - va messo nella categoria della stampa spazzatura». Poi racconta: «La dottoressa Assia Montanino l'ho conosciuta 5 anni fa. È la figlia di un commerciante che ha denunciato i suoi usurai e ho avuto modo di conoscerla quando sono stato a far visita al padre per portargli la mia solidarietà». Prosegue la testimonianza: «Era una giovane universitaria alla quale (lui scrive a cui) decisi di dare un'opportunità di tirocinio presso la mia segreteria di vice presidente della Camera. Negli anni si è distinta per la sua capacità di gestire situazioni complesse di segreteria. E posso assicurarvi che non ho mai conosciuto una persona più onesta e leale di lei». Infine la chiosa, volta a scatenare l'ira dei supporter della pagina: «Vergognatevi». Non tutti, però, ci cascano. In tanti non abboccano all'amo del facile sdegno. Giulio Olleia commenta: «A vergognarsi dovrebbe essere lei, fosse anche questa persona la più retta e onesta dell'universo non avrebbe dovuto nemmeno presentarla come possibile candidata». Tutti possono, ma i portabandiera dell'onestà no: «L'onestà tanto sbandierata è minata da azioni come queste, se ne ricorderanno i veri onesti che continuano a fare la fame», conclude l'utente. Maurizia Maffezzoli chiede trasparenza: «Sono d'accordo sull'assunzione e l'opportunità data, ma vorrei sapere se è veramente questo il compenso, 72mila euro all'anno. Se non è questo vorrei sapere a quanto ammonta». Marco Weber centra il punto: «Il problema è che se qualcuno, il Pd per esempio, avesse fatto una roba del genere, lo avreste massacrato. A me non può che far piacere se una persona per bene è valorizzata. Per voi non è così: è per bene solo se è simpatizzante M5s». Denise Lancia, dissente e si scusa: «Questa volta, mi dispiace, ma dissento. Tutti vorrebbero avere una possibilità». Marco Ravenna rimarca il concetto: «Non si mette in discussione l'onestà della ragazza, ma la modalità con cui è stata assunta. L'avessero fatto gli altri sareste con la bava alla bocca». Intanto, per paura di altre critiche, il Blog delle Stelle resta in silenzio. E sulla pagina di Di Maio continua l'antologia di commenti. Nabila Ferrari: «Anche io sono onesta e leale, posso avere la stessa retribuzione?» Il simpatizzante Roberto Vecchione non ci sta: «Per la prima volta dopo un mese e mezzo non sono più contento di voi. E non giustifico più i ragionamenti all'italiana. Né chiunque li metta in atto. Sia che siano i vecchi politici o chi ho votato». In molti dicono di non voler dare più il loro voto al Movimento Cinque Stelle. La pietra tombale la mette Carlo Clavini: «Hai fatto bene Gigi! Tra l'altro è anche bona! Ricordati anche di me». Ogni partito è paese.

"Io fortunata con Di Maio. Ma mi merito due stipendi". La 26enne ammette: da stagista al ministero perché sono sua compaesana e lavoro molto. Però minaccia querele, scrive Pasquale Napolitano, Giovedì 19/07/2018, su "Il Giornale". Nascere a Pomigliano D'Arco è un dono. Una fortuna, che Assia Montanino (all'anagrafe Assunta), l'attivista grillina di 26 anni, reclutata a capo della segreteria particolare del ministro del Lavoro e Sviluppo economico Luigi di Maio, non nasconde. Ammettendo come il legame territoriale con il capo politico del M5S abbia pesato sulla scelta. La neosegretaria particolare del ministro Di Maio attende l'intera giornata prima di uscire allo scoperto per fornire la propria versione dei fatti sul contratto avuto con Mise e ministero del Lavoro: «Vengo dallo stesso paese del ministro Di Maio e questa è stata senza dubbio una fortuna: perché così lui ha conosciuto diversi anni fa mio padre, che si era appena ribellato contro gli usurai, e mi ha dato un'opportunità, come l'ha data ad altri studenti universitari per uno stage presso la vicepresidenza della Camera. Mi sono guadagnata stima e fiducia di tutti lavorando sodo per anni. E così continuerò a fare con grande serenità». Montanino prova a chiarire compenso e incarichi che avrà al fianco di Di Maio: «Lavoro al ministero del Lavoro come capo segreteria. Stesso ruolo ricoprirò a breve al ministero dello Sviluppo economico. Due ministeri, uno stipendio solo, pur avendo diritto a due stipendi. La cifra netta che prendo mensilmente - pari a circa tremila e trecento euro - copre un impegno che va ben oltre i tempi previsti nel contratto e che si protrae 7 giorni su 7, senza limiti di orario. E con responsabilità importanti. Il fatto di avere solo 26 anni credevo fosse un elemento positivo e non di demerito in un Paese in cui non si fa altro che dire largo ai giovani». Un trucchetto dialettico, il suo, perché le critiche non sono all'età ma all'inesperienza, tanto più che continua a non fornire alcuna informazione sul curriculum. A differenza di chi l'ha preceduta, non è possibile conoscere il percorso professionale della segretaria particolare Di Maio. Si sa che possiede una laurea in Economia e che ha avuto un'esperienza come consulente del Lavoro. Tematiche che Di Maio sarà chiamato ad affrontare sia al Mise che al ministero del Lavoro. Il capo politico del Ms5 ha spiegato di averla scelta per la poltrona di segretario particolare, dopo un tirocinio alla Camera dei Deputati. E anche in questo caso sul portale della Camera non c'è traccia del curriculum, inoltrato per partecipare allo stage. Il nome della Montanino è sconosciuta anche a molti parlamentari della Campania. A Pomigliano la considerano un'attivista della prima ora, vicina al cerchio magico di Di Maio. Di Maio, Montanino e il M5s fanno quadrato, dopo le polemiche, senza ovviamente far alcun cenno al curriculum. Un silenzio che non evita all'ex candidata del M5S di consegnare in un lungo post su Facebook minacce di querele: «Le illazioni sulle mie competenze le ritengo inaccettabili e gli autori ne dovranno rispondere in tribunale. È triste notare come un giovane in Italia debba costantemente difendersi dalle accuse di incompetenza, solo per un fattore legato all'età anagrafica. Pensavo che i tempi bui in cui un ex ministro del Lavoro accusava i giovani di essere dei buoni a nulla fossero passati, invece noto che è una mentalità diffusa, sia in ambienti che si definiscono di destra, sia in ambienti che si professano di sinistra. Come donna osservo anche che in questi articoli e nelle foto private che sono state pubblicate, c'è un sessismo nemmeno troppo velato, e mi chiedo: se il capo segreteria fosse stato un uomo cosa sarebbe successo?» Evidentemente alla neosegreteria sarà sfuggito che le pagine dei giornali sono piene di articoli che svelano incarichi e consulenze. Senza distinzione di sesso.

Assia Montanino, la segretaria 26enne assunta da Di Maio: "Ho diritto a 2 stipendi". Assia Montanino, 26 anni catapultata dal vicepremier al ministero: "Avrei diritto a due stipendi". E minaccia querele, scrive Luisa De Montis, mercoledì 18/07/2018, su "Il Giornale". Il caso di Assia Montanino, 26 anni, portata da Luigi Di Maio alla guida della sua segreteria al Ministero con uno stipendio di 72mila euro continua a tenere banco. Dopo la difesa a spada tratta a opera del vicepremier, adesso anche la diretta interessata dice la sua. E lo fa con un post su Facebook: "Lavoro al ministero del Lavoro come capo segreteria. Stesso ruolo ricoprirò a breve al Ministero dello Sviluppo economico. Due ministeri, uno stipendio solo, pur avendo diritto a due stipendi. La cifra netta che prendo mensilmente — pari a circa tremila e trecento euro — copre un impegno che va ben oltre i tempi previsti nel contratto, e che si protrae 7 giorni su 7, senza limiti di orario. E con responsabilità importanti. Il fatto di avere “solo” 26 anni credevo fosse un elemento positivo e non di demerito, in un Paese in cui non si fa altro che dire “largo ai giovani”". E ancora: "Vengo dallo stesso paese del ministro e questa è stata senza dubbio una "fortuna". Mi sono guadagnata stima e fiducia di tutti lavorando sodo per anni. E così continuerò a fare con grande serenità" (...) Pensavo che i tempi bui in cui un ex Ministro del lavoro accusava i giovani di essere dei buoni a nulla fossero passati, invece noto che è una mentalità diffusa, sia in ambienti che si definiscono di destra, sia in ambienti che si professano di sinistra". Come donna, ha poi osservato, che in molti articoli e fotografie private pubblicate «c’è un sessismo nemmeno troppo velato. Purtroppo certi media contribuiscono non solo a diffondere falsa informazione, ma anche a inchiodare l'Italia a un medioevo culturale".

LA CASTA SIAMO NOI!, scrive Antonia Briuglia. Le inchieste e i “linciaggi mediatici”. Quindici Regioni italiane sotto inchiesta, dove consiglieri regionali, indifferenti alle inchieste e ai primi arresti per gli stessi reati che colpivano altri, ormai quasi per “tradizione”, continuavano a sperperare soldi pubblici, quelli dei rimborsi ai gruppi di partito. Senza limiti al ridicolo, senza vergogna, rasentando il tragicomico pagavano, con i soldi dei cittadini, dalle spese del matrimonio al suv, dalla collezione di Diabolik alle mutandine o ai vini pregiati. Un male che, naturalmente non ha risparmiato la nostra Regione, dove esponenti prima dell’UDC e poi dell’Italia dei Valori hanno prelevato, prima 200 mila euro poi 70 mila per spese personali. Per non parlare di altri consiglieri che facevano a gara per depositare scontrini delle più svariate e ingiustificabili spese da farsi rimborsare. Curioso il fatto che appartenessero al gruppo Italia dei Valori nato proprio per inaugurare un nuovo corso della politica, e ancora più curioso come molti di loro abbia formato un nuovo gruppo denominato “Diritti e libertà”, dando a questi due concetti interpretazioni a dir poco spregevoli. Questo male, però, non fa alcun tipo di differenza, né politica, perché le inchieste delle Regioni toccano tutti i partiti, nessuno escluso; né geografica, perché tocca, ad esempio, il Piemonte come la Sicilia.

Ci siamo, così, abituati anche in Liguria a vedere indagati, se non finire in manette, Presidenti di Consiglio regionale o Vice Presidenti della Giunta, come fosse un male inevitabile. Lo stesso che giornalmente sembra colpire quella che chiamiamo “casta”, che ogni giorno “onora” trasmissioni d’inchiesta televisive, o salotti del conduttore di turno dove parlamentari e ministri guadagnano spazi invidiabili per controbattere pubblicamente alle accuse di malaffare, oggetto di continui “linciaggi mediatici” nei loro confronti. Lì, l’accusato di turno per appalti, favoritismi e strumentali controlli all’Asl di Benevento, come la Di Girolamo, si scopre una semplice mamma, costretta a organizzare riunioni ufficiali a casa dove è costretta da una mastite, con la sola colpa di abbandonarsi spesso al turpiloquio e che minaccia, per le gravi offese ricevute, di pagarsi il mutuo della sua semplice casa di 100 metri quadrati, con i proventi delle accuse diffamatorie.

Insomma, un Paese d’ingiustizie il nostro. Un Paese, dove giornalmente la classe politica, mentre si dedica con abnegazione al bene pubblico, dal Comune al Governo nazionale, è ingiustamente bersagliata da false accuse. Accade per avere usato aerei di Stato per scopi personali, per aver pagato con soldi pubblici ingiustificati affitti d’oro, per finanziamenti pubblici quadruplicati mentre s’inventano nuove tasse e si chiedono sacrifici alla gente, per auto blu concesse come caramelle anche per usi personali come la spesa, oppure per "Rimborsi" elettorali 180 volte più alti delle spese realmente sostenute o per le spese del Quirinale molto più alte di quelle della Regina d’Inghilterra. Dipendenti regionali moltiplicati per tredici volte in venti anni e spese di rappresentanza dei Governatori che arrivano a essere dodici volte più alte di quelle del presidente della Repubblica tedesco. Candidati "trombati" e inesorabilmente consolati da cariche in enti, alcuni dei quali arrivano a sommare cinque buste paga e che per incompetenza e inadeguatezza al ruolo, aumentano i loro costi per le inevitabili consulenza esterne.

Solo esempi. Ma mentre i media hanno abbondante materia per occupare le pagine o i palinsesti, sarebbe maturo ormai il tempo perché si faccia una seria riflessione. Smettiamolo di fare dell’ironia, di buttarla sull’italianità dei comportamenti come se il nostro Paese fosse fatalmente destinato a morire nell’indifferenza di chi crede che non ci sia nulla da fare o nell’impotenza e nella depressione di chi vorrebbe combattere questa realtà, senza aspettare che di volta in volta lo faccia la Magistratura. Se i comportamenti delle Caste locali o romane, suscitano rabbia e sdegno verso tutta la classe politica, rischiamo spesso, arrendendoci a questa realtà di credere che non ci sia soluzione, di fatto, assolvendola. I commenti sulla rete sono spesso sovrapponibili “sono tutti uguali non si salva nessuno, chiunque vada là poi si sporca! È inevitabile” "tutte cose sapute e risapute", "mi vergogno di essere italiano, perché all’estero queste cose finirebbero diversamente!". Ma mentre ci vergogniamo, di essere italiani, non facciamo scelte diverse. Dimentichiamo che tutti quelli che ricoprono incarichi politici, dall’ente locale al Senato e al Parlamento erano, prima, cittadini come noi, che arrivati al potere hanno pensato che aggirare la norma, sfruttare il privilegio, trarre profitti illeciti fosse  un loro incontestabile diritto, per l’impunibilità giuridica che, col tempo , fa passare tutto in cavalleria ma soprattutto per la scarsa memoria dei cittadini che li hanno eletti che poi finiranno per accettare che tutto si possa perpetrare, senza capire che il consigliere occupato a raccogliere scontrini o il politico a curare i suoi privilegi o intascare illeciti profitti, non può che “distrarsi” dalla cura del bene comune. Per far approvare una legge occorre il voto favorevole di entrambe le camere e mentre se ne attendono molte che andrebbero a beneficio della collettività, velocemente e nel silenzio, passano col voto di tutti quelle che riguardano i benefici della classe politica, non ultimi gli aumenti di stipendio, dimenticandosi, solo in quel frangente, dei problemi che affliggono il Paese.

Cos’è veramente la politica? Cos’è la democrazia? Chiediamoci, una volta per tutte, cos'è veramente la politica? Cos’è la democrazia? Quella sovranità popolare che richiede rappresentanti eletti per prendere decisioni in nome proprio. Gli interessi del popolo sono scesi in secondo piano, e ciò era inevitabile se la maggior parte dei rappresentanti non agisce perseguendo i valori dell’onestà, indispensabili al ruolo che ricoprono, tanto che alcuni, se non fosse per l'immunità parlamentare, sarebbero già finiti in carcere e invece continuano a definirsi rappresentante del popolo.

Forse è vero, i rappresentanti sono il riflesso, l'immagine dei rappresentati. Forse non siamo ancora europei, non ne abbiamo le caratteristiche. Siamo lontani dall’essere cittadino come lo sono i tedeschi, gli inglesi, svedesi e olandesi. Ci vuole ancora molto tempo per rieducarci ai valori di cittadinanza e legalità, quelli persi per troppo tempo e non solo a causa del berlusconismo che ha intriso la società tutta, senza distinzione politica e geografia.

 Forse non servirà neanche rottamare i vecchi per capire che non esiste libertà senza doveri, che le battaglie di una società non possono fondarsi sulla diseducazione, sull’assenza di valori e di etica che caratterizza la politica attuale.

Le nostre colpe. Mentre si parla sempre di crisi economica, la società italiana, è ferma sotto il profilo della cultura e della politica, quella vera, perché in tutti questi anni sono mancati i padri della politica. I politici erano intenti a fare altro e la responsabilità è stata anche nostra, di cittadini elettori colpevolmente distratti o indifferenti. Mentre i politici diventavano mercanti, ci siamo abituati a non chiederne conto. La polemica contro la casta s’indeboliva quando si presentava il politico di turno e ci spiegava come aggirare la norma, come evitare una multa, com’era inevitabile che il politico godesse di benefici. Così non ci siamo ribellati neanche quando l’amministrazione del nostro Comune non lavorava per ottimizzare la raccolta dei rifiuti facendoci incorrere in multe, quando non risolveva i problemi di viabilità e non migliorava il trasporto pubblico, troppo intenta a elargire poltrone ai trombati di turno, nell’equa spartizione del potere politico dei partiti. Quali riferimenti guida abbiamo avuto da chi negava di nascondere tangenti o chi camuffava i piani regolatori per favorire profitti di gruppi immobiliari, danneggiando inesorabilmente il nostro territorio? Come può un nuovo gruppo dirigente lottare contro questo sistema senza stravolgerlo dalla base? Senza creare una nuova condizione di cultura che rieduchi alla democrazia?

Sostiene Vittorino Andreoli “Se l’Italia ha politici immorali è perché gli italiani sono immorali, se hanno eletto politici ladri è perché sono ladri, se usano la politica per interessi personali è perché non hanno idea di cosa sia lo Stato. Quanti cittadini, ad esempio, non chiedono lo scontrino fiscale, quanti non chiedono la fattura all’idraulico per pagare di meno…?". Vittorino Andreoli dice anche che "se gli italiani si svegliassero e scegliessero politici onesti, educati e capaci, l’Italia sarebbe un Paese straordinario.”

LA CASTA NON ESISTE PERCHE’ LA CASTA SIAMO NOI, scrive il 3 maggio 2014 Fulvio Scaglione. A proposito della polemica del Primo Maggio su Renzi e gli 80 euro: chiunque, cantante come Piero Pelù o taxista, cuoco o acrobata, può dire ciò che vuole quando vuole a proposito della politica. A una condizione: che non cediamo alla tentazione di credere che abbia ragione chiunque parli di politica senza essere un politico, proprio perché non è un politico, perché non è della casta. Due miti, in Italia, hanno fatto e stanno facendo danni gravi. Mi verrebbe da dire, esagerando sullo slancio: danni assai peggiori della peggiore classe politica. Il primo è il mito della cosiddetta “società civile”, il secondo proprio quello della “casta”. Uno tiene in piedi l’altro: se c’è una società civile buona e virtuosa dev’esserci anche un casta che la mortifica e le impedisce di fare il bene del Paese. Altrimenti, come potremmo andare così male? Società civile e casta sono diventate parole d’ordine indispensabili, ormai, nella narrazione collettiva di quanto succede in Italia.

Società civile uguale casta. Ecco allora qualche statistica. Nella legislatura scorsa (2008-2013), le due Camere del Parlamento risultavano così composte. Camera dei deputati: 84 avvocati, 82 dirigenti, 74 imprenditori, 63 giornalisti, 44 docenti universitari, 30 impiegati, 29 medici, 22 insegnanti, 17 commercialisti… Un’infima percentuale, al confronto, i funzionari di partito: 42.  E al Senato: 51 dirigenti, 46 avvocati, 38 imprenditori, 30 amministratori locali, 28 docenti universitari, 28 insegnanti, 26 giornalisti, 23 medici, 11 impiegati, 10 magistrati, 9 ingegneri… e solo 13 funzionari di partito. Impiegati, medici, avvocati, commercialisti, giornalisti, dirigenti, imprenditori… E che cos’è, questa, se non la società civile? Perché, dunque, la chiamiamo casta? Le virtù benefiche della società civile sono così labili da dissolversi non appena questi stimati professionisti e dipendenti varcano la soglia del Parlamento? O non è piuttosto vero il contrario, e cioè che essendo la società civile italiana poco seria (vedasi evasione fiscale da record, lavoro nero alle stelle, corruzione imperante, inefficienza come norma…), diventa poco seria anche la politica quando è appunto detta società civile, diventata casta, a tirarne i fili? Il problema non sta nelle categorie di comodo, come appunto società civile e casta, con cui cerchiamo di imprigionare una realtà complessa e sfuggente. Il problema sta nella politica, che è un’attività importante e difficile, che bisogna saper svolgere. Evviva i politici di professione, se sono professionisti seri. E abbasso la società civile in politica se è fatta di cialtroni e dilettanti. Cioè la casta.

POCHE STORIE, LA VERA CASTA SIAMO NOI. I consigli regionali e il Parlamento sono pieni di professionisti usciti dalla cosiddetta "società civile". E' l'idea, tipicamente italiana, che la "cosa di tutti" è "cosa di nessuno", scrive l'1/10/2012 "Famiglia Cristiana". I casi delle ultime settimane, dallo straordinario magna magna della Regione Lazio (straordinario non per le dimensioni, invero piuttosto "normali", ma per l'eccezionale volgarità) alle piccole e grandi porcherie che saltan fuori in ogni ente pubblico al minimo controllo, confermano, a dispetto delle apparenze, che il famoso discorso sulla "casta" è un ottimo spunto per le indagini giornalistiche ma non ha molto fondamento sociologico e nemmeno politico. E non ci avvicina di un metro alla risoluzione del problema. 

Anzi: giusto per coerenza, verrebbe da dire che la casta, in realtà, non esiste. Quando si parla di casta, infatti, il pensiero si organizza automaticamente intorno all'idea del politico di professione, di colui che campa a spese del denaro pubblico. Selezionato dai partiti e con l'unico merito della militanza fedele. O qualcuno di simile. Bene. 

I consiglieri regionali in Italia sono 1.111. Se avessimo tempo e modo di fare un censimento, scopriremmo che i "politici politici" sono tutt'altro che maggioranza. D'altra parte, senza troppi sforzi, pensiamo ai protagonisti più rinomati e alle vicende più recenti: citando un po' a caso, un'igienista dentale in Lombardia, una sindacalista alla Regione Lazio, un attivista di movimento religioso di nuovo in Lombardia. E che dire del famoso Trota, preclaro esempio di incapacità totale a mostrare una qualunque attitudine professionale, proprio uno dei famosi giovani che "non studiano e non lavorano", in Italia ormai prossimi al 30% del totale? 

Altro che casta: questo è un perfetto ritratto dell'Italia. Questa è la famosa "società civile" che dal 1994 della famosa "discesa in campo" berlusconiana avrebbe dovuto disperdere le cattive abitudini della politica politicata, ormai lontana dai cittadini e indifferente alle loro sorti. D'altra parte anche Berlusconi, l'imprenditore per eccellenza, era a sua volta parte della società civile. O no? Nel frattempo, sarà un caso, le Regioni sono riuscite a incrementare le loro spese del 74% in dieci anni, mentre nello stesso periodo l'inflazione aumentava del 24%.

Vogliamo parlare del Parlamento? Abbiamo 630 deputati e 315 senatori. Ben 133 sono tra loro gli avvocati, liberi professionisti per eccellenza. Poi ci sono 23 commercialisti, 13 architetti, 20 ingegneri, 53 medici, 4 notati e 4 farmacisti. Siamo già così a 250 (più di un quarto del totale dei parlamentari) esponenti della società civile, gente che non ha certo potuto fare la scalata interna ai partiti, visto che ha dovuto studiare e avviare importanti attività professionali. A questi andrebbero aggiunti tutti coloro che arrivano alla politica da attività meno "illustri". Che so, commercianti, impiegati (29), insegnanti (21), giornalisti (51), magistrati (7), imprenditori, sindacalisti, dirigenti. O da diversi mestieri mal esercitati come il mitico Umberto Bossi, anche lui frammento tipico della nostra società.

Quindi parlare di casta non ha senso. Bisognerebbe fare un discorso più antipatico e complesso. E cioè che è diffusa nel popolo italiano tutto la convinzione che la cosa di tutti sia cosa di nessuno. E che appena arrivati nel luogo ove la cosa di tutti viene amministrata, sia occasione imperdibile quella di ritagliarsene una fetta. E pazienza per tutti gli altri. La casta siamo noi una volta arrivati nel posto dove si può rubare (quasi) impunemente, ecco tutto. 

La casta siamo noi, scrive il 27 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore" Christian Rocca. La casta siamo noi, nessuno si senta offeso. Siamo noi questo piatto di grano. Francesco De Gregori mi scuserà, ma siamo proprio noi che desideriamo i privilegi, il parcheggio gratuito allo stadio, la pensione baby. Siamo noi che scavalchiamo la fila, lavoriamo in nero, evadiamo il fisco. Siamo noi che aspiriamo alla vip lounge, vogliamo il pass per il centro e ci riempiamo di lei non sa chi sono io. Siamo noi che abbiamo un cugino che conosce tutti e un conoscente che è cugino di qualcuno. Anche questa è casta; e la casta, cari professionisti dell'anticasta, siamo noi. Siete anche voi, specializzati nel ditino alzato. Prendersela con quei pochi eletti è tropo facile e inutile. Vogliamo tutti godere dei privilegi, far parte del club, esserne cooptati. Adoriamo la casta, altroché. La odiamo soltanto quando le iscrizioni sono chiuse, i posti occupati, i benefici ridotti. Quando i conti saltano. Ecco che qui spuntate voi, i professionisti dell'anticasta. Fate credere che sia sufficiente un bel repulisti chirurgico e mirato, ma è una presa in giro. Senza alcuna indulgenza nei confronti di chi fa meno del proprio dovere, ma siamo davvero un Paese fondato sulla casta, costruito sul più casta per tutti, prosperato sulla fruizione democratica dei privilegi. Ci siamo inventati la spintarella, la raccomandazione è diventata un'arte, il «non-c'è-problema» è il nostro motto. La casta siamo noi, insomma. Oppure è un'invenzione (sei anni fa, per esempio, abbiamo votato contro la riduzione del numero dei parlamentari, approvata addirittura dalla casta dei parlamentari in doppia lettura bicamerale). La politica è da sempre animata da movimenti anticasta che poi si fanno casta. I sindacati nascono anticasta ma sono diventati casta. Gli ordini professionali, i magistrati, i tassisti sono piccole e grandi caste. I grandi mezzi di informazione fotografano questa realtà, la perpetuano, interpretano alla perfezione questo sentimento diffuso: sono proprio loro che ciclicamente inaugurano le stagioni anticasta, prima di rabbuiarsi accigliati per l'esplosione incontrollata, signora mia, dell'anti-politica, e poi di prostrarsi davanti ai Masaniello che loro stessi hanno contribuito a creare. Non so se avesse ragione Antonio Gramsci a sostenere che in Italia c'è il sovversivismo delle classi dirigenti o, ancora di più, Mario Missiroli quando scherzava sul fatto che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. So, però, che la casta siamo noi. Nessuno si senta offeso.

LA CASTA SIAMO NOI (E FINIAMOLA CON L’ACCUSARE SEMPRE I POLITICI), scrive Michele Fusco il 19 febbraio 2015. Avrete forse letto in queste ore della voracità di certi tizi di medio o notevole calibro che, invitati a premi letterari di una certa sostanza, ne ricaverebbero benefici di pari sostanza, tipo viaggi aerei planetari, soggiorni sette stelle, pagamenti tutti in nero e altre “miserabilia”, in realtà non nuovissime come cattive abitudini ma ancora in grado di destare nel cittadino un certo senso di smarrimento. L’interrogativo più immediato, che sale in superficie come gas di acqua frizzante, pone subito in rilievo quel dislivello grossolano tra posizione sociale e mancanza di stile, per cui sorprendersi ancora se un signore di chiara fama e di buona/buonissima condizione economica si riduce mestamente ad arraffare l’arraffabile. Questo, la gente comune, la gente perbene, non lo capirà mai. Ma nemmeno “loro” capiranno mai perché la gente comune continua a sorprendersi. Cosa porta un uomo noto, che non avrebbe necessità di ulteriori privilegi se non quello d’esser riconosciuto come tale, a inabissare il proprio decoro sino a profondità insospettabili? Non le necessità impellenti, questo è evidente, e neppure l’occasione di cambiar vita, giacchè qui parliamo di circostanze in cui, al massimo, ci si può divertire per qualche giorno a spese dell’organizzazione (il tutto per qualche migliaio di euro). Dunque c’è dell’altro, se la cosa regolarmente accade. Quel senso di arraffo onnipotente è parte dell’esercizio del Potere. Parte di una riconoscibilità sociale che, per un perverso paradosso, esercita la sua forma pubblica non nel modo virtuoso che tutti immagineremmo per persone di quella fatta, ma esattamente nel suo contrario, in cui l’elemento erotizzante è un’oscena sfida al comune senso del pudore: mostrare tutta la propria indecenza con sguardo fiero e protervo e attendersi, come massimo godimento di ritorno, un sentimento di timore e rispetto. Quando si parla di impunità, dunque, dovremmo essere da queste parti.

In quale categoria inserire persone di questo tipo? Ci siamo abituati a puntare il dito contro la politica, un obiettivo facile, di pronta beva, esercizio che ci è venuto facile anche in virtù di una classe dirigente che ha fallito e che si è fatta maledire dall’universo mondo. Ma le miserie che leggiamo quotidianamente e che avvengono fuori dai Palazzi, fuori anche da Roma per intenderci, hanno strettissima parentela con quella Casta, ne sono appendice diretta, radice comune. Parola evocativa come nessun’altra, «Casta» racchiude miserie che vanno ben oltre la semplice classe politica per sconfinare nell’umanità corrente. Dire che Casta siamo anche noi e non solo quelli di Roma sarebbe buona cosa, e se qualcuno vuole ribellarsi a questa indegna classificazione, padronissimo. Si prenderà le sue pene, gli toccherà una vita così virtuosa da sembrargli insopportabile, dovrà gestire il suo perenne moralismo con la santità del giusto, a cui non si potrà nemmeno rinfacciare di non avere chiesto la fattura all’idraulico. Dovrà gestire con cura la sua indignazione, distribuendola con l’equilibrio necessario perché nessuno possa valutarla come troppo interessata, esagerata o troppo flebile per non destare sospetto. Dovrà parcheggiare impeccabilmente per tutta la vita, per tutta una vita, e non pensare di mandarla in vacca neppure per un istante, come ha fatto per esempio, regalandoci finalmente un friccico di speranza, Alfonso Sabella, Assessore alla Legalità del Comune di Roma, il quale comprendendo perfettamente le pene di un semplice cittadino che deve fare una cinquantina di giri dell’intero quartiere prima di trovare uno strapuntino dove infilare la Panda, ha messo letteralmente a cazzo il suo Suvvone Bmw sopra il marciapiede davanti all’assessorato.

Da altre parti d’Europa ci sono gli sguardi. Non serve molto altro per farti sentire qualcosa meno di un discreto cittadino, da altre parti non fanno scene madri, non urlano, non sdottoreggiano di moralità ma sempre quella degli altri, non devono minacciare di chiamare la forza pubblica perché la forza pubblica sono esattamente loro, le società civili che vivono su una convivenza acquisita nel tempo, in cui i meccanismi che regolano i rapporti tra umani sono piuttosto semplici e definiti sin dai primi anni di vita: questo si fa, questo non si fa, se fai questo ti tolgo la patente e non guidi più, se fai quest’altro butto la chiave. Eccetera, eccetera. Da altri parti ci sono anche le leggi, come da noi, ci mancherebbe. Ma vengono dopo, sono, come dire, un simpatico corollario a qualcosa di più definitivo come la decenza umana.

La Casta siamo noi. Una sera a Roma per il decennale del manifesto dell'antipolitica di Rizzo e Stella, all'Auditorium di Renzo Piano, tempio laico del ceto medio riflessivo, scrive Francesco Cundari il 20 marzo 2017. Ed eccoci qui, dieci anni dopo la pubblicazione del manifesto del partito qualunquista, La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, a celebrarne l’anniversario in quello che fu il tempio delle buone amministrazioni di centrosinistra, il monumento più duraturo del bronzo che le giunte Rutelli e Veltroni eressero a se stesse e alla propria idea di governo illuminato: l’Auditorium di Renzo Piano. Non sarà come leggere Lolita a Teheran, ma dà parecchio da pensare anche discutere della Casta all’Auditorium. Qui, infatti, è dove il fior fiore dell’elettorato democratico viene a passeggiare e a elevarsi, a svagarsi e a sensibilizzarsi sulle più importanti questioni artistiche e internazionali, tra un concerto di Capossela e una presentazione di Carrère, in quel breve spazio di tempo sospeso tra il brunch e l’apericena. Qui è dove il ceto medio riflessivo della Capitale viene per ascoltare e per riflettere, ma soprattutto per riflettersi. Qui è il regno di quelle che a Oxford chiamerebbero forse le chattering classes, e a Roma Nord la classe dei chiacchieroni, numerosa combriccola che in Italia è divenuta da tempo, questa sì, una casta. In una parola: noi.

Noi che scriviamo e voi che leggete. Noi che eravamo lì ieri sera e voi che avreste potuto esserci. Tutti noi che per mestiere o semplicemente perché possiamo permettercelo passiamo la maggior parte del nostro tempo a parlare e a sentirci parlare, a leggerci e a scriverci addosso, sempre trovando il modo di riattizzare l’interminabile chiacchiericcio che rappresenta il nostro biglietto da visita di opinionisti a trecentosessanta gradi, virtuosi della nullafacenza, accolita di dolenti eruditi costantemente impegnati a riversare sul mondo il profluvio delle nostre idee su come si dovrebbe riformarlo. Chattering Casta. No, non stiamo divagando. Se una cosa ci ha insegnato, infatti, questo decennale e praticamente ininterrotto dibattito sui prezzi del barbiere di Montecitorio e la deducibilità della biancheria intima nella Regione Piemonte, è che non devi chiederti di cosa parla la Casta. La Casta parla di te. E pensare che non avrebbero nemmeno voluto chiamarlo così, il libro, dice Stella dal palco. Volevano chiamarlo I bramini, che sarebbe stato anche più corretto (anche gli intoccabili sono una casta). «Ma era troppo complicato, troppo snob, troppo elitario». E quindi «decidemmo che era meglio andar giù dritto». Tremendous, chioserebbe qualcuno alla Casa Bianca. Tutto parte dalla legge finanziaria 2007 (cioè del 2006, insomma, la prima finanziaria del secondo governo Prodi). Lo spiega Sergio Rizzo, esponendo il seguente paradosso: essendo il governo Prodi appena partito, i dati su cui si fondava la Casta erano «la radiografia dei governi Berlusconi», eppure lo stesso Prodi, chissà perché, è convinto che la campagna nata intorno al libro – rectius: da cui il libro è nato – abbia avuto un ruolo nella caduta del suo esecutivo.

A rovesciare l’ordine dei fattori è invece Enrico Mentana, anche lui sul palco insieme agli autori, al padrone di casa del Festival che li ospita (il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi), al presidente del Pd Matteo Orfini e al deputato Cinque stelle Roberto Fico (questi ultimi in qualità di membri della casta, nonché «a occhio e croce, quelli che guadagnano meno tra i presenti», puntualizza Orfini). Premesso che giornali e tv non condizionano i fenomeni – esordisce il direttore del TgLa7, seminando un certo sconcerto sul palco e in platea – il successo del libro dipende dal «timing». Il 2007. Vale a dire il momento in cui, dopo un anno di governo Prodi, cade l’antica autorappresentazione della sinistra come la parte migliore del Paese. Con quel governo rissoso, dai cento sottosegretari, con ben due partiti comunisti che ne fanno parte e arriva fino ai centristi di Mastella, si vede che la vecchia favola secondo cui tutti i mali dell’Italia sono colpa di Berlusconi, dice Mentana, non regge. Le differenze si appiattiscono, la sinistra si appiattisce e così il malcontento popolare si indirizza contro la politica nel suo complesso. La casta, appunto.

Si potrebbe discutere se a determinare questo esito, oltre alla rissosità e al numero dei sottosegretari, non abbia contribuito un filino anche la tanto celebrata politica economica di quel governo, a cominciare dalla suddetta finanziaria. Ma ciò nulla toglie alla sostanziale verità dell’affermazione. E tantomeno alla verità della seconda tesi esposta dallo stesso Mentana a fine serata, sia pure in evidente contraddizione con la precedente (la verità, del resto, è quasi sempre contraddittoria), e cioè che questa legislatura è nata dalla ferita dei centouno franchi tiratori che impallinarono Prodi, di cui nessuno ha mai saputo niente, che Mentana paragona addirittura ai candidati grillini buttati fuori da un giorno all’altro dal blog di Grillo. Tralasciamo l’assurdità del paragone, che mette sullo stesso piano la più consolidata previsione costituzionale a tutela della libertà dei parlamentari nell’elezione del capo dello Stato e la più palese violazione di tutti i principi costituzionali di qualunque Paese democratico occidentale, e restiamo alla sostanza. Che sta tutta nella verissima contraddizione involontariamente segnalata da Mentana, e cioè che le due più potenti ondate di contestazione anticasta sono nate a sinistra, una volta come reazione rabbiosa di fronte allo spettacolo dato dal governo Prodi – che in un impeto retorico Mentana sembra addirittura considerare responsabile «dell’appassimento e della morte della politica» – e una seconda volta come reazione alla mancata elezione dello stesso Prodi a capo dello Stato. Due affermazioni tanto indiscutibilmente vere, almeno dal punto di vista storico, quanto evidentemente contraddittorie, salutate dall’applauso scrosciante del ceto medio riflessivo in platea, tutte e due le volte.

Come si esce dalla contraddizione? Non ne abbiamo la minima idea. Al massimo, in via di provvisoria conclusione, possiamo avanzare un sospetto che da qualche tempo ci tormenta, ed è che ogni discussione sulla casta sia in fondo un circolo vizioso. Dunque, al tempo stesso, inutile e dannosa (se fatta in questi termini, si capisce). Quando lo sciocco indica la casta, il saggio guarda il dito.

La casta degli italiani. La parola d’ordine del principale movimento populista del paese nasce dieci anni fa grazie a un libro trasformato dall’establishment italiano in una bibbia, scrive Francesco Cundari su "Il Foglio" il 3 Aprile 2017. Dicono che i giornali non li legga più nessuno, che i libri anche meno dei giornali, che edicole e biblioteche faranno presto la fine dei rivenditori di videocassette. Dicono che viviamo nell’era della disintermediazione. E che di tutte le mediazioni ormai anacronistiche, la più superflua di tutte sia proprio questa che avete adesso sotto gli occhi: il giornalismo politico. Perché c’è internet. Perché ci sono i social network. Perché il politico ormai si racconta da solo, con i tweet al posto delle agenzie e le dirette facebook al posto delle interviste. Dicono che ormai giovani e meno giovani si informino così, in tempo reale, direttamente dal telefonino. Ed è tutto vero.

La più riuscita campagna di opinione degli ultimi decenni è nata da un articolo di giornale. Eppure. Eppure la più riuscita campagna di opinione degli ultimi decenni è nata esattamente come ai tempi di Emile Zola: da un articolo di giornale. O meglio, da una serie di articoli, pubblicati da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sul Corriere della Sera. Articoli che sono poi diventati un libro: La casta. Misurare ampiezza e diffusione dell’operazione è praticamente impossibile. Di sicuro va ben oltre il milione e trecentomila copie vendute in dieci anni, a partire da quella prima, prudente edizione da 35 mila esemplari, pubblicata il 2 maggio del 2007 e andata subito a ruba. Non per niente, “casta” è diventato uno dei termini più diffusi del lessico giornalistico e politico. “La frase costi della politica – annotano soddisfatti gli autori nell’introduzione alla nuova edizione aggiornata del 2008 – era stata citata nell’archivio Ansa 482 volte in ventisette anni dal 1980 al maggio 2007: poco più di una volta al mese. Da allora alla fine di settembre 2008 è stata al centro di 1931 notizie d’agenzia. Più di tre al giorno”. Ma ovviamente è il titolo – La casta – la parola-chiave di questa storia. Lo slogan più ripetuto, capace di varcare persino i confini nazionali: dall’estrema destra del Front National, con la stessa Marine Le Pen che oggi tuona contro “la caste politico-médiatique”, agli anarco-cazzari di Podemos in Spagna (che tuttavia, forse proprio per marcare la distanza dall’estrema destra, negli ultimi tempi hanno cercato di sostituire il concetto di “casta” con quello di “trama”, a loro parere più utile per indicare il nesso “tra la corruzione e il fallimento di un modello di sviluppo”).

A mettersi controvento, tra i politici di prima fila, sono in pochissimi. Praticamente uno: Massimo D’Alema. Qualcuno ha detto che un classico è un libro che viene citato anche da chi non lo ha letto. Se è così, La casta merita il titolo di classico anche più della Divina commedia, perché non citarlo è diventato praticamente impossibile. Perché, già a pochi mesi dalla sua prima uscita, poteva vantare più tentativi di imitazione della settimana enigmistica. E perché ha inventato un genere letterario a sé, che nelle librerie occupa interi scaffali. Ce n’è per tutti i gusti: c’è la “casta bianca” sugli scandali della malasanità e la “casta rossa” sulle malefatte della sinistra, la casta delle regioni e quella delle province, la “casta della monnezza” e la “casta del vino”. La “santa casta” della chiesa e la laica casta dei radical chic. Dal 2007 a oggi, la casta e i suoi derivati sono stati l’oggetto pressoché esclusivo di talk-show e trasmissioni di approfondimento politico. Ci hanno costruito sopra canzoni e movimenti politici. Le hanno intitolato alberghi e ristoranti, e persino un porno. La casta, prima e più di ogni altra cosa, è un brand. “Non siamo un partito, non siamo una casta, siamo cittadini punto e basta”, canta l’inno del Movimento 5 stelle. Non a caso, tra i primi a saltare sul carro, con un’intervista agli autori del libro pubblicata sul blog di Beppe Grillo il 25 maggio 2007. Ma il primissimo è Enrico Mentana, che il giorno stesso dell’uscita, a Matrix, ci fa un’intera puntata, con gli autori in studio e quasi un servizio per capitolo: dal Quirinale che costa più di Buckingham Palace agli sgravi fiscali per le donazioni ai partiti superiori a quelli per chi si occupa di bimbi lebbrosi. Per mesi, il Corriere della Sera non fa più un titolo che non contenga la parola “casta” almeno nell’occhiello. Ben presto imitato da tutta la stampa italiana. Il fatto è che quel libro, e prima di tutto quel titolo, è entrato non solo nel dibattito politico, ma nel costume, nella letteratura, nel modo di parlare – e quindi di ragionare – di ciascuno di noi. E pensare che all’inizio non volevano nemmeno chiamarlo così. Il titolo doveva essere I bramini. Anche perché “casta” è un termine generico, che vale per tutti: dal vertice della piramide sociale alla sua base. Ma alla fine, come ha spiegato Stella, prevalse un’esigenza di “chiarezza”. Insomma, I bramini sarebbe stato più corretto, ma “era troppo complicato, troppo intellettuale, troppo snob”. Tre aggettivi che sono già un programma. A mettersi controvento, almeno tra i politici di prima fila, sono in pochissimi. Praticamente uno: Massimo D’Alema. Nel 2011 arriva a dire che chi usa l’espressione “casta” dovrebbe pagare il copyright alle Brigate rosse. “Purtroppo D’Alema non ha letto abbastanza su questo tema, o ha letto i libri sbagliati, perché il primo a usare questo termine è stato don Sturzo nel 1950”, replica Stella. Ma se è per questo, ben prima di Sturzo, lo aveva fatto anche Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere, quando scriveva che “la fonte della debolezza del liberalismo” era la burocrazia, “cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”. E prima ancora sarà capitato pure a Mazzini, Cavour o Garibaldi di dire che politici e amministratori non devono comportarsi come una casta. Ma è chiaro che la battuta di Stella sui “libri sbagliati” ha un altro bersaglio. La tesi di una filiazione politico-culturale delle campagne contro la casta direttamente dall’estremismo di sinistra degli anni Settanta è contenuta infatti in due libri, scritti da Miguel Gotor, dedicati rispettivamente alle lettere e al memoriale di Aldo Moro (Lettere dalla prigionia e Il memoriale della Repubblica, entrambi pubblicati da Einaudi). Va detto però che lo storico, successivamente eletto senatore con il Pd e oggi passato a Mdp, non si riferiva soltanto a generiche invettive contro “la casta”, quanto a un processo più generale di interessata riscrittura del passato da parte dei terroristi, ma anche di tanti intellettuali in qualche modo contigui, dunque cointeressati ad accreditare una versione sostanzialmente autoassolutoria dei fatti. Versione secondo cui tanto il presidente della Dc quanto i suoi sequestratori e assassini, ad esempio, sarebbero stati vittime della “partitocrazia”, del “Palazzo”, di quella “casta” democristiana e comunista di cui pure Moro era uno dei massimi rappresentanti. Breve e certamente carente elenco delle piccole e grandi cose che se quel libro non fosse uscito, o non fosse uscito in quel momento, o non fosse uscito con quel titolo, forse, non sarebbero accadute (e di sicuro non avrebbero avuto lo stesso impatto):

1) Il passaggio del tema “costi della politica” da trafiletto tappabuchi a titolo di prima pagina su tutti i giornali.

2) L’evoluzione del Movimento 5 Stelle da gruppuscolo semiclandestino a partito più votato entro i confini nazionali.

3) L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

4) La chiusura del ristorante del Senato, quello del dentice al vapore da 5 euro e 20, oggi sostituito da una tavola calda con menu a prezzo fisso (10 euro, e niente dentice).

5) La legge sul tetto ai compensi dei dirigenti pubblici.

6) La conseguente controversia, ancora aperta, sull’applicazione del tetto, in Rai, anche alle star dei programmi di maggiore ascolto e soprattutto delle fiction (secondo notizie di questi giorni, a causa del tetto, Don Matteo e Montalbano rischierebbero di fare la fine del secondo governo Prodi).

7) La caduta del secondo governo Prodi.

Brevissimo elenco delle manovre che secondo gli osservatori più ostili l’uscita del libro avrebbe dovuto propiziare, e che, se anche ciò fosse vero, non ce l’hanno fatta lo stesso: 1) La discesa in campo di Luca Cordero di Montezemolo.

“Tutto parte alla vigilia della legge finanziaria 2007”, ha spiegato Sergio Rizzo. Dunque alla fine del 2006. Tutto parte da “quelle tabelle” che il giornalista continuava a rigirarsi tra le mani, notando che le uniche voci del bilancio dove non si tagliava mai erano quelle relative agli “organi costituzionali”. Ne parla con Stella e gli propone di farci un articolo. L’altro rilancia: un’inchiesta. Eppure, stando al racconto dei due protagonisti, la campagna non sembra incontrare il successo sperato. Poco dopo la pubblicazione degli articoli, ricorda Rizzo, nel bel mezzo di una riunione, il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, gli domanda: “Come mai nessuno ci è venuto dietro?”. Un problema destinato a rivelarsi presto del tutto infondato. Il libro esce il 2 maggio dell’anno successivo. In fondo, si tratta della raccolta – riscritta, ampliata e approfondita – di quegli stessi articoli usciti sul finire del 2006. E questa, la tempistica, è anche la principale ragione per cui nessuno toglierà mai dalla testa di Romano Prodi (e di molti altri) che la campagna contro la casta sia stata lo strumento con cui un pezzo dell’establishment ottenne la caduta del suo governo, entrato in carica nell’aprile di quell’anno. E’ tutta una questione di tempi. Libri dedicati agli stessi temi, e ai quali La casta non manca di attingere, erano già usciti. Da L’Italia degli sprechi (Mondadori), pubblicato quasi dieci anni prima dal liberale Raffaele Costa, ministro della Sanità nel primo governo Berlusconi, a Il costo della democrazia (sempre per Mondadori), pubblicato da due parlamentari della sinistra, Cesare Salvi e Massimo Villone, nel 2005. Appena due anni prima del bestseller di Stella e Rizzo.

Tutto parte alla vigilia della legge finanziaria 2007, da “quelle tabelle” che Sergio Rizzo continuava a rigirarsi tra le mani, notando che le uniche voci del bilancio dove non si tagliava mai erano quelle relative agli “organi costituzionali”. C’è poco da fare: il tempismo è tutto. E tutto sembra destinato ad accadere proprio allora, nel 2007. L’anno che comincia con la solenne riunione della coalizione che sostiene il governo, l’interminabile Unione che va da Marco Pannella a Clemente Mastella, nei saloni della reggia di Caserta. A pensarci oggi, scappa da ridere: a maggio di quell’anno sarebbe uscito La casta, a settembre si sarebbe tenuto il primo “Vaffa Day”, e l’11 gennaio di quello stesso anno il governo Prodi che fa? Quel governo che aveva vinto le elezioni per un soffio e si reggeva grazie al voto dei senatori a vita, quello dei cento sottosegretari e delle delegazioni al Quirinale che in tv facevano l’effetto del comitato centrale del Pcus, dov’è che decide di tenere il suo conclave programmatico, in cui gettare finalmente le basi del suo rilancio politico e di immagine? Alla Reggia di Caserta.

Enrico Mentana ha sostenuto che la vera ragione del successo della Casta sia tutta qui: nello spettacolo del secondo governo Prodi, che avrebbe fatto cadere l’illusione che la cattiva politica fosse solo quella di Silvio Berlusconi. Un gigantesco livellamento verso il basso delle aspettative, che produce una reazione di repulsione verso la politica nel suo complesso, senza più distinzioni. E’ una tesi certamente troppo severa, che contiene tuttavia un grano di verità (grano che seminiamo qui, con timida fiducia, per tutti quelli che vorrebbero tornare a una legge elettorale basata sulle coalizioni pre-elettorali). Per la cronaca: l’anno si chiuderà con una battuta destinata a non passare inosservata: “Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima”. A dirlo è il ministro delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, il 7 ottobre. Meno di un mese prima, l’8 settembre, con spirito piuttosto lontano da quell’orgogliosa rivendicazione del piacere di contribuire al bene pubblico, Beppe Grillo ha riempito le piazze di mezza Italia. E’ l’urlo del Vaffa Day.

Il Movimento 5 stelle è diventato un fenomeno politico nazionale. Ma il merito non è solo di Grillo. “E’ la ‘visione’ della piazza gremita rilanciata da Sky e dalle prime pagine dei quotidiani on line – scrive su Repubblica Ilvo Diamanti il 27 settembre – ad aver fatto tracimare l’iniziativa, che ha invaso, a cascata, i principali media”. I dati sono inequivocabili: “La serata di ‘Ballarò’ di martedì scorso, dedicata ai privilegi e ai privilegiati della politica: 4 milioni e mezzo di audience. Ospiti di primo piano: Gian Antonio Stella, l’autore, insieme a Sergio Rizzo, della Casta. La Bibbia dei cultori del genere. E soprattutto Mastella. Il bersaglio immobile, su cui sparare a colpo sicuro. Una settimana fa: Anno Zero, il programma di Michele Santoro, dedicato a Grillo, al Vaffa Day e all’antipolitica: è andato oltre i 5 milioni. Clou della serata: la requisitoria di Marco Travaglio. Contro Clemente Mastella. Sempre lui. Ancora, pochi giorni fa, lo stesso menu su Matrix. D’altronde, Mentana è stato fra i primi a scoprire la forza di attrazione dell’argomento”.

A pensarci oggi, scappa da ridere: l’11 gennaio di quello stesso anno che fa il governo Prodi, che aveva vinto le elezioni per un soffio? Dov’è che decide di tenere il conclave in cui gettare le basi del suo rilancio? Alla Reggia di Caserta. In breve, la situazione precipita. A sinistra, Walter Veltroni accelera la fondazione del Partito democratico e poco dopo annuncia che il Pd correrà da solo alle successive elezioni. Annuncio che certo avrà un peso nelle decisioni del ministro della Giustizia, Clemente Mastella, che a gennaio toglierà la fiducia al governo, dopo essere stato costretto alle dimissioni da una inchiesta giudiziaria che lo vede coinvolto insieme alla moglie. E a destra? Il grande ritorno della polemica contro i partiti, in pieno spirito del ’92, non risparmia neanche Forza Italia, il partito del nuovo per eccellenza, il movimento nato proprio all’indomani della crisi del ’92, sulle rovine dei partiti tradizionali. In questo caso, però, la contestazione degli apparati non viene dal basso, ma dall’alto. E’ infatti lo stesso Berlusconi a usare la rete dei “Circoli della libertà”, fondati dall’imprenditrice Michela Vittoria Brambilla, per fare la sua personale rivoluzione culturale contro i vecchi dirigenti che ostacolerebbero il rinnovamento. In estate già si comincia a parlare di un appuntamento di Berlusconi e Brambilla dal notaio per registrare il simbolo del nuovo partito: Pdl. Per un po’ si pensa di chiamarlo “Partito della libertà”, ma ben presto lo spirito del tempo ha la meglio, e il nuovo logo reciterà “Popolo della libertà”. Il 18 novembre del 2007, a Milano, in piazza San Babila, Berlusconi sale sul predellino di un’auto e annuncia alla folla la nascita della sua nuova creatura: “Anche Forza Italia si scioglierà in questo movimento. Invitiamo tutti a venire con noi contro i parrucconi della politica in un nuovo grande partito del popolo”. Una tipica mossa del Cavaliere, che ancora una volta lascia spiazzati alleati, avversari e possibili concorrenti. Tra questi, probabilmente, c’è anche Luca di Montezemolo. Pure lui, come Berlusconi, è stato dal notaio per registrare il suo logo: Italia futura. Più volte è sembrato sul punto di annunciare la sua discesa in campo, con discorsi e manifesti sempre più radicali. Maoismo confindustriale, nutrito dai suoi stessi mezzi di comunicazione, dove gli esperti in materia certo non mancano. “Ho lavorato fino al 2012 al Corsera che ha avuto il merito di denunciare con le grandi inchieste dei Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sprechi, malversazioni e privilegi. Fu, quella, un'intuizione giornalistica penetrante dell'allora direttore, Paolo Mieli”, ha raccontato l’ex vicedirettore del quotidiano di via Solferino, Massimo Mucchetti, in un'intervista del 2013, poco dopo essere passato dall'altra parte della barricata, come senatore eletto nel Pd. “Quelle inchieste – proseguiva Mucchetti – si accompagnavano a una campagna politica che, mettendo in luce le debolezze reali del governo Prodi, puntava sui tecnici che avrebbero dovuto avere alla loro testa Montezemolo. Una grande idea giornalistica, una piccola idea politica. E alla fine, complice una politica cieca, la guerra alla casta senza la capacità di proporre alternative reali ha generato il Movimento 5 stelle”. Una tesi simile si ritrova anche nel libro di Filippo Astone, Il partito dei padroni (Longanesi), che pure non rinuncia a mettere anch’esso la parola magica nel sottotitolo: “Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia”. La tesi si può riassumere così: nonostante i vantaggi ottenuti proprio dalla finanziaria 2007, a cominciare da quel famoso taglio del cuneo fiscale che per i lavoratori si traduce in circa 8 euro in più al mese, ma per grandi imprese come la Fiat significa cifre ben più consistenti, il leader degli industriali decide di abbandonare Prodi al suo destino. “Montezemolo – scrive Astone – cavalca l’onda e commissiona al centro studi di Confindustria una ricerca sui costi della politica italiana”, che gli offre materiali per decine di interventi pubblici. Il presidente della Fiat coltiva l’idea di promuovere “un governo dei migliori”, una sorta di “rassemblement centrista che raduni i tecnici più esperti e offra una soluzione diversa ai mali italiani”. A questo, dunque, servirebbe la campagna contro la casta: “A seminare l’idea che la politica, di ogni schieramento e tendenza, è ormai del tutto inefficiente… Deve essere sostituita da chi le cose le ‘sa fare’. Come gli imprenditori, i manager, i tecnici…”. La campagna finisce però per alimentare “l’ondata berlusconiana, vista come alternativa a una classe politica parolaia, corrotta e inconcludente che gli elettori identificano soprattutto nel centrosinistra… E così, nell’aprile 2008, Silvio Berlusconi vincerà trionfalmente le elezioni politiche, mandando in soffitta le fantasie dei governi tecnici e dei migliori”. Quando però la crisi del governo Berlusconi esploderà, nell’autunno del 2011, quelle fantasie faranno presto a tornare in campo, e ad andare a tirarle fuori dalla soffitta sarà tra i primi proprio il Corriere della Sera. Del resto, la retorica anticasta è un ingrediente essenziale della campagna a favore dei tecnici: gli unici, proprio perché fuori dai partiti, giudicati all’altezza dell’indispensabile opera di risanamento finanziario e morale ormai improcrastinabile. L’episodio rivelatore del clima che si respira è forse quello che va in scena alla Borsa di Milano, durante una visita del presidente del Consiglio Monti, a pochi mesi dal suo insediamento. “Roberta Furcolo – riporta il Corriere del 21 febbraio 2012 – va dritta al tema: Nell’agenda di governo si prevede di attaccare la casta, ridurre il peso della macchina dello Stato e cercare meno il consenso delle parti sociali?. L’ex dirigente di Intesa Sanpaolo e moglie di Alberto Nagel (amministratore delegato di Mediobanca) lo chiede a Mario Monti…”. C’è poco da fare, la casta sono sempre gli altri. Del resto, proprio uno degli indubbi risultati ottenuti dalle campagne di Stella e Rizzo, e cioè la meritoria scelta del governo Monti di mettere on line i redditi dei ministri, permetteva di inquadrare assai meglio il tema. Qualche esempio? Come avvocato, Paola Severino aveva guadagnato, l’anno precedente, 7 milioni di euro; come ministro della Giustizia ne avrebbe incassati poco meno di duecentomila. Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, prima di diventare ministro dello Sviluppo economico aveva guadagnato tre milioni e mezzo di euro (ma disponeva di un patrimonio ovviamente ben superiore a quello dello stesso avvocato Severino). E così via. Non per niente, giusto un mese prima della crisi che avrebbe portato alla caduta di Silvio Berlusconi e all’ascesa di Mario Monti, come l’allodola che annuncia il mattino, sul Corriere della Sera era apparso l’annuncio a pagamento di uno dei suoi editori di maggior spicco, Diego Della Valle: “Politici ora basta”. Questo il severo incipit: “Lo spettacolo indecente e irresponsabile che molti di voi stanno dando non è più tollerabile da gran parte degli italiani e questo riguarda la buona parte degli appartenenti a tutti gli schieramenti politici”. Il manifesto, non meno solenne che involuto, era seguito pochi giorni dopo da un analogo ultimatum – “Politici, il tempo sta per scadere” – sempre nella singolare forma dell’appello rivoluzionario a pagamento, firmato questa volta dalla signora Gigliola Ibba.

“Una grande idea giornalistica, una piccola idea politica. E alla fine, complice una politica cieca, la guerra alla casta senza la capacità di proporre alternative reali ha generato il M5s” (Massimo Mucchetti nel 2013). Certo non può stupire che gli argomenti dell’editore del Corriere della Sera e quelli di una sua facoltosa lettrice coincidessero alla perfezione con quello che il Corriere della Sera scriveva ogni giorno sulla casta e sui costi della politica. Semmai, questo improvviso bisogno di scrivere di proprio pugno sul giornale che pure si possedeva (nel caso di Della Valle), questo ennesimo rifiuto della mediazione (nel caso specifico giornalistica) da parte del mondo imprenditoriale, segnalava ancora una volta un disagio, una difficoltà con il circuito della rappresentanza democratica. A cominciare dal linguaggio con cui Della Valle, peraltro vecchio amico e sostenitore proprio di Mastella, si scagliava contro quei politici, “di qualunque colore essi siano”, che si erano “contraddistinti per la totale mancanza di competenza, di dignità e di amor proprio per le sorti del paese”, ai quali “saremo sicuramente in molti a volergli dire di vergognarsi”. Parole da cui traspariva un disprezzo per la politica persino superiore a quello che mostrava per grammatica e sintassi della lingua italiana. A dimostrazione di quanto labile fosse divenuto il confine, nella società dell’informazione-spettacolo, tra vittime e detentori del potere persuasivo dei media, tra aristocrazia e plebe, tra burattinai e burattini. La campagna contro la casta, infatti, è stata in questi anni anche un gioco di ruolo, ma soprattutto un gioco di specchi. “L’egemonia culturale del Pci fu voluta e ricercata da gente di qualità (i dirigenti comunisti di allora), i Cinquestelle potrebbero beneficiare di una egemonia culturale non per meriti propri ma per dabbenaggine altrui, perché altri ne hanno creato le condizioni”, ha scritto Angelo Panebianco sulla prima pagina del giornale da cui nel 2007 era stata lanciata la campagna contro la casta. Dieci anni dopo. Di sicuro, a pensarci oggi, è un bel paradosso. Il giornale della borghesia, il giornale delle banche e della Fiat, il “salotto buono”, che lancia la campagna che diverrà la parola d’ordine del principale movimento populista e anti-establishment del paese. Quel Movimento 5 stelle che fino ad allora, con la sua battaglia per allontanare dal Parlamento i condannati e per cambiare la legge elettorale, partita nel 2005, stentava a trovare cinquantamila firme. E che solo pochi mesi dopo l’uscita del libro, con il primo Vaffa Day, ne raccoglierà più di trecentomila. E in effetti, dieci anni dopo, questa è la vera peculiarità italiana che salta all’occhio. Perché corruzione e scandali, familismo e clientelismo ci sono ovunque, contrariamente alla pessima retorica su tutte le cose che capiterebbero “solo in Italia”. Alla Casa Bianca i più stretti familiari del presidente hanno pure l’ufficio. Il candidato dei gollisti alle presidenziali francesi, François Fillon, è da mesi sui giornali per avere assunto e fatto pagare per anni la moglie come assistente parlamentare. Quello che davvero accade “solo in Italia” è che le parole d’ordine dei populisti vengano non dall’equivalente italiano di Breitbart, ma dall’equivalente del New York Times o del Washington Post. Cioè dal Corriere della Sera, in questo subito imitato da tutti i più grandi giornali che dovrebbero rappresentare l’informazione di qualità.

Quello che accade “solo in Italia” è che le parole d’ordine dei populisti vengano non dall’equivalente di Breitbart, ma dall’equivalente del New York Times o del Washington Post. Cioè dal Corriere della Sera. Nel frattempo, dal 2007 a oggi, molta acqua è passata sotto i ponti, molti tagli sono stati fatti, ma non è che sia cambiato granché. A ogni aggiornamento, i segugi dell’anticasta hanno avuto buon gioco a dire che sì, qualcosa di buono si era fatto qui e là, ma c’era sempre qualcos’altro di ben più grosso e di ben più serio che non era stato fatto per niente. Oppure, aggiungendo al danno anche la beffa, che era stato fatto fin troppo. Perché poi: chi ve l’aveva detto di cancellare del tutto il finanziamento pubblico ai partiti, che c’è praticamente in ogni paese democratico del mondo? Non è solo il gusto di fare gli schizzinosi o i bastian contrari. Il problema è reale. C’è poco da discutere: se si vuole intervenire seriamente su quei famosi “organi costituzionali” da cui tutto era partito, occorre, evidentemente, riformare la Costituzione. E sappiamo com’è andata l’ultima volta. D’altronde, anche quello che è stato fatto di concreto, non si vede. Non passa. Per esempio: ammesso che non ci fossero buoni argomenti per agevolare maggiormente le donazioni ai partiti, tanto più dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, sta di fatto che gli sgravi fiscali per le donazioni ai partiti sono stati equiparati agli sgravi per le onlus. Ma questo non alleggerisce di un grammo il peso dell’immagine che Stella e Rizzo avevano messo addirittura nel titolo di un capitolo: “Meglio a noi che a Madre Teresa – Più sconti fiscali per le donazioni ai partiti che ai bimbi lebbrosi”. Ai pochi che nel corso di questi anni si sono permessi di criticarli, gli autori hanno sempre risposto di essersi limitati a denunciare sprechi e raggiri, nel modo più asettico possibile. Mai, hanno ripetuto spesso, abbiamo fatto ricorso a espressioni quali “magna-magna”, “papponi” o simili. E’ vero. Ma accostando gli sgravi per le donazioni ai partiti a quelli per i bimbi lebbrosi, obiettivamente, hanno fatto di peggio. Con il gioco delle false equivalenze, ricordando puntualmente quanti infermieri per curare bambini malati o poliziotti per salvare vecchiette si sarebbero potuti pagare con i soldi destinati ad altro, non c’è riforma, non c’è taglio, non c’è austerità che basterà mai. Con i soldi che ognuno di noi in un anno spende per il sapone per i piatti o il detersivo con cui lava i vetri delle finestre si potrebbero salvare chissà quanti esseri umani dalla morte per fame: questo fa di noi degli assassini? Mettere tutti i partiti e tutti i politici sotto una stessa etichetta – la casta – per caricare sulle spalle di ognuno, indistintamente, il peso di ogni singola malefatta, ogni piccolo o grande malcostume verificatosi in Italia negli ultimi trent’anni, è molto più efficace, molto più grave e molto più discutibile dell’usare l’espressione “magna-magna”. E ha un effetto molto più profondo sulla società italiana. Perché l’altra faccia di simili campagne contro la casta, se non si fosse ancora capito, è la gogna. La continua ricerca del capro espiatorio. Il gusto del linciaggio, virtuale e non solo. Però è buffo. Prendiamo le tabelle che aprono l’appendice del libro di Stella e Rizzo. “L’esercito degli eletti”, per esempio, con l’elenco di tutti i parlamentari, regionali, comunali, provinciali. Oppure: “Costo degli organi costituzionali”, con tutte le spese del Quirinale, della Camera e del Senato, e pure del Cnel. Che dite, non avete anche voi l’impressione di leggere un volantino dell’ultima campagna referendaria? Proprio su questo, lo sappiamo, Matteo Renzi ha impostato tutta la partita: il taglio delle poltrone, la cancellazione delle province, la riduzione dei compensi dei consiglieri regionali. Paradossalmente, però, i suoi più accaniti avversari sono stati proprio i principali sostenitori di quelle battaglie. E sulla base di un argomento fortissimo, e anche pienamente condivisibile, pure da chi al referendum ha votato Sì. E cioè che quando si tratta dell’equilibrio dei poteri, delle istituzioni e della democrazia, e quindi della libertà di tutti, non si fa questione di prezzo. Ecco, appunto. 

POLITICHE 2018: VINCE LA RIBELLIONE, L’ASSISTENZIALISMO O IL POPULISMO?

La risposta la danno i vari partigiani prezzolati dallo Stato e dalla Finanza.

L'Italia del Quinto Stato. Dopo anni di assenza di rappresentanza, le elezioni del 4 marzo le hanno vinte gli intrusi, i non invitati al ballo di corte. E ora si preparano a entrare nel Palazzo: un ingresso ambiguo, scrive Marco Damilano il 13 marzo 2018 su "L'Espresso". Attesa, temuta, forse sperata, come l’arrivo dei barbari di Costantino Kavafis, «almeno sono una soluzione», l’Onda elettorale è alla fine arrivata, più potente del previsto. Ha spazzato via, nel breve periodo, i due partiti protagonisti della Seconda Repubblica: il centrodestra raccolto attorno alla leadership carismatica di Silvio Berlusconi e il PdR, il Pd di Matteo Renzi, ultima trasformazione della formazione egemone del centrosinistra, dopo la Cosa di Achille Occhetto, l’Ulivo (che non è mai stato l’erede del Pci, ma creatura nuova, più complessa e purtroppo mai davvero nata), il Pd. Dieci anni fa, alle elezioni del 2008, i due partiti insieme avevano raccolto oltre il 70 per cento dei voti, 25 milioni di elettori su 36 milioni di votanti. Il Pd appena nato e guidato da Walter Veltroni aveva conquistato dodici milioni di voti, risultato mai più superato in termini assoluti, neppure dal Pd di Renzi del 40 per cento alle elezioni europee del 2014. «Vi accorgerete presto di quanto sia stato importante», disse Veltroni amareggiato al momento di lasciare la segreteria un anno dopo, sfiancato dalle polemiche e dalle divisioni interne. Fu sbeffeggiato e invece aveva ragione lui. La nascita del Pd nel 2008 aveva messo in sicurezza la sinistra italiana, nel mezzo di una tempesta che stava per travolgere gli altri partiti socialisti europei, in tutte le versioni possibili: il Ps francese, il Psoe spagnolo, la Spd tedesca, il Labour inglese, il Pasok greco. E invece, in tre anni, si è dilapidato il patrimonio. Oggi il Pd si allinea alla catastrofe della sinistra continentale: sei milioni di voti, la metà esatta di dieci anni fa, e 18,8 per cento. Si lotta per la sopravvivenza, per salvarsi dall’estinzione. L’ultimo rovescio ha il volto del leader indiscusso di questi anni, Matteo Renzi. Il rottamatore doveva allargare il perimetro della sinistra e l’ha ridotto a un’area archeologica abbandonata, un panorama di rovine, doveva fondare il partito della Nazione ed è sparito dal Nord e dal Sud e perfino in larga parte del Centro del Paese, nelle cartine elettorali i puntini rossi sembrano il villaggio di Asterix assediato e senza pozione magica per difendersi dagli assalti avversari, per di più. Ma non c’è un solo responsabile, quando un partito perde mezzo elettorato per strada e finisce al minimo storico da settant’anni, peggio del 18 aprile 1948, peggio dell’esordio del Pds di Achille Occhetto nel 1992 in termini assoluti, peggio di sempre. Così giù nessuno mai. Senza voler infierire sul risultato imbarazzante dei transfughi di Liberi e Uguali: con milioni di voti in uscita dal Pd non ne hanno raccolto mezzo, sono risultati respingenti perfino per l’elettorato che la pensava come loro, ma non ha voluto votare per loro. C’è da rovesciare l’angolo visuale, come sarebbe obbligatorio fare sempre per politici, studiosi, analisti, giornalisti. Voltare lo sguardo dal palco dei capi, capetti, capicorrente, con le loro liti, beghe, manovre, e seguire l’esempio di Gianni Cipriano, il giovane maestro che per L’Espresso ha raccontato in queste settimane con le sue foto la campagna elettorale. Puntare l’obiettivo sugli elettori. I volti, le bocche, le mani, le espressioni. E, più in profondità ancora, le rabbie, le paure, le speranze.

Da molti anni in Italia la parola rappresentanza è caduta in disuso, è stata sostituita dalla rappresentazione. La politica come spettacolo mediatico, la teoria della fine dei corpi intermedi e la ricerca di un consenso senza più territorio che è stata il vero punto di contatto tra Renzi e Berlusconi. Entrambi hanno pensato che le campagne elettorali si vincono e si perdono con la comunicazione, gli spot del 1994 di Forza Italia e i social del 2018, la personalizzazione del comando, il messaggio affidato al leader carismatico. Tutti aspetti fondamentali, sia chiaro. Ma è curioso che entrambi abbiano dimenticato la lezione delle origini. Berlusconi negli anni Ottanta non era soltanto un imprenditore televisivo, ma il portatore di una visione del Paese: un’ideologia. Renzi, quando è entrato sul palcoscenico della politica nazionale, era un sindaco che si confrontava ogni giorno con i problemi quotidiani della sua città. Era un capo politico con i piedi ben piantati per terra, non un giocoliere virtuale senza contatto con la realtà. Con il voto del 4 marzo la realtà si è presa la rivincita sul reality, si potrebbe dire, cogliendo una parte di verità, ma non tutta. Perché c’è molto reality nella costruzione del Movimento 5 Stelle, e non solo perché l’uomo comunicazione di M5S è quel Rocco Casalino che fu protagonista della prima serie del “Grande fratello” su Canale 5 nel 2000 (mentre il direttore di allora, Giorgio Gori, è stato il candidato sconfitto del Pd in Lombardia).

Ci sono i meccanismi del reality nella formazione del cast delle candidature, nell’esclusione dei candidati, nella compilazione dei buoni e dei cattivi, nell’indicazione del nome di ministri senza ministero. C’è il reality anche nella nuova Lega di Matteo Salvini, che vanta le sue radici sul territorio ma che si allontana sempre di più dalle sue origini padane. Ma il reality per la televisione italiana è stato anche il momento di capovolgimento degli attori protagonisti: dai vip, dalle star dell’intrattenimento al protagonismo della gente comune. Ragazzi qualsiasi, destinati a diventare eccezionali perché sottoposti all’occhio delle telecamere. Dall’anonimato alla celebrità alla popolarità, senza aver dimostrato prima di saper fare qualcosa di particolare, senza competenze e senza conoscenze, intese anche come portafoglio di rapporti familiari o amicali, ereditati, ricevuti per censo o per grazia. Berlusconi ha accusato Luigi Di Maio di non aver mai lavorato e di poter aspirare al massimo a fare lo steward al San Paolo «per vedersi gratis le partite del Napoli», ed è incredibile che a farlo sia stato proprio lui, che Silvio B. abbia dimenticato che di ragazzi così sono stati popolati per decenni i suoi studi televisivi, è stato composto il suo pubblico, il suo elettorato. La novità degli ultimi anni, non solo in Italia, è che i Di Maio d’Italia non si limitano più ad applaudire la rappresentazione degli altri, le rockstar, i competenti. Vogliono rappresentarsi da soli. I parlamentari del Sud di M5S sono questo: un piccolo notabilato emarginato che non delega più, prende la parola da solo. Il Nord ha votato Lega per la flat tax, il Sud ha votato Movimento 5 Stelle per il reddito di cittadinanza, il discorso potrebbe concludersi qui. Di più, c’è questa voglia di auto-rappresentazione. Gli steward, gli occasionali, i lavoratori di Amazon, i disoccupati del Meridione, i forgotten men del Sud, sono già abituati a muoversi in un deserto di rappresentanze politiche e sociali. Rifiutano le mediazioni, i sacerdoti del sapere, della cultura, della competenza, considerano gli intellettuali come gli alti prelati della Chiesa cattolica prima dell’invenzione della stampa e della Riforma protestante: le scritture si leggono da soli, senza più un clero che si arroghi il diritto di interpretarle per conto degli altri, e la scoperta di Gutenberg, ieri, e la Rete e i social network oggi, offrono una straordinaria possibilità di intervento e di visibilità, in prima persona, senza deleghe. Come fece il Terzo Stato rivoluzionario (Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cos’è stato finora? Nulla...) e il Quarto Stato di inizio Novecento, il Quinto Stato avanza per conquistare spazi, con il suo carico di ambiguità e di pericolo (per gli abitanti del Palazzo). Non si supera questa distanza se non si torna a occupare il vuoto tra rappresentati e rappresentanti. Per questo, oggi, è più difficile di prima fare maggioranza. Maggioranza sarà la parola chiave delle prossime settimane: come raggiungere il numero magico che consente di governare alla Camera e al Senato in una situazione senza precedenti, con due schieramenti su tre costretti a stare insieme e il terzo pronto a sparare addosso agli altri due. È il dilemma della politica, del presidente della Repubblica, del Pd. Un pezzo di sistema ha già fatto la sua scelta. Costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle, includere i suoi principali esponenti ai vertici almeno delle istituzioni, alla presidenza della Camera, era la strada ipotizzata dal Quirinale, ma ora non basta più.

Si ritorna al punto di partenza: la pagina bianca indicata da Sergio Mattarella nel suo messaggio agli italiani del 31 dicembre 2017. I primi a scriverci sopra sono stati gli elettori del 4 marzo: più che una nuova pagina hanno cambiato libro. Ora, come prevede la Costituzione e come ha ricordato il Capo dello Stato, tocca ai partiti e al Parlamento. Gli sconfitti devono consumare la resa dei conti, i vincitori devono esaurire i festeggiamenti. Poi arriverà il momento della politica, che è trattativa, compromesso. E si vedrà se regge lo scambio di ruoli di questi primi giorni: Di Maio con l’aplomb britannico che cita Alcide De Gasperi e Renzi che minaccia l’opposizione a oltranza e si blinda nell’integralismo di sigla, lui che in nome della governabilità si era portato in casa nella passata legislatura gli amici di Denis Verdini. O se i due mondi si incroceranno in qualche modo. E allora toccherà al Movimento 5 Stelle, nemico del costituzionale divieto di vincolo di mandato, fare affidamento sul tradimento degli altri parlamentari rispetto al patto stipulato con gli elettori: mai alleanze spurie con gli estremisti. Il capo politico dei 5 Stelle appare agli occhi delle cancellerie europee meno preoccupante e più rassicurante di Salvini. In fondo, in ogni paese (Germania, Francia, Olanda, Austria, Polonia, Ungheria) c’è un omologo del leader leghista che troverebbe nuovi motivi di forza dalla conquista del governo da parte del Carroccio. Mentre Di Maio è un’incognita, un’equazione che ognuno può pensare di riscrivere a suo piacimento. Si può immaginare la tsiprasizzazione del giovane capo di M5S, la sua trasformazione in Tsipras, il premier greco che ha cominciato sfidando Bruxelles con il referendum e ha finito per omaggiare le misure della Troika. Su questa metamorfosi potrebbe scommettere anche la Bce, con il suo presidente Mario Draghi, come hanno già cominciato a fare la Confindustria in Italia e Sergio Marchionne. Qualcuno va ancora più in là e vede in Di Maio un paradossale Macron italiano, né destra né sinistra, nonostante le differenze abissali che dividono il presidente che viene da Ena e Rothschild dal Giggino di Pomigliano d’Arco. La Repubblica dei cittadini vagheggiata da Di Maio (ha per caso letto Pietro Scoppola?) non assomiglia in nulla alla Repubblica dei citoyens francese, ma ne copia l’ambizione e forse il ruolo storico: superare il bipolarismo del Novecento e far nascere una nuova dialettica. In cui M5S, però, come in un ritorno al punto di partenza, finirebbe per occupare lo spazio lasciato disabitato da chi l’ha occupato storicamente: la sinistra. Se tutto dovesse fallire, infatti, non resterebbero che nuove, immediate elezioni anticipate, magari con legge elettorale ritoccata. E allora sì che Pd e Forza Italia non ci sarebbero più. Superate, egemonizzate e alla fine conquistate dai new comers, gli intrusi, gli esclusi, i non invitati al ballo di corte: la Lega di Matteo Salvini a destra, il Movimento 5 Stelle a sinistra. Perché, alla fine, le ideologie, le differenze, le identità sono destinate a ritornare. E, a quel punto, bisognerà tornare a volgere lo sguardo. E capire come usciranno da questa trasformazione gli elettori del 4 marzo.

Il Mezzogiorno si crede Luigi Di Maio. Il voto del Sud per il M5S (e la Lega) non è di rabbia ma di identificazione. Con i leader sentiti più vicini, “più uguali a noi”, scrive Roberto Saviano, L'antitaliano, l'8 marzo 2018 su "L'Espresso". Esiste una parte d’Italia dove spesso quello che accade all’intero Paese si riesce a leggere con maggiore chiarezza. È quella parte di Italia dove tutte le forze politiche amano dragare voti, ma che in campagna elettorale, nel dibattito pubblico, è evitata come la peste, come questione irrisolta e irrisolvibile. È il sud Italia, che un tempo consideravamo feudo di Berlusconi e, allo stesso tempo, luogo di un forte consenso al Pd retto da ras locali capaci, per decenni, di portare valanghe di voti, creando gruppi di potere anche oltre i confini del proprio partito. Francesco Piccinini, direttore di Fanpage.it, a commento del primo video pubblicato dal suo quotidiano online sui legami tra politica, faccendieri, camorra e gestione del ciclo dei rifiuti, si chiedeva come fosse possibile che la Sma Campania, società in house di una regione a guida Pd, che si occupa di questioni cruciali come lo smaltimento rifiuti, potesse avere ai vertici esponenti di Fratelli d’Italia, partito di colore opposto a quello del presidente della Regione. Ma era una domanda retorica, perché sul territorio si va avanti per consorterie che significano mutuo sostegno. Dall’inchiesta di Fanpage.it è emerso un quadro sconfortante (ma chi conosce le dinamiche al Sud non fatica a ritenerlo veritiero) di corruzione, malcostume, familismo e conflitto di interessi: è stata la conferma per molti italiani che i partiti sono solo centri di potere marci e da loro nulla di buono ci si può aspettare. Naturalmente non concordo con questa generalizzazione; i partiti sono composti da persone e ciascuno risponde della propria onestà, del proprio lavoro e del proprio impegno. Ma qui non si tratta di ciò che penso io, quanto piuttosto del sentimento che hanno provato gli italiani di fronte a questa ennesima conferma sull’inadeguatezza dei partiti “tradizionali”. È evidente che la fase della rottamazione di Matteo Renzi è stata sepolta dall’unico modo che Renzi ha trovato per occuparsi di Sud: la promessa della ripresa del progetto del ponte sullo Stretto di Messina (cavallo di battaglia del più becero berlusconismo) e spacciando la Apple Developer Academy di Napoli come il primo segnale di una ripresa economica sul territorio. Un corso per sviluppatori Apple, un unico corso e per giunta calato in un contesto economicamente depresso avrebbe dovuto fruttare a Renzi, secondo la sua squadra di comunicazione, il bollino di “amico del Sud”. Forse il Pd ha comunicato molto peggio di come ha lavorato, ma non si discute su un punto: ha abbandonato il Sud Italia che rappresenta una porzione di Paese molto ampia, una porzione di Paese che per anni ha voluto credere alle boutade di Berlusconi e che quindi oggi non crede più a niente, e pretende un cambiamento. Ma analizziamolo questo cambiamento, per capire in che direzione si è mosso l’elettorato. L’elettorato è alla ricerca di riscatto? Forse. Ma credo che più di ogni altra cosa abbia bisogno di attenzione, un’attenzione concreta. Gli italiani a digiuno di prassi politiche vogliono sapere come il loro voto cambierà la loro quotidianità, in modo semplice e senza retorica; e se le aziende continueranno a delocalizzare il lavoro, se il lavoro resterà una speranza frustrata, vogliono la certezza che chi vince le elezioni si occuperà di loro (o forse dovrei dire noi? Sono francamente confuso). Molti diranno: ecco che nasce il partito della rabbia. Ma di che rabbia stiamo parlando? Ancora di una rabbia cieca? Ancora di un voto di ribellione? No, non lo credo. Il voto al M5S e alla Lega non solo di ribellione, ma è un voto ormai ragionato che, tra le altre cose, avrebbe il merito di aver asciugato (e molto) il voto di scambio. Ora non c’è più la volontà di ribaltare il tavolo senza ben sapere a cosa si vada incontro. Questa volta l’elettorato è stato coeso nel dare consenso a due partiti che sono specchio fedele dei loro elettori. Il voto non è stato di protesta o di opinione, ma di identità: sono ciò che voto, mi identifico in ciò che voto, o almeno in quello che conosco e vedo. Mancano gli strumenti per andare più a fondo: come i leader politici che ho scelto (Di Maio e Salvini) si identificano in me, io mi identifico in loro. Tra me e loro nessuna differenza. Questa adesione, oggi, è pressoché totale e non avviene per nessun’altra forza politica.

Non solo reddito di cittadinanza: ecco perché il Sud abbandonato dai partiti ha votato M5S. Il Pd ha abbandonato le periferie e lasciato in mano solo a potentati locali che hanno trasformato il Mezzogiorno in un deserto. Che oggi occupano però i pentastellati, scrive Bruno Manfellotto il 12 marzo 2018 su "L'Espresso". Il 13 febbraio, anniversario numero 157 della capitolazione della fortezza di Gaeta, estremo rifugio di Franceschiello, ultimo re delle due Sicilie, il Movimento neoborbonico, il Sacro militare Ordine di San Giorgio, i Cavalieri costantiniani, i Comitati Due Sicilie e la Real Casa di Borbone hanno celebrato con musiche, discorsi, grande commozione e molta nostalgia la Giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Istituita l’anno prima con tanto di decreto da tutte le Regioni del Sud. Su proposta, poi largamente condivisa, del Movimento Cinque Stelle.

Allora la campagna elettorale era lontana, ma in quella battaglia apparentemente minore c’era già, tutto sommato, il nucleo della strategia politica del Movimento, il passo decisivo verso la conquista del Mezzogiorno clamorosamente sancita dalle elezioni del 4 marzo. Prima ancora, tra il 2011 e il 2012, nelle strade e nelle piazze del sud era nato il Movimento dei forconi: stavolta blocchi stradali e ferroviari, presìdi, cortei, ancora rotear di forconi, storico simbolo delle sommosse contadine e di popolo. E parole d’ordine che paro paro, guarda un po’, hanno scandito quest’ultima campagna elettorale: no alla globalizzazione che cancella posti di lavoro, all’Europa “matrigna”, alla casta dei nominati in Parlamento; e no all’austerità, alla moneta unica, a Equitalia, strumento di oppressione fiscale. Vi ricorda qualcosa? Evidentemente il borbonismo di ritorno - che corre sotterraneo da sempre, ma non si era mai manifestato con tanta baldanza - è fenomeno assai sentito. Una sorta di leghismo sudista che cozza con quello del nord. Tocca corde profonde dell’animo meridionale, come la convinzione di un Sud sfruttato ieri a favore dell’Unità d’Italia, oggi del ricco Nord. E però non basta a spiegare la travolgente affermazione dei grillini che il 4 marzo si sono impadroniti di mezza Italia, da Roma in giù, isole comprese. Con cifre da capogiro. Nelle sfide uninominali, gli scontri diretti tra candidati, i ragazzi di 5S hanno fatto l’en plein in Puglia, Molise, Basilicata, Sardegna, Sicilia (dove Berlusconi nel 2001 aveva vinto 61 a 0) e ci sono andati vicini pure in Calabria e in Campania abbattendo potentati politici e umiliando cacicchi che si credevano eterni. Come accompagnare alla porta un’intera classe politica.

Certe percentuali sono illuminanti: a Scampia, quartiere ghetto di Napoli, teatro di Gomorra in tv, Di Maio ha portato a casa il 65 per cento; a San Giovanni a Teduccio popolare ed ex operaia, dove nel 1976 Berlinguer prese il 63 per cento dei voti, i 5S hanno superato quota 60; a Bagnoli, dove sorgeva la cattedrale dell’Italsider, oggi dismessa e sul cui futuro si sono spesi invano governi e amministrazioni, per i grillini ha votato il 57 per cento degli elettori, oltre il 50 che premiava il vecchio Pci. Non si sorprende Domenico De Masi, napoletano, sociologo, che nel Movimento, al cui programma ha contribuito, vede assonanze proprio con il Pci di Berlinguer popolare e operaio. Ad altri, però, sembra proprio che la nuova geografia politica ricalchi altri imperi, come quello democristiano, che proprio dal Sud traeva grande linfa, e per alcuni estremismi peronisti perfino quello laurino che per qualche anno impazzò a Napoli. A conferma di una trasversalità che sembra il dato caratteristico del postgrillismo, specie di quello meridionale. Se questi sono i nuovi attori, la scena che calcano è spesso quella di campagne avvelenate da discariche abusive, di violenza, di periferie segnate da scheletri di cemento come nelle fiction di camorra. Dopo secoli in cui lo Stato è apparso estraneo, i governi sono visti lontani e indifferenti. Alle rituali litanìe sul Sud della Prima Repubblica, è via via subentrata la rimozione. Eppure qui vive un terzo degli italiani, si produce un quarto della ricchezza nazionale, ma si registra anche la metà della disoccupazione totale, quattro giovani su cinque non lavorano, addirittura due terzi degli abitanti versano in condizioni di povertà o di miseria. Nonostante decenni di “questione meridionale”, il divario nord-sud si è allargato: dalle parti di Salvini si compete con la Germania (sognando la flat tax), quaggiù si intravede una prima, lenta inversione di tendenza. E ci meravigliamo se esplode la rabbia, o se promesse assistenzialiste (reddito di cittadinanza) sono benedette come manna dal cielo?

In quanto al Pd, ha da tempo rinunciato a una presenza capillare in quella periferia delle periferie che è il Sud delegando l’incombenza a uno sparuto gruppo di cacicchi locali (come Emiliano, De Luca and Sons, Crocetta) spesso più attenti alle loro sorti che a quelle generali e in guerra con lo stesso Pd. Sabino Cassese, giurista e intellettuale, è convinto che il divario nord-sud sia figlio anche di un diverso “rendimento” delle istituzioni, e degli uomini che le dirigono: la macchina pubblica, costruita allo stesso modo in tutto il Paese, è stata consegnata qui a classi dirigenti locali senza pretendere che esse rispondessero non alle camarille, ma allo Stato. È successo anche con le Regioni che prima hanno avocato a sé l’intervento straordinario, poi lo hanno vanificato con spietate logiche di potere. Scrivevamo due anni fa: si sono presi il Sud e ne hanno fatto un deserto. Oggi lo hanno occupato altri.

5 stelle al Sud: la ribellione e le radici della protesta. Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia, scrive Gian Antonio Stella il 5 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Avimmo ‘a sfucà tutt’ ‘o tuosseco ca tenimmo ncuorpo»: ecco l’aria che annusavi al Sud. Una collera tossica per l’impoverimento, la disoccupazione, i bambini (uno su sei) afflitti dalla miseria assoluta, il degrado delle periferie, stava lì lì per sfogarsi. Unico dubbio: chi avrebbe premiato? La risposta, salvo sorprese, si è profilata nella notte. Successo dei grillini. Trascinati dal Masaniello in giacchetta e cravattina. E più cresceva l’impressione di uno sfondamento della destra al Nord, più aumentava la probabilità parallela, se non proprio la certezza, di un analogo sfondamento del M5S nel Sud. Segno appunto di quello «sfogo» atteso nella scia di un malessere economico, sociale, sanitario sempre più diffuso. Lo aveva spiegato a novembre il rapporto Svimez: «L’occupazione è ripartita, con ritmi anche superiori al resto del Paese, ma mentre il Centro-Nord ha già superato i livelli pre crisi, il Mezzogiorno che pure torna sopra la soglia “simbolica” dei 6 milioni di occupati, resta di circa 380 mila sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa (di quasi 35 punti percentuali inferiore alla media UE a 28)». Lo aveva ribadito poco dopo il Censis ricordando che sì, l’Italia va meglio ma dopo il «vero tracollo» delle aree metropolitane meridionali «non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore». Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia. Perduta male, ma proprio male, da un Matteo Renzi che alle Europee aveva preso il 35% e in tutta la campagna per le regionali si è fatto vedere solo di sfuggita, «’na’ffacciata, currennu currennu»…Dice tutto un sondaggio del dossier Eurispes 2018. Alla domanda «quali di questi elementi rappresentano un vero pericolo per la vita quotidiana sua personale e della sua famiglia?» le risposte degli italiani erano centrate (più che sull’immigrazione!) su tre temi legati (soprattutto) al Mezzogiorno: la mafia, la corruzione e «i politici incompetenti». Colpevoli di aver buttato via per decenni decine e decine di miliardi di fondi europei. Pochi dati: usando meglio quei soldi sprecati in regalie clientelari a pioggia (alla macelleria Ileana di Tortorici, alla trattoria «Don Ciccio» a Bagheria…) tutte le regioni della Repubblica Ceca hanno oggi un Pil pro capite superiore a tutto il nostro Sud e così l’intera Slovenia e l’intera Slovacchia. La regione bulgara Yugozapaden, poi, ci umilia: nel 2000 aveva un Pil al 37% della media europea e in tre lustri di rincorsa ha sorpassato tutto il Mezzogiorno, arretrato fino a un disperato 60% della Calabria, mangiando 50 punti alla Campania, 56 alla Sicilia, 64 alla Sardegna. Insomma, han fatto di tutto le classi dirigenti del Sud, per guadagnarsi (salvo eccezioni, ovvio) la disistima se non il disprezzo dei cittadini. Aggravando la crisi. Destra e sinistra, sia chiaro: dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno, accusa un’inchiesta del Mattino, ha perso 47,7 miliardi di Pil, 32 mila imprese e 600 mila posti lavoro. E tra il 2010 e il 2013 la classifica del European Regional Competitiveness Index ha visto ruzzolare di 26 posti la Campania, 29 la Puglia, 30 la Sicilia. Al punto che il divario Nord-Sud si è ancor più allargato. Sinceramente: cosa ha fatto la politica per scrollarsi di dosso la mala-reputazione? Manco il tempo d’insediarsi all’Ars e Gianfranco Micciché si tira addosso le ire dei vescovi siciliani dicendosi «assolutamente contrario al taglio degli stipendi alti» che quando passano i 350.000 euro valgono 24 volte quello di un agrigentino. Manco il tempo di aprire la campagna elettorale e nelle liste, da Marsala al Volturno, spuntano impresentabili, figli di papà e (sintesi) figli di papà impresentabili. Per non dire della scelta di candidare qua e là notabili dal passato fallimentare legato alla clientela. C’era poi da stupirsi se nella pancia del Mezzogiorno, quella da cui erano già uscita tra le altre la sommossa dei forconi, covava un sentimento di rivolta? Quanti errori hanno fatto, i partiti tradizionali dell’una e dell’altra parte, per accendere un simile falò?

Hanno vinto gli antisistema. I dem spogliati dal M5s. L'emorragia di voti in fuga da Renzi ha premiato i grillini. L'assistenzialismo a 5 stelle piace al Sud, scrive Renato Mannheimer, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". L' Italia è rimasta in buona misura sconvolta dai risultati delle elezioni che si sono appena effettuate, specie perché le percentuali che sono emerse dalle urne hanno, da molti punti vista, modificato fortemente il quadro politico, con esiti spesso inaspettati (anche se molti dei risultati erano stati correttamente previsti dai sondaggi riservati effettuati da Eumetra Mr nei giorni precedenti al voto). I veri vincitori delle elezioni sono in realtà i partiti che più di altri si sono distinti per una comunicazione antisistema: il Movimento 5 Stelle e la Lega. L'exploit maggiore è stato certo quello dei grillini, che hanno superato nettamente la soglia «psicologica» del 30%. E costituiscono, in assoluto, la prima forza politica del Paese, specialmente nel Sud. È utile, al riguardo, ricordare la composizione sociale dei votanti per il partito di Di Maio. Come si sa, l'elettorato grillino era costituito sino a poco tempo fa prevalentemente da giovani, spesso in condizioni di disagio sociale o di non occupazione. Quest'ultimo risultato elettorale mostra che a costoro si sono aggiunti elettori di tutte le età, frequentemente animati da un rancore più o meno esplicito verso le istituzioni, ma anche, in particolare nelle aree meridionali del Paese, attratti dall'ipotesi delle politiche proposte dal Movimento 5 Stelle, che rafforzano più o meno esplicitamente il ruolo dello Stato e dell'assistenzialismo. Temi che sono sempre piaciuti a fasce consistenti di elettori meridionali. L'analisi dei flussi elettorali dalle precedenti elezioni del 2013 ad oggi, condotta anch'essa da Eumetra Mr, ci mostra come i voti del M5S provengano in buona misura da chi aveva già votato per Grillo in passato. E anche da chi si era astenuto (non a caso al Sud si è registrato un aumento della partecipazione). Ma che l'incremento sostanziale ottenuto in queste elezioni è frutto soprattutto di un apporto consistente di chi aveva votato Pd nel 2013. Il partito di Renzi è il principale «fornitore» di nuovi voti al M5s. Anche se quest'ultimo riceve, sia pur in misura minore, consensi da tutto l'arco politico. È indicativo al riguardo che verso i 5 Stelle si rilevi anche un flusso, di dimensioni assai più modeste di quello proveniente dal Pd, di ex elettori del Pdl. Uno dei motivi del successo del Movimento 5 Stelle è anche l'atteggiamento di ostilità verso la politica e le sue istituzioni. Una recente ricerca di Eumetra Mr evidenzia come solo il 3% della popolazione nel suo insieme manifesti fiducia verso i partiti politici e come tra l'elettorato del M5s questa percentuale si riduca all'1%. Il vero sconfitto di queste elezioni è, come si sa, il Partito Democratico. L'analisi dei flussi mostra un volume assai modesto di nuovi voti «in entrata». In altre parole, il Pd è stato rivotato quasi solo da una parte di coloro che l'avevano votato nel 2013. Viceversa, sono molti i flussi in uscita. Il principale, come si è detto, è verso il Movimento 5 Stelle, che raccoglie quindi tutto lo scontento della gestione Renzi del partito. Con una capacità attrattiva molto maggiore di quanto riesca a fare Liberi e Uguali, che riceve dal Pd una porzione molto minore di voti di quanto non accada per l'M5s. Ma, sia pure in proporzioni inferiori, il Pd cede voti un po' a tutti, dalla Bonino ai partiti del centrodestra, specie Forza Italia. È l'espressione dello sfilacciamento in tante direzioni della forza politica condotta da Renzi. Nel centrodestra la grande vincitrice è la Lega. È il partito che ha il maggior tasso di riconferma del voto già ottenuto nel 2013. Oltre a questo, il flusso in entrata maggiore per il partito di Salvini è costituito da molti che nel 2013 avevano votato Pdl. Ma, come si è detto, il leader leghista riceve anche una parte di consensi ex PD. Tuttavia, anche la Lega deve sopportare dei flussi in uscita. Una parte, seppure non ampia, dei voti che il partito aveva ricevuto nel 2013, è finita infatti anch'essa nel bottino del M5S. Il risultato di Forza Italia è dunque condizionato dal flusso in uscita verso la Lega di chi aveva votato Pdl nel 2013, ma anche verso il Movimento 5 Stelle. Tutto ciò ha contratto la dose di consensi di Berlusconi che può tuttavia registrare, oltre alla conferma di molti voti che erano del Pdl, anche un flusso in entrata proveniente dal disfacimento del PD. Tra le forze di minor peso, si può rilevare l'esito modesto di +Europa (che stanti i dati attuali non raggiunge la quota del 3%) e che riceve tutti i suoi voti da elettori che nel 2013 avevano votato PD e, anche, da qualcuno che aveva votato Sel. Gli stessi flussi in entrata si confermano anche per Liberi e Uguali, la cui performance, considerando le aspettative, (i leader avevano previsto «un risultato a due cifre») è forse ancora più deludente. Infine, si può sottolineare il buon successo relativo di Fratelli d'Italia che raddoppia comunque la percentuale di voti che aveva ottenuto nel 2013, con flussi provenienti in larga misura dal Pdl. Nell'insieme, si tratta di uno scenario confuso e, da un certo punto di vista, pericoloso. A causa principalmente di due motivi. Primo: la possibile scarsa stabilità dei governi, legata specialmente alla eterogeneità delle coalizioni di maggioranza che si potrebbero formare. Che sono, almeno in questo momento, le più varie, talvolta formate da partiti che, in linea di principio, sarebbero distanti tra di loro. E che, di conseguenza, darebbero luogo inevitabilmente ad aspri conflitti interni all'esecutivo. Secondo: le relazioni con l'Europa, che sono rese difficili da alcuni contenuti programmatici dei partiti vincitori che sono più o meno esplicitamente anti-Ue. E che potrebbero dare luogo a forti tensioni con le istituzioni comunitarie. Speriamo che i prossimi giorni ci aiutino a chiarire questo quadro nebuloso.

La faida Renzi-D'Alema è l'omicidio-suicidio che ha ucciso gli ex Pci. La sinistra italiana è la più debole d'Europa dopo quella francese: è la vendetta di Baffino, scrive Roberto Scafuri, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Parlandone da vivi, i due s'assomigliavano come gocce d'acqua. Correva la primavera 2009 e in un'accaldata sala di militanti il presidente della Provincia fiorentina, Matteo Renzi, ancora si rivolgeva al «caro Massimo, punto di riferimento del passato, del presente e del futuro». Il caro Massimo, lì da presso, mani giunte a mo' di preghiera, era assorto come inseguendo sfuggenti presagi. Renzi è uno di quei giovani - ebbe a dire benedicendone l'approdo a Palazzo Vecchio - «dei quali ci si può chiedere solo se batterà il record della pista oppure no». Sorrisi, applausi. Ma anche cordialità pelosa: diffidenza a pelle, senza motivo, tra animali che fiutano il pericolo. Il partito (ancora) c'era, la sinistra italiana non era, come oggi, la seconda più debole d'Europa dopo quella francese (studio Cise-Luiss). Che cosa inquietava D'Alema? Gli avevano già parlato di Matteo, il fiorentino. In particolare Lapo Pistelli, che l'aveva portato a Roma come portaborse nel '99, fatto promuovere segretario provinciale e, tre anni dopo, accompagnato nella scalata alla presidenza della Provincia. Qui il capo della segreteria di Matteo sarà Marco Carrai; i suoi cugini Paolo e Leonardo pezzi grossi della ciellina Compagnia delle opere. Ce n'è quanto basta e avanza per alimentare la diffidenza di chiunque, figurarsi D'Alema. Alle primarie per sindaco, nel febbraio '09, il giovanotto ha surclassato Pistelli (40% contro 26), poi ha infierito con un foglio di sfottò lasciatogli sulla porta di casa. L'ambizione sbandierata di Matteo è ciò che stuzzica il vecchio, la mancanza di buon gusto ciò che lo repelle. L'omicidio perfetto di Renzi giungerà a maturazione qualche anno dopo; dopo gli anni buoni da sindaco, quando l'ambizione incontrollabile (più sponsor influenti) suggeriscono che il partito erede della tradizione catto-com può essere scalato. Occorre un «simbolo», il gesto eclatante e dimostrativo, il parricidio che renda dirompente il cambio di stagione. È la nascita della «rottamazione»: D'Alema si vede tirato in ballo a ogni pie' sospinto, sempre più attonito di fronte a quella rottura imprevista delle vigenti regole di bon ton. L'attacco alla classe dirigente berlingueriana è scientifico, ma si concentra molto sul togliattiano D'Alema per salvare il prodiano Veltroni («il più comunista di tutti noi», ha detto di recente Bettini). D'Alema reagisce come elefante ferito. Quando Renzi gli farà lo sgarbo definitivo, facendogli credere prima di poterlo sostenere come commissario alla politica estera Ue per poi umiliarlo nominando l'inesperta Mogherini, l'ex leader è pugnalato al cuore. La vendetta è pietanza fredda, però. Di fronte alle pulsioni suicide di Renzi, plateali durante la roulette russa del referendum, D'Alema torna ad annusare il buon sapore della vendetta. La minoranza bersaniana, dopo anni di derisioni e umiliazioni, è ormai cotta a puntino. Gianni Cuperlo, che ben conosce l'insidiosa persuasività di quel Grillo parlante che li convince uno a uno, non riesce a trattenere la diga. Ultimo dei sedotti Bersani, per il quale l'uscita dalla ditta di una vita è un evento tragico. La sgangherata parabola di Mdp e Leu è sotto i nostri occhi, quella del Pd storia che finalmente s'azzera. Ma Berlusconi dovrebbe ripartirne i meriti dando a Cesare ciò che è di Cesare. Se Renzi ha fatto fuori i comunisti, l'ultimo martire dell'orgoglio comunista non ha esitato a sacrificarsi nel vecchio bunker di Nardò pur di vedere l'usurpatore schiacciato dal macigno del 18% dei voti. Per poi cadere a sua volta trafitto da 10.552 schede pietose: il 3,9 per cento. Più che una percentuale, un epitaffio.

La sinistra cadavere, scrive il 5 marzo 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Seguire la maratona Elezioni 2018 di Enrico Mentana a volume alzato è stato superfluo. Si sarebbe rivelato sufficiente osservare i volti del ricco parterre per comprendere con vividezza l’andamento degli exit poll. Già torvi e un po’ scrofolosi per natura, si facevano tesi, poi allarmati, quindi sconsolati, infine sepolcrali. Il pensiero levogiro, antiorario al senno, testimone in diretta della propria morte. Che macabra pagina di televisione verità! E via via che i dati si facevano indiscutibili, i malcapitati sono stati chiamati a riconoscerne il cadavere. Gente che ha sempre capito nulla, per lustri e fino a pochi minuti prima dei risultati elettorali, come Annunziata, Giannini, Sorgi, Cerasa, in diretta a commentare il trapasso delle proprie stesse sentenze. Ma se il piglio di Mentana – in grandissima forma per tutta la nottata, fino a dragare la venustà della Dragotto con aria da stracciamutande emerito – si è mantenuto friccicarello malgrado il cordoglio in studio, il volume è servito per intercettare i flebili aliti dei traumatizzati ospiti. La chiacchiera tremolante di Giannini, fino a ieri sprezzante verso i populismi, intraprende l’operazione di riabilitazione dell’insulto, affrancandolo in «popolarismi»; Marco Damilano, aggrappato a una conversione pro-sistema dei 5Stelle, si dichiara sorpreso dall’avanzare della Lega nelle periferie metropolitane; Sorgi scompare inghiottito dal suo tablet, per poi riemergere con il titolo «Vince Di Maio, Italia ingovernabile». Cazzullo, dall’inflessione sua, ci ricorda dell’esistenza dei mercati, della grande Europa, mentre gli elettori italiani hanno appena risposto con meno Europa e un eloquente sticazzi! dei mercati. Per il bene della stabilità, gli scambisti non vorrebbero si votasse; malauguratamente per loro, una volta ogni tanto anche da noi si va alle urne… e può succedere che un pernacchione elettorale li destabilizzi. Irriverente Benedetto Della Vedova, intervenuto a commentare la sciagura della Bonino, che si vende come coraggioso ambasciatore anti-mainstream. Irresistibile osservare l’Annunziata che prende appunti con il lapis sull’agendina di una disfatta scolpita nella pietra con una verga di boro, e imperterrita commenta con il tono di chi la spiega. Lucia bacchetta addirittura Marine Le Pen, festante su Twitter per una consultazione italiana aculeo nel culo flaccido di Bruxelles, suggerendole di star buona perché trombata a casa propria e aggiungendo: «Ci vorrebbe un po’ di sale in zucca sulle previsioni e chi le fa». Se l’inclemente conduttrice applicasse a se stessa i parametri che riserva agli altri, oggi venderebbe carciofi e zucchine a Osci e Sanniti. Per fortuna arriva Alessandra Sardoni, in diretta dalla sede del Partito Democratico, che sembra balbettare in un regime di quarantena, coraggiosa inviata sulla scena di una terrificante pandemia. «Siamo un grande partito», «A Renzi e alla classe dirigente del PD non c’è alternativa credibile per gli italiani», erano soliti tuonare da quelle stanze e dalle testate assoldatine. Mecojoni! Il Bomba, futuro senatore del Senato che voleva abolire, dopo aver accusato gli avversari di scappare dal confronto, assorbe con il medesimo ardimento il tracollo, arrivando per commentare a caldo la sconfitta con la baldanza di un coniglio palomino. L’indispensabile, la necessaria classe dirigente – dei Gentiloni, dei Minniti, dei Gori, dei Franceschini, dei Rosato, dei Martina, dei Poletti, delle Fedeli – è stata trattata dai votanti come pattume pronto per l’inceneritore. L’eredità culturale dell’assemblea costituente ha uno scatto d’orgoglio solo nel padre nobile del partito, nell’immarcescibile campione della sinistra di governo, Pier Ferdinando Casini, che trionfa disdegnoso nella sua Bologna. Nel frattempo, la marea nera che doveva investire l’Italia, gli inquietanti rigurgiti neofascisti pronti a deflagrare, i temibilissimi blitz di Forza Nuova e Casa Pound raccontati sulla stampa dai GEDI, via radio da Vittorio Zucconi e in tv da Corrado Formigli, stanno sotto l’1%: perché “la realtà è la loro passione”. Di Stefano si vede per la prima volta in un salotto di Mentana, benché in collegamento, e si lamenta di essere stato trascurato dai media durante tutta la campagna elettorale. Risposte piccate in studio, specie da una Lucia molto indispettita. I sobillatori di mestiere che hanno tirato la volata ai propri campioncini di triciclo fino a un traguardo di paracarri, oracoleggiano ora sui futuri scenari, sugli equilibri di domani, sulla temperie a venire, smarcandosi dalla putrefazione con guizzi alla Margheritoni. E sempre indietro come la coda del maiale. In chiusura, un minuto di silenzio per Morti e uguali, come anticipato l’11 febbraio in questi quaderni. Boldrini, Bersani, D’Alema, Grasso… dal regno della pace e della serenità veglieranno sui propri cari.

Salvini e Di Maio, che trionfo! L’ondata “populista” non è affatto finita, a dispetto delle élite e dei media, scrive Marcello Foa il 5 marzo 2018 su "Il Giornale". Quella del 4 marzo è stata un’elezione storica per tre ragioni.

La prima: l’establishment si era illuso che con la vittoria di Macron, la cosiddetta onda “populista”, alzatasi in occasione della Brexit e della vittoria di Trump, avesse esaurito la sua forza propulsiva. Il simultaneo successo del Movimento 5 Stelle e della Lega dimostra che non è così per una ragione molto semplice: quando il malcontento sociale è profondo e duraturo non basta un po’ di cosmesi per controllare l’elettorato. I calcoli sono presto fatti: M5S 32%, Lega 18%, Fratelli d’Italia quasi 5%. Totale: 55% ovvero la maggioranza degli italiani ha votato contro le forze che hanno governato fino ad oggi l’Italia, contro i Monti, i Letta, i Renzi, i Gentiloni ma anche contro Berlusconi, che, a quasi 82 anni, si è illuso di poter sedurre l’elettorato. Non è un voto di protesta; è, sulla carta, una maggioranza schiacciante.

La seconda ragione riguarda il ruolo dei media, che hanno abdicato ancora una volta al proprio ruolo di cani da guardia della democrazia, prestandosi invece a manovre strumentali a sostegno dell’establishment. Durante tutta la campagna elettorale, le grandi testate si sono prodigate da un lato ad alimentare lo spettro di un inesistente rigurgito fascista, dall’altro a screditare il Movimento 5 Stelle, soffiando sul fuoco dello scandalo dei rimborsi e a oscurare l’incredibile seguito popolare di Matteo Salvini, che per due mesi ha riempito le piazze senza che i media lo dicessero; media che invece si sono scoperti improvvisamente e incredibilmente filoberlusconiani, perché il Cavaliere era indispensabile per realizzare il progetto di una “Grosse Koalition” tra Pd e Forza Italia. Il disegno era: fuoco sui 5 stelle, oscurare Salvini, esaltare Berlusconi; poi, quando il declino di Renzi, è parso evidente, hanno giocato la carta Bonino, sostenuta da ingenti quanto oscuri finanziamenti, peraltro tardivamente. Tutto inutile: i media mainstream sono i grandi sconfitti, al pari di Forza Italia e del Pd. Non c’è propaganda che tenga quando il malessere è davvero profondo.

La terza: Salvini ha vinto perché ha saputo moderare i toni, dimostrando di non essere un pericoloso estremista, ma un vero leader politico anche per la precisione e la concretezza con cui ha saputo interpretare le preoccupazioni reali di un’Italia moderata, che fino a ieri si identificava solo in Berlusconi e che oggi si riconosce in lui. Anche Di Maio ha cambiato la percezione del Movimento, che non spaventa più l’italiano medio, cementando il percorso iniziato cinque anni fa, sebbene la sua dimensione politica sia profondamente cambiata.

Tutto questo ha conseguenze strategiche sui nuovi assetti politici italiani. Si realizza lo scenario che avevo delineato in un post di una decina di giorni fa (vedi screenshot qui a fianco) ovvero quello di un’Italia polarizzata tra un nuovo centrodestra moderato guidato da Salvini e una nuova sinistra guidata dal Movimento 5 Stelle che, lo ribadisco, ha cambiato pelle e sebbene oggi vinca sotto la spinta della protesta populista, in realtà non è più davvero rivoluzionaria e da mesi fa di tutto per accreditarsi presso l’establishment. Questo complica gli scenari per le coalizioni di governo. A mio giudizio è improbabile un’alleanza Salvini-Di Maio, che, se non sostenuta da un programma di governo davvero innovativo, nuocerebbe a entrambi e verrebbe osteggiata dal Quirinale e da Bruxelles ovvero dalle istituzioni a cui guarda il leader del Movimento. Molto più verosimile mi sembra un’alleanza fra 5 Stelle, Bonino, Leu e un Pd guidato da un nuovo segretario. Vedremo. Di certo una pagina politica straordinaria è stata girata ieri: l’era dei Berlusconi e dei Renzi è finita per sempre.

D'Alema eletto leader (degli esclusi), scrive Andrea Cuomo, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". I sommersi e i salvati. Le elezioni che hanno messo a soqquadro l'Italia hanno anche costituito la personale caporetto di un bel po' di politici appartenenti soprattutto all'establishment governativo. Molti di loro hanno perso la sfida diretta nel proprio collegio uninominale, spesso in modo netto e senza l'uso della Var. In qualche caso il paracadute dei collegi plurinominali, quelli soggetti al meccanismo proporzionale, ha consentito un atterraggio morbido nell'emiciclo di Montecitorio o di Palazzo Madama. Ma altre volte questo salvagente si è rivelato sgonfio e il candidato è affogato con tutta la sua prosopopea. Il principe di tutti i trombati è Massimo D'Alema, il regista occulto del maggiore flop di questa tornata elettorale. L'ex Baffino è arrivato addirittura quarto nel suo collegio uninominale del Senato a Nardò, nella sua Puglia. D'Alema ha ottenuto appena 10.552 voti, ovvero il 3,90 per cento, distanziatissimo dal candidato eletto, la pentastellata Barbara Lezzui (39,87 per cento) ma anche dall'uomo del centrodestra Luciano Cariddi (35,19) e perfino dall'attapiratissima candidata del Pd, Teresa Bellanova (17,35). Difficile immaginare uno smacco maggiore per l'ex premier, che non potrà contare nemmeno sul repêchage con il plurinominale, perché il seggio in quel collegio non scatta. Quindi facciamocene una ragione: D'Alema non farà ritorno a Palazzo Madama dopo un quinquennio di assenza. Quello che sembrava un periodo di riflessione inizia ad assomigliare a un prepensionamento. Liberi, uguali e trombati. La scheggia della sinistra gruppettara, piena di volti noti e povera di voti, è la compagine nella quale si conta il maggior numero di desaparecidos. Se qualcuno si salverà per il rotto della cuffia, qualcuno è già con la testa dentro il cappio: Pippo Civati, ad esempio, ha fatto male i suoi conti e nel suo collegio, quello plurinominale di Lombardia 2 a Bergamo, il seggio per i liberisti-ugualisti non è scattato. Arrivederci duenque al leader di Possibile. Possibile, mica certo. Ancora in Leu potrebbero restare a casa Arturo Scotto in Campania e Nico Stumpo, quest'ultimo capolista di entrambi i collegi del proporzionale alla Camera in Calabria. Nel Pd quasi tutti i big usciti con le ossa rotte dal derby uninominale si sono rifatti con la poltrona quasi sicura del plurionominale. Una delle poche vittime illustri è Stefano Esposito, vicepresidente della commissione trasporti, terzo per un soffio, con il 29,41 per cento dei voti, nel suo collegio uninominale al Senato a Collegno, vicino a Torino, dietro alla candidata eletta del centrodestra Roberta Ferrero (32,41 per cento) e alla grillina Elisa Pirro (29,79). Esposito non l'ha presa benissimo: «Con queste elezioni - ha detto - si chiude il mio impegno politico a tempo pieno. Tornerò al mio lavoro in prefettura. Gli elettori hanno dato il loro responso. Ho perso». Châpeau. Nel Pd fuori anche Lucia Annibali, la donna fatta sfregiare con l'acido dall'ex fidanzato: la sua prova è stata più che onorevole nel collegio uninominale di Parma alla Camera: il suo 30,37 è stato superato dal 35,13 della candidata del centrodestra Francesca Cavandoli. Si tolgono il grembiule pure Francesca Barra, Gianni Pittella e Riccardo Illy. La bella giornalista nel collegio uninominale di Matera, in Basilicata ha preso solo il 17,55 per cento dei voti, asfaltata dal pentastellato Gianluca Rospi (46,29) e superata anche da Nicola Giovanni Pagliuca del centrodestra (26,14). Fuori. Sempre in Lucania Pittella, parte di quel sistema familistico della «Basilicata rossa», è stato eliminato con il 21,37 per cento, che gli sono valsi il terzo posto nel collegio uninominale al Senato che ha visto il successo del pentastellato Saverio De Bonis. Fuori anche lui. Come l'ex sindaco di Trieste e vicepresidente del colosso del caffè Riccardo Illy. Candidatosi come indipendente sotto le insegne dem nel collegio uninominale del capoluogo giuliano al Senato, ha preso il 26,48 per cento finendo dietro Laura Stabile di Forza Italia (39,40). Qualche escluso eccellente c'è anche nel centrodestra. Il più noto è Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, capolista nel plurinominale a Milano, Monza-Brianza e Bergamo-Brescia per Noi con l'Italia, che non ha raggiunto la soglia del 3 per cento. E sorprendentemente anche nel Movimento 5 Stelle ci sono trombati eccellenti. Uno è la «iena» Dino Giarrusso, battuto nel collegio romano del gianicolense da Riccardo Magi (centrosinistra). L'altro è Gregorio De Falco, il capo della sala operativa della Capitaneria di Porto di Livorno celebre per il cazziatone telefonico a Salvatore Schettino, comandante della Costa Concordia naufragata: con il 27,05 per cento è stato superato, superato da Roberto Berardi (centrodestra, 33,21 per cento) e da Silvia Velo (centrosinistra, 30,52). Scenda da quello scranno, comandante, cazzo.

E Minniti guida l'accozzaglia dei ripescati (e miracolati), scrive Matteo Basile, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Guai a buttarsi nel vuoto senza paracadute. No, non c'entrano gli sport estremi a meno di non considerare anche la candidatura un'impresa ad alto rischio. Non lo è quando in ogni caso si può cadere in piedi. Ti candidi all'uninominale e perdi? Non c'è problema, c'è un collegio plurinominale pronto a salvarti e a portarti comodamente in Parlamento. Ma ci sono anche casi contrari. L'importante, alla fine, è garantirsi la poltrona. Sono tanti i big caduti ma in piedi. A partire dal presidente del Senato Piero Grasso, leader di Liberi e Uguali. L'ex magistrato è andato malissimo nel collegio uninominale del Senato di Palermo, dove ha preso solo il 5,8 per cento, superato abbondantemente dai candidati di M5s, Centrodestra e Centrosinistra. Stessa débâcle anche per la «presidenta» Laura Boldrini, ultima con il 4,6 per cento nel collegio Milano centro dove vince il candidato di centrosinistra Bruno Tabacci. Entrambi però sperano nel paracadute proporzionale, dipenderà dalla ripartizione dei seggi con Leu che ha di poco superato la soglia del 3 per cento che dovrebbe garantire loro la poltrona. In casa Leu, nonostante i pessimi risultati dovrebbe salvarsi anche Nicola Fratoianni, uno dei fautori della nascita di Liberi e Uguali. Non mancano le batoste morbide anche in casa Pd a partire dallo «sceriffo» Marco Minniti. Il ministro dell'Interno ha perso al collegio di Pesaro, dove è arrivato soltanto terzo, battuto clamorosamente dal già espulso grillino Andrea Cecconi, al centro dello scandalo rimborsi elettorali farlocchi. Ma anche per lui le porte del Parlamento dovrebbero aprirsi comunque grazie al plurinominale in cui era candidato come capolista. Stessa sorte per un altro big del governo uscente, il titolare dei Beni Culturali Dario Franceschini è stato sconfitto nel collegio uninominale di Ferrara per la Camera dalla candidata di centrodestra Maura Tomasi. Franceschini non tornerà a casa, grazie alla candidatura anche nel listino proporzionale e farà parte del prossimo Parlamento. Così come un'altra trombata di lusso, la responsabile della Difesa Roberta Pinotti, che nella sua Genova è arrivata soltanto terza dietro M5s e centrodestra nel collegio uninominale in cui correva. Ma anche lei si salverà quasi certamente grazie al proporzionale. Altro giro, altro ministro reduce da un fallimento ma miracolato. Valeria Fedeli, contestatissima titolare del dicastero dell'Istruzione, è finita seconda a Pisa, battuta dal candidato del centrodestra ma in attesa della certezza di un elezione grazie al caro, vecchio e sicuro plurinominale. Finita qui? No perché il filotto di ministri caduti in piedi annovera anche il Guardasigilli Andrea Orlando che dopo la sconfitta all'uninominale, si salverà grazie al proporzionale dove era capolista nel comodo collegio Parma-Piacenza-Reggio. Tra i silurati che sperano c'è anche Claudio De Vincenti, ministro per la Coesione territoriale e Mezzogiorno, sconfitto nell'uninominale di Sassuolo. In casa Pd sono tanti i big che contano di tornare in Parlamento nonostante una sconfitta. Dalla governatrice del Friuli Debora Serracchiani, al presidente del partito Matteo Orfini fino al figlio del governatore campano Piero De Luca, tutti quanti bocciati all'uninominale ma in piena corsa per un seggio grazie al plurinominale. In Campania asfaltato ma ripescato anche Paolo Siani, fratello del giornalista ucciso dalla camorra e uomo simbolo del Pd renziano. Ci sono dei salvati dal plurinominale anche in casa centrodestra, primo tra tutti Vittorio Sgarbi che ha perso il collegio uninominale contro Di Maio in Campania ma quasi certamente sarà eletto grazie al plurinominale, così come Sandra Lonardo Mastella, e Renata Polverini, bocciate nel testa a testa ma ripescate dal plurinominale. Un nome noto anche nel Movimento Cinque Stelle può esultare grazie alla doppia candidatura. È l'ex presentatore Gianluigi Paragone che ha perso nel collegio uninominale di Varese, dove era candidato al Senato. Battuto da Candiani del centrodestra ma graziato dal proporzionale che gli permetterà di passare dallo sgabello de La7 a uno scranno in Parlamento. La sua elezione in Parlamento è praticamente certa. Ci sono poi casi contrari, ovvero di chi ha avuto un risultato di partito pessimo, non sfiorando nemmeno la soglia minima del 3 per cento che al proporzionale vuol dire niente elezione ma si è salvato grazie all'uninominale. Qui si deve registrare l'exploit di due big, entrambe donne. In primis Emma Bonino che nonostante il flop di +Europa è riuscita a vincere il collegio uninominale al Senato nel quartiere di Roma Gianicolense con quasi il 39 per cento dei consensi. Stesso successo che può vantare il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, leader della fallimentare lista Civica Popolare. Eppure alla Camera, dov'era candidata all'uninominale di Modena, ha vinto a mani basse conquistandosi il ritorno in parlamento. Ah, questo Rosatellum. Tanto criticato quanto apprezzato da chi, alla fine, avrà una bella e comoda poltrona.

7 motivi per cui in Italia ha vinto il populismo. Dalle ragioni economiche a quelle politiche alla tendenza delle classi dirigenti ad assecondare le forze anti sistema per addomesticarle, scrive Stefano Cingolani il 6 marzo 2018 su "Panorama". Perché qui, perché in Italia i populisti hanno riportato quel successo elettorale che è mancato in Francia, in Germania, in altri paesi europei? Perché altrove le forze politiche contrarie si sono difese e talvolta hanno rilanciato, spiazzando tutti e mettendo con le spalle al muro gli anti-sistema come ha fatto Emmanuel Macron, e in Italia invece non hanno trovato un comune terreno d’incontro? Perché le istituzioni e le classi dirigenti nel resto d’Europa (persino in Grecia dove sono più deboli, per non parlare della Spagna) hanno immesso anticorpi che in Italia mancano? Proviamo solo a mettere insieme alcune motivazioni di fondo.

1- Ci sono innanzitutto ragioni economiche. L’Italia ha pagato un prezzo più caro degli altri paesi. Nessuno ha attraversato un intero decennio in recessione. Oggi il prodotto lordo è ancora inferiore a quello del 2007, i redditi pro capite sono più bassi. Tutti gli altri paesi europei hanno recuperato quel che avevano perso in termini di crescita e benessere, l’Italia ancora no.

 2- Ciò ha provocato un terremoto in una società già scossa da mutazioni strutturali. L’apertura dei mercati, la rivoluzione tecnologica permanente, oltre ai due terribili shock (2008 e 2011) hanno inciso nella carne viva del paese, rimescolando se non proprio ridisegnando categorie, ceti, classi. Ha fatto irruzione il nuovo proletariato digitale, mentre i gruppi un tempo garantiti hanno perso le vecchie protezioni e oggi vogliono recuperarle, non a caso hanno vinto i partiti neo-protezionisti. Lo stesso modello italiano, quello della piccola impresa sostenuta dalla famiglia e dalla rete locale che faceva perno sul comune e sulle banche popolari, viene rimesso in discussione, forse per sempre.

3- Così, una gran parte della popolazione si sente minacciata, mentre l’Italia sta realizzando solo adesso quella trasformazione tecnologica che è avvenuta molto prima negli Stati Uniti e nel resto dell’Europa occidentale. I piccoli imprenditori nella manifattura e soprattutto nei servizi, chiusi finora nelle nicchie protette dei mercati nazionali, capiscono che il mondo sta erodendo le loro posizioni di rendita, ma, per reagire, dovrebbero attuare profonde riorganizzazioni che mettono in pericolo il loro controllo. I manager delle grandi imprese pubbliche sanno che le loro posizioni si stanno esaurendo; tuttavia la libera concorrenza riduce gran parte del loro potere. I banchieri grandi e, soprattutto, piccoli e medi, vedono che le nuove tecnologie erodono il loro quasi-monopolio nella gestione della ricchezza finanziaria delle famiglie e nel finanziamento alle imprese; però non comprendono quale modello realizzare senza perdere la centralità che hanno avuto nel modello italiano. Il costo di una burocrazia inamovibile e radicata nei suoi privilegi è troppo elevato, se ne rendono conto gli stessi dipendenti pubblici, eppure resistono duramente al cambiamento. 

4 - Anche sul mercato del lavoro privato, emerge chiaramente che una parte degli occupati non sa fare quello di cui avrebbe bisogno una economia moderna e competitiva, e ciò vale in modo particolare per chi esce dalle scuole secondarie e dalle stesse università (buona parte della disoccupazione giovanile dipende da questo), tuttavia pochi hanno il coraggio di accettare il cambiamento; del resto manca una vera politica di aggiornamento, riqualificazione, riconversione della forza lavoro. E proprio questo è l’aspetto più debole del Jobs act. In un tale scenario, i migranti e non solo quelli irregolari diventano l’incarnazione di una guerra tra poveri, per strapparsi il lavoro che c’è e spesso anche quello che non c’è. Tutto ciò spiega in gran parte perché sono stati premiati i partiti che hanno promesso di resistere, proteggere, assistere, in sostanza di chiudere le porte alla globalizzazione e riesumare vecchie debolezze. Promesse da marinaio perché non ci vuole uno scienziato spaziale per capire che non saranno mantenute, ma tant’è.

5 - Le ragioni socio-economiche sono importanti, ma non chiariscono tutto. Nel voto e ancor prima nell’intera campagna elettorale si è manifestata di nuovo la debolezza delle istituzioni. Gli anticorpi in grado di difendere l’impalcatura costituzionale in Italia sono troppo flebili. In Francia contro i movimenti neofascisti o populisti è sempre scattato il patto repubblicano che induce i singoli partiti, di volta in volta i socialisti o i gaullisti, a rinunciare alle proprie posizioni particolari in nome di un interesse generale. In Italia non succede. Ed è impensabile che possa accadere come in Spagna dove lo stato centrale è sceso in difesa dell’unità nazionale contro la secessione della Catalogna con l’appoggio di tutti i partiti, compreso Podemos, pur non rinunciando a criticare gli errori commessi dal governo Rajoy. Una tale solidarietà e fermezza in Italia sarebbe impensabile.

6- A tutto ciò si aggiungono motivi squisitamente politici. Tra gli errori commessi dalle forze anti populiste c’è il rifiuto di riformare l’architettura istituzionale per favorire la governabilità, così come una legge elettorale fatta apposta per impedire la formazione di una maggioranza. Aggiungiamo poi la voglia di rivincita di Matteo Renzi dopo la sonora sconfitta al referendum sulla costituzione, che gli ha impedito di avere uno sguardo di lungo periodo e lo ha fatto chiudere nel suo fortino assediato, o le incertezze di Forza Italia e i cedimenti a Salvini sia nei programmi sia, ancor più, nella composizione delle liste, come ha sottolineato Gianni Letta. 

7 - Detto questo, bisogna considerare una caratteristica, anzi una vera e propria tara, che non si ritrova in nessun altro paese democratico: la tendenza delle classi dirigenti, in particolare quelle economiche, ad assecondare, spesso coccolare se non proprio alimentare, le forze anti sistema allo scopo di addomesticarle. Una speranza che, dal fascismo in poi, si trasforma sempre in una grande illusione. Questo sovversivismo dall’alto è impensabile nei paesi più forti e nelle democrazie mature, là dove il sistema si difende, anche riformando se stesso, senza chiudersi nel proprio passato. Magari perde, come è successo più volte nella storia, ma combatte. In Italia troppo spesso si arrende senza nemmeno metter mano alla fondina.

Da Tangentopoli alla Casta, da Grillo alle fake news, il gentismo ci ha seguiti come un’ombra». Intervista su "Il Dubbio" il 3 marzo 2018 a Leonardo Bianchi news editor di Vice Italia, autore di “La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento”. «Il gentismo non rappresenta una sottomarca scadente del populismo, e nemmeno una malattia letale della democrazia o il suo definitivo scadimento. Si tratta invece di un fenomeno complesso e sfaccettato, dotato di una sua specificità, che ha accompagnato la seconda Repubblica come un’ombra». L’analisi di questo fenomeno socio-politico, condotta con rigore e obiettività e cadenzata da svariati reportage e dovizia di dettagli, costituisce il nucleo fondante di La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (Edizioni minimum fax) del giornalista, blogger e news editor di VICE Italia.

Leonardo Bianchi. Bianchi, quando iniziò a diffondersi il termine ‘gentismo’, quali caratteristiche lo contraddistinguono e cosa lo divide dal populismo?

«Il periodo storico in cui compare per la prima volta il termine gentismo corrisponde agli inizi degli anni Novanta – precisamente nel ’94-’95 –, sullo sfondo di quel cambiamento epocale rappresentato da Tangentopoli e Mani Pulite. Le prime occorrenze al riguardo sono giornalistiche, mentre la sua prima teorizzazione si deve al libro chiamato La sinistra populista. Equivoci e contraddizioni del caso italiano (Castelvecchi, 1995), una raccolta di saggi a cura di Sergio Bianchi che risulta, per certi versi, valida ancora oggi: definisce il gentismo un’evoluzione del populismo, anche se il populismo ha come base fondante il popolo ed è quindi maggiormente legato a grandi ideologie e grandi partiti politici mentre il gentismo è correlato alla cosiddetta gente, intesa come soggetto politico contrassegnato dal consumo di informazioni, merce e offerta politica. Se, inoltre, fra le caratteristiche principali del populismo si annovera la presenza di un leader o comunque di un partito politico che fa appello al popolo, delineando con ciò un fenomeno verticale, il gentismo costituisce invece un fenomeno orizzontale in quanto promana dal basso e rifiuta qualunque forma di mediazione politica. Il termine ‘gente’ comincia a sostituire il termine ‘popolo’ nella grande politica e nei dibattiti anche in seguito alla discesa in campo di Silvio Berlusconi che, fin dall’inizio, considerava la gente, piuttosto che il popolo, categoria di riferimento e fonte di legittimazione primaria. Il termine evolve – compare nei primi anni Duemila in associazione al berlusconismo – per imporsi definitivamente negli ultimi anni, presentando connotazioni politologiche – Nadia Urbinati, ad esempio, lo associa in particolar modo ai Cinquestelle – e contraddistinguendo un certo modo di vivere la Rete, attraverso post con immagini artigianali, commenti sgrammaticati, ecc… L’enciclopedia Treccani definisce il gentismo “atteggiamento politico di calcolata condiscendenza verso interessi, desideri, richieste presuntivamente espressi dalla gente, considerata come un insieme vasto e, sotto il profilo sociologico, indistinto”».

Secondo lei, è giusto considerare in termini negativi il fenomeno del gentismo?

«Per me è principalmente un fenomeno da conoscere e investigare, quindi di per sé non necessariamente connotato in maniera negativa, nonostante certe sue declinazioni siano indubbiamente discutibili. Mi concentro in particolar modo sulle interazioni fra gentismo e politica e su come la politica cerchi di recuperare istanze gentiste».

A suo avviso, quali sono le formazioni politiche più vicine al gentismo e come si comportano i partiti tradizionale in relazione a esso?

«Il partito che più di ogni altro da un lato incarna e dall’altro rincorre il gentismo è senza dubbio il MoVimento 5 Stelle. Vi sono poi tentativi – a volte goffi – di recupero di uno stile gentista da parte del Partito Democratico, che negli ultimi mesi ha cercato di utilizzare, seppure in chiave opposta – quindi calata dall’alto – la potenza comunicativa del gentismo per inserirsi in ambiti che i messaggi governativi difficilmente riescono a intercettare».

La pubblicazione de La casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo ha influito non poco…

«La pubblicazione de La casta di Stella e Rizzo rappresenta il big bang di questo fenomeno: giornalisticamente inappuntabile, il libro ha messo in fila in modo chirurgico e impietoso una serie di privilegi e sprechi inaccettabili e ormai anacronistici. Ciò che risulta problematico è a mio avviso il discorso sorto non tanto intorno al libro quanto al concetto di «casta», diventato un refrain che permette una totale deresponsabilizzazione e divide la società in due categorie ben distinte: un ipotetico Noi – la Gente – e il Loro, ovvero la Casta, categoria che può attagliarsi a chiunque possieda privilegi o si percepisca come privilegiato. Tale suddivisione comporta che una classe o un soggetto politico si riconosca come del tutto incorrotto mentre all’altro vengano attribuiti tutti i vizi e i difetti. Questo tipo di pensiero ha ormai esaurito qualsiasi funzione costruttiva – che poteva coincidere con una riforma seria della politica – mentre ne è sopravvissuta solo la carica distruttiva: gli stessi partiti politici hanno assunto una postura anti-casta proprio per evitare di essere travolti. Da qui la creazione e l’attecchimento dei 5 Stelle: non dimentichiamo che il primo V-Day ricorse qualche mese dopo l’uscita de La casta e sul blog di Grillo comparve una delle prime interviste a Stella e Rizzo. È un fenomeno da maneggiare con molta cura, perché da un lato permette di attingere a una forma di legittimazione continua – malversazione e corruzione sono purtroppo delle costanti nella politica italiana – mentre dall’altro può travolgere in pochissimo tempo chi lo cavalca, come è successo all’Italia dei Valori, che più di tutti ha investito in politiche anti-casta per poi essere spazzato via quando sono cominciate a filtrare notizie circa una gestione non proprio trasparente dei conti del partito».

Nel suo libro esamina manifestazioni che si vorrebbero spontanee, apartitiche e apolitiche, mentre in realtà vi si registrano cospicue infiltrazioni politiche, principalmente di estrema destra…

«Prendo in considerazione la nuova categoria del cittadino indignato ed esasperato, che si vuole per forza slegato da qualunque partito: in certi casi è realmente così mentre in molti altri è una maschera dietro cui si trincerano partiti politici di destra e spesso di estrema destra. Faccio esempi molto concreti – come Tor Sapienza a Roma – per desumere modelli di protesta contro i migranti in cui è sempre presente una qualche forma di tutela politica che oscilla tra la strumentalizzazione e la direzione. Le rivolte delle periferie romane, caratterizzate da scoppi di risentimento anti-migranti, sono espressione di una strategia nella quale rivestono un ruolo fondamentale i comitati di quartiere, manovrati, quando non proprio creati ad hoc, da partiti di estrema destra: vi è in ciò un preciso riferimento a un modus operandi adottato in Grecia dal partito neo-nazista Alba Dorata, che consiste nell’impostare una certa relazione intorno a un quartiere che si vuole assediato dagli immigrati, in preda al degrado più totale, veicolando messaggi, istanze e pratiche politiche che si concludono tendenzialmente in aggressioni o scontri».

Lo sgombero del centro per migranti di viale Morandi, nel quartiere di Tor Sapienza a Roma, e altri episodi consimili, potrebbero venire considerati come una vittoria della gentocrazia sulla democrazia?

«Di vittoria in realtà non si può parlare perché, dopo lo svuotamento del centro migranti, la situazione del quartiere non è cambiata e i problemi sono rimasti gli stessi, in quanto non avevano nulla a che fare con quel centro di accoglienza specifico. Si tratta di cause strutturali che, specialmente per quanto concerne Tor Sapienza, si trascinano da trent’anni a questa parte e sottolineano un’assenza totale della politica. In questo vuoto si sono infilate le strumentalizzazioni di certi partiti. Le indagini giudiziarie non hanno mai trovato riscontro riguardo una eterodirezione della protesta e, a mio avviso, si potrebbe piuttosto parlare di una sorta di cappello politico e strumentale: è innegabile come una parte del quartiere abbia pensato che colpire l’ultimo anello della catena fosse una strategia funzionale a risolvere problemi di lungo corso. Dopo lo svuotamento non è cambiato nulla, quindi non la si può considerare una vittoria, se non per quei partiti che hanno segnato un precedente, un modello esportabile».

Permane una percezione sbagliata secondo cui destiniamo un numero maggiore di abitazioni agli immigrati piuttosto che agli italiani in difficoltà…

«Rappresenta, questo, un nuovo fronte di strumentalizzazione: formazioni come Roma ai Romani, costole di Forza Nuova, hanno iniziato a fare picchetti al Trullo o altrove e a impedire che i legittimi assegnatari, che avevano l’unica colpa di non essere nati in Italia, usufruissero della casa a loro regolarmente assegnata, a favore di italiani che invece occupavano abusivamente».

Cosa pensa riguardo al tema delle ronde?

«Le ronde sono state un cavallo di battaglia della Lega Nord, istituzionalizzate da un decreto Maroni del 2009: fu un flop clamoroso. Assistiamo oggi a diverse forme di ronde, che non consistono nel mandare cittadini armati a farsi giustizia da soli ma in qualcosa di più sfumato: i partiti di estrema destra – e non solo – le chiamano ‘passeggiate per la legalità’. Un vero paradosso, in quanto svolgono una funzione che non compete a dei normali cittadini. È chiaramente un tema da prendere molto sul serio, perché interroga un grande cambiamento avvenuto nelle società occidentali durante gli ultimi 50-60 anni, con il venire meno della promessa dello Stato di riuscire a garantire sicurezza a tutti. Uno Stato democratico, tuttavia, non può delegare la sicurezza ai privati, perché eromperebbe dagli argini dello stesso tracciato democratico. Bisogna capire come uscirne, non certo adottando la soluzione avanzata da alcuni sindaci del Pd in Emilia Romagna, che hanno lanciato una sorta di ronda di sinistra. Bisogna ripensare nella sua interezza il sistema di sicurezza di uno Stato democratico».

Cosa ne pensa del contributo dato dalla televisione e dal web alla diffusione di fake news e messaggi strumentali?

«Il dibattito sulle cosiddette fake news è stato impostato male fin dall’inizio già negli Stati Uniti. Nello shock generalizzato successivo alla vittoria di Trump si sono cercate spiegazioni immediate, di facile comprensione; una di queste è stata: “Trump ha vinto perché su facebook giravano delle falsità”. Non è stato così, come ha confermato anche una ricerca dell’Università di Stanford e ciò adesso ha permesso a Trump di invertire il senso del dibattito e usare il termine fake news come una clava da agitare contro i media e i suoi avversari politici. In Italia si sono ventilate al riguardo proposte di legge dal sapore liberticida: ancora oggi, si tende a considerare Internet un mondo a parte rispetto al generale ecosistema mediatico e a spingere verso l’adozione di specifici strumenti normativi. È invece alla politica e ai media che dobbiamo le notizie false di maggiore consistenza e portata. La strategia editoriale, se così possiamo chiamarla, dei siti di fake news è molto semplice: prendono articoli o notizie già uscite su agenzie, giornali e media, vi aggiungono un titolo di forte impatto, una foto shock e poi li pubblicano sui loro canali. Esiste un grande problema di fondo: la fonte deve essere legittimata come avviene per i media tradizionale. Sarebbe auspicabile maggiore giornalismo, più cultura, più etica e soprattutto più verifica delle fonti, in primis da parte dei giornalisti».

Si può considerare il gentismo come un fenomeno solo italiano o è presente anche a livello internazionale?

«Lo definisco un fenomeno specificatamente italiano, perché possiede dei caratteri presenti solo in Italia, e lo considero una sorta di evoluzione di altre forme politiche: l’Italia è infatti sempre stata un’avanguardia nella creazione di nuovi fenomeni politici che poi prendono piede nel resto del mondo. Allargando tuttavia il discorso a un livello globale, documentandomi ho trovato delle occorrenze anche in Spagna, in Sudamerica o comunque nei Paesi latini, tuttavia di segno opposto: alcuni oppositori di Podemos, ad esempio, parlano di gentismo. Si possono rinvenire forme di gentismo anche all’estero, però si tratta di un fenomeno tipicamente italiano: il trend è globale, le declinazioni sono locali e molto diverse tra loro».

Il Nord vota per il lavoro e il sud per l'assistenzialismo...

Vittorio Feltri il 3 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": "Luigi Di Maio vincerà al sud. Vi spiego perchè". La politica si è intorcinata. Destra, sinistra e grillini si sono già spartiti il territorio elettorale e nessuno dei tre gruppi avrà la maggioranza, cosicché difficilmente avremo un governo che non sia frutto di alleanze improbabili. Ma non è questo il punto. Tutti sappiamo che nel nostro futuro si profila una cronica instabilità, come del resto accade in vari Paesi europei dove mancano partiti egemonici. Il Nord e il Centro voteranno secondo tradizione. Il primo sarà orientato a dare la preferenza alla Lega e in parte cospicua a Berlusconi, il secondo penderà a sinistra nelle sue varie declinazioni. Mentre il Sud, cronicamente in bolletta, affiderà le proprie speranze al Movimento 5 Stelle, per un motivo banale: il reddito di cittadinanza che i grillini si sono inventati, a prescindere dalle risorse per garantirlo (i soldi pubblici non ci sono). La promessa di Di Maio e dei suoi scherani di stipendiare mensilmente gli sfigati privi di una occupazione ha sedotto i meridionali. I quali, dal loro punto di vista, giustamente sono contenti di poter ricevere del denaro senza lavorare. Sarebbero cretini a non esserlo. Non sono sicuri che i pentastellati saranno di parola e riusciranno a retribuire i nullafacenti, però essi si illudono lo stesso di intascare in massa l'obolo. Pertanto è naturale che preferiscano dare il loro suffragio a chi dice loro: tranquilli, ragazzi, se comanderemo noi vi riempiremo di bigliettoni, piuttosto che ad altre forze politiche abituate ad aumentare le tasse a tutti senza preoccuparsi di mantenere i terroni esclusi dalla paga. Ecco perché il Movimento fondato, e abbandonato, dal comico genovese non faticherà ad avvicinarsi o addirittura a superare il 30 per cento delle schede contenute nelle urne. Il Mezzogiorno è costituito da regioni perennemente povere nelle quali, all' infuori dell'impiego statale, non esistono molte opportunità di lavoro. Le industrie sono poche né hanno lo spazio per moltiplicarsi a causa della mancanza di infrastrutture. La depressione è endemica. Quindi partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all' eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo. Il Movimento 5 Stelle ha fallito ovunque abbia comandato, ma questo non incide nel giudizio popolare del Sud, che aspetta soltanto di essere finanziato e se ne fotte della buona amministrazione. Ai tempi di Lauro, sotto il Vesuvio accaddero cose turche: l'armatore dava una scarpa a ciascun elettore, al quale consegnava la seconda a spoglio delle schede avvenuto, se i conti quadravano. Non è cambiato molto da Roma in giù. Sono però cresciute le aspettative: non bastano più le calzature, si pretende il reddito di cittadinanza, cioè una sorta di pensione a vita per chiunque si gratti il ventre, come tutti i grillini finiti già in Parlamento. In effetti, lavorare stanca e rompe i coglioni.

Feltri: anche gli “dei” prendono cantonate, scrive giovedì 8 febbraio 2018 Cristofaro Sola su "L’Opinione". Lo scorso 3 febbraio il quotidiano “Libero” ha pubblicato on-line un editoriale di Vittorio Feltri dal titolo: “Soldi che non ci sono a tutti i lazzaroni: M5S al Sud vincerà”. A proposito del voto del 4 marzo, il “Maestro” lancia un pronostico alquanto bizzarro: la vittoria dei Cinque Stelle nelle regioni del Sud grazie al voto a valanga degli sfigati che popolano le remote lande del Mezzogiorno d’Italia. La ricetta magica che spingerebbe alle urne masse di nullafacenti sarebbe: reddito di cittadinanza. Per dei perdigiorno intenti a grattarsi il ventre come unico sforzo quotidiano, cosa desiderare di meglio che sostenere un politico, Luigi Di Maio, fatto della loro medesima pasta? “...partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all’eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo”. Vittorio Feltri, indiscusso pilastro del giornalismo, ha preso una colossale svista imboccando, nel suo argomentare, la strada scivolosa del più frusto “luogocomunismo” su ipotetiche, ancestrali idiosincrasie dei meridionali per il lavoro. Il ritratto del Sud che viene fuori dal pennello di Feltri non esiste, è solo una caricatura di moda tra la gente di spettacolo. Non c’è un popolo di “fancazzisti” dedito all’ozio. I tempi di lavoro al Sud, nella media, sono come quelli del Nord. Il guaio è che una parte significativa della massa occupata è costituita da invisibili. Cioè da lavoratori irregolari che alimentano una coriacea economia del sommerso. Non è questa la sede per indagare le ragioni del fenomeno che interroga molteplici aspetti: economico, sociale, storico. Finanche filosofico. Resta il fatto che i numeri del lavoro “nero” sono da brividi. L’Istat ritiene che il “sommerso” rappresenti un asset strategico dell’economia nazionale. Sul dato del 2015 l’Istituto di statistica ha stimato un valore del sommerso pari al 12,6 per cento del Pil, la maggior parte del quale si produce nelle regioni meridionali. Un recentissimo focus del Censis, redatto in collaborazione con Confcooperative, dal titolo: “Negato, Irregolare, Sommerso: il lato oscuro del lavoro”, rileva che il fenomeno del “sommerso”, articolato nelle due principali componenti della sotto-dichiarazione del valore aggiunto e dell’impiego di lavoro irregolare, assuma nelle regioni meridionali un carattere strutturale andando a incidere sul valore aggiunto territoriale con percentuali molto significative. Sempre in riferimento al 2015, Calabria, Campania, Puglia, Molise, Sicilia hanno superato la soglia d’allarme del 15 per cento. Per chiarire la comparazione: la più alta in graduatoria è la Calabria al 17,5 per cento; la più bassa la provincia autonoma di Bolzano all’8,3 per cento. È del tutto evidente che questi dati spieghino del perché i numeri sul tasso effettivo di disoccupazione in Italia siano inattendibili. Il livello massimo di disoccupazione registrato nel Mezzogiorno (54,1%), nel 2015, si rapporta al solo lavoro regolare. D’altro canto, sarebbe mai immaginabile una tenuta della coesione sociale in un territorio nel quale metà dei potenziali attivi censiti stiano a bighellonare tutto il giorno senza produrre reddito di qualsiasi natura? Se non per il nobile ideale dell’emancipazione dalla miseria le ribellioni sarebbero scoppiate da un pezzo anche soltanto per tedio. La verità è che esiste un esercito d’invisibili, sfruttati ogni oltre decenza. Gente che lavora per 10/12 ore al giorno nelle “fabbrichette”, occultate nei sottoscala dei palazzi, per una paga da fame. Senza diritti e senza protezioni. I nuovi schiavi fanno di tutto e lo sanno fare molto bene. Dall’abbigliamento, all’agroalimentare, alle manifatture artigianali, non ci sono soltanto africani e cinesi, ma anche meridionali trattati da africani e cinesi. E poi c’è la piaga della criminalità organizzata, l’antistato che dà lavoro e protezione. Ciò non vuol dire che tutti i reclutati finiscano nei circuiti della droga e del racket. Nel Meridione le organizzazioni malavitose assicurano anche l’ingresso nel mercato dei lavori legali, dal momento che esse, da tempo, hanno esteso la sfera d’influenza sulla cosiddetta economia regolare. E se qualcuno pensa che un povero cristo possa avere la forza di fare valere i propri diritti in imprese inserite in quel circuito s’illude. Su di una cosa però il Maestro ha ragione: nel Sud non si è persa la vocazione al posto fisso nel “pubblico”.  Tuttavia, non si tratta, come sospetta Feltri, di velleitaria aspirazione al dolce-far-niente, ma della naturale ambizione a percepire retribuzioni dignitose e regolarmente pagate, a godere di diritti previdenziali e ad avere un futuro assicurato. Il Maestro, a questo riguardo, resterà sorpreso dagli esiti elettorali. I campioni che promettono assistenzialismo à gogo più dei Cinque Stelle sono i vertici locali del Partito Democratico. E quelli non scherzano. Il 12 novembre 2016, all’Assemblea nazionale del Pd sul Mezzogiorno, il governatore campano Vincenzo De Luca ha annunciato un piano straordinario di assunzioni nella Pubblica amministrazione per 200mila giovani, caratterizzato da un meccanismo scalare delle retribuzioni per i nuovi assunti nell’arco di un triennio. Perciò, nelle regioni meridionali più disastrate non saranno i grillini a fare il pieno di scanni parlamentari ma i sodali di Matteo Renzi. E anche quel centrodestra del Sud che non sempre ha avuto idee chiarissime sulla lotta al clientelismo.

I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

Elezioni, al Sud il reddito di cittadinanza ha battuto la «flat tax». Nei due modi diversi di concepire politica economica e welfare, nel Mezzogiorno prevale l’idea dei Cinquestelle dove povertà e disoccupazione sono più alte, scrive Paolo Grassi il 6 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il risultato delle urne fotografa un’Italia praticamente divisa in due. Con un centrodestra, a trazione leghista, predominante al Nord e i pentastellati guidati da Luigi Di Maio padroni (quasi) assoluti nel Mezzogiorno e nelle Isole. Una spaccatura che, peraltro, a ben vedere, significa anche due modi diversi di concepire la politica economica e il welfare. Da una parte, infatti, c’è la coalizione ora condotta da Matteo Salvini che ha puntato tutto, facendone il vero cavallo di battaglia della campagna elettorale, sull’introduzione della flat tax, strumento in grado «rimettere in moto il Paese, perché più denaro in tasca a famiglie e imprese genera più consumi»; dall’altra c’è M5S, che ha promesso un reddito di cittadinanza per oltre 9 milioni di connazionali. In buona parte, stando agli indicatori sulla povertà e sulla disoccupazione (soprattutto giovanile), residenti proprio nelle regioni meridionali.

Il calo della pressione fiscale. Ma cosa prevedono, nello specifico, le proposte in questione? Partiamo da quella del centrodestra, che è peraltro diversificata all’interno della medesima coalizione. Se Forza Italia ha lanciato l’idea di una sola aliquota del 23%, «compatibile con la tenuta dei conti pubblici», la Lega vorrebbe scendere addirittura al 15. In linea generale, comunque, il calo della pressione fiscale sarebbe introdotto «man mano che le condizioni dell’economia lo consentiranno». L’iniziativa, su cui si è speso a più riprese personalmente Silvio Berlusconi, non prevede, passando ai meno abbienti, «il pagamento di tasse sui primi 12.000 euro di reddito: chi guadagna poco, in pratica, non verserebbe nulla, mentre i redditi medi pagherebbero solo su una quota limitata dei loro introiti». Inoltre la flat tax, sempre secondo i suoi estimatori, «semplificherebbe il sistema, tagliando la selva di detrazioni, deduzioni e adempimenti». Come dire: un’idea programmatica che inciderebbe su diverse fasce sociali, dalle più basse alla media borghesia, per finire ai più ricchi e alle aziende. Con la possibilità dichiarata che «maggiori disponibilità economiche per le famiglie, ossia consumi in crescita, potranno generare la necessità di più produzione e nuove assunzioni. Insomma, (anche) più entrate nelle casse dello Stato».

Famiglie in condizioni disagiate. Di contro la proposta di Di Maio & Co. andrebbe a intervenire principalmente su chi un reddito non ce l’ha per niente. L’obiettivo è allineare tutti (quantomeno) sopra la soglia di povertà. Come? «Una famiglia di quattro persone, per esempio, in particolari condizioni disagiate, può arrivare a percepire anche 1950 euro al mese. Naturalmente esenti da tasse e da pignoramenti». Un nucleo di tre, con genitori disoccupati e figlio maggiorenne a carico potrà invece contare su 1.560 euro. Nel caso di «due pensionati con assegno minimo da 400 euro ciascuno», ancora, l’aiuto «sarà pari ad altri 370 euro per la coppia, come integrazione». Se invece siamo di fronte a un lavoratore part-time, «il salario sarà adeguato fino ad arrivare a 780 euro». Che equivale, appunto, alla fatidica soglia di povertà. «Se potrai percepire il reddito — annunciano i pentastellati — per conservarlo ti verrà richiesto di adempiere ad alcune regole: dall’iscrizione ai centri per l’impiego (e bisognerà accettare una delle prime tre occupazioni che saranno eventualmente offerte) alla disponibilità per progetti comunali utili alla collettività (8 ore settimanali)».

Sgravi alle imprese. Posto che sarebbero previsti sgravi pure per le imprese disposte ad assumere chi percepisce l’indennità, dove si trovano le coperture? I 16 miliardi annui necessari «non verrebbero da sanità, scuola o nuove tasse: abbiamo — spiega M5S — preferito cercare risorse da gioco d’azzardo, banche, compagnie petrolifere, etc.». Flat tax o reddito di cittadinanza? Il voto ci dice che al Sud ha vinto la proposta grillina. Ora, però, tutto dipende da chi andrà al governo.

Il Sud più povero ha votato per il reddito garantito. La promessa dell’assegno di cittadinanza ha favorito la vittoria pentastellata nel Meridione. Minore è il benessere economico, maggiore il consenso per il movimento, che segna il minimo in Trentino, scrive Roberto Petrini su La Repubblica il 6 marzo 2018. L'Italia "gialla" della politica si sovrappone esattamente a quella "nera" dell'economia. Lo sfondamento grillino nel Meridione è evidente, ma la corrispondenza dei dati elettorali a quelli del basso reddito pro capite e dell'alta disoccupazione aggiunge una chiave di lettura inequivocabile: M5S vince dove il disagio e la rabbia sono più forti. Presumibilmente perché lo Stato lì non risponde su temi come occupazione e criminalità...

La vittoria dei grillini nel Sud: non solo reddito di cittadinanza, ma tante battaglie sociali, a cominciare dal grano duro, scrive "I Nuovi Vespri" il 6 marzo 2018. Come può un quotidiano come il Corriere della Sera semplificare la straordinaria vittoria alle elezioni politiche del Movimento 5 Stelle nel Sud, etichettandola come una sorta di attesa generalizzata per il reddito di cittadinanza (che peraltro è una cosa importante)? E il civismo? E la grande battaglia per la difesa del grano duro del Mezzogiorno e per la pasta priva di contaminanti? Perché il Movimento 5 Stelle ha stravinto le elezioni politiche nel Sud? Il Corriere della Sera ha già trovato la risposta: il reddito di cittadinanza. Lo ha affermato lunedì sera, durante la trasmissione di RAI 1 di Bruno Vespa, Porta a Porta, il vice direttore di questa testata, Antonio Polito. E lo ribadisce in un editoriale il direttore di questo giornale, Luciano Fontana: “I Cinque Stelle sfondano nel Mezzogiorno cavalcando la rivolta contro le vecchie classi dirigenti e offrendo il reddito di cittadinanza come soluzione alla disoccupazione di massa, soprattutto giovanile”. Certo che il Corriere della Sera ne ha fatto di passi in avanti: passi da gigante! Altro che il Corriere di Piero Ottone che, per capire le trasformazioni dell’Italia degli anni ’70 del secolo passato, apriva le pagine a firme che, con dal giornale della borghesia milanese, sembrano lontani anni luce: per esempio, Pier Paolo Pasolini. Oggi il Corriere, per capire che cosa succede al Sud, non ha bisogno di aprire ad alcunché: basta il grande acume del direttore e del vice direttore! Insomma, qui nel Mezzogiorno la maggioranza, a tratti quasi assoluta, di elettori che si è recata a votare, secondo direttore e vice direttore del Corriere della Sera, avrebbe tributato il successo al Movimento 5 Stelle per avere, in cambio, il reddito di cittadinanza! Ora, a parte il fatto che il reddito di cittadinanza è uno strumento importante che non va certo etichettato – peraltro con atteggiamento snobistico – come assistenzialismo, va detto che non può certo essere questa la sola unità di misura per spiegare una vittoria elettorale di ampia portata. A meno che nella Lombardia un po’ leghista, un po’ berlusconiana, quasi sempre snob non abbiano deciso che qui al Sud siamo tutti degli accattoni! Ma è proprio così? E il civismo portato avanti da migliaia di cittadini in tanti piccoli e grandi centri del Sud grazie al Movimento 5 Stelle? L’amore per i luoghi in cui si vive? Le mille battaglie di questi anni contro l’abbandono del mare, delle spiagge, delle periferie? E ancora: le battaglie per la valorizzazione delle energie alternative? Le battaglie contro le discariche e gli inceneritori, in favore della raccolta differenziata dei rifiuti? Le battaglie per la tutela del verde pubblico? Queste cose non contano, vero? E che dire dell’inquinamento provocato dalle industrie che lavorano gli idrocarburi presenti nel Sud, dalla Basilicata alla Sicilia? Ne vogliamo parlare? E che dire delle trivelle che ‘infestano’ il Canale di Sicilia? Siccome non ne parla spesso la RAI – che al massimo va a fare le ‘bucce’ alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per scovare le pecche, comprese quelle che poi svaniscono nel nulla – e siccome non ne scrive il Corriere, questi fatti non esistono? Non ci sembra. Insomma, secondo questi signori, qui al Sud, dopo la vittoria di Di Maio e del Movimento 5 Stelle, siamo tutti in fila ad aspettare il reddito di cittadinanza? Poi magari scopriamo che il Movimento 5 Stelle, o meglio, che i parlamentari nazionali del Movimento 5 Stelle sono stati gli unici a seguire e ad appoggiare la battaglia portata avanti, nelle Regioni del Sud, da GranoSalus: battaglia sposata da questo blog per la difesa del grano duro, eccellenza dell’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia. Battaglia durissima, contro le navi che continuano a scaricare in tanti porti italiani grano estero che arriva da chissà dove, anche dal Canada: e, in questo caso, grano duro maturato, magari, a colpi di glifosato, magari impreziosito dalla presenza di Micotossine DON. Sapete, direttore e vice direttore del Corriere della Sera? I parlamentari nazionali grillini si sono anche impegnati a far approvare dal Parlamento la legge sulla CUN, la Commissione Unica Nazionale che dovrebbe porre fine alla vergognosa speculazione al ribasso che danneggia il grano duro del Sud Italia. Certo, poi il Governo nazionale del PD – quello di Renzi, di Gentiloni e del Ministro delle Risorse agricole, Maurizio Martina – si è guardato bene dall’applicare questa legge: e infatti il Partito Democratico, nelle Regioni del Mezzogiorno dove si produce il grano duro, dalla Puglia alla Basilicata alla Sicilia – ha preso tanti voti… Questi signori che da Milano pontificano sul voto nel Sud hanno mai sentito parlare della Capitanata, del pane di Matera, della Valle del Dittaino in Sicilia? Lo sanno che i protagonisti di GranoSalus – con in testa Saverio De Bonis, ma non solo lui – e l’editore di questo blog, Franco Busalacchi, sono stati citati in Tribunale, a Roma, dalle grandi multinazionali che producono pasta in Italia? Cioè da quelle multinazionali che non riescono proprio a ‘digerire’ – è il caso di dirlo – la battaglia in favore del grano duro del Sud, per una pasta senza contaminanti? Lo sanno che, per ben due volta, il Tribunale ha dato ragione a GranoSalus e a I Nuovi Vespri? E’ un caso che Saverio De Bonis sia stato candidato nel collegio del Senato della Basilicata, nel Movimento 5 Stelle, e sia stato eletto? Dietro la vittoria dei grillini al Sud – in tutto il Sud Italia – c’è solo il reddito di cittadinanza o ci sono tante altre cose che, magari, stando seduti dietro una scrivania a Milano, o dagli studi della RAI, non si vedono?

Basta sminuire il voto del Sud. Il successo 5stelle non c’entra col reddito di cittadinanza, scrive il 7 marzo 2018 Alessandro Cannavale, Ingegnere e blogger, su "Il Fatto Quotidiano". Per l’ennesima volta, il voto dei cittadini italiani del Sud viene marchiato da certi analisti che puntano a sminuire la gravità del senso politico che esso sottende. Si tende a delegittimarlo, privandolo di senso, con una spiegazione artefatta e semplicistica e, contemporaneamente, offensiva e razzista. Vado al sodo: alcuni commentatori hanno sostenuto, ancora in piena maratona elettorale, che il successo abnorme del Movimento 5 Stelle al Sud si spieghi, prioritariamente, con il sostegno belluino e incondizionato di milioni di nullafacenti, disoccupati, sottoccupati ed evasori incalliti, che avrebbero così votato soltanto per garantirsi il lauto bonifico del reddito di cittadinanza. Consentitemelo: è la solita narrazione becera e distorta del Sud, costruita in fretta e furia per nascondere tonnellate di polvere (anni di errori e fallimenti) sotto il tappeto dell’ipocrisia. Che offende, senza neanche cogliere l’enormità di certe affermazioni. Non intendo sostenere il Movimento Cinque Stelle, al quale neanche appartengo, ma solo manifestare la personale insofferenza verso questo modo stereotipato di rapportarsi al Sud del paese. Una lettura banalizzante, dal fondamento tanto discriminatorio quanto banale. Che dimostra, ancora una volta, quanto gli “esperti della politica” siano tronfi e lontani anni luce dal paese che vive e lavora nell’Italia del 2018, ridotti a illustrare una miope percezione dalla comoda poltrona di un salotto televisivo. Simili considerazioni potrebbero forse trovare spazio in una conversazione da bar, o tra amici, in una stanza. Ma sarebbero assolutamente indegne di trovare albergo sulle reti televisive generaliste. Davanti a milioni di spettatori. Senza un bel bollino rosso. Per la vergogna. Analoghi tentativi di mistificazione, se ricordate, furono fatti dopo il tracollo della riforma costituzionale, che ebbe al Sud lo stesso indiscutibile responso dalle urne. Eppure, in quel caso, il colpo alla nuca della riforma fu dato senza neanche un ritorno economico. Come mai? Cosa spinse questi loschi meridionali a difendere la Costituzione senza neanche un bonifico, che so, o almeno 80 euro in busta paga? E allora, perché sottrarre a un voto liberamente espresso la dignità di una piena espressione della volontà degli elettori? Peraltro, val la pena di ricordarlo, i Cinquestelle parlano da anni di reddito di cittadinanza, ma solo quest’anno il risultato politico è così eclatante. In verità, gli analisti, i commentatori e tutti coloro che col proprio mandato politico hanno tradito la rappresentanza di istanze sociali di milioni di persone, oggi cercano un’impudica foglia di fico per giustificare una debacle che ha ben altre spiegazioni: i meridionali si devono quotidianamente confrontare con i disagi di servizi sanitari sempre più scadenti, servizi ferroviari in dismissione, università sempre più sottofinanziate, reddito pro capite da post-conflitto mondiale (in termini di rapporto col centro nord). Chi si parla addosso nei salotti dimentica colpevolmente che la metà dei poveri (in crescita anche nell’ultimo biennio) si trova al Sud. Se a questi signori si avvicinasse un povero vero, forse reagirebbero vaporizzando una nuvoletta di profumo francese. L’elettorato, tutto questo, lo vive e lo sente sulla propria pelle, con buona pace di certi personaggi. Torno a ribadirlo, anche stavolta: il Sud ha un ruolo importante nel futuro di questo paese. E i propugnatori del ritardo antropologico studino bene i dati del paese reale prima di propalare idiozie d’ispirazione tardo-lombrosiana.

Elezioni e reddito di cittadinanza, Prestigiacomo: “I siciliani etichettati come un popolo di un fannulloni”. Elezioni, Prestigiacomo: “Sbagliato a dire che al nord ha vinto il centrodestra per la flat tax e al sud i grillini per il reddito di cittadinanza”, scrive il 6 marzo 2018 Serena Guzzone su "Stretto Web". “Sta passando su molti media e nelle analisi di alcuni politici una lettura “sociologica” del voto di domenica che trovo sbagliata nella sostanza, ingiusta e anti meridionalista nei toni. Mi riferisco a chi dice che al nord ha vinto il centrodestra per la flat tax e al sud i grillini per il reddito di cittadinanza. Chi racconta così l’esito delle elezioni di fatto omologa tutto il sud in un popolo di fannulloni che vogliono essere pagati per non lavorare. Se si vive nell’Italia meridionale, se si è fatta, come me, la campagna elettorale nei collegi della Sicilia si è consapevoli invece di una realtà molto diversa. I cinque-stelle hanno vinto, con le percentuali bulgare che conosciamo, non per una adesione diffusa al loro programma, non per la chimera del reddito di cittadinanza. Il voto grillino al sud, massacrato dagli ultimi cinque anni di governi nazionali e regionali di sinistra, è stato un voto di protesta secco, senza se e senza ma. E senza nemmeno conoscere candidati e contenuti della politica dei pentastellati. E’ stato il voto di chi ha messo nello stesso calderone tutta la politica e tutti i politici ed ha espresso il “vaffa” generico nel suo contenitore naturale: il movimento di Grillo. Ignorare questo dato di fatto, questa condizione di disperazione e di rigetto della politica, che chi vive al sud conosce perfettamente, significa non capire cosa è successo da Roma in giù. Significa cercare attenuanti, scuse, motivazioni di comodo e sbrigative per un risultato elettorale che invece deve spingerci tutti ad una riflessione profonda- è quanto dichiara in una nota la neo eletta con Forza Italia, Stefania Prestigiacomo.

Pino Aprile: «Il Sud ha votato in blocco i Cinque Stelle perché si è rotto i coglioni». «Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente lo stesso dell’ex Regno delle due Sicilie». Lo scrittore Pino Aprile, esperto della questione meridionale, non pare stupito dal voto. «È il risultato di 150 anni di saccheggi. Voteremmo anche belzebù pur di mandare via questi politici», scrive Marco Sarti su "L’Inkiesta" il 6 Marzo 2018. «Credo che il Sud non poteva mandare un messaggio più chiaro di così. Che dice, stavolta l’avranno capito?». Giornalista e scrittore, Pino Aprile commenta il risultato elettorale senza stupirsi troppo. L’ondata grillina che ha travolto il Mezzogiorno se l’aspettava. E dire che l’argomento lo conosce bene: sul Meridione ha pubblicato una lunga serie di successi editoriali. Da Terroni a Il Sud puzza. Storia di vergogna e di orgoglio. Fino agli ultimi Terroni ’ndernescional e Carnefici.

Stavolta il Sud ha votato in blocco per i Cinque Stelle. Un risultato incredibile: in alcune regioni si sfiora il 50 per cento, in qualche città si va persino oltre. In Puglia, Sicilia e Sardegna i grillini fanno cappotto, conquistando tutti i collegi disponibili. Davvero si aspettava un’affermazione simile?

«Sì, me l’aspettavo. È la stessa risposta che il Sud ha dato al referendum costituzionale, già allora invitai ad analizzare quel dato. C’è un Mezzogiorno all’opposizione. E questo perché negli ultimi anni ha subito un saccheggio sfrenato. Alcuni numeri fanno spavento. In dieci anni, solo sulla spesa ordinaria, lo Stato italiano ha sottratto al Meridione 850 miliardi di euro. Sono circa 130-140 ponti sullo Stretto. Ogni anno i governi centrali assegnano al Sud, rispetto al Nord, 6 miliardi e mezzo in meno per gli investimenti. È in corso un saccheggio epocale, anche di risorse umane. Ogni anno vanno via almeno 50mila giovani meridionali che qui sono nati, cresciuti, hanno studiato e si sono formati: un impoverimento di uomini e valori. E queste sono le risposte».

In queste ore c’è un’immagine che colpisce. La rappresentazione cromatica dei risultati elettorali, regione per regione, dipinge un’Italia spaccata in due. A Nord il blu del centrodestra, da Roma in giù il giallo dei Cinque Stelle. Il nostro è davvero un Paese diviso?

«Ma l’Italia non è mai stata unita, oggi è solo più chiaro. Questa è la rappresentazione del Paese fin dal giorno successivo alla dichiarazione dell’unità. Basta vedere quello che scriveva Francesco Saverio Nitti, grandissimo economista, docente universitario e presidente del Consiglio: il saccheggio delle risorse meridionali è avvenuto dal 17 marzo 1861. Da allora non è cambiato nulla. Sono cambiati solo i trucchi con cui i governi ci nascondono questi furti. Sapete come vengono calcolati i finanziamenti per la manutenzione stradale nelle città? Non in base ai chilometri o al numero delle auto che le percorrono. Ma in base al numero dei dipendenti di aziende private sul territorio. E così Napoli, che ha il doppio delle strade rispetto a Milano, riceve la metà dei fondi. E i finanziamenti per gli asili nido? Vengono garantiti in base al numero degli asili già presenti. Così si aiuta chi ha già le strutture, ma non chi ha più bambini».

Si parla di elezioni ed ecco riemergere la vecchia questione meridionale.

«Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente quello dell’ex regno delle Due Sicilie. Non è mica un caso. Quando nel 1720 il Piemonte acquisì la Sardegna grazie ad alcuni trattati internazionali, venne stilato un piano per la colonizzazione dell’isola. La Sardegna è stata spogliata di tutto. I sardi non avevano neppure il diritto di occupare posti nella pubblica amministrazione. Quando nel 1860 i piemontesi sono arrivati al Sud, hanno applicato lo stesso piano. Da quel momento le nostre terre sono state private di porti, strade, infrastrutture. È un disegno politico che ha un secolo e mezzo di storia, il voto di domenica lo rende solo più visibile. Ma noi nel Mezzogiorno lo conosciamo da tempo. E adesso ci siamo rotti i coglioni. E adesso lei si stupisce perché il Mezzogiorno vota Cinque Stelle? Voterebbe anche belzebù pur di non votare quelli che già ci sono. E si dovrebbe ringraziare che questo è un Paese civile, altrove sarebbero già andati prenderli con i forconi».

Ma perché avete votato proprio i Cinque Stelle, cosa lega i grillini al Meridione? O si tratta solo di un voto antisistema?

«Tutte le persone a cui lo chiedo mi dicono: “Peggio di quelli che ci sono adesso, non possono essere”. In questi anni abbiamo visto fondi europei rastrellati dai governi di centrodestra e portati al Nord. Un miliardo destinato alla ricerca finito a finanziare le compagnie di navigazione del lago di Garda, l’illuminazione del Veneto e le industrie d’armi del bresciano. Le multe per i truffatori delle quote latte, nel Nord, sono state pagate con i soldi destinati al Sud. Si parla di almeno 4 miliardi. Poi è arrivato il centrosinistra e sono riusciti a fare anche peggio. I famosi ottanta euro di Matteo Renzi sono una follia. Li hanno stanziati per aiutare le famiglie in difficoltà, ma li prende solo chi ha già uno stipendio medio basso. Chi non ce l’ha muore di fame. Così i sottopagati e i disoccupati del Meridione sono stati esclusi e gli ottanta euro sono finiti tutti al Nord. Adesso lei si stupisce perché nel Mezzogiorno si vota Cinque Stelle? Voterebbero anche belzebù pur di non votare quelli che già ci sono. E si dovrebbe ringraziare che questo è un Paese civile, altrove sarebbero già andati prenderli con i forconi».

Non si arrabbi. Però qualcuno dice che al Sud la gente ha votato M5S perché invogliata dal reddito di cittadinanza.

«Ma questa è solo una carognata da disonesti. Fino ad oggi il reddito di cittadinanza lo hanno preso solo le ricche industrie del Nord, che sono assistite da sempre con i soldi pubblici. Le faccio un esempio: nel 2015 solo l’Expo di Milano è stato finanziato con una quindicina di miliardi, ed è stato uno dei più grandi flop di sempre. Ci sono voluti nove anni per la realizzazione, e quando è stato inaugurato non erano ancora ultimati il 40 per cento dei padiglioni. Bene, esattamente un secolo prima veniva progettato dall’ingegner Camillo Rosalba l’acquedotto pugliese, il più lungo del mondo. Anche allora ci vollero nove anni per la costruzione. Ma nel 1915 l’acqua del fiume Sele già zampillava nella fontana di piazza Umberto a Bari. Ecco, queste sono le differenze. E non parliamo del Mose di Venezia, uno dei principali scandali italiani. Oppure del Tav in Piemonte: nella tratta italiana la realizzazione di ogni chilometro ci costa 10-13 volte in più di quanto avviene in Francia. Chi sa il perché? Un governo tra Cinque Stelle e Lega non sarebbe un tradimento delle istanze meridionaliste. Sarebbe semplicemente un suicidio. Conosco bene qualche bravo psichiatra: se i grillini vogliono stringere un’intesa con Salvini posso aiutarli».

Torniamo al reddito di cittadinanza dei grillini…

«Il reddito di cittadinanza proposto dai Cinque stelle non significa regalare soldi. Il denaro è vincolato alla formazione professionale, l’assegno viene sospeso se si rifiutano tre offerte di impiego. E non prevede aiuti specifici al Sud, ma ovunque ci sia una persona senza lavoro. È un modo per rimettere l’economia in moto. In Francia è stata introdotta una misura simile per sostenere le famiglie numerose, e in pochi anni l’investimento è tornato con gli interessi. Se tantissimi usufruiranno di questa misura al Sud, non è certo per scelta loro. Ma perché, per tutto quello che abbiamo già detto, dopo anni di saccheggio oggi si trovano in quella condizione. Forse con il reddito di cittadinanza i giovani potranno rimanere qui, senza essere costretti a trasferirsi al Nord».

Nel Mezzogiorno non ci sono solo i Cinque Stelle, però. Stavolta è arrivata anche la Lega di Matteo Salvini. Le percentuali sono interessanti: in alcune regioni del Meridione il Carroccio arriva al sette per cento. Che ne pensa?

«È un dato normalissimo. Intorno al progetto politico di Salvini ci sono biechi opportunisti, che cercano solo un partito per ricandidarsi. E poi ci sono gli elettori affascinati dal messaggio di destra della Lega, considerata il partito lepenista d’Italia. Ma c’è anche un altro gruppo di persone. La dinamica è stata bene analizzata dallo psicanalista Luigi Zoja, che ha studiato le società latinoamericane dopo la colonizzazione. Bene, si è scoperto che le popolazioni sottomesse maturano uno stato di dipendenza dal proprio carnefice quasi istantaneo. Quando si è investiti da una violenza troppo grande, la mente umana si difende negando se stessa. Si diventa oggetto nelle mani dell’oppressore. Vede, nella specie umana c’è una pulsione, tra le più forti, definita “ipotesi del mondo giusto”. Ognuno si convince di avere quello che merita: il povero, la povertà. La donna maltrattata, le botte del marito. Nel Mezzogiorno la nostra condizione è stata indotta da un’aggressione e un genocidio di un secolo e mezzo fa. E non uso parole a caso. Il genocidio consiste proprio nella cancellazione dell’identità di un popolo».

Adesso però c’è il rischio di un governo tra Cinque Stelle e Lega. Sarebbe l’unico ad avere una maggioranza in Parlamento. Quello dei grillini sarebbe un tradimento delle istanze meridionali?

«No, sarebbe semplicemente un suicidio. Conosco bene qualche bravo psichiatra. Se i Cinque Stelle hanno in mente di dare vita a un governo con la Lega posso metterli in contatto con questi medici».

PENTASTELLATI? SONO SOLO I NUOVI COMUNISTI EVOLUTI...

Il decreto Dignità? Di Maio l'ha copiato dal saggio comunista scritto da Rodotà. Di Maio ha copiato il saggio "La rivoluzione della dignità" di Rodotà. Il testo? Un mix di dirigismo e assistenzialismo, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 17/07/2018, su "Il Giornale". Una volta al potere, il Movimento 5 stelle, che si chiamava fuori dalle vecchie categorie della politica, ha dovuto prendere una direzione. E quindi avanti tutta a sinistra. In base a quali ideali? Qual è la fonte d'ispirazione? Forse il nome del decreto Dignità, bandiera di Luigi Di Maio, può offrire qualche indicazione utile. Ricapitoliamo le mosse del ministro del Lavoro e dei sodali di partito, pardon Movimento. Il decreto Dignità ha mandato in bestia artigiani e imprenditori: rischia di far perdere posti di lavoro. Il taglio delle pensioni si abbatterà su chi incassa dai 4mila euro in su. La lotta contro la casta si è ridotta all'atto demagogico di tagliare i vitalizi a pochi ex parlamentari. La proposta di chiudere i negozi alla domenica ha già scatenato la reazione dei commercianti. La prossima battaglia annunciata da Roberto Fico, presidente della Camera, è sui cosiddetti beni comuni, come l'acqua, che devono restare pubblici anche se allo Stato non conviene. Il tutto in attesa del reddito di cittadinanza, provvedimento all'insegna del puro assistenzialismo. La Lega, per ora, si «accontenta» di incassare il consenso ottenuto con la lotta all'immigrazione selvaggia e per il resto lascia mano libera all'alleato. Ma presto finirà l'estate, gli sbarchi diminuiranno e Matteo Salvini rischia di restare col cerino in mano, visto che in campo economico la Lega ha dato l'impressione di non toccare palla. La rivoluzione della dignità (La scuola di Pitagora, pagg. 38, euro 4,5) è titolo di un breve ma intenso saggio del giurista Stefano Rodotà. Uscito nel 2013 è la trascrizione di un discorso pronunciato tre anni prima. Rodotà (1933-2017) era stato designato dai 5 stelle alla carica di presidente della Repubblica ed è tuttora considerato un maestro dalle alte sfere del Movimento. Anche per questo, il suo pensiero merita attenzione. Nella prima parte del saggio, Rodotà ripercorre il cammino della parola «dignità» nelle carte costituzionali. Si va dalla Rivoluzione francese e si approda alla Carta dei diritti fondamentali emanata dall'Unione europea, passando per la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, il Codice di Napoleone, la Costituzione italiana, quella tedesca, il preambolo della Dichiarazione dell'Onu. Secondo Rodotà, la dignità, unione di libertà e uguaglianza, deve essere il faro che illumina il cammino della politica nel terzo millennio. La piena realizzazione della dignità è ostacolata «da una logica di mercato che, in nome della produttività e degli imperativi della globalizzazione, prosciuga i diritti». Il lavoro è il campo principale in cui operare in nome della dignità. Lo Stato deve vigilare «sulla compatibilità dell'attività d'impresa con la dignità» e creare «un contesto all'interno del quale le decisioni possano essere effettivamente libere». È dovere pubblico rimuovere tutti «gli ostacoli di fatto». L'imprenditore «non può svolgere la sua attività in contrasto con la dignità». In generale, il datore di lavoro deve corrispondere «la retribuzione necessaria per un'esistenza libera e dignitosa». Si possono individuare casi limite (tipo i rider citati da Di Maio) e partire da quelli. Anche l'attribuzione dei diritti avviene in nome della dignità intesa come «fondamento concreto della nuova accezione di cittadinanza» che appartiene «alla persona quale che sia la sua condizione e il luogo dove si trova». Le istituzioni hanno il dovere di mettere in atto «innovazioni legislative» anche in campo sociale, ad esempio riconoscendo pari diritti «alle unioni di fatto, anche tra persone dello stesso sesso». Non sappiamo se il pamphlet sia alla base delle mosse pentastellate. Di certo, le idee sono assai simili. Statalismo, dirigismo, clima ostile all'impresa, rifiuto totale delle logiche di mercato, moltiplicazione dei diritti gentilmente concessi dalle istituzioni. Unite al cocktail le teorie sulla decrescita felice e il giustizialismo. Shakerate. Ed ecco servito il comunismo a 5 stelle in nome della dignità, cioè dell'ordine morale deciso per legge da Luigi Di Maio.

Berlusconi avverte Salvini: i grillini sfasciano l'Italia. L’ex premier avverte il ministro dell’Interno: "Per guidare il Paese bisogna saper affrontare i problemi con sobrietà". E sul ritorno in campo: "Il vulnus alla democrazia che ha impedito di candidarmi va sanato", scrive Alessandro Sallusti, Domenica 15/07/2018, su "Il Giornale".

Presidente, tempi duri. Che effetto le ha fatto vedere Ronaldo andare alla Juve?

«Da milanista un effetto terribile. Ma in verità, l’arrivo nel campionato italiano di un campione assoluto come Cristiano Ronaldo è una buona notizia non solo per la Juventus, ma per l’intero calcio italiano. Mi congratulo quindi con la Juve, con i suoi dirigenti e con i suoi tifosi».

Davvero ha deciso di candidarsi alle prossime elezioni europee?

«Ritengo che il vulnus alla democrazia che ha impedito per sei anni agli elettori di Forza Italia di votare per il loro leader vada assolutamente sanato. La mia incandidabilità, basata su una sentenza assurda e pessima e su una legge vergognosa, ha gravemente penalizzato Forza Italia in questi anni, e soprattutto alle ultime elezioni, che sono state un confronto diretto fra i leader».

Sta nascendo un nuovo asse tra Italia, Germania e Austria, un asse sostanzialmente populista e uno dei soci è il suo alleato Salvini. Cosa ne pensa?

«Mi sembra una semplificazione. Parliamo di due paesi solidamente democratici, guidati da partiti politici che come noi fanno parte del Ppe. Il populismo è un’altra cosa. Va detto però che i nostri interessi, in materia di immigrazione, non è affatto scontato coincidano con quelli di paesi che pensano a bloccare la loro frontiera nazionale, più che ad aiutarci a gestire quello che succede nella frontiera meridionale dell’Europa».

Leggo alcuni retroscena secondo cui la Lega si starebbe organizzando per rompere l’alleanza e correre da sola già dalle prossime elezioni amministrative. È una possibilità realistica?

«Sarebbe realistica solo se la Lega avesse deciso di perdere. E Matteo Salvini non mi sembra sia un leader a cui piace perdere».

Forza Italia. Si riparte da Tajani. Qual è la rotta?

«Tajani non è soltanto un mio amico e uno dei fondatori di Forza Italia. È uno dei leader politici più rispettati d’Europa e - come presidente del Parlamento europeo - guida l’unica istituzione d’Europa espressione diretta dei cittadini. Cominciare da lui il processo di rinnovamento di Forza Italia ha un significato politico preciso: siamo in Europa e vogliamo restarci, siamo orgogliosamente nel Ppe, però chiediamo all’Europa un profondo cambio di passo».

Ad esempio?

«Vogliamo un’Europa solidale al suo interno e non prigioniera degli egoismi, un grande spazio di libertà e non una gabbia governata dalle burocrazie di Bruxelles, una comunità di popoli basata su valori condivisi, con una politica estera e di difesa comune che le permetteranno di esercitare un ruolo importante nel mondo».

Con un Matteo Salvini in costante campagna elettorale qual è lo spazio che vede possibile rioccupare, in parlamento e fuori?

«Questo è forse il principale errore di Salvini: continua a parlare e ad agire come se fosse in campagna elettorale. Governare è qualcosa di diverso: richiede di saper affrontare problemi complessi, con sobrietà, concretezza, senso delle istituzioni. La voglia di fare notizia troppo spesso prevale. Questo alla lunga non paga, neppure in termini di consenso. Comunque non ci interessa contendere i voti ad una forza politica del centrodestra».

Cosa intendete fare?

«A noi interessa parlare ad un’altra Italia, quella che chiede soluzioni concrete e non slogan, competenza e non effetti speciali, risultati e non semplici annunci: l’Italia fattiva, sobria, laboriosa, concreta, l’Italia liberale, moderata, equilibrata, l’Italia che lavora e che crea lavoro. Un’Italia, quella alla quale ci rivolgiamo, che nelle ultime elezioni si è distratta, che ha sbagliato le scelte, che non è andata al voto ma che non è affatto scomparsa».

Pensa che Salvini si stia facendo carico, come promesso, anche degli interessi di tutto il centrodestra?

«Dai primi provvedimenti del governo non sembrerebbe. Lo capiremo presto: vedremo se la Lega vorrà e saprà bloccare o almeno cambiare radicalmente il cosiddetto Decreto Dignità, che è letale per chi lavora e per chi crea lavoro, per tutte le categorie produttive».

Crede che la flat tax vedrà mai la luce con questo governo?

«Ho seri dubbi: la flat tax è incompatibile con i programmi pauperisti dei Cinque Stelle, come il cosiddetto reddito di cittadinanza. Intendo naturalmente una flat tax vera, che per funzionare deve rivolgersi a tutti, famiglie e imprese, e deve consistere in una sola aliquota».

L’Europa insiste che non abbiamo i conti in ordine e abbassa le nostre previsioni di crescita. Preoccupato?

«Vorrei che l’Europa avesse un atteggiamento meno giudicante e più solidale con il nostro Paese, ma un dato è innegabile: una nazione che non ha i conti in ordine è molto più debole nei confronti dei partner europei. Il fatto è che non si capisce chi governa davvero, chi deciderà il futuro dei conti pubblici italiani: mentre il premier Conte sembra scomparso, il ministro Tria si sforza di rassicurare tutti, ma i programmi dei Cinque Stelle sono fatti per aprire una voragine nei conti che si potrà colmare solo a colpi di nuove tasse. Una ricetta che l’Italia non può assolutamente permettersi».

Il decreto Dignità l’ha fatta infuriare....

«Il decreto Dignità è la dimostrazione che Di Maio non conosce nulla del mondo del lavoro. Non avrei mai creduto, nell’Italia del 2018, di trovarmi di fronte a idee che sembrano uscite dall’archivio polveroso della storia, dall’ideologia comunista fallita nel ’900. Di Maio è giovane solo anagraficamente, politicamente risulta vecchissimo. O forse semplicemente non sa di cosa parla, non si rende conto delle conseguenze di quello che dice».

Forza Italia voterà un eventuale decreto sul taglio delle pensioni della classe media?

«Tagliare le pensioni sarebbe semplicemente una follia. Ma il fatto stesso che se ne parli dimostra che avevamo ragione, quando dicevamo che i Cinque Stelle hanno come unico collante ideologico il pauperismo, l’invidia sociale, l’odio di classe, a cui si aggiunge un giustizialismo inquietante per i diritti e la libertà di tutti. Tagliare le pensioni significa rubare ai cittadini una parte dei redditi guadagnati in una vita di lavoro, e percepiti in modo differito in età avanzata».

E sulla chiusura festiva dei negozi? 

«Altra misura dirigista: io comprendo si possa auspicare che vi sia un’organizzazione degli orari e dei giorni di apertura dei negozi per garantire il diritto al giusto riposo e per non disunire le famiglie. Ma questi obiettivi non vanno realizzati con un provvedimento che limita la libertà di tutti e che rende molto più difficile per cittadini e turisti l’accesso alle attività commerciali. Oltre tutto, in un momento nel quale la domanda interna stenta a decollare, deprimere i consumi non mi sembra un buon modo per far ripartire l’economia».

Lei ha contribuito in modo fondamentale a sconfiggere il comunismo. Pensa che stia rientrando in gioco dalla finestra sotto mentite spoglie?

«I Cinque Stelle si dipingono come un movimento apolitico, ma in realtà hanno raccolto tutti i peggiori cascami delle ideologie di sinistra, dalla cultura anti-industriale all’invidia sociale al giustizialismo e all’indifferenza per le libertà del cittadino. Il blocco delle grandi opere, la ventilata chiusura dell’Ilva, i provvedimenti contro la flessibilità dell’impiego, la misura assistenziale del reddito di cittadinanza sono solo i primi esempi: un nuovo disastroso ’68 che con cinquant’anni di ritardo si sta abbattendo sul nostro paese».

In questi giorni sono rispuntate sue vecchie foto che la ritraggono mentre si commuove davanti agli sbarchi dell’esodo albanese. Qual è la sua posizione su quello che sta accadendo oggi nei nostri porti?

«Io credo che un cambio di passo in materia di immigrazione sia necessario. Ma la linea della fermezza va applicata senza mai perdere di vista i principi di umanità che sono nella nostra cultura».

Cioè?

«Il destino di esseri umani che sono vittime di un infame traffico e che rischiano la vita aggrappandosi ad un’illusione di un domani migliore per sé e per i propri figli merita rispetto. La vita e la dignità delle persone vengono prima di tutto. Il cinismo davanti ai lutti e alle sofferenze non è tollerabile. Lo dice chi ha guidato l’unico governo che era riuscito davvero a bloccare gli sbarchi».

Lei ha sempre governato con un occhio ai sondaggi. Oggi i sondaggi dicono che la linea Salvini paga...

«Credo stia beneficiando della “luna di miele” della quale tutti i governi godono nei primi mesi di lavoro. Poi però gli elettori si aspettano risultati concreti, e i risultati concreti non si ottengono con le promesse né con le esibizioni muscolari. Ben presto saranno i fatti e non gli annunci a orientare gli umori dei cittadini: quello sarà il nostro momento».

Prendiamo i tagli dei vecchi vitalizi. Lei è d’accordo?

Sono un imbroglio ai danni degli italiani, tipico dei Cinque Stelle. I vitalizi dei parlamentari erano già stati aboliti dalla nostra maggioranza nel 2011. Oggi si sono solo cancellati i diritti di chi, essendo stato in Parlamento prima del 2011, godeva, come è logico, del regime precedente. Questo è un principio giuridico fondamentale in uno stato di diritto, in ogni paese civile: non si possono fare leggi retroattive, non si possono cambiare le regole del passato, sulle quali le persone hanno impostato la loro vita. In uno Stato di diritto i diritti acquisiti non si possono toccare».

Giudizio negativo, insomma.

«Il provvedimento preso dalla Camera dei deputati è allo stesso tempo inutile, perché antigiuridico e quindi destinato ad essere cancellato dalla Corte costituzionale o dalla Cedu, e ignobile, meschino, perché riduce la pensione, anche dell’80%, a persone di novant’anni o a vedove che non hanno altro sostentamento. Non tocca affatto invece i privilegi dei politici in carica oggi. Per questo Forza Italia si è astenuta: giusto combattere i privilegi, vergognosa la formula adottata per farlo».

Di Maio non ha fatto mistero di volere mettere mano alla Rai e pure a Mediaset. Preoccupato?

«Più che preoccupato: se accadesse davvero l’Italia cesserebbe di essere un paese libero e una vera democrazia».

Faccia una previsione: quanto dura il governo Cinquestelle-Lega?

«Durerà fino a quando Salvini non si renderà conto che permettere a Di Maio di massacrare l’Italia produttiva non è solo dannoso per il paese, ma anche elettoralmente disastroso per la Lega e per i leghisti».

Programmi zero. Ideologia cento. E quindi la differenza, in politica, la fa solo la capacità di governare, scrive Piero Sansonetti il 18 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Pare che Di Maio abbia cambiato il programma del suo movimento. Cioè che abbia sostituito quello che era stato approvato dal piccolo “esercito rousseau” – la cosiddetta base del partito – con un programma più compatibile con quello del Pd ma anche con quello della Lega. Del resto di Maio aveva già detto che per lui Lega e Pd pari sono, e che allearsi con l’una o con l’altro avrebbe cambiato poco. Si possono usare queste informazioni per costruire nuove polemiche oppure per ragionare. Proviamo a ragionare. Come mai i programmi contano sempre di meno nella politica italiana di oggi? Qualcuno dice: perché destra e sinistra non ci sono più, non ci sono più le ideologie. Se i programmi valgono zero quel che conta è l’ideologia. E quindi la differenza, in politica, la fa solo la capacità di governare. Non è così. Per due ragioni. La prima è che i risultati elettorali degli ultimi anni, non solo in Italia, dimostrano che a venir premiato non è mai chi governa ( a prescindere dai risultati del suo governo), persino in Germania, dove la Merkel resiste, chi governa perde voti e il potere logora chi ce l’ha, a differenza da quello che succedeva venticinque anni fa. E poi c’è la seconda ragione, che è quella fondamentale: non è vero che destra e sinistra non ci sono più e non è vero che le ideologie sono morte. Destra e sinistra continuano ad esistere, e come in passato si caratterizzano per il giudizio diverso che danno sul capitalismo e sulla necessità – o no – di riformarlo. Continua ad esistere – anche se è molto debole in questa fase – un’idea e uno spazio riformista che esprime la necessità di riformare il capitalismo e di ridurre il potere del mercato. E questa è la sinistra. Così come continua ad esistere una destra, che invece pensa che il capitalismo possa prevedere delle riforme, ma non possa essere riformato esso stesso, perché è un recipiente che contiene tutto: modernità, democrazia, diritto, sviluppo. E che tutto questo tutto possa vivere solo se accetta di essere subordinato al mercato e alle sue regole. A me qui non interessa dire se sia meglio l’idea della destra o quella della sinistra (magari un pochino si possono indovinare le mie simpatie, ma questo non conta nulla) solo vorrei provare a spiegare che dare per morte destra e sinistra è una moda, e talvolta può anche essere uno strumento utile per rafforzare il dialogo, e superare vecchi pregiudizi, ma non è la verità delle cose. E’ la verità, invece, che destra e sinistra non sono più ideologie ma semplici programmi politici. Tuttavia le ideologie non sono morte: sono trsmigrate. Ecco qui sta il punto: proclamare la fine di destra e sinistra è utile e necessario – per azzerare l’importanza dei programmi, ma in questo modo si azzera anche la politica, e in ultima analisi la democrazia. E si trasforma il tutto in pura e semplice lotta per il potere. Siccome però una pura e semplice lotta per il potere ha le gambe corte, se non ci sono idee, emozioni, sentimenti, allora vengono resuscitate le ideologie. Ma non più quella antiche, fondate su ipotesi, studi, teorie, conoscenze. Per esempio il comunismo, o il fascismo, o il patriottismo o l’internazionalismo. Le ideologie si trasformano in semplici aspirazioni di comportamento. L’ideologia diventa, ad esempio, la xenofobia, che è un surrogato del patriottismo. Un surrogato rovesciato al negativo. Ideologia è l’odio, l’ostilità, intesa come prova di fedeltà e di forza. Ideologia è l’onestismo, se posso inventare questa parola, che è una forma di giustizialismo appena un po’ meno cruenta. Prendete 5 Stelle e Lega. Sui programmi magari sono lontani. Ma quelli, appunto, contano poco. Sulle ideologie invece si incontrano, si assomigliano. Anche se c’è sempre un solco, che non sarà facile colmare: la Lega resta una forza politica assolutamente devota alla democrazia e alle sue regole. I 5 Stelle no. Non sarà facile risolvere questo problema. E’ il macigno che blocca la politica italiana.

La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle. Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un'eredità. Per adesso o per sempre? Scrivono S. Borghese, V. Fabbrini, L. Newman il 18 aprile 2018 su "L'Espresso". Dopo l'intervento di Paola Natalicchio della scorsa settimana, prosegue il dibattito sul destino della sinistra. Gli autori sono tre giovani ricercatori.

Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e di policy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da CasaPound. Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante. Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi. A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica. Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018. L’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è quindi rimasto sostanzialmente immutato in quest’ultimo quarto di secolo. L’elettorato, invece, no. I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra. I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città. Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24. Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti. Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramente non a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso. Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso. Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile, di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà. Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica, gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti. I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi. È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento.

La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi. I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment. Si tratta di idee tipiche della sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx, attuato poi attraverso la Comune di Parigi del 1871, nei primi Soviet e nei kibbutz israeliani. Alcune scelte lessicali adoperate dai Cinque Stelle – direttorio, Rousseau – sembrano voler ricondurre idealmente i processi di governance del Movimento allo spirito della rivoluzione francese. Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici. Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverlo ascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano. Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico. Tutto ciò è vero non solo a livello partitico madi classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanza propria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin. Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione è stato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo. Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista. Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista.

Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra. I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra, stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo. La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero. Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico. Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair. E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia. La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo. Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un Nicola Zingaretti o un Carlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e una base giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi. Gli autori:

Lorenzo Newman è Principal Consultant di Learn More, una società di consulenza. Ha scritto su istruzione, politica nazionale ed internazionale per Slate, Aspenia, Pagina99, Linkiesta e altri. Nel 2017 ha pubblicato il suo primo libro, Paura e Rischio in Italia, edito da Castelvecchi.

Salvatore Borghese è caporedattore di Youtrended è stato tra i fondatori di Quorum, un istituto di ricerca demoscopica. I suoi pezzi di analisi elettorale sono apparsi su Slate, Il Fatto Quotidiano, Il Mattino, La Stampa, e altri. Commenta spesso gli ultimi sondaggi su Rai 3 e La7.

Valeria Fabbrini è una ricercatrice economica specializzata nel monitoraggio e valutazione degli investimenti e della spesa pubblica. Su questi temi ha collaborato per sei anni la Presidenza del Consiglio dei Ministri e pubblicato numerosi articoli, saggi e una monografia. 

Così l'Imperatore Davide Casaleggio controlla il Movimento 5 Stelle. L'universo pentastellato è come una piramide: ci sono gli elettori militanti, i politici di Roma affamati di potere e il capo-azienda che nella penombra fa girare tutto. Tre livelli, non comunicanti fra loro, scrive Susanna Turco il 17 aprile 2018 su "L'Espresso". L'Imperatore per diritto dinastico non siede mai. Resta in piedi, nella penombra, appoggiato al muro al lato della platea delle Officine H di Ivrea, per l’intera durata dell’evento in memoria del padre, riceve la fiumana di gente che viene a rendergli omaggio. Pochi alla volta, ma per ore. Attivisti, amici, conoscenti, bambini, lobbisti, parlamentari. I più timidi approfittano del fatto che si trova lungo la traiettoria verso la toilette: andavo innocentemente in bagno e ops, ecco mi trovo davanti Davide Casaleggio, che sorpresa. Come folgorati sulla via di Damasco, comunicatori e piccoli imprenditori si alzano di scatto dalla poltroncina, startupper emergono dalla folla, inventori scartano di lato, si avvicinano e fanno il loro numero. C’è chi giunge le mani in segno di preghiera («dieci secondi soltanto»), chi consegna chiavette, biglietti da visita, raccomandazioni («con questi dovete parlarci»), strette di mano. Matteo si raccomanda per il suo caso personale, Giovanna vuol «ringraziare per tutto questo». Il formicaio è in piena attività. L’Imperatore annuisce, sorride, svia. Spegne qualsiasi domanda o assalto giornalistico, scatta soltanto quando vede una telecamera o macchina fotografica che lo stia puntando: solo allora fa passi veloci, allunga la mano a coprire l’obiettivo. Niente riprese, niente immagini. Non ne circolano, in effetti. Quando non è impegnato coi fan - o con l’esclusione ignobile di giornalisti scomodi - Davide Casaleggio chiacchiera coi pochi ammessi a dialogo: Luca Eleuteri, cofondatore e braccio destro in Casaleggio Associati, Enrica Sabadini, trentacinquenne astro in ascesa e new entry nell’associazione Rousseau dopo l’uscita di David Borrelli, qualcun altro che rifiuta esplicitamente di dichiarare anche solo il proprio nome di battesimo - alla faccia della trasparenza. Erano queste le scene della kermesse di Ivrea del 7 aprile per ricordare Gianroberto Casaleggio, il Fondatore. Un mondo a parte: mentre il magistrato Nino Di Matteo tra gli applausi scroscianti chiedeva si facesse chiarezza sulle stragi, Casaleggio jr confrontava la propria cover del telefonino con i più fidi (hanno tutti la stessa: chiara, con il disegno stilizzato di un palloncino rosso, dettaglio identitario-familiar-aziendale). Clap clap destinati dall’Imperatore all’ospite più atteso dagli attivisti grillini: tre. Più interessato alla psicologa Maria Rita Parsi e ai suoi video coi bambini. Alla fine della giornata ringrazierà soprattutto «il mio circolo subacqueo, che si è riversato in massa». Il sospetto è che delle analisi e tattiche sulle alleanze, o le dosi di antiberlusconismo più appropriate al momento storico, il giorno per giorno della scalata al governo, lo lascino integralmente indifferente. Il che è tutt’altro che un dettaglio, trattandosi del padrone del primo partito d’Italia.

Il formicaio. Ci sono luoghi in cui le cose si svelano. Ivrea è uno di questi. E l’esatta disposizione piramidale, stratificata, non comunicante del potere a Cinque stelle è la vera domina, l’elemento più rilevante, di Sum02, l’evento annuale organizzato dalla Associazione Gianroberto Casaleggio per commemorare il fondatore dell’Impero (oltre a tutto il resto, Gianluigi Nuzzi, che il Cielo lo perdoni, presenta dal palco chiamandolo «Sam», come si trattasse di inglese). Una visione d’insieme è impossibile - più che un mondo ordinato un formicaio in cui ciascuno ha a cuore un pezzettino, che gestisce in modo distinto, ma non scoordinato rispetto agli altri. Ci sono almeno tre livelli, in ordine non intercambiabile: l’Imperatore e la sua azienda, la politica e il circo che le gira intorno, gli iscritti e gli attivisti. E che è il capo - e non il leader politico - l’unico a contare davvero. L’evidenza è palmare. Ancora meglio adesso, che Beppe Grillo, il volto su cui una volta poggiava tutto, il nume tutelare del blog omonimo (che adesso si è ripreso), interviene giusto ogni tanto, in funzione di rassicurazione, selfie e grigliate - perfetto nei panni del Garante, così come da nuovo statuto M5S. Mentre a chi dagli ambienti di Forza Italia lo cerca - in virtù di passate collaborazioni - per trovare una interlocuzione finalizzata alla formazione del governo, il comico risponde: «Non ho idea di chi sia stato eletto, ti mando un contatto», e rinvia direttamente a Luigi Di Maio. Fine della fiera.

Il circo della politica. Conta Davide, dunque. Conta l’azienda, la rete d’intorno, e al limite la comunicazione che ad essa fa capo, cioè Rocco Casalino, intoccabile e intoccato trait d’union con i Palazzi di Roma. Il resto è avvolto in una vaghezza opaca che è una cifra costante: sono vaghi i rendiconti, sono vaghi i ruoli, resta vago persino il numero di iscritti alla Associazione Gianroberto Casaleggio, che pure si annuncia «raddoppiato rispetto allo scorso anno» (raddoppiato rispetto a che cifra? «Non è un dato pubblico», rispondono le ragazze addette alla raccolta fondi). Anche se poi M5S ha preso il 32 per cento con il nome di Di Maio, anche se è lui e non l’Imperatore quello in piena trattativa per il governo, nessuno a Ivrea si sogna di presentarsi alla corte dell’eventuale premier, che pure sta piantato in prima fila, pettinato e illuminato dai riflettori come uno che sia già premier. Di Maio, qui dentro, è uno dei tanti. È come Alfonso Bonafede, l’annunciato ministro ombra della Giustizia capace di ammettere candidamente di non avere potere di manovra nemmeno sul proprio accredito per l’ingresso («mi hanno dato questo badge, con il QrCode, se ne occupa una società esterna»). O come Paola Taverna, spigliatissima, persuasa a spostarsi nel più protetto retropalco dopo aver svolto davanti ai giornalisti una serie di dialoghi più adatti a un film di Verdone che al suo neoruolo di vicepresidente del Senato (ad esempio quello con la Iena trombata alle elezioni Dino Giarrusso: «Jaa famo, co ’sto governo?», domanda lui. «Jaaa famo, jaaa famo» risponde lei). O come Vincenzo Spadafora, potentissimo consigliori di Di Maio che però, giunto al cospetto dell’Imperatore, gli stringe la mano con timida cortesia e stop.

L’unico che comanda. Vanno tutti da Casaleggio, per forza. È lui il presidente della Casaleggio Associati (oltreché dell’Associazione Gianroberto Casaleggio) ed è presidente, amministratore unico e tesoriere della Associazione Rousseau - come ha notato il Foglio. Cioè ha le chiavi del cuore del Movimento, e dell’azienda che, fra le altre cose, gli ha sviluppato la piattaforma: gli iscritti, i dati, le decisioni, i soldi che arrivano al Movimento Cinque stelle. Che già non sono pochi e che saranno sempre di più: finora quasi 600 mila euro alla Associazione Rousseau (per non parlare dei contributi pubblici che pioveranno sugli sterminati gruppi parlamentari), e adesso la manna dei 300 euro al mese che dovrà versare ciascuno dei 339 parlamentari eletti (227 alla Camera, 112 al Senato), per un totale di 1,2 milioni l’anno, 6 per l’intera legislatura. Un elemento da non sottovalutare, quando si parla di possibile e imminente ritorno alle urne: «Chi glielo fa fare, a Casaleggio, di rinunciare a tutti quei soldi per tornare a votare? In nome di che, della difesa di Di Maio premier?», è una delle riflessioni che si sentono più spesso tra i volponi di Palazzo. Questo tema, intrecciato alle prospettive del futuro non immediato, è alla base dell’indicibile (e, infatti, negata) tensione che si è sviluppata in queste settimane tra l’ala Casaleggio e quella che gli sta subito sotto, il variopinto mondo di Luigi Di Maio. Se Casaleggio, al di là dell’incontro furiosamente smentito con Salvini solo un anno fa, ha comunque intessuto un filo con la Lega - e si tratta di una tradizione familiare, vista la simpatia che Gianroberto aveva per Umberto Bossi - e se a Ivrea la platea degli iscritti era più incline a sintonie con la Lega che con i dem, è vero che Di Maio è costretto a fare valutazioni diverse. La regola dei due mandati, per ora, ha resistito a tutti gli assalti, persino all’ultimo, recentissimo: la chance di Giggino è dunque unica, questa qui. Mentre Davide, l’Imperatore, ha tutta una vita davanti. E un sacco di altri nomi su cui puntare.

Il sottogoverno. Si capisce dunque, il sovraffollamento attorno. È il Cinque stelle che si prepara al sottogoverno, ancor più che al governo. È nelle liste di nomine con le quali raccontano giri il fedelissimo Stefano Buffagni, l’uomo del Nord che tiene i rapporti con i ceti produttivi e che si è confezionato una specie di schedina del Totocalcio dei prossimi collegi sindacali in scadenza. È nei lobbisti e addetti alle relazioni istituzionali che cominciano a circolare attorno all’evento di Ivrea (l’anno scorso non c’erano). È nel formicolare di interlocutori trasversali, che testimoniano l’attenzione da parte di mondi finora tutt’altro che scontati. Se il fan del lavoro gratis Domenico De Masi e il sovranista Diego Fusaro sono felici di farsi i selfie insieme con lo sfondo di Sum02, un ex ministro del governo Letta come Massimo Bray stenta a trovare la voce per raccontare in pubblico di aver dibattuto di globalizzazione «con Luigi» alla Treccani, dopo che Di Maio l’aveva chiamato appositamente per approfondire. Mondi che, in perfetto modello a Cinque stelle, spesso e volentieri nemmeno si conoscono tra loro. Sul punto si danno casi estremi: come quell’ospite che, alla vista di Andrea Scanzi, impegnato sul palco della Casaleggio in un monologo - curiosamente serio - sul fatto che «l’intellettuale non può fare il tifoso», e che il giornalista ha «il ruolo sacro» della «sentinella», abbia domandato candido al proprio vicino: «Ma questo chi è?». Gente che non si conosce e a volte nemmeno si stima: il direttore dell’Istituto italiano di tecnologia, Roberto Cingolani, è ad esempio inconciliabile con i profili no vax del Movimento. Come fanno a conciliarli? Già, come fanno? Un mistero. Che però è alla base del funzionamento dei Cinque stelle. Secondo la teoria formiche-formicaio raccontata dallo stesso Davide Casaleggio nel giovanile “Tu sei rete”, ed evidenziata nel suo libro su M5S da Iacoboni (il giornalista che l’Imperatore ha messo alla porta) come chiave per significare il funzionamento di M5S: «I formicai rappresentano il miglior esempio di auto-organizzazione. Le formiche seguono una serie di regole applicate al singolo, attraverso le quali si determina una struttura molto organizzata, ma non centralizzata», è la teoria casaleggiana. Affinché questo sistema resista è necessario che le formiche non sappiano mai quali sono le regole: «Una formica non deve sapere come funziona il formicaio, altrimenti, tutte le formiche ambirebbero a ricoprire i ruoli migliori e meno faticosi, creando un problema di coordinamento». Nel formicaio, le cerchie nobili sono pronte a governare. La terza, quella di militanti e attivisti, resta un po’ indietro, avvinta ma perplessa per la piega che hanno preso gli eventi. «Per la velocità soprattutto, ci voleva più tempo per costruirci», dice un militante storico di Roma. La base, in fondo, è ancora quella più grillina, capace di discutere per ore di come si arriva all’obiettivo rifiuti zero. O di inceneritori, alberi, vetro, buche. «Andare al governo? Beh è chiaro che la prospettiva schiaccia tutto questo. Lo sappiamo, ma siamo cresciuti vorticosamente, persino oltre le aspettative», dice una attivista di Milano: «Che alternativa c’era?». 

Votati, postati, rimossi. I programmi del M5s. Storia di una truffa. Ahi. Di Maio ha fatto sparire il programma votato dagli iscritti e l’ha sostituito in segreto con uno diverso e non votato da nessuno. Venti pdf scovati dal Foglio riscrivono la storia del M5s (e mettono nei guai il capo grillino), scrive Luciano Capone il 17 Aprile 2018 su "Il Foglio". Luigi Di Maio ha incaricato il prof. Giacinto della Cananea di esaminare i programmi di Lega e Pd per indicare il più compatibile dei due con quello del Movimento 5 stelle. Ma esattamente quale programma del M5s? Quello pre o quello post elezioni? Perché la versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio. Qualcuno al vertice del partito, probabilmente Di Maio che ne è il capo politico, con il placet di Davide Casaleggio che attraverso l’Associazione Rousseau gestisce il sito, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro completamente differente. “In Italia è nato il primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al Sistema Operativo Rousseau”, si legge sul sito del M5s. Ma non è così. I venti pdf che componevano il programma votato online – creati materialmente dall’agenzia di comunicazione Web Side Story – sono stati sostituiti da venti pdf diversi, a cui ne sono stati aggiunti quattro su temi mai proposti né votati su Rousseau (Smart nation, Sport, Editoria, Unione europea). Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”. Per recuperare il vecchio programma basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5s c’era un programma, il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era un altro. Totalmente diverso e spesso diametralmente opposto. E’ il caso del “programma Esteri”, un tema che, viste le vicende che riguardano la Siria, è di fondamentale importanza e stringente attualità. Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo russa e anti atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia. Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito. Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft.

Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato. Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”. Il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”. L’Alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5s proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati. Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”. Anche la parte sul “medio oriente” era una dura accusa all’occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”.

Analogamente sono state riviste le critiche all’euro (da “La situazione italiana nella zona euro è insostenibile. Siamo succubi della moneta unica” a “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”). Il capitolo sulla Russia è stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto –, ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia” e si aggiungeva che le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.

Questi esempi riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche più le quattro aggiunte senza alcuna votazione. Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”. Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico” sceso da 92 a 9 pagine e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’Agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta. Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”. Questa manovra, che riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) e lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, svela la grande finzione del M5s e la potenza totalitaria del suo meccanismo. La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell.

E ora Casaleggio spiega la "tecnocrazia" del M5S. Davide Casaleggio racconta sul Washington Post la tecnocrazia alla base del M5S. Sbandierando la solita trasparenza che non c'è, scrive Chiara Sarra, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Ora Davide Casaleggio - sulle orme del padre Gian Roberto - si erge a "guru" e guida del Movimento 5 Stelle. Così scrive il suo discorso programmatico direttamente sulle colonne del Washington Post. "Il MoVimento 5 Stelle è un vento inarrestabile che continuerà a crescere, perché appartiene al futuro", scrive Casaleggio, "I cittadini chiedono una vera democrazia, esprimono direttamente la loro voce e non sono più ostacolati dall'establishment". Pouii snocciola il "successo storico" del movimento, raggiunto "grazie all'utilizzo di Internet": "Il MoVimento è oggi la prima grande compagine politica digitale al mondo", spiega, "È nato e cresciuto in Rete, sostenuto esclusivamente dalle donazioni dei comuni cittadini. I suoi obiettivi sono definiti dai cittadini, non dai vecchi partiti moribondi, con la missione di porre fine alla corruzione, combattere l'evasione fiscale, ridurre le tasse, proteggere l'ambiente, migliorare l'istruzione e accelerare l'innovazione". Per il cofondatore del M5S, i partiti sono ormai "obsoleti e diseconomici", tanto che "ogni singolo voto ci è costato 8 centesimi di euro". E ancora tutte le teorie alla base del movimento, dall'uso di Rousseau alla tanto sbandierata trasparenza. Senza nessun accenno alle candidature scelte direttamente dallo staff, ovviamente. La "tecnocrazia" a 5 Stelle non si ferma qui, promette ancora Casaleggio: "Stiamo già lavorando a nuovi progetti", assicura, "Uno su tutti: quello di applicare tecnologie di blockchain al voto: ciò consentirà una certificazione distribuita di tutte le votazioni online e un meccanismo di voto più solido. Ma immaginiamo anche un percorso di selezione meritocratico attraverso la Rousseau Open Academy che ci assicura di schierare candidati di altissima qualità. L'Accademia si propone di educare alla cittadinanza digitale in tutta Italia attraverso corsi sul territorio e online".

La democrazia diretta di Casaleggio e di Rousseau. Le parole del guru del M5S al Washington Post hanno un fondo di verità. Ma per crederci bisogna avere grande fiducia nella bontà della natura umana, scrive Marco Ventura il 21 marzo 2018 su "Panorama". “La democrazia diretta, resa possibile da Internet, ha dato una nuova centralità ai cittadini e porterà definitivamente alla decostruzione delle attuali organizzazioni politiche e sociali. La democrazia rappresentativa – la politica per delega – sta gradualmente perdendo significato”. Questo il nocciolo di quanto Davide Casaleggio, motore della piattaforma Rousseau cuore digitale del Movimento 5 Stelle, ha scritto sul Washington Post.  Un vero e proprio manifesto di filosofia politica proiettato verso un futuro sempre più vicino. Rousseau, il filosofo, credeva nel progresso e nella natura buona dell’uomo. Era un utopista, che però in nome delle idee di eguaglianza (uno uguale uno?) abbandonò i suoi cinque figli nell’Istituto dei trovatelli di Parigi. Era illuminista ma con tratti romantici. Visionario, geniale e controverso. Ondivago rispetto alla religione. Nome più allusivo non si poteva scegliere per la piattaforma dei Casaleggio. E sicuramente il futuro delineato sul Washington Post non è inverosimile, anzi. Del resto, l’utopia della democrazia diretta è sempre stata nelle corde di ideologi e rivoluzionari che finora, per la verità, hanno spesso imposto in nome di quella utopia forme di governo che poco avevano a che fare con la somma delle volontà dei singoli. Perché c’è sempre qualcuno pronto a cancellare la libertà di scelta degli individui sostituendola con una propria selezione, contrabbandata per diretta e popolare. Non è il caso di Casaleggio e dei 5 Stelle, visto che circa 11 milioni di italiani hanno votato i candidati pentastellati, ancorché “nominati” dalla Rete attraverso Rousseau, come propri delegati a rappresentarli nelle Camere, cioè nel tempio della democrazia rappresentativa. Certo, nulla vieta di immaginare che in futuro i processi di selezione dei rappresentanti o addirittura di espressione delle preferenze (non solo dei voti) su temi di governo specifici passino attraverso Internet. Senza mediazioni (almeno in apparenza). Un po’ come nei test di facebook. Ma, primo, bisognerebbe capire il ruolo delle piattaforme, chiedersi se siano le piattaforme i nuovi mediatori neutrali del processo democratico e della selezione della classe dirigente. E se questo sia giusto. E poi se non vi siano rischi, visto che in Rete passano le moderne tecniche di persuasione di massa, per esempio con la girandola di like e condivisioni, con la riproduzione virale dei post e l’operato altamente specializzato degli “influencer”, gli “influenzatori” o condizionatori delle opinioni degli internauti, o tramite le incursioni degli hacker produttori di fake news (bufale digitali) se non addirittura ladri di dati personali in violazione della privacy. Certo, si può sempre sostenere che le bufale appartengono alla retorica politica dai tempi di Atene in poi. Certo, ci si può chiedere quanto oggi la democrazia rappresentativa sia realmente lo specchio delle preferenze dei cittadini (e non invece delle scelte di palazzo favorite da opportune leggi elettorali o, addirittura, da lobby nascoste). E c’è pure da chiedersi come sia possibile che negli ultimi 7-8 anni l’Italia sia stata governata da presidenti del Consiglio non scelti dagli elettori ma frutto di complesse e spesso imperscrutabili manovre di Palazzo. Che la democrazia “per delega” abbia ormai i suoi limiti è un fatto. Che i cittadini si sentano sempre più lontani dalle istituzioni, anche. E lo è pure che le nuove generazioni siano ben distanti dall’idea stessa di democrazia tradizionale e vivano molto di più sul web che nelle sezioni di partito (non ci sono più le sezioni, presto non ci saranno più i partiti). Insomma, molte sono le domande che dobbiamo porci. L’intervento di Casaleggio sul WP ha almeno il pregio della chiarezza nell’indicare il M5S come “la prima grande organizzazione politica digitale al mondo”. Che poi accanto alla selezione in Rete c’è un’altra utopia, quella di poter scremare i candidati garantendone l’adeguatezza su basi meritocratiche (non clientelari o di potere). Lo slogan dei 5 Stelle, rilanciato da Casaleggio Jr., è “partecipa, non delegare!”. L’intento dichiarato, quello di “rinnovare la democrazia restituendola ai cittadini”. Ma per crederci davvero bisogna avere la stessa fiducia nella bontà della natura umana e nell’inarrestabile progresso verso il Paradiso Perduto che rende tanto suggestivo il pensiero di Rousseau il filosofo, il cui cervello era una curiosa e esplosiva miscela di illuminismo romantico, una contraddizione in termini. Poesia in prosa.

Perché Casaleggio è un pericolo. Quanta democrazia c'è in un sistema informatico dove nessuno controlla? Così la democrazia della rete rischia di essere una nuova forma di oligarchia, scrive Sara Dellabella il 21 marzo 2018 su "Panorama". “La nostra esperienza è la prova di come la Rete abbia reso obsoleti e diseconomici i partiti e più in generale i precedenti modelli organizzativi”. A scriverlo è Davide Casaleggio figlio di Gianroberto la mente grigia del Movimento 5 stelle scomparso due anni fa. Casaleggio junior ha spiegato dalle colonne del Washington Post il successo storico del movimento e la sua visione sul futuro della democrazia digitale dove la rete è chiamata a giocare un ruolo preponderante. Ma quanta democrazia c'è in un sistema informatico dove nessuno controlla?

Il ruolo del referendum. Un bel libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar “Popolocrazia” spiega senza pregiudizi i motivi del successo dei movimenti populisti che hanno preso piede in alcuni momenti storici in Italia, come in Europa. Prolificano, secondo gli autori, nei momenti di difficoltà economica e quando c'è una forte percezione della crisi tra la classe media; nasce in contrasto con i partiti tradizionali che hanno tradito le aspettative e fondano tutto sulla rappresentazione diretta della volontà di un popolo che decide direttamente. I populisti usano il referendum come strumento di decisione collettiva, proprio come ipotizzava il filosofo francese Rousseau. Guarda caso, la piattaforma gestita dalla Casaleggio per le decisioni affidate agli iscritti prende proprio il nome del filosofo, anche se gli iscritti sono appena centomila e i membri attivi appena un decimo. Lo stesso informatico ha spiegato che alle ultime parlamentarie sono state espresse 40 mila preferenze per gli 8 mila aspiranti candidati. Una semplicissima divisione mostra che a ogni partecipante sarebbero bastate 6 preferenze per prevalere sugli altri. Si tratta chiaramente di una semplificazione estrema che mostra però quanto sia esiguo il numero di quelli che partecipano alle scelte decisionali dentro al movimento e quanto esse siano poco espressive di una maggioranza. Inoltre, bisogna considerare che decide Casaleggio quando, cosa e chi votare su una piattaforma informatica gestita da una società fondata da suo padre.

Una fake news. Quella della democrazia del web rischia di diventare così la più grande fake news che ci stanno propinando. A gennaio, il Garante della Privacy dopo l'indagine sugli attacchi hacker alle piattaforme grilline ha rilevato che la piattaforma Rousseau non garantisce neppure la segretezza del voto dei singoli utenti, corollario della libertà politica e democratica di ogni paese civilizzato. Insomma, la democrazia della rete è piena di bug e nessuno controlla quello che accade dentro la Casaleggio e Associati. Perché non esistono un organo di controllo, un'assemblea, regole per un congresso all'interno del Movimento 5 stelle. Non esiste nessuno in grado di spodestare Casaleggio e Beppe Grillo dai propri ruoli, così come anche la nomina di Luigi Di Maio a capo del Movimento non è stata scelta da alcuna base elettorale.

Si decide, ma non a Roma. Non bisogna cadere però nella tentazione di considerare questa una "gestione dittatoriale" perché fino ad oggi, storicamente, i dittatori si sono sempre impegnati nella costruzione di una classe dirigente e nella costruzione di un popolo “puro”. La regola dei due mandati che attualmente vige tra i grillini sembrerebbe andare esattamente nella direzione opposta riducendo i gruppi parlamentari dei meri esecutori delle decisioni prese altrove, con un ricambio continuo. Tant'è che personalismi e colloqui con la stampa non sono ammessi, se non concordati preventivamente con il deus ex machina della comunicazione Rocco Casalino e il gruppo grillino è quello che ha contato più espulsioni nel corso della scorsa legislatura. Così dichiarazioni, candidature e votazioni da sottoporre a Rousseau sono tutte studiate a tavolino da un gruppo ristrettissimo di persone che non siedono in parlamento, ma magari a Milano o Genova. Con tanti saluti agli elettori e alla democrazia parlamentare.

I Cinque Stelle sono il nuovo Partito Comunista (e il Pd rischia davvero l’estinzione). Costruire una comunità politica, imporre una nuova egemonia culturale, promuovere la democrazia diretta e l'elevazione delle masse: il Movimento Cinque Stelle, nei metodi, è la fotocopia del vecchio Pci. E con le sue armi sta distruggendo il Partito Democratico. Altro che Cambridge Analytica, scrive Francesco Cancellato il 21 Marzo 2018 su "linkiesta.it". “La prima grande compagine politica digitale al mondo”. Così Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto, erede al trono della Casaleggio Associati, definisce il Movimento Cinque Stelle di cui è deus ex machina in un editoriale sul Washington Post. E forse vale la pena di fermarsi cinque minuti e leggersele, queste righe. Perché nel mare di chiacchiere e noia sul successo di questa formazione - gli analfabeti funzionali, le fake news, la domanda di assistenzialismo, il voto di protesta, finanche Cambridge Analytica - forse ci stiamo perdendo dietro il dito, dimenticando la Luna. Che dietro al successo del Movimento c’è un tentativo, finora brillantemente riuscito, di costruzione di una nuova comunità politica post ideologica, fatta delle macerie di altre ideologie, e - in una forma del tutto destrutturata e post-moderna - di una nuova egemonia culturale. E che l’unica differenza con chi era riuscito a fare altrettanto in passato, i partiti di massa del novecento, primo fra tutti quello comunista, sta nei mezzi usati per raggiungere il proprio scopo. Premessa: non stiamo dicendo che il Movimento sia di sinistra, né tantomeno sia comunista. Diciamo che dei comunisti italiani eredita la capacità di avvicinarsi ai ceti in difficoltà ad esempio, e ne sono testimonianza i voti raccolti nelle periferie delle grandi città, nei distretti in declino del centro-nord Italia, nelle aree interne del sottosviluppo meridionale. Anche la democrazia diretta, a ben vedere, è figlia di una storia di sinistra, più precisamente del mutualismo ottocentesco, bianco o rosso che fosse. Lo ricordiamo agli smemorati: uno vale uno non nasce su Rousseau, ma nelle assemblee con voto capitario delle società cooperative e delle banche popolari, archetipi della democrazia economica italiana. Ed è singolare che il Movimento Cinque Stelle raccolga per terra pure loro - così come i ceti popolari del resto - proprio mentre la sinistra decideva di abolire il principio “una testa, un voto” con la riforma delle banche popolari. Non si tratta solo di metodo, tuttavia. Il Movimento Cinque Stelle è l’unica forza politica che ha la visione di una società nuova, incardinata sul digitale, e di un uomo nuovo, incardinato sulla fine del lavoro. Può piacere o meno, ma il neo-radicalismo accelerazionista di sinistra, quello di Paul Mason, così come di Williams e Srnicek, si fonda proprio sulla piena automazione e sulla pretesa di un reddito universale di nascita. Ci sarebbe molto da discutere su alcune derive trans-umaniste, amata più dai miliardari come Bill Gates ed Elon Musk che dal popolo, ma a quanto pare le sinistre laburiste si sono prese un decennio di vacanza. Nel frattempo, sempre per bocca di Casaleggio, il Movimento Cinque Stelle sta portando avanti la Rousseau Open Academyuna specie di scuola delle Frattocchie che “si propone di educare alla cittadinanza digitale in tutta Italia attraverso corsi sul territorio e online” e offre servizi di e-learning sul suo portale “su percorsi di politica e pubblica amministrazione”. Elevare (o almeno informare) le masse, insomma, laddove gli altri - a partire dal Partito Democratico - non trovano di meglio da fare che difendere il ruolo delle élite nella società. Se fossimo il Pd, anziché abbaiare alla Luna, come sta facendo più o meno ininterrottamente da cinque anni, cominceremmo a prendere appunti. Il passato insegna: destra e la sinistra storiche sono già state spazzate via una volta dai nuovi partiti di massa socialisti e popolari e allora come oggi eravamo nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica. Buon ultimo, il Movimento è l’unico partito che ha l’ambizione di diventare di massa. I Cinque Stelle, sempre per bocca di Casaleggio, vogliono superare il milione di iscritti, circa 600mila in più delle attuali tessere del Partito Democratico, che invece ha deciso anzitempo che fosse più sensato destrutturarsi diventando una specie di comitato elettorale, o se preferite, un partito liquido, all’americana. Forse, quando si racconta che la sinistra ha perso il suo popolo, bisognerebbe partire dalla "solidità", invece che dalla liquidità. Tutto questo non è esente da lati oscuri, intendiamoci, così come non ne era esente lo stesso Pci. Che impegnava le masse in eterne discussioni, ad esempio, mentre prendeva le decisioni importanti nelle segrete stanze di via Botteghe Oscure, un po’ come si fa dalle parti della Casaleggio Associati. Che predicava la democrazia, la partecipazione e la dialettica, ma emarginava gli eterodossi, un po’ quel che succede ai Cinque Stelle che provano a votare secondo coscienza in Parlamento.Che ha finito per generare un ceto politico autoreferenziale e imbevuto di cinquant’anni di pretesa di superiorità morale, tanto quanto quelli del Movimento se la suonano e se la cantano di essere gli unici onesti e vicini ai cittadini. Può piacere o meno, ma questo è. E se fossimo il Pd, anziché abbaiare alla Luna, come sta facendo più o meno ininterrottamente da cinque anni, cominceremmo a prendere appunti. Il passato insegna: destra e la sinistra storiche sono già state spazzate via una volta dai nuovi partiti di massa socialisti e popolari e allora come oggi eravamo nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica. A buon intenditor poche parole.

Il comunismo latente del M5S. Il comunismo e il MoVimento 5 Stelle. Così i grillini hanno ereditato geograficamente i consensi del Pci, ma non solo. Ecco tutte le analogie, scrive Francesco Boezi, Sabato 03/02/2018, su "Il Giornale". L'associazione tra comunismo e MoVimento 5 stelle farà sorridere i grillini. La questione, però, è politologica e merita un'analisi approfondita. Il populismo promosso da Luigi Di Maio e compagni, infatti, è definito dalla letteratura "undefined populism", populismo indefinito. Una tipologia di stile politico che non calvalca né le issues sovraniste di Marine Le Pen né l'ecosocialismo alla Hugo Chavez. In Italia, però, le mappe elettorali dimostrano l'esistenza di una sovrapposizione storica del consenso tra M5S e Partito Comunista Italiano. Luigi Pietroselli, sindaco comunista di Roma, capitale da sempre politicamente sperimentale, e Virginia Raggi, la rossa Livorno e Filippo Nogarin, Stefano Lavagetto e Federico Pizzarotti a Parma, la "Pietrogrado d'Italia", cioè Torino, e il sindaco Appendino: non a caso, insomma, i grillini hanno espugnato città italiane erette a simbolo del comunismo. Anche Napoli, almeno inizialmente, era a trazione grillina: Luigi De Magistris, che vuole essere ricordato come il Che Guevara partenopeo, ha sempre flirtato con le istanze pentastellate. " Il movimento - ha scritto un anno fa il vicedirettore de Il Giornale Del Vigo - muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta". Il cosiddetto "Popolo Viola" e il giustizialismo alla Di Pietro, del resto, hanno rappresentato "i cavalli di Troia" tramite i quali i grillini si sono palesati sulla scheda elettorale. Il Movimento non è riuscito a sfondare nelle zone rosse: il sistema delle coop tosco-emiliano e l'eredità organizzativa del Pd non consentono, almeno per ora, di raggiungere grossi risultati. Il consenso raccimolato in passato dai grilllini al Sud può essere interpretato come un voto di protesta, ma Grillo ha fatto breccia soprattutto tra gli isolani, dove anche il Partito Comunista Italiano raggiungeva picchi di consenso. E i candidati "selezionati" dalle primarie supportano questa tesi. Prendiamo la Toscana: Alfonso Bonafede, ex legale dei NoTav, è candidato a Firenze; Gianluca Ferrara, blogger de Il Fatto Quotidiano, capolista al Senato per la Toscana nord, è - secondo quanto scritto da Il Tirreno - un antimilitarista e in qualche modo un simpatizzante di Maduro; Laura Bottici ha "radici nella Carrara anarchica"; Riccardo Ricciardi, capolista alla Camera a Massa Carrara, è soprannominato il "Guevara" del meet-up; Chiara Yana Ehm, candidata nel proporzionale con Bonafede, è una volontaria delle ong; I candidati toscani dei grillini, quindi, dieci anni fa si sarebbero trovati a loro agio nelle liste da post-comunismo di Rifondazione. A Torino Di Maio ha arruolato Paolo Biancone, che in passato ha organizzato un forum per costruire una città a misura di Sharia. E sempre nell'ex capitale d'Italia, poco dopo l'ultimo G7, era emersa la presenza di amministratori grillini "che strizzano l'occhio ad autonomi e centri sociali". Anche in Piemonte, quindi, ideologia postcomunista e cinque stelle sembrano andare a braccetto. Di giacobinismo e purghe interne, poi, non vale la pena parlare. Le rimostranze di alcuni iscritti, le stesse di cui si interessa da mesi l'ormai celebre avvocato Borrè, sono lì a testimoniare l'esistenza di una tendenza a non tollerare troppo il pensiero dissidente, lo spirito dialogico e il confronto interno. Il giustizialismo, ancora, è sempre stato il paradigma del comunismo italico prima e dell'essere grillini ora. "A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura", sottolineava Pietro Nenni. E così, persino il MoVimento, dopo aver appreso che avere a che fare con la politica senza essere interessati dalle indagini della magistratura risulta difficile, ha deciso di cambiare le regole per candidarsi. Il "comunismo digitale", ancora, è l'unico fenomeno politico che continua a paventare l'eventualità di un'imposta patrimoniale ordinaria. Il Leviatano di Hobbes ha trovato un nuovo alleato in questo atipico centro sociale del web. La Casaleggio Associati, poi, è la "Botteghe Oscure" del nostro tempo. L'atto notarile pubblicato da Il Foglio qualche giorno fa dimostra come il centralismo sia la direttrice partitocratica di un'organizzazione politica che vorrebbe apparire come diversa dai partiti. Il Partito Comunista Italiano, però, aveva una piattaforma valoriale, nel campo della bioetica ad esempio. I grillini no. Il MoVimento 5 Stelle spazia dalla proposta di estendere il concetto di famiglia tradizionale dando la possibilità a più di due soggetti di contrarre un matrimonio a posizioni ondivaghe su migranti e vaccini. Il comunismo pentastellato ha tratto geograficamente i consensi, ma non la preparazione. Una versione camaleontica, che del comunismo ha ereditato la dottrina e le formulazioni teoriche, ma non la tensione intellettuale e l'uniformità ideologica.

Berlusconi: "M5S più pericolosi dei comunisti nel '94". Il Cav dalla D'Urso in pieno transfert. E torna venditore di sogni: "Flat tax, pensioni per le mamme e reddito di dignità", scrive Huffington Post il 14/01/2018. Luci scintillanti, trucco effetto mat, parole ben scandite per arrivare meglio nelle case degli italiani. Silvio Berlusconi è tornato nel salotto di Barbara D'Urso per lanciare la sfida all'unico partito che riconosce come competitor: M5S. E ricordare agli elettori/spettatori che nessuno è convincente ed efficiente come lui. "Nel '94 scesi in campo perché altrimenti il partito comunista sarebbe andato al potere, solo con la mia discesa in capo e la creazione di Forza Italia riuscimmo a evitare questo gravissimo pericolo. Oggi c'è in campo il M5S, una formazione più pericolosa dei post comunisti di allora", che somiglia più a una "setta" che a un partito. È un Berlusconi in pieno transfert psicologico quello che, a Domenica Live, trasferisce sui 5 Stelle tutte le terribili qualità che nella sua storica narrativa erano dei comunisti. Il Movimento 5 Stelle, per Berlusconi, è anche peggio: "è quasi una setta, che prende ordini da un vecchio comico e dal figlio sconosciuto dell'altro socio del comico, adesso defunto". I pentastellati, secondo l'ex premier, "porterebbero l'Italia verso un vero disastro", imponendo "una morsa letale sul ceto medio, con un'imposta di successione vicina al 50% e con un'imposta patrimoniale". E poi, ha aggiunto Berlusconi, "potrebbero portare al governo i peggiori rappresentanti della magistratura militante". Per il Cav insomma quella pentastellata è una forza incompetente che porterebbe l'Italia alla rovina. Mantra questo che lo accomuna all'altra grande forza di sistema che vede negli accoliti di Grillo il peggior pericolo per la democrazia italiana e cioè il Pd. In mattinata a Milano sia Renzi che Calenda hanno insistito su questo spartito, definendo i 5 stelle come "incompetenti orgogliosi". E il ministro Padoan - che si candiderà con i dem - ha addirittura parlato di "pericolo per la stabilità del paese".

Berlusconi ridiventa il miglior venditore di sogni. A differenza di Berlusconi però finora i dem non hanno lanciato promesse elettorali altisonanti quanto irrealizzabili. Invece nel confortevole salotto della D'Urso il leader forzista si è mostrato pronto a indossare nuovamente i panni del venditore di sogni. Nel giro di qualche minuto è arrivato a proporre: flat tax, pensioni minime di mille euro al mese, estensione alle mamme senza contributi della pensione minima, reddito di dignità. "Vogliamo operare una vera e propria rivoluzione fiscale, la flat tax, con un'unica aliquota pari o inferiore alla più bassa di quelle attuali, al 23%", ha detto, spiegando che la misura sarà coperta con la "minore evasione e minore elusione per almeno 40 miliardi". Non solo. "Aumenteremo tutte le pensioni minime a 1.000 euro al mese. Daremo questa pensione anche alle mamme che non hanno mai versato i contributi". Berlusconi ha promesso di "debellare la povertà in Italia". "Riteniamo che uno Stato moderno e civile debba trovare il modo di dare alle famiglie e ai cittadini quanto loro manca per passare una vita dignitosa e arrivare alla fine del mese. Sono 1,2 milioni le famiglie in Italia in cui lavora solo la donna. Complimenti, ma bisogna che anche gli uomini si diano da fare. Se queste donne percepiscono un reddito di 700 euro, lo Stato verserà la differenza tra 700 e 1550 euro", ha promesso. Dove si trovano questi soldi? Semplice: "[...] facendo funzionare l'economia e creando nuovi posti di lavoro". Il magico mondo del Cav si basa "sull'equazione della crescita e del benessere: meno tasse sulle famiglie, sulle imprese, sul lavoro, in modo che le famiglie possano consumare di più, le imprese produrre di più e ci possano essere più posti di lavoro. Questa è la nostra ricetta applicata in tanti Stati dove la povertà è assolutamente residuale rispetto alla nostra. La povertà è qualcosa che va cancellata. Al governo non politici di professione ma persone oneste, capaci, che abbiano raggiunto obiettivi e vengano dalle imprese e dalle università". Dunque l'appello ad andare a votare, a conclusione dello show. "In questa situazione non andare a votare è come suicidarsi. "Questa volta - ha ribadito il Cav - dall'altra parte c'è qualcuno di più pericoloso della sinistra. Ci sono questi signori che pensano di non andare a votare ma se a causa della loro assenza dalle urne vincessero" i 5 Stelle "si troverebbero tasse altissime. È nel loro preciso interesse, per non dare l'Italia non solo a chi non è preparato ma che porta invidia e odio verso chi è ricco".

Sotto le 5 stelle il rosso: sono uguali ai comunisti. Traditi dal programma di sinistra, dall'odio per i capitalisti al pauperismo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/11/2017, su "Il Giornale". Cinque stelle rosse si agitano nel cielo della politica italiana. E non serviva un meteorologo di grande esperienza per prevederlo. Era naturale. Perché la congiunzione astrale tra i grillini e i compagni erranti (nel senso che vagano senza meta, ma pure che sbagliano) che hanno imboccato la strada alla sinistra del Pd era logica e naturale. Non tanto per una questione umana - Bersani e soci nell'immaginario pentastellato sono pur sempre parte della casta - quanto per una questione ideologica e programmatica. Chiunque si sia avventurato nella soporifera lettura del programma dei grillini non ha dubbi: sono di sinistra. E hanno tutti i tic politici e intellettuali di quei cespugli della sinistra radicale che ora non sanno dove attecchire. Volete qualche esempio? La loro storia politica è chiarissima, il loro programma ancor di più. Il movimento muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta. Sono quelli che ancora oggi si divertono a decapitare i fantocci di Renzi e lanciare sassate alla polizia, con lo scudo dei politici grillini che ne chiedono subito la scarcerazione (vedi G7 di Venaria). Dietro il completo blu di Di Maio si nascondono eskimo e kefiah. Il programma gestato e partorito in rete è ancora più chiaro e sembra la versione 2.0 di un vecchio manifesto marxista. Le multinazionali? Delle macchine di morte da imbrigliare e sconfiggere a ogni costo, poco importa che diano lavoro a migliaia di persone. Gli Stati Uniti? Il burattinaio cattivo che gestisce di nascosto i destini universali. Il liberismo? Beh, l'ossessione dei Cinque Stelle per il liberismo è quasi patologica. Ogni stortura, ogni giustizia, ogni cosa che non va al mondo - fosse la lampadina bruciata di una periferia di Roma o la crisi idrica in Burkina - è sempre colpa del neoliberismo, madre e padre di tutti i mali. Ne consegue che la ricchezza è una colpa, un difetto di fabbrica, un peccato originale. Emendabile solo con un bel bagno (di sangue) nel lavacro fiscale. Magari con una patrimoniale. Ma i destini di grillini e sinistra radicale si incontrano più di una volta: dal giustizialismo estremo all'ecologismo più spinto, dal mito del pauperismo e della decrescita felice all'odio per il mondo della finanza, senza alcuna distinzione. Esattamente come gli ex Pci preferiscono lo Stato al singolo cittadino, il pubblico al privato. E poi il pacifismo «onirico», quello che, senza fare i conti con la geopolitica, immagina un mondo nel quale le relazioni diplomatiche si possano fare solo con pacche sulle spalle e buffetti. E forse il punto di saldatura più evidente tra grillismo e comunismo è proprio questo: il fondamentalismo ideologico, l'idea che si possa far aderire la realtà ai propri ideali; il desiderio di cambiare e non la società in cui vive. Un delirio messianico che ha seminato solo danni. D'altronde Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo visionario libro Veni Vidi Web, profetizzava un mondo di downshifter (persone che decidono volontariamente di guadagnare di meno per vivere meglio), senza Tv che distrae e costa troppo, senza centri commerciali, con una proprietà privata limitata e le grandi aziende smantellate. Questo è il mondo che sognava il fondatore dei Cinque Stelle. A lui sembrava un paradiso, ma ha più i tratti un inferno sovietico. A lui pareva una nuova ricetta per cambiare il mondo, a noi sembra la solita brodaglia rancida in salsa marxista. È il comunismo digitale.

Quei legami tra la Casaleggio e Soros che i grillini bollano come fake news. Spunta un documento nel quale appare che la società ricevette dal 2017 248mila dollari per controllare militanti e candidati, scrive Fabrizio Boschi, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale".  Hai voglia a prendere il 33%. Del peccato originale non ci si libera mai. E non stiamo parlando di uno come Rocco Casalino a capo della comunicazione o dei soldi in nero pagati al milionario Grillo. Ma della vera anima nera dei 5 Stelle: la Casaleggio Associati Srl. Adesso spunta qualcosa di grosso che rende bene l'idea delle astuzie della Casaleggio Associati, ben avvezza a certi stratagemmi. Un documento della discussa Open Society Foundations (una delle più grandi fondazioni private al mondo che supportano gruppi per i diritti umani, con un budget annuale di oltre 900 milioni di dollari), la società che fa capo all'87enne miliardario americano George Soros (nato a Budapest in una famiglia ebraica, ha un patrimonio di 25,2 miliardi di dollari, una delle trenta persone più ricche del mondo), molto chiacchierato per le sue attività speculative (condannato per insider trading) e di una filantropia sospetta (ha spostato 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundations per pagare meno tasse in quanto le donazioni sfuggono alle imposte), dimostra che la Casaleggio Associati ha incassato dalla Open Society Foundations di Soros, 248mila dollari dall'agosto 2017 al marzo 2018 per un progetto volto «a cambiare, a spingere gli elettori e i candidati alle elezioni politiche del 2018 a cambiare strategia su migrazioni ed euroscetticismo». E viene indicato pure un referente, Luca Elauteri, socio fondatore e amministratore dal 2004 della Casaleggio Associati con tanto di e-mail (info@casaleggio.it). Elauteri si occupa di Content e Social Media Strategy nell'ambito di editoria digitale e dei new media. Questo documento è stato scoperto da Alessandro Cerboni, bioingegnere di Arezzo, vice presidente di Assocompliance, per anni vicino al M5s che conosce tutti gli scheletri negli armadi della Casaleggio, una persona troppo intelligente e qualificata per restare con la banda Di Maio (infatti lo segarono alle «parlamentarie»). La Open Society Foundations ha iniziato a lavorare in Italia nel 2008, proprio un anno prima della fondazione del M5s. Ovviamente la Casaleggio Associati bolla la notizia come una fake news, ma il dubbio resta. Sarà per questo che per tutta la campagna elettorale il M5s non è stato più antieuro come lo era invece agli inizi e non si è più scagliato contro gli immigrati? Chi c'è al servizio delle lobby estere o viene influenzato dalle stesse? Ad avvalorare questo documento, la notizia che gli «uomini di Soros» avrebbero contribuito a scrivere il programma di governo del Movimento 5 stelle sui migranti: la denuncia, pubblicata a gennaio, fu fatta da Francesca Totolo che, su Il Primato Nazionale, scrisse un articolo dove dimostrava i legami tra la Open Society Foundations e il M5s. «Il ricollocamento dei richiedenti asilo» è stato redatto da Maurizio Veglio, noto avvocato tra i membri di Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), associazione fondata e finanziata dalla Open Society Foundations. L'Asgi ha aderito a numerose campagne pro-immigrazione volte a favorire l'accoglienza dei migranti e pro-ius soli e c'è un collegamento diretto tra alcune parti del programma sui migranti del M5s e l'Asgi, associazione che spesso fa causa ai sindaci di centrodestra. Del resto i legami tra i grillini e Soros esistono da sempre. Lorenzo Fioramonti, ministro ombra dello Sviluppo Economico per il cinquestelle, ha lavorato per la Fondazione Rockfeller e scrive su Open Democracy, sito legato alla Open Society Foundations. E due anni fa Di Maio pranzò coi vertici della Commissione Trilaterale, la somma dei poteri forti dell'Occidente fondata dal banchiere Rockefeller, che insieme a Soros era considerato uno dei due burattinai del mondo. Onestà.

M5s, dal Garante della privacy 32mila euro di multa al blog delle Stelle. Dall'Authority sanzione all'associazione Rousseau: sul sito non sarebbe stato indicato chi tratta i dati personali degli utenti che accedono ai vari portali. Era stato proprio il presidente Casaleggio a indicare la società Wind al Garante come gestore delle funzioni sistemistiche. L'istruttoria nata da una denuncia della stessa associazione pentastellata che aveva denunciato attacchi hacker, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 marzo 2018. Una multa da 32mila euro. È la sanzione emessa dal Garante della privacy all’associazione Rousseau, responsabile del trattamento dati del sito del Movimento 5 stelle e notificato martedì scorso dai militari della guardia di finanza al presidente Davide Casaleggio nella sede milanese dell’associazione. A raccontare la vicenda è Gianluigi Nuzzi su La Verità. La sanzione amministrativa nasce dall’istruttoria aperta nell’agosto scorso, quando il blog del M5s aveva subito alcuni attacchi hacker. L’associazione aveva presentato denuncia alla polizia postale e il Garante aveva colto l’occasione per disporre accertamenti sul trattamento dei dati delle persone che accedono al blog. Il 21 dicembre, dunque, ecco il primo provvedimento che segnalava come “la mancata designazione delle società Wind Tre Spa e Itnet Srl quali responsabili del trattamento dei dati personali degli utenti dei diversi siti riferibili al Movimento 5 stelle configura l’illiceità del trattamento medesimo in ragione della comunicazione dei dati a soggetti terzi, in mancanza del consenso degli interessati”. Era stato proprio Casaleggio a indicare la società Wind al Garante come gestore delle funzioni sistemistiche. Su questa presunta violazione si era aperto sul web un dibattito, perché in realtà chi gestisce i servizi di housing ovvero gli spazi del server – Aruba o Wind in questo caso – non accede ai dati personali delle singole piattaforme che ospita né, mancando rapporti professionali tra la Casaleggio associati e la stessa Wind, si potevano ipotizzare altri scenari più negativi. Adesso i legali dell’associazione Rousseau valuteranno se impugnare il provvedimento e fare ricorso. Visto anche che da un rapido monitoraggio sulle varie norme della privacy alle quali esprimere il proprio consenso per iscriversi ai blog non risulta quasi mai indicato il gestore dei servizi di housing. Un approfondimento che potrebbe servire da base dell’impugnazione dei difensori di Rousseau. Su questo aspetto della protezione dei dati personali, infatti, non sempre le norme sono precise, la giurisprudenza univoca e, tantomeno, la prassi consolidata. Come dire: dire se questo tipo di attività ispettiva fosse estesa ai tanti blog di partiti, movimenti e associazioni, produrrebbe analoghi esiti. E dunque multe a tappeto.

Il comunista Peppone ha votato Lega e M5S. Viaggio a Brescello, il comune sciolto per mafia dei film di don Camillo. Dove la storia “rossa” è arrivata al capolinea, scrive Giovanni Tizian il 20 marzo 2018 su "L'Espresso". Brescello, elezioni del 1948. Il Fronte popolare democratico di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni registra il 52,59 per cento dei consensi. Alla vigilia della caduta del muro di Berlino il Pci è al 41. Soglia abbondantemente superata dal Pds nell’anno della prima discesa in campo del Cavaliere nero Berlusconi. Poi, il 2008 è l’anno del Pd. Inizia una lenta e drammatica emorragia di elettori. Fino al 4 marzo, giorno della disfatta nazionale per il centrosinistra. Che nell’Emilia, intellettuale e operaia, diventa evento drammatico, storico, da raccontare alle future generazioni. La regione rossa per eccellenza stinta e ridipinta di verde leghista e giallo grillino. Due tonalità nuove per la roccaforte della sinistra, modello sociale e culturale, ora in mano ai conquistatori populisti e sovranisti. Di questa capitolazione del Pd esistono luoghi simbolici. Microscopiche realtà, che racchiudono in sé ogni elemento per comprendere il cammino suicida di un partito che avvitandosi su se stesso ha lasciato al proprio destino le classi medie, le periferie, i lavoratori, i giovani. C’era una volta il mondo piccolo di Brescello dove la realtà era condita di poche e solide certezze. Il partito e la chiesa, punti di riferimento della comunità. Chi si aspettava, però, che quel granitico consenso rimanesse tale dopo il ciclone populista è rimasto deluso. Anche su Brescello, il paese di 5 mila anime nella bassa reggiana al confine con la Lombardia mantovana dove Giovannino Guareschi aveva ambientato le sue storie, soffia un vento diverso. Alle 8 di mattina la piazza è deserta. Il Burian siberiano dei giorni pre elettorali ha lasciato posto a un tepore inaspettato. Come del resto inatteso è stato il risultato del voto. Il Pd nel municipio di Peppone, il sindaco comunista interpretato da Gino Cervi nell’adattamento cinematografico dei racconti di Guareschi, ha incassato una sonora sconfitta. Terzo partito. Primi i Cinquestelle e subito dopo con oltre il 21 per cento la Lega sovranista di Matteo Salvini, la vera sorpresa. Perché i grillini rispetto alle scorse politiche hanno totalizzato appena 30 voti in più, con il Pd che aveva retto piazzandosi comunque al primo posto. Questa volta per i democratici il crollo è stato notevole, meno 13 per cento. Ecco, se solo potesse parlare la statua di Peppone, lì immobile sotto il palazzo del Comune, gliene canterebbe quattro agli eredi che hanno rottamato il partito. E, di certo, troverebbe un alleato nel suo storico avversario, don Camillo, che lo guarda smarrito dall’altra parte della piazza. Messe da parte le statistiche, le percentuali, i dati, il vero cambiamento da queste parti è tangibile volgendo lo sguardo verso il palazzo comunale. La sedia del sindaco è vuota da un anno e mezzo. Commissariato per il condizionamento della ’ndrangheta, cosca Grande Aracri. Il sindaco deposto si chiama Marcello Coffrini. Avvocato e figlio di Ermes, il Peppone per moltissimi anni alla guida del paese. Coffrini è stato per il Pd emiliano una sciagura di proporzioni enormi. Un grosso guaio da cui è uscito con le ossa rotte. Già, perché Coffrini sarà ricordato come il primo sindaco emiliano sciolto per infiltrazioni mafiose, grave danno di immagine per il Pd nella sua terra eletta. Ciò ha prodotto conseguenze che oggi l’intero partito paga. Del resto, però, c’era da aspettarselo. Intervistato dai cronisti di Cortocircuito, Coffrini si lasciò sfuggire una sua opinione personale sul boss del paese. Parole che poi hanno fatto il giro delle televisioni: «Persona perbene, gentile».

Quell’elogio ingenuo sancì l’inizio della fine per Brescello e per il partito, molti giovani elettori che contribuirono al 40 per cento delle Europee solo quattro mesi prima decisero che non avrebbero sopportato oltre. Anche perché a distanza di un anno a intorbidire le acque della Val Padana è arrivata anche la valanga di arresti con la maxi inchiesta ribattezzata Aemilia. Centinaia in manette, indagati anche politici e imprenditori locali. Ma soprattutto l’antimafia di Bologna ha indicato in Brescello il cuore della ’ndrangheta emiliana, al pari di San Luca per quella calabrese. Da quel momento i brescellesi hanno dovuto fare i conti con dati non più giornalistici ma giudiziari. Elementi che hanno portato, poco più tardi, alla decisione del Viminale di affidare il comune ai commissari con il compito di ripulire l’ente dalle scorie criminali. Fine di un’epoca, insomma. «La storia di Peppone e don Camillo è ai titoli di coda, non c’è più attaccamento ideologico e i giovani ragionano in tutt’altro modo», riflette don Evandro Gherardi, «il tracollo del partito è dovuto anche allo sfilacciamento del tessuto, alla solidarietà fagocitata dall’individualismo».

Il parroco di Brescello, moderno don Camillo senza più validi concorrenti, ritiene lo scioglimento per mafia una vera ingiustizia: «Ha spaccato la comunità, e anche i miei parrocchiani. Divisi dalle tensioni e da attriti scaturiti dopo le dimissioni dell’ex sindaco». Il prete è figlio di comunisti di Cavriago, paesone poco distante dove in piazza resiste al tornado Cinquestelle il busto di Lenin, nonostante, persino qui, la sinistra sia ai minimi storici. «Brescello viene usata dai partiti per farsi pubblicità sulla lotta alla mafia. Oggi viviamo in un paese sfibrato, cittadini gli uni contro gli altri, chi avrà il coraggio di amministrare in futuro?», si chiede don Evandro. E in effetti la domanda è legittima, i commissari andranno via tra pochi mesi, possibile che si voti a giugno, se non a maggio. In paese gira voce che l’unica lista in caldo e pronta a buttarsi nella mischia sia quella degli ex amministratori della giunta Coffrini caduta per mafia. Scenario simile, dunque, ai tanti comuni del sud che addirittura dopo lo scioglimento non riescono a rieleggere un sindaco per mancanza di candidati. E la Lega o i Cinquestelle? Con i fuochi d’artificio delle ultime politiche in questi seggi, più di qualcuno si aspetta una lista dei due partiti. Eppure non è scontato, benché un’ipotetica assenza alle comunali possa apparire priva di ogni logica. Ma è la politica postmoderna. I voti si raccolgono senza neppure muoversi da casa. In campagna elettorale da queste parti, in uno dei pochi comuni sciolti per mafia al Nord, non si è visto nessuno. Né Salvini, né Di Maio, né Di Battista, né Renzi.

Prendiamo la Lega. Qui ha vinto per il marchio mediatico di Salvini, ma non esiste più. L’immigrazione tra l’altro non ha mai creato problemi di ordine pubblico. Però anche a Brescello la retorica razzista salviniana ha fatto presa: sarà per quel centinaio di rifugiati che vivono nell’hotel quattro stelle “Don Camillo” alle porte del paese? Probabile, intanto girando per le viuzze del centro di stranieri che bivaccano nemmeno l’ombra. «La mattina si alzano presto e vanno a lavorare in provincia», ci spiega una dipendente dell’hotel. Ma dove dormono? «In una dépendance», dice sbrigativa alla fine. L’immagine del paradosso del Carroccio che cresce senza un radicamento sul territorio è Catia Silva. «Qui la Lega non ha più sede e militanti», racconta Silva, leghista della prima ora, che ha abbandonato il partito dopo la svolta sovranista di Salvini. Non solo, «in realtà ho lasciato soprattutto per la gestione scriteriata che ha portato nelle Lega personaggi equivoci, penso a tutti i riciclati del Sud», spiega Silva, che in questi anni quando ancora indossava la camicia verde ha subito decine di minacce per le battaglie antimafia portate avanti. Ha vinto pure un processo contro alcuni sgherri del clan per le intimidazioni subite. Tuttavia dal partito nazionale silenzio assoluto. «Salvini non si è mai degnato di venire in paese, né tantomeno di spendere parole di sostegno e appoggio nei miei confronti. Per non parlare dei candidati che ha messo in lista, per me la legalità è un punto fermo, per questo ho tolto il disturbo». Salvini qui a Brescello ha comunque fatto un exploit notevole. La Lega è andata molto bene anche nei seggi in cui vanno a votare le famiglie di “Cutrello”, la piccola Cutro, il paese della provincia di Crotone da cui proviene il clan Grande Aracri che ha conquistato questo pezzo dell’Emilia. Anche chi ha votato Movimento Cinquestelle l’ha fatto sulla fiducia, senza poter vedere all’opera alcun meetup o gruppo attivo sul territorio. Ufficialmente non esistono grillini a Brescello.

A differenza della Lega, però, qui i dirigenti del Movimento si sono fatti vedere e non in campagna elettorale, ma nei momenti di massima tensione. La parlamentare Maria Edera Spadoni ha sempre sostenuto le denunce di Silva e lei stessa si è battuta in prima linea contro la ’ndrangheta emiliana, per lo scioglimento del Comune e per le dimissioni dell’ex sindaco Pd. Tuttavia neanche i Cinquestelle hanno intenzione di mettersi in gioco per le prossime comunali. Lo ritengono un rischio troppo elevato. Temono - raccontano fonti interne al movimento - che l’apparato burocratico sia ancora contaminato. Intanto l’appuntamento con il voto si avvicina. Ma nessuno pare abbia grande voglia di metterci la faccia nonostante lo storico risultato ottenuto che ha trasformato il Pd in una forza con percentuali inferiori ai Cinquestelle di un lustro fa. «A Brescello il partito democratico non ha più un segretario da quando mi sono dimesso», racconta Saverio Bonini, 24 anni, studente di Scienze politiche che tre anni fa aveva preso in mano il partito in piena bufera mediatica: «Mi sono dimesso perché c’è stata una frattura, chi stava con il sindaco Coffrini e chi con me. Così ho preferito farmi da parte per non essere divisivo». Bonini ci guida lungo le stradine del centro, ci mostra la vecchia sede del Pci: un palazzo a due piani ora di proprietà di una nota azienda. «Era sproporzionata anche ai tempi d’oro per un paese di queste dimensioni», sorride. Un tempo si facevano le cose in grande. Oggi gli eredi di quel pezzo di storia si ritrovano in un appartamento al piano terra di una palazzina residenziale. Una grande sala con i quadri di Che Guevara, di Berlinguer, i funerali di Togliatti di Guttuso e poi libri a non finire, da Marx e Engels a numerosi saggi di storici e intellettuali. «Io sono renziano convinto, però non rinnego il patrimonio ideale del passato. Le nostre radici sono queste». Bonini non è affatto stupito dal balzo della Lega nel feudo rosso: «Sicuramente una parte di voti di chi non ha digerito lo scioglimento per mafia si è disperso, un po’ ai Cinquestelle un po’ alla Lega». Una forma di punizione per il partito che ha cacciato l’amatissimo sindaco che tanto imbarazzo ha creato con le sue uscite sulla mafia. Bonini oggi è un semplice militante con due sole certezze. La prima è che non sarà lui il candidato del Pd alle prossime elezioni locali. La seconda è che sarebbe assurdo ritrovare gli amministratori dello scioglimento di nuovo in lista. Anche perché giunti al termine del commissariamento il lavoro da fare non è esaurito. I tre commissari -Antonio Giannelli, Antonio Oriolo e Giacomo Di Matteo - si limitano a dire che in questi mesi il loro obiettivo è stato quello di ripristinare la legalità. In realtà hanno lavorato a pieno ritmo e a differenza di quanto avviene in altri Comuni sciolti per mafia loro sono presenti ogni giorno della settimana. È recente la notizia della chiusura dell’ex bocciodromo comunale. Merito loro, troppe anomalie nell’iter autorizzativo e parentele ingombranti degli interessati. Il rapporto tra i cittadini e i commissari non è mai facile. Ma chi si aspettava una storia diversa solo perché siamo nella civile Emilia e non in Calabria si sbagliava di grosso. Anche qui per la triade di funzionari prefettizi è stato complicato. Hanno lavorato pressoché isolati. Hanno provato in qualche modo a coinvolgere la comunità con attività culturali. Per esempio organizzando il cinema sotto le stelle in piazza. Con molta ironia hanno deciso di proiettare “L’ora legale” di Ficarra e Picone.

La storia incredibile, cioè, di quel sindaco onesto che alla fine con la sua onestà radicale mette in crisi l’intera comunità, affezionata in fondo a quel po’ di illegalità che in alcune circostanze fa comodo. Tuttavia, i commissari, con esperienze in municipi del Sud infettati dal malaffare, hanno riscontrato un forte clima di silenzi e omertà. E non sono mancate le critiche, come in occasione dell’alluvione di dicembre. Chi li accusava però si sta ricredendo. Perché nell’inchiesta in corso su eventuali responsabilità, il Comune risulta parte offesa. E gli stessi commissari hanno chiesto di effettuare i carotaggi lungo la sponda bucata dal fiume Enza. Qualcuno ha fatto il furbetto a spese della collettività? Se così fosse poco può fare il “Cristo parlante” di don Camillo per fermare il grande fiume. Il Cristo - quello originale dei film - è ancora custodito da Don Evandro nella parrocchia. Ogni settembre lo porta in processione sul Po. L’ultima volta al posto del sindaco c’era uno dei commissari. Don Evandro e il commissario. E poi il Cristo, l’unico cimelio intatto di un mondo piccolo volato via.

Il Movimento 5Stelle è un partito come tutti gli altri, scrive il 29 novembre 2016 Andrea Viola, Avvocato e ex consigliere comunale Pd, su "Il Fatto Quotidiano". Gesù diceva: “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”. E questa frase oltre a valere in generale nella nostra vita, in politica ha tanti significati. Quando un partito si erge a paladino della giustizia e si autoproclama il più onesto al mondo commette il solito grande errore ma soprattutto la solita grande demagogia fatta di vecchi e populistici slogan. Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio hanno creato il loro consenso facendo la parte degli antisistema e accusando tutti i restanti politici di essere delinquenti e corrotti; si sono elevati a grandi onesti e si sono auto-attribuiti la facoltà di rilasciare attestati di legalità ai propri seguaci. Il Movimento 5Stelle era nato su alcuni principi ben chiari: niente programmi televisivi, uno vale uno, massima trasparenza nelle decisioni con riunioni in streaming, via gli indagati, ecc. ecc. Tutto questo era facilissimo quando i grillini non avevano alcun incarico politico, quando, però, sono entrati in Parlamento e nel governo di alcune città i primi dogmi sono caduti velocemente. Dal divieto assoluto di partecipare ai talk show si è passati ad presenziare costantemente alcuni programmi amici; dall’uno vale uno si è passati al direttorio e alla Casaleggio associati e a Rocco e i suoi fratelli; dalla massima trasparenza si è passati a nessuna ulteriore riunione in streaming. E soprattutto si è passati da zero indagati a molti indagati nel Movimento 5Stelle. L’ultimo caso emblematico è quello di Palermo: parlamentari e consiglieri regionali indagati per firme false e reati collegati. Insomma, per una cosa del genere, Di Maio e Di Battista avrebbero chiesto a reti unificate le dimissioni dei parlamentari indagati; ma si dà il caso che non siano del Pd. Perché ormai è chiaro che se un indagato è del Pd allora tutti i militanti e i rappresentanti del Pd sono piddini corrotti, mentre se l’indagato è del Movimento 5Stelle allora bisogna prima vedere le carte e poi comunque gli indagati del Pd sono di più. Ma a prescindere da questo il concetto è un altro. Il Movimento 5Stelle ha basato tutto su un punto essenziale: noi siamo tuttionesti. E questo ormai è chiaro che non esiste più. Dopo questo il passo successivo è anche peggiore se dopo essersi vantati di essere i più puliti ed onesti poi si crolla davanti alla realtà. E a quel punto bisogna capire se la regola vale anche l’indagato è del tuo partito. Ad oggi è successo a Livorno, passando per Bologna, Roma, Bagheria e arrivando a Palermo. Il Movimento 5Stelle è un partito come tutti, dov’è la grande differenza con gli altri? Naturalmente togliendo le bufale e i siti di disinformazione di massa per finire con la riforma costituzionale: una riforma epocale che elimina per sempre il vecchio Senato, elimina enti inutili e fa risparmiare più di 55 milioni l’anno; per non parlare della semplificazione dello Stato e della chiara ripartizione delle competenze. Insomma una riforma che un vero grillino della prima ora voterebbe ad occhi chiusi. Invece no, arriva Grillo e dice di votare di pancia, ossia votare senza neanche leggere il testo della riforma e capirla con la propria testa. Insomma votare sempre e solo No per andare contro a prescindere su tutto. Addirittura anche contro la legge sulle unioni civili il Movimento ha votato no. Una grande tristezza. Ad oggi, quindi, il partito di Grillo non si differenzia più in nulla: ha i suoi indagati, ha i suoi privilegi, ha i suoi fallimenti, ha i suoi alleati impresentabili, ha le proprie case a Roma pagate con i fondi pubblici, partecipa ai talk show, ha un solo uomo al potere condannato. Insomma dov’è la grande novità? Nessuna. Forse si differenzia in una cosa: un blog e una società privata che inondano la rete di una marea di bufale e falsità che attirano l’ignoranza spesso incolpevole di tanti utenti ignari. La storia ci dirà ragione.

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

Ma Cambridge Analytica e Facebook non hanno eletto Trump. Le manipolazioni e l'uso dei dati del social non è detto siano così efficaci politicamente. E non dovrebbero diventare un alibi per le difficoltà elettorali del liberalismo e dei difensori delle società aperte, scrive Luigi Gavazzi il 21 marzo 2018 su "Panorama". È il caso di ribadirlo. Donald Trump e la Brexit non dovrebbero essere spiegati solo con la manipolazione dei dati sottratti a Facebookda Cambridge Analytica (CA). L'azione di quest'ultima, sicuramente preoccupante per la democrazia e le libertà individuali, compreso l'incubo per l'abuso dei dati conferiti a Facebook dagli utenti, difficilmente è stata davvero efficace come sostengono sia i dirigenti di CA, sia Christopher Wylie, il whistleblower che ha rivelato all'Observer e al New York Times il lavoro fatto per Steve Bannon - stratega della campagna elettorale 2016 di Donald Trump - e per il Leave in Gran Bretagna. Indagare e scoprire violazioni di legge e pericoli politici di questa attività è doveroso. Sarebbe meglio però non venisse usata da partiti, gruppi sociali e culturali sconfitti da Trump e dalla Brexit come alibi per ignorare le proprie debolezze e l'inefficacia degli argomentiusati a favore della società aperta e del liberalismo. Insomma, evitiamo di rispondere alle minacce e alle sfide del populismo parlando solo di social network.

Se Cambridge Analytica fosse inefficiente e avesse venduto fumo. I signori di CA da anni - come ricorda David Graham su The Atlantic - cercavano di piazzare i propri servizi, dicendo che avrebbero fatto cose miracolose. Nel 2015 Sasha Issenberg di Bloomberg scrisse di CA e delle promesse della loro profilazione “psicografica”, oggi alla ribalta, con una certo scetticismo, per esempio perché il profilo ricavato dal test sullo stesso Issenberg era risultato molto diverso da quello prodotto dal Psychometrics Centre dell’Università di Cambridge (il test originale sul quale si basava l'app di usata da Aleksandr Kogan per raccogliere i dati per Ca). Del resto, Cambridge Analytica, era stata ingaggiata nel 2015 sia da Ted Cruz che da Ben Carson, due candidati repubblicani alla nomination per le elezioni presidenziali. Ebbene, il contributo di CA è risultato nullo, e le campagne hanno avuto esiti disastrosi. Le persone che dirigevano quella di Cruz hanno ben presto deciso di lasciar perdere il contributo di CA, perché irrilevante. Nel comunicare la decisione si lamentarono del fatto che stessero pagando un servizio che non esisteva neppure. C’è poi il fatto che dietro CA ci fosse, come investitore, Robert Mercer e la sua famiglia, fra i principali sostenitori e finanziatori dei repubblicani. Per Cruz era importante avere i soldi di Mercer, a costo di ingaggiare la creatura CA che Mercer finanziava.  

Mercer, come noto, passò poi a Trump, convinto anche da Bannon e da Breitbart. La cosa interessante è che, d’altra parte, la stessa campagna di Trump, dopo aver abbracciato CA, l’ha successivamente abbandonata. A sostegno della tesi di Cambridge Analytica come un bluff che ha venduto più che altro fumo, ci sarebbe anche il video registrato dai reporter di Channel 4, presentati sotto la falsa identità di politici dello Sri Lanka interessati a comprare i servizi dell'azienda. Ebbene, se questi servizi fossero così efficaci come i manager di CA sostengono, che bisogno ci sarebbe stato, per venderli ai politici interessati, di proporre anche manovre per intrappolare gli avversari di questi ultimi, screditandoli con possibili scandali sessuali, sospetti di corruzione e cose del genere? Più in generale, gli osservatori citati da Graham sono da tempo assai dubbiosi dell’efficacia di queste tecniche “psicometriche”, fino a qualche anno fa chiamate di “microtargeting”.

La democrazia liberale deve comunicare meglio i pregi della società aperta. Detto questo, i democratici negli Stati Uniti, chi voleva che il Regno Unito restasse nell'Unione Europea, i partiti sconfitti dall'onda populista in Italia, chi teme l'autoritarismo sovranista e illiberale di Ungheria e Polonia, dunque, tutti coloro ai quali sta a cuore la democrazia liberale e la società aperta dovrebbero concentrarsi più sugli argomenti politici, i linguaggi, le proposte, la comunicazione per convincere gli elettori. In questo modo sarebbe più facile e probabile rendere innocuo chi cerca di manipolare le opinioni pubbliche in questi paesi, siano manovratori nell'ombra, gli hacker di Putin o di chi altro (che, vale la pena ricordarlo, sono comunque preoccupanti per la democrazia).

Facebook, ecco come Obama violò la privacy degli americani, scrive il 22 marzo 2018 Giampaolo Rossi su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Carol Davidsen è stata il capo Dipartimento “Media Targeting” dello staff di Obama nelle elezioni del 2012 ed è considerata un’esperta di campagne elettorali online in America. In una conferenza pubblica, tre anni dopo l’elezione di Obama, rivelò qualcosa che allora passò sotto silenzio ma che oggi è dirompente alla luce dello scandalo Cambridge Analityca: “Noi siamo stati capaci di ingerire l’intero social network degli Stati Uniti su Facebook”. Nello stesso intervento affermò che i democratici acquisirono arbitrariamente i dati dei cittadini americani a cui i Repubblicani non avevano accesso; e questo avvenne con la complicità dell’azienda americana che lo consentì tanto che la Davidsen è costretta ad ammettere che “ci fu uno squilibrio di acquisizione informazioni ingiusto” (nel video dal minuto 19:48). Nei giorni scorsi su Twitter, la Davidsen è tornata sulla questione confermando che a Facebook furono sorpresi quando si accorsero che lo staff di Obama aveva “succhiato l’intero social graph” (vale a dire il sistema di connessioni tra gli utenti) “ma non ce lo impedirono una volta capito cosa stavamo facendo”. In altre parole Facebook consentì ad Obama di rubare i dati dei cittadini americani e di utilizzarli per la sua campagna presidenziale, in quanto azienda schierata dalla parte dei democratici. D’altro canto già nel 2012, sul Time, un lungo articolo di Michael Scherer spiegava come Obama si era impossessato dei dati degli americani su Facebook con lo scopo d’intercettare l’elettorato giovanile. Esattamente nello stesso modo in cui lo ha fatto Cambrdige Analytica per la campagna di Trump: attraverso un app che carpì i dati non solo di chi aveva autorizzato, ma anche della rete di amicizie su Facebook ignare di avere la propria privacy violata. Solo che allora la cosa fu salutata come uno dei nuovi orizzonti delle politica online e descritta da Teddy Goff, il capo digital della campagna di Obama, “il più innovativo strumento tecnologico” della nuove campagne elettorali.

Zuckerberg e democratici. La stretta connessione tra Facebook e il Partito Democratico Usa è continuata anche nelle ultime elezioni come rivelano in maniera implacabile le mail di John Podesta, il potente capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, pubblicate da Wikileaks. È il 2 gennaio del 2016, quando Sheryl Sandberg, Direttore esecutivo di Facebook e di fatto numero due dell’Azienda, scrive a Podesta una mail di augurio di Buon Anno, affermando: “Sono elettrizzata dai progressi che sta facendo Hillary”. È il periodo in cui si stanno completando i preparativi per la designazione alla primarie del Partito democratico che partiranno a febbraio; e la risposta del Capo Staff di Hillary non lascia adito a dubbi: “Non vedo l’ora di lavorare con te per eleggere la prima donna presidente degli Stati Uniti”.

Sheryl Sandberg (oggi una delle dirigenti Facebook al centro dello scandalo) è la donna che Zuckerberg volle fortemente nella sua azienda strappandola nel 2008 al diretto concorrente Google. La manager, da sempre democratica, aveva lavorato nell’amministrazione di Bill Clinton come capo staff di Larry Summers il Segretario del Tesoro, voluto proprio dal marito di Hillary. Il rapporto tra Podesta e la Sandberg è di vecchia data. Nell’agosto del 2015 lei scrive a lui per chiedergli se fosse disposto ad incontrare direttamente Mark Zuckerberg. Il grande capo di Facebook è interessato ad incontrare persone che “lo aiutino a capire come fare la differenza sulle questioni di politica a cui lui tiene maggiormente” e “comprendere le operazioni politiche efficaci per far avanzare gli obiettivi” tematici a cui lui tiene, come “immigrazione, istruzione e ricerca scientifica”. E chi avrebbe potuto farlo meglio del guru della campagna elettorale di colei che erano tutti convinti, sarebbe diventata il successivo presidente degli Stati Uniti?

Conclusione. Lo scandalo Cambridge Analytica che doveva essere l’ennesimo attacco contro Trump e la sua elezione si sta trasformando in un boomerang per Democratici e sopratutto per Facebook; l’azienda è oggi al centro del mirino delle polemiche per un modello di business che si fonda proprio sull’accaparramento e la cessione dei nostri dati di privacy che possiede nel momento in cui noi inseriamo la nostra vita, le nostre immagini, le amicizie e la nostra identità all’interno del social media. Ma la questione è sopratutto politica: quello che oggi è scandalo perché fatto per la campagna elettorale di Trump, fu ritenuta una grande innovazione quando lo fece Obama. Con in più un particolare di non poco conto: che nel caso di Obama, Facebook ne era a conoscenza e consentì la depredazione dei dati degli americani. Forse, all’interno del suo “mea culpa”, è di questo che Zuckerberg e i vertici di Facebook dovrebbero rispondere all’opinione pubblica.

Cambridge Analytica gate: il dito e la luna, scrive Guido Scorza il 21 marzo 2018 su "L'Espresso". Se esisteva ancora qualcuno al mondo che non conosceva Facebook ora lo conosce certamente. Lo scandalo che ha travolto il più popolare social network della storia dell’umanità è, da giorni, sulle prime pagine dei media di tutto il mondo. Il “diavolo” è nudo. Se non è già avvenuto, presto qualcuno titolerà così uno dei tanti feroci j’accuse all’indirizzo di Zuckerberg. Ma si commetterebbe uno dei tanti errori dei quali la narrazione mediatica globale – in alcuni Paesi tra i quali il nostro più che in altri – è piena zeppa. Vale la pena, quindi, di mettere nero su bianco qualche punto fermo in questa vicenda e provare anche a trarne qualche insegnamento senza rischiare di perder tempo a fissare il dito, lasciando correre via la luna. La prima necessaria considerazione è che nessuno ha rubato né a Facebook, né a nessun altro i dati personali dei famosi 50 milioni di utenti. Non in questa vicenda. Quei dati – stando a quanto sin qui noto – sono stati acquisiti direttamente da 270 mila utenti che hanno deliberatamente – per quanto, naturalmente, si possa discutere del livello di reale consapevolezza – scelto di renderli disponibile al produttore di una delle centinaia di migliaia di app che ciclicamente ci offrono la possibilità di velocizzare il processo di attivazione e autenticazione a fronte del nostro “ok” a che utilizzino a tal fine i dati da noi caricati su Facebook e a che – già che ci sono – si “aspirino” una quantità più o meno importante di altri dati dalla nostra vita su Facebook. Basta andare su Facebook, cliccare su “impostazioni” – in alto a destra – e, quindi, su “app” per rendersi conto di quanto ampio, variegato e affollato sia il club dei gestori di app ai quali, dalle origini del nostro ingresso sul social network a oggi abbiamo dato un permesso, probabilmente, in tutto e per tutto analogo se non identico a quello che i 270 mila ignari protagonisti della vicenda hanno, a suo tempo, dato al gestore dell’app “This is Your Digital Life”. E basta cliccare sull’icona di una qualsiasi delle app in questione per avere un elenco, più o meno lungo, delle categorie di dati che, a suo tempo, abbiamo accettato di condividere con il suo fornitore. E’ tutto li, a portata di click, anche se per aver voglia di arrivare a sfogliare le pagine in questione, forse, è stato necessario che scoppiasse uno scandalo planetario perché, altrimenti, nel quotidiano la nostra navigazione su Facebook sarebbe proseguita si altri lidi, come accaduto sino a ieri e, probabilmente, come succederà nelle prossime settimane. La seconda considerazione – direttamente correlata alla prima – è che Facebook non è stata vittima di nessun breach, nessuna violazione dell’apparato di sicurezza che protegge i propri sistemi, nessun attacco informatico di nessun genere. Non in questa vicenda, almeno. Sin qui, quindi, tanto per correggere il tiro rispetto a quello che si legge sulle prime di centinaia di giornali, nessun furto, nessuno scasso, nessun furto con scasso.

E allora? Come ci è finito Facebook sul banco degli imputati del maxi processo più imponente e severo della sua storia?

La risposta è di disarmante semplicità anche se difficile da conciliare con quanto letto e sentito sin qui decine di volte. Facebook viene portato alla sbarra proprio perché non ha subito nessun furto scasso e questa vicenda ha semplicemente confermato – non certo per la prima volta – che la sua attività – che è la stessa di milioni di altre imprese di minor successo in tutto il mondo – è pericolosa ed espone ad un naturale e ineliminabile rischio alcuni tra i diritti più fondamentali degli uomini e dei cittadini. Attenzione, però: espone a un rischio tali diritti ma non li viola. Al massimo, come accaduto nel Cambridge Analytica gate, facilita l’azione di chi tali diritti voglia consapevolmente violare. Ed è esattamente questo che accaduto nella vicenda in questione: una banda di sicari delle libertà – perché ogni definizione diversa non renderebbe giustizia al profilo dei veri protagonisti negativi della vicenda – assoldati da mandanti nemici dell’A,B,C della democrazia ha furbescamente approfittato della debolezza del sistema Facebook a proprio profitto e in danno della privacy e, forse, della libertà di coscienza di milioni di persone.

E’ la debolezza del suo ecosistema la principale colpa di Facebook. L’aver reso possibile una tragedia democratica che – ammesso che le ipotesi possano trovare una conferma scientifica – ha condizionato l’esito delle elezioni negli Stati Uniti d’America e il referendum che ha portata l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea. E guai a dimenticare che sono queste ipotetiche conseguenze ad aver reso una vicenda che in realtà non fa altro che confermare che un uovo sodo ammaccato a una delle due estremità può stare in piedi da solo. Il famoso uovo di Colombo. Perché se la stessa tecnica – egualmente fraudolenta ed egualmente figlia dell’intrinseca debolezza dell’ecosistema Facebook – fosse stata utilizzata, come sarà stata utilizzata milioni di volte, per vendere qualche milione di aspirapolveri, oggi, evidentemente, non saremmo qui a parlarne e non sarebbe accaduto che le Autorità di mezzo mondo si siano messe in fila davanti alla porta di Menlo Park, bussando per chiedere audizioni e ispezioni, rappresentando possibili sanzioni e conseguenze salate. Guai a dire tanto rumore per nulla. E guai anche a suggerire l’assoluzione di Facebook che, tra le sue colpe, ha – ed è forse la più grave – quella di esser stato a conoscenza da anni dei rischi che 50 milioni di propri utenti stavano correndo ma di aver scelto di non informarli. Ma, ad un tempo, se si vuole evitare di lasciarsi trascinare e travolgere dall’onda lunga della sassaiola mediatica val la pena di trovare il coraggio di fissare in mente questa manciata di considerazioni di buon senso prima che di diritto. Anche perché, a condizione di trovare la necessaria serenità di giudizio e una buona dose di obiettività, da questa vicenda c’è, comunque, molto da imparare. Bisogna, però, esser pronti a non far sconti a nessuno, a mettersi in discussione in prima persona e resistere alla tentazione di dare addosso a Facebook con l’approssimazione emotiva che connota la più parte degli attacchi che si leggono in queste ore. In questa prospettiva sul banco degli imputati, accanto a Facebook, dovrebbe salirci un sistema di regole che, evidentemente, ha fallito, ha mancato l’obiettivo e si è rivelato inefficace: è quello a tutela dei consumatori, degli interessati, degli utenti basato sugli obblighi di informazione e sulle dozzine di flag, checkbox e tasti negoziali. Le lenzuolate di informazioni che Facebook – e naturalmente non solo Facebook – da, per legge, ai suoi miliardi di utenti non servono a nulla o, almeno, non sono abbastanza perché questa vicenda dimostra plasticamente che gli utenti cliccano “ok” e tappano flag senza acquisire alcuna consapevolezza sulla portata e sulle conseguenze delle loro scelte. Anzi, a volercela dire tutta, questo arcaico e primitivo sistema regolamentare produce un risultato diametralmente opposto a quello che vorrebbe produrre: anziché tutelare la parte debole del rapporto finisce con il garantire alla parte forte una prova forte e inoppugnabile di aver agito dopo aver informato a norma di legge la parte debole ed aver raccolto il suo consenso.

Così non funziona. E’ urgente cambiare rotta. Basta obblighi di informativa chilometrici e doppi, tripli e quadrupli flag su improbabili check box apposti quasi alla cieca, su schermi sempre più piccoli e mossi, esclusivamente, dalla ferma di volontà di iniziare a usare il prima possibile il servizio di turno. Servono soluzioni più di sostanza. Servono meno parole e più disegni. Servono meno codici e più codice ovvero informazioni capaci di esser lette direttamente dai nostri smartphone e magari tradotte visivamente in indici di rischiosità, attenzione e cautela.

La vicenda in questione è una storia di hackeraggio negoziale. Se si vuole per davvero evitare il rischio che si ripeta è in questa prospettiva che occorre leggerla. E sul banco degli imputati assieme a Facebook dovrebbe, egualmente, salire chi, sin qui, ha sistematicamente e scientificamente ridimensionato il diritto alla privacy fino a bollarlo come un inutile adempimento formale, un ostacolo al business o un freno al progresso. Perché non ci si può ricordare che la privacy è pietra angolare delle nostre democrazie solo quando, violandola, qualcuno – a prescindere dal fatto che riesca o fallisca nell’impresa – si mette in testa di condizionare delle consultazioni elettorali o referendarie. In caso contrario le conseguenze sono quelle che oggi sono sotto gli occhi di tutti: utenti che considerano la loro privacy tanto poco da fare il permesso a chicchessia di fare carne da macello dei propri dati personali, disponendone con una leggerezza con la quale non disporrebbero delle chiavi del loro motorino, della loro auto o del loro portafogli e Autorità di protezione dei dati personali con le armi spuntate e costrette a registrare episodi di questo genere leggendo i giornali quando non i buoi ma i dati personali di decine di milioni di utenti sono ormai lontani dai recinti.

Anche qui bisogna cambiare strada e cambiarla in fretta. E’ urgente tracciare una linea di confine netta, profonda invalicabile tra una porzione del diritto alla protezione dei dati personali che è giusto e indispensabile che resti appannaggio del mercato e una porzione che, invece, meriterebbe di entrare a far parte dei diritti indisponibili dell’uomo come lo sono le parti del corpo umano, sottratta, per legge, al commercio, agli scambi e al mercato a prescindere dalla volontà dei singoli utenti. Ed è urgente investire sulle nostre Autorità di protezione dei dati personali perché non si può, al tempo stesso, scandalizzarsi di episodi come quello della Cambridge Analytica e pretendere che un’Autorità di poche decine di professionisti e finanziata con una percentuale infinitesimale del bilancio dei nostri Stati garantisca protezione, regolamentazione e vigilanza su quello che è ormai diventato il più grande, proficuo e per questo attaccabile mercato globale. Facciamo tesoro di quello che è accaduto. Leggiamo i fatti con obiettività e, soprattutto, facciamo quanto possibile per cambiare rotta perché il problema non è Facebook e, in assenza di correttivi importanti, se anche domani la borsa condannasse Facebook all’estinzione, non avremmo affatto risolto il problema.

Dal Lago: «La disinformazione è diventata un’arma per vincere in politica», scrive Giulia Merlo il 22 Marzo 2018 su "Il Dubbio". «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». Per Alessandro Dal Lago, sociologo e studioso dei fenomeni del web, lo scandalo che ha investito Facebook ha fatto venire alla luce lo sfruttamento illegale di informazioni che, però, già da tempo sono diventate uno strumento politico.

L’inchiesta contro Cambridge Analytica ha aperto il vaso di Pandora del lato oscuro dei social?

«Ha rivelato che i nostri dati, sia pubblici che privati come le reti di amicizia su Facebook, possono essere usate per campagne di profilazione e per la creazione di modelli di utenza. In seguito, questa mole di informazioni può essere usata per campagne di marketing e di propaganda politica. Così, il cittadino della lower class americana esasperato dalla mancanza di lavoro e che odia i vicini di casa neri diventa personaggio medio, utilizzabile come modello per studiare una propaganda mirata. Considerando che i dati analizzati hanno permesso alla Cambridge Analytica di profilare 50 milioni di utenti, si capisce la portata del fenomeno».

E questo quali problemi solleva?

«Da una parte c’è il tema della tutela della privacy e le ipotesi sono due: o Facebook sapeva dell’indebita profilazione e dunque è connivente, oppure non sapeva e questo significa che il sistema è penetrabile. Tutto sommato, questa seconda prospettiva mi sembra la più grave».

I dati sono stati usati per fare campagne politiche.

«Il rilievo politico della vicenda porta in primo piano l’esistenza di società di big data, che puntano a controllare l’opinione pubblica e che fanno parte di un mondo pressochè sconosciuto alla collettività. Basti pensare che, prima di qualche giorno fa, nessuno conosceva Cambridge Analytica, e come questa esistono altre centinaia di società analoghe. Senza complottismi, è evidente come esistano ambienti che, attraverso la consulenza strategica, sono interessati a orientale la politica globale. Altro dato, la presenza nell’inchiesta di Steve Bannon – noto suprematista bianco e stratega di Trump – mostra come la capacità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la manipolazione dei dati sul web è più forte nella destra globale che non nella sinistra».

Davvero un post pubblicitario su Facebook è in grado di condizionare l’elettorato fino a questo punto?

«E’ più che normale che sia in grado di farlo. La comunicazione si è evoluta: partiamo dal manifesto elettorale, e penso alla geniale trovata di propaganda anticomunista della Dc del 1948, con il manifesto dei cosacchi che si abbeverano a una fontana davanti a una chiesa. Poi sono arrivati i media generalisti come la televisione e la stampa, in cui la propaganda si faceva attraverso i modelli culturali. Penso alla Rai, in cui si propagandava un modello familiare che indirettamente finiva per legittimare la Dc. Oggi la propaganda è molto cambiata: il web e i social creano un pubblico universale, che accede alla stessa sfera comunicativa. Questo permette ai manipolatori intelligenti di arrivare istantaneamente a un pubblico enorme, influenzandoli a un livello impensabile solo fino a qualche anno fa».

In Italia esistono fenomeni simili di sfruttamento del web?

«La Casaleggio Associati è un esempio di questo. La società gestisce un’enorme rete di pagine Facebook e siti collegati al blog delle Stelle e indirettamente a quello di Beppe Grillo».

E come funziona, praticamente, il meccanismo?

«Le faccio un esempio. Esiste una pagina appartenente a questa galassia che si chiama “Alessandro Di Battista presidente del consiglio”, che contiene messaggi di propaganda in stile mussoliniano del tenore di: «Ringraziamo il guerriero Di Battista, eroe nazionale». Ora, si puo dire che queste parole suonino ridicole, ma bisogna leggerle in chiave social e in base al target degli elettori che si vogliono calamitare: giovani elettori del sud Italia, con una scolarità medio bassa. A questi soggetti si propone una propaganda che da una parte martella sull’odio per la casta e dall’altra propone un eroe nazionale. Considerando che pagine come queste hanno centinaia di migliaia di follower, è facile immaginare gli effetti».

Nulla di tutto questo, però, è illegale.

«Certo che no, però esiste un problema di profonda manipolazione della realtà contro la quale non esistono strumenti di difesa adeguati. Le fake news, infatti, non sono solo le notizie inventate ma per la maggior parte si tratta di manipolazioni di notizie verosimili, che vengono caricate di retorica per diventare virali e, nello stesso tempo, nessuno verifica che si tratta di falsi».

Si può parlare di un modello politico?

«E’ certamente un modello. Politicamente, io credo sia inquietante che i parlamentari del Movimento 5 Stelle abbiano sottoscritto un contratto ridicolo nel quale tuttavia si impegnano a versare 300 euro al mese alla Casaleggio Associati, che non è un partito ma un’azienda privata di comunicazione».

Si può dire che, oggi, vince le elezioni chi sa usare meglio questi strumenti del web?

«Diciamo che i social non sono lo strumento esclusivo, ma sono diventati quello decisivo. Difficile dire quanti milioni di voti abbia spostato la campagna di Cambridge Analytica però, se si pensa alle elezioni americane, anche un milione di voti in più o in meno può garantire l’elezione alla Casa Bianca. Insomma, la propaganda sul web è in grado di spostare le decisioni».

Il web, quindi, condiziona la realtà?

«Il web ne condiziona la percezione, e questo è decisivo. La realtà e i conflitti continuano ad esistere, ma il modo in cui vengono percepiti e il luogo in cui si propongono le soluzioni è deciso dalla propaganda sul web. In questo modo la sfera di comunicazione virtuale decide l’orientamento dei settori critici dell’elettorato. Tornando ai 5 Stelle: il loro sistema di comunicazione prevede di generare un cortocircuito tra l’abile uso delle news sul web e la sistematica disinformazione».

Che ipocrisia indignarsi se le nostre vite sono in vendita, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". Ma siamo sicuri che quello di Cambridge Analytica sia uno scandalo con la esse maiuscola? È davvero una notizia sconvolgente o è una notizia di dieci anni fa? Ricapitoliamo: molti di noi, dal 2007, quotidianamente passano ore a caricare foto, scrivere post, fare giochi, installare app e seminare like su Facebook. Cosa stiamo facendo in quel determinato momento? Stiamo perdendo tempo, dice qualcuno. Ci stiamo divertendo e stiamo socializzando, dice qualcun altro. Stiamo cedendo una mole incredibile di dati sulla nostra vita, dice Mark Zuckerberg. E lo dice chiaramente. Perché vendere, ovviamente in modo anonimo, le nostre informazioni - che poi sono i nostri gusti, i nostri hobby, i luoghi che amiamo o la marca del nostro dentifricio preferito - è la ragione sociale di Facebook. È il suo business, il suo mestiere. Cadere dalle nuvole è surreale, è come stupirsi che un calzolaio lustri le scarpe. Vi siete mai chiesti come ha fatto una matricola di Harvard a racimolare un patrimonio da 70 miliardi di euro? Coi vostri status, le foto dei vostri gatti e i vostri «mi piace». E noi tutti, iscrivendoci al social network, abbiamo accettato, più o meno consapevolmente, questo mercimonio. Ti diamo un po' di noi in cambio di quindici like di notorietà, abbiamo barattato la nostra privacy con una vetrina dalla quale poterci esporre al mondo virtuale. Dunque qual è il problema? Il problema è che in questo caso un'azienda terza ha utilizzato le «nostre» informazioni all'insaputa di Facebook. Grave, certo. Ma nulla di particolarmente sconvolgente. Un traffico che, abbiamo ragione di immaginare, accade molto spesso per scopi commerciali. Il problema è che l'opinione pubblica è disposta ad accettare di vedere comparire sulla propria bacheca la pubblicità della propria maionese preferita, ma se entra in ballo la politica la questione cambia. Se poi, come in questo caso, entrano in ballo la Brexit e gli impresentabili Trump e Bannon allora la faccenda precipita. Possibile che le anime belle della Silicon valley, quelli che per mesi ci hanno detto che Trump era un pazzo scatenato, lo abbiano lasciato giocherellare coi nostri dati? Sì, perché pecunia non olet. Nemmeno per i nerd di San Francisco. E, per loro, la nostra opinione politica è un dato come un altro, masticato e sputato dagli algoritmi per poi essere rivenduto. È l'era dei big data e della data economy. Che prima piacevano tanto agli intelligentoni à la page, ma che ora, sembra andargli di traverso. Ma è anche l'era della data politics. E, al netto delle ripercussioni giudiziarie che ci saranno su questo caso, le campagne elettorali si sposteranno sempre di più sulla profilazione degli utenti del web e sulla psicometria. Così sui nostri social, accanto alla pubblicità delle nostre cravatte preferite, compariranno anche informazioni e annunci politici. È manipolazione? No, è solo un'altra forma di marketing. Elettore avvisato...

Come si manipola l’informazione: il libro che ti farà capire tutto, scrive Marcello Foa il 17 marzo 2018 su "Il Giornale". Ci siamo: il mio saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”, pubblicato da Guerini e Associati, è in libreria da quattro giorni e i riscontri sono davvero incoraggianti, sia sui media (ne hanno parlato con ampio risalto il Corriere del Ticino, La Verità, il Giornale, Libero, Dagospia), sia da parte dei lettori. Alcuni mi hanno scritto: ma cosa c’è di nuovo rispetto alla prima edizione del 2006? C’è molto: le tecniche usate dai governi per orientare e manipolare i media, che descrissi 12 anni fa, sono valide ancora oggi e vengono applicate ancor più intensamente, per questo le ripropongo anche in questo secondo atto ma attualizzate, ampliate e, nella seconda parte del libro, arricchite da capitoli completamente nuovi, che permetteranno al lettore di entrare in una nuova dimensione: quella, sofisticatissima ma indispensabile per capire le dinamiche odierne, dell’informazione quale strumento essenziale delle cosiddette guerre asimmetriche, che vengono combattute senza il ricorso agli eserciti ma i cui effetti sono altrettanto poderosi e che raramente vengono spiegate dai media. Attenzione: non riguardano solo il Vicino Oriente o l’Ucraina, ma anche le nostre democrazie, molto più esposte di quanto si immagini. Non mi dilungo, ovviamente.   Sappiate che in questo saggio approfondisco l’uso (e l’abuso) del concetto di frame dimostrando come sia stato impiegato per “vendere” al popolo l’euro e impedire per anni un dibattito oggettivo sugli effetti della moneta unica o per costruire il mito del salvataggio della Grecia e quello dell’autorazzismo nei confronti della Germania. Ne “Gli stregoni della notizia. Atto secondo” riprendo alcuni documenti governativi, noti solo agli specialisti, sull’impressionante influenza del Pentagono su film e produzioni di  Hollywood, spiego il ruolo opaco degli spin doctor e delle società di PR negli allarmi sanitari (dalla Mucca Pazza all’influenza suina, da Ebola a Zika) e quale ruolo hanno avuto le Ong e le loro sorelle maggiori (le quango ovvero le Ong quasi autonome, sconosciute ai più) nelle rivoluzioni colorate e nelle operazioni di destabilizzazione di Paesi, che un tempo erano opera  esclusiva dei servizi segreti. Accendo un faro sugli aspetti poco noti dell’ascesa di Macron, sull’altro volto di Obama, dedico molte pagine all’Italia, in particolare spiegando le tecniche di spin che sono state decisive nell’ascesa e nella caduta di Matteo Renzi e denuncio le ipocrisie sulle fake news, dimostrando come servano a rendere l’informazione non più trasparente ma più docile e, possibilmente, sottoposte a censura. E’ un libro che ho scritto a cuore aperto, documentatissimo, rivolto a lettori che hanno voglia di capire e di scavare oltre le apparenze, come Giorgio Gandola, che lo ha recensito su La verità, ha capito perfettamente. Spero, di cuore, che vi piaccia. Ne parlo anche nella bella intervista che mi ha fatto Claudio Messora per Byoblu e che trovate qui sotto. Vi lascio ricordandovi la presentazione che si svolgerà lunedì 19 a Milano, alla libreria Hoepli, ore 17.30 con Nicola Porro e lo stesso Gandola. Altre seguiranno in diverse città italiane. Grazie a tutti voi e, naturalmente, buona lettura!

Ecco come lavorano i persuasori (non) occulti al servizio dei governi. Gli spin doctor sfruttano le convinzioni diffuse fra il pubblico. E agitano lo spettro complottista, scrive Marcello Foa, Giovedì 15/03/2018, su "Il Giornale". Le insidie che avevo individuato nel 2006, preconizzandone le derive si sono, purtroppo, puntualmente verificate. Allora scrivevo che il fatto che i giornalisti non conoscessero le tecniche per orientare e all'occorrenza manipolare i media, avrebbe non solo reso molto più fragili le nostre democrazie, generando un sentimento di crescente sfiducia verso la classe politica, ma anche danneggiato la credibilità dell'informazione. È il mondo in cui viviamo oggi. Quelle tecniche, come allora, restano ampiamente sconosciute ai media e, naturalmente, al grande pubblico. Eppure comprenderle è indispensabile se si vuole cercare di decodificare l'attualità senza limitarsi all'apparenza, come dovrebbe fare ogni giornalista e come dovrebbe esigere ogni lettore. Certo, il mondo mediatico nel frattempo è cambiato. Un tempo la cosiddetta grande stampa aveva il monopolio dell'informazione, oggi non più e subisce la concorrenza, a mio giudizio salutare, dei siti e dei blog di informazione alternativi. Oggi il mass media è sostituito dal personal media che ognuno si costruisce attraverso la propria rete sui social. Oggi si guarda meno la tv e si passa molto più tempo a «chattare» su Whatsapp, a pubblicare foto e a tessere relazioni su Instagram. Oggi, naturalmente, la diffusione di notizie false è ancora più facile benché, come vedremo, non sia affatto una prerogativa della nostra epoca. Ma gli spin doctor sono ancora tra noi, più influenti, più informati, più pervasivi che mai. E non hanno modificato il loro obiettivo, che resta quello di condizionare noi giornalisti e, in fondo, te, caro lettore; con la decisiva complicità del mondo politico. Lo spin doctor non ha bisogno di contare sul controllo dei media, perché sa che per orientare i giornalisti è sufficiente conoscere le loro logiche. E da buon persuasore è convinto che la propaganda sia davvero efficace solo quando non è facilmente riconoscibile. Infatti opera avvalendosi di:

- una comprensione perfetta dei meccanismi che regolano il ciclo delle informazioni;

- il ricorso a sofisticate tecniche psicologiche, che gli consentono di condizionare le masse.

Tra queste ultime il concetto più importante in assoluto è quello del frame, che è stato elaborato dal linguista americano George Lakoff, il quale sostiene che ognuno di noi ragiona per cornici di riferimento costituite da una serie di immagini o di giudizi o di conoscenze di altro tipo (culturali, identitarie). Ogni giorno noi elaboriamo continuamente, senza esserne consapevoli, dei frame valoriali, che possono essere effimeri o profondi se associati, su temi importanti, a una forte emozione e ai nostri valori più radicati. La nostra visione della realtà e il nostro modo di pensare ne risultano condizionati, perché una volta impressa una larga, solida cornice, il nostro cervello tenderà a giudicare la realtà attraverso questi parametri. Tutte le notizie coerenti con il frame saranno recepite ed enfatizzate facilmente dalla nostra mente, rinforzando la nostra convinzione. Al contrario, tutte quelle distoniche tenderanno a essere relativizzate o scartate come assurde e, nei casi più estremi, irrazionali, folli o stupide. Alla nostra mente non piacciono le contraddizioni e questo spiega perché per un militante di destra gli scandali che colpiscono politici di sinistra sono percepiti come gravissimi e veritieri, mentre quelli che colpiscono la propria parte derubricati come delegittimati, irrisori o faziosi. E naturalmente viceversa. Un abile spin doctor riesce, calibrando le parole, a indirizzare l'opinione pubblica nella direzione voluta. La tecnica del frame viene usata non solo per forgiare un giudizio su notizie contingenti, ma anche per stabilire nell'opinione pubblica dei valori di fondo e dunque il confine tra politicamente corretto e politicamente scorretto; tra ciò che è conveniente o non conveniente dire su un argomento; tra ciò che l'opinione pubblica «moderata» deve considerare ragionevole o deve respingere come scandaloso, ponendo di fatto le premesse per screditare le opinioni che travalicano quel confine invisibile e che possono pertanto, all'occorrenza, essere etichettate come estremiste, complottiste o fasciste.

A proposito di cospirazionismo, sapevate che il termine fu inventato dalla Cia ai tempi dell'omicidio Kennedy per screditare le tesi di coloro che contestavano la versione ufficiale stabilita dalla Commissione Warren? Lo spiega il professor Lance Dehaven-Smith, osservando come gli effetti di quell'operazione, circostanziati nel dispaccio 1035-960, sorpresero persino i vertici di Langley. Da allora è diventato un metodo: quando vuoi screditare qualcuno lo accusi di essere complottista. Facendo così ottieni due scopi: screditi le sue tesi agli occhi della massa e lo costringi ad assumere un atteggiamento difensivo, ovvero a dimostrare di non essere cospirazionista e dunque, sovente, a moderare i toni delle sue denunce, pena l'autoghettizzazione. Che poi le sue accuse siano plausibili o fondate diventa inevitabilmente secondario; anzi, colpendo l'autorevolezza di chi critica, delegittimi in toto le sue idee. E se costui persiste lo fai apparire sacrilego. Impedisci che anche sulle critiche fondate si apra una vera riflessione pubblica. Una volta stabilito, il frame resiste nel tempo e può essere scacciato solo da un altro equivalente che abbia pari o superiore legittimità. Un esempio? La fine politica di Antonio Di Pietro. Come ricorderete a screditarlo fu un'inchiesta di «Report» sul suo (presunto) impero immobiliare, accumulato approfittando anche dei fondi del partito. Quelle accuse non erano nuove, poiché erano già state formulate da alcuni giornali come il Giornale e Libero, ma non avevano scalfito l'immagine dell'ex pm rispetto al suo elettorato, perché ritenute faziose e dunque almeno parzialmente false. Quando però sono state avanzate da Milena Gabanelli, dunque da una fonte autorevole e super partes, il leader dell'Italia dei Valori è stato travolto. Ovvero il frame Gabanelli ha scacciato il frame Di Pietro sul terreno su cui entrambi si erano costruiti la reputazione, quello dell'onestà.

5 STELLE: PAROLE, PAROLE, PAROLE...

Bufera per la frase di Grillo sugli autistici: “Non li capisce nessuno, fanno esempi che non c’entrano un c...”. Scrive il 22 ottobre 2018 "La Stampa". «Chi siamo? Dove siamo? Siamo pieni di malattie nevrotiche, siamo pieni di autismi. L’autismo è la malattia del secolo, signori, e l’autismo non lo riconosci. Per esempio, la sindrome di Asperger: c’è pieno di questi filosofi in televisione che hanno la sindrome di Asperger che è quella sindrome di quelli che parlano in un modo e non capiscono che l’altro non sta capendo e vanno avanti e magari fanno esempi che non c’entrano un cazzo. con quello che stanno dicendo, hanno quel tono sempre uguale. Abbiamo bambini violentati da anziani, come Macron. Ci danno dei lebbrosi. Io a sentirmi dire da uno psicopatico così che sono un lebbroso dico: in fondo della lebbra chi cazzo. se ne frega». Ecco le parole di Beppe Grillo dal palco di Italia a 5 Stelle che al momento hanno suscitato le risate del pubblico e che da ore continuano ad agitare i social ma non solo. «Insultare un bambino autistico è peggio di insultare un presidente. Beppe Grillo, fai schifo», il commento di Matteo Renzi su Twitter.

Quando Di Maio diceva: “Se trovate una mia proposta di legge di condono su Ischia mi iscrivo al Pd”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 23 ottobre 2018. Il terremoto aveva colpito l’isola di Ischia da 48 ore, provocando il crollo di diverse case e la morte di due persone. E Luigi Di Maio, all’epoca deputato del M5s, in un comizio, datato 23 agosto 2017, diceva: “Chiedo a tutti i parlamentari della Repubblica e tutti i giornalisti italiani di andare a vedere se esiste una proposta di legge di condono, a firma Luigi Di Maio, che riguarda Ischia o qualsiasi altra Regione. Se la trovano, mi iscrivo al Pd”. Nella notte i relatori Gianluca Rospi (M5s) e Flavio Di Muro(Lega) hanno presentato un emendamento all’articolo 25 del decreto Genova, votato in commissioni Ambiente e Trasporti alla Camera, in cui si legge che “il contributo (alla ricostruzione post terremo per gli edifici, ndr) non spetta per la parte relativa a eventuali aumenti di volume oggetto al condono”. Per tutti gli altri casi, secondo la lettura di Legambiente, sì. Per il presidente Stefano Ciani, infatti, è prevista “una sanatoria tombale secondo la quale si devono concludere i procedimenti ancora pendenti per gli immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 2017, facendo riferimento alle sole disposizioni del primo condono, ossia la legge 47/1985 approvato dal governo Craxi. Una norma che consentirebbe di sanare edifici che perfino i due condoni approvati successivamente dai governi Berlusconi nel 1994 e 2003 vietavano, proprio perché posti in aree pericolose da un punto di vista idrogeologico e sismico, oltre che vincolate paesaggisticamente”. L’emendamento all’articolo 25 “è un imbroglio – afferma Ciafani – perché aggiunge un passaggio, il nulla osta paesaggistico, già previsto nella normativa del 1985, e conferma i contributi pubblici per gli edifici abusivi, escludendoli solo per gli aumenti di cubatura”. La richiesta di Legambiente, dunque, rivolta a Di Maio e M5s, è di cancellare quella che viene definita una norma “salva abusi”, perché “se per la Lega non è una novità, considerato che ne ha già approvati due nelle scorse legislature”, per i 5 stelle “lo sarebbe”. Per Rospi, al contrario, non ci sarebbe nessun condono, ma solo la volontà di sbloccare la ricostruzione delle abitazioni colpite dal terremoto”. Il video di Di Maio è stato pubblicato su Twitter dal presidente del Pd Napoli, Tommaso Ederoclite.

Ora a Di Maio tocca iscriversi al Pd. Il leader grillino in un comizio del 2017: “Cercate una mia proposta di legge di condono che riguarda Ischia o qualche altra regione: se la trovate mi iscrivo al partito democratico”, scrive il 23 Ottobre 2018 Il Foglio. Lo si dice sempre: "Internet non dimentica". Questa volta è stato Tommaso Ederoclite, il presidente dell'assemblea metropolitana del Pd Napoli, a ripescare dal web un comizio del 23 agosto 2017 del leader politico del M5s nel quale Di Maio diceva: "Cercate una mia proposta di legge di condono che riguarda Ischia o qualche altra regione: se la trovate mi iscrivo al Pd". Scrive Ederoclite su Twitter: “Ti aspetto in Federazione Luigi”. 

Tommaso Ederoclite: Era il 23 agosto 2017 e @luigidimaio urlava dal palco "cercate una mia proposta di legge di condono che riguarda Ischia o qualche altra Regione: se la trovate mi iscrivo al Pd". Ti aspetto in Federazione Luigi.

15:06 - 23 ott 2018. Sulla questione del condono edilizio extra large di Ischia, Valerio Valentini ha parlato con la senatrice grillina Elena Fattori che conferma: “È molto grave, tutto ciò. Non lo nego. I nostri deputati sono sconcertati: non si capacitano di come una simile misura sia potuta essere avanzata dal M5s”. Pare sia arrivato da molto in alto, l’ordine: si dice che Di Maio in persona sia molto interessato a quel decreto. “Non so dire di chi sia la manina, stavolta. Ma di certo è una manina che non fa onore al Movimento: spero che alla fine si trovi il modo di correggere quell’emendamento al decreto Genova. Che, come nel caso della soppressione degli Sprar, non era previsto né nel nostro programma elettorale né nel contratto di governo”.

Salvini e Di Maio, che figuraccia per l'Italia. Post, manine e complotti: i giorni in cui Moody declassa l'Italia e la Ue boccia la manovra gialloverde, scrive Sara Dellabella il 22 ottobre 2018 su "Panorama". “Conte leggeva, Di Maio scriveva” così Matteo Salvini racconta il dettato governativo del decreto fiscale che in queste ore sta infiammando il dibattito politico. Una scena degna di Totò e Peppino, del celebre "punto e punto e virgola".

Manine e complotti dell'era Di Maio. Però Di Maio non ci sta. Lo scrivano del consiglio dei Ministri, in quanto ministro più giovane, accusa che la norma sullo scudo fiscale sarebbe stata inserita da una “manina”, perchè ha affermato in un talk show,”il sistema è vivo e lotta contro di noi”. Ovviamente di fronte al complotto della manina il web si è scatenato in parodie e battute che vanno avanti da giorni. Ma se il complotto è dietro l'angolo non si capisce perchè i due vicepremier da giorni siano impegnati a lanciarsi invettive via social network, anziché vedersi, risolvere il problema e lottare uniti contro i mostri che si annidano nell'amministrazione pubblica.

Nella farsa spunta Conte. Giuseppe Conte, premier ufficiale di questo contratto di governo, ha finito per dover alzare il dito e ricordare a tutti che “il capo sono io”, richiamando i due vice ad un consiglio dei ministri per trovare una soluzione al pasticcio e per preparare la lettera che la Ue attende per lunedì dopo una durissima lettera di richiamo all'Italia. All'invito, Salvini inizialmente ha risposto “se serve vengo” e poi dopo alcune ore “carico mia figlia in aereo e vengo”. Dopo giorni di dibattito politico al limite della farsa e da commedia dell'assurdo, comunque finisca da questa “crisi” di contratto, più che di governo, di certo l'Italia ne esce con una figuraccia. L'immagine dei due vicepremier che si attaccano a distanza e pubblicamente come due scolaretti, un premier costretto a battere il pugno sulla cattedra per richiamare tutti all'ordine e qualcuno che preferirebbe entrare alla seconda ora pur di non rinunciare a qualche ora di campagna elettorale in Trentino ha fatto il giro dei giornali europei. Intanto Moodys ha declassato il rating dell'Italia e in chiusura di settimana lo spread è sempre stato sopra i 300 punti, con la Borsa di Milano che ha chiuso con segno meno, dopo una settimana complicata.

E' andato in scena il primo atto delle europee. Intanto però, l'impressione è che superato questo ostacolo sullo scudo penale per chi fa rientrare i capitali dall'estero, il governo abbia ancora molti mesi di fronte a sé. Il decreto fiscale, il braccio di ferro con l'Europa e i suoi commissari è solo il primo atto dei toni della campagna elettorale delle europee che di fatto è già iniziata. Salvini e Di Maio si presenteranno compatti di fronte a Moscovici, spiegheranno le “ragioni dell'Italia” nel fare deficit, perchè come ha già detto Di Maio con uno slogan vincente “serve a ridare diritti alle persone”, lasciando sottintendere che l'Unione Europea è una matrigna che in questi anni è andata contro gli interessi dei suoi cittadini. Ancora una volta, il populismo contro l'eurocrazia, i masanielli contro i burocrati. Questo rischiano di diventare le europee, un referendum tra due modelli, sovranisti contro europeisti convinti. Una sfida alla quale i partiti di maggioranza, una volta passata la burana, si presenteranno compatti. D'altronde anche nei migliori matrimoni ogni tanto si litiga.

Tutte le bugie e fake news di Luigi Di Maio da quando è al governo. Una lista dei tanti proclami, promesse a affermazioni del leader del Movimento 5 Stelle rivelatesi non vere. Dal no all'alleanza con la Lega e al premier "non eletto" fino a condoni e flat tax, scrivono Mauro Munafò e Susanna Turco il 16 ottobre 2018 su "L'Espresso".

Io sono del Sud, io sono di Napoli. Faccio parte di quella parte d’Italia cui la Lega diceva ‘Vesuvio lavali col fuoco’. Non ho nessuna intenzione di far parte di un Movimento che si allea con la Lega Nord. Luigi Di Maio a Porta a Porta (19/01/17) 

Noi non pensiamo ad alleanze con la Lega Nord o altri [...] Sono persone inaffidabili con cui non si può avere a che fare. Luigi Di Maio In un comizio in Sicilia (01/11/17) 

Salvini è un traditore politico. Salvini fa più schifo di Renzi e Berlusconi insieme. Blog delle Stelle (01/10/17). 

Il primo giugno giura il governo Conte sostenuto da M5S e Lega.

Al primo Consiglio dei ministri dimezziamo stipendi ai deputati e 30 miliardi di sprechi: bastano 20 minuti. Luigi Di Maio durante un comizio (02/02/18) 

In 22 Consigli dei ministri il taglio degli stipendi dei parlamentari o di 30 miliardi di sprechi non è mai stato affrontato.

La mia posizione è molto semplice: basta premier non votati da nessuno. Blog delle Stelle (03/04/18) 

Il premier Conte non è stato soggetto ad alcuna operazione di voto individuale.

Con pensione e reddito di cittadinanza che introduciamo con questa legge di Bilancio avremo abolito la povertà. Luigi Di Maio a Porta a Porta (26/09/18) 

Abbiamo eliminato la povertà per la prima volta nella storia. Movimento 5 Stelle su Facebook (28/09/18) 

Purtroppo no.

Il Movimento 5 Stelle al governo istituirà un ministero del Turismo che si dedicherà totalmente alle politiche del turismo in Italia. Luigi Di Maio su Facebook (25/05/17) 

Il ministero del turismo non è stato istituito.

Se l’Unione Europea si ostina ad avere il suo atteggiamento io e tutto il Movimento 5 Stelle non saremo disposti a dare più 20 miliardi di euro all’Unione Europea ogni anno, ce ne prendiamo una parte. Luigi Di Maio in un’intervista (24/08/18) 

L’Italia versa alla Ue più di quanto riceve, ma il saldo tra entrate e uscite è negativo in media di una cifra tra i 2 e i 4 miliardi.

La flat tax è una bufala ed è incostituzionale: meglio chiamarla flop tax. Scasserebbe i conti dello Stato e applicarla sarebbe una pura follia. Blog delle Stelle (01/02/18) 

Il 14 maggio 2018 M5S firma un contratto di governo con la Lega che prevede la flat tax.

È previsto l’adeguamento della disciplina dei permessi di soggiorno agli altri paesi europei. Solo in Slovacchia e in Italia c’è quello umanitario ed è per questo che viene abolito. Luigi Di Maio (25/09/18)

Sono 25 i Paesi europei a prevedere il permesso di soggiorno umanitario. Tra questi, 21 sono parte dell’Unione Europea (fonte: Pagella Politica)

Sull’intervento in Afghanistan siamo sempre stati chiari. Per noi quello è un intervento che per la spesa pubblica italiana è insostenibile. Il ritiro è nel nostro programma. Luigi Di Maio (14/11/17) 

La ministra della difesa trenta nel luglio 2018 Conferma che la missione resterà e parla di una riduzione del contingente da 900 a 700 persone solo “quando e se si trovassero altri alleati”.

Tagli alle spese militari relativi ad investimenti pluriennali per sistemi d’arma. Con questo taglio si destinano al reddito di cittadinanza le risorse prima destinate all’acquisto degli F35. Luigi Di Maio su Facebook (21/04/15) 

La ministra della difesa Trenta in un’intervista a luglio conferma che l’Italia resta nel programma F35, E aggiunge l’obiettivo di arrivare al 2 per cento di pil in spese militari. Oggi spendiamo l’1,4 per cento del pil.

Il Movimento non è disponibile a votare nessun condono. Quindi se noi stiamo parlando di pace fiscale, di saldo e stralcio, quello che avevamo anche noi nel programma, siamo d’accordo. Se invece parliamo di condoni non siamo assolutamente d’accordo. Luigi Di Maio (18/09/18) 

“Il condono fiscale consente di definire in modo agevolato i rapporti tributari, mediante la corresponsione di una somma di denaro inferiore al quantum a titolo di tassazione ordinaria, con contestuale abbandono della pretesa sanzionatoria” (fonte: Treccani)

L’Italia ha importato dalla Romania il 40 percento dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall’Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE! Luigi Di Maio su Facebook (12/04/17)

Bufala del tutto campata in aria nata da un'interpretazione errata di una vecchia dichiarazione del procuratore di Messina (Fonte: Pagella Politica).

Diverse migliaia di poliziotti risultano positivi al test di Mantoux sulla tubercolosi, un regalino del Ministero dell’Interno che li mandava a soccorrere gli immigrati senza dotazioni di sicurezza. Luigi Di Maio su Facebook (17/09/14)

Bufala: si trattava di poche decine di agenti. Le analisi mostrarono che nessuno aveva contratto la malattia (Fonte: Pagella Politica).

Fateci fare il governo e lo spread scenderà. Luigi Di Maio durante un comizio (29/05/18) 

A ottobre, dopo 4 mesi di governo, lo spread supera i 300 punti.

Lo spread è colpa di Forza Italia, Pd e dei loro giornali che fanno terrorismo mediatico. Luigi Di Maio alla stampa (29/09/18)

Abbiamo trovato i 17 miliardi (cioè il 2 per cento della spesa pubblica) che servono a restituire dignità e garantire 780 euro al mese a 10 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà. Luigi Di Maio su Facebook (09/07/16)

I punti salienti del nostro programma, Reddito di cittadinanza incluso, valgono a regime una spesa annua intorno ai 75 miliardi (con coperture di 70 miliardi). Il Movimento 5 Stelle può arrivare a coprirli senza dover fare i salti mortali. Anzi. Programma M5S sul Blog delle Stelle (01/18) 

Banca d’Italia, Corte dei conti, Commissione Ue e ufficio di bilancio del parlamento esprimono pesanti critiche per la mancanza di coperture della nota di aggiornamento al Def

Tav opera inutile e vergognosa. Luigi Di Maio su Facebook (20/12/16)

La tav è una montagna di merda, La Tav è un’opera inutile, anche un imbecille, se informato, lo capirebbe. Beppe Grillo sul Blog (2012) 

Ora e sempre NOTav, continuiamo e continueremo per sempre a dire NO al Tav. E saremo sempre al fianco dei cittadini della Valsusa! Blog delle Stelle (1/12/16) 

“Il nostro obiettivo sarà quello di migliore la Tav. Non vogliamo fare nessun tipo di danno economico all’Italia ma vogliamo migliorare un’opera che è nata molto male" dichiara il ministro 5 Stelle alle infrastrutture Danilo Toninelli il 23 luglio.

Con Il M5S al governo bloccheremo il Tap in due settimane. Alessandro Di Battista (2/4/2017) 

“Abbiamo le mani legate, lo stop avrebbe un costo troppo alto” dichiara il Ministro per il Sud del M5S Barbara Lezzi il 16 ottobre.

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

«Ha vinto il M5S, dateci il reddito di cittadinanza». L'assalto ai Caf del barese. Succede nel piccolo comune di Giovinazzo. Cittadini in fila per ottenere i moduli, centralini tempestati dalle telefonate al servizio di Comune e Regione, scrive l'8 marzo 2018 “L’Espresso. "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per Reddito di Cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone fra ieri e oggi si sono presentate ai Caf locali e, nel capoluogo, anche a Porta Futuro, il centro servizi per l'occupazione. Gli episodi, già resi noti dal sindaco di Giovinazzo (Bari), Tommaso Depalma, che ha parlato di file davanti ai Caf della città, si stanno verificando anche in queste ore. A Porta futuro a Bari, racconta il responsabile, Franco Lacarra, "sono una cinquantina le persone che tra ieri e oggi hanno chiesto i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza, si tratta soprattutto di giovani". "A noi sindaci - afferma Depalma - piacerebbe poter comunicare ai cittadini che il problema della disoccupazione è risolto e che per tutti quelli che non hanno lavoro c'è un Reddito di Cittadinanza, ma credo che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali". «Ovviamente - aggiunge Franco Lacarra   - non si tratta di folle oceaniche, ma comunque è certo che molta gente è alla ricerca dei moduli per ottenere il reddito di cittadinanza e ci chiede informazioni». «Sono soprattutto i giovani - aggiunge - che ci chiedono informazioni, naturalmente anche i Caf potranno dare una descrizione su quello che sta accadendo».

"Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza". Numerose richieste ai Caf da Bari e Palermo. A Giovinazzo e nel capoluogo pugliese decine di richieste. A Palermo un Caf costretto a mettere un avviso all'esterno. Ma i Cinque Stelle della Puglia attaccano: "Una mistificazione", scrive l'8 marzo 2018 "La Repubblica". "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per il reddito di cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone dopo l'esito del voto si sono presentate ai Caf locali. A Bari e a Giovinazzo - ma anche a Palermo dove gira anche un falso formulario - decine di cittadini hanno chiesto informazioni sulla modulistica per accedere al reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle. Nel job center di Porta Futuro a Bari, per esempio, in tre giorni sono pervenute da persone di età compresa tra i 30 e i 45 anni una cinquantina di richieste di accesso alla modulistica. "A chi si è affacciato chiedendo se fossero già disponibili i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza, abbiamo dato una risposta tecnica, dicendo che non c'è al momento nessun provvedimento che codifica questo strumento", ha chiarito Giovanni Mezzina, responsabile dei servizi di orientamento di Porta Futuro Bari. Anche a Palermo le richieste iniziano ad arrivare. Una decina di persone si sono presentate al Caf Asia di Piazza Marina. E al patronato dell'Ente nazionale di assistenza sociale ai cittadini (Enasc), per frenare il via vai di chi chiedeva informazione hanno affisso un foglio con la scritta in italiano e in arabo: "In questo Caf non si fanno pratiche per il reddito di cittadinanza". In Puglia, dal Comune di Giovinazzo, l'assessore alle Politiche Sociali, Michele Sollecito, racconta che le domande su questo specifico provvedimento si aggiungono, ma in termini di curiosità, a quelle che da tempo i cittadini pongono per accedere al Reddito di dignità (Red) della Regione Puglia e al Reddito di Inclusione (Rei) del Governo. "Non c'è nessuna nuova frenesia per il reddito di cittadinanza proposto dai 5Stelle, ma curiosità sì. Ma nessun pugno sul tavolo o nessuna rivendicazione animata. Perché Giovinazzo non è una città di indolenti parassiti". Dal canto suo il sindaco di Giovinazzo, Tommaso Depalma (lista civica), ritiene "che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali. La vittoria del M5S c'è stata, netta e inconfutabile, ma per il reddito di cittadinanza la vedo dura". Ma in Cinque Stella della Puglia parlano di mistificazione della realtà. E raccontano che anche il direttore di Porta Futuro, Franco Lacarra, "che per dovere di cronaca è il fratello del neoeletto deputato renziano Marco Lacarra del Pd ha confermato in maniera molto schietta che non vi era stato alcun assalto". Il comunicato di Porta Futuro, però, non smentisce: "Alcuni cittadini sono passati dal nostro sportello per chiederci informazioni e approfondimenti su questo tema. Vogliamo chiarire che tutto ciò è normale nel nostro Paese: succede ogni volta che vengono divulgate notizie rilevanti per le politiche del lavoro e per la vita dei cittadini, come è avvenuto per altre proposte legislative promosse negli ultimi mesi".

La Fake news contro il Movimento Cinque Stelle delle richieste di massa di reddito di cittadinanza, scrive il 9 marzo 2018 "Positano News". Da questa mattina in Puglia politici e giornali hanno lanciato una nuova bufala: FIUMI di persone avrebbero preso d’assalto alcuni CAF e centri per l’impiego per richiedere il reddito di cittadinanza. A lanciare l’allarme per primo il sindaco di Giovinazzo (BA) (che ha appoggiato il PD in campagna elettorale) che, commentando un articolo di una testata locale, ha parlato di “file davanti ai Caf della città”. La notizia è stata poi ripresa da “La Repubblica” che ha raccontato di “RAFFICHE DI RICHIESTE” anche per “Porta Futuro” il centro per l’impiego di Bari. UNA FOLLIA GENERALE CHE CI E’ APPARSA QUANTOMENO “SOSPETTA” ad appena 4 giorni dal voto, con un Governo nemmeno insediatosi in attesa che si sblocchi la situazione tra le varie forze politiche e dunque nessuna possibilità di legiferare. ABBIAMO DUNQUE DECISO DI ANDARE CONTROLLARE LA SITUAZIONE IN PRIMA PERSONA. Dopo aver girato alcuni CAF senza scorgere neanche lontani tentativi di “assalti”, abbiamo deciso di recarci direttamente a “Porta futuro”. Ingresso vuoto. Corridoi vuoti. (Dell’assalto e delle file interminabili mattutine, neanche un superstite). All’ingresso alcuni addetti ci hanno subito spiegato che “in realtà noi non abbiamo visto quasi nessuno, questa notizia ha lasciato di stucco anche noi”. Ci hanno dunque fatto parlare con il direttore Franco Lacarra (per dovere di cronaca sottolineiamo essere il fratello del neoeletto deputato renziano MARCO LACARRA (PD)) che in maniera molto schietta e onesta ci ha confermato che rispetto agli articoli letti non vi era stato alcun “assalto” ma che è solo capitato, come gli capita sempre per qualsiasi provvedimento compresi quelli regionali, che alcune persone NEGLI ULTIMI 3 GIORNI si siano recate a chiedere informazioni generiche sul reddito di cittadinanza. Abbiamo dunque chiesto al direttore di riportare la realtà dei fatti specificando di come si sia trattato di un fenomeno assolutamente normale e quotidiano per loro. Il direttore, d’accordo con noi, ha dunque richiesto al suo ufficio comunicazione di scrivere una smentita sul canale Facebook di Porta Futuro. Non sappiamo bene come sia potuto accadere ma solo pochi minuti dopo lo stesso direttore è stato contattato telefonicamente, davanti a noi, dallo staff del sindaco renziano ANTONIO DECARO (PD). Abbiamo ascoltato dunque il direttore costretto a “giustificarsi” spiegando che con questa smentita avrebbe voluto solo raccontare la verità dei fatti (a suo parere, testualmente, “una cazzata”). Nel frattempo, mentre eravamo ancora in loco, sono arrivati altri giornalisti del TG RAI, di Repubblica e pare che il direttore sia stato contattato anche dalla CNN. Tutto quanto vi abbiamo raccontato sopra è cronaca, ora traete voi le vostre conclusioni. Dal canto nostro, vorremmo solo dirvi una cosa: è evidente che la lezione di queste elezioni politiche a qualcuno non sia bastata. A questo punto vi preghiamo: se davvero avete così poca considerazione per l’intelligenza dei cittadini italiani continuate pure a diffondere falsi “scandali” e fake news, vorrà dire che alle prossime consultazioni elettorali il Movimento 5 Stelle volerà, da solo, oltre il 41%. A riveder le stelle…

I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime.  Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta.  Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano. 

Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.

Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.

La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).

Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.

Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.

LA SOLITA FAZIOSITA'.

Talk show: così il populismo ha vinto grazie alla tv, scrive Angela Azzaro l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Anni di tv fondata sulle urla e sull’emotività hanno favorito il passaggio dal popolo al populismo. Aldo Grasso, il critico televisivo e di costume del Corriere della sera, ha scritto sul ruolo che i talk show hanno avuto in questa ultima tornata elettorale. Secondo il professore della Cattolica di Milano i programmi di politica, che in questi anni hanno perso molti consensi, avrebbero favorito principalmente il Pd e Forza Italia, mentre l’assenza dalla tv avrebbe avvantaggiato i Cinque stelle. Il Pd, in realtà, ha avuto contro quasi tutte le tramissioni a cominciare da quelle che in teoria, ma appunto solo in teoria, dovrebbero essere amiche come Carta Bianca su Rai3. Pochissimi partiti al governo sono stati così osteggiati. I Cinque stelle invece hanno potuto contare su quasi tutto il palinsesto di La7: anche quando non erano presenti per- sonalmente in studio, erano rappresentati dai giornalisti ospiti, schierati molto spesso con il loro movimento. La Lega, pur con una strategia comunicativa in parte differente, ha potuto contare sulle trasmissioni di Del Debbio e Belpietro su Rete4. Ma la questione è molto più strutturale di un appoggio che potremmo definire “esterno” alle forze populiste che poi hanno vinto le elezioni. I talk show sono parte del “populismo”, per alcuni versi lo hanno creato, condizionando la percezione della realtà e gli schieramenti, ancora prima che partitici, ideologici e identitari. In questi anni siamo stati abitutati a una tv urlata, che ha dram- matizzato qualsiasi problema, dall’arrivo dei migranti alla sicurezza nelle città. Sono state davvero poche le trasmissioni che non abbiano alimentato la paura, creato l’odio per il diverso, fatto credere che i diritti degli uni ( chi arriva in Italia in fuga da fame e povertà) siano opposti ai diritti degli altri ( gli italiani). È una tv basata non sulla ragione e sui dati, ma sulle emozioni non mediate, sulla cosiddetta pancia, sull’irrazionalità. È una tv che ha creato un suo pubblico, lo stesso pubblico che ha poi votato Cinque Stelle e Lega che usano da questo punto di vista la stessa cifra comunicativa. Pier Paolo Pasolini, parlando prima di tutti in Italia di quel fenomeno che poi avremmo chiamato globalizzazione, teorizzava un mutamento antropologico degli italiani. Era il rimpianto delle lucciole, che aveva un certo sapore reazionario, ma che coglieva un cambiamento profondo della società. Oggi quel mutamento è diventato ancora più radicale e ha avuto come campo di battaglia proprio un modo di intendere la televisione e l’informazione. Il passaggio da popolo a populismo, dal conflitto all’odio, avviene dentro un format televisivo che vive tutto come una guerra, un processo mediatico, uno scontro. Le forze politiche che non hanno questo approccio alla politica hanno pagato un prezzo molto alto, non solo perché la loro voce risalta di meno, ma perché meno rispondono alla trasformazione antropologica e sociale avvenuta in questi anni. Il presidente del Censis De Rita, che ha fotografato la società del rancore, vede nuovi segni di cambiamento. Comunque sia questo cambiamento non può non passare anche attraverso una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, dalla tv a internet.

Sembrava il talk di Kim, ma era la Tv italiana, scrive Piero Sansonetti il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Ho visto in Tv, l’altra sera, un talk show dedicato al pasticcio- rimborsi dei 5 Stelle, e sono rimasto senza parole. Per come era organizzato, per le cose che si dicevano, per i protagonisti. Lo conduceva Enrico Mentana. Mentana, ma come fai un talk? Solo 5stelle a processare i 5stelle? Mentana è sicuramente è uno dei giornalisti italiani più bravi. Ed è un professionista di grandissima esperienza, ha lavorato ai massimi livelli in Rai a Mediaset e ora alla Sette. Eppure la sensazione netta era quella non di assistere a un dibattito ma ad una rappresentazione di regime. Scusate se uso questa parola così aspra, ma è quella giusta. Sia chiaro, non sono mai stato un fanatico della par condicio, anzi penso che sia una pessima cosa. Penso che l’informazione non la si possa fare col bilancino: deve godere di spazi di libertà, e professionali, che le norme della par condicio mortificano. Però una cosa è la discrezionalità della rete, o del conduttore, un’altra cosa è condurre una trasmissione sui 5 Stelle in difficoltà per i rimborsi spariti, con la partecipazione (nella prima parte) del capo dei 5 stelle, di un conduttore simpatizzante dei 5 stelle, del fondatore del giornale dei 5 stelle e basta. E nella seconda parte con l’intervento di altri due giornalisti decisamente simpatizzanti dei 5 stelle (o comunque molto ostili al Pd e a Forza Italia) e di un terzo bravo e giovane giornalista, indipendente, al quale però non si concede, o quasi, di esprimere il suo punto di vista.

I protagonisti della trasmissione ai quali mi riferisco sono, nell’ordine, lo stesso Enrico Mentana, Antonio Padellaro (che, paradossalmente, è stato sicuramente il più serio e anche il più critico verso il movimento di Grillo), Mario Sechi ( tifoso oltre ogni immaginazione dei 5 stelle, a sorpresa per me che lo avevo lasciato tempo fa berlusconiano e poi sapevo che era diventato montiano), Alessandro De Angelis, dell’Huffington Post (il quale ha il merito di avere rivolto a Di Maio l’unica domanda ragionevole, e però il demerito di non avere preteso una risposta) e infine, isolatissimo e, giustamente, un po’ intimidito, Ilario Lombardo, della Stampa. Il risultato di tutto questo è stato paradossale. Diciamo che tutti si aspettavano una specie di processo ai 5 stelle (come sarebbe capitato a qualunque altro partito nelle stesse condizioni), beccati dalle jene con le mani nel sacco e messi di fronte all’evidenza che il loro grado di trasparenza e di onestà non è superiore a quello degli altri partiti. Invece è successo esattamente il contrario. A parte Padellaro (che ha provato a illustrare alcune critiche anche abbastanza graffianti ai ragazzi di Di Maio e a Di Maio), per il resto la trasmissione ha affermato le seguenti verità indiscutibili.

Prima, che i 5 stelle sono e restano il primo partito e che tocca a loro lo scettro del principe e palazzo Chigi.

Seconda, che gli altri partiti sono molto peggio dei 5 stelle e devono solo starsene zitti ed eventualmente garantire in parlamento ai 5 stelle i voti per governare.

Terza, che i parlamentari a 5 Stelle sono gli unici che restituiscono parte dei loro stipendi anche se non proprio tutti lo fanno. (In realtà verso la fine della trasmissione è stato mandato in onda un servizio che dimostrava il contrario, ma nessuno si è sentito in dovere di dire: “ohibò, ma allora stavamo sbagliando tutto…”).

Quarta, che le liste elettorali di tutti i partiti che non siano i 5 Stelle sono piene di inquisiti, cioè di impresentabili.

Quinto, che di conseguenza i 5 Stelle restano il partito dell’onestà, anche se fanno sparire un po’ di quattrini, e che questa caratteristica non viene per niente intaccata dal fatto che un bel gruppetto di parlamentari ha falsificato i bonifici e un altro bel gruppetto di dirigenti del movimento (ma di questo neanche se ne è parlato) ha falsificato le firme. Personalmente penso che nessuna di queste cinque verità sia vera. Si tratta delle classiche verità non vere.

1) Che i 5 Stelle siano e restino il primo partito è un ottimo slogan elettorale, ma è circostanza tutta da verificare. Chi ha vinto si stabilisce dopo le elezioni, non prima. Oltretutto si tratterà di vedere come si calcola la consistenza delle forze politiche: per coalizione o per liste? Per percentuali o per seggi? Per risultati all’uninominale o al proporzionale? Mi chiedo: è compito di un talk show sostituire le analisi politiche con uno slogan a favore di un partito? Può darsi di sì, però è una novità nell’etica giornalistica.

2) Perché mai gli altri partiti sono peggio dei 5 Stelle? E’ una verità rivelata, un teorema che non ha bisogno di dimostrazione? E poi, a nessuno viene il sospetto che se gli altri partiti non hanno linciato i 5 Stelle dopo il pasticcio rimborsi è perché sono più civili e hanno un rispetto maggiore dello Stato di diritto? Certo, è facile immaginare cosa sarebbe successo se le parti fossero state invertite, e se a finire sotto accusa fossero stati il Pd o Forza Italia. Ci sarebbe stata l’ordalia. E’ una colpa – e non un merito – evitare l’ordalia?

3) Non è assolutamente vero che i 5 Stelle sono gli unici a donare. Lo fanno quasi tutti i partiti. Alcuni, come Sinistra Italiana, in misura molto maggiore ai 5 Stelle. Loro però dicono: ma noi li doniamo alle imprese, voi ai partiti. Non ho capito dove sia scritto che donare i soldi a una impresa (senza nessun controllo) sia moralmente più nobile che donarli al proprio partito (nelle cui idee, si suppone, uno crede; e del quale si fida ed è in grado di controllare democraticamente l’amministrazione). Ci siamo tutti convinti che Dio ha stabilito che un imprenditore è un sant’uomo, un missionario, e un partito politico (tranne il proprio) è letame?

4) Inquisiti e colpevoli non sono parole intercambiabili. Possibile che Mentana e Sechi e De Angelis non lo sappiano? Possibile che non conoscano la Costituzione italiana? Un inquisito non è impresentabile. Ognuno poi stabilirà nell’urna se lo considera meritevole o no e se considera meritevole o no un candidato che ammette di avere contraffatto un bonifico e di essersi gloriato di avere donato soldi che ha intascato. Cioè: lo stabiliranno gli elettori, perché tocca a loro questo compito.

5) Può un partito con una percentuale abbastanza alta di disonestà accertata nel suo gruppo dirigente presentarsi con la parola d’ordine (unica): onestà? Devo dire che questa domanda – l’unica vera domanda politica – l’ha posta con una certa insistenza Padellaro, ma non molto ascoltato. Ha chiesto: sicuri che un elettore possa fidarsi del rigore di un partito che non è capace neppure di controllare il suo gruppo parlamentare? Infine vorrei raccontarvi della domanda (a cui accennavo all’inizio) di De Angelis a Di Maio. Gli ha chiesto se accetterà il duello con Renzi in Tv. Di Maio ha preso tempo e ha iniziato a dire che a lui non è chiaro chi sarà il candidato premier del Pd e neanche quello della destra, e dunque finché non saprà questi nomi non può fare nessun duello. Qualunque giornalista un po’ scafato, e in particolare un giornalista “drastico” e bravo come Mentana, avrebbe commentato: «Ho capito, lei non vuole partecipare a nessun duello». Un giornalista un po’ più cattivo avrebbe detto: «Ho capito, lei ha paura di Renzi». Mentana ha detto: «Ho capito, tutto dipende dalla soluzione dei problemi negli altri schieramenti». Beh.

Dire che Grillo è un evasore per i giudici non è reato. Assolto Barbareschi che chiese controlli fiscali sui compensi del comico. Le toghe: "Notizie mai smentite dall'interessato", scrive Luca Fazzo, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Finora erano voci insistenti, chiacchiere dell'ambiente, interviste giornalistiche: che ronzavano tutte intorno allo stesso tema, ovvero l'insofferenza di Beppe Grillo verso i suoi doveri di contribuente. Ma ora si scopre che nel febbraio 2015 del singolare rapporto tra Grillo e le tasse si sono dovuti occupare anche i carabinieri. In una caserma di Santa Margherita Ligure, i militari interrogano un signore che con il leader dei 5 Stelle ha avuto a lungo rapporti d'affari. Il testimone mette nero su bianco: Beppe Grillo prendeva i soldi in nero. Un'evasione fiscale in piena regola, da parte del comico trasformatosi nell'alfiere dell'onestà-onestà-onestà. Grazie a quel verbale, d'ora in avanti chiunque potrà dare a Grillo dell'evasore senza venire condannato per diffamazione. Lo ha stabilito, con una sentenza riportata ieri dal Foglio, il giudice per le indagini preliminari di Genova, Massimo Cusatti, assolvendo con formula piena l'attore Luca Barbareschi, che da Grillo era stato querelato. Legittimo diritto di critica, scrive il gip, basato su fatti reali come la testimonianza raccolta dai carabinieri. A sollevare le ire di Grillo era stata una dichiarazione a Radiodue, in cui Barbareschi diceva: «Faremo la verifica fiscale a Grillo dove ci racconterà tutte le volte che è stato pagato in nero, per vent'anni della sua vita». Querela immediata, con l'avvocato di Grillo (ovvero suo nipote Enrico) che accusa l'attore di avere usato un «tono gratuitamente offensivo». Per difendersi, Barbareschi aveva depositato le interviste pubblicate nel 2011 dal Secolo XIX e nel 2014 dal Giornale al re della Milano by night degli anni Ottanta, l'impresario Lello Liguori, creatore anche del Covo di Nord Est a Santa Margherita. «Detesto Beppe Grillo perché va in giro a fare il politico, a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». Episodi di questo tipo, spiegava Liguori, si erano ripetuti varie volte, sia in Liguria che a Milano. Quasi una prassi costante. Forse sarebbero bastati quei ritagli a fare assolvere Barbareschi. Ma il pm sul cui tavolo è approdata la querela di Grillo, il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, decide di vederci ancora più chiaro. I giornali potrebbero avere forzato le dichiarazioni di Liguori. E così il pm incarica i carabinieri di Santa Margherita di convocare l'uomo: e quello non si tira indietro. È un personaggione, il vecchio Liguori. Per anni nei suoi locali notturni si incrociava di tutto, dai politici ai boss della criminalità organizzata. Lui stesso è stato arrestato per le dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda, processato e infine assolto. Un'autorità nel suo campo: astuto, navigato, e abituato a non parlare a vanvera. Il 21 febbraio 2015, davanti ai carabinieri, mette a verbale: «Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso e io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord Est che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di dieci milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in cotanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me e il comico». Nelle interviste, Liguori era stato ancora più dettagliato e colorito: «Una sera al 54 c'era molto più afflusso del previsto, c'era gente fuori. A un certo momento Grillo mi ha preso da una parte e mi ha detto: guarda che voglio 10 milioni in più altrimenti non lavoro. Naturalmente io non sono l'ultimo arrivato, l'ho preso per le orecchie, l'ho portato in camerino e ha fatto la serata». Ma basta la dichiarazione messa a verbale perché il pm Cardona Albini chieda il proscioglimento di Barbareschi. Grillo viene avvisato, e presenta atto formale di opposizione all'archiviazione. Si tiene l'udienza preliminare. Ma il giudice dà ragione al pm, torto al leader pentastellato e assolve Barbareschi: vista «la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia», e considerati «la dimensione pubblica del personaggio e l'obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti», va riconosciuto all'indagato il diritto di critica, «essendosi questi limitato al riferimento di circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall'interessato».

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

Le parole degli agit- prop, scrive Piero Sansonetti il 2 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Molti di voi non sapranno neanche che vuol dire quella parolina che ho scritto nel titolo: «agitprop». Era il modo nel quale, nel partito comunista, si chiamavano gli attivisti che si occupavano delle campagne elettorali e in genere dell’attività di propaganda del partito. Agit- prop era l’abbreviazione di “agitazione e propaganda”, e “agitazione e propaganda” era la denominazione di un dipartimento, molto importante, che aveva una sua struttura nazionale e poi nelle singole regioni, nei Comuni, e in tutte le sezioni di partito. Il dirigente che aveva il compito di coordinare questo dipartimento era uno dei personaggi che più contavano nel partito. I capi nazionali degli agit- prop sono stati nomi molto famosi nel Pci, a partire da Amendola e Pajetta e in tempi più recenti il giovanissimo Veltroni. Mi è venuto in mente questo termine perché mi sembra che torni attuale. Questa campagna elettorale ricorda un po’ le origini, gli anni 40 e 50. Molta agitazione e molta propaganda. E non nel senso migliore di questi due termini. Tutta la campagna elettorale si è sviluppata su due direttrici: la prima è stata quella del fango sugli avversari, azione condotta con la partecipazione attiva, o addirittura sotto la guida di alcuni giornali. La seconda, quella della presentazione di programmi, o addirittura di risultati, del tutto improbabili o forse anche impossibili. Proviamo a dare un’occhiata alle parole chiave di questa campagna elettorale.

Cinque Stelle. Il partito nuovo, o se volete il movimento, non ha dato grande importanza al suo programma elettorale. Che in buona parte, peraltro, ha copiato un po’ dal Pd, un po’ da Wikipedia, un po’ dai giornali. L’unica proposta comprensibile è stata il reddito minimo garantito, ma i 5 Stelle non hanno spiegato come renderlo possibile, anche perché il reddito minimo è immaginabile solo aumentando la pressione fiscale, e questa è una cosa che – salvo la Bonino – nessuno osa prospettare. I Cinque Stelle hanno puntato tutto sulla squadra di governo. Che hanno presentato ieri, cioè quasi alla fine della battaglia, ed è composta interamente da nomi assolutamente sconosciuti all’elettorato (e non solo) tranne un nuotatore un po’ più famoso degli altri. Il problema però non è la qualità della squadra (che nessuno, nemmeno Di Maio, è in grado di valutare) ma la assoluta certezza che nessuno, o quasi nessuno, di quei nomi farà parte del futuro governo. Per la semplice ragione che il futuro governo sarà di coalizione e dunque andrà negoziato da vari partiti e i nomi dei ministri dovranno rappresentare diversi partiti. Compresi, eventualmente, i 5 Stelle. Diciamo pure che anche questa trovata della squadra di governo è un po’ una presa in giro. La squadra di governo la si può presentare in un sistema politico presidenziale, come quello americano. Non certo in un paese dove Costituzione e legge elettorale prevedono che sia il Presidente della Repubblica a scegliere il premier e a concordare con lui una coalizione in grado di sostenerlo.

Inciucio. La seconda grande bugia. Che accomuna tutti. Tutti dicono: l’inciucio mai. Inciucio – lo abbiamo scritto qualche settimana fa – è un modo dispregiativo per indicare un’intesa politica tra forze distinte. Cioè è la base della democrazia parlamentare italiana. L’inciucio fu inaugurato nel 1943, dopo l’armistizio, da democristiani, socialisti, comunisti e liberali, e poi è proseguito senza soluzione di continuità, escluso il breve periodo del bipolarismo, nel quale un sistema elettorale maggioritario, o a premio di maggioranza, permise il governo di uno solo dei due schieramenti. La fine del sistema a premio di maggioranza, la sconfitta di Renzi al referendum, e la nascita del tripolarismo, hanno reso di nuovo indispensabile una intesa tra forze diverse, cioè l’inciucio. Tutti i partiti ne sono consapevoli, e tutti fingono di essere fieramente contrari.

Immigrazione. È stato il tema chiave della battaglia politica. I partiti del fronte populista (in particolare la Lega e Fdi, un po’ meno i 5Stelle), ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Il centrodestra moderato è stato costretto, almeno in parte, a inseguire o ad adattarsi. Il centrosinistra ha trattato il tema con più prudenza, ma comunque senza denunciare la falsità del problema. Tanto che, alla vigilia delle elezioni, si è rifiutato di approvare lo Ius Soli, e ancora in questi giorni (per le stesse ragioni, e cioè il timore della propaganda populista) ha rinviato la riforma dell’ordinamento carcerario. Il ritornello dei populisti è stato: «È in corso un’invasione, la quantità di immigrati sta aumentando in modo esponenziale, l’immigrazione porta delinquenza e questo è il motivo dell’aumento continuo della criminalità. Fermiamo l’immigrazione, cacciamo i clandestini, riprendiamoci l’Italia, impediamo la “sostituzione etnica”». Non è vero che è in corso un’invasione, visto che gli immigrati sono ancora largamente al di sotto del 10 per cento della popolazione. L’immigrazione è in aumento ma è assolutamente sotto controllo. Non è vero che la delinquenza è in aumento, anzi da quindici anni è in continua e progressiva diminuzione. Tanto che gli omicidi sono scesi, dalla fine degli anni novanta, dalla cifra di quasi 2000 a meno di 400 all’anno. E non è vero neanche che l’aumento dell’immigrazione aumenta la criminalità. I detenuti stranieri nel 2007 erano il 32 per cento della popolazione carceraria. Oggi sono ancora il 32 per cento, sebbene il numero degli immigrati sia quasi raddoppiato. L’uso della paura dell’immigrato come strumento di campagna elettorale ha prodotto una gigantesca disinformazione di massa. Giornali e Tv si sono sottomessi. Sarà difficilissimo correggere questa disinformazione.

Economia. Di economia si è parlato pochissimo. I partiti di opposizione non ne hanno voluto parlare soprattutto perché i dati ultimi sono positivi per l’economia italiana. Il partito di governo ne ha parlato di sfuggita, forse perché non ha molte proposte concrete per intervenire. Forza Italia è l’unica che si è occupata della questione, ma con la proposta della Flat Tax e cioè di una soluzione che nessun grande paese occidentale ha mai adottato, e che anzi, tutti, hanno considerato irrealizzabile.

La Giustizia. È stata la grande assente. Nessuno osa parlare di giustizia. Lega e 5Stelle hanno in serbo un programma di stretta e di riduzione drastica dello Stato di diritto. Non hanno mai nascosto di considerare lo Stato di diritto un orpello ottocentesco. Però in campagna elettorale hanno evitato di parlarne troppo. Persino Il Fatto ha messo la sordina. Forza Italia e Pd, partiti più garantisti, non hanno trovato il coraggio di porre seriamente la questione sul tappeto, perché temono di perdere voti. Mi fermo qui. Credo di avere spiegato perché questa campagna elettorale mi porta al tempo degli agit-prop. Con una differenza: allora i partiti avevano anche dei programmi politici, ed erano programmi politici alternativi e chiari. Oggi no.

D’Alema è la causa della crisi Pd. Il Dio della politica lo ha punito, scrive Sergio Carli il 5 marzo 2018 su "Blitz Quotidiano”. D’Alema è la causa principale della crisi del Pd. Il Dio della Politica, o il Dio che atterra e suscita di Manzoni, insomma proprio quel Dio là, l’ha severamente e giustamente punito. La punizione divina si è manifestata con la clamorosa sconfitta nel suo collegio di casa, in Puglia, dove non ha raccolto nemmeno il 4 per cento dei voti e è arrivato ultimo in graduatoria. Così cade chi peccò di superbia. E dire che motivò la sua candidatura come la risposta a un imperativo categorico, una richiesta che saliva dalla piazza italiana che lo voleva ancora in politica, impegnato a salvare l’Italia. Quella bella Italia di pseudo sinistra che pensa ai poveri invece che alla crescita, a ridistribuire quello che non è stato accumulato, a proteggere i privilegi della casta, di cui lui e i suoi compagni di partito sono colonna. Come nella Unione Sovietica, che lui frequentò da ragazzo come pioniere. Giusto che questa sinistra, un po’ salottiera e un po’ saccente, sia finita come è finita, sotto il 4 per cento, altro che il 10. Come l’Unione Sovietica, appunto. Fu Massimo D’Alema a fermare Matteo Renzi sulla strada delle riforme. Fu lui il grande vecchio che orchestrò la campana contro il referendum costituzionale, scatenando i suoi agit prop. È stato lui la mente della scissione a sinistra del Pd che è finita come è finita ma che, nel processo, ha trascinato quasi nel baratro il Pd stesso. Il Pd è una forma di miracolo italiana. L’unico caso al mondo di un partito comunista che, attraverso successive mutazioni nonché lo sterminio di avversari a catena (Psi, Dc, Forza Italia e Craxi e Berlusconi), è riuscito a sopravvivere alla caduto del muro di Berlino e ottenere, quasi 30 anni dopo, un bel quasi 20 per cento dei voti. Ma quel vizietto tutto comunista che consentì la vittoria di Franco grazie alla strage operata nella sinistra non comunista, alla fine ha prevalso. Così D’Alema e il suo gregario Pierluigi Bersani non hanno resistito e hanno portato al disastro. C’è una forma di perversità crudele nel Destino dell’ex Pci, manifestazione tangibile della volontà divina. Nella sua prima mutazione, il Pds guidato prima da Achille Occhetto e poi soprattutto da Massimo D’Alema, guidò la lotta a Bettino Craxi e al Psi e alla Dc. Il risultato fu che all’Italia fu riservato il regalo di essere guidata da Silvio Berlusconi. Poi il Pd, nuova mutazione, guidò la guerra senza quartiere a Berlusconi. Il risultato fu Beppe Grillo. In questi 20 anni che tanti hanno definito età Berlusconiana, in realtà l’Italia è diventata sempre più un paese di Socialismo reale. Metà di noi non pagano tasse, non perché evasori ma perché esonerati dalla legge. La propaganda pauperistica del Pd, accompagnata dai disastrosi errori di Mario Monti e l’inefficacia delle sue poche iniziative positive (pensate al ritardo biblico dei pagamenti della PA) hanno fornito argomenti e brodo di cultura alla protesta grillina. Se non sarà ripescato per qualche miracolosa procedura. D’Alema finalmente uscirà di scena. Finalmente, ma forse troppo tardi.

Agit-Prop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Agitprop è l'acronimo di отдел агитации и пропаганды (otdel agitatsii i propagandy), ossia Dipartimento per l'agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale e regionale del Partito comunista dell'Unione sovietica il quale fu in seguito rinominato «Dipartimento ideologico». Nella lingua russa il termine «propaganda» non presentava nessuna connotazione negativa, come in francese o inglese, significava «diffusione, disseminazione, d'idee». Attività e obbiettivi dell'Agitprop erano diffondere idee del marxismo-leninismo, e spiegazioni della politica attuata dal partito unico, oltre che in differenti contesti diffondere tutti i tipi di saperi utili, come per esempio le metodologie agronome. L'«agitazione» consisteva invece nello spingere le persone ad agire conformemente alle progettualità d'azione dei dirigenti sovietici.

Forme. Durante la Guerra civile russa l'Agitprop ha assunto diverse forme:

La censura della stampa: la strategia bolscevica fin dall'inizio è stata quella di introdurre la censura nel primo mezzo di comunicazione per importanza, ovvero il giornale. Il governo provvisorio, nato dalla rivoluzione di marzo contro il regime zarista, abolì la pratica secolare della censura della stampa. Questo creò dei giornali gratuiti, che sono sopravvissuti con il loro proprio reddito.

La rete di agitazione orale: la leadership bolscevica capì che per costruire un regime che sarebbe durato, avrebbero avuto bisogno di ottenere il sostegno della popolazione russa contadina. Per farlo, Lenin organizzò una festa comunista che attirò i soldati smobilitati (tra gli altri) ad assumere un'ideologia e un comportamento bolscevico. Questa forma si sviluppò soprattutto nelle zone rurali e isolate della Russia.

L'agitazione di treni e navi: per espandere la portata della rete di agitazione orale, i bolscevichi usarono i mezzi moderni per raggiungere più in profondità la Russia. I treni e le navi effettuarono agitazioni armate di volantini, manifesti e altre varie forme di agitprop. I treni ampliarono la portata di agitazione in Europa orientale, e permisero la creazione di stazioni di agitprop, composte da librerie di materiale di propaganda. I treni furono inoltre dotati di radio e di una propria macchina da stampa, in modo da poter riferire a Mosca il clima politico di una determinata regione, e di ricevere istruzioni su come sfruttare al meglio ogni giorno la propaganda.

Campagna di alfabetizzazione: Lenin capì che, al fine di aumentare l'efficacia della sua propaganda, avrebbe dovuto aumentare il livello culturale del popolo russo, facendo scendere il tasso di analfabetismo.

L'AGIT-PROP. Questa pagina è tratta da: La Turbopolitica, sessant'anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia: 1945/2005 (riassunto) di Anna Carla Russo. L’agit-prop (Agitazione e Propaganda). I militanti costituiscono l’esercito dei partiti di massa e le caratteristiche del militante sono la spinta ideologica, dedizione alla causa, rispetto della disciplina interna, ampia disponibilità e proprio su questo si fonda l’organizzazione e la sua presenza sul territorio, vivacità e visibilità. L’attività del militante è molto preziosa, ma non ha un prezzo il militante infatti dedica la sua esistenza alla causa politica ed è sempre attivo in qualsiasi luogo, è l’anima dell’organizzazione e delle associazioni, circoli, polisportive, dopolavori, insomma tutto ciò che coinvolge la vita dell’iscritto. La campagna elettorale per le elezioni del 1948 trasforma i partiti in giganti macchine propagandistiche che coinvolgono migliaia di militanti; la Dc mobilita tutte le province giungendo a 90.  Attivisti; più estesa è la macchina propagandista dei Comitati civici che coinvolgono anche i fedeli arrivando a 300.000 volontari, anche Pci e Psi uniti nel Fronte democratico popolare nel 1948 hanno oltre due milioni di iscritti al partito di Togliatti organizzati in 10.000 sezioni che sovrintendono oltre 52.000 cellule; anche i numeri del Psi sono notevoli, il partito infatti si afferma nel 1946 con oltre quattro milioni e mezzo di voti come secondo partito italiano e primo nel Nord-Italia. Secondo il Pci la crescita politica deve procedere di pari passo con la crescita dell’individuo e con il raggiungimento di un suo maggior livello di istruzione e quindi lo sforzo educativo- organizzativo del partito richiede modalità diverse, tra il 1945 e il 1950 coinvolgono 52.713 partecipanti. Anche per i socialisti e le organizzazioni cattoliche i militanti devono crescere sia nel numero che nella preparazione; nel 1948 i Comitati civici improvvisano un corso per migliaia di volontari e dieci anni dopo nasce l’Unione Nazionale degli Attivisti Civici ossia una rete ben organizzata che nel 1958 raduna a Roma 1500 responsabili di una capillare attività di formazione svolta mediante corsi zonali e rurali. I corsi sono tenuti da Dirigenti della URA Campania che sviluppano argomenti quali: l’antimarxismo; al dottrina sociale della Chiesa: gli enti di Previdenza e Assistenza in Italia e la struttura e l’inserimento nella vita italiana del Comitato Civico. La stessa Azione cattolica intensifica l’opera di apostolato e formazione dando vita in tutta Italia a missioni religioso-sociali i cui responsabili vengono preparati in tre corsi nazionale di aggiornamento. Anche la Dc si occupa di formare i militanti organizzando 31 corsi provinciali; secondo Fanfani i contatti instaurati tramite le sezioni non erano efficaci quanto il colloquio personale, la riunione familiare o il dibattito amichevole al circolo e quindi il contatto personale e l’azione assidua dei militanti ricopriva un ruolo centrale. Alla metà degli anni ’60 i militanti dei due fronti sono coloro che dedicano tempo ed energie all’animazione del partito e aderiscono a un ideale politico applicandosi per la sua realizzazione. Le basi militanti cattolica e comunista differiscono per il significato che attribuiscono alla militanza e nel loro gradi di politicizzazione. Per gli attivisti del Pci la partecipazione militante coinvolge l’intera sfera degli interessi e delle attività individuali; per gli attivisti democristiani l’integrazione con il partito coinvolge solo in parte la vita privata del singolo; il militante comunista basa la sua azione sulla fedeltà al partito e non esistono al di fuori del partito altre autorità se non sovranazionali, mentre l’azione del militante democristiano è sostenuta dalla convinzione di essere l’unico depositario di una verità a cui gli altri si devono convertire e oltre al partito esistono altre sorgenti autoritarie a cui fare riferimento. Ci sono differenze profonde che vedono un Pci più attivo. Anna Carla Russo

Agit-Prop. Scrive Massimo Lizzi il 24 ottobre 2015. Agit-prop: Dipartimento per l’agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale del partito comunista dell’Urss. In russo, dice Wikipedia, propaganda, significa diffusione di idee e di saperi utili, senza la connotazione negativa che ha in francese, inglese e in italiano; una connotazione che credo influenzi molto la percezione di sé dei nostri propagandisti. Agit-prop definisce bene un certo modo di fare opinione e informazione al servizio di un leader, un partito, uno stato, una chiesa, una causa. Fabrizio Rondolino, nel confronto con Marco Travaglio, da Lilli Gruber, ha definito agit-prop il Fatto Quotidiano, giornale allarmista per una democrazia sempre messa in pericolo e per una politica sempre corrotta e impunita. Ha ragione. I toni del Fatto erano, secondo me, adeguati contro Silvio Berlusconi, non solo capo, ma padrone del centrodestra, non solo leader e premier, ma padrone della TV commerciale, disposto a commettere reati, ad usare la politica per tutelarsi da inchieste e processi, a delegittimare la magistratura e la stampa. Oltre e dopo Berlusconi, il Fatto si è rivelato monocorde. Stessi toni nei confronti dei leader del centrosinistra e dei successori al governo del cavaliere. Toni che consistono nel rappresentare i politici avversari come dei disonesti o degli imbecilli, o entrambi. Più la simpatia per Beppe Grillo. Agit-prop definisce bene anche il giornalismo di Fabrizio Rondolino. Poco importa che abbia cambiato riferimenti nel corso della sua carriera professionale, da D’Alema, a Mediaset, al Giornale, ad Europa e ora all’Unità a sostegno di Renzi, perché si può cambiare idea o mantenere la stessa idea e vederla di volta in volta incarnata in soggetti diversi. Conta lo stile che si mantiene uguale: l’enfasi con cui sostiene il suo leader, la violenza con cui contrasta gli avversari del suo leader. Tweet oltre il limite della provocazione contro i meridionali, perché il rapporto Svimez mette in difficoltà il governo, o contro le insegnanti, per le proteste contro la riforma della scuola; un blogper bastonare la minoranza PD; una rubrica sull’Unità per dileggiare il Fatto tutti i giorni. Anche Rondolino in fondo dice dei suoi avversari che sono dei disonesti o degli imbecilli. A me piace il conflitto, lo scontro, la polemica, però resto perplesso di fronte ad un modo di confliggere che nega alla controparte rispetto, autorevolezza, valore, e conduce una dissacrazione totale e permanente nei confronti di chiunque sia fuori linea: politici, giornalisti, magistrati, costituzionalisti, intellettuali. Lilli Gruber ha chiesto conto a Marco Travaglio di una didascalia molto evidente a lato di una foto di Maria Elena Boschi, pubblicata sul Fatto. “La scollatura di Maria Elena Boschi è sempre tollerata. Magari non il giorno della legge che porta il suo nome e stravolge la Costituzione”. Travaglio non ha saputo darne una giustificazione sensata e ha riproposto il solito ritornello, per cui non si può criticare una donna senza essere accusati di misoginia, per poi aggiungere che se una donna si veste in un certo modo, non deve lamentarsi dei commenti che riceve. Come se la critica ad una scollatura sia pertinente con la critica all’attività di una donna in politica e come se l’abbigliamento di una donna sia di certo concepito per compiacere lo sguardo maschile, sempre autorizzato a commentare, anche a sproposito. Rondolino ha paragonato Travaglio ai personaggi di Lino Banfi, che guardano nelle scollature, come a dargli dello sfigato, ma quella didascalia per la quale Lillì Gruber ha manifestato il suo fastidio, non è solo sfigata, è anche molesta e viene pubblicata su un giornale che ha nel sessismo il suo più importante punto debole.

ItaliaOggi. Numero 231 pag. 6 del 29/09/2009. Diego Gabutti: Non è il pluralismo che riesce a garantire l'obiettività. L'opinione pubblica, cara a tutti, è stata liquidata col colpo alla nuca della propaganda. Non è libertà di stampa e d'opinione, e non è neppure disinformazione (ci mancherebbe) ma pura e semplice indifferenza per la realtà, quella che ha corso da noi, nell'Italia delle risse da pollaio tra direttori di giornale, del conflitto d'interesse e di Michele Santoro che, credendosi un santo, si porta in processione da solo (i ceri li paga Pantalone). È una libertà di stampa in stile agit-prop: votata, in via esclusiva, all'agitazione e alla propaganda. Apposta è stata coniata l'espressione «pluralismo»: voce da dizionario neolinguistico se ce n'è mai stata una. Con «pluralismo», parola rotonda, non s'intende l'obiettività famosa (sempre che esista e c'è da dubitarne). Il «pluralismo dell'informazione» non garantisce l'informazione ma soltanto il «pluralismo». Vale a dire unicamente il diritto, assicurato a tutte le parti politiche, d'esprimersi liberamente e senza rete attraverso stampa e tivù. Non è in questione, col «pluralismo», la qualità dell'informazione, se cioè l'informazione sia attendibile e non manipolata, ovvero falsa o vera, ma soltanto la sua spartizione, affinché a tutte i racket politici sia riconosciuto il privilegio di lanciare messaggi a proprio vantaggio. Come in una satira illuminista, la libertà di stampa s'identifica con la libertà di dedicarsi anima e corpo alla propaganda: una specie d'otto per mille da pagare a tutte le chiese, sia a Bruno Vespa che a Marco Travaglio. È un concetto stravagante, ma più ancora grottesco e deforme: il «pluralismo» complicato e trapezistico sta alla libertà di stampa propriamente detta come la donna barbuta e l'uomo con due teste del luna park stanno a Naomi Campbell e a Brad Pitt. Non allarga il raggio delle opinioni ma è un guinzaglio corto che lascia campo libero soltanto alle idee fisse. Attraverso il «pluralismo» si stabilisce inoltre il principio dadaista che la sola informazione che conta è quella politica. Tutto il resto è pattume e tempo sprecato: l'occhio del giornalista, sempre più addomesticato e deferente, s'illumina soltanto quando il discorso finalmente cade sulle dichiarazioni del capopartito o sulle paturnie dell'opinion maker, cioè sul niente. È in onore del niente che da noi si esaltano le virtù del «pluralismo». Se ne vantano i meriti, lo si loda, e presto forse lo si canterà negli stadi sulle note dell'Inno di Mameli, o di Va' pensiero, come se davvero l'opinione pubblica fosse la somma di due o più opinioni private, utili a questo o quel potentato economico, a questa o quella segreteria di partito. Ascoltate con pazienza tutte le campane, ci dicono i maestri di «pluralismo», quindi fatevi un'opinione vostra, scegliendo l'una o l'altra tra quelle che vi abbiamo suonato tra capo e collo, nella presunzione che non ci sia altra opinione oltre a quelle scampanate per lungo e per largo dai signori della politica e dell'economia. Suprema virtù dell'informazione è diventata così l'equidistanza: l'idea, cioè, che il buon giornalismo illustri senza prendere partito tutte le opinioni lecite, e che non ne abbia mai una propria, diversa da quelle angelicate. In ciò consisterebbe, secondo chi se ne vanta interprete e campione, l'opinione pubblica famosa, il cui fantasma viene evocato ogni giorno (esclusivamente per amore della frase a effetto) proprio da chi l'ha liquidata col colpo alla nuca della propaganda e dell'agitazione di parte e di partito: gl'intellettuali snob che celebrano messa nelle diverse parrocchie ideologiche, le star miliardarie dei talk show, i fogli di destra e di sinistra che hanno preso a modello la «Pravda» (e, per non farsi mancare niente, anche la stampa scandalistica inglese).

Il falso allarme antifascismo: l'onda nera è una pozzanghera, scrive Francesco Maria Del Vigo, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Più che un'onda alla fine si è capito che era una pozzanghera. Quella nera. Vi ricordate la campagna ossessiva che per quasi un anno ci ha tambureggiato nelle orecchie? «All'armi tornano i fascisti!». Giornali e media di sinistra avevano scoperto un filone sempreverde, garanzia di perenne polemica: cioè terrorizzare l'opinione pubblica convincendola del ritorno delle squadracce di Benito Mussolini. Ora, per smontare questa fake news, sarebbe bastato un po' di buon senso. Non sembra che negli ultimi anni si siano impennate le vendite di orbace, fez, manganelli e olio di ricino. Certo, come coraggiosamente svelato da Repubblica, in Veneto c'era un bagnino che aveva tappezzato il suo stabilimento di cimeli (di pessimo gusto) del Ventennio. Ma anche in questo caso il buonsenso non è stato reperito. Fino a quando un giudice ha derubricato l'episodio all'innocua categoria del folclore. E poi, decine e decine di accorati articoli sull'irresistibile ascesa delle tartarughe di Casapound e sui camerati di Forza Nuova. Sociologi e psicologi in campo per spiegare questo ritorno al passato: disagio sociale, periferie, mancata scolarizzazione, emarginazione. Persino la stampa estera - abbindolata da quella nostrana - si era interessata allo strano morbo passatista che sembrava aver infettato lo Stivale, nella memoria del celeberrimo portatore di stivali rigorosamente neri. Ecco, ora possiamo dire che dove non è arrivato il buonsenso sono arrivate le urne. Perché se ci fosse stata una proporzione tra lo spazio mediatico concesso al «pericolo fascista» e il successo elettorale dello stesso, Casapound sarebbe dovuta essere almeno il terzo partito in Parlamento e Simone Di Stefano avrebbe dovuto stappare bottiglie di autarchico prosecco. E invece, la maiuscola deriva mussoliniana si è scoperta soffrire di nanismo. Con il suo 0,9 per cento di preferenze raccolte, Casa Pound smonta la più grande balla della campagna elettorale. Una manciata di mani tese si sono abbassate per infilare la loro scheda nell'urna. Si sgonfia e precipita l'aerostato, pompato ad arte, della marea nera. Il ritorno del fascismo era solo un maldestro tentativo di tenere insieme una sinistra fratturata e scomposta. Il babau non esiste. O, quanto meno, esiste ma non è certo una marea. Si è trattato solo di un procurato allarme. Il paradosso è che a questo giro non solo non sono entrati in Parlamento i nipotini del Duce, ma non è entrato nemmeno un partito che porti la parola sinistra nel nome e nella ragione sociale. Uno scherzo della storia. Un bello scherzo.

Elezioni, il boom di Matteo Salvini sporcato dai sospetti. Successo del leader leghista che ha trasformato il Carroccio in forza nazionale. Per riuscirci ha dovuto sfondare al Sud imbarcando riciclati di ogni tipo e candidati con parentele scomode. Pronti a entrare in Parlamento. Intanto dal quartiere di Scampia a Napoli giungono le prime segnalazioni di clan interessati al voto padano, scrive Giovanni Tizian il 5 marzo 2018 su "L'Espresso". È il giorno di Matteo Salvini. “Il Capitano” che ha conquistato il centrodestra. E poco importa in questa giornata di giubilo leghista se incombe già un'ombra decisamente inquietante. Ombre che si allungano dal Sud, proprio il territorio dove Salvini ha scommesso di più in questa campagna elettorale. Si tratta della denuncia di un rappresentante di lista di Potere al Popolo presente al seggio della scuola Levi-Alpi del quartiere Scampia di Napoli. Rione che non ha bisogno di molte presentazioni, roccaforte di clan spietati e potenti. Ebbene proprio qui, durante la giornata elettorale alcuni sgherri della camorra avrebbero fatto mercanzia di voti. L'esponente del partito di sinistra ha segnalato la vicenda alla digos di Napoli. Nella sua denuncia ha spiegato nei dettagli quanto accaduto e la leader Viola Carofalo lo conferma all'Espresso: «Il nostro rappresentante ha assistito a una vera e propria compravendita fin alla mattina, ma è continuata anche dopo. Lui ha segnalato il fatto alle autorità competenti presenti al seggio ed è stato minacciato da questi personaggi con atteggiamento camorristico. Purtroppo non ci stupiamo, sono dinamiche che si ripetono ad ogni elezione». Stupore no. Ma i fatti riportati dal rappresentante della lista sono gravi. E meritano di essere approfonditi. Anche perché proprio nelle zone da cui proviene la segnalazione la Lega sfiora il 3 per cento al Senato. Un successo se confrontato allo 0,15 del 2013 nel comune di Napoli. Intanto Matteo Salvini si gode il successo. L'exploit elettorale è certamente frutto di voto nordico, ma le percentuali al Sud che queste prime ore di scrutini ci restituiscono sono decisamente notevoli per un partito che fino all'altro ieri era d'origine padana al 100 per cento. Con la Lega primo partito, la coalizione con Silvio Berlusconi vira decisamente a destra. Anche perché se si aggiungono i voti raccolti da Giorgia Meloni, Lega e Fratelli d'Italia insieme sfondano quota 20 per cento. Tra sovranismo, toni razzisti, antieuropeismo, la coppia Salvini-Meloni è una forza paragonabile al Front National di Marine Le Pen. Tanto che proprio Le Pen è stata una delle prime a congratularsi con l'amico Matteo, l'ex padano doc. La ricetta di Matteo Salvini ha funzionato. Togliere dal simbolo il “Nord” e trasformare il Carroccio in un partito nazionale sta dando i primi frutti. Non solo. Si rafforza anche in territori in cui il Pd era abituato a raccogliere consensi bulgari, vedi Emilia Romagna. Salvini ha costruito una Lega nazionale. Ha archiviato il periodo degli scandali e dei processi creando nuove alleanze strategiche sotto Roma. Lo ha fatto imbarcando nel partito politici navigati del Sud. Ha pescato al centro, tra gli autonomisti siciliani, e a destra in Calabria e Campania. Elezione quasi certa, per esempio, per Angelo Attaguile, candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con l'ex governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. L’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Alcuni giorni fa, quasi alla vigilia del voto, Attaguile si è lasciato andare a una battuta: «Se vince il centrodestra potrei fare il ministro». Di padre in figlio. Insomma, un leghista scudocrociato. Altro seggio quasi sicuro per Alessandro Pagano, da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Più dura l'elezione per Filippo Drago, anche se non impossibile. Il sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Pure in Calabria, la Lega, rischia di elegere parlamentari. Per esempio Domenico Furgiuele, candidato al primo posto al proporzionale. Su di lui, uomo della destra sociale, pesa una parentela ingombrante: il suocero è sotto i riflettori dell'Antimafia, che gli ha sequestrato i beni. Non solo. Lo stesso Furgiuele è finito, non da indagato, in un'informativa della polizia relativa a un caso di omicidio del 2012: i killer hanno dormito gratis nell'hotel del suocero di Furgiuele, a pagare le stanze sarebbe stato proprio il leghista calabrese. In Campania tra chi probabilmente verrà eletta con la Lega c'è Pina Castiello di Afragola. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. A Napoli seggio quasi certo per Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. E forse oggi si troverebbe anche lui a sposare il sovranismo padano di Matteo Salvini, detto “il Capitano”. Tuttavia anche su Cantalamessa junior incombe un'ombra del passato: da imprenditore è stato socio, fino al 2004 in un'azienda in cui tra i consiglieri compariva Valerio Scoppa. Il fratello di Scoppa ha sposato la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergastolo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani.

Trasformisti, fascisti, impresentabili e ras delle clientele: ecco le liste al Sud di Matteo Salvini. La rete del consenso nel meridione si fonda su figure spesso note e di lungo corso. Con non poche ombre. Ecco regione per regione i casi più interessanti, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 13 febbraio 2018 su "L'Espresso". «Se hanno preferito gli uomini di Lombardo e Cuffaro lasciando fuori noi mi hanno fatto un favore...». Così parlò Matteo Salvini, detto il Capitano, all’indomani della presentazione del governo siciliano di Nello Musumeci. Il neo governatore ha lasciato ai margini della giunta il deputato di Salvini. Il leader della Lega si aspettava quantomeno un assessorato per celebrare il risultato storico ottenuto in Sicilia che ha consacrato la vocazione nazionale del partito di Salvini. Tuttavia, il capo del Carroccio - nella sua stizzita analisi - omette di rivelare il profilo del primo leghista della storia a palazzo dei Normanni: è un riciclato e per di più indagato per appropriazione indebita. Si chiama Tony Rizzotto, 65 anni, chioma folta e improbabile, fan di Mimmo Cavallo autore della hit anni ‘80 “Siamo meridionali” e dipendente pubblico del comune. Si è fatto le ossa con l’ex governatore Totò Cuffaro condannato per favoreggiamento alla mafia. Il salto di qualità, però, avviene da deputato all’Ars col Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, il successore di Cuffaro anch’egli finito nei guai ma per voto di scambio. Il Carroccio nazional-popolare è una salsa fatta in casa, come nelle migliori tradizioni meridionali, mistura di democristiani, estrema destra e figure equivoche. Fascioleghismocrociato, una truppa organizzata da Matteo Salvini per conquistare un pezzo d’Italia che fino a ieri era a lui pressocché sconosciuto. Da Andreotti ad Almirante, ipotetico pantheon ideale. Il regista del casting della classe dirigente della Lega del Sud è Raffaele Volpi, scelto da Salvini. La selezioni sembra aver seguito tre rigide regole: godere di uno spiccato carisma clientelare, possedere uno spirito politico camaleontico, essere il referente di un blocco elettorale tramandato di padre in figlio, a prescindere dalla sigla del partito.

Quel palazzo nel centro di Roma. Un palazzo signorile al centro di Roma. In uno dei quartieri dell’upper class della Capitale. In via Federico Cesi, a due passi dal Lungotevere, c’è l’incarnazione dello sposalizio tra democristiani e leghisti. Qui al secondo piano si trova la sede ufficiale di “Noi con Salvini”. Almeno questo dicono gli atti ufficiali. «In realtà da quattro mesi, si sono traferiti per le regionali siciliane», precisa il portiere dello stabile. Una sede fantasma, quindi? Un documento svela l’arcano. Gli appartamenti al secondo piano sono divisi tra la famiglia Attaguile. E la sezione si trova proprio in quello di proprietà di Angelo Attaguile. Segretario nazionale di Noi con Salvini, coordinatore del movimento in Sicilia, e candidato al Senato con la Lega, Attaguile è stato esponente di punta della Dc, poi del Movimento per l’autonomia di Raffele Lombardo, presidente dell’istituto case popolari e del Catania calcio, assolto dalla corte d’appello di Messina per una tentata concussione. Con Lombardo sono compaesani, entrambi del paesone di Grammichele, feudo elettorale del primo e ancor prima del padre di Angelo Attaguile, Gioacchino, che dell’ex governatore è stato padrino politico. Eh sì, l’esponente della Lega di Sicilia si porta dietro una gloriosa eredità politica: il babbo è stato tre volte senatore Dc, sottosegretario alle Finanze nei governi Rumor e Colombo, infine ministro della Marina Mercantile. Angelo ha dato il massimo per non tradire la storia politica di famiglia. Da ragazzo è stato presidente dei giovani democristiani, nel 2005 Giuseppe Pizza lo nomina suo vice nella nuova Dc. Poi milita con gli autonomisti e nel 2013 viene eletto alla Camera grazie a un posto sicuro in quota Lombardo nelle fila del Pdl, due settimane dopo migra nel gruppo Lega Nord-Autonomie. Un sostegno indispensabile che ha permesso all’aggregazione parlamentare di avere il numero necessario per sopravvivere. Lunga vita ad Attaguile, dunque, che due anni dopo verrà incoronato segretario nazionale di Noi con Salvini, embrione del Carroccio nazionale. Il movimento entra così all’interno di Montecitorio e alla sigla Lega Nord-Autonomie si aggiunge Noi con Salvini, che da allora ha iniziato a usufruire della quota dei rimborsi ai gruppi: quasi 1,8 milioni negli ultimi due anni, a cui si è aggiunto un contributo liberale di 500mila euro dal gruppo Lega Nord Padania, in auge nella legislatura precedente dei governi Berlusconi e Monti. Che sia questione anche di affari la liason con gli autonomisti siciliani è evidente dal sostegno economico ricevuto da questi ultimi negli anni passati: circa un 1,4 milioni fino al 2010. Sebbene Attaguile sia un recente acquisto di Salvini, con i leghisti c’è sempre stata un’intesa. Lo scopriamo tornando in via Cesi. Tra il ‘93 e il ‘99 la proprietà dello stesso appartamento era suddivisa tra Attaguile e Michele Baldassi di Udine, leghista, manager in aziende pubbliche in quota Carroccio e sposato con Federica Seganti, pezzo grosso del partito friulano, ex assessora regionale, alla cui campagna elettorale è cresciuto un giovanissimo Massimiliano Fedriga, astro nascente della Lega versione Salvini. Un leghista e un democristiano a Roma. Negli anni in cui si raccoglievano le macerie della prima Repubblica, con il partito di Bossi che si scagliava contro le clientele della Dc e i tangentari di Mani pulite, per non parlare dei meridionali. Tuttavia Baldassi per pochi mesi nel periodo di comproprietà ha ottenuto anche un incarico nell’Ast, la società del trasporto pubblico della Regione Sicilia. Uscito Baldassi dalla proprietà, mai Attaguile avrebbe immaginato che 16 anni più tardi in quel di via Cesi avrebbe riabbracciato altri leghisti.

Il Drago e Il Padano. Attaguile non è il solo, con un papà potente Dc, a salire sul Carroccio di Salvini. Filippo Drago sindaco di Aci Castello l’ha seguito. Udc, Noi Sud, Pdl, Mpa, e infine candidato numero due per la Lega in uno dei collegi plurinominale del Catanese. Suo padre, Nino Drago è stato otto volte sottosegretario oltreché sindaco di Catania. Un fuoriclasse del consenso, andreottiano, all’epoca di Salvo Lima. Uscito indenne da un’inchiesta. Come il suo erede, Filippo, assolto per la voragine di bilancio lasciata nelle casse del comune di Catania dalla giunta Scapagnini. «Nun semu tutti i stissi». Non siamo tutti gli stessi, slogan che nel 2008 ha reso celebre il rampollo di Nino. Nel club dei Salvini boys della Trinacria si è iscritto anche Alessandro Pagano da San Cataldo, provincia di Caltanissetta. Berlusconiano della prima ora, assiduo pellegrino a Medjugori, fedele ultratradizionalista della congrega Alleanza cattolica. Il primo incarico di rilievo è del ‘96, assessore alla Sanità nel governo regionale del chiacchierato Giuseppe Provenzano. Quattro anni più tardi si alternerà tra Finanza e Beni Culturali nella prima giunta Cuffaro. Nel 2013 da deputato Pdl transita con Angelino Alfano nel Nuovo centro destra, da cui divorzia per giurare amore eterno alla Lega-Noi con Salvini. E da quel momento per i nisseni Pagano diventa “Il Padano”. Lo ha seguito il cugino, dipendente del centro di accoglienza per migranti. Chi è rimasto fuori, ma lo sosterrà, sono il cognato, Raimondo Torregrossa, in passato sindaco di San Cataldo, e la cognata Angela Maria Torregrossa, amministratrice della rinomata clinica Regina Pacis, convenzionata con la Regione. Torregrossa fa il suo ingresso nella struttura sanitaria di San Cataldo nel periodo in cui Pagano guidava la Sanità. Il cognato, invece, è stato primo cittadino di San Cataldo quando lui era deputato all’assemblea regionale. Poi, quando Pagano va Montecitorio, Torregrossa va a palazzo dei Normanni. I maligni hanno definito questa alternanza sancataldese “Operazione Montante”, perché voluta da Antonello Montante, l’imprenditore, cavaliere del lavoro, fino a un anno fa capo degli industriali sicialiani e sotto indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Montante come Pagano è di San Cataldo, fino al 2009 i rapporti erano ottimi. Poi tra i due è sceso il gelo.

Ombre nere sullo Stretto. Superato lo Stretto, da Reggio Calabria in su, i Salvini boys non hanno nulla a che spartire con la tradizione democristiana. Qui prevale il nero degli eredi politici del Movimento sociale. Giuseppe Scopelliti, per esempio, sosterrà Salvini con il suo nuovo Movimento nazionale per la sovranità fondato insieme a Gianni Alemanno, sotto processo per finanziamento illecito in un filone scaturito da Mafia Capitale. Scopelliti non si candiderà, per non creare imbarazzo al Capitano. Ha una condanna in appello a cinque anni per abuso e falso per la vicenda del dissesto milionario del municipio che governava. E poi è in attesa di capire l’evoluzione di un’inchiesta dell’antimafia sul livelo occulto della ‘ndrangheta, in cui è indagato. Ma l’ex governatore e già sindaco di Reggio lavorerà dietro le quinte, metterà, cioè, a disposizione il suo blocco elettorale mobile che fa gola a molti. A Salvini quei voti sicuri fanno comodo. Dal canto suo Scopelliti non rinuncia certo a piazzare sue pedine nelle liste. Una su tutte: Tilde Minasi, fedelissima fin dalla prima giunta comunale. Dalla destra sociale proviene anche il segretario sezione calabrese della Lega-Noi con Salvini. Si chiama Domenico Furgiuele, un passato nella Destra di Storace, e, ora, candidato alla Camera. Di mestiere fa il geometra, a tempo perso lavora nella tv locale di famiglia. Le sue passioni, il calcio e la storia. Quando era un ultras del Sambiase ha collezionato un Daspo, che la Questura affibbia solo ai tifosi più agitati. Sulla storia recente ha le sue idee. Ritiene, per esempio, il neofascista Stefano Delle Chiaie, fondatore della fuorilegge Avanguardia nazionale, «più una vittima che un carnefice». E su questo sarà in sintonia con Scopelliti, visto che Delle Chiaie - un legame fraterno con la frangia più torbida della Calabria - è stato protagonista del fronte nero nei moti di Reggio negli anni Settanta. Una delle prime apparizioni di Matteo Salvini in Calabria è del 2015, quando insieme a Furgiuele hanno organizzato una conferenza stampa all’Aerhotel Phelipe, di proprietà della famiglia dell’imprenditore Salvatore Mazzei, suocero di Furgiuele. Il parente del candidato di Salvini a Lamezia ha i beni sotto sequestro dall’antimafia. Lui rigetta ogni accusa, sostiene di essere una vittima, forte anche di un assoluzione da un processo per concorso esterno. Di certo, però, Mazzei è sfortunato nella scelta dei partner: un suo vecchio socio, imprenditore delle sale bingo, è stato pizzicato di recente dalla guardia di finanza di Lamezia per una presunta bancarotta fraudolenta. Dettagli per Furgiuele, fiero di aver portato la Calabria a Pontida, incluso il gazebo con l’insegna della regione. Così tra un “Va, pensiero”, vichinghi in delirio e mutande verdi, ha ormai quasi cancellato dalla memoria quel passaggio di un informativa della polizia in cui viene tirato in ballo per aver offerto alle persone sbagliate due stanze dell’hotel di famiglia, lo stesso in cui Salvini è stato ospite tre anni fa. I detective che indagavano su un caso di omicidio del 2012, infatti, scoprono che i sicari dopo la spedizione hanno alloggiato nel quattro stelle senza pagare alcunché. «Erano ospiti del signor Domenico Furgiuele, genero del signor Mazzei, proprietario dell’Hotel», si legge nel documento. L’episodio non ha avuto alcun rilievo penale, Furgiuele non poteva immaginare che quelli fossero gli autori del grave delitto. Si era fidato di un amico, a sua insaputa coinvolto con quella gentaglia. Una storiaccia, insomma, da dimenticare. Furgiuele, ora, è concentrato sulla campagna elettorale. Nella sede leghista di Lamezia campeggia un celebre motto di Codreanu: «Per noi non esiste sconfitta o capitolazione...». Il fascista rumeno, per i camerati d’Europa semplicemente “Il Capitano”.

Lo chiamavano ‘o Criminale. Tra Napoli e Caserta nessuna nostalgia del passato. Si vive alla giornata, elezione dopo elezione. E qui il Capitano Salvini ha ben altri pensieri. Primo fra tutti l’ingombrante presenza di Vincenzo Nespoli nella composizione delle liste della Lega in Campania. Nespoli è stato tre volte deputato, sindaco della sua città, Afragola, e condannato in secondo grado a cinque anni per bancarotta fraudolenta. Seppur nell’ombra, come Scopelliti in Calabria, anche lui offre la merce migliore che ha disposizione, i voti. Sporchi, volendo dar credito a un pentito di camorra nuovo di zecca: «È amico intimo della famiglia Moccia... quando è stato al potere al Comune, là erano tutti schiavi... è un SS, lo chiamano o’ Criminale». Nespoli, quindi, meglio che resti dietro le quinte, in attesa. Palco libero per la front woman di Salvini in Campania, Pina Castiello, anche lei di Afragola e legata a Nespoli da militanza comune e da solida amicizia. Inizia in Alleanza nazionale, poi passa al Pdl, casa politica in cui ha stretto un solido rapporto sia con Nicola Cosentino che con la famiglia Cesaro, due saghe politiche inquinate dai clan. La copertina dell'Espresso in edicola dal 11/2Ma di Afragola è anche un altro candidato pro Salvini. Ciro Salzano, imprenditore, patron dell’Aias, l’associazione per la cura dei disabili. Non c’è che dire, tornata elettorale fortunata per Afragola. Con l’Aias del neoleghista Salzano ha collaborato il medico no vax radicale Massimo Montinari, sospeso per sei mesi dall’Ordine dei Medici. Non è nota la posizione di Salzano sui vaccini, mentre quella di Salvini sì: «Con noi al governo via l’obbligo». Chissà, magari è stata questa la molla che ha spinto Salzano a correre con il Capitano.

Salvini alle pendici del Vesuvio. Alla fine, quindi, quel “Napoli colera”, urlato a squarciagola, era solo una goliardata da tifoso. Il presente è un selfie con il fuoriclasse azzurro Lorenzo Insigne. Insomma, i tempi sono ormai maturi per issare lo stemma di Alberto da Giussano nella capitale del Regno delle due Sicilie. Il segretario regionale campano è Gianluca Cantalamessa. Napoletano e candidato alla Camera nel collegio uninominale Campania 11. Le simulazioni danno la sua elezione pressoché certa. La Lega è stata per lui un approdo, ma casa sua resta la destra sociale. E finchè suo padre era ancora in vita guai a parlare di autonomia e secessione. Antonio, il papà, era un nostalgico del Duce, della patria indivisibile. Antonio Cantalamessa, infatti, è stato tra i più importanti esponenti dell’Msi. Il figlio l’ha seguito come meglio ha potuto, per esempio organizzando incontri nel ricordo di Almirante. Il giorno del funerale del papà dichiarò: «Grazie a mio padre ho capito cosa significa essere un uomo, che cos’è la destra, che cosa sono i valori». Su questo nessun dubbio. Il 28 aprile 2003 Cantalamessa senior aveva partecipato a una messa in onore di Mussolini e dei caduti della repubblica sociale italiana. Cinque anni più tardi viene nominato presidente di Equitalia Polis, l’agenzia di riscossione che il capo del Carroccio promette di abolire. Il figlio si è limitato a fare l’imprenditore, in ambito assicurativo e immobiliare. In passato anche nel settore farmaceutico. Socio, per esempio, fino al 2004 della New.Fa.Dem di Giugliano. Ai tempi in cui Cantalamessa era azionista, tra i consiglieri c’era Valerio Scoppa. Famiglia importante la sua, papà radiologo di fama, zio generale dei carabinieri in pensione legato alla curia, il fratello sposato con la figlia del boss Angelo Nuvoletta, morto nel 2013, mentre stava scontando l’ergasotlo per l’omicidio del cronista del Mattino Giancarlo Siani. Storie passate. Oggi Cantalamessa è un Salvini Boy, impegnato a contrastare l’invasione straniera.

Fuori dal cazzo! di unità nazionale, scrive il 9 marzo 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Chiedo scusa a chi ama un giornalismo in punta di penna per il titolo volgare, populista, estremista, financo sessista. Ritengo tuttavia necessaria un’eloquenza pane e mortazza poiché l’incertezza sul nuovo governo sta oscurando l’esisto elettorale. Il mostro contro cui si è ribellata la cittadinanza sta fagocitando il voto, per poi digerirlo e cacarlo. La vita dopo la consultazione per il popolo italiano somiglia alla vita dopo la morte dei personaggi della Commedia di Samuel Beckett: «Credevamo che sarebbe stata una liberazione, che ci avrebbe portato la pace… perché allora le cose continuano, perché tutto continua?». Per ben valutare il reale ci sono due strade: la prima è quella di allenare la facoltà di giudizio, osservare, riflettere… e quindi deliberare; la seconda porta ad ascoltare la posizione ufficiale dei filistei fasulli, con la consapevolezza che il contrario di ciò che dicono si avvicina al vero e al giusto. Prendiamo a modello il reddito di cittadinanza. Indipendentemente dalle riserve che suscita, legittime se non doverose, è ributtante ascoltare gli stessi che ci hanno insegnato moralità sul bisogno di accogliere, sfamare, mantenere, integrare i più sfortunati del mondo… ora ridicolizzare chi vorrebbe garantire un sussidio a 4.7 milioni di italiani disintegrati sotto la soglia della povertà assoluta, accusandolo di populismo, di demagogia e di assistenzialismo. Il Caffè di Gramellini dà una svegliata costituzionale – velata da una punta di razzismo – a quegli zotici italiani del Sud che ingenuamente speravano in un aiuto economico, parlando di bignamini, di sue tasse, ma dimenticando che sono mie tasse quelle che vengono caritatevolmente offerte ai sempre più numerosi ed esigenti migranti economici, che di bignamini avrebbero forse ancor più bisogno degli anziani siciliani. Malgrado questi cortocircuiti procedurali, in queste ore è tutto un florilegio di ammiccamenti alla possibile alleanza di governo fra 5Stelle e PD. Da Scalfari a Confindustria, dal Foglio a Bernard Guetta, si tifa per una convergenza a sinistra. Ad accompagnare questa possibile transizione che escluda il Centrodestra, l’esercito impiegatizio dell’atlantismo, che con i soldatini della subcultura econometria insiste nel puntare le cerbottane contro i populismi e gli estremismi. Populismi ed estremismi che, usciti vittoriosi dalle elezioni, prendono ora il nome di volontà popolare e possono urinare ambrosia sulla testa degli automi a molla.

Stefano Feltri pubblica l’indispensabile “Populismo Sovrano” e da Corrado Formigli ci addottora sui severi vincoli che ci impone l’Europa; La Sibilla Cumana di Algebris, Davide Serra, non può che divinare la preoccupazione dei Mercati, spaventati dall’instabilità e dai massimalismi (i voti all’estero hanno premiato il PD, quindi mi auguro che la fuga di cervelli continui); Maurizio Molinari ci segnala come la Commissione Europea “punti il dito” sul debito italiano e parla di spillover, di rischio contagio su altri Paesi; Mario Monti, che è un contagio reificato, torna a farsi piuttosto ciarliero, sottolineando che «sarebbe auspicabile un governo 5Stelle-Pd se servisse a spartire le responsabilità di eventuali scelte impopolari che dovessero rendersi necessarie». Il sottotitolo a tutte queste odiose prese di posizione… che si rifanno ad una autorità ontologicamente superiore credibile quanto il dio del tuono azteco, è il mero auspicio di poter continuare a rapinare le moltitudini, oltraggiando il decoro e il messaggio lanciato dalle urne. Questa gente è stata azzittata dal voto del 4 marzo, annullata, eppure ancora blatera in cerca di consenso. Ancora alita zolfo e spread. Ma il suffragio è arrivato con una potenza reboante e comanda: Andate in culo! Andate fuori dai coglioni! Per questo serve un governo di unità nazionale che concretizzi la potestà degli elettori. Che consacri la democrazia rappresentativa.

Il rigurgito di orgoglio ha preso due direzioni, ha assunto due forme, due colori; ma è cementato da un disgusto comune verso questo apparato. La complicità fra i due vincitori delle elezioni – il Centrodestra a trazione salviniana e i 5Stelle – fiacca sul piano dei programmi e sull’idea di buona vita, è del tutto naturale su quello della priorità: estirpare il tumore che affligge il Paese. Populisti d’Italia unitevi!, questo il grido dell’arme che si è levato dai seggi. Il vile nemico usa tutte le risorse a sua disposizione anche in regime di cessate il fuoco. Usa lo spaventacchio del debito pubblico raffigurato in perenne agguato sul futuro delle nuove generazioni per suscitare inquietudine negli intelletti indifesi. Solletica le corde delle anime melliflue per far entrare il cavallo di Troia della manodopera a basso costo sotto la bandiera umanitaria. Mette le mimose alle sbarre della prigione globalista con il femminismo, l’europeismo, il cosmopolitismo di maniera. E la banalità del male si nota proprio dalla prevedibilità e dalla monotonia delle scemenze dinamitarde che vengono esplose – sempre uguali nel pre-Brexit, nel pre-Referendum, alla vigilia delle Politiche – che vaticinavano cataclismi economici e inondazioni nazifasciste. Scemenze a tal punto ricandidate da fare ormai sull’opinione pubblica l’effetto di fialette puzzolenti. E questa è la galvanizzante presa di coscienza degli ultimi mesi. Le democrazie occidentali, e quella italiana su tutte, hanno avuto lo scatto di scetticismo necessario alla loro sopravvivenza. Un’epoché salvifica, una ribellione gloriosa. Ora la politica trionfante deve utilizzare il voto per diradicare ciò che rimane di una metastasi che ha infettato la stampa, la televisione, i teatri, la giustizia, le scuole, le università. La sinistra liberista, atlantista, massonica, cripto-fascista e finto-corretta, va sbriciolata. Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi … si guarda al fine … I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati. I grillini pasticcioni, che hanno il merito di averne nasato il fetore, saranno i mezzi onorevoli per il fine ineludibile. Non è più il momento di essere attendisti, di fare i puristi, i fighetti. Lo squalo che sente l’odore del sangue… attacca. Altrimenti è un pesce gatto.

Il politicamente corretto odia l’Immigrazione sana, la dimostrazione è Toni Iwobi, scrive il 9 marzo 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". Mario Balotelli e Cécile Kyenge che cosa hanno in comune? Sono il volto dell’integrazione, mal riuscita, all’ombra del tricolore. Esempio di uomini e donne arroganti e spacconi che vogliono spiegarci, a tutti i costi, che l’immigrazione ha un colore, possibilmente arcobaleno, avvolto nella bandiera dei diritti, senza doveri, sventolata dalla sinistra. Quella sinistra politicamente corretta che si è indignata per l’elezione del primo senatore con la melanina scura della storia della Repubblica italiana: Toni Iwobi. Qual è il problema? Il problema è che Toni Iwobi rappresenta la Lega. Il senatur rappresenta, per il movimento capitanato da Matteo Salvini, il responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza. Un verde, come lo ha definito Vittorio Feltri un “negro bergamasco”. Nel suo editoriale la penna della città dei Mille, sulle colonne di Libero, scrive: “Il suo motto è ‘REALISMO, NON RAZZISMO’. Per questo egli dice: migrazione solo se c’è lavoro, e siccome oggi c’è ‘soprassaturazione dell’occupazione’ (usa questa parola accademica, ma va bene lo stesso), vanno bloccati i flussi. Come? Svelando l’inganno a quelli che sono invogliati a partire dai buonisti bugiardi. (…) Vanno ‘aiutati a casa loro’, con investimenti governati da aziende nostre, che possano prosperare loro e far prosperare i locali. Fornisce qui altre ricette, a cui mi inchino, e che so costituiscono il programma di Matteo Salvini su questo tema che non è un’emergenza ma ci assedierà per decenni (se riusciremo a sopravvivere)”. Realista proprio come piace a noi. Realista quel tanto che basta per sorpassare, senza voltarsi, i cattocomunisti da strapazzo che voglio farci invadere senza possibilità di difesa. Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!”. Le polemiche ai tempi dei social network. Le parole arrivano dal profilo Instagram di Mario Balotelli. Il viziato centravanti del Nizza. Il bizzoso talento sprecato ai tempi dell’Inter, appassito in quel di Manchester, sfiorito a Milano sponda Milan e timidamente riapparso in Costa Azzurra. Dall’alto della sua sapienza apostrofa, con un tackle impreciso e rozzo, il leghista con toni poco lusinghieri. Eccolo il nodo cruciale. L’ideologia politica ha un colore, soprattutto quello della pelle. Una follia, figlia di questo tempo malato, dove il senno è un diritto arrogato, unicamente, dalle sinistre. Adriano Scianca, direttore de Il Primato Nazionale scrive: “Secondo il nuovo Sartre, ovvero Mario Balotelli, se un nero si candida con la Lega è perché è cieco di fronte al colore della propria pelle. Applausi a scena aperta dalle sinistre. Ora, senza entrare nel merito della questione Iwobi, mi interessa molto questo ragionamento di Balotelli. Quindi esistono posizioni politiche che discendono direttamente dal colore della pelle? Ma questo vale solo per un certo tipo di pigmentazione oppure è valido anche per me? È possibile pensare, votare e schierarsi in quanto nero ma non è possibile farlo in quanto bianco? Eppure avevo capito che le razze non esistessero. Sono curioso, spiegatemi”. Spiegatelo al nuovo governatore lombardo, Attilio Fontana, che per una frase sulla “razza bianca” è stato crocifisso sull’altare di Giorgio Gori. Con i risultati delle urne che stridono rispetto alla realtà, patinata, del mondo irreale dei media. Mai un giorno nell’illegalità per il neo senatore Toni Iwobi. Quarant'anni nel nostro che è diventato, anche, il suo Paese. Una condotta esemplare, un esempio vincente di integrazione, di lavoro al servizio della comunità. La dimostrazione che non tutti gli extracomunitari appartengono alla cerchia del PD e della politica fatta sulle pelle, è il caso di dirlo, delle minoranze etniche. Il rapper Tommy Kuti, anche lui originario della Nigeria, in un suo brano dal titolo #Afroitaliano canta: “Quando tutta sta gente non mi conosceva/ Fanculo i razzisti, quelli della Lega/ Ogni 2 Giugno su quella bandiera/ Mando una foto ai parenti in Nigeria / Mangiando una fetta di pizza per cena”, chi glielo racconta ora che ha sbagliato bersaglio nelle sue liriche? Senza citare chi paragona Iwobi ad un maggiordomo, ad un novello zio Tom, allo Stephen, interpretato da Samuel L. Jackson, capo della servitù, negriero tra i negri, del film Django Unchained. Come sostiene Scianca una contraddizione in termini, fortissima, laddove la RAZZA esiste solo a comando. Anzi di razza ne esiste solo una quella bianca, con cui diventa impossibile scendere a patti, scendere a compromessi, anche solo semplicemente confrontarsi per ottenere risultati concreti. Figuriamoci per un nigeriano che ha deciso di investire le proprie competenze con la Lega, follia. Nicola Porro definisce Roberto Saviano un minus habens, perché suggerisce a Matteo Salvini di bere la propria urina. Quando Gomorra diventa realtà. Quando l’astio verso Iwobi, verso la trionfante Lega, i dati elettorali parlano chiaro, diventa motivo di acredine incontrollata. Serve, a questo punto, citare il Vate Gabriele D’Annunzio per apostrofare gli amici politicamente corretti. Il poeta abruzzese definì, al culmine di una lite, Filippo Tommaso Marinetti un “cretino fosforescente”. Ecco cosa sono codesti minus habens: cretini fosforescenti. Perché esaltano il proprio livore rendendosi visibili, anche dalla Luna, in tutta la loro cafonaggine. Si legge sulle pagine del Giornale: «“Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno condiviso le manifestazioni di sostegno per Mustafa”, ha scritto ieri pomeriggio Mohamed Ali Arafat, sindacalista a Piacenza, per annunciare l’avvenuta scarcerazione del compagno di lotta. “La liberazione di Moustafa è solo il primo di una serie di passaggi necessari a liberare tutti i protagonisti di quella grande giornata di lotta antirazzista – si legge nella pagina Facebook di Si Cobas Piacenza – Chiediamo con forza la liberazione di tutti i compagni arrestati per i fatti di Piacenza e una piena assoluzione per loro e per i compagni piacentini colpiti da denunce e perquisizioni. La necessità di lottare contro il razzismo e le sue sedi è sotto gli occhi di tutti: quotidianamente si succedono gli atti di terrorismo a matrice fascista e leghista contro immigrati o le intimidazioni contro esponenti delle lotte sociali e sindacali. Per noi la dimostrazione empirica della debolezza propria delle argomentazioni razziste continua a risiedere nei risultati che giornalmente otteniamo nei luoghi di lavoro, dove solo lottando uniti, italiani e immigrati fianco a fianco, si può ottenere ciò che padronato governo provano a sottrarci”». C’è una classe dirigente, meglio… una conventicola, meglio… una cosca nazionale avida di avidità sovranazionali… che ha permesso tutto questo. Che tutto questo difende e promuove. Una cosca che dopo il 4 marzo barcolla tragicamente, che si attacca alle corde, che prova a legare. Adesso va messa al tappeto. Dopo le consultazioni Mattarella dovrà contarla e decretarne il k.o. tecnico alzando il braccio a un governo Centrodestra-5Stelle. I nodi da sciogliere saranno tanti. Il parlamento dovrà parlamentare. Il destino del Paese resterà incerto e le scie di condensazione aleggeranno su di noi. Ma avremo scongiurato, forse per sempre, le magnifiche sorti e progressive. Questa è la mia immodesta opinione sul da farsi; ora ditemi la vostra!

Balotelli insorge contro il leghista nero, scrive Lanfranco Caminiti l'8 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il calciatore contro il senatore di origini africane: “Forse ancora non gliel’hanno detto che è nero!” Hiram Rhodes Revels entrò al Senato degli Stati Uniti nel 1870. All’epoca i senatori venivano eletti dal parlamento dello Stato, e siccome uno dei due rappresentanti del Mississippi si era dimesso restava un posto vacante. Revels era il rappresentante della contea di Adams, e quindi ne aveva i titoli. Per la verità, non tutti ne erano convinti: ci fu un’opposizione insistente. Perché il punto era che Revels era nero. Non proprio nero nero. Era di sangue misto, nato da un uomo a sua volta di sangue misto e da una donna bianca di origini scozzesi: solo che lui era venuto nero. Efu questa la tesi che vinse: Revels sembrava un nero ma non era un nero nero, e perciò era americano di nascita. Così, Hiram Rhodes Revels fu il primo nero a entrare nel Senato degli Stati Uniti. Da repubblicano. Perché Revels era un repubblicano convinto – e democratici invece, quelli che si erano opposti alla sua elezione. Revels era del “partito di Lincoln”. Quello che pur di eliminare la schiavitù aveva fatto la guerra civile. Non so se questa storia la conosca, il signor Toni Iwobi, 62 anni, diventato primo senatore nero con la Lega di Salvini. Non è il primo italiano di origini africane a entrare in parlamento: alla Camera, da deputati, ci sono stati, in schieramenti diversi, Dacia Valent, Khaled Fouad Allam, Souad Sbai, Magdi Allam, Khalid Chaouki, Cécile Kyenge e Jean- Léonard Touadi. Ma certo, è il primo senatore e, soprattutto, ci entra con la Lega. Proprio l’ex deputato Jean- Léonard Touadi ha commentato: «Mi ha sempre colpito la sindrome di Stoccolma del senatore Iwobi che ha fatto da cassa di risonanza ai proclami antiafricani dei suoi carcerieri». A chi non è andata proprio giù l’elezione di Iwobi è Mario Balotelli che su Instagram scrive: «Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!!!». L’attaccante del Nizza, da sempre in prima linea nella lotta contro il razzismo, contro i buuu e le banane gettate in campo dagli spalti, e che pochi giorni fa nella partita contro il Digione è stato ammonito per avere zittito i cori razzisti, si è anche congratulato con la sua terra madre, il Ghana, nel giorno del 61esimo anniversario dell’Indipendenza del Paese: «Prometto sul mio onore di essere fedele e leale alla mia terra madre. Mi dono al servizio del Ghana con tutta la mia forza e tutto il mio cuore… Felice 61esimo compleanno dell’Indipendenza!». Chissà se Balotelli ha pensato a George Weah, grandissimo calciatore, anche lui ex campione del Milan e unico pallone d’oro africano, che è stato da poco eletto presidente della Liberia. Ma per il signor Iwobi, la terra madre è la Lombardia. Dopo l’elezione ha dichiarato: «Io appartengo alla patria, ma anche ai territori che mi hanno eletto. Non bisogna dimenticare da dove si viene». E non c’è dubbio che non intendesse la Nigeria, dove è nato il 26 aprile del 1955, ma la Lombardia, dove risiede a Spirano in provincia di Bergamo, responsabile immigrazione della Lega e nel Carroccio da 25 anni. Giunto in Italia con un visto da studente nel 1976, Iwobi, di madrelingua inglese, si è diplomato a Manchester in economia aziendale con specializzazione in marketing, sales & business management e ha poi ottenuto un diploma di analista contabile a Treviglio, Bergamo. Ottenuta una prima laurea in Computer information science, in Italia si è laureato in Scienze dell’informazione. Dal 2001 è amministratore delegato della Data Communication labs Srl con sede proprio a Spirano e che si occupa di servizi informatici, tra cui la progettazione di software gestionali, la gestione di reti locali e sistemi di sicurezza, la realizzazione di siti Internet, oltre a un servizio di provider per la Carta regionale dei servizi. In precedenza, Iwobi aveva lavorato come direttore tecnico e commerciale in una ditta che opera nel settore informatico. Nel 1995 è diventato consigliere comunale a Spirano, e da lì la sua carriera politica nella Lega. Nei suoi ringraziamenti sui social, Iwobi ha scritto: «Dopo oltre 25 anni di battaglie nella grande famiglia della Lega, sta per iniziare un’altra grande avventura. I miei ringraziamenti vanno a Matteo Salvini, un grande leader che ha portato la Lega a diventare la prima forza di centrodestra del paese!» D’altronde, nei santini elettorali aveva inserito lo slogan leghista “stop invasione” (e nei comizi indossava la maglietta con questa scritta). A chi gli ha fatto notare che dall’ultimo rapporto di Amnesty International risulta che il 95 percento delle frasi xenofobe proviene dal centrodestra e che tra i leader politici Salvini guida la classifica, lui risponde: «Lo spauracchio infondato di un ritorno del fascismo e del razzismo è quello che ha penalizzato la sinistra a queste elezioni. Vuole dirmi che Salvini è razzista? Io non vedo niente di tutto questo, come non vedo che sia contro gli immigrati. Un immigrato regolare è suo fratello ed è stato lui a mettermi a capo del Dipartimento immigrazione della Lega. Sono tutte cose inventate che non esistono. Il problema reale non è il fascismo o il razzismo, ma il lavoro che non c’è». A Balotelli, questo politico argomentare forse interessa poco. A lui interessa il colore della pelle. E solo un nero poteva dire a un nero guardati allo specchio, un po’ come nei film americani solo un nero può dare del “nigger” a un altro nero. A meno che l’abuso del politically correct non abbia sbiancato i vecchi dialoghi, come quello di Samuel Jackson in Pulp fiction che alla notizia che arriverà il signor Wolfe che risolve i problemi dice a Marcellus, il nero più cattivo che c’è: «Shit, negro, thats all you had to say – Merda, negro, dovevi dirmi solo questo». Politically correct si mostra anche il neosenatore Iwobi, che a proposito di Balotelli dice: «Non mi interessa rispondergli, ci sono problemi molto più importanti in questo Paese». Più sciocco – va da sé – il Gran Capo Salvini che dichiara: «Balotelli non mi piaceva in campo, mi piace ancor meno fuori dal campo». Peccato, perché invece di questo dovremo discutere e tanto – dopo l’assassinio “per caso” di un nero innocente a Firenze e “la rivolta delle fioriere” dei senegalesi. I neri stanno qui, sono fra noi, sono parte della nostra vita ormai. Anche politica. In fondo, l’elezione del signor Iwobi ci dice anche questo.

Mafiosi, massoni, maiali, Pdioti, ebeti, “lo stato delle cosce”: così il mondo M5S ha costruito le premesse per chiedere oggi l’alleanza al Pd. Dagli insulti alle possibili diffamazioni alla violenza verbale antisemita: un crescendo di odio che adesso sfocia, paradossalmente, nella richiesta di alleanza, scrive il 7 marzo 2018 di Jacopo Iacoboni su "La Stampa". Alla fine di due anni nei quali una delle ragioni costitutive del Movimento Cinque stelle – l’esperimento politico di Roberto Casaleggio – è sempre più manifestamente stata abbattere il Pd, il candidato premier Luigi Di Maio, in una polemica con Matteo Renzi, arrivò a dire: “Renzi ci dice che noi abbiamo candidato nelle nostre liste un amico degli Spada. Rispondo io: ma lo dici proprio tu che hai preso i soldi da Buzzi e da Mafia capitale per le elezioni?”. La frase è testuale. Renzi rispose che l’avrebbe querelato, e non sappiamo se ciò sia avvenuto. Forse la frase “prendi i soldi da Mafia capitale” non era esattamente la frase di due potenziali alleati. Magari era una dichiarazione d’amore non capita. Ora che il Movimento cinque stelle cerca i voti (anche, se non soprattutto) del Pd e del centrosinistra, e Renzi è rimasto uno di quelli (pochi?) avversi a questa bizzarra offerta, è forse utile passare in rassegna alcune delle cose che la propaganda M5S ha detto del Pd in questi anni. Alessandro Di Battista si fece fotografare davanti a un grafico a forma di piovra (simbolo neanche tanto velato della Piovra, la mafia) nel quale venivano elencati tutti i democratici che – a detta del Movimento – avevano problemi di vario genere con la giustizia. Sorvoliamo sul fatto che quel grafico contenesse anche degli errori nelle attribuzioni di presunti reati, fatto sta che i tre hashtag erano #mafiacapitale, #gomorraPd e #trivellopoli. Non esattamente un viatico all’amicizia, o alla non belligeranza post voto. Il Pd “è morto”, disse Di Maio quando cancellò all’improvviso un confronto con Renzi; ora il Movimento cerca i voti dei morti. E sarebbe il meno. Persino le scelte lessicali dell’aspirante premier cinque stelle non sono apparse precisamente predisposte al dialogo, in questi mesi. “Noi – disse sempre Di Maio – abbiamo restituito oltre 23 milioni di euro, quelli del Pd hanno intascato oltre 40 milioni di finanziamenti pubblici in questa legislatura, hanno ricevuto 9 milioni di euro non si sa da chi e si sono tenuti pure i soldi sporchi di Buzzi. Il mariuolo Mario Chiesa in confronto era un dilettante. A questa gente, che in queste ore starnazza, dico semplicemente: non c’è nulla di cui possiate vantarvi, dovete solo vergognarvi e tacere”. Dovete “vergognarvi”, “starnazzate“, “tacete“, siete “peggio dei mariuoli“. Grandi complimenti politici, sicuro segno della volontà di avviare un confronto programmatico dopo le elezioni. E questo è Di Maio in persona, l’uomo più moderato del Movimento. Perché se poi foste andati per sbaglio nei luoghi più potenti della propaganda non ufficiale pro M5S – ma col nome del candidato premier – per esempio il “Club Luigi Di Maio”, su Facebook, avreste trovato cose come la foto di un maiale accostato al deputato democratico Emanuele Fiano, di religione ebraica. Sul Fatto Quotidiano apparve – tra le varie – una vignetta contro la Boschi intitolata “lo stato delle cosce”: parve un disegno di chiara natura civil-progressista, ispirato alla volontà di confronto aperto, e al rispetto delle corpo delle donne: insomma, le sicure premesse per alleanze col centrosinistra. La Boschi stessa (tuttora eletta col Pd) fu definita “incostituzionale”, ma ora il problema parrebbe di minore gravità, per il Movimento, che ci si alleerebbe senza particolari tormenti. Durante le dichiarazioni di voto sulla riforma costituzionale al Senato, l’allora capogruppo del Movimento 5 Stelle disse, rivolgendosi sempre a “Maria Etruria”: “Avete demolito la carta costituzionale con la vostra superficialità e con una prepotenza autoritaria sulla base di indicibili accordi massonici” (e Boschi, di cui qualcuno azzardò la lettura del labiale, avrebbe risposto sussurrando: “massone lo dici a tua sorella”). In definitiva un grande leit motiv della propaganda grillina sui social è stato appunto “Pd massoni”, “deviati”, complici dei crac bancari. Ora nel Movimento si vogliono alleare con i massoni, forse per via delle candidature di massoni scoperte, a sorpresa, nel M5S, e non nel Pd. I democratici, in questi anni, non sono stati democratici, per i cinque stelle, ma “Pdioti”, “ebeti”, o – nei casi di maggior gentilezza – “ladri”. Appare dunque un po’ curioso che “la meglio gioventù grillina” ora sia così disposta a intrupparsi con siffatta gentaglia. Forse è solo opportunismo, normalissimo da che mondo è mondo; come le sparate euroscettiche, il referendum per uscire dall’euro, i flirt anti-immigrati contro le ong definite “taxi del Mediterraneo”. Forse, anche qui, volevano dire che sono per l’Europa, e a favore di una società aperta agli immigrati. Insomma, che “i loro temi in fondo sono più vicini al centrosinistra”.

Talk show: così il populismo ha vinto grazie alla tv, scrive Angela Azzaro l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Anni di tv fondata sulle urla e sull’emotività hanno favorito il passaggio dal popolo al populismo. Aldo Grasso, il critico televisivo e di costume del Corriere della sera, ha scritto sul ruolo che i talk show hanno avuto in questa ultima tornata elettorale. Secondo il professore della Cattolica di Milano i programmi di politica, che in questi anni hanno perso molti consensi, avrebbero favorito principalmente il Pd e Forza Italia, mentre l’assenza dalla tv avrebbe avvantaggiato i Cinque stelle. Il Pd, in realtà, ha avuto contro quasi tutte le trasmissioni a cominciare da quelle che in teoria, ma appunto solo in teoria, dovrebbero essere amiche come Carta Bianca su Rai3. Pochissimi partiti al governo sono stati così osteggiati. I Cinque stelle invece hanno potuto contare su quasi tutto il palinsesto di La7: anche quando non erano presenti personalmente in studio, erano rappresentati dai giornalisti ospiti, schierati molto spesso con il loro movimento. La Lega, pur con una strategia comunicativa in parte differente, ha potuto contare sulle trasmissioni di Del Debbio e Belpietro su Rete4. Ma la questione è molto più strutturale di un appoggio che potremmo definire “esterno” alle forze populiste che poi hanno vinto le elezioni. I talk show sono parte del “populismo”, per alcuni versi lo hanno creato, condizionando la percezione della realtà e gli schieramenti, ancora prima che partitici, ideologici e identitari. In questi anni siamo stati abitutati a una tv urlata, che ha dram- matizzato qualsiasi problema, dall’arrivo dei migranti alla sicurezza nelle città. Sono state davvero poche le trasmissioni che non abbiano alimentato la paura, creato l’odio per il diverso, fatto credere che i diritti degli uni ( chi arriva in Italia in fuga da fame e povertà) siano opposti ai diritti degli altri ( gli italiani). È una tv basata non sulla ragione e sui dati, ma sulle emozioni non mediate, sulla cosiddetta pancia, sull’irrazionalità. È una tv che ha creato un suo pubblico, lo stesso pubblico che ha poi votato Cinque Stelle e Lega che usano da questo punto di vista la stessa cifra comunicativa. Pier Paolo Pasolini, parlando prima di tutti in Italia di quel fenomeno che poi avremmo chiamato globalizzazione, teorizzava un mutamento antropologico degli italiani. Era il rimpianto delle lucciole, che aveva un certo sapore reazionario, ma che coglieva un cambiamento profondo della società. Oggi quel mutamento è diventato ancora più radicale e ha avuto come campo di battaglia proprio un modo di intendere la televisione e l’informazione. Il passaggio da popolo a populismo, dal conflitto all’odio, avviene dentro un format televisivo che vive tutto come una guerra, un processo mediatico, uno scontro. Le forze politiche che non hanno questo approccio alla politica hanno pagato un prezzo molto alto, non solo perché la loro voce risalta di meno, ma perché meno rispondono alla trasformazione antropologica e sociale avvenuta in questi anni. Il presidente del Censis De Rita, che ha fotografato la società del rancore, vede nuovi segni di cambiamento. Comunque sia questo cambiamento non può non passare anche attraverso una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, dalla tv a internet.

Sembrava il talk di Kim, ma era la Tv italiana, scrive Piero Sansonetti il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Ho visto in Tv, l’altra sera, un talk show dedicato al pasticcio- rimborsi dei 5 Stelle, e sono rimasto senza parole. Per come era organizzato, per le cose che si dicevano, per i protagonisti. Lo conduceva Enrico Mentana. Mentana, ma come fai un talk? Solo 5stelle a processare i 5stelle? Mentana è sicuramente è uno dei giornalisti italiani più bravi. Ed è un professionista di grandissima esperienza, ha lavorato ai massimi livelli in Rai a Mediaset e ora alla Sette. Eppure la sensazione netta era quella non di assistere a un dibattito ma ad una rappresentazione di regime. Scusate se uso questa parola così aspra, ma è quella giusta. Sia chiaro, non sono mai stato un fanatico della par condicio, anzi penso che sia una pessima cosa. Penso che l’informazione non la si possa fare col bilancino: deve godere di spazi di libertà, e professionali, che le norme della par condicio mortificano. Però una cosa è la discrezionalità della rete, o del conduttore, un’altra cosa è condurre una trasmissione sui 5 Stelle in difficoltà per i rimborsi spariti, con la partecipazione (nella prima parte) del capo dei 5 stelle, di un conduttore simpatizzante dei 5 stelle, del fondatore del giornale dei 5 stelle e basta. E nella seconda parte con l’intervento di altri due giornalisti decisamente simpatizzanti dei 5 stelle (o comunque molto ostili al Pd e a Forza Italia) e di un terzo bravo e giovane giornalista, indipendente, al quale però non si concede, o quasi, di esprimere il suo punto di vista.

I protagonisti della trasmissione ai quali mi riferisco sono, nell’ordine, lo stesso Enrico Mentana, Antonio Padellaro (che, paradossalmente, è stato sicuramente il più serio e anche il più critico verso il movimento di Grillo), Mario Sechi ( tifoso oltre ogni immaginazione dei 5 stelle, a sorpresa per me che lo avevo lasciato tempo fa berlusconiano e poi sapevo che era diventato montiano), Alessandro De Angelis, dell’Huffington Post (il quale ha il merito di avere rivolto a Di Maio l’unica domanda ragionevole, e però il demerito di non avere preteso una risposta) e infine, isolatissimo e, giustamente, un po’ intimidito, Ilario Lombardo, della Stampa. Il risultato di tutto questo è stato paradossale. Diciamo che tutti si aspettavano una specie di processo ai 5 stelle (come sarebbe capitato a qualunque altro partito nelle stesse condizioni), beccati dalle jene con le mani nel sacco e messi di fronte all’evidenza che il loro grado di trasparenza e di onestà non è superiore a quello degli altri partiti. Invece è successo esattamente il contrario. A parte Padellaro (che ha provato a illustrare alcune critiche anche abbastanza graffianti ai ragazzi di Di Maio e a Di Maio), per il resto la trasmissione ha affermato le seguenti verità indiscutibili.

Prima, che i 5 stelle sono e restano il primo partito e che tocca a loro lo scettro del principe e palazzo Chigi.

Seconda, che gli altri partiti sono molto peggio dei 5 stelle e devono solo starsene zitti ed eventualmente garantire in parlamento ai 5 stelle i voti per governare.

Terza, che i parlamentari a 5 Stelle sono gli unici che restituiscono parte dei loro stipendi anche se non proprio tutti lo fanno. (In realtà verso la fine della trasmissione è stato mandato in onda un servizio che dimostrava il contrario, ma nessuno si è sentito in dovere di dire: “ohibò, ma allora stavamo sbagliando tutto…”).

Quarta, che le liste elettorali di tutti i partiti che non siano i 5 Stelle sono piene di inquisiti, cioè di impresentabili.

Quinto, che di conseguenza i 5 Stelle restano il partito dell’onestà, anche se fanno sparire un po’ di quattrini, e che questa caratteristica non viene per niente intaccata dal fatto che un bel gruppetto di parlamentari ha falsificato i bonifici e un altro bel gruppetto di dirigenti del movimento (ma di questo neanche se ne è parlato) ha falsificato le firme. Personalmente penso che nessuna di queste cinque verità sia vera. Si tratta delle classiche verità non vere.

1) Che i 5 Stelle siano e restino il primo partito è un ottimo slogan elettorale, ma è circostanza tutta da verificare. Chi ha vinto si stabilisce dopo le elezioni, non prima. Oltretutto si tratterà di vedere come si calcola la consistenza delle forze politiche: per coalizione o per liste? Per percentuali o per seggi? Per risultati all’uninominale o al proporzionale? Mi chiedo: è compito di un talk show sostituire le analisi politiche con uno slogan a favore di un partito? Può darsi di sì, però è una novità nell’etica giornalistica.

2) Perché mai gli altri partiti sono peggio dei 5 Stelle? E’ una verità rivelata, un teorema che non ha bisogno di dimostrazione? E poi, a nessuno viene il sospetto che se gli altri partiti non hanno linciato i 5 Stelle dopo il pasticcio rimborsi è perché sono più civili e hanno un rispetto maggiore dello Stato di diritto? Certo, è facile immaginare cosa sarebbe successo se le parti fossero state invertite, e se a finire sotto accusa fossero stati il Pd o Forza Italia. Ci sarebbe stata l’ordalia. E’ una colpa – e non un merito – evitare l’ordalia?

3) Non è assolutamente vero che i 5 Stelle sono gli unici a donare. Lo fanno quasi tutti i partiti. Alcuni, come Sinistra Italiana, in misura molto maggiore ai 5 Stelle. Loro però dicono: ma noi li doniamo alle imprese, voi ai partiti. Non ho capito dove sia scritto che donare i soldi a una impresa (senza nessun controllo) sia moralmente più nobile che donarli al proprio partito (nelle cui idee, si suppone, uno crede; e del quale si fida ed è in grado di controllare democraticamente l’amministrazione). Ci siamo tutti convinti che Dio ha stabilito che un imprenditore è un sant’uomo, un missionario, e un partito politico (tranne il proprio) è letame?

4) Inquisiti e colpevoli non sono parole intercambiabili. Possibile che Mentana e Sechi e De Angelis non lo sappiano? Possibile che non conoscano la Costituzione italiana? Un inquisito non è impresentabile. Ognuno poi stabilirà nell’urna se lo considera meritevole o no e se considera meritevole o no un candidato che ammette di avere contraffatto un bonifico e di essersi gloriato di avere donato soldi che ha intascato. Cioè: lo stabiliranno gli elettori, perché tocca a loro questo compito.

5) Può un partito con una percentuale abbastanza alta di disonestà accertata nel suo gruppo dirigente presentarsi con la parola d’ordine (unica): onestà? Devo dire che questa domanda – l’unica vera domanda politica – l’ha posta con una certa insistenza Padellaro, ma non molto ascoltato. Ha chiesto: sicuri che un elettore possa fidarsi del rigore di un partito che non è capace neppure di controllare il suo gruppo parlamentare? Infine vorrei raccontarvi della domanda (a cui accennavo all’inizio) di De Angelis a Di Maio. Gli ha chiesto se accetterà il duello con Renzi in Tv. Di Maio ha preso tempo e ha iniziato a dire che a lui non è chiaro chi sarà il candidato premier del Pd e neanche quello della destra, e dunque finché non saprà questi nomi non può fare nessun duello. Qualunque giornalista un po’ scafato, e in particolare un giornalista “drastico” e bravo come Mentana, avrebbe commentato: «Ho capito, lei non vuole partecipare a nessun duello». Un giornalista un po’ più cattivo avrebbe detto: «Ho capito, lei ha paura di Renzi». Mentana ha detto: «Ho capito, tutto dipende dalla soluzione dei problemi negli altri schieramenti». Beh.

TAROCCO CASALINO.

Io, che ho raccontato la casta, vi spiego la differenza dalle élite, scrive il 19 settembre 2018 Sergio Rizzo su "La Repubblica". Serve una classe dirigente onesta, capace e consapevole del proprio ruolo di tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. Non serve l’ondata di epurazioni e nomine eseguite dal nuovo Governo seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Il manifesto della rivoluzione sovranista è la seguente frase attribuita a Matteo Salvini: “Non esistono destra e sinistra, esiste il popolo contro le élite”. Dice molto, al proposito, il curriculum del perito elettronico Simone Valente, sottosegretario grillino alla Presidenza incaricato di gestire il dossier Olimpiadi, che si definisce “dipendente pubblico” (in quanto parlamentare?). Eccolo: uno stage alla Virgin active, un secondo stage alla scuola calcio della Juve, tre mesi da venditore a Decathlon. Valente contro il sindaco milanese Giuseppe Sala, già dirigente della Pirelli, direttore generale di Telecom Italia, direttore generale del Comune di Milano, amministratore delegato dell’Expo 2015. L’immagine plastica del popolo (Valente) contro le élite (Sala). La tesi che i Paesi sviluppati non soltanto possano ormai fare a meno delle “élite intellettualoidi” (formula coniata da Luigi Di Maio), ma che le stesse élite vadano necessariamente spazzate via in quanto nemiche del popolo e amiche dello spread, ormai dilaga ovunque. Anche se qui la guerra si serve di un’arma ancor più micidiale. L’idea che si va affermando è che le élite si identifichino con ciò che viene ormai comunemente definita la casta. Ovvero, quella consorteria politica ingorda, autoreferenziale e incapace di risolvere i problemi della società, ripiegata sui propri interessi personali e di bottega e concentrata sulla difesa di inaccettabili privilegi. Che è cosa, però, ben diversa dalle vere élite, le quali dovrebbero coincidere con l’intera classe dirigente. Burocrati, imprenditori, professionisti, manager, medici, artisti, politici: indipendentemente dalle colorazioni, ciascun Paese democratico ha le proprie élite. E la storia dimostra che la crescita e lo sviluppo di ogni società civile è direttamente proporzionale alla loro qualità. Per questo ci sono nazioni, come la Francia, che hanno sempre dedicato risorse importantissime alla formazione delle classi dirigenti. Anche durante le rivoluzioni, quando una élite sostituiva quella precedente, rivelandosi spesso più efficiente. L’Europa ha dato il meglio di sé nei momenti in cui le oggi tanto vituperate élite erano formate da veri statisti, peggiorando poi in modo radicale quando il loro posto è stato occupato da personaggi via via sempre più modesti. Un processo lungo ma inesorabile, rivelato dai politologi Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, che nel 2007 hanno sviluppato la teoria della mediocrazia: il meccanismo che ha determinato il degrado delle nostre classi dirigenti politiche, dove il processo di selezione meritocratica è stato sempre più rapidamente soppiantato dalla cooptazione. Al posto dei capaci, i fedeli. Nella politica, nella burocrazia, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche, perfino nelle istituzioni in teoria più impermeabili, come le autorità indipendenti. Fermando l’ascensore del merito, si è fermato anche l’ascensore sociale e il ricambio di sangue. Il risultato è stato il calo verticale delle competenze in tutti i gangli cruciali, dall’amministrazione alle professioni. Gran parte dei problemi del nostro Paese sono strettamente legati al fallimento delle élite. Ma per tentare di risolverli in modo strutturale non c’è che una strada: ricostruire una classe dirigente, onesta, capace e consapevole del proprio ruolo nella tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. La missione spetta ora a chi occupa la stanza dei bottoni e fa parte, volente o nolente, proprio di una élite. Anche se questa è diversa da tutte le altre: una élite che ha l’obiettivo di distruggere il concetto stesso di élite. L’argomento dunque non è all’ordine del giorno della maggioranza gialloverde, né è previsto dal contratto di governo. Emerge invece una preoccupante avversione ideologica per la scienza, dimostrata in modo plateale dal caso vaccini. Con la verità della Rete che sovrasta quella della competenza, dello studio faticoso e della preparazione. Coerentemente, stiamo assistendo a un ulteriore impoverimento della qualità di chi è investito del compito di decidere. Abbiamo avuto un primo assaggio con la formazione del governo, dove accanto a residui della seconda Repubblica e figure improvvisate non manca un sottosegretario agli Esteri convinto che l’uomo non sia mai andato sulla Luna. Quindi un secondo assaggio con l’ondata di epurazioni e nomine eseguite seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Esattamente come la politica italiana ha sempre fatto, con rare eccezioni. Senza verificare qualità e attitudini, ma solo appartenenza e fedeltà. E sorvoliamo, per carità di patria, sul curriculum.

Rocco Casalino, Luca Morisi e gli altri: ecco chi gestisce il "ministero della Propaganda". Una gigantesca macchina acchiappa consenso. Anzi, due: quella di Salvini e quella di Di Maio. Che lavorano divise per colpire unite. Vi raccontiamo chi c’è dietro e quali strategie mediatiche usa. «Oggi noi costruiamo la realtà più credibile», scrive Emiliano Fittipaldi il 3 settembre 2018 su "L'Espresso". Dopo la tragedia di Genova, anche coloro che hanno in antipatia Lega e M5S non possono più negare che nel governo c’è un ministero che funziona bene. L’unico che porta a casa risultati eccellenti e in tempi rapidi. Un dicastero modello che dà linfa quotidiana all’esecutivo. Ecco: il ministero della Propaganda, seppure non ha un vero e proprio titolare, è il fiore all’occhiello del gabinetto grilloleghista, con un obiettivo prioritario: quello di accrescere il più possibile i consensi da raccogliere poi nelle urne. In questo senso, l’ovazione riservata ai due vicepremier da parte della folla che assisteva ai funerali di Stato delle vittime del crollo del Ponte Morandi e le bordate di fischi contro il mite segretario del Pd Maurizio Martina segna uno spartiacque, anche politico, della Terza Repubblica appena cominciata. Piaccia o meno, la compagine governativa s’è mossa davanti alla catastrofe come mai nessun governo aveva fatto prima: promettendo di colpire duramente - prima ancora che magistratura o i tecnici imbastissero un’indagine sulle cause del crollo - Autostrade per l’Italia e i Benetton (assurti a simbolo di tutte le odiate élite che si sono ingrassate ai danni del popolo); indicando gli avversari politici (il Pd su tutti) come complici dei potenti, e dunque correi della sciagura. Una strategia comunicativa forte, un mix di prese di posizione sensate, di forzature ipocrite e anche dichiarazioni del tutto irrazionali, che ha però efficacemente trasformato il governo, agli occhi della maggioranza degli italiani, in un “giustiziere” senza macchia e senza paura. Un disegno mediatico collaudato durante la campagna elettorale, che stavolta s’è avvantaggiato delle mosse scriteriate dei Benetton (incredibili i comunicati in burocratese con cui la società ha ricordato che in caso di revoca della concessione lo Stato avrebbe dovuto risarcire gli azionisti con miliardi di euro, surreali le grigliate ferragostane della casata) e degli esponenti del Pd e di Forza Italia, che non possono negare di aver concesso a Ponzano Veneto la gestione della rete autostradale con contratti che hanno favorito enormemente la famiglia veneta a danno dei veri proprietari dell’infrastruttura. Cioè i cittadini. Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista. Ma, al netto degli eventi genovesi, come funzionano gli ingranaggi dell’organismo pentaleghista? Innanzitutto il Ministero della Propaganda, come tutti gli altri, ha capi, luogotenenti e sottoposti; ma è l’unico che non chiude mai i battenti. Quelli che contano davvero si contano su una mano, ma gli addetti e i collaboratori esterni sono centinaia e lavorano 24 ore su 24 senza concedersi pause. Sabati e domeniche compresi. Anche se diviso in due direzioni teoricamente concorrenti (quella affidata agli architetti della comunicazione leghista Luca Morisi, Andrea Paganella e Ida Garibaldi; l’altra capeggiata dai grillini Pietro Dettori e Rocco Casalino), al ministero fantasma M5S e Lega lavorano per ora di comune accordo, spalla a spalla, monitor a monitor. La strategia è basata su diversi campi d’azione. In primis sullo sfruttamento capillare di Facebook, di Twitter, di YouTube, piattaforme conquistate con software sofisticati che moltiplicano i messaggi promozionali e monitorano minuto per minuto il “sentiment” degli utenti, in modo da capire cosa vuole la gente e cosa darle per accontentarla. Il ministero, dunque, sforna a getto continuo campagne e video su Internet che muovano indignazione verso i nemici del “cambiamento”, oltre a tonnellate di news (vere, verosimili o fasulle poco importa) in grado di esaltare i leader. Le tecniche di Morisi e di Dettori, potenti social manager di Lega e M5S, sono diverse, ma sulla personalizzazione del messaggio propagandistico hanno idee simili: se Salvini s’è posto fin dall’inizio come capo indiscusso del partito, da un po’ anche la Casaleggio Associati ha abbandonato “l’uno vale uno”, e investe ogni sforzo strategico su pochissimi soggetti politici. Oltre al web, al ministero presidiano militarmente anche le televisioni: deputati e senatori della maggioranza vengono indottrinati in modo da usare, nei tg e nei talk, solo slogan semplici e comprensibili a tutti, studiati per smuovere emozioni basiche come rabbia, rivalsa, paura. Nessun sottoposto può rilasciare dichiarazioni senza il permesso dei due “sottosegretari” in pectore del ministero, in cui imperano Rocco Casalino - portavoce di Conte e gran visir di tutta la comunicazione del Movimento, e Iva Garibaldi, la zarina di Matteo. Loro compito è pure quello di convincere - con le buone o le cattive - conduttori e giornalisti a trattare gli ospiti spediti negli studi con il guanto di velluto, in modo da fare sempre bella figura. Chi non sta alle regole, rischia di andare in onda senza i politici che fanno share. I risultati del lavoro indefesso del ministero sono evidenti: lo strano governo ircocervo vive con il Paese una luna di miele senza precedenti, con sondaggi che oggi regalano ai due partiti percentuali di consenso bulgare (a metà agosto tutti gli istituti di ricerca davano a M5S e Lega circa il 65 per cento delle preferenze totali, equamente divise). Dati mostruosi, soprattutto se confrontati con l’immobilismo dell’esecutivo, che nei primi cento giorni ha fatto in verità poco o nulla di concreto. A parte il “decreto dignità” ed escludendo la guerra ai migranti e l’abolizione dei vitalizi (operazioni gestite sempre dal ministero della Propaganda), sfogliando il registro delle cose fatte dal gabinetto Conte ci si imbatte in pagine immacolate. «Non siamo affatto preoccupati dall’arrivo dell’autunno e dai lavori sulla Finanziaria. Sappiamo che difficilmente potremo realizzare subito le promesse su flat tax e reddito di cittadinanza», dice un alto dirigente del ministero, sponda Salvini. «Ma al tempo della post-verità e dei fatti alternativi (copyright Donald Trump, ndr) il principio di realtà è un paradigma sopravvalutato. La realtà è una “percezione”, un “racconto” ben fatto. Oggi noi e quelli della Casaleggio siamo quelli che costruiscono le realtà più credibili. Renzi e Berlusconi, che pure sono stati due maestri dello storytelling, sono rimasti indietro. Le loro tecniche sono antidiluviane. Non hanno nemmeno capito che ormai le campagne elettorali non finiscono mai. Se non stai sul pezzo 24 ore su 24, scompari». Andiamo con ordine, partendo da una delle stanze più segrete del ministero virtuale. È il regno di Luca Morisi, che se per molti è un perfetto sconosciuto, in realtà è oggi uno degli uomini più influenti d’Italia. Insieme a uno staff di una decina di persone, è lui ad aver condotto le operazioni mediatiche che hanno portato in tre mesi Salvini dal 17 per cento dei voti al 30 per cento delle preferenze segnalato in questi giorni dai sondaggi. Mantovano, laurea e dottorato in filosofia, 44 anni ma faccia da eterno ragazzino, Morisi è una via di mezzo tra Casaleggio e Steve Bannon, ed è la mente (o l’anima nera, secondo i critici) dietro le mosse comunicative (e dunque politiche) del capo del Carroccio. Ex consigliere provinciale della Lega nella sua città, ideatore nel lontano 2004 di un sito che solidarizzava con il ministro Giulio Tremonti appena cacciato dal secondo governo Berlusconi, Morisi ha conosciuto Salvini tra il 2012 e il 2013, e ne ha di fatto accompagnato tutta la scalata a via Bellerio. Morisi dal 2009 è titolare della srl Sistema Intranet, una srl che ha firmato un contratto da 170 mila euro l’anno con la Lega; in passato ha fatturato centinaia di migliaia di euro con le Asl di mezza Lombardia, secondo i malpensanti grazie alle entrature con i direttori sanitari in quota Lega. Inizialmente s’offre a Matteo solo come esperto del web. Ma ben presto Salvini ne intuisce il talento e lo promuove a suo principale consigliere mediatico. Oggi Luca analizza il flusso dei dati sulla rete, attraverso un sistema informatico personalizzato che lui stesso chiama «la Bestia», e imbecca il frontman del Carroccio sulla polemica o la dichiarazione che può diventare virale sui social. È lui ad inventare il nomignolo “Il Capitano”, con cui tutti i leghisti chiamano oggi il capo, ed è sempre lui a spingerlo a mettersi felpe e a posare a torso nudo per “Oggi”, vendendo poi le foto originali su eBay. È ancora lui a ordinare con una email, nel settembre del 2015, ai parlamentari leghisti di non fare auguri pubblici di compleanno a Bossi, grande rivale di Salvini. Il guru è il primo a spiegare al Capitano che deve concentrare tutte le sue energie non solo in tv e sul territorio, ma soprattutto girando video da diffondere sui social. Non solo su Twitter, il social per addetti ai lavori amato anche da Matteo Renzi, ma soprattutto su Facebook, dove gran parte degli italiani passa intere giornate guardando filmati e condividendo messaggi e informazioni. «In cassa non c’è un euro, come facciamo con le sponsorizzazioni?», gli chiede Matteo. «Nessun problema, con “La Bestia” moltiplicheremo i tuoi contatti a dismisura spendendo poco o nulla», gli risponde Morisi. Detto fatto: a dicembre 2014 i like di Salvini sono già 518 mila, ma in tre anni e mezzo Luca li porta a quasi 3 milioni, quintuplicandoli. Morisi “forza” l’algoritmo di Facebook per far apparire la faccia e le ruspe di Salvini anche sulle pagine di persone che mai avrebbero visitato la sua. Inventa concorsi come il “VinciSalvini” promettendo che con un like veloce a un post del Capitano si può vincere una foto, una telefonata o un incontro con il leader, e adesso qualcuno teme che Morisi sia riuscito a creare un enorme database di informazioni sensibili di tutti coloro che si sono iscritti al concorso. «Nulla di illegale», spiegano dalla Lega. È un fatto che oggi nessun politico in Europa abbia un seguito social paragonabile a quello del leader leghista, che può ostentare anche un impressionante “engagement”, ossia il tasso che misura l’interazione online dei seguaci. Su Facebook Salvini ha quasi tre milioni di fan, Di Maio è sui due milioni (ma negli ultimi sei mesi è cresciuto di ben 800 mila follower), mentre Renzi e Berlusconi sono bloccati a poco più di un milione, con tassi di crescita ridicoli: 13 mila fan in più per l’ex segretario del Pd, 23 mila per il Cavaliere di Arcore, che probabilmente avrebbe dovuto seguire prima i consigli che gli imbeccava il suo media manager, Antonio Palmieri. Morisi però non è solo uno smanettone. Anche se lo nega con vigore, il “digital philosopher” e “social megafono”, come si autodefinisce, suggerisce a Salvini anche qual è il contenuto politico migliore da veicolare: dai cartelloni sessisti contro Alessandra Moretti alle dirette Facebook sui tetti del Parlamento, fino al cambio di colore del partito (dal “verde” padano al più moderato “blu” fregato ai presunti alleati di Forza Italia), Luca tutti i santi giorni dice a Salvini quali sono i messaggi politici che funzionano meglio. Analizzando i video sulla pagina Fb di Salvini dal 4 marzo a oggi, con decine di milioni di visualizzazioni complessive, lo schema è ancora più chiaro. Morisi propaganda soprattutto filmati di reati commessi dagli immigrati (da quando è ministro dell’Interno abbiamo contato oltre una decina di “video choc” su neri e clandestini, contro appena due dedicati a criminali italiani), esalta il corpo del capo (il film di Salvini che fa il bagno nella piscina della villa sequestrata ad un boss è stato visto da quasi un milione di persone, i selfie a torso nudo a Milano Marittima da oltre 1,6 milioni), ridicolizza avversari politici, come Renzi, Boldrini, finanche il disegnatore Vauro o i «radical chic buonisti di Capalbio che non portano i migranti a casa loro». Milioni di like e visualizzazioni premiano anche fake news, come quella che due settimane fa raccontava come a Vicenza fosse scattata una protesta di alcuni richiedenti asilo arrabbiati perché «volevano vedere Sky». Una balla già smentita dalla prefettura, ma che la coppia Salvini-Morisi ha cavalcato ugualmente. Sperando forse di rinnovare il successo di un filmato dello scorso febbraio intitolato «Spero che questo video lo veda Renzi», in cui Salvini, tornato giornalista, affermava che alcuni immigrati avevano organizzato un picchetto davanti a un centro profughi perché pretendevano di vedere le partite di calcio sulla tv satellitare. Il video era finito per settimane sulla homepage di YouTube. Altri pezzi forti sono stati postati da Morisi nella giornata campale del 4 marzo, nelle ore in cui bisognava convincere gli ultimi indecisi. Ci sono le immagini di una donna a Siena sfrattata dalla sua casa («prima gli italiani!», dice il sottopancia del video da 12 milioni di visualizzazioni; la notizia era vecchia di quattro mesi), o quelle su presunti clandestini «che buttano il cibo e distruggono il centro». Cronache locali del lontano 2016, ma ottime per la propaganda anche due anni dopo: ad oggi contano la bellezza di 30 milioni di visualizzazioni. Al dipartimento leghista del ministero della Propaganda i dati della “Bestia” e i modi per usare al meglio l’algoritmo di Mark Zuckerberg vengono esaminati anche dalla Garibaldi (i due vivono di alti e bassi), dal socio di una vita Paganella, da big come Giorgetti e Siri, dai ragazzi dello staff di Morisi come Andrea Zanella, Daniele Bertana e Leonardo Foa. Quest’ultimo è il figlio di Marcello, il giornalista sovranista e putiniano che i leghisti vorrebbero senza se e senza ma come nuovo presidente Rai o, in second’ordine, come direttore di un tg. Ma alla fine della fiera è Salvini che decide la sintesi finale. Nel piano occupato dal Minculpop grillino, invece, non sempre è il capo politico ad avere l’ultima parola. I “sottosegretari” alla Propaganda Dettori e Casalino hanno infatti un rapporto strettissimo anche con Davide Casaleggio, presidente della società omonima e dell’associazione Rousseau, la piattaforma operativa del M5S. Figlio di Gianroberto, l’uomo che prima di tutti aveva compreso le enormi potenzialità della rete, è proprio Davide a dare l’ok definitivo alle strategie propagandistiche del “grillo magico” di Di Maio. Dettori, unico dipendente di Rousseau, è un ragazzo schivo e silenzioso, e meno esuberante dell’ex Grande Fratello Casalino, beccato a fare spin a favore del movimento persino durante i funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi. Ma in realtà è Pietro l’artefice principale del successo mediatico del M5S: ha curato per anni il blog di Grillo, ha realizzato i siti moltiplicatori di notizie (e di bufale) come “La Fucina” e “Tze-Tze”, ha scritto lui stesso post non firmati che davano la linea su decisioni legate alle votazioni o alle espulsioni. Mentre Beppe Grillo faceva il “passo di lato” aprendo un nuovo blog sganciato dai Cinque Stelle, Dettori ha costruito quasi da solo il nuovo hub del partito sui social, lavorando sugli algoritmi per diffondere il verbo attraverso decine di siti ufficiali e ufficiosi, e realizzando, dal nulla, il successo delle pagine social delle star del movimento, come quelle di Di Maio, di Di Battista, di Virginia Raggie, più di recente, del premier Giuseppe Conte (già seguito da 800 mila persone). Se Morisi lavora verticalmente quasi solo per i profili di Salvini, Dettori e la Casaleggio preferiscono una rete con più siti e pagine che si rimandano l’un l’altra. Qualcuno racconta persino che sia stato proprio Dettori - dopo il gran rifiuto di Sergio Mattarella a nominare il no euro Paolo Savona come ministro dell’Economia - a suggerire ai vertici l’ipotesi da fine mondo, quella dell’avvio dell’iter di impeachment del presidente della Repubblica. Al ministero della Propaganda giurano invece sia stato Di Maio in persona, aiutato dal fido Casalino, a realizzare l’operazione finora più fruttuosa messa in piedi dal dipartimento grillino, quella che aveva al centro la cancellazione del contratto da 150 milioni di euro per il cosiddetto “Air Force Renzi”. Per annunciare la notizia urbi et orbi Di Maio ha deciso di girare lo spot direttamente dentro la carlinga dell’aereo da 300 posti (voluto dal vecchio esecutivo Pd per scarrozzare ministri e imprenditori nelle missioni istituzionali all’estero, il veicolo è stato sfruttato pochissimo, uno spreco evidente anche al piddino più sfegatato). Ebbene, il video ha ottenuto in pochi giorni oltre 5 milioni e mezzo di visualizzazioni sulla pagina di Di Maio, ma - come segnala Luca Ferlaino di SocialcomItalia - «prendendo in esame tutte le pagine grilline si superano ormai i 10 milioni di spettatori. Sono numeri da finale di coppa del Mondo». La risposta di Renzi, messa a punto insieme al social media manager del partito Alessio De Giorgi, evidenzia bene la differenza tra la capacità di fuoco dell’apparato propagandistico del governo e quello dell’opposizione: nel video, che conta su un flusso di visualizzazioni dieci volte minore rispetto a quello di Di Maio e Toninelli, il leader dem si difende assiso dietro a una scrivania, mostrando in bella vista proprio il modellino dell’Airbus: l’effetto finale è quello di un autogol, di una pilotina contro un incrociatore. Dettori e Casalino sono anche gli uomini che hanno spinto di più per far approvare subito l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari, festeggiata dal vicepremier con un live-Facebook seguito e applaudito da milioni di italiani. «Noi attacchiamo i giornali per creare una contrapposizione funzionale, ma sappiamo che non contate più nulla nella formazione del consenso», concludono dalle stanze del ministero. «Di Maio e Salvini, Dettori e Morisi, hanno capito che la gente le notizie, vere o fasulle che siano, ormai non le vuole più “leggere”, ma le vuole solo “vedere”. In tv, certo, ma ancor di più sullo smartphone. Quanti pensano che leggeranno l’articolo che stai scrivendo? Se sei fortunato qualcuno si soffermerà sul titolo, al massimo sulle prime righe. E se metti questa mia dichiarazione alla fine del pezzo, puoi stare sicuro che non la leggerà quasi nessuno».

Il super stipendio di Rocco Casalino: guadagna più di Conte. I costi dello staff di Palazzo Chigi. In ritardo rispetto a quanto prescritto dalla legge sulla trasparenza (e dopo varie richieste dell'Espresso), il governo pubblica finalmente i nomi e gli emolumenti dei collaboratori della Presidenza del Consiglio. I più fortunati? Il capo della comunicazione 5 Stelle e tutti i Casaleggio boys, scrive Mauro Munafò il 20 settembre 2018 su "L'Espresso". Meglio fare il portavoce che fare il premier. Si potrebbero riassumere così i dati sugli stipendi dello staff della presidenza del Consiglio del governo Conte che l'Espresso è ora in grado di rivelare. Sì, perché il portavoce e capo ufficio stampa del presidente del Consiglio Rocco Casalino, già numero uno della comunicazione dei 5 Stelle e partecipante alla prima edizione del reality show “Grande Fratello”, con i suoi 169mila euro lordi annui è di gran lunga il dipendente più pagato tra quelli che lavorano negli “uffici di diretta collaborazione” di Palazzo Chigi. Lo stipendio di Rocco Casalino si compone di tre voci: 91mila euro di trattamento economico fondamentale a cui si aggiungono 59mila euro di emolumenti accessori e 18mila di indennità. Per un totale, appunto, di poco inferiore ai 170mila euro annui. Una cifra assai più alta di quella che spetta allo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il quale, non essendo deputato, deve accontentarsi di 114mila euro lordi all'anno. Una gigantesca macchina acchiappa consenso. Anzi, due: quella di Salvini e quella di Di Maio. Che lavorano divise per colpire unite. Vi raccontiamo chi c’è dietro e quali strategie mediatiche usa. «Oggi noi costruiamo la realtà più credibile». Questa curiosa disparità di trattamento non è però un inedito. Anche nel caso del governo Renzi infatti l'allora presidente del Consiglio, non ancora parlamentare, si ritrovò a guadagnare meno del suo portavoce, e oggi deputato del Pd, Filippo Sensi. Anche in quella circostanza le cifre erano le stesse previste dal governo Conte: 114mila euro per Renzi e 169mila per Sensi. Il "governo del Cambiamento" spende però di più per il totale degli addetti alla comunicazione, come spiegheremo più avanti.

I Casaleggio boys all'incasso. Secondo solo a Casalino, ma comunque meglio remunerato di Conte, è Pietro Dettori, altro big della comunicazione 5 Stelle e fedelissimo di Davide Casaleggio. Per lui, assunto nella segreteria del vicepremier Luigi Di Maio come “responsabile della comunicazione social ed eventi” ci sono 130 mila euro annui. Vicecapo di quella stessa segreteria è Massimo Bugani, 80 mila euro all'anno, altro nome di rilievo della galassia pentastellata. I due sono infatti tra i quattro soci dell'associazione Rousseau che gestisce le piattaforme del Movimento 5 Stelle ed è diretta emanazione della Casaleggio associati (il fondatore è Gianroberto Casaleggio e l'attuale presidente è il figlio Davide). Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista. Non mancano nell'elenco altri nomi di ex dipendenti della Casaleggio che da anni compongono gli staff dei deputati e senatori 5 stelle: uno tra tutti Dario Adamo, responsabile editoriale del sito e dei social di Conte, pagato 115mila euro l'anno. Quanto conta la comunicazione. La pubblicazione degli stipendi permette di fare anche un primo confronto tra le spese di questo governo e quelli precedenti quando si parla di staff. Un confronto che tuttavia, è importate specificare, può essere solo parziale per due ragioni: non sono ancora noti tutti gli stipendi dei collaboratori (alcuni sono ancora in fase di definizione, come quelli della segreteria di Salvini) e va inoltre precisato che ogni governo tende sempre con il passare dei mesi e degli anni ad aggiungere ulteriore personale e relativi costi. Detto questo, le cifre più interessanti e significative sono quelle alla voce comunicazione, su cui questo governo sta spendendo più di tutti gli altri esecutivi di cui sono reperibili i dati. L'ufficio stampa e del portavoce di Giuseppe Conte ha in organico 7 persone per un costo complessivo di 662 mila annui, di cui 169 mila vanno come già detto al portavoce Rocco Casalino. Secondo in classifica il governo Letta, che contava 7 persone nello staff comunicazione per un costo totale di 629mila euro annui e con il portavoce pagato 140mila euro. L'esecutivo di Paolo Gentiloni poteva invece contare su una struttura di sette persone per un costo di 525 mila euro. Più complesso il calcolo per il governo di Matteo Renzi: appena insidiato il team dell'ufficio stampa si basava su 4 persone tra cui il già citato Filippo Sensi come portavoce e un costo complessivo di 335mila euro. Ma alla fine del mandato i costi erano saliti fino ai 605mila euro per un organico di sette persone. Trasparenza a passo di lumaca. La pubblicazione dei dati sui collaboratori della presidenza del Consiglio si è fatta attendere ben oltre i limiti previsti dalla normativa. La legge sulla trasparenza 33/2013 prevede infatti che le pubbliche amministrazioni aggiornino le informazioni sui titolari di incarichi dirigenziali o di collaborazione entro 3 mesi dal loro insediamento, termine rispettato da quasi tutti i ministeri dell'attuale esecutivo. A dare il cattivo esempio è stata proprio la presidenza del Consiglio, che ha invece impiegato 110 giorni e nell'ultima settimana è stata "pungolata" da due richieste di accesso civico avanzate dall'Espresso affinché venissero pubblicati i dati in questione.

In difesa di Rocco Casalino (ma il M5S e lui stesso si facciano un esame di coscienza), scrive il 21 settembre 2018 Mauro Muunafò su "L’Espresso". Sono l'autore dello scoop pubblicato dall'Espresso sui costi dello staff di Palazzo Chigi, che includono anche la retribuzione del portavoce del premier Conte e capo ufficio stampa Rocco Casalino. E oggi, il giorno dopo, mi ritrovo incredibile ma vero a dover difendere lo stesso Casalino. L'articolo in questione ha avuto infatti un'enorme eco mediatica ed è finito anche su altri siti, giornali e nelle trasmissioni tv. L'indignazione di molti lettori per le cifre percepite da Casalino è stato il sentimento principale emerso dai commenti sui social e dalle chiacchierate in giro. Casalino oggi, in un'intervista sul Corriere della Sera, difende il suo stipendio: «Ho una paga alta ma è una questione di merito dice». Se la prende ovviamente con i giornali che hanno riportato la notizia («stanno giocando sporco») e prova ad abbozzare una debole linea di difesa: «Sono ingegnere elettronico e giornalista professionista, parlo 4 lingue. Ho diretto per 4 anni l'ufficio comunicazione M5S del Senato e sono stato il capo comunicazione di una campagna elettorale al termine della quale il Movimento ha preso quasi il 33%. Se parliamo di merito e lo confrontiamo con lo stipendio dei miei predecessori non ho nulla di cui vergognarmi...anzi». Tra gli altri spunti interessanti dichiara anche: «Dopo 20 anni - aggiunge - ancora si parla di me come di quello che ha partecipato a un reality (il Grande Fratello ndr), come se nella mia vita non avessi fatto altro. E invece per arrivare dove sono ho sempre studiato e lavorato tanto e onestamente». Lo dico senza tanti giri di parole: Rocco Casalino ha ragione su tutta la linea. E, visto che sono quello che gli è andato a fare i conti in tasca, lo posso dire senza che a nessuno venga il sospetto che lo faccio per ingraziarmi le simpatie del potente di turno (se cercate sul blog o sull'Espresso troverete tanti miei articoli molto critici nei confronti dei 5 Stelle). Casalino si porta dietro chiaramente il pregiudizio legato alla sua partecipazione al Grande Fratello e certe sue uscite folli dette in quel periodo della sua vita (tipo che i poveri hanno un odore da poveri). Tuttavia si tratta di un'esperienza del passato: nel frattempo ha contribuito non poco al successo di quello che oggi è, piaccia o non piaccia, il primo o secondo partito italiano. Lo stipendio che oggi percepisce per il suo lavoro alla presidenza del Consiglio secondo me è davvero meritato e non mi scandalizza affatto che si tratti dello stesso emolumento percepito in passato da chi lavorava per altri esecutivi (cosa che ho scritto io stesso nell'articolo diventato virale, riportando cifre e facendo confronti che a oggi nessuno ha ancora smentito). Trovo inoltre surreale che a cavalcare la protesta e l'indignazione per il suo stipendio ci siano esponenti di quegli stessi partiti che retribuivano allo stesso modo i loro collaboratori. Ma... E arriviamo al sodo della questione...Davvero Rocco Casalino e il partito per cui lavora credono di essere innocenti di fronte alla gazzarra che si è scatenata alla notizia del suo stipendio? Fanno finta o non si rendono davvero conto che le folle urlanti e indignate a comando che oggi si lanciano sul suo portafoglio sono le stesse che negli ultimi anni hanno cavalcato e fatto crescere con le loro campagne ad alzo zero contro chiunque non la pensasse come loro? Urlare continuamente contro la Casta fino a far credere che tutto è Casta, additare sempre gli oppositori come "servi di qualcuno" prezzolati per esprimere il loro dissenso, svilire qualsiasi tipo di professionalità buttando sempre tutto sul piano economico (certo con la complicità del mondo dell'informazione di cui io stesso faccio parte). Scegliere come unica stella polare il pauperismo, parlare solo di scontrini, biglietti in economy, autobus e pizze al posto dei ristoranti. Ecco, alla fine si arriva qua, alla totale e generica incapacità di capire che le competenze si devono pagare perché sono frutto di lavoro e fatica. Benvenuto nella Casta, Rocco. 

Casalino minaccia i funzionari del Mef: “Trovino i soldi o li cacciamo…”. Il Pd insorge: “Conte lo cacci”, scrive il 22 Settembre 2018 "Il Dubbio". Bufera sull’audio del portavoce del premier: “Il problema non è Tria ma i pezzi di m… che lo circondano”. Il Movimento lo difende. “Se non tirano fuori i soldi, al ministero dell’economia salteranno molte teste”. Parole e musica di Rocco Casalino, il potente portavoce del Movimento 5Stelle che è stato registrato da un giornalista mentre si sfogava contro i burocrati del Mef. E si perché secondo Casalino il problema non è il ministro Tria: “Lui c’entra il giusto”, spiega al suo interlocutore. Il vero problema sarebbe il sottobosco di funzionari e burocrati che, sempre secondo Casalino, “bloccano il reddito di cittadinanza perché vogliono bloccare il cambiamento, vogliono proteggere il vecchio sistema”. Ma poi Casalino promette: “Se non si trovano 10 miliardi, che in una manovra da 30 miliardi non sono nulla, passeremo il 2019 a cacciare tutti questi pezzi di m…”. Inutile dire che l’audio di Casalino ha mandato in fibrillazione l’opposizione. A cominciare dal segretario del Pd, Maurizio: “Le parole del portavoce del premier Casalino sono inaudite. Se Conte ha un minimo di senso delle istituzioni lo allontani immediatamente. Decenza”. “Da Casalino l’arroganza del potere contro le persone, a difesa di un partito e non dei cittadini. Vergognatevi, chiedete scusa e andate a casa perché non vi permetteremo di uccidere l’Italia”, aggiunge il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Ma i 5Stelle fanno quadrato. Alcuni esponenti M5S di peso contattati dall’Adnkronos difendono a spada tratta il portavoce del presidente del Consiglio, spiegando che l’obiettivo del suo sfogo erano i dirigenti del ministero “che si oppongono al cambiamento”. Casalino, è il commento che trapela dai parlamentari interpellati, “stava semplicemente facendo dello spin per difendere il ministro Tria”. Serafico il sottosegretario leghista Giorgetti: “Non credo che il portavoce abbia il potere di cacciare i tecnici. E poi basta non avere il portavoce, come non ce l’ho io”. Le dichiarazioni arrivano dopo giorni di scontri e polemiche proprio sul reddito di cittadinanza. Più volte il vicepremier Di Maio ha infatti chiesto al ministero del Tesoro di trovare i fondi necessari per far partire il reddito di cittadinanza, vero e proprio cavallo di battaglia del Movimento fondato da grillo, tema sul quale hanno impostato la scorsa campagna elettorale e sul quale, oggi, si giocano la credibilità davanti a chi li ha votati. Di qui il crescente nervosismo di Di Maio, che ha esplicitamente chiesto a Tria di lavorare in deficit, e oggi di Casalino che ha individuato “il vero nemico”: i funzionari del ministero dell’economia.

Casalino, audio contro i tecnici Mef. Tria: "Al ministero lavorano per il governo". Ma Di Maio: "C’è chi rema contro". Il messaggio vocale registrato il 18 settembre è stato pubblicato da Repubblica. All'interno si parla della posizione dei 5 stelle sul ministro Tria e i dipendenti del dicastero. "Megavendetta" se non trovano le risorse per il reddito di cittadinanza. Il portavoce del premier si difende: "Violata la mia privacy, nessun proposito concreto". Fonti vicine ai dirigenti del dicastero: "I tagli sono decisi dalla politica". Mistero sui destinatari del messaggio: accuse ai giornalisti dell'Huffington post che negano. Il vicepremier: "Strategia contro i nostri dipendenti della comunicazione". Conte: "Fiducia in Casalino", scrive il 22 settembre 2018 "Il Fatto Quotidiano". Meno di due minuti di audio diffuso via Whatsapp in cui il portavoce del premier Giuseppe Conte parla di “una mega vendetta” contro i tecnici del Mef se non si dovessero trovare i soldi per il reddito di cittadinanza. È polemica per le parole di Rocco Casalino contenute in una registrazione diffusa da Repubblica: nella nota vocale inviata ad alcuni giornalisti, l’ex capo della comunicazione grillina al Senato e ora nello staff del presidente del Consiglio parla dei rapporti con il ministro dell’Economia Giovanni Tria e con lo staff del dicastero. “Si tratta di una conversazione privata”, è la difesa di Casalino, “non c’era nessun proposito concreto. È stata violata la mia privacy”. In suo sostegno è intervenuto il presidente del Consiglio Conte: “La diffusione dell’audio è una violazione gravemente illegittima che tradisce fondamentali principi costituzionali e deontologici. Chiarito che trattasi di un messaggio privato, mi rifiuto finanche di entrare nel merito dei suoi contenuti. Ribadisco la piena fiducia nel mio portavoce”. Sul fronte opposto, fonti del ministero dell’Economia hanno confermato la fiducia di Giovanni Tria “ai dirigenti e alle strutture tecniche del Mef e apprezzamento per il lavoro che stanno svolgendo a sostegno dell’attuazione del programma di governo, come peraltro evidenziato dal presidente del Consiglio”. I tecnici avevano poco prima specificato che “stanno lavorando attivamente per valutare costi e effetti delle varie proposte politiche, comprese le possibili modalità di copertura degli interventi. Ma le decisioni sulla scelta delle soluzioni competono alla politica”.

In serata il vicepremier Luigi Di Maio ha pubblicato sul Blog delle stelle il contenuto di una lettera inviata a tutti i parlamentari M5s. Un testo in cui non solo difende Casalino, ma ascrive l’intera vicenda della pubblicazione di questo audio a una strategia per colpire gli uomini della comunicazione M5s più ancora degli eletti: “Ciò che ritengo inaccettabile – scrive Di Maio – è che adesso il bersaglio siano diventati i nostri dipendenti della comunicazione. Chiunque vive il Movimento conosce bene l’importanza delle nostre strutture di comunicazione. Sono i migliori perché, in tutti questi anni, si sono inventati ogni giorno metodi alternativi alle tecniche tradizionali per far arrivare i nostri contenuti a milioni di italiani. Qualcuno dice che diamo troppa importanza agli uffici comunicazione e ai loro dipendenti. Qualcuno ci critica dicendo che li paghiamo troppo, (poi quegli stessi sono pronti a massacrarci se li paghiamo poco)”. Di Maio poi è entrato nel merito dell’audio di Casalino, che risale proprio ai giorni della polemica tra il vicepremier e il ministro dell’Economia sulle risorse per la manovra economica. E anche in questo caso la linea non cambia: “C’è chi rema contro, ovvero una parte della burocrazia dei ministeri. Ogni volta che facciamo provvedimenti dobbiamo riguardarci sempre bene il testo, perché a volte tra un passaggio e un altro viene cambiato, si modifica, viene stravolto. Quando vi dico che c’è da preoccuparsi, credetemi. Abbiamo vinto le elezioni del 4 marzo, ma il sistema è vivo e vegeto e combatte contro di noi. Al Governo ci siamo noi e c’è la Lega. Ma se partiti, lobby e burocrati devono scegliere chi combattere, sono tutti d’accordo con il “dagli addosso al Movimento 5 Stelle sempre e comunque”. Chi ha chiesto che Casalino lasci l’incarico sono le opposizioni, dal Pd a Forza Italia. I 5 stelle compatti lo hanno invece difeso: “È la nostra linea”. Prudente la posizione del presidente della Camera Roberto Fico: “Assurdo che i giornalisti facciano uscire le proprie fonti”. E Alessandro Di Battista, su Facebook, è andato oltre: “Casalino ha sbagliato. Non si mandano audio del genere in privato ai giornalisti, certe cose vanno dette pubblicamente e con orgoglio. Se i tecnici nei ministeri ci mettono i bastoni tra le ruote prendendosi poteri che non gli competono vanno cacciati all’istante”. Del governo è intervenuto il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti: “Non credo abbia il potere di cacciare nessuno”, ha detto.

I destinatari dell’audio messaggio. Rimane il mistero su chi fossero effettivamente i destinatari della conversazione: i 5 stelle sul blog per primi hanno messo sotto accusa due giornalisti dell’Huffington post, Pietro Salvatori e Alessandro De Angelis. Che però hanno replicato poco dopo: “Noi non lo abbiamo diffuso. Il problema non siamo noi, ma i metodi di lavoro di Casalino”, hanno scritto. E in serata la direttrice Lucia Annunziata ha ribadito la posizione e difeso i due cronisti, dicendo che la stessa versione era su tutti i giornali la scorsa settimana. Ad ogni modo, ha concluso: “Portiamo il tutto davanti a un giudice, o all’ordine dei giornalisti se volete, e vediamo. Basta acquisire i tabulati di un po’ di telefonini e avremo chiarito tutto”. Casalino era finito al centro delle polemiche il 20 settembre scorso, dopo la diffusione dei dettagli sullo stipendio dello staff del premier che è rimasto invariato rispetto a quello del governo Renzi.

Audio: “Se non dovessero uscire i soldi, il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef”. L’audio messo sotto accusa oggi risale a martedì 18 settembre, anche se Repubblica non specifica la data. “Nessuno mette in dubbio che il ministro Tria non sia serio”, si sente nella nota vocale probabilmente in riferimento alle parole di Luigi Di Maio che aveva detto “un ministro serio deve trovare le risorse”. “Domani se vuoi uscire su una cosa simpatica”, continua Casalino, “è che nel Movimento 5 stelle è pronta una megavendetta, lo metti come fonte parlamentare però. C’è chi giura che se poi non dovessero all’ultimo uscire i soldi per il reddito di cittadinanza tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef. Non ce ne fregherà veramente niente, ci sarà veramente una cosa ai coltelli. Nel senso che… Ormai abbiamo capito che Tria c’entra il giusto, c’entra relativamente, ma il problema è che ci sono lì al ministero dell’Economia una serie di persone al ministero dell’Economia che stanno lì da anni, da decenni, hanno in mano tutto il meccanismo e proteggono il solito sistema e non ti fanno capire tutte le voci di bilancio nel dettaglio e in modo che si possa tagliare. Non è accettabile che non si trovano 10 miliardi del cazzo. Non è che stiamo parlando di 200 miliardi, stiamo parlando di 10 miliardi. Quindi. Una manovra di 10, 20 miliardi la fanno tutti i governi. Non è niente di straordinario. Il fatto che c’è questa resistenza fa capire che c’è qualcosa che non va. Se per caso. Noi crediamo che andrà tutto liscio, ma se dovesse venire fuori all’ultimo ‘ah i soldi non li abbiamo trovati’, nel 2019 ci concentreremo soltanto a far fuori tutti questi pezzi di merda del Mef”. Inoltre dà indicazioni sul clima politico specificando: “Metti però che sono fonti parlamentari”. Un dettaglio importante perché Casalino ora cura la comunicazione di Palazzo Chigi e non quella degli eletti.

La replica di Casalino: “Violata la mia privacy”. Il portavoce del premier, dopo che per tutta la mattina si sono susseguiti attacchi e tentativi di difesa da parte dei suoi, ha deciso di diffondere una nota ufficiale sul caso. “Sta circolando un messaggio-audio che riproduce la mia voce”, si legge. “Una mia conversazione assolutamente privata avuta con due giornalisti. La pubblicazione viola il principio costituzionale di tutela della riservatezza delle comunicazioni e, se fosse accertato che sia stata volontariamente diffusa ad opera dei destinatari del messaggio, viola le più elementari regole deontologiche che impongono riserbo in questa tipologia di scambi di opinioni”. Casalino quindi ha specificato che la minaccia contro i tecnici del Mef non nasce da nessun provvedimento concreto, ma sarebbe semplicemente l’interpretazione di un clima all’interno del Movimento 5 stelle: “Il delicato incarico che ricopro mi impone di chiarire che i contenuti della conversazione“, il cui audio è stato diffuso dai media, “sono da considerare alla stregua di una libera esternazione espressa in termini certamente coloriti, ma che pure si spiegano in ragione della natura riservata della conversazione, che non c’era nessun proposito da perseguire in concreto ma più una sensibilità presente all’interno dei 5 Stelle e che era mia premura rappresentare”.

La difesa dei 5 stelle: “C’è chi ci rema pesantemente contro”. Ma la senatrice Fattori: “Parole orribili, il problema è il suo strapotere”. Poche ore dopo la pubblicazione dell’audio su Repubblica, i 5 stelle sono intervenuti per difendere l’operato del portavoce del premier: “Quello che è stato ripetuto per l’ennesima volta ai giornalisti De Angelis e Salvatori da Rocco Casalino, e che oggi campeggia su tutti i giornali, era la linea del Movimento 5 stelle detta e ridetta in tutte le salse”, si legge. La nota fa riferimento a due giornalisti dell’Huffington post che sarebbero stati i destinatari del messaggio vocale. “Siamo assolutamente convinti (ed è sotto gli occhi di tutti)”, continua il post sul blog, “che nei ministeri c’è chi ci rema pesantemente contro: uomini del Pd e di Berlusconi messi nei vari ingranaggi per contrastare il cambiamento, in particolare il reddito di cittadinanza che disintegrerà una volta per tutte il voto di scambio. La spalla di questi uomini del sistema sono i giornali del sistema. Difendono tutti gli stessi interessi: i loro. Il Movimento 5 stelle difende quelli dei cittadini”. Ma non tutti dentro il Movimento condividono la posizione ufficiale esposta sul Blog delle Stelle. “Io personalmente da libera cittadina trovo orribili le sue parole, ma sono le sue”, ha scritto in un lungo blog pubblicato sull’Huffington post la senatrice Elena Fattori. “Il problema dello strapotere di chi si occupa di comunicazione nel Movimento 5 stelle non è di Rocco Casalino o chi per lui, è di chi questo grande potere glielo lascia. E su questo occorrerebbe interrogarsi come molti di noi stanno chiedendo da anni senza risultati apprezzabili”. Prudente è stata invece la posizione di Roberto Fico, presidente della Camera: “A me sembra assurdo che i giornalisti che ricevono un messaggio facciano uscire le proprie fonti. E’ decontestualizzato, io non conosco la questione, contesto soltanto il fatto. Voi chiamate sempre anche me e, se io vi mando un messaggio, credo che voi non dobbiate farlo uscire”.

Le opposizioni: “Se ne vada”. L’opposizione chiede ora che Casalino sia allontanato e non svolga più il ruolo di portavoce. Il segretario Pd Maurizio Martina su Twitter ha scritto: “Le parole del portavoce del premier, Rocco Casalino, sono inaudite. Se Conte ha un minimo di senso delle istituzioni lo allontani immediatamente”. Mentre l’ex premier Matteo Renzi, sempre in rete, ha attaccato la difesa di Fico: “Il problema per lui non è Casalino che minaccia vendette, il problema sono i giornalisti. E questo sarebbe quello bravo dei 5 stelle”. Per Forza Italia è intervenuto il presidente del Parlamento Ue Antonio Tajani: “I Cinque Stelle stanno facendo di tutto per avere il reddito di cittadinanza. Avete sentito cosa sono disposti a fare… avete sentito il portavoce del governo? Purghe per tutti i funzionari che osassero non trovare i dieci miliardi voluti da Di Maio. Le purghe mi fanno pensare a Stalin, mi ricordano il comunismo. Mi preoccupo se la Lega non riesce a fermare questa avanzata degli eredi di Renzi. Lui aveva gli 80 euro, loro il reddito di cittadinanza”. In replica alla rinnovata fiducia di Conte per Casalino, ha parlato invece il deputato Fi Giorgio Mulè: “Insultare l’intelligenza degli italiani è un crimine che un premier, per giunta non eletto, non può permettersi. L’avvocato – ahinoi presidente del Consiglio – Giuseppe Conte sprofonda nel ridicolo quando derubrica a messaggio privato le minacce del suo ‘portacroce’ Rocco Casalino. Quelle parole costituiscono un’indicazione precisa a due giornalisti, da pubblicare col metodo dell’indiscrezione non attribuita a una persona fisica. Non è affatto un messaggio ‘privato’, ma un’indicazione precisa fatta da Casalino per conto dei grillini. Il ‘portacroce’ dei 5 Stelle Casalino – pagato dagli italiani 169mila euro cioè con l’equivalente di oltre 200 redditi di cittadinanza – abbia dunque almeno il coraggio delle sue azioni perché Conte si è dimostrato ciò che è: un avvocaticchio che pensa di poter prendere giro il popolo”.

Rocco, dalla "puzza dei poveri" all'odore dei soldi. Quell'intervista choc alle «Iene» contro indigenti e immigrati: anche se si lavano sono diversi, scrive Patricia Tagliaferri, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". Non è solo questione di soldi, ma anche di naso. Perché se sei povero, c'è poco da fare, hai un odore diverso da chi se la passa bene. Almeno così la pensa (o almeno la pensava) il grillino Rocco Casalino, portavoce del premier Conte, che prima ancora dell'audio choc con le minacce al ministro Tria e al suo staff, regalava ai suoi fan pillole di saggezza in un'intervista alle Iene che continua a rimbalzare sul web e adesso aiuta ad inquadrare il personaggio di uno che da allora ne ha fatta di strada, fino a diventare il boss della comunicazione di Palazzo Chigi con stipendio più alto del premier. Era uscito da poco dal Grande Fratello quando, in mutande e stravaccato su un divano con i piedi in mano, Casalino rispondeva alle domande della iena Marco Berry senza filtri, con toni più da militante di estrema destra che di uno in procinto di cominciare la sua ascesa nel Movimento Cinque Stelle. «Il povero ha un odore molto più forte del ricco, più vicino a quello del nero», diceva, chiedendo all'intervistatore se avesse mai provato a portarsi a letto un romeno o uno dell'Est: «Anche se si lava o si fa dieci docce continua ad avere un odore agrodolce, non so che cavolo di odore è, però lo senti». Toni decisamente lontani dal politicamente corretto. Parlando dei migranti, poi, il portavoce del premier diceva che il «loro vero problema è quello dei meno ambienti (testuale, ndr) che vivono in zone invase dagli extracomunitari». Per concludere con il Casalino-pensiero sull'immigrazione: «Investiamo tantissimi soldi per rendere gli italiani civili e invece poi abbiamo sta gente che non ha questo tipo di preparazione di base, sta gente è tutta gente senza istruzione. Noi li stiamo facendo entrare, è un pericolo». Dismessi gli abiti del concorrente di reality e cominciata la sua scalata al potere, Casalino ha sentito l'esigenza di spiegarlo il contenuto di quella vecchia intervista divenuto nel frattempo imbarazzante. E lo ha fatto pubblicando la sua versione dei fatti sul blog di Beppe Grillo. Una spiegazione decisamente creativa, la sua: in quell'intervista, in pratica, stava recitando. Interpretava un personaggio snob, classista, xenofobo e omofobo che gli era stato affidato dal corso di recitazione che stava frequentando. «Per sbeffeggiare l'ipocrisia di molti personaggi pubblici - spiegò - interpretai questo ruolo politicamente scorretto utilizzando lo studio fatto nel corso».

Era una finzione, dunque, o almeno così Casalino ha cercato di metterci una toppa adesso che certe affermazioni sarebbero decisamente inappropriate per il portavoce del presidente del Consiglio.

Mal di pancia grillino: "È un sopravvalutato e anche strapagato". I colleghi contro Casalino: non è il primo errore che commette. La paura di ritorsioni, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 23/09/2018 su "Il Giornale". Casalino contro tutti. Tutti contro Casalino. Nel giorno in cui salta fuori un audio del portavoce del Presidente del Consiglio che minaccia ritorsioni nei confronti dei tecnici del ministero dell'Economia, evocando scenari da notte dei lunghi coltelli, il M5s si riscopre meno monolitico del solito. In chiaro la posizione ufficiale dei pentastellati, espressa in un post sul Blog delle Stelle, è di rivendicazione della linea Rocco Casalino. «La linea del MoVimento non è mai cambiata - scrive lo Staff - siamo assolutamente convinti che nei ministeri c'è chi rema pesantemente contro: uomini del Pd e di Berlusconi messi nei vari ingranaggi per contrastare il cambiamento». Sottotraccia, l'ennesima «forzatura» dell'ex concorrente del Grande Fratello, ha scatenato mal di pancia sopiti da tempo. Soprattutto tra i colleghi di Casalino, dislocati nelle varie strutture che si occupano della comunicazione M5s. Sia nei gruppi parlamentari, sia nei ministeri. Il portavoce di Conte, nonostante l'incarico istituzionale, è ancora il dominus della comunicazione politica dei Cinque Stelle. E l'atteggiamento mostrato nella conversazione «rubata» e consegnata ai cronisti da una «manina» sconosciuta ne è la prova. Proprio quel «mettetela come fonte parlamentare» che si ascolta nell'audio, ha fatto saltare sulla sedia più di qualche collaboratore dei grillini. Il concetto espresso dagli spin doctor malpancisti suona più o meno così: «Casalino è un accentratore, guadagna una cifra spropositata, viene considerato più bravo di come è in realtà e non è la prima volta che commette degli errori gravissimi». Non tutti, nello stesso staff parlamentare grillino, condividono i metodi «muscolari» di Rocco. Chi, invece, sfugge alle domande, è imbarazzato e lascia trasparire la paura di ritorsioni da parte dei massimi vertici politici del Movimento, tutti compatti intorno a Casalino, a partire dal vicepremier Luigi Di Maio. Mentre nelle chat dei parlamentari, non mancano le voci critiche. L'unica a metterci la faccia è la senatrice Elena Fattori, con un articolo sul suo blog ospitato dall'Huffington Post. La Fattori parla di Casalino come di «un professionista della comunicazione eccezionalmente brillante», salvo poi dire che «personalmente da libera cittadina trovo orribili le sue parole». In conclusione una stilettata a Di Maio: «Il problema dello strapotere di chi si occupa di comunicazione nel M5s non è di Rocco Casalino o chi per lui, è di chi questo grande potere glielo lascia. E su questo occorrerebbe interrogarsi, come molti di noi stanno chiedendo da anni senza risultati apprezzabili». Ma, a quanto pare, tra i comunicatori non tutti hanno lo stesso strapotere di Casalino. Giudicato «sopravvalutato» e super pagato dai colleghi critici. Con le obiezioni che si concentrano su tre episodi specifici, avvenuti negli ultimi mesi. La pubblicazione del video in cui il portavoce di Conte invia un sms a Enrico Mentana, dandogli la notizia in diretta tv del raggiungimento dell'accordo di governo tra Lega e M5s. Con annesso sberleffo al direttore del Tg di La7, un po' lento nel leggere l'importante velina. A giugno, al G7 in Canada, c'è stato lo strattonamento del premier Conte, portato via quasi di forza da Casalino durante un punto stampa con i giornalisti. Un mese dopo, la frase al cronista del Foglio Salvatore Merlo: «Adesso che il tuo giornale chiude, che fai?». Così Rocco è finito in nomination.

Dall'ufficio piccolo alle minacce al "Foglio". Gaffe e incidenti del manipolatore Rocco. Già nel 2014 polemiche sul suo stipendio e sulla casa pagata dal gruppo M5s Quando regalò in anteprima lo scoop a Mentana e poi lo bacchettò: «Lento», scrive Domenico Ferrara, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". La meritocrazia si paga cara. Soprattutto se riguarda Rocco Casalino. I tagli alla casta? Un mantra che vale per gli altri. E che smette di valere quando l'anticasta sale al potere. Perché, al netto delle giustificazioni che il portavoce del premier ha sciorinato in merito ai 169mila euro lordi all'anno che incassa, c'è poco da fare: se hai tuonato contro i privilegi, ci sarà sempre qualcuno che storcerà il naso quando passi dall'altra parte della barricata. Rocco Casalino, dall'alto della sua esperienza e del suo curriculum (laurea in Ingegneria elettronica, giornalista professionista, conoscenza di 4 lingue) dovrebbe saperlo. Anche perché ormai dovrebbe essere abituato alle critiche. E non solo per i trascorsi nella casa del Grande Fratello, sulla cui esperienza ha dichiarato: «Ho gestito tutte le nomination, infatti non sono mai stato nominato fino all'ultimo giorno. Spiegavo agli altri concorrenti come votare e loro eseguivano». Insomma, era già un «manipolatore». Già nell'ottobre del 2014, alcuni senatori chiesero maggiori lumi sullo stipendio del capo della Comunicazione pentastellata e l'allora capogruppo in Senato Vito Petrocelli provò a fare chiarezza: «Rocco Casalino come responsabile comunicazione percepiva 2100 euro netti. Quando è stato nominato Capo Comunicazione ha avuto un aumento di 800 euro sullo stipendio. La cifra di 8mila euro lordi, riportata da agenzie di stampa, include anche tutti i rimborsi spese su taxi, viaggio Roma-Milano-Roma, e le spese per il vitto su cui ovviamente si pagano le tasse. Ma lo stipendio reale che mette in tasca Rocco Casalino corrisponde a circa 2900 euro netti». Adesso ha praticamente raddoppiato il suo stipendio, non male per Rocco. A proposito di spese poi, un anno dopo, venne fuori la polemica sull'affitto della casa di Casalino pagato dal M5s. L'Espresso sollevò il caso scatenando l'ira di Beppe Grillo che scese in campo: «Il contributo erogato dal gruppo parlamentare del M5s per gli appartamenti dei dipendenti della Comunicazione è un beneficio accessorio previsto dal contratto di lavoro del singolo dipendente e con oneri fiscali a suo carico». Polemica che non cessò di esistere e che anche il Pd utilizzò tempo dopo per attaccare i grillini. Nel novembre 2016, il comitato Basta un Sì tuonava: «Grillo e il M5s usano i fondi di Palazzo Madama per pagare l'affitto dell'ex concorrente del Grande Fratello. Caro Beppe, che ne dici se anziché pagare la casa di Casalino, i soldi non li ridiamo agli italiani? Non è difficile, basta un Sì». C'è poi il capitolo che dovrebbe stargli più a cuore: quello della comunicazione. E anche qui, lui che è considerato il deus ex machina, il regista di tutte le esternazioni, le comparsate tv e persino l'abbigliamento, la dizione e le cure dentistiche degli esponenti del M5s spesso non ha brillato in efficacia, soprattutto nel rapporto con la stampa. Come non ricordare la frase intimidatoria che rivolse al giornalista del Foglio Salvatore Merlo: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Non conta nulla...perché esiste?". Ne scaturì una bufera che lo portò a minimizzare e a chiedere scusa: «Era una semplice battuta». Stessa motivazione usata con Enrico Mentana dopo averlo prima bacchettato perché «colpevole» di aver dato con eccessiva lentezza la notizia dell'accordo raggiunto tra Salvini e Di Maio, notizia che lui aveva dato a Mentana in anteprima. Nel video si vedeva Casalino «costruire» uno scoop, scegliere il giornalista cui regalare la notizia e compiacersi della riuscita dell'operazione. «Era un video goliardico che doveva rimanere privato» e nel quale «non c'era nessun intento offensivo». Scuse accettate da Mentana e pace fatta. Nella lista degli "incidenti" di Rocco c'è poi il caso del finto master americano finito (per colpa di un hacker dirà Casalino) nel suo profilo Linkedin e le chat con i giornalisti su WhatsApp. Come quella volta in cui ai cronisti che gli chiedevano un parere del premier sulla proposta di hotspot avanzati fatta da Macron lui rispose con una emoticon abbastanza chiara: il dito medio (cancellato quando ormai era troppo tardi). In pieno stile Vaffa. D'altronde Rocco può permettersi tutto, anche lamentarsi perché la stanza del portavoce del premier è «un po' piccolina». Perché uno vale uno, a patto che l'uno non si chiami Rocco.

Chi è Pietro Dettori, l'uomo simbolo del governo Casaleggio. Non c'è solo Rocco Casalino nella squadra dell'esecutivo Conte. Sbarca a Palazzo Chigi anche il dipendente (e fedelissimo) di Davide che ha le chiavi dell'Associazione Rousseau. E che scriveva i post per conto di Grillo, scrive Susanna Turco l'11 giugno 2018 su "L'Espresso". Il suo mestiere è fare da tramite. La sua ascesa è avvenuta tutta nell’ombra. Lenta, costante. Nel segno della continuità assoluta, senza ripensamenti. Da un appartamentino sui Navigli fino alle porte di Palazzo Chigi. Sempre alle spalle del leader, mai davanti. Dai post di Beppe Grillo, comico e frontman di M5S, ai discorsi di Giuseppe Conte, premier-frontman dell’alleanza tra Cinque stelle e Lega. Dalla Casaleggio Associati al governo. Pietro Dettori è il talentuoso e spregiudicato simbolo della compenetrazione opaca tra azienda, partito e, adesso, governo. Occhi e orecchie di Davide Casaleggio a Roma, decisivo nel consolidamento del figlio del fondatore di M5S così come nell’ascesa di Luigi Di Maio al suo interno, pronto a lavorare accanto al presidente del Consiglio a 32 anni appena compiuti - classe 1986, come il capo M5S - è l’altra faccia dell’universo che adesso sbarca al governo sfoderando perenni sorrisi alle telecamere. L’anima riservata e spregiudicata che giocherà direttamente dalle stanze della presidenza del Consiglio. Quella più lontana dai riflettori, per istinto e per calcolo, amica della riservatezza, indifferente al lisergico dilagare dei conflitti di interessi e, anzi, persino irritata verso chi lo ricorda. Quella che la popolarità non interpreta come un attore, bensì costruisce come un suggeritore. Giorno dopo giorno, mossa dopo mossa, post dopo post. Limatura dopo limatura. Prima ancora che si spalancassero le porte di Palazzo Chigi è stato Pietro Dettori ad aver scelto le parole del neo premier, sin dalla dichiarazione dopo il primo incontro con il capo dello Stato Sergio Mattarella. All’inizio della girandola, Giuseppe Conte si era addirittura recato nel suo appartamento, stesso indirizzo della sede romana della Casaleggio associati, di fronte a Castel Sant’Angelo, per «buttare giù nero su bianco il discorsetto». Una circostanza che ha lasciato «molto perplesso» l’ex senatore di Forza Italia Augusto Minzolini che l’ha rivelata. E che, in realtà, è terribilmente fisiologica nel sistema pentastellato. Dove è consuetudine che ci sia qualcun altro a occuparsi delle cose che devi dire: anche per un incastro non casuale tra le attitudini degli eletti e il controllo della comunicazione, infatti, spesso e volentieri la parola pubblica - dai profili social alle dichiarazioni - è affidata a staff e ghostwriter. In blocco, strafalcioni compresi. Pressoché senza il controllo finale dell’interessato. Tanto che, a seconda degli errori, si è persino in grado di risalire al ghost di turno. La faccenda, nel caso di Dettori, è alla sua apoteosi. Al livello massimo: prima di diventare presenza fissa alle spalle di Di Maio, lui era il ghostwriter di Beppe Grillo ed era l’unico che avesse accesso diretto al Sacro Blog quando ancora Gianroberto Casaleggio trattava il sito come una sua esclusiva creatura, di cui era gelosissimo. Non è un caso che una parlamentare di peso come Laura Castelli, ai tempi in cui con Roberto Fico faceva ancora la guerra interna a Di Maio, lo avesse descritto come un «servo d’oro di Milano». Nato a Cagliari, laureato in comunicazione a Bologna, assunto dalla Casaleggio nel 2011 e social media manager dal 2012, Dettori è stato colui che faceva da filtro attorno a Grillo durante tutto lo Tsunami Tour, e (dopo Marco Canestrari) ha ricoperto il ruolo di cinghia di trasmissione tra i Meet up e Gianroberto Casaleggio. Significa che aveva potere di vita e di morte su tutti gli «uno vale uno» d’Italia: bastava pubblicare su www. beppegrillo.it lo status di Facebook di uno sconosciuto, per farne un eroe - o magari un eletto. È stato per anni, Dettori, colui che scriveva - tutt’altro che di rado - i post di Grillo. Quelli del blog, ma anche quelli dei profili social Facebook e Twitter. Profili dei quali aveva le chiavi d’accesso, un altro potere assoluto. Tanto da esibirsi, come ricorda chi ci ha avuto a che fare nella scorsa legislatura, in gelidi scherzi del tipo: guarda cosa ho scritto, se lo invio adesso diventiamo la prima notizia sui siti. Modalità piuttosto aggressive e abbastanza simili a quelle viste nel video diffuso da M5S nei giorni scorsi, in cui Rocco Casalino, responsabile della comunicazione, si atteggia a imperatore della notizia e sultano della sua diffusione: «L’accordo c’è, giro adesso il messaggio a Mentana, e poi anche alle agenzie, vediamo che succede», dice mostrando alla telecamera lo schermo del telefono (si intravede il dialogo, la prima riga è, per l’appunto: «PietroDettori»). Intendiamoci: Casalino resta il semidio della comunicazione stellata, con la conseguente promozione a portavoce del presidente del Consiglio, ora che si sta al governo. Però nel caso di Dettori il passo - meno visibile - è persino ulteriore. Casalino, con tutta la sua mole di potere, di arbitrio, di visibilità, il fidanzato cubano portato al ricevimento del Quirinale e la mamma portata all’ispezione nella nuova (per lui deludente) stanza a Chigi è - almeno questo - sempre stato un dipendente dei gruppi parlamentari dei Cinque stelle: il suo rapporto con i Casaleggio passa per relazioni personali, così come quello con Grillo, provenendo dal vasto mondo di Lele Mora. Dettori, al contrario, è una pura creatura di via Morone 6. Un dipendente di aziende private: la Casaleggio Associati prima, l’associazione Rousseau poi, entrambe allocate allo stesso indirizzo e guidate dallo stesso capo. Con lui sbarca quindi al governo direttamente una società privata. Una filiazione senza intermediari, di cui peraltro Dettori ha tutte le chiavi, avendo ricoperto l’intero cursus: quando tutti i dati di simpatizzanti ed eletti M5S erano custoditi dalla Casaleggio Associati, e adesso che sono nella Associazione Rousseau - associazione di cui Dettori è responsabile editoriale oltreché socio. Un sapere e una sapienza che con lui traslocano al governo. Con tutte le ambivalenze del caso. Il rafforzamento dell’osmosi, bisogna dire, era già nel programma. Ora fa un passo in più, e non da poco: dal Parlamento al Governo. Dettori, infatti all’indomani del voto del 4 marzo, aveva lasciato l’appartamento a Milano per sbarcare a Roma. Nel programma di riordino pensato da Davide Casaleggio, infatti, era già destinato a diventare in pianta stabile il suo uomo di riferimento per Camera e Senato. L’idea era quella di farlo assumere dai gruppi parlamentari, come responsabile del Blog delle stelle (che è il nome del Blog del movimento dopo il divorzio da Grillo) che a sua volta adesso è finanziato dai 331 parlamentari pentastellati a botte di 300 euro ciascuno da versare a Casaleggio ogni mese (fa circa 6 milioni di euro per l’intera legislatura). Non era ancora chiaro se lui sarebbe stato pagato attraverso l’Associazione Rousseau, o direttamente coi soldi dei contributi pubblici versati ogni anno ai gruppi di Camera e Senato (come appunto il caso di Casalino). Preoccupazioni a quanto pare ormai alle spalle. Resta invece intatta la domanda circa l’orizzonte entro cui ci si muove. Anche lasciando perdere lo straordinario pezzo di teatro dell’assurdo che avvenne quando Grillo spiegò ai giudici che non era lui l’autore del post sull’ex ministro Federica Guidi pubblicato sul sito beppegrillo.it (il post non era firmato, quindi non era «riconducibile al sottoscritto»: questo il geniale argomento del comico) a Dettori, infatti, fanno capo alcuni episodi che nel Movimento nessuno ha dimenticato. È ad esempio suo il tremendo titolo al video sull’allora presidente della Camera, che recitava «Cosa fareste in macchina con la Boldrini?» che nel 2014 scatenò i peggiori istinti della rete. Ancora prima, e sempre a proposito di alte cariche. Di suo pugno è il post in cui Beppe Grillo parlava di «golpe» a proposito della rielezione di Napolitano nel 2013: il frontman M5S in quel momento dormiva nel suo camper, si limitò a un assenso assonnato a quelle poche righe, in ore nelle quali la tensione era altissima - come è ben raccontato in “Supernova” da Nicola Biondo, che allora era il capo della comunicazione M5S, e Marco Canestrari che lavorava nella Casaleggio Associati. Adesso, sempre per la serie presidenti della Repubblica, nel lungo travaglio prima della nascita del governo c’è ancora Dettori, con Casalino che segue a ruota, dietro la scelta sconsiderata di agitare il fantasma dell’impeachment contro il capo dello Stato Sergio Mattarella dopo che le trattative tra i legastellati e il Quirinale, si erano bloccate sul nome di Paolo Savona per l’Economia. Di Maio, in quel momento, si ritrova sospinto nell’ombra, stretto tra la rinuncia di Conte e la rapidità killer di Matteo Salvini. Non sa come fare, gli arriva il suggerimento per rientrare nel dibattito, lui lo cavalca. Una operazione per lo meno spregiudicata, nella quale il capo M5S brucia i buoni rapporti coltivati con il Colle e rischia, per un momento, di finire stritolato per sempre. Ma è proprio questo in realtà uno dei tratti di Dettori: la spregiudicatezza. Che supera persino quella dell’ambizioso Di Maio, e porta il tutto a un indescrivibile livello in cui il rilancio è continuo, instancabile, implacabile. Descritto da chi lo conosce come intelligente, furbo, riservato, Dettori è il tipo che dice: che ti frega cosa sia, l’importante è che tiri sul web. Si tratti dei giornalisti da «masticare e vomitare» oppure dei pannelli fotovoltaici. Pare che abbia fatto lo stesso ragionamento su Vladimir Putin, discusso oggetto del desiderio della politica pentastellata. Comunque, è un tipo capace di stare giorni interi a studiare i trend di viralità dei post. Ed è, in questo, del tutto simile a Marcello Dettori, fratello con 4 anni in meno, anche lui specialista del web marketing, anche lui per un paio d’anni alla Casaleggio associati, una esperienza di lavoro persino a Praga - città per così dire all’avanguardia nel genere, dove peraltro vive il presidente di Publy, concessionaria di pubblicità per la Casaleggio. Marcello, comunque, da gennaio è amministratore unico di una società, la Moving fast Media srl con sede a Cagliari, diecimila euro il capitale sociale, che fra l’altro gestisce il sito Silenzi e falsità, già filoputiniano e adesso concentrato soprattutto sulla propaganda pro M5S e governo. Tutta questa sapienza - quasi un tratto familiare: si dice che il padre di Dettori fosse amico del padre di Casaleggio - la grande capacità di profilazione degli utenti della rete mescolata ad una accurata riservatezza, si riversa sul web nel suo esatto opposto: è Pietro Dettori che inventa ad esempio «ebetino», è lui a portare nel blog e quindi nel movimento il costante eccitamento verbale, come anche il dilagare del click-baiting, ossia la pubblicazione di notizie civetta, che fino al suo arrivo servivano soprattutto a fini commerciali, e invece poi diventano un genere a parte. Questo modo di fare, una volta, faceva anche imbestialire gli onorevoli a Cinque stelle, che si ritrovavano magari la mozione parlamentare faticosamente studiata e scritta, che finiva pubblicata sul blog accanto al telefonino che frigge l’uovo. Adesso, al contrario, nessuno ha più niente da ridire: in quanto maggioranza, M5S interpellanze e interrogazioni quasi nemmeno le farà più.

Il ricatto mafioso. Qui non siamo di fronte a una gaffe o a una frase dal sen sfuggita. Quello annunciato da Casalino in segreto è un progetto politico, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". Mi immagino di vedere la scena. Siamo nella primavera del 1992, Totò Riina, capo indiscusso della mafia, al termine di una cena con i suoi picciotti, annuncia: se queste merde dei ministeri non aboliscono il carcere duro noi li andiamo a prendere con il coltello, con le pistole, se il caso con la dinamite, come poi in effetti avvenne con Falcone, Borsellino e tanti altri. Veniamo a oggi. Il boss dei Cinque Stelle, Rocco Casalino, un bullo ex Grande Fratello, al termine di una cena riservata annuncia come svelato ieri da questo giornale: «Noi quelle merde del ministero delle Finanze se non mollano i quattrini per il reddito di cittadinanza l'anno venturo li andiamo a prendere uno a uno con il coltello». Le analogie sono impressionanti, e non sono solo formali. I Cinque Stelle come la mafia, Casalino - braccio destro del premier Conte - come Riina a minacciare organi dello Stato che non si piegano al suo volere. Qui non siamo di fronte a una gaffe o a una frase dal sen sfuggita. Quello annunciato da Casalino in segreto è un progetto politico condiviso dai suoi superiori, da Di Maio al primo ministro Conte, che infatti ieri hanno difeso il loro uomo che continua a stare a Palazzo Chigi come se niente fosse. Se Casalino non esce immediatamente dal palazzo degli italiani - che come noto gli pagano uno stipendio più alto di quello del premier - vuole dire che oggi è in corso una trattativa simile a quella che avvenne tra lo Stato e la mafia. Se a questo punto il ministro Tria molla un euro in più di quelli promessi (sforamento all' 1,6) vuole dire che ha paura, che il governo cede al ricatto di un ex Grande Fratello. Ma non basta Casalino. Abbiamo un problema serio di tenuta della democrazia. Perché se i vertici Cinque Stelle non lo mollano vuole dire che anche loro sono sotto ricatto del bullo. Se Conte non lo licenzia significa che abbiamo un premier ostaggio di chissà quali segreti inconfessabili. Se il presidente Mattarella non impone al governo una operazione di pulizia c'è il serio sospetto che anche il Quirinale non sia più un palazzo libero e impermeabile. Il problema non è Casalino, il problema sono i Cinque Stelle, la loro omertà sul caso e la loro complicità ostentata con questo signore. Signor ministro Tria, signor presidente Mattarella: se Rocco Casalino la sfanga e voi gli aprite i cordoni della borsa, questa volta l'impeachment lo chiediamo noi a nome degli ancora tanti italiani che non intendono cedere ai ricatti e sottostare alle minacce del portaborse di un primo ministro fantoccio.

"Vi spiego il metodo Casalino. Così manipola giornali e tv". Biondo ha lavorato coi grillini: «Quando si prova a metterlo da parte arriva il veto di Casaleggio e Di Maio», scrive Paolo Bracalini, Lunedì 24/09/2018, su "Il Giornale". «Ho appena parlato con un importante parlamentare del Movimento che mi ha detto: Guarda che noi abbiamo provato mille volte a buttarlo fuori ma non c'è stato mai verso, ogni volta arrivava il veto di Luigi e di Davide. Casalino è intoccabile perché è il custode della trasformazione del M5s da movimento a partito di Di Maio e Davide Casaleggio. La leadership di Luigi durerebbe mezz'ora senza Casalino. Perciò si sente potentissimo e parla come se fosse il Movimento. Una scalata al potere realizzata con metodi feroci». Nicola Biondo conosce bene il «codice Rocco», il metodo di lavoro di Casalino, avendo lavorato con lui all'inizio della scorsa legislatura: Biondo era capoufficio stampa del M5s alla Camera, Casalino responsabile comunicazione del M5s al Senato. Nel maggio 2014 si andò vicini al licenziamento di Casalino. «Chiesi a Gianroberto Casaleggio di togliermelo dalle scatole, lui si arrabbiò: che ti importa di lui, sarai tu il capo della baracca, qualcosa a Grillo dobbiamo lasciargliela, mi disse. Uscì un'agenzia che parlava di un imminente cambio nello staff comunicazione del Senato. Mi chiamò Vito Crimi tutto contento: bene, ti aspettiamo in Senato. Però Casalino restò al suo posto, fui io che me ne andai. Venni così a sapere che, appena capito che volevano farlo fuori, Rocco si era messo a piagnucolare al telefono con un direttore di tg, uno con un rapporto forte con Beppe Grillo. E poi con un famoso direttore di quotidiano. Insomma aveva smosso due pezzi da novanta per cercare protezioni. In questo Casalino è stato molto abile. Lui non esisterebbe se una larga fetta dell'informazione italiana non obbedisse ai suoi diktat». Cosa che invece avviene, sotto forma di messaggini o audio Whatsapp, in cui Casalino detta la linea da seguire negli articoli e nei servizi sul M5s. Chi sgarra entra nella black list e viene tagliato fuori dalle informazioni. È uno degli elementi del «codice Rocco», il metodo con cui l'ex Gf ha acquisito potere dentro e fuori il movimento. «L'ho vissuto sulla mia pelle. Quando è uscito Supernova (il libro-verità sul Movimento Cinque Stelle, ndr) la Annunziata ci chiamò per intervistarci a In mezz'ora. Eravamo già d'accordo, quando le comunicazioni si interruppero improvvisamente. Venimmo a sapere che Casalino aveva posto il veto: se inviti loro non ti mandiamo più nessuno. E infatti non fummo invitati. In cambio, la puntata dopo c'era Alessandro Di Battista ospite della Annunziata. Questo è il metodo Rocco». Chi si oppone al codice viene punito, chi lo asseconda premiato con la notizia o con il big M5s in esclusiva. È Casalino che decide quale parlamentare va in tv, come si deve vestire, se ha bisogno di un corso di dizione o di uno sbiancamento dentale. «Così ha guadagnato un grande potere anche tra i parlamentari. Ha il potere di favorirne le comparsate o meno, di parlarne male o bene. Qualsiasi parlamentare che non si sottomette alla sua volontà di dominio e di controllo inizia ad avere problemi. Ce l'ha raccontato chiaramente Laura Castelli». Biondo ci mostra una chat Whatsapp del 2015 con l'attuale sottosegretaria all'Economia, in cui la Castelli si lamenta che Casalino è «diffamatore di brutto nei miei confronti, dice che i giornalisti gli raccontano che io mi sfogo con loro dei miei malumori, cosa falsa. Altri giornalisti mi dicono che è lui a chiamarli e sparlare su di me». Anche il coautore di Supernova, Marco Canestrari, racconta questo metodo da casa del Grande Fratello per accentrare potere e mandare in nomination i parlamentari che non gli vanno a genio. «Casalino è diventato depositario di tutti i malumori, confidenze, sfoghi dei parlamentari, utilizzati sapientemente per consolidare ed accrescere la propria influenza. Chi sgarra, tra i parlamentari, è fuori, a meno di non possedere un patrimonio di informazioni tale da contrastare quello di Rocco, come ad esempio Laura Castelli». Conclude l'ex capo della comunicazione M5s: «Chi chiede le sue dimissioni non ha capito il Movimento. Finché Di Maio sarà al governo, Casalino starà a Palazzo Chigi».

Casalino attacca Il Foglio…Rocco Casalino prova a difendersi per aver aggredito una delle firme del quotidiano diretto da Cerasa: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Non conta nulla…», scrive Rocco Vazzana il 14 luglio 2018 su "Il Dubbio". «Chi mi conosce sa bene che sono solito fare battute. E una battuta era anche quella rivolta al giornalista del Foglio» Salvatore Merlo. Il portavoce grillino del presidente del consiglio, Rocco Casalino, prova a difendersi dalle accuse di arroganza che gli piovono addosso da ogni parte, sminuendo quanto accaduto in piazza Montecitorio giovedì scorso. Davanti alla Camera, i parlamentari 5 Stelle festeggiano con champagne e palloncini gialla l’abolizione dei pochi vitalizi ancora attivi. L’ex concorrente del Grande fratello si congeda un attimo dal suo datore di lavoro, Giuseppe Conte, per dirigere la coreografia della “manifestazione” e renderla indimenticabile. Ma tra i cronisti in piazza nota proprio Salvatore Merlo, firma politica del Foglio, non arruolabile tra le penne entusiaste del nuovo corso giallo- verde, con cui più volte il comunicatore pentastellato ha avuto modo di polemizzare. Casalino si avvicina e pronuncia queste parole: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Non conta nulla… Perché esiste?». Il problema, per il portavoce del premier (giornalista a sua volta), è che Merlo non si limita ad ascoltare quella che somiglia parecchio a una minaccia, ma la racconta sul giornale e diventa di dominio pubblico. In poche ore, contro Casalino si schierano quasi tutti i partiti d’opposizione e la Federazione nazionale della stampa. A quel punto l’uomo che decide se e quando Conte può parlare è costretto a intervenire, lanciando la palla in tribuna: era solo una battuta. «Sono certo che Salvatore Merlo ne fosse ben consapevole, considerando che ho specificato anche con lui che stavo scherzando», prova a difendersi l’ex Grande fratello, poche settimane fa protagonista di un video in cui si vanta “far dire” in diretta a Enrico Mentana le veline che gli invia per sms. «Credo fortemente nella libertà di stampa e nel pluralismo dell’informazione, sono il primo a volere che ci siano più mezzi di informazione possibili, ovviamente abolendo finanziamento pubblico», dice Casalino, parlando più da politico che da comunicatore. Peccato che il giornalista non abbia afferrato il tono scherzoso del comunicatore. «Casalino fa ridere sempre, tranne quando dice di fare le battute», risponde su Facebook il giornalista. A dare manforte al portavoce di Conte ci pensa però Elio Lannutti, senatore cinquestelle, che forse non si rende conto del momento e rilancia su Twitter: «Il Foglio per pochi intimi ha succhiato oltre 50 milioni di euro di pubblici finanziamenti. Predicano il mercato coi soldi nostri? Bravo Rocco Casalino: basta parassiti!». Messa così la minaccia non ha bisogno di ulteriori chiarimenti, il partito di governo avverte i giornali non allineati: sui finanziamenti pubblici all’editoria – di cui anche il quotidiano di Cerasa usufruisce decide il Movimento 5 Stelle. Le parole di Lannutti non contribuiscono ovviamente a rasserenare il clima e il portavoce di Palazzo Chigi diventa bersaglio delle opposizioni. «Il ministro del Lavoro vuol licenziare i lavoratori e il sottosegretario alla Giustizia denunciare i deputati, ci mancava il portavoce del premier che minaccia i giornalisti bevendo champagne al party “bye bye vitalizi”», ironizza su Twitter la vice presidente forzista della Camera, Mara Carfagna, prima di solidarizzare col cronista per «le intimidazioni» di Casalino. Solidarietà anche dal Pd, con Lorenzo Guerini che scrive sui social: «Intimidazioni e arroganza non spaventano la stampa libera. Se poi si prova a derubricarle a battuta, non fa nemmeno ridere». Il sindacato dei giornalisti diffonde una nota durissima contro il comunicatore grillino «non nuovo a proclami e minacce nei confronti di suoi colleghi giornalisti». L’atteggiamento e le parole utilizzate da Casalino, per l’Fnsi, «danno l’esatta dimensione della concezione che lui e i suoi danti causa hanno della democrazia e delle istituzioni», si legge nel testo diffuso da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario e presidente del sindacato. «Purtroppo per lui e per quelli come lui, la Costituzione italiana riconosce fra i propri valori la libertà di espressione e la libertà di stampa, valori ai quali, se non lo hanno ancora fatto, Casalino e chi come lui sogna l’affermazione del pensiero unico dovranno abituarsi. La chiusura dei giornali da parte delle autorità richiama regimi e tempi che, per l’Italia, sono fortunatamente lontani». La querelle, per ora, si chiude qui. Ma per i grillini il Foglio è finito “nomination”.

La risposta un po' razzista antimeridionalista non si fa attendere.

Adesso che il Foglio chiude, che vuoi che facessimo, Casalino? Scrive il 14 luglio 2018 "Il Corriere del Giorno". Imperdibile risposta satirica-ironica del FOGLIO. “Che doveremmo fare ce lo dovrebbi chiedere tu a Giggino, che noi la cittadinanza ce l’abbiamo e ci cacasse il reddito lui, che nel patto sta scritto”.

(Antefatto) Rocco Casalino, responsabile della comunicazione del Movimento 5 Stelle e portavoce del premier Giuseppe Conte, si è rivolto così a Salvatore Merlo del Foglio, colpevole di aver descritto in maniera non estasiata le iniziative del suo gruppo di comunicazione e di aver in passato spesso criticato il Movimento. “Adesso che il Foglio chiude che fai? Mi dici a che serve? Perché esiste?”. Il Foglio è una delle testate che percepisce un finanziamento pubblico, la cui abolizione è da sempre uno dei cavalli di battaglia dei 5 Stelle, di recente ribadito anche dal sottosegretario all’editoria Vito Crimi. In difesa di Merlo si sono esposti su Twitter sia esponenti di destra che di sinistra, da Andrea Romano (Pd) ad Guido Crosetto (FdI) che ha twittato: “Per quanto non condivida parte della linea editoriale del Foglio e molte delle posizioni di Claudio Cerasa, questa mattina sono corso a comprarne una copia ed oggi pomeriggio farò l’abbonamento on-line. Mi hanno convinto a farlo le parole di Rocco Casalino”. Il dem Michele Anzaldi sollecita l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (dove Casalino è iscritto) ad aprire un’istruttoria, chiedendo al presidente della Camera Fico cosa ne pensa, visto che “siamo di fronte ad un atteggiamento inaccettabile da parte di chi viene pagato con i soldi degli italiani per occuparsi della comunicazione ufficiale del governo e invece utilizza il suo potere per indirizzare minacce contro la libera informazione”. L’ex ministra Valeria Fedeli sbotta: “Ora anche intimidazioni. Fermatevi!”. La forzista Maria Stella Gelmini twitta: “Gli uccelli del malaugurio allungano la vita. Auguri al Foglio”. La collega senatrice Anna Maria Bernini fa eco: “Basta tolleranza verso gli intolleranti”. E la piddina Alessia Rotta conia l’hastah #vergogna. Questa non è la prima volta che le uscite di Casalino, entrato nel 2013 nell’ufficio stampa grillino di Palazzo Madama fino a diventarne il capo indiscusso, guadagnano l’onore delle cronache. L’uomo che allora si firmava “Dott. Ing, Coordinatore della Comunicazione Nazionale, Regionale e comunale del Movimento 5 Stelle, Portavoce e Capo-comunicazione del Gruppo M5S al Senato”, una volta diventato portavoce del premier giallo-verde s’era illuso di poter conquistare qualche benefit. Al punto da rimanerci malissimo quando scoprì che lui non aveva diritto a un appartamento a Palazzo Chigi come il capo del governo e che il suo studio era ben al di sotto delle aspettative: “Un po’ piccolina per essere la stanza del portavoce del presidente”, osservò entrandoci. Lo scorso giugno scorso al G7 di Charlevoix, in Canada, Casalino portò via di forza il premier Giuseppe Conte che stava rispondendo alle domande dei cronisti, con una mossa più da body-guard che da portavoce. E non è passato inosservato neppure l’emoticon con il dito medio alzato digitato sulla chat WhatsApp della Rappresentanza italiana in risposta ai giornalisti che chiedevano un commento alla proposta francese sugli hotspot. L’icona maleducata fu subito rimossa, ma non abbastanza in fretta per non essere resa pubblica da chi l’aveva ricevuta. Una gaffe che il prode Rocco commentò sfogandosi, sempre via WhatsApp: “Lavoro 18 ore al giorno. Ho 73 chat diverse. Se anche sbagliare chat e cancellarlo dopo 30 secondi diventa una notizia io mi arrendo. È stato un piacere», scrisse lasciando il gruppo. Comportamenti questi non sempre graditi al premier Conte, con cui sarebbero registrati alcuni dissapori.

Questa la risposta del Foglio di Andrea Marcenaro. Adesso che il Foglio chiude, che vuoi che facessimo, Casalino? Ce ne staressimo qua. Ce ne andressimo a travagghiare all’Ilva. Ci leggerebbimo un poco di televisione, accendiamo due libri, chi potesse scopasse, ma che vuoi che faceremmo, Casalino, adesso che il Foglio chiude? E mica tutti a casa del dottor Mainetti ce ne avevamo potuto andare, che quello sai com’è, la pazienza la portasse quando scriveremmo, ma pure quando non scriveremmo la dovesse portare, questa benedetta di pazienza? Poi te com’hai faciuto, Casalì? Ce l’hai domandato a Conte, che il Fogliochiude, o ce l’hai domandata a Giggino? Se ce l’hai domandata a Conte, nun te fida’, Casalì, quello è un’idea. Quello è spirito puro. Quello col tavolino a tre gambe e coi mignoli uniti, lo puoi ascoltare, lo domandassi a Giggino tuo, che lui sicuro se li ricorda, “Certi fantasmi”. Se invece proppio Giggino te l’aveva detto, che il Foglio chiude, proppio lui in persona, allora chiude vero. Ma da capo a dodici, stiamo. Che doveremmo fare ce lo dovrebbi chiedere tu a Giggino stesso, che noi la cittadinanza ce l’abbiamo e ci cacasse il reddito lui, che sta scritto nel patto. Che poi a me, ma questo te l’avessi detto comunque, Casalì, , lo sai cosa mi piacerei, a me, se il Foglio chiude? Mi piacerei due mesi con Di Battista, laggiù nelle Langhe sterminate dell’America. Che vedi un grattacielo, un coccodrillo del Micipisci, o come cazzo si chiama il grande fiume, e vaffanculo Casaleggio, ti scapperesse pure a te. Ne saressi convinto. Quello Junior, oh! Che poi diciamocela, Casalì: se il Foglio chiude è una tragedia. Meterebbiti comodo. E pensarebbiti una sola cosa: chi se la faresse una pippa, se il Foglio chiude? Tombola: il barbaro. Quel là che vi dice: casseula! E voi sulla Cassa depositi e Debiti, vi precivitate. La casseule si beve, Casalì, mica è una banca, diccelo a Tria. E se tu ci avrebbi capacità d’ascolto, credimi Casalì, i piccioli ci dovrebbi dare. La smetteressi di minacciare Merlo. L’ho chiamata, dai. Sul versante economico, la professoressa Fornero non soltanto è d’accordo, m’ha detto pure che vi daresse una mano. Sempre che l’Editore, Dio lo benedica, ci stasse. E quanto ai negri in ingresso, questa considerala una promessa, già m’avevano garantito che allo Sceriffo in carriola, se il Foglio non chiudeva, ci avresse pensasse Cerasa in persona.

Tarocco Casalino. Nel curriculum del Capo della comunicazione del M5s c’è un master in America. Ma l’Università smentisce, scrive Luciano Capone il 16 Marzo 2018 su "Il Foglio". In questi giorni Rocco Casalino, capo comunicazione del M5s e portavoce dei “portavoce” del movimento, sta passando al setaccio gli oltre mille candidati che si sono presentati alla selezione per trenta posti da addetto stampa del M5s. E sicuramente starà esaminando il loro curriculum più attentamente di quanto il movimento abbia fatto con il suo. Perché Casalino dichiara di aver conseguito un master, ma non è vero. Sul suo profilo Linkedin – il social network utilizzato per i contatti professionali e la diffusione del proprio curriculum vitae – il capo comunicazione dei grillini dichiara di aver conseguito nel periodo “2000-2000” un Master of Business Administration (Mba) alla Shenandoah University negli Stati Uniti. Ma ci sono alcune questioni che fanno dubitare della veridicità del titolo. Il primo è che l’Mba è un titolo per le carriere manageriali nel mondo dell’economia e della finanza, e infatti per accedere si richiedono anni di esperienza professionale. Inoltre è molto costoso – anche decine e decine di migliaia di euro – e per questo motivo spesso viene pagato dalle aziende per valorizzare i propri migliori dipendenti. Ma Rocco Casalino nel 2000 non aveva alcuna esperienza professionale, era neolaureato in Ingegneria elettronica (“Doctor of Law, Electrical and Electronics Engineering 1993-2000” all’Università di Bologna, scrive). C’è poi un secondo problema, che è di tipo temporale. Il 2000 è per Casalino un anno molto denso. Si laurea – ipotizziamo nei primi mesi dell’anno – e in autunno partecipa come concorrente al primo “Grande Fratello” della storia, restando recluso nella casa più vista d’Italia per quasi 100 giorni, dal 14 settembre al 21 dicembre. Pertanto avrebbe frequentato la Shenandoah University e ottenuto l’Mba nella parte centrale dell’anno, in 5-6 mesi. Il problema è che un Mba dura fino a 3 anni, ma mai meno di un anno. Risulta pertanto altamente improbabile che in soli dodici mesi, il periodo che a un manager altamente preparato serve per prendere un MBA, Casalino si sia laureato, abbia preso un master in America, fatto i provini per il reality show e passato 3 mesi nella casa del “Grande Fratello”. La conferma definitiva che il master di Rocco sia tarocco arriva dall’università americana. Contattato dal Foglio, il Registrar’s office della Shenandoah University dice: “Non abbiamo traccia di uno studente con quel nome (Rocco) e quel cognome (Casalino) che abbia frequentato la Shenandoah University o che abbia conseguito un diploma MBA”. Casalino, interpellato dal Foglio conferma di non aver mai preso alcun master in America e dice che il profilo Linkedin non è il suo. (“Non ho mai avuto Linkedin, qualcuno avrà creato quel profilo. Ora lo segnalo come fake”). E qualche ora dopo la telefonata il profilo è stato effettivamente rimosso. Ma il problema non è solo il curriculum su Linkedin. Quando Casalino si è candidato nel 2012 alle primarie del M5s per le regionali in Lombardia, sulla sua pagina personale ha pubblicato i suoi dati, la sua video candidatura e un curriculum, in cui viene citato un “Master in economia negli Stati Uniti”. E questo titolo di studio è presente in molti articoli di giornale del novembre del 2012 che descrivono la candidatura di Casalino e il suo profilo curriculare. Questo punto, a differenza del presunto hacker di Linkedin, Casalino non è riuscito a spiegarlo e a spiegarselo. “E’ strano, devo chiedere alla Casaleggio questa cosa qua – dice al Foglio –. Ma non è che c’è una manina magica che è intervenuta dopo? Sicuro che non è collegata a te?”.

Rocco, pr a cinque stelle con il master tarocco. Il capo della comunicazione grillina vanta studi negli Usa. L'università: «Casalino chi?», scrive Roberto Scafuri, Sabato 17/03/2018, su "Il Giornale". Delle avvincenti biografie rintracciabili sul Web di Rocco Casalino, nuovo e temutissimo Capo Supremo della comunicazione grillina, risaltano alcuni scampoli di vita faticosa e non certo agiata. Nato in Germania da famiglia di origini pugliesi, padre operaio (sul profilo wikipedia, si presume setacciato e autorizzato, se non dal diretto interessato, almeno dalla Casaleggio Associati, viene definito addirittura «autoritario e alcolista»), con il giovane Rocco che assiste a scene di vita familiare non edificanti che lo costringeranno a seguire un percorso «psicoterapico». Casalino risulta «laureato in ingegneria elettronica con specializzazione in ingegneria gestionale». E quindi, prima di spiccare il coerente balzo con la partecipazione al Grande fratello e ai talk tv più accreditati con Platinette e Solange, c'è scritto che «ha conseguito un master's degree in economia negli Usa». Non accontentandosi, il Fatto online ieri è andato a pescare anche il profilo Linkedin di colui che, proprio in questi giorni, vaglia i curriculum degli aspiranti addetti alla comunicazione M5S. Filtro «severo e insuperabile», a detta degli stessi deputati e senatori grillini che a volte si sentivano controllati persino nelle loro faccende private. A insospettire Il Foglio sul reale conseguimento di questo Master in Business Administration (Mba) alla Shenandoah University, nel corso del 2000, una nutrita serie di circostanze. Anzitutto la natura del Master, assai costoso e non facilmente accessibile a uno studente privo di esperienze lavorative com'era Casalino nel 2000. Anno, peraltro, fatidico, visto che è pure quello della laurea nonché dell'approdo al Grande Fratello (100 giorni di «reclusione» in appartamento). Il Master americano, invece, dura fino a 3 anni e mai meno di un anno. Spinti da implacabile curiosità, i cronisti del Foglio sono arrivati così a contattare il Registrar's office della succitata Università. Risposta: «Non abbiamo traccia di uno studente con quel nome e quel cognome che abbia frequentato la nostra Università e che abbia conseguito un diploma Mba». Non restava che chiamare Casalino. Sorprendentemente, Rocco è caduto dalle nuvole: «Confermo di non avere quel master, il profilo Linkedin non l'ho mai avuto, qualcuno avrà creato quel profilo, ora lo segnalo come fake». Peccato che il Foglio avesse ripescato pure il curriculum presentato da Casalino alle primarie per le regionali 2012 in Lombardia. Anche qui è citato il master negli Usa. Seconda caduta dal pero. «È strano, devo chiedere alla Casaleggio questa cosa qua... Ma non c'è una manina magica che è intervenuta dopo? Sicura che non è collegata a te?», ha detto al cronista che lo intervistava.

P.S. per la serenità del Casalino. Possiamo personalmente testimoniare di aver consultato il tuo curriculum wikipedia la settimana scorsa e anche ieri: la storia del master c'era e c'è ancora. Se esiste complotto, complottano da tempo. Occhio.

Chi è Rocco Casalino, l'uomo che prepara lo staff del Movimento 5 stelle. L'ex del Grande Fratello seleziona il personale destinato all'ufficio comunicazione della Camera dei deputati a dimostrazione che questa istituzione sarà il vero fulcro dell'attività politica del M5S, scrive Sara Dellabella il 16 marzo 2018 su "Panorama". A una settimana dalla prima seduta del nuovo parlamento, le Camere e i gruppi parlamentari si stanno riorganizzando. I trombati fanno gli scatoloni e liberano gli uffici che saranno destinati ai nuovi eletti e anche i dipendenti dei gruppi parlamentari sono pronti a sgomberare. Al Pd i dipendenti riassunti saranno solo uno su tre, essendo più che dimezzata la compagine degli eletti, mentre il Movimento 5 stelle ha il problema inverso. Tanto che la Casaleggio Associati nei giorni scorsi ha pubblicato un annuncio per avviare assunzioni per il gruppo comunicazione della Camera dei deputati, istituzione che diventerà per il Movimento 5 stelle il vero fulcro dell’attività politica, soprattutto se dovesse portarne a casa la presidenza.

Rocco Casalino, l'uomo macchina del M5S. A dirigere tutte le operazioni e anche i casting degli aspiranti comunicatori è Rocco Casalino, che in questi anni si è confermato l’uomo macchina della comunicazione grillina. Sempre presente negli appuntamenti importanti e a fianco di Beppe Grillo, l’ex ingegnere della trasmissione tv Grande Fratello ha traghettato e creato uno stile comunicativo per un Movimento che all’inizio dell’avventura parlamentare rifiutava ogni partecipazione ai talk show politici. Non che il rapporto con la stampa oggi sia sereno, ma anche il Movimento ha imparato a sfruttare le potenzialità dei media e ora più che mai ha bisogno di una squadra operativa e affidabile che possa dare supporto ai 300 eletti, molti dei quali completamente digiuni di qualunque esperienza politica.

La testimonianza di un candidato allo staff. “Non si capisce bene se stiano cercando gente con esperienza o persone da plasmare secondo le loro necessità” racconta uno degli aspiranti comunicatori che nei giorni scorsi ha partecipato alle selezioni con Rocco Casalino. Come altri mille ragazzi provenienti da tutta Italia, anche lui ha partecipato ad un colloquio di gruppo, dieci per volta, direttamente con l'ex grande fratello. A quanto ammonta il reddito di cittadinanza; cosa è la soglia del 3 per cento; con quali maggioranze vengono eletti i presidente delle due camere, questi sono solo alcune delle domande che Casalino ha rivolto ai candidati ai quali però non è stata indicata la retribuzione per l’incarico in caso di assunzione. Sarà anche grazie all’esperienza televisiva, ma Casalino in questi anni è riuscito a tenere la barra dritta anche quando l’inesperienza di alcuni parlamentari ha messo in cattiva luce il Movimento. Tant’è che tra i grillini vige il motto “chiedi prima a Casalino”. Quella che si aprirà tra una settimana è la partita decisiva del movimento che in soli 5 anni oggi si candida a governare il Paese. È vero che i risultati usciti dalle urne lo scorso 4 marzo non sono sufficienti, ma sicuramente quello riservato a Di Maio in questa partita è un ruolo di primo piano e non sono consentiti passi falsi. Per questo è arrivato Casalino alla Camera a gestire tutto in prima persona.

CHI FINANZIA I 5 STELLE?

Perché la campagna elettorale 2018 sarà un evento storico per l'Italia. Per la prima volta senza finanziamento pubblico e con i social network determinanti, il voto del prossimo anno segna il passaggio finale verso una politica privatizzata e senza regole. Ecco quali sono i rischi, scrive Marco Damilano il 30 novembre 2017 su "L'Espresso". Chi paga e chi manipola, sono le due domande che attraversano sotterraneamente la vigilia elettorale italiana, mentre in superficie si discute e si litiga di coalizioni, alleanze, candidati premier. Spettacoli scontati per l’elettore che ne ha già viste tante e che sa già come andrà a finire: con la nascita di schieramenti che si fingeranno uniti e indivisibili fino al giorno del voto, per poi separarsi un istante dopo. La novità della campagna elettorale va cercata altrove, in quello che ti raccontano agenzie di comunicazione, aspiranti spin doctors, sondaggisti, addetti all’immagine. Chi paga?, si chiedono (sottinteso: chi ci paga?). E chi manipola? Quella del 2018 sarà la prima campagna senza finanziamento pubblico dei partiti, neppure sotto forma di rimborso elettorale, l’ingegnoso marchingegno per aggirare il divieto di elargire soldi pubblici ai partiti inventato nel 2002 dagli allora tesorieri dei principali partiti, Ugo Sposetti per i Ds, Rocco Crimi per Forza Italia, Maurizio Balocchi per la Lega, Luigi Lusi per la Margherita, oggi condannato in appello a sette anni di carcere per appropriazione indebita dei fondi del partito. Zero soldi per una campagna elettorale che per la prima volta da anni, seconda novità, fa risorgere il collegio uninominale, e dunque la necessità per i candidati di chiedere il voto con manifesti, volantini, pranzi, cene, comizi, convegni: tutte cose costose. Infine, terza novità, l’indispensabilità di internet e dei social network per raggiungere l’elettorato, con il rischio però di favorire le manovre di chi sulla rete diffonde fake news, manipolazioni della realtà, tentativi di influenzare il risultato finale, com’è successo negli Stati Uniti e in Francia. Queste novità, in fondo, si tengono. Siamo alla fine di una legislatura che ha segnato il definitivo passaggio dalla politica vecchio stile, tutta territorio e rappresentanza, a una politica aerea, leggera, libera dai fardelli del passato, almeno in apparenza. Uno dei primi atti della legislatura 2013-2018 è stato il decreto del governo di Enrico Letta che aboliva i rimborsi elettorali dei partiti, nelle settimane in cui il Parlamento europeo faceva la scelta opposta e approvava un regolamento per finanziare i partiti Ue e le loro fondazioni. Era il momento del mito della politica a costo zero, ad aggiornamento automatico come un sistema operativo, richiesta a gran voce dai nuovi arrivati, i parlamentari del Movimento 5 Stelle e il candidato alla segreteria del Pd Matteo Renzi che l’abolizione dei rimborsi elettorali l’aveva inserita nel programma in cento punti uscito dalla riunione della stazione fiorentina Leopolda nel 2011. Punto numero 7: abolizione finanziamento pubblico, finanziamento privato con il cinque per mille. Punto numero 8: via la stampa di partito perché «con internet chiunque può produrre a costo zero il suo bollettino o il suo house organ». E almeno questo punto è stato attuato, a giudicare da quanto successo: oggi L’Unità non esce più e il Pd di Renzi sponsorizza il bollettino on line Democratica. Nel frattempo, cinque anni dopo, le casse dei partiti sono desolatamente vuote. Il due per mille che doveva sostituire i rimborsi ha avuto un avvio stentato e ha toccato quota 12 milioni di euro versati dai cittadini, appena il 2,7 per cento dei contribuenti. Calano anche le donazioni e i contributi privati ai partiti: per le persone fisiche da 21 a 12,4 milioni di euro. Aumenta il contributo dei gruppi parlamentari. E le difficoltà di partiti come il Pd che rivendica di essere l’unico soggetto radicato e democratico, e che dunque avrebbe bisogno di soldi per sostenere le sue attività. Con il due per mille nel 2016 il Pd ha incassato 6,4 milioni, ma nel bilancio del Pd al 31 dicembre 2016 si legge che il partito guidato da Renzi ha accumulato 9,5 milioni di debito, avendo speso quasi 12 milioni di euro per la campagna referendaria sulla nuova Costituzione di un anno fa, più altri due milioni da addebitare ai gruppi parlamentari. Dal primo settembre ci sono 140 dipendenti del partito in cassa integrazione, cui andrebbero aggiunti i giornalisti dell’Unità. Negli stessi anni in cui la fondazione Open, che organizza il raduno della stazione Leopolda riunito a Firenze per l’ottava volta dal 24 al 26 novembre, ha triplicato le entrate: da 672mila euro a 1,9 milioni. Il Pd e la fondazione Open hanno in comune il leader: come segretario del Pd Renzi stringe, taglia, chiude, con il fedelissimo tesoriere Domenico Bonifazi, come punto di riferimento della fondazione Open, presieduta dal potente avvocato Alberto Bianchi (tra gli altri incarichi, consigliere di amministrazione Enel, consulente Consip) e dal board di cui fanno parte Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai, prospera, attrae risorse, attira finanziatori. Una fondazione privata guidata da personaggi con incarichi pubblici e di governo, un boiardo di Stato, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, un ministro e chi sembrava destinato a occupare il vertice della struttura sulla cyber-security. Con uno scopo ripetutamente affermato: «La Fondazione supporta le attività e le iniziative di Matteo Renzi, fornendo il suo contributo finanziario, organizzativo e di idee alle attività di rinnovamento della politica italiana, in particolare quelle articolate intorno alla figura di Renzi. Tramite i componenti del Consiglio direttivo ed altre personalità della cultura, dell’economia, del diritto, del mondo dell’impresa e del lavoro da essi coordinate, la Fondazione ha fornito supporto culturale e di idee alla formazione del programma», se non si fosse ancora capito, di lui, «di Renzi». Il rosso del Pd e gli utili della Open sono il doppio volto e il doppio destino della nuova politica: declino dei partiti come strutture della democrazia meritevoli di aiuto economico da parte dello Stato, ascesa delle formazioni personali con i leader trasformati in fund raiser, procacciatori di finanziamenti in arrivo dai privati. Il modello della fondazione renziana, ma anche di Silvio Berlusconi per Forza Italia e di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio per il Movimento 5 Stelle. La campagna elettorale 2018 rappresenterà da questo punto di vista il passaggio decisivo da un regime all’altro. Dal servizio pubblico alla politica privatizzata. Una caccia al voto affidata ai candidati nei collegi che hanno la responsabilità di tirare su anche il voto di lista (nel Rosatellum non c’è il voto disgiunto tra il nome che corre nel collegio e la lista o la coalizione di liste che lo sostengono in quel territorio), ma che non possono godere del finanziamento pubblico e dell’appoggio economico del partito di appartenenza. E dunque, chi paga? Chi finanzierà il partito? Chi finanzierà i singoli candidati? Chi salderà il conto di manifesti, volantini, tipografie, agenzie di comunicazione, le sale e i teatri affittati per un incontro, i sondaggi, gli staff, gli alberghi e la benzina per affrontare una sfida che riguarda collegi grandi come città, da 400mila elettori per la Camera? Come se non bastasse, incombono sui candidati i reati introdotti dalle ultime riforme, dal voto di scambio politico-mafioso al traffico illecito di influenze. A complicare la ricerca di fondi e finanziamenti privati. A tutte le domande, naturalmente, si può dare una risposta diversa. Che non c’è più bisogno di finanziare una campagna sul territorio vecchio stile, con i comizi nel ristorante o i convegni negli scantinati di cemento armato degli alberghi vicini alle stazioni. Perché basta la rete per raggiungere il consenso (e anche i fondi). Il social power, il potere di raccogliere amici, followers, soldi e voti tramite le campagne che di virtuale non hanno più nulla. O anche scatenando e indirizzando il flusso del discredito e dello scandalo addosso agli avversari politici. L’allarme è già stato lanciato, a proposito di presunte interferenze straniere e delle pressioni della Russia di Vladimir Putin sui movimenti italiani ostili all’Europa e alla Nato, come il Movimento 5 Stelle e la Lega. La manipolazione e il traffico di fake news saranno i convitati della prossima campagna elettorale, la più social della storia. Ma sarebbe un errore pensare a M5S come un partito incapace di affrontare la sfida territoriale. Le ultime elezioni regionali siciliane dimostrano il contrario: Stefano Zito a Siracusa ha raccolto 18mila voti, Matteo Mangiacavallo a Agrigento 15mila voti, Angela Foti e Gianina Ciancio a Catania 11mila e 10mila. E anche per i loro colleghi candidati alle politiche, i post-grillini, bisognerà vedere chi paga e chi manipola.

Ecco chi sono gli imprenditori che danno soldi ai politici e ai partiti. Il più generoso è Berlusconi (con se stesso). Poi Moratti, Bonsignore, Caltagirone e anche il palazzinaro multipartisan che offre denaro e appartamenti a quasi tutti. L'Espresso vi mostra la mappa dei finanziamenti privati dal 2008 a oggi, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 28 novembre 2017 su "L'Espresso". Una legislatura può costare cara. Specie se ti chiami Silvio Berlusconi e gestisci il partito come un’azienda. Coadiuvato dai suoi figli, negli ultimi dieci anni il Cavaliere è stato il principale finanziatore della politica italiana. Ha sborsato di tasca propria la bellezza di 109 milioni di euro. Come lui nessuno mai. Alle sue spalle, sebbene distanziata, c’è però una lunga fila di imprenditori che ama fare regali alla politica. Industriali, armatori, ras degli appalti pubblici, re delle cliniche private, signori dell’accoglienza migranti, nomi noti dell’alta borghesia e della finanza. C’è persino qualche grande evasore, imprenditori bancarottieri e altri con frequentazioni malavitose. Gente di fede politica dichiarata, ma anche donatori laici che preferiscono fare un regalo a tutti per evitare di puntare sul cavallo perdente. L’Espresso, grazie a documenti ufficiali, ha analizzato le donazioni private arrivate a partiti e politici italiani dal 2008 a oggi. Emerge una radiografia del passato per immaginare il futuro. Perché le prossime elezioni saranno le prime senza il finanziamento pubblico ai partiti. Le prime in cui, per effetto di una legge varata a furor di popolo dal governo Letta, i partiti dovranno affidarsi completamente alle donazioni. Ecco perché è utile sapere chi ha già le spalle coperte.

Ripartiamo da Berlusconi, di gran lunga la testa di serie numero uno tra i finanziatori della politica. Che cosa sarebbe oggi Forza Italia senza i soldi del suo fondatore? Un partito poverissimo. Se infatti consideriamo solo le donazioni private ricevute da FI negli ultimi dieci anni (escludendo i denari giratigli dal Popolo delle Libertà) il totale arriva a 117 milioni. Dei quali 106 sono stati regalati da Silvio e famiglia. Berlusconi è l’unico dei big spender italiani ancora ufficialmente in gioco. Gli altri due uomini piazzati sul podio delle donazioni hanno infatti smesso da qualche anno di finanziare la cosa pubblica. Con motivazioni diverse.

Gian Marco Moratti, patron delle raffinerie Saras, nel solo 2011 ha messo sul piatto 12 milioni di euro per la campagna elettorale della moglie Letizia a sindaco di Milano. Investimento andato in fumo, dato che alla fine a spuntarla è stato Giuliano Pisapia. Diverso il profilo dell’altro grande finanziatore. Costruttore, editore e finanziere, Francesco Gaetano Caltagirone ha regalato all’Udc oltre 3 milioni di euro in dieci anni: quasi due terzi di quanto ricevuto in totale dal partito guidato dall’ex genero Pier Ferdinando Casini. Ex, appunto. E infatti, da quando i due non sono più parenti, il finanziamento si è improvvisamente bloccato.

Francesco Gaetano Caltagirone. Se Berlusconi e Moratti hanno preferito fare donazioni personali, Caltagirone - così come tanti altri - ha spesso usato le sue società per sostenere la politica. Particolare rilevante se si considerano i vantaggi fiscali. La vecchia legge prevedeva una detrazione del 19 per cento limitata ai primi 109 mila euro donati. Regola valida sia per i cittadini che per le aziende. Non a caso i grandi finanziatori hanno spesso scelto la taglia da 100 mila.

Da un paio d’anni le cose sono però cambiate. Oltre all’abolizione del finanziamento pubblico e alla possibilità di devolvere ai partiti il 2 per mille, il parlamento ha modificato le regole per chi dona. La detrazione è stata alzata al 26 per cento, ma il limite su cui viene calcolata è sceso a 30mila euro. Traduzione? Oggi il risparmio fiscale non può andare oltre i 7.792 euro, quasi un terzo rispetto al passato. Le soglie restano uguali per cittadini e aziende, ma c’è una novità: sia le persone che le società possono finanziare al massimo 100 mila euro. O meglio, le prime possono superare la fatidica soglia solo donando a più partiti. Insomma, la nuova legge cerca di mettere un freno alle maxi elargizioni, avvantaggiando quelle diffuse e di piccola entità. Ma la sostanza non cambia: le donazioni private diventeranno fondamentali per la politica.

Renzi chi? All’appello c’è tutto il giglio magico. Il grande assente nella lista dei donatori del Pd è lui, Matteo Renzi. Dal 2008 a oggi non c’è traccia di un suo versamento nelle casse del partito né in quelle delle sezioni locali. È vero, l’ex premier non è mai stato parlamentare: non vale dunque per lui la prassi, comune a quasi tutte le forze politiche, di girare parte dell’indennità al partito. Ma che dire allora di Giancarlo Muzzarelli, sindaco di Modena, che ha regalato all’organismo nazionale quasi 10 mila euro? Altra scuola. Basta guardare quanto fatto dai membri storici del centro sinistra. Gente come Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo e Rosy Bindi: dal 2012 a oggi hanno speso più di 280 mila euro per mantenere la “Ditta”. C’è però anche un’altra particolarità che riguarda il Pd: il partito nazionale conta pochissime donazioni private. C’è ad esempio quella di Patrizio Bertelli, proprietario di Prada insieme alla moglie Miuccia, che nel 2013 ha regalato 100 mila euro. E quella del produttore cinematografico, Aurelio De Laurentis, che l’anno scorso, attraverso la Filmauro, ha staccato un assegno da 50 mila euro (50 li aveva versati al Pdl nel 2013). La maggior parte dei benefattori privati del centro sinistra si annida però in provincia. È lì che gli imprenditori preferiscono versare il loro contributo. Così per esempio nella sezione di Cesena troviamo la donazione di una società del gioco legale, la HippoGroup. Senza dimenticare le elargizioni delle cooperative, rosse e bianche, dei consorzi e delle cliniche private. E i regali ricevuti dai singoli parlamentari. Come Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, che attraverso l’associazione AReS ha ricevuto 17 mila euro dalla British American Tobacco e 7 dalla Cisl. Sindacato oggi impegnato a discutere con il governo la riforma delle pensioni.

Chi invece ha dato poco utilizzando canali ufficiali sono i grillini. Grillo Giuseppe, comitato elezioni europee 2014: 54 mila euro. Un po’ pochini. Beppe e i suoi seguaci, si sa, non copiano i partiti tradizionali. Nei documenti pubblici si contano in tutto poche decine di migliaia di euro di donazioni. Ma allora come fanno i 5 Stelle a finanziarsi? E dove finiscono i soldi di deputati e senatori? Innanzitutto, ricordano dal movimento, abbiamo rinunciato a 42 milioni di rimborsi elettorali. E poi ci sono i soldi versati dai parlamentari in due fondi, il più ricco dei quali è quello dedicato al microcredito per le imprese (22,3 milioni di euro). E la propaganda elettorale? Le varie feste organizzate a Rimini, Roma o Palermo? Un parlamentare grillino che preferisce non essere citato racconta che per questi eventi vengono aperti dei conti correnti sui quali tutti, potenzialmente anche degli imprenditori, possono versare soldi. Un sistema difficilmente tracciabile, insomma. Proprio come per le fondazioni politiche, il grande buco nero del finanziamento ai partiti, che continuano a restare opache grazie alla possibilità di non dover dichiarare l’identità dei donatori. È il caso della misteriosa fondazione “1000 nomi”, che ha versato 100 mila euro all’ex ministro Giulio Tremonti. O della Kairos di Vicenza, quasi 50 mila euro a Alessandra Moretti per le regionale del Veneto.

Tornando alla lista pubblica dei finanziatori della politica, ci si imbatte in un paio di casi particolari. Partiti praticamente inesistenti, ma con entrate rilevanti. Sono le creature personali di Giampiero Samorì e Corrado Passera. Manager di successo che hanno investito alla grande nei propri partiti personali. Senza però aver ottenuto particolare fortuna. Al suo Mir, acronimo di Moderati in rivoluzione, Samorì ha regalato più di 2 milioni di euro in cinque anni. Parecchio, visto lo 0,24 per cento ottenuto alle ultime elezioni. Ha speso più o meno la stessa cifra Passera, ma anche qui sono stati soldi buttati al vento dato che alla fine l’ex ministro ha scelto di appoggiare Stefano Parisi nella corsa a sindaco di Milano.

C’è poi chi finanzia tutti, da destra a sinistra passando per il centro. Categoria variegata. C’è Sergio Scarpellini, immobiliarista sotto processo per corruzione (avrebbe pagato tangenti a Raffaele Marra, ex braccio destro di Virginia Raggi), che negli ultimi dieci anni ha sborsato 222 mila euro per finanziare un po’ tutto l’arco parlamentare, da La Destra di Storace al Pd passando per Verdini e Baccelli. Se le donazioni di Scarpellini si traducono spesso in appartamenti offerti gratuitamente al partito di turno, Gianfranco Librandi punta tutto sui bonifici effettuati dalla sua Tci Telecomunicazioni Italia, azienda del varesotto che produce luci a led. Partito da Forza Italia e approdato nel Pd dopo una parentesi da tesoriere con Scelta Civica, Librandi si è dimostrato trasformista anche nei finanziamenti politici. Per dire: negli ultimi due anni è riuscito nell’impresa di sostenere contemporaneamente Fratelli d’Italia, Pd, Mariastella Gelmini e gli ultimi due candidati-sindaco di Milano, Beppe Sala e Stefano Parisi. Trascende la dicotomia destra-sinistra anche il gigante della carne Cremonini, proprietario delle catene di ristoranti Roadhouse Grill e Chef Express. Negli ultimi dieci anni ha donato circa 120 mila euro: soldi andati a Forza Italia e Ncd, ma anche a due volti noti del centro sinistra come gli ex ministri Cécile Kyenge e Paolo De Castro. Stessa strategia per l’ex presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, che attraverso le sue imprese ha finanziato al contempo il senatore del Pd Nicola Latorre, l’Mpa di Raffaele Lombardo e il Grande Sud di Gianfranco Micciché. Profili nazionali, ma espressioni dei territori dove Zamparini ha investito in progetti commerciali.

I re degli appalti. Portatori di interessi economici concreti sono anche i ras degli appalti. Le cui donazioni, ora che i finanziamenti pubblici sono stati aboliti, rischiano di risultare ancor più cruciali per i partiti. Prendiamo Vito Bonsignore. Partito dalla Dc, passato per il Pdl e approdato oggi al Nuovo centro destra di Alfano, il politico siciliano è titolare della società di ingegneria Mec. L’impresa ha finanziato soprattutto lo stesso Bonsignore, regalandogli 4,5 milioni di euro all’epoca in cui sedeva sui banchi del Parlamento europeo in quota Pdl. Ma dalle casse aziendali sono partiti bonifici diretti anche ad altri parlamentari: 20 mila euro a Fabrizio Cicchitto e altri 20 mila al sottosegretario Ncd Giuseppe Castiglione, mentre ad Angelino Alfano è stato offerto lo spostamento aereo durante la campagna elettorale del 2013 al costo di 8.400 euro. Il metodo Bonsignore funziona. Perché prima o poi l’appalto arriva. Come nel 2010, quando il Cipe - governo Berlusconi in carica - concede il via libera alla superstrada Ragusa-Catania: della cordata di aziende che si aggiudica l’appalto fa parte proprio la Mec.

Anche il gruppo Gavio, interessato al business di strade e autostrade, contribuisce al finanziamento della politica nazionale. Nel 2008 ha elargito 400 mila euro a Forza Italia. Cinque anni più tardi ha regalato 50 mila euro a Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds. Ha speso invece un po’ meno il colosso delle costruzioni Astaldi, in lizza per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Nel 2008 l’azienda ha staccato un assegno da 100 mila euro a Forza Italia. Alle elezioni successive ne ha dati altri 10 mila a Linda Lanzillotta, eletta con Scelta Civica e moglie di Franco Bassanini, all’epoca presidente di Cassa Depositi e Prestiti e dunque potenziale finanziatore dell’opera. Un ruolo da donatore (70 mila euro in totale) se lo è ritagliato anche Gemmo, l’azienda vicentina che ha realizzato le parabole del sistema Muos a Niscemi, in provincia di Caltanissetta. Opera contestatissima. Forse per questo il gruppo veneto nel 2008 ha donato 15 mila euro al Movimento per l’Autonomia dell’allora governatore siciliano Raffaele Lombardo, che tre anni dopo firmerà il via ai lavori.

Alfredo Romeo. Nel balletto dei finanziamenti privati non poteva mancare Alfredo Romeo. L’imprenditore campano, finito di recente al centro del caso Consip, gestisce appalti in tutta Italia. Pubblici, molto spesso. Chi ha finanziato? All’amico Italo Bocchino - che dopo la fallimentare avventura in Futuro e Libertà diventerà suo consulente personale - alle ultime politiche Romeo ha donato 25 mila euro, ma è con il centro sinistra che l’imprenditore si è rivelato più generoso: con la sua Isvafim ha distribuito equamente altri 75 mila tra Nicola Latorre, Massimo Paolucci (ora Mdp) e il Centro democratico di Tabacci.

Tra le cooperative rosse più attive c’è invece la Cpl Concordia. Nei due anni precedenti allo scandalo in cui è finita per presunti accordi con la camorra (a ottobre i vertici sono stati assolti) ha contribuito alla causa del Pd con 53 mila euro: piccole somme suddivise tra Sposetti, l’ex ministra Kyenge, la lista per Ambrosoli presidente della Regione Lombardia e due sezioni locali del partito.

Do ut des. I signori dell’accoglienza-migranti non sono da meno. Anche loro, come i ras degli appalti, vivono di politica. Perché devono mantenere buoni rapporti con chi gestisce flussi e decide strategie. Bastano pochi spiccioli per farlo. La cooperativa La Cascina, area Comunione e Liberazione, ha interessi nel più grande centro per richiedenti asilo, quello siciliano di Mineo. Una gestione messa sotto la lente d’ingrandimento dalla magistratura.

Nell’indagine che ha coinvolto i vertici della coop bianca è rimasto impelagato anche il sottosegretario Giuseppe Castiglione del Nuovo centrodestra, il partito di Alfano e Lupi. E proprio a Lupi nel 2013 arriverà una mancia da 5 mila euro da Salvatore Menolascina, all’epoca amministratore delegato de La Cascina. L’ex ministro ne riceverà altri 5 mila da Camillo Aceto, ras dell’accoglienza con la sua Senis Hospes, ma comunque legato al mondo della coop La Cascina. Senis Hospes ha foraggiato anche il Pdl per un totale di 15 mila euro, mentre la cooperativa vicina a Cl ha distribuito offerte anche a sinistra. Nel 2013 10 mila euro finiranno infatti al “Comitato provvisorio città di Roma” del Pd, che nello stesso periodo registra un’entrata di identico importo dalla cooperativa 29 giugno. Esattamente quella di Salvatore Buzzi, il boss dell’accoglienza condannato nel processo Mafia Capitale.

Cemento, servizi, migranti. E sanità. Tutti settori in cui l’aggancio politico aiuta. Nel caso delle cure private il vero business ruota attorno agli accreditamenti presso le aziende sanitarie locali, garanzia di introiti sicuri. Per questo gli imprenditori della sanità privata dedicano parte del loro budget a sostenere i politici. Tra i più generosi c’è Federfarma, che rappresenta le farmacie private convenzionate con il servizio sanitario. L’Aiop, che raccoglie circa 500 case di cura in tutta Italia. Ma soprattutto Multimedica, colosso lombardo dei poliambulatori privati, che negli ultimi dieci anni ha versato 190 mila euro ai partiti: quasi tutti finiti a Forza Italia, ma anche alla Lega Nord. Proprio i partiti che hanno governato in Lombardia. Ora, con le elezioni regionali in arrivo, l’azienda sanitaria controllata da Daniele Schwarz ha messo una fiche da 15 mila euro su Lombardia Popolare, il nuovo movimento dell’ex ministro Lupi, espressione di Comunione e Liberazione e da sempre sensibile al mondo delle cure private.

Giovanni Arvedi. In classifica non potevano mancare i big dell’industria italiana. Il più generoso è Giovanni Arvedi, fondatore dell’omonimo gruppo siderurgico, che ha concentrato i suoi regali nel 2008, alla vigilia delle elezioni poi vinte da Berlusconi. Attraverso le sue società, l’imprenditore ha donato 300 mila euro a Forza Italia. Scommessa vinta solo a metà. Per diversificare il rischio, infatti, Arvedi ha regalato 200 mila euro anche al Pd Lombardia, dove hanno sede quasi tutti i suoi stabilimenti.

Ancor più variegata la lista dei beneficiari del gruppo Maccaferri. La multinazionale bolognese dell’ingegneria meccanica ha usato una tattica particolare: donazioni piccole, suddivise con estrema imparzialità. Il risultato è che i 200 mila euro investiti da Gaetano Maccaferri, membro di Confindustria e del consiglio superiore della Banca d’Italia, sono finiti in mille rivoli: dal Pd a Renato Brunetta, da Scelta Civica agli autonomisti siciliani di Lombardo. Ha scelto invece una strada opposta l’ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Attraverso Mapei, la sua azienda, l’imprenditore emiliano ha puntato tutto su un unico cavallo. Sbagliato. Squinzi ha infatti investito 60mila euro per finanziare la campagna elettorale a sindaco di Milano di Stefano Parisi, infine sconfitto da Sala.

Dalla Turchia a Cuffaro. Che cosa lega la fedelissima di Berlusconi, Licia Ronzulli, a uno degli uomini più ascoltati dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan? Un bonifico da 20 mila euro datato 2014. La donazione in favore dell’allora europarlamentare di Forza Italia, oggi considerata vicinissima al Cavaliere, è firmata Hasan Cuneyd Zapsu. Imprenditore di successo basato a Istanbul, consulente di gruppi globali come Coca Cola e Rosatom, fondatore del partito turco Akp e consigliere speciale di Erdogan, Zapsu ha un solo legame noto con l’Italia: un ruolo da «senior advisor» per il gruppo Ferrero, quello della Nutella, che proprio nel 2014 ha ottenuto dalla Commissione europea l’ok alla contestata fusione con l’azienda turca Oltan, uno dei principali produttori di nocciole al mondo. Perché Zapsu ha regalato 20mila euro alla Ronzulli? Contattato da L’Espresso, il consulente di Erdogan non ha risposto. La Ronzulli ci ha invece spiegato di conoscere l’imprenditore dal 2012. Tra noi c’è «una buona amicizia», per questo gli ho chiesto «un aiuto per la mia campagna elettorale». C’è un legame con la Ferrero? Nessuno, garantisce l’ex parlamentare, che dice di aver appreso da L’Espresso della consulenza di Zapsu.

Leopolda, boom di incassi per la fondazione Open di Renzi. Mentre il Pd perde donatori. Da quando l'ex sindaco di Firenze è diventato segretario, le elargizioni private ricevute dal partito sono calate di un terzo. Ma sono cresciute quelle al giglio magico. E tra i finanziatori persino fiduciarie dal nome misterioso. Ha chiarito la sua posizione anche Salvatore Cuffaro, beneficiario di una donazione particolare. Nel 2013 il politico siciliano si trova infatti in carcere a Rebibbia. La condanna per favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato Cosa nostra è diventata ormai definitiva. Eppure, proprio quell’anno, secondo i documenti ottenuti da L’Espresso, Cuffaro riceve un versamento di 220 mila euro da Forza Italia. Perché? «È quanto mi dovevano per la campagna elettorale del 2006, quando diventai presidente della Regione», ci ha risposto l’ex governatore siciliano. «L’Udc saldò subito la sua parte. Forza Italia, nel frattempo diventato Pdl, chiuse invece il debito sette anni dopo. Ma io ci tengo a precisare che di quella cifra non ho mai visto un euro, del resto mi trovavo in carcere. I soldi sono serviti a estinguere il debito contratto all’epoca con la banca per la campagna elettorale».

Caso risolto, dunque. Ma Cuffaro, che mastica politica da quando è nato e sa che forma assumono i poteri forti, cosa pensa della fine del finanziamento pubblico? «È stata una garanzia di libertà», dice, «ora il rischio è che i partiti finiscano in mano ai privati. Del resto danno un contributo perché hanno delle speranze, mentre il partito che non ha bisogno di denaro non crea alcuna aspettativa nei privati». Seguendo il ragionamento di Cuffaro, viene da pensare che Giovanni Toti di aspettative ne abbia create parecchie. D’altronde la campagna elettorale dell’attuale presidente della Liguria, scelto da Berlusconi per violare la storica roccaforte della sinistra, è stata lunga e dispendiosa. Per fortuna sono arrivati in suo soccorso un po’ di denari privati. Certo, da un pezzo grosso dell’imprenditoria come Aldo Spinelli - ex patron del Genoa e del Livorno - c’era da aspettarsi qualcosa in più dei 15 mila euro donati. Ma tant’è. L’aiuto simbolico è comunque servito: dopo l’elezione di Toti, Spinelli ha acquistato insieme a Msc il Terminal Rinfuse di Genova. La maggior parte delle donazioni per Toti sono però arrivate dalla Fondazione Change: impossibile dunque conoscere l’origine del denaro. Tra i pochi ad aver fatto bonifici diretti c’è l’imprenditore Giovanni Calabrò, sponsorizzato dallo stesso Toti per l’acquisto del Genoa calcio. Non proprio una mossa felice, visto che quest’anno la Cassazione ha condannato Calabrò a sei anni per bancarotta.

Meloni e mattoni. «C’è l’Italia colpevole di Angiola Armellini, che non paga di ereditare un impero senza aver fatto nulla, nasconde due miliardi di euro al fisco». Parola di Giorgia Meloni, che durante la campagna elettorale per diventare sindaco di Roma descriveva così la grande ereditiera da sempre in affari con il Comune capitolino (incassava più di 4 milioni all’anno per l’affitto di suoi appartamenti usati come case popolari). I documenti analizzati da L’Espresso permettono di raccontare un inedito retroscena sul rapporto tra la Meloni e la donna accusata di evasione fiscale. La leader di Fratelli d’Italia ha infatti ricevuto donazioni da quattro società che fanno capo alla Armellini, per un totale di 20 mila euro. Spiccioli- ma sempre ben accetti- per “lady no tax”, che col mattone ha guadagnato miliardi. Ai quali si aggiunge una mancetta dei costruttori romani, i Mezzaroma. Una donazione da 1.500 euro attraverso una società del gruppo. Imprenditori che hanno sempre avuto simpatie per la destra: nel 2010 hanno versato 100 mila euro al partito di Berlusconi, nel quale la Meloni era ministro. Tra i finanziatori della leader di destra alle elezioni comunali - 210 mila euro in totale - c’è anche la società Corallobeach. Il titolare è Claudio Balini, ras dei lidi del litorale e parente di Mauro Balini, a cui la magistratura ha sequestrato beni per 50 milioni di euro. Mauro Balini, per gli investigatori, ha legami con la malavita locale. Insomma, pecunia non olet. Neppure per l’erede di Almirante.

"Trasparenza su chi finanzia i blog". Il Pd vuol cancellare Grillo dal web. Proposta di Anzaldi per stanare i conflitti d'interesse del M5s, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 04/12/2017 su "Il Giornale". Il blog di Beppe Grillo torna nel mirino del Pd. Questa volta sotto forma di una proposta di legge depositata dal mastino renziano con delega alle comunicazioni, il deputato Michele Anzaldi. Nella bozza di legge dal titolo «Disposizioni in materia di conoscibilità degli assetti proprietari e dei soggetti finanziatori dei siti internet», il nome del blog del leader M5s non viene mai menzionato, ma l'obiettivo è chiaramente lui. Il grimaldello usato per colpire il blog beppegrillo.it ruota attorno alla richiesta di totale trasparenza del sito internet, un dogma grillino la trasparenza però totalmente assente dal blog che ha dato forma al movimento. Per esplicita ammissione dello stesso comico che dopo aver rivendicato nel 2012 la piena titolarità del blog, di fronte alla recente denuncia del tesoriere Pd Francesco Bonifazi («dietro il blog ci sono aspetti fiscali tutti da chiarire») ha smentito tutto, asserendo sostanzialmente che Beppe Grillo non è responsabile del blog di Beppe Grillo («Grillo non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog tanto meno su ciò che ivi viene postata»). Insomma non è chiaro chi diriga il blog, chi ne sia responsabile, chi lo finanzi, quanti introiti generi, chi ci collabori, se esistano potenziali conflitti di interesse tra Grillo, la Casaleggio associati che lo gestisce e le materie di cui si occupano i parlamentari pentastellati. Non si sa nulla, pur essendo di fatto l'organo di uno dei principali movimenti politici italiani. E proprio su questo interviene la proposta di legge targata Pd. Nel testo, ora depositato presso la presidenza della Camera per l'assegnazione alla commissione di merito, si propone di regolamentare i siti o blog che «raccolgano pubblicità o finanziamenti superiori a 100.000 euro», una cifra che il blog di Grillo supera ampiamente (dalle stime ufficiose, perché i dati ufficiali non vengono comunicati). Questa categoria di siti devono essere oggetti degli stessi obblighi che valgono per carta stampata e tv, ovvero l'iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC), che «ha le finalità di garantire la trasparenza e la pubblicità degli assetti proprietari, la tutela del pluralismo informativo e il rispetto dei limiti previsti per le partecipazioni di società estere». Cioè un identikit completo, e obbligatorio per legge, del blog di Grillo, così «da consentire a ogni utente di disporre di informazioni aggiornate e facilmente accessibili su chi sia l'effettivo titolare, proprietario e finanziatore, anche per interposta persona», così da «valutare l'attendibilità delle informazioni veicolate, oltre che la sussistenza di eventuali conflitti di interesse». Grillo sarebbe un problema? «Con questa legge se rifiutasse di rendere il suo blog completamente trasparente, sarebbe costretto a chiuderlo ci spiega Anzaldi - Ma visto che si discute di fake news, sarebbe utile anche per lui sapere chi c'è dietro un finanziamento, magari la Russia, o qualunque altro finanziatore interessato. Ricordo che il M5s in questi giorni sta facendo degli incontri coi grandi fondi di investimento...». Per fortuna di Grillo, la legislatura è al termine il tempo corre, anche per la legge anti-blog di Grillo.

Da dove prende i soldi per fare politica il M5S. Formalmente il Movimento 5 Stelle rinuncia ai contributi di Stato, come nel caso dei 42 milioni dei rimborsi pubblici. Ma ha creato un sistema di introiti pulviscolari pieni di anonimi, sigle, voci opache e fittizie spesso difficili da ricostruire, scrive Susanna Turco il 27 novembre 2017 su "L'Espresso". L’altra volta, aprile 2013, Beppe Grillo se la cavò con un post: abbiamo raccolto 774 mila euro, ne abbiamo spesi 348 mila, il restante andrà ai terremotati dell’Emilia, saluti e ringraziamenti. A occhio, nella prossima campagna elettorale, sventolare il vessillo della casa di vetro non sarà altrettanto semplice. Troppe cose sono cambiate: l’M5S non è più un movimento di sconosciuti, ciascun ex pulcino vorrà coltivare il proprio orto per essere rieletto. Serviranno più soldi, ci saranno più rivoli, e il meccanismo di auto-finanziamento che nel frattempo è stato costruito si rivelerà per quel che è: un impasto colloso. Trasparente nei dettagli, opaco nel suo complesso. Tutto sommato e per paradosso, M5S è all’avanguardia su questo: gestione dei soldi e manipolazione del consenso sui social. Due fronti che i Cinque stelle sono arrivati a maneggiare prima e meglio di altri, dando ad entrambi lo stesso indecifrabile marchio di vischiosa sineddoche: te ne mostro una parte, e la spaccio per il tutto. Onestà! Per quel che riguarda il denaro, in effetti, i Cinque stelle hanno anticipato i tempi, rinunciando al finanziamento pubblico prima che venisse abolito, cioè a “42 milioni di euro” come amano ripetere ovunque. Non accedono al meccanismo che l’ha sostituito, il due per mille. Ufficialmente, tutt’oggi dicono di non volere soldi pubblici. Eppure ormai non è più così. Rinunciare a quegli introiti ha portato ad attivare altri meccanismi. Non è politica a costo zero. I soldi servono, anche al M5S. Ma da dove vengono, dove vanno, come sono conteggiati? Si può rispondere solo a una parte di queste domande. Le entrate sono svariate, a partire dalle sottoscrizioni per singoli eventi, ma per grandi linee: ci sono quelli raccolti dall’Associazione Rousseau; i contributi ai gruppi di Camera e Senato; gli stipendi dei parlamentari; le sottoscrizioni per singoli eventi, come la kermesse annuale; e quelli - ma quest’ultimo è più un postulato che un numero - che provengono dall’intreccio blog-rete-Casaleggio Associati, e che danno luogo a una domanda tanto frequente quanto inevasa: gli introiti per la pubblicità per i link che rimandano al sito beppegrillo.it che fine fanno? Lo chiese pure l’amata Milena Gabanelli, nel lontano 2013, ottenendo come risposta un laconico e offeso “non vanno a finanziare M5S”. Nel complesso, chi se ne intende per aver frequentato a lungo il Movimento, parla di “polverizzazione” delle entrate. Come a dire che i soldi sono diventati una polvere di stelle, frazionata, inintercettabile. Un esempio, locale ma emblematico. Per la corsa al Campidoglio, Virginia Raggi nel 2016 ha raccolto circa 225 mila euro. Ma ne ha dichiarato la provenienza solo per un terzo, 70 mila euro, trincerandosi per il resto dietro la privacy che copre i contributi di privati sotto i 5 mila euro. Cioè non si potrà mai dire chi l’ha finanziata. La tendenza Raggi fa scuola. L’Associazione Rousseau, il sistema di interfaccia tra eletti e militanti di cui Davide Casaleggio è presidente e amministratore unico dichiara circa 485 mila euro di fund raising, e pubblica anche la lista dei circa 16 mila donatori. Ma sono anonimi: a sfogliarla, ci si trova davanti a ben 373 surreali pagine di iniziali. Si parte da “A. A.” e si arriva a “Z.W.”. Non propriamente un inno alla trasparenza. Dal rendiconto 2016 sempre Rousseau (+ 76 mila euro) vien fuori che 30 mila euro provengono da “soggetti esteri”: 8.500 li ha messi Filippo Pittarello, responsabile comunicazione M5S al Parlamento europeo ed ex dipendente della Casaleggio Associati; gli altri 22 mila risultano come “contributi ricevuti dall’estero da altre persone fisiche”, senza ulteriori precisazioni. Si obietterà che sono 22 mila euro, mica miliardi: ecco, proprio in casi come questi, che sono svariati, sta la “polverizzazione” opaca. Anche nella campagna 2013, del resto, Grillo finì per dichiarare soltanto alcune spese, e per di più in modo generico (esempio: 140 mila euro per consulenze legale/tributaria, senza chiarire a chi erano andati i soldi). Fornì, soprattutto, un rendiconto parziale che, come ha sottolineato all’epoca l’associazione Casa della Legalità di Genova, non tenendo conto di entrate e uscite al livello locale per sostenere le 87 tappe dello Tsunami Tour: l’affitto e il montaggio dei palchi, l’elettricità, la Siae eccetera. Il tutto moltiplicato per quasi cento incontri. Non pochi soldi. Nel resoconto sul blog, fu specificato solo il costo del palco montato a Piazza San Giovanni a Roma: 50 mila euro. Per il resto, Grillo ringraziò chi aveva fornito gratis l’attrezzatura: ma non sempre era stata gratis. E anzi più di un neo-eletto rimase sbigottito nello scoprire - solo allora - che non avrebbe riavuto indietro i soldi prestati per mettere in piedi questa o quella serata. Del resto, neanche le attrezzature acquistate per gli streaming sono entrate poi a disposizione degli eletti per svolgere la comunicazione a Palazzo. Agli atti rimase invece quella cifra, 348 mila euro dei quali anche Gianroberto Casaleggio poté vantarsi nel suo intervento a Cernobbio nel 2013. Quando portò M5S ad esempio dimostrando che nel rapporto tra soldi raccolti e voti presi era stato virtuosissimo: “4 centesimi a voto” contro i “4,87 euro” di un partito tradizionale. Per concludere: «I partiti hanno ricevuto più di 100 volte la spesa sostenuta dal M5S Stelle per partecipare alle elezioni». La cifra di riferimento era però quella dimagrita, non quella totale. La versione ufficiale non arrivava a misurare la realtà che ne è rimasta fuori. Nello stesso modo, sul sito tirendiconto.it campeggia il counter con i versamenti fatti dai 123 parlamentari M5S in favore dei fondi per il microcredito: «Ad oggi abbiamo restituito 24.014.613,22 euro». Quel che non c’è scritto è però che vengono ormai disattese almeno due regole volute da Grillo e Casaleggio: il tetto di tremila euro che ciascun parlamentare poteva tenere per sé; il divieto a finanziare attività politica nei territori. Di fatto, spendendo gli 8-10 mila euro di rimborsi cui ogni parlamentare ha diritto, c’è chi paga i propri collaboratori come Roberta Lombardi, e chi «eventi legati al territorio come Luigi Di Maio. Anzi, il candidato premier del M5S in tre anni ha totalizzato 108 mila euro di spese “territoriali”, per poi specificare trattarsi di “una dicitura fittizia”. Ed ecco il sistema colloso. Non è difficile ipotizzare che a breve tutte queste “diciture fittizie” potrebbero sostenere la campagna elettorale. Si pensa male? Il fatto è che la consuetudine col Palazzo ha portato ad aggirare i proclami sulla politica a zero euro. Caso lampante: si è rinunciato a 42 milioni di euro, ma via gruppi parlamentari in una legislatura i Cinque stelle ne hanno incassati comunque 31 (3,8 alla Camera, 2,5 al Senato, media annua). Al gruppo M5S di Montecitorio si è registrata nel 2016 una impennata di spese per la comunicazione: + 375 per cento, per un totale di 522 mila euro (più della campagna elettorale 2013). È invece diminuita la quota dedicata alle consulenze per l’ufficio legislativo. Meno leggi, più video. Sempre a Montecitorio, vi sono fatture mensili dal totale fisso di quasi 15 mila euro, indirizzate alla comunicazione/web, ma senza che vi sia modo di sapere a chi sono destinate (per legge si può omettere). E, dei 3,8 milioni di trasferimenti del 2016, ben 354 mila sono andati a finanziare la causa del no al referendum costituzionale, mentre 35 mila circa sono finiti come contributo alla festa annuale del Movimento. D’altronde, da dove dovrebbe prendere i soldi il Movimento? Anche la Casaleggio Associati ha problemi economici. Il che rende ancor più fitto il mistero. Per il terzo anno consecutivo, infatti, la società fondata dal guru ha chiuso i conti in rosso (-48 mila), con un bilancio che nemmeno questa volta chiarisce snodi essenziali: quanto rendano gli intrecci politico-finanziari con il partito, se tra i ricavi ci sia anche la pubblicità, e se il Movimento paghi per il supporto che riceve. Buio fitto. Come del resto nel complesso sistema di siti, banner e scatole cinesi che fa del sistema M5S-Casaleggio una cyber costellazione dagli intrecci davvero sfuggenti. Ma questa è un’altra storia.

L’IPOCRISIA DEL VAFFANCULO…

A DIECI ANNI DA QUEL "Vaffa" CHE LE TV VOLEVANO IGNORARE. Di Marco Travaglio del 6 Settembre 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. Dieci anni fa, l'8 settembre 2007, Beppe Grillo lanciava a Bologna il primo "V-Day". La "V" era presa a prestito dal film V per vendetta, ma anche dall'iniziale del Vaffanculo con cui amorevolmente accompagnava i nomi dei 24 parlamentari pregiudicati. Ieri, nel ricordare l'anniversario, un povero smemoratello di Repubblica ha scritto che quel giorno "ha cambiato la politica italiana", ovviamente "in peggio". Perché "inaugurò l'era dell'insulto permanente": prima invece la politica era roba per educande; poi calarono i barbari e fu la fine. Non s'è accorto, il pover'uomo, di tante cose accadute da allora a oggi. Nemmeno del paradosso grillino: i predatori hanno leggermente migliorato la specie predata. Costringendo i partiti a risparmiarci qualcuna delle tante indecenze che avevano in serbo: non perché siano diventati virtuosi, ma perché "se no vince Grillo". Senza quel V-Day, non avremmo avuto la legge Severino del 2012: B. sarebbe ancora senatore e potrebbe ricandidarsi per la settima volta alla presidenza del Consiglio. Anche i piccolissimi tagli ai costi e ai privilegi della Casta (titolo del best seller di Stella e Rizzo uscito proprio nel 2007) non avrebbero mai visto la luce, se Grillo e i suoi ragazzi non avessero fatto una bandiera della sobrietà, della democrazia dal basso e della politica senza soldi. La fine del finanziamento pubblico ai partiti (almeno nelle sue oscene forme dirette) è figlia di quella stagione. Così come le vittorie democratiche nei referendum del 2011 su nucleare, lodo Alfano e acqua pubblica e del 2016 sulla Costituzione. Al V-Day io c'ero, a parlare di legalità, senza neppure immaginare gli sviluppi di quel movimento nascente. Ma nemmeno Grillo e Gianroberto Casaleggio avevano in mente un partito. Il V-Day era l'estrema conseguenza dello sdegno sfogato da Grillo in anni di spettacoli, già pienamente politici, anche a sua insaputa: energie alternative, nuove politiche dei rifiuti, ambientalismo spinto, crac bancari (quello della Parmalat l'aveva anticipato lui d'un paio d'anni), invettive contro malapolitica, malafinanza, malainformazione. Comico e "difensore civico". Tutt'altro che anti-sistema: sperava ancora di indurre il sistema, a calci in culo, ad autoriformarsi. Nell'estate 2007, sul suo blog (nato nel 2005, uno dei più letti al mondo), lanciò le primarie programmatiche online, discusse per otto mesi da 800 mila persone su proposte di insigni esperti (anche il Nobel Joseph Stiglitz). Poi andò dal premier Romano Prodi a consegnargli il dossier finale: energie rinnovabili, wi-fi gratis, rifiuti e cemento zero. Il Prof lo ascoltò per qualche minuto, sprofondato nel divano di Palazzo Chigi, poi socchiuse gli occhi. "Mi stavo solo concentrando", disse poi. "Encefalite letargica", sentenziò Beppe. L'8 settembre, ricorrenza del tragico armistizio, ecco il V-Day. Sottotitolo: "Parlamento pulito". Almeno 100 mila persone in piazza Maggiore, più dieci volte tante collegate da altre 200 piazze. Sul palco giornalisti, scrittori, artisti, docenti. Sotto, gli attivisti dei Meetup raccolgono firme su tre leggi di iniziativa popolare: incandidabilità dei condannati in Parlamento, tetto massimo di due legislature, abolizione del Porcellum per tornare a scegliere deputati e senatori. In mezza giornata, 350 mila adesioni. Una cosetta da niente, infatti i tg Rai, Mediaset e La7 non mandano una sola telecamera né un inviato (ci sono solo i cameramen di Sky e di Annozero). Basta non parlarne e il V-Day non esiste. Le agenzie di stampa inventano "attacchi", "insulti", "offese a Marco Biagi", anche se in dieci ore nessuno l'ha mai citato. Si è solo criticata in un filmato la legge 30 perché aumenta il precariato. Il Tg1 delle 20 diretto da Gianni Riotta non inserisce neppure il V-Day nei titoli, e gli dedica 29 secondi da studio: "S'è svolto a Bologna e in altre città italiane il Vaffa Day del popolare comico genovese...". Il direttore del Tg2 Mauro Mazza (quota An) legge un editoriale dal titolo "Grillo e grilletti". E col volto terreo, come se fossero tornate le Br, ammonisce Grillo col gesto della pistola: "Che accadrebbe se qualcuno, ascoltati gli insulti di Grillo, premesse il grilletto?". Peccato che Grillo non abbia mai evocato né pistole né fucili, diversamente da Bossi. La stampa intuisce subito la minaccia incombente per i poteri marci e scatena i suoi esperti, quelli che capiscono sempre tutto: Grillo è "antipolitico", "qualunquista", "populista", "giustizialista", "fascista", "terrorista" e soprattutto "volgare". Montezemolo alza il ditino ammonitore: "A risolvere i problemi dell'Italia con i vaffanculo non ci credo". Eugenio Scalfari, su Repubblica, scomunica il movimento grillino come fenomeno "anarcoide e individualista", "anacronistico", "antipolitico": "invasioni barbariche... del law & order nei suoi aspetti più ripugnanti; ci vedo dietro la dittatura... slogan della peggiore destra, quella populista, demagogica, qualunquista... piazza pulita per il futuro dittatore". Andrea Romano, dalemiano dell'Einaudi di B. e della Stampa di Agnelli, non ancora evolutosi in deputato montiano e poi renziano, trova che in un Paese normale il V-Day "verrebbe recensito nelle pagine dello spettacolo". Riotta si rifà con uno Speciale Tv7. "Ora vediamo chi è davvero Grillo", dice lanciando un servizio-scoop: a una festa dell'Unità del 1981, il comico pretese addirittura che gli pagassero il cachet, tanto perché sia chiaro che "non esistono vergini". Le indagini del Tg1 sui crimini di Grillo proseguono senza sosta nei giorni seguenti: i segugi di Riotta scoprono addirittura che, fra i 3 mila commenti giornalieri sul blog, ce n'è uno negazionista e filonazista (subito cancellato). Intanto le tre leggi popolari vengono imboscate in un cassetto del Senato e lì riposeranno in pace per sempre, nonostante una tragicomica convocazione di Grillo davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato. Il 25 aprile 2008, secondo V-Day, stavolta a Torino, dedicato alla malainformazione. In piazza San Carlo 100 mila persone, più altri 2 milioni collegati da tutta Italia. Oltre 500 mila firme raccolte su tre quesiti referendari per abolire l'Ordine dei giornalisti, la legge Gasparri e i finanziamenti pubblici ai giornali. Grillo si appella al Pd: "Copiate il nostro programma, ve lo regalo". Ma la risposta di partiti e giornali al seguito è sempre la stessa: fascista, qualunquista, antipolitico, volgare. Nell'estate 2009 Grillo si iscrive alla sezione del Pd di Arzachena per correre alle primarie e diventare segretario. Piero Fassino, ultimo leader Ds, gli nega l'accesso perché è "ostile" e lo sfida a farsi un partito. Di lì a poco verrà accontentato: la prima di una serie di brillanti profezie. "Se Prodi e Veltroni - ci dirà Casaleggio pochi mesi prima di morire - avessero accolto le nostre proposte, avrebbero dato la svolta al Pd e al sistema politico e il M5S non sarebbe mai nato. Ma dopo i due V-Day i giornali, soprattutto di sinistra, ci trattarono come una via di mezzo fra dei mangiatori di bambini e una setta satanica. E così raccogliemmo la sfida che ci aveva lanciato, pensando di prenderci in giro, Fassino. E fondammo il Movimento 5 Stelle". Che, dopo 10 anni e 8,5 milioni di voti, per chi non vuol vedere né sentire, è ancora una parolaccia.

Il tramonto del vaffa che fu, rivoluzione lessicale a 5 stelle. Ma la base? Non si torna indietro nei fatti e neanche nel lessico: adesso che è “svolta epocale” (copyright Beppe Grillo) come fare? la natura di “movimento del vaffa” non è facilmente inscatolabile dall’oggi al domani. Problematiche, scrive Marianna Rizzini il 21 Giugno 2016 su “Il Foglio”. “La descrizione di un attimo”, diceva la canzone dei Tiromancino, ed è dalla sera della presa del potere romano e torinese che, con parole diverse, i Cinque stelle e i non Cinque stelle provano a descriverlo, l’attimo da cui non si può tornare indietro: o vai di qua (consolidamento e istituzionalizzazione) o vai di là (inseguimento della pancia del web e movimentismo a oltranza, anche a costo dell’inconcludenza). Non si torna indietro nei fatti e neanche nel lessico: se fino a qui la memoria delle scatole di tonno, dei redditometri, dei giorni del giudizio, degli zombie, delle scie chimiche e dei Bilderberg poteva convivere, nei discorsi e nei post a cinque stelle, con i toni assennati (addomesticati?) di Luigi Di Maio, adesso che è “svolta epocale” (copyright Beppe Grillo), l’intendenza deve conformarsi al tramonto del vaffa che fu. Primo problema: come far combaciare immagine e sostanza, un’immagine che si vorrebbe ancora rivoluzionaria e una sostanza che si vorrebbe far già percepire al cittadino come non minacciosa e vagamente ecumenica. Ed è nell’anticamera della “svolta epocale” che si annida la metamorfosi dell’eloquio. Imbattersi in un discorso a cinque stelle la sera della vittoria, a Torino come a Roma, infatti, voleva dire imbattersi in un’uniformità quasi millimetrica di adeguamento lessicale all’abito “alternativa di governo”, e in espressioni di edulcorata combattività di parlamentari e neo sindaci, peraltro diversissimi tra loro (come il neo sindaco di Torino Chiara Appendino, il neo sindaco di Roma Virginia Raggi e il deputato e membro del Direttorio Alessandro Di Battista). Ed era tutto un pensare a come “ricucire” i tessuti sociali delle città prese in carico, a come salvaguardare i “bene comuni” (che tanto piacciono anche alle sinistre di area “Rodotà-tà-tà” e di credo antirenziano); tutto un dire e dirsi, alla maniera del nonno di famiglia, che “chi semina raccoglie” e chi raccoglie ora inizia “a lavorare”. Di più: chi lavora è “pronto” a “governare” anche in nome “degli altri”, quelli che i Cinque stelle non li hanno votati. E pazienza se all’uniformità di lessico non corrispondeva l’uniformità di toni (c’era infatti un mondo tra il “tutti noi siamo Torino” di Chiara Appendino, detto con cortesia sabauda e onore delle armi all’ex sindaco e avversario Piero Fassino, e il più ombroso “sarò il sindaco di tutti” di Virginia Raggi, detto con accenno non proprio distensivo al voler “mettere un punto” alle polemiche della vigilia). E quando un Di Battista serafico si affacciava dagli schermi de La7 per promettere che il M5s mai avrebbe “tradito la fiducia” accordata dall’elettorato e per parlare dell’“umiltà” necessaria al compito (umiltà finora poco praticata nel frasario politico a cinque stelle), la descrizione dell’attimo virava verso la sanzione ufficiale del cambio di marcia. E però la natura di “movimento del vaffa” non è facilmente inscatolabile dall’oggi al domani. Accadeva così, nelle piazze festeggianti, che gli slogan continuassero a descrivere l’attimo passato: quello del M5s che dice “tutti a casa” con ancoraggio-ossessione al grido “onestà, onestà”. Hai voglia a mostrare, come faceva Appendino, lo stile ingentilito del vincitore: la piazza in tripudio era ancora settata sulla modalità “o noi o loro”. E il senatore piemontese Alberto Airola, intervistato da La7, dimenticava per un attimo di essere nella “nuova èra” di cui intanto Raggi parlava a Roma, e si lasciava andare alla sottolineatura non ancora ammorbidita del “momento storico” nella “roccaforte” torinese, espugnata da “giovani ragazzi liberi” informatisi in rete nonostante la presenza di “media piegati al regime” – e tanto appariva vintage l’enfasi di Airola, dal punto di vista della nuova immagine a cinque stelle, che il direttore del Tg7 Enrico Mentana faceva notare che i casi Appendino e Raggi non erano “un 25 aprile”, ma una vittoria alle elezioni. Ma il senatore, come molti dei militanti in strada, era già parso fuori sincrono rispetto al vertice (direttorio e neoletti), sintonizzato ormai sull’esigenza di calmierare gli eccessi di veemenza movimentista. Ha cominciato Beppe Grillo: ex comico rifattosi comico (ritorno in teatro) con tanto di “passo di lato” (solo “garante” del M5s), e da ieri anche profeta dell’ascesa al governo, ma senza le truculenze che avevano reso “tsunami” la sua campagna elettorale 2013: ieri Grillo, casaleggianamente parlando, alludeva alla “meravigliosa missione impossibile” compiuta, e il “tutti a casa” d’antan prendeva la forma di un più comprensivo “costringeremo i nostri avversari a diventare persone perbene”.

Figa per tutti. Piano segreto grillino: disavanzo al 7 per cento per dieci anni, stipendio e lavoro statale a tutti. Renzi fuori gioco. Imbarazzo del Cavaliere, scrive Giuseppe Turani il 3 settembre 2017. Non si sa ridere o piangere. Ma forse conviene ridere. Si è capito quale è il piano segreto dei grillini per mantenere, caso mai dovessero davvero arrivare al governo con l’aiuto di Salvini e di Bersani, le loro mirabolanti promesse. E’ un piano semplicissimo, elementare e che non può fallire. Si tratta di portare il disavanzo pubblico annuale non al 2,9 per cento, come propone Renzi, ma a più del doppio, cioè al 7 per cento. E non per cinque, ma per dieci anni. Basta fare due conti per capire che si va oltre i mille miliardi di nuovi debiti, da aggiungere ai 2 mila e 200 che già abbiamo. Si va, in sostanza, oltre i tre mila miliardi di debiti. Ammesso che si trovi qualcuno che li finanzi. Ma che cosa ci faranno con tutti questi soldi, presi a debito? Due cose:

1- Intanto esaudiranno la loro grande promessa: il reddito di cittadinanza, uno stipendio per tutti, fine del lavoro. Paga lo Stato (con i soldi altrui);

2- Uno Stato socialista. Lo Stato farà tanti investimenti, soprattutto in nuove tecnologie e darà lavoro a tutti, inutilmente, visto che tuti avranno già il reddito di cittadinanza. Ma da gente che crede nelle sirene e nei matrimoni fra specie diverse queste sottigliezze non contano.

Di fatto, nell’universo grillino, saremo tutti due volte statali. La prima perché lo Stato ci passerà il reddito di cittadinanza.   La seconda perché, chi vorrà, avrà un impiego in un impianto pubblico (finanziato sempre con debiti, come il reddito da cittadinanza). Renzi, con la sua proposta di un disavanzo del 2,9 per cento per cinque anni a questo punto fa la figura del pitocco e forse gli conviene farsi da patte. In campo c’è gente che è già molto più avanti. Non si capisce che cosa potrà inventare, allora, Berlusconi, di solito primatista in fatto di promesse. Suv Cayenne e figa per tutti? Tre mesi alle Maldive? Una villa in Sardegna?

Smart (o la nation del post-vaffa). In una parola, scrive Alberto Leiss il 4.9.2017 su "Il Manifesto". «La parola smart è oggi tra le più in voga nel mondo del lavoro. Come spesso accade, si tratta di un prestito dalla lingua inglese. Nello specifico, si tratta di un aggettivo che può essere tradotto in rapido, veloce, abile, acuto, brillante, sveglio, intelligente, ma anche alla moda ed elegante». Ho copincollato questo capoverso dal sito Leonardo.it, il primo che mi si è aperto tra i molti digitando la parola smart. Ho trovato altri significati un po’ meno positivi: un signorino «in ghingheri», o anche che «si crede molto furbo», se riferito a un tipo umano (esempio dal dizionario Garzanti on-line). Smart sono anche quelle macchinette molto piccole ma piuttosto lussuose, che riescono a posteggiarsi di traverso dentro le strisce dei parcheggi. Scagli la prima pietra chi non ha provato sentimenti di rancore e di invidia, specialmente se al volante di vecchia city-car un po’ scassata ma maledettamente più ingombrante nella metropoli congestionata dalle doppie file. Senza dire poi di quando una Smart ti sbuca da destra e ti taglia la strada sgommando e sorpassando come fosse una motocicletta. Il golden-boy dei 5stelle ha detto tra i manager incravattati di Cernobbio che lui e il suo movimento vogliono che l’Italia «diventi una smart nation, cioè un paese più efficiente, più veloce, che si basa sull’innovazione e sullo sviluppo tecnologico». Cosa che presuppone la collaborazione «con i portatori di interesse». E chi saranno mai? Non sarà ognuno di noi e di voi a nutrire qualche legittimo (o anche illegittimo) interesse? Ecco perché il giovane Di Maio ha suscitato in me una certa antipatia linguistica. Come qualcuno che ti supera sulla destra e ti frega il posteggio. Intendiamoci, è altamente positivo che egli indichi come modelli i «Paesi del Nord Europa» e rinneghi i recenti furori anti Euro e anti Europa. Ma come fidarsi di chi poco fa – e forse anche adesso in contesti meno incravattati – inneggiava ai vaffa… del suo capo? Quando Emanuele Buzzi sul Corriere della sera gli domanda con quale squadra di governo intenderebbe operare in caso di vittoria la risposta è, all’osso, «vi sorprenderemo». Io la leggo come una minaccia. In ogni caso, ammesso e non concesso che sia desiderabile vivere in una smart nation, l’Italia sembra ancora molto lontana dal presentarsi come un paese brillante e in ghingheri. Sfogliando lo stesso quotidiano ci si imbatte nelle cronache sulle vite dei giovani figli di immigrati arrestati per gli orribili stupri di Rimini. Dice la madre dei due fratelli minorenni che si sono costituiti: «Hanno lasciato la scuola e i libri, per pensare solo a scarpe e vestiti, a bere e fumare… Ma non erano così». Verrebbe la tentazione di chiedersi: volevano essere almeno un po’ smart? L’orrore continua voltando pagina, dove si narra dell’uomo ucciso di botte dai buttafuori di una discoteca. Degli autori del pestaggio non viene menzionata la nazionalità o il colore della pelle, ma il fatto che lavorano per una società di security di Ostia. (Security starebbe per sicurezza). La vittima invece è un imprenditore cinquantenne, nato a Catania ma residente a Roma. Era forse un «portatore di interesse». I testimoni, tra cui il titolare della discoteca, dicono che stava per nascere una rissa con un altro uomo perché sarebbe stata importunata una donna. «Era uno che dava fastidio alle donne», si afferma con poco riguardo per la persona trascinata a forza fuori dal locale e picchiata senza pietà. Sembra prevalere il marchio made in Italy. Mi accontenterei di un paese un po’ più umano.

Cinque Stelle, un vaffanculo lungo dieci anni. L’8 settembre 2007 Beppe Grillo lanciava a Bologna il V-Day. Da quell’esperienza è nato il Movimento Cinque Stelle, fenomeno particolarissimo che ha trasformato per sempre la politica italiana. La lunga metamorfosi da movimento antisistema a partito che aspira al governo, scrivono Marco Sarti ed Alessandro Franzi su “L’Inkiesta” il 5 Settembre 2017. Potevano continuare a chiamarlo comico, come avevano sempre fatto. Al massimo spingersi a definirlo blogger, perché all’epoca andava di moda così. Ma che Beppe Grillo potesse diventare anche uno dei principali leader politici del Paese, in pochi potevano immaginarselo. Almeno fino a quando non è salito su quel canotto arancione in Piazza Maggiore, a Bologna, sospinto dalle mani dei cinquantamila sostenitori arrivati da tutta Italia per urlare il loro vaffanculo al nemico, la casta. Dieci anni. Sono passati esattamente dieci anni dal V-Day che l'8 settembre del 2007 ha anticipato la nascita del Movimento 5 Stelle. Un movimento di irregolari uniti dal web, poi dalla voglia di cambiare il Paese, quindi dalle piazze e, infine, dalle urne. Un decennio più tardi i Cinque Stelle sono diventati un movimento di massa. Raccolgono milioni di voti, contano 123 fra deputati e senatori, i sindaci di Roma e di Torino. E a fine settembre esprimeranno anche un candidato premier, puntando per la prima volta a Palazzo Chigi.

«Prima di quel V-Day, i grillini erano totalmente ignorati, il giorno dopo tutti sapevano che potevano riempire le piazze», ricorda Roberto Biorcio, sociologo che ha studiato la cavalcata dei 5 Stelle nella politica italiana. Era proprio così. Convinto che si trattasse di un fenomeno passeggero, in quei giorni Eugenio Scalfari scriveva su Repubblica: «La forma, specie nella vita pubblica, è sostanza, e chi inneggia al “vaffanculo” partecipa consapevolmente a quelle invasioni barbariche che connotano gran parte della nostra mediocre e inselvaggita attualità». Quello che stava succedendo era qualcosa di nuovo e inspiegabile per molti osservatori. Una rivoluzione, comunque la si pensi, che ha cambiato la politica italiana. «Quel giorno - continua Biorcio - i Cinque Stelle raccoglievano firme per reintrodurre le preferenze, introdurre un limite a due mandati e impedire che i condannati sedessero in Parlamento. Progressivamente questi sono diventati temi inseguiti da tutti i partiti, almeno a parole». Quell’8 settembre Grillo e i suoi raccolsero più di 300mile firme. Ma forse neppure loro si immaginavano la reale portata di quell’iniziativa. «Dare voce al malcontento dei cittadini nei confronti della politica, utilizzando le parole e il modo di pensare della gente comune - continua Biorcio - ha trasformato il M5S in un partito che ha messo fine al bipolarismo e alla tradizionale alternanza fra centrodestra e centrosinistra».

Esattamente dieci anni fa Bologna ospitava il V-Day. Quello che stava succedendo era qualcosa di nuovo e inspiegabile per molti osservatori. Una rivoluzione, comunque la si pensi, che ha cambiato per sempre la politica italiana. Quell’8 settembre Grillo e i suoi raccolsero più di 300mile firme. Ma forse neppure loro si immaginavano la reale portata di quell’iniziativa. Dieci anni dopo è già tempo di bilanci. «I Cinque Stelle rappresentano un fenomeno molto interessante, un’altra grande eccezionalità italiana», racconta Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica all’Università Roma Tre. Quando Grillo si presenta a Bologna, il sistema politico italiano cambia per sempre. Da questo punto di vista il V-Day può essere paragonato alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, tredici anni prima. Le due esperienze accompagnano un più generale processo di trasformazione della politica italiana. Una fase caratterizzata, tra le alte cose, dall’avvento di nuove forme di comunicazione, dalla personalizzazione e dalla spettacolarizzazione del messaggio, soprattutto dal tramonto dei partiti tradizionali. «I Cinque Stelle si legano a questo processo, non a caso sono un movimento fondato da un comico che sfida il sistema politico dall’esterno. Sfruttando la popolarità che si è creato in tv e nei teatri». Non solo antipolitica, però. Tra le grandi innovazioni portate dai grillini c’è ovviamente l’uso sistematico della Rete. Per incontrarsi, per organizzarsi e per mobilitare il consenso. «Sono i primi a presentarsi come il partito della democrazia digitale», sottolinea Novelli. «Grillo ha l’intuizione del blog, sotto cui unifica una serie di soggetti già attivi a livello locale: i meetup». Una rivoluzione riuscita? Il dibattito è apertissimo. «Eppure mi sembra che in tutte le esperienze di governo, penso ad esempio a Roma, i Cinque Stelle non siano ancora riusciti a portare avanti percorsi di democrazia diretta». Lo scorso anno Novelli ha pubblicato con Carocci un libro dal titolo “La democrazia del talk show”. In questi giorni sta scrivendo un testo sulle campagne elettorali italiane che uscirà all’inizio del prossimo anno. Sono proprio le elezioni del 2013, racconta il docente, a rappresentare una svolta importante nell’esperienza dei Cinque Stelle. È una campagna paradossale, per certi versi. «Grillo stravince profetizzando l’avvento della Rete, ma lo fa grazie alle televisioni che gli danno grande visibilità. È una vittoria conquistata con una lunga serie di comizi nelle piazze, come nella più antica tradizione politica italiana».

A sentire il deputato epurato Massimo Artini il progetto dei Cinque Stelle è fallito. Una bella promessa non mantenuta. «Ormai ai progetti si preferiscono gli slogan: anche sui territori non viene premiato chi merita, ma chi urla di più. Ecco, quella davvero tradita è la voglia di cambiamento. Intanto la struttura orizzontale degli esordi si è trasformata in un movimento gerarchico, fortemente controllato dai vertici». Le prime trasformazioni arrivano dopo l’ingresso in Parlamento. Anche quelle mediatiche. Se agli inizi evitano i talk show come la peste, in poco tempo i grillini scoprono la televisione. «Il momento di grande rottura - insiste Novelli - si consuma quando Grillo accetta di partecipare a una puntata di Porta a Porta. Quando anche lui capisce che senza tv non si vincono le campagne elettorali». Non è l’unica metamorfosi. Da movimento antisistema, i Cinque Stelle diventano una forza politica che oggi ambisce a governare l’Italia. Un passaggio evidenziato dal debutto del probabile candidato premier Luigi Di Maio, domenica scorsa, al workshop Ambrosetti di Cernobbio. Le opinioni divergono. Secondo Biorcio, «il M5S nei punti essenziali non è cambiato. La differenza rispetto al passato, semmai, è rappresentata proprio dall’accesso alle posizioni istituzionali e di governo, che in questi anni hanno formato un personale politico relativamente esperto». In sostanza, è il contesto in cui i seguaci di Grillo si muovono a essere cambiato rispetto ai tempi del primo Vaffanculo. «Quello che stanno facendo ora, a partire da Di Maio - osserva ancora il sociologo - è in continuità con quello che è successo a Roma e Torino. I 5 Stelle hanno mantenuto una spinta critica verso i politici e la politica, tanto che continuano a non volere alleati. Ma nello stesso tempo devono dimostrare di poter governare ascoltando le esigenze dei cittadini». Un equilibrio di lotta e di governo sempre difficile, come dimostrato dal caso precursore, la Lega Nord di Umberto Bossi. «Da una parte - conclude Biorcio - c'è un elettorato che si è in parte consolidato ed è fedele al Movimento, dall’altra c’è un livello di attivisti che si sono professionalizzati, anche se a loro non piace dirlo».

Intanto qualcuno si è perso per strada. I primi dieci anni del Movimento sono caratterizzati anche da una lunga serie di epurazioni ed allontanamenti. Spesso tutt’altro che spontanei, perché fra i grillini c’è un'ortodossia ferrea da rispettare. A Parma è stato cacciato Federico Pizzarotti, il primo sindaco a Cinque Stelle di una grande città. In Parlamento tanti deputati e senatori sono stati via via espulsi per dissidi con i vertici. Tra loro c’è Massimo Artini, toscano, vicepresidente della commissione Difesa a Montecitorio. Oggi è il portavoce di Alternativa Libera, un movimento creato proprio da una pattuglia di ex grillini. Il progetto dei Cinque Stelle? A sentire lui è fallito, una bella promessa non mantenuta. Il dispiacere si accompagna alla nostalgia degli esordi, le prime esperienze amministrative sui territori: «All’epoca la base contava ancora». Artini entra alla Camera nel 2013, ma il sogno dura poco. Un anno e mezzo dopo viene cacciato dal M5S. «Ufficialmente per una questione legata ai rimborsi - dice - In realtà un deputato capace di raccogliere consenso e non eterodiretto da Milano era troppo scomodo per il Movimento». Milano è la sede della Casaleggio. Ma il bilancio del fenomeno Cinque Stelle? «Una forza che aveva il 25 per cento non è riuscita a portare a casa nessun risultato - risponde l'ex -. Ormai ai progetti si preferiscono gli slogan: anche sui territori non viene premiato chi merita, ma chi urla di più. Ecco, quella davvero tradita è la voglia di cambiamento. Intanto la struttura orizzontale degli esordi si è trasformata in un movimento gerarchico, fortemente controllato dai vertici».

Fenomeno complesso, i Cinque Stelle. Una realtà politica ormai radicata, eppure, sondaggi alla mano, ancora in ascesa. Per fare una sintesi a dieci anni dall’esordio, Novelli ricorre a una citazione di Pietro Nenni. «Mettiamola così, una volta archiviata la fase pirotecnica e innovativa dei “vaffa”, quando sono entrati nella stanza dei bottoni non si sono dimostrati all’altezza». La parola agli elettori.

Il prof grillino demolisce i 5 Stelle: "Abbandonano la democrazia diretta". Il prof Aldo Giannuli silura l'M5s: "Primarie bulgare, Di Maio non ha nessun vero concorrente". E critica pure il programma stellato, descritto come confuso ed impreciso, scrive Ivan Francese, Mercoledì 6/09/2017 su "Il Giornale". "La democrazia diretta è stata abbandonata dal MoVimento 5 Stelle": il professor Aldo Giannuli non ha dubbi. Il docente di Storia contemporanea da sempre considerato vicino ai grillini questa volta non fa sconti e attacca il partito che fu di Gianroberto Casaleggio in un'intervista a Repubblica. La disamina è impietosa: secondo Giannuli il M5S ha perso ogni tracca residua di democrazia interna, organizzando primarie per il candidato premier che avrebbero senso solo sulla carta, dal momento che "sono primarie bulgare e non so nemmeno se ci sarà qualcuno disposto a candidarsi" contro il candidato in pectore Luigi Di Maio. "L'unico che avrebbe potuto sfidarlo era Di Battista - ragiona Giannuli - Ma facendo il tour della Sicilia col vicepresidente della Camera ha perso credibilità". "Vogliono andare al governo, per fare cosa non importa. È lì che è scattata la scelta di Di Maio, il più rassicurante - chiosa - Sono state abbandonate le grandi battaglie, come quella sull'euro, il Jobs Act, la legge elettorale, le riforme. Resta quella sui vitalizi: poca roba." L'ex consigliere di Grillo e Casaleggio, che appena ad aprile era sul palco del grande raduno grillino di Ivrea, dei pentastellati non promuove nemmeno il programma elettorale, descritto come "pieno di buchi" e "scritto per tenere insieme questo e quello", come si potrebbe vedere dalla posizione su Europa ed euro

Il MoVimento ritratto da Giannuli è insomma al tempo stesso dirigista e confuso, determinato nella scalata al potere ma senza molte idee chiare su come gestirlo una volta ottenuto: "Da quando è morto Gianroberto Casaleggio non mi sembra si sia più votato su questioni calde come fu per il reato di immigrazione clandestina. Ad esempio - conclude - non si è votato sullo us soli".

Da Fico a Di Battista, ecco chi contende a Di Maio la premiership dei 5 Stelle. A meno di venti giorni dalla proclamazione del candidato premier del Movimento di Beppe Grillo mancano ancora regole e data del voto online. L'unica certezza è la candidatura del vice presidente della Camera, scrive Lucrezia Clemente il 5 settembre 2017 su "La Repubblica". In corsa alle primarie del Movimento 5 stelle "ci saranno più candidati". Lo aveva assicurato Alessandro Di Battista ai microfoni della Versiliana. Ma a meno di venti giorni dalla kermesse di Rimini, dove il 24 settembre verrà annunciato il candidato premier, sul blog a cinque stelle mancano ancora regole e nomi. L'unica certezza è la partecipazione di Luigi Di Maio, volto istituzionale del Movimento con alle spalle cinque anni da vicepresidente della Camera. Chi sfiderà dunque il favorito? Se a giugno il popolare Dibba escludeva la possibilità di candidarsi, ora, di ritorno dalla campagna elettorale per le regionali in Sicilia, non si sbilancia e annuncia "a tempo debito, saprete". Nel toto-nomi, quello del deputato romano trentanovenne è il più quotato. Con alle spalle un tour in moto in giro per l'Italia e un viaggio in Sud America, il garibaldino del Movimento strizza l'occhio all'ala più radicale dell'elettorato mentre Di Maio ha debuttato a Cernobbio per convincere banchieri e imprenditori della sua affidabilità come leader di governo. Disinvolto sui palchi come uno showman, Di Battista promette abolizione di privilegi e vitalizi per i politici di professione, fa quadrato attorno alla sindaca di Roma Virginia Raggi e approva la stretta su accoglienza e Ong. Nel toto-nomi c'è anche l'ipotesi della candidatura di Roberto Fico, l'ortodosso del Movimento, attuale presidente della commissione di Vigilanza Rai. Ad accreditarla, le recenti prese di posizione del deputato napoletano in materia di accoglienza e immigrazione, distanti dalla dottrina Di Maio. E se sulla vicenda dei rifugiati sgomberati a Roma in via Curtatone, Di Maio esprime solidarietà alle forze di polizia, Fico pubblica un lungo post su Facebook accusando di mala gestione ministero degli Interni e prefettura. "E' uno Stato che non mi rappresenta" scrive. In lizza per la premiership potrebbero esserci anche il senatore Nicola Morra, attualmente membro della commissione Affari Costituzionali, e Barbara Lezzi, passata agli onori della cronaca per il video, diventato virale, in cui motiva la crescita del Pil italiano con il gran caldo estivo. Tra le quote rosa si fa il nome anche di Paola Taverna, la pasionaria del Movimento che lotta contro vaccinazioni obbligatorie e lobby farmaceutica. Per lei si pensa anche ad una poltrona da ministro della Salute in una possibile futura squadra di governo a cinque stelle. Una sfida dunque incerta quella per la premiership, ma il ritardo nelle candidature non sembra preoccupare i grillini. Da Di Battista a Toninelli assicurano: l'importante è il programma che è stato deciso e votato in rete, chiunque vinca non cambia niente: del resto, nel Movimento "uno vale uno".

"Rivoluzionari? E quando mai". Per vincere in Sicilia il Movimento 5 Stelle fa come la Dc. Più concorsi pubblici per tutti. Tolleranza sugli abusi. E al popolo, selfie e sorrisi. La metamorfosi del trio grillino Cancelleri-Di Maio-Di Battista: meno "Vaffa", più Balena Bianca, scrive Susanna Turco il 4 settembre 2017 su "L'Espresso". Promette più posti di lavoro, borse di studio a centinaia, nuovi concorsi pubblici, comprensione per chi vive in case abusive. La sua parola chiave è “buonsenso”. La sua voglia di governare grondava già un anno fa: «Il nostro non è un movimento di protesta, ma di governo», ebbe a dire passeggiando con il leader supremo. Insomma, non è ancora ufficiale che Luigi Di Maio sia il candidato premier del M5S: ma di certo Giancarlo Cancelleri è il suo profeta. Abbastanza scaltro da annunciare in comizio di aver firmato una scrittura privata con la quale rinuncia «irrevocabilmente» alla pensione da deputato dell’Ars - anche se sa benissimo che ha un valore relativo, dal punto di vista legale. Sufficientemente elastico da chiarire: «Se il mio peggior nemico proponesse qualcosa di buono per i cittadini perché dovrei dire di no?». Non a caso lo definiscono “un Luigi delle zolfatare”. E la campagna d’agosto per la Sicilia, in tre con Alessandro Di Battista, per la conquista di Palazzo dei Normanni l’ha squadernato oltre ogni dubbio. Insieme con una precisa immagine della metamorfosi gattopardesca che, a dieci anni dal primo V day, si è compiuta nel Movimento. I grillini non sono più le nuove promesse dell’anti-sistema che aspettano sulla riva siciliana che il loro leader attraversi lo Stretto di Messina a nuoto, per fare la campagna elettorale in camper, come nel 2012. Non sono più, di sicuro, gli entusiasti delle autopresentazioni on-line e delle riunioni in streaming. Non più, soprattutto, i “terminali” o portavoce della volontà del popolo grillino. Altro che uno vale uno. Dopo la rupture dell’epoca del direttorio, ormai ci si vanta di attirare giornalisti: «La mia presenza qui ha contribuito a portare un po’ di telecamere, diciamolo anche», ha puntualizzato Di Maio, circondato dall’establishment in uno dei templi dell’establishment, il Centro studi americano di Palazzo Caetani. L’orgoglio delle telecamere puntate addosso: chiave di volta di un’epoca che ha lasciato alle spalle i dictat “no tv”. Nel tour per l’isola, vistosamente senza il fianco di Beppe Grillo, si è manifestata così l’ultima versione del movimento. Di Maio, Di Battista e Cancelleri tra i banchetti delle sagre o sopra un palco, più o meno accompagnati dalle rispettive fidanzate e mogli, che ridacchiano a sfondo cartolina, in giro per le rovine di Selinunte, coi grembiuli all’antico forno Santa Rita, intenti a caricare nel portabagagli alcune cassette di pesche nettarine. Tre fratelli Wright - così si sono soprannominati - che portano avanti l’idea semplice (e molto pro Di Maio) di una conquista progressiva del potere, quella già proposta per la corsa al Campidoglio: prima vinciamo in Sicilia, poi in Italia. E il Movimento appare ormai confezionato in un modo per cui il vasto campionario umano dei Cinque stelle risulta pressato, intruppato, in una specie di lavorazione in linea a flusso continuo, la produzione in serie di un certo tipo di messaggio, di un certo tipo di immagine, di un certo tipo di leader. Luigi Di Maio appunto, e i suoi fratelli più o meno pro tempore. Nel caso in specie: Alessandro Di Battista per il coté avventura&zazzera. Giancarlo Cancelleri per la declinazione Sicilia&responsabilità. Ormai è superata, in favore di un sincretismo molto prima Repubblica, anche quella specie di dualità che pure c’era l’anno scorso. Quando Di Maio faceva i suoi incontri e viaggi di accreditamento e Alessandro di Battista girava l’Italia per il no al referendum. Piazza contro grisaglia, ha pagato di più la piazza: dunque ora Di Maio s’è fatto piazza. Con la maglietta a nido d’ape, come di Battista (diversa solo la marca: Fred Perry contro Lacoste) e con tutta l’allegra paccottiglia delle campagne elettorali open air. Anche sul palco, comunque, i grillini sono garbati, abili, democristiani. Specie di rockstar del Parlamento che si presentano sul palco, in piazze più o meno affollate (dalla mezza vuota Alcamo al pieno di Marsala), in giro per sagre e orchestrine. A farsi vedere, stringere mani: come i politici di una volta. Sempre però circondati - ecco un’altra vistosa metamorfosi - non più da attivisti, ma da fan: cioè da persone che più che controllare l’attività degli eletti, proporre e risolvere problemi (era così in origine), fanno ormai volentieri la fila per il selfie o per l’autografo del tale personaggio tante volte visto in tv. Anche voi potete diventare come noi, è non a caso uno dei messaggi al popolo: come a ridurre una distanza che però c’è, tra politico e non politico. Insomma sono lontani i tempi in cui, il grillino candidato governatore si presentava così: «Piacere, Cancelleri, geometra» (in una azienda di serbatoi di benzina). O entrava per la prima volta con gli M5S a Palazzo dei Normanni in corteo: davanti gli eletti, dietro i cittadini, a mo’ di Quarto stato di Pellizza da Volpedo». A luglio scorso, nel giorno della sua consacrazione di candidato M5S attraverso il voto della sacra Rete - i risultati erano scontati da un pezzo - Cancelleri è andato ad accogliere in aeroporto, a Palermo, Grillo e Davide Casaleggio con un completo giacca e cravatta scura che lo rendeva indistinguibile da un Di Maio qualsiasi. Ma non è solo questione di tagli sartoriali. Dimenticato il tranchant delle origini, nel grillino che si fa governo, nell’M5 che si incarna in Di Maio, la distinzione diventa ragione di vita. Occasione di voto. Si può chiarire ad esempio che esiste un abusivismo edilizio di necessità, da distinguere dall’abusivismo selvaggio (l’ha fatto soprattutto Cancelleri, per la traduzione pratica rivolgersi al comune di Bagheria). Così come nell’ultimo anno si è voluto distinguere tra lobbies buone e lobbies brutte e cattive (l’ha fatto di Maio, tra una mattinata con gli ambasciatori Ue, un viaggio a Londra, un pranzo all’Ispi col presidente del ramo italiano della Trilateral). D’altra parte non si può dire sempre no. Dopo aver aperto la scatoletta di tonno, nell’olio di conserva bisogna poi navigarci. Anche mostrando una speciale abilità - già vista nella campagna elettorale per il comune di Roma - di procedere come in tondo con gli affondi e le critiche, riuscendo così nel capolavoro di attaccare l’azione, ma non chi la compie. Vale per l’abusivismo come per le amministrazioni che non funzionano. La colpa è dei politici, non dei proprietari; degli amministratori e di chi li ha scelti, non dei dipendenti. Un pezzo del grillopardismo sta proprio qua: va bene propugnare il cambiamento, ma senza mettere nei guai chi ci deve votare. In questo senso, gli “abusivi di necessità” della Sicilia sono come i dipendenti dell’Atac a Roma: incolpevoli. Ecco di tutto questo mood Cancelleri è perfetto interprete. Sopravvissuto con grande abilità al disastro per l’inchiesta sulle firme false a Palermo, di solidissimi e antichi rapporti con Di Maio, fedele fin sulla bordo della cecità, ma capace anche di condurre, da capogruppo a Palazzo dei Normanni, una memorabile trattativa travestita da non trattativa per le poltrone: «Noi non chiediamo nulla, solo perché sappiamo quello che ci spetta. Però certe logiche di spartizione a noi non interessano. Ma vogliamo ricoprire, con ruoli importanti, posizioni che ci consentano di portare avanti i nostri programmi politici», diceva (al Foglio). Solo, però, ma: ebbe così per i grillini una vicepresidenza di Assemblea. Ma senza chiederlo. Proprio come Di Maio.

Elezioni siciliane, ma il programma dei Cinque Stelle l’ha scritto Checco Zalone? Concorsi pubblici, assunzioni, reddito di cittadinanza, investimenti in sanità e infrastrutture: la ricetta dei Cinque Stelle per la Sicilia fa impallidire la Democrazia Cristiana degli anni d’oro. E anche oggi, il cambiamento lo facciamo domani, scrive Francesco Cancellato il 7 Agosto 2017 su “L’Inkiesta”. Non ci saranno i cosmetici mutabili, né i castelli ad equo canone, né tantomeno un concorso per allievo maresciallo da seimila posti a Mazara del Vallo, nel programma del candidato presidente a Cinque Stelle per la Regione Sicilia Giancarlo Cancelleri. Non ci saranno, ma quel che dovrebbe esserci, stando a interviste e indiscrezioni, potrebbe ispirare una nuova canzone a Checco Zalone. Già, perché la Prima Repubblica non si scorda mai, in Sicilia. E nemmeno il Movimento fa eccezione. Premessa doverosa: per tutti gli altri - destra, sinistra e centro - parlano il passato e il presente, e non è un bel parlare. Se l’Assemblea Regionale Siciliana costa 165 milioni di euro, contro i 68 milioni del Consiglio Regionale Lombardo, epicentro di una classe politica che stando alla Corte dei Conti è la più costosa d’Europa - un terzo dei dirigenti regionali italiani si trovano in Sicilia - non è certo colpa della Casaleggio Associati. E non sarà certo Beppe Grillo a fare dell’Isola l’idealtipo dell’assistenzialismo, delle clientele e dei posti pubblici elargiti come caramelle a ogni campagna elettorale. Cari grillini nostri, non bastano i tuffi in paracadute di Di Maio e Dibba, così come non bastava la nuotata di Grillo nello stretto di Messina per cambiare le cose in Sicilia. Basterebbe - è una parola, ce ne rendiamo conto - dire le cose come stanno. Ed evitare di sparare fuochi d’artificio assistenzialisti e clientelari come una Democrazia Cristiana (o una Forza Italia o un Partito Democratico) qualsiasi.

E però, cari grillini nostri, non bastano i tuffi in paracadute di Di Maio e Dibba, così come non bastava la nuotata di Grillo nello stretto di Messina per cambiare le cose in Sicilia. Basterebbe - è una parola, ce ne rendiamo conto - dire le cose come stanno. Ed evitare di sparare fuochi d’artificio assistenzialisti e clientelari come una Democrazia Cristiana (o una Forza Italia o un Partito Democratico) qualsiasi. Già, perché magari hanno capito come si vincono le elezioni siciliane, i nostri ragazzi meravigliosi. Ma promettere contemporaneamente il reddito di cittadinanza, e investimenti in personale sanitario e infrastrutture, concorsi pubblici con assunzioni di giovani e prepensionamenti dei dipendenti anziani vuol dire non aver capito nulla delle condizioni in cui è la Sicilia, una Regione che nel 2016 ha approvato il bilancio solo il 19 luglio, dopo che un lungo tira e molla con la Procura della Corte dei Conti, secondo cui il rendiconto era irregolare. E che è riuscita a non andare in default l'anno prima - il passivo era di 6 miliardi e rotti - solo grazie a un accordo con il Governo che ha concesso 1,2 miliardi di gettito Irpef aggiuntivo, in cambio della promessa di tagliare la spesa corrente del 3% a partire dal 2017. E non parlateci di new deal, per cortesia: la malsana idea che un po’ di welfare differito possa, in Sicilia, tramutarsi magicamente in sviluppo è roba da far rivoltare nella tomba persino Keynes e far saltare di gioia Cetto La Qualunque e Checco Zalone. Del resto, è la ricetta del disastro di settant'anni di malgoverno siciliano. Spiace non l'abbiano capito gli unici che, in quel contesto, potevano davvero cambiare qualcosa. Sarà per la prossima volta, se mai ci sarà.

La sinistra ora lancia accuse di assistenzialismo. Da che pulpito viene la predica! Scrive Alessandro Catto il 29 maggio 2017 su “Il Giornale”. Dopo l’uscita di Papa Francesco a favore del lavoro e contro il reddito di cittadinanza (questione eminentemente teologica, ndr) non sono mancati gli elogi da parte del mondo democratico e il continuo attacco, da parte di molti ambienti di centrosinistra, alla proposta avanzata dal Movimento 5 Stelle. Quest’ultima, nonché le presunte coperture volte a renderla possibile, sono certamente da prendere con le pinze. Una idea che in ultima istanza appare di difficile applicazione in un paese, l’Italia, che col deficit non ha un buon rapporto e che rischierebbe con ogni probabilità di non potersela permettere. Tutt’altro valore invece hanno le resistenze morali, o presunte tali, verso la misura. In primis perché è veramente giunta l’ora di aprire un dibattito serio sul rapporto tra avanzamento della tecnologia e riduzione dei posti di lavoro, inerente soprattutto il concetto di occupazione per come siamo stati abituati ad intenderlo, valutando se davvero il rischio sia presente o se è tutto frutto di sensazionalismo, pure slegandoci da un certo feticismo per il lavoro in salsa novecentesca che poco ha a che fare con un progresso degno di questo nome. Ha davvero senso, nel 2017, parlare di lavoro come se ne parlava cinquant’anni fa? Risulta davvero così stupido chiedersi se la globalizzazione, la modernizzazione e la tecnologia non impongano, laddove la loro presenza è più forte, una discussione sulle prospettive del lavoro salariato, specialmente nelle posizioni più umili? E in tutto questo, è davvero così fuori dal mondo provare a valutare assieme una proposta, quella del reddito di cittadinanza, che oltretutto potrebbe permettere di spezzare molte situazioni di ricatto che si creano quando si è costretti ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione pur di portare a casa qualcosa?

Non sono certo un elettore pentastellato, ma mi sembra quantomeno sospetta questa repulsione a priori verso il tema, specialmente quando fatta da sinistra. Già, perché in tutto questo notiamo critiche urbi et orbi da parte di una porzione politica che ha il coraggio di lamentare il presunto assistenzialismo insito nella norma, quando per anni ci ha abituati a veder sciorinare il peggior assistenzialismo su misura. I fedelissimi che lavorano nello Stato senza che spesso ce ne sia alcun bisogno, le persone “sistemate” in qualche ministero, le assunzioni ad cazzum nella ricerca, il finanziamento di corsi prettamente inutili, gli sprechi, i burocratifici difesi a spada tratta dal sindacato del non-lavoro, le associazioni e associazioncine parastatali spesso finanziate da chi oggi si batte contro questa proposta, non hanno forse l’odore di un assistenzialismo ancora peggiore, perché mascherato da lavoro e capace oltretutto di appesantire ancor più il funzionamento del paese? Non è ridicolo sentir parlare di ciò una porzione politica che per decenni ha fatto del peggior assistenzialismo uno dei propri tratti di riconoscibilità, che dietro ad un distorto concetto di statalismo, divenuto spesso improduttivismo statale e culto della burocrazia, oggi si riscopre rappresentante del lavoro duro, vero, utile e retribuito?

Non fa rabbia vedere un sindacato e pure un papato che tacciono spesso e volentieri sulle storture di una immigrazione completamente deregolamentata, esporsi oggi contro chi cerca di rimediare al danno della concorrenza al ribasso causata proprio dai tanti silenzi avuti in decenni di battaglie pressoché inutili o molto, molto comode da condurre, spesso più politiche che lavorative o spirituali? Non fa rabbia questo totale scollamento dalla realtà fatto da pulpiti improbabili? Io lo trovo un cortocircuito pazzesco e dai tratti ridicoli. Nel tutto critiche alla proposta ce ne possono essere a bizzeffe. Ma le eviti chi sull’assistenzialismo ha costruito il proprio bacino elettorale per decenni.

Io, la sinistra, Grillo, i cretini. A pranzo con Michele Serra. Giornali, politica, satira e vaffa. “La mia lotta è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”, scrive Salvatore Merlo su “Il Foglio” il 23 Settembre 2016. “Uno dei miei più antichi corrispondenti, di destra, una volta mi ha scritto così: ‘Mi spieghi perché non ti piace il web? Internet è puro comunismo. Merda gratis per tutti’”. E le parole “mio mondo e mio partito” forse un po’ gli bruciano in gola. “Non ci siamo più”, dice con una malinconica ironia. Estinti: come il bue primigenio, come il ghiro gigante di Minorca, come la tigre del Caspio. “E pure ognuno di questi pareva inestirpabile”. Qualche fossile ancora riemerge, tuttavia, qua e là. “Ma bisogna avere l’umiltà di accettare le cose nuove, anche quelle che non ti prevedono”. Come Matteo Renzi? “Mi capita di ricevere missive irose dei miei lettori: Ah, ma come fai?, Questo orribile provinciale fiorentino…, Bisogna fare qualcosa…. Ecco, io invece penso che non dobbiamo rompere i coglioni. Se la nostra sinistra diventa una mummia, noi possiamo anche diventare delle mummie noi stessi, ma non possiamo mica pretendere che anche tutto il resto del mondo si mummifichi”. E a questo punto lo sguardo fisso, che prima somigliava a un pugno chiuso, si scioglie in un ridere degli occhi, “bisogna avere uno sguardo non stupidamente arreso, ma nemmeno accigliato e corroso dal catastrofismo”. Così abbassa il tono di voce, stringe le palpebre, prende una voce non sua, che potrebbe essere quella dell’avaro di Moliére, o la caricatura fumettistica di un vecchio pessimista: “Ahhh, il mondo è diventato una merda! Non c’è più Berlinguer… Che palle!”. Ride, Michele Serra, con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle situazioni, e la comicità. Anche amara. E forse un po’ evoca “i compagni” volenterosi e tristi di Mario Monicelli, quei pasticcioni sconfitti e dolenti della commedia. “La mia famiglia d’origine ha perso”, dice, “ma il mondo continua anche senza di me”. E insomma esprime lo smarrimento dell’uomo di sinistra, la cui simmetria dei principi è stata scompigliata da un vento che spira da regioni che forse lui in tutta innocenza credeva non esistessero, fino a ieri, o fino all’altro ieri, o comunque fino all’incrinarsi delle certezze di un mondo al quale sente d’essere appartenuto – di appartenere? – “non solo da militante, ma da funzionario”. Strano dove le nostre passioni ci conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni indesiderati, a destini malaccetti. “Alle primarie votai Bersani. Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto votare contro me stesso, cioè avrei dovuto votare per Renzi”. In una delle sue rubriche, in un’Amaca, qualche settimana fa, aveva scritto: “Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. Che ti ha fatto la Boschi? “Niente”, risponde lui, con il suo sorriso arabo. “Mi sembra volenterosa… in Italia ci sono due modelli di quarantenne, quello renziano e quello grillino. Almeno quelli come la Boschi provano a dare un’impronta, a fare qualcosa”. I bamboccioni che il ministro Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno fatto. “E invece cosa abbiamo fatto noi sessantenni di sinistra per dire di ‘no’?”. Ecco. Al referendum come voti? “Io voto per il ‘sì’, anche se vincerà il ‘no’. E vincerà il ‘no’ perché l’aria che tira è quella del disfacimento. E poi guardati intorno: mezzo Pd vota ‘no’, la destra vota ‘no’, la sinistra vota ‘no’, i grillini votano ‘no’…”. Il Naviglio Grande è nitido, largo e lindo, sembra la guancia ben rasata di Milano (mi dirà “Lui” tra poco: “Tutta questa zona aveva un suo fascino anche prima, ma un fascino malinconico, mentre adesso è un luogo allegro”).

La mattina è stata ansimante e boccheggiante, con scrosci di pioggia a tratti torrenziale. Da qualche minuto un sole malaticcio ravviva il cielo bianco, mentre dall’imboccatura di porta Ticinese ecco arrivare, dondolando appena, un signore dall’aria pensosa, ma allegra: pantaloni marroni, camicia chiara, una ciocca di capelli spettinata, e brizzolata, un filo di barba. E’ lui, Michele Serra. “Hai visto, ci sono i pesci nel Naviglio”, dice, indicando quelle acque che non sono più “perplesse”, come le descriveva Giuseppe Marotta negli anni Sessanta, ma che dopo il grande recupero dell’Expo hanno assunto un tocco attraente, adesso sembrano raccontare favole levigate. “Qui i sindaci sono stati bravi, anche quelli di destra. Ma soprattutto è stato bravo Giuliano Pisapia, che se volesse potrebbe diventare il vero avversario di Renzi… Solo adesso Milano palpita davvero di vita, di vita civile e di bellezza, quella stessa città che fu lugubre quando ero ragazzo e che invece mi scorreva attorno così estranea e rampante negli anni Ottanta”. E la città lugubre era quella in cui si spaccavano teste a sprangate, la città che negli Anni di piombo subiva attonita la bomba di Piazza Fontana, la violenza ideologica e il terrorismo. “In via Scaldasole frequentavo un circolo anarchico, del Movimento socialista libertario. Andavo lì con tre amici di scuola, Mario Ferrandi, Guido Salvini, ed Enrico Mentana. Il primo è finito all’ergastolo per terrorismo, il secondo è il giudice che ha riaperto le indagini su Piazza Fontana, il terzo è il direttore del Tg di La7. Pensa un po’”. La città che invece gli scorreva estranea, era la Milano di Bettino Craxi, quella da bere. Lo disprezzavi Craxi? “Lo consideravo un nemico. Credevo che avesse ragione Berlinguer, e lui torto. Ero abbastanza comunista, e abbastanza moralista”. A un certo punto però, qualsiasi cosa si faccia, le carte dei motivi e delle conseguenze si imbrogliano maledettamente, e quando gli anni passano nessuno sa più se ha agito bene o male. “Era facile essere moralisti all’epoca, forse c’erano anche delle esagerazioni, ma il sacco della città ci fu davvero. C’era un ceto emergente e spregiudicato, odioso”.

Dunque il Pci, la militanza, un intrico di pulsioni e intenzioni risalenti a tempi immemorabili ormai informi, forse senza scopo. “Entrai nel partito credo a diciotto anni, sezione ‘martiri di Modena’, in via Caccialepori. Entrai per autodifesa, forse anche per paura. Era il ’73 o il ’74 e la gente si apriva la testa a bastonate. Poi un giorno un mio amico andò a fare il militare e mi disse: ‘Vuoi il mio lavoro?’. E che fai? ‘Faccio il dimafonista all’Unità’”. Cioè lo sbarbatello al quale gli inviati dettavano i pezzi al telefono. “Così presi una vecchia Olivetti Lettera 22 di mia madre e mi esercitai nella dattilografia, ero imbranato ovviamente, ma dissi a quelli dell’Unità che ero un professionista. Mi presero. Facevo le notti. A quei tempi i giornali rombavano, erano fabbriche: la colata a piombo, la linotype, gli odori. I tipografi erano individui neri, inchiostrati, che bevevano latte per combattere l’avvelenamento da piombo (ma più spesso bevevano Campari Soda). Era vera classe operaia. Si parlava solo dialetto milanese, che per me, io che venivo da una famiglia borghese, era come una porta sbattuta in faccia, un fragoroso abbassarsi di saracinesca, dovevo farmelo tradurre”. Poi lentamente il passaggio alla scrittura, al giornalismo. Supremo, prezioso dilettantismo o capriccio. Almeno all’inizio. “Adesso sono venticinque anni che scrivo tutti i giorni. Una follia, un’ossessione. Ho scritto su Panorama, l’Espresso, Repubblica, Telesette, il Monello, l’Illustrazione italiana… Chissà quante stronzate ho scritto!”. Ricordane qualcuna, dai. “Per fortuna mi dimentico tutto, e per fortuna la carta va al macero”. C’è internet, ti avverto. “Ma mi hanno spiegato che per fortuna anche le memorie elettroniche hanno una loro obsolescenza”. Sì, ma credo di millenni. “Cazzo!”.

Giornalista, sbarbatello, squattrinato. Tuo padre – “era un vecchio liberale che lavorava in banca, al Banco di Roma” – non ti considerava un vagabondo, un perdigiorno, che faceva il giornalista? “Era un uomo pragmatico, guadagnavo qualcosa ed era contento così. E fuori c’era l’inferno, si sparava. Con mia madre invece, di destra e cattolica, era diverso… Era una lettrice di Gianna Preda e del Borghese, era una che scriveva lettere al re in esilio a Cascais. Alla fine dei suoi giorni divenne persino berlusconiana”. Tua madre era berlusconiana? Impossibile. “Eccome, no. Diceva: Finalmente con Berlusconi buttiamo a mare i comunisti’”. E tu? “E io le dicevo: Guarda, mamma, che tra questo burino e il re a Cascais c’è una bella differenza. Mio padre invece, che votava Malagodi, quando vedeva Berlusconi in televisione inveiva”. E a questo punto Serra racconta un episodio abbastanza comico. “Una volta Montanelli venne a Sanremo, dove allora abitavano i miei genitori. In casa mia c’era il mito di Montanelli, di Montanelli e di Ricciardetto, pseudonimo di Augusto Guerriero, un giornalista molto conservatore la cui risposta tipo ai lettori, su Epoca, era: ‘Lei è un cretino’. E insomma un giorno arriva Montanelli per un incontro pubblico, e allora mia madre ovviamente ci va. Si avvicina a Montanelli, lo ferma, erano gli anni in cui io cominciavo a farmi notare sull’Unità: ‘Sono la mamma di Michele Serra’, dice allo spilungone accigliato. E lui: E con ciò?. E lei: Ma è comunista! Che devo fare?. Ecco, questo siparietto me lo raccontò il vecchio Montanelli, moltissimi anni dopo, e ancora rideva”.

Ma a te Montanelli non piaceva. “Il mio modello giovanile era Fortebraccio, uno che lasciò la Dc e aderì al Pci per questioni di stile. Era asciutto, fazioso, feroce ed elegante. E poi Stefano Benni, con i suoi corsivi sul Manifesto. Quando ero ragazzo per noi Montanelli era un fascista. E ovviamente non capivo niente, ma l’età è una scusante. Una volta lo feci oggetto di un articolo di satira, dove lo prendevo in giro, lo facevo parlare come un vecchio conservatore polveroso e fuori dal tempo, forse anche un po’ rimbambito. Così un giorno mi squilla il telefono, in redazione. Voce imperiosa: Pronto, sono Montanelli! Sospensivo imbarazzo. Poi, ridendo: ‘Ma tu come fai a sapere che il Totocalcio io lo chiamo ‘Sisal’, e il frigorifero lo chiamo frigidaire?”. E allora io, alquanto sollevato: ‘Lo so perché anche mio padre e mia madre parlano così’. Da allora diventammo amici. Per un po’ ci siamo anche frequentati. Così quando Montanelli ruppe con Berlusconi e lasciò il Giornale, Walter Veltroni, che dirigeva l’Unità, mi disse: ‘Montanelli viene alla festa dell’Unità di Modena. Devi andarlo a prendere e moderare il dibattito’. Mi ritrovai in questa incredibile bolgia, a Modena. Montanelli era emozionatissimo: stava in mezzo ai comunisti, in mezzo ai nemici di una vita, che invece di fischiarlo lo abbracciavano. Ricordo che passammo con questo vegliardo, elegante e altissimo, tra due ali di folla che lo applaudiva. Fu una cosa un po’ edipica, per me. Era il mito di mia madre, ma anche una persona che io avevo già accettato da tempo e che ora veniva accettata dal mio mondo e dal mio partito”.

Il suo “mondo” e il suo “partito”, rieccoli. L’atmosfera spirituale di un’epoca forse trova la sua massima espressione non negli avvenimenti ufficiali, ma nei piccoli episodi personali. Una volta Maurizio Ferrara, direttore dell’Unità, deputato e dirigente del Pci, il papà di Giuliano, disse che Serra era il “capo del partito trasversale delle teste di cazzo”. Allora ricordo questa definizione a Serra, mentre ci siamo accomodati in un ristorante spalancato sul Naviglio e mentre lui continua a becchettare il prosciutto e melone, con gesti precisi, sorridendo e parlando. “Credo avesse ragione Maurizio Ferrara. Erano anni in cui c’era uno scontro forte tra la destra e la sinistra comunista, io ero ingraiano e Ferrara era amendoliano. E poiché ero anche irrequieto e movimentista, avevo preso, oltre a quella del Pci, anche la tessera dei Radicali, dei Verdi e degli antiproibizionisti. Insomma, forse, partito trasversale delle teste di cazzo era giusto”.

E com’erano i comunisti romani rispetto ai milanesi? “Erano romani. Dunque spiritosi, talvolta grevi. Scanzonati. Antonello Trombadori scriveva dei sonetti in romanesco, ispirati a Gioachino Belli. Una volta pubblicai degli apocrifi di questi sonetti, su Tango, la rivista satirica che dirigeva Sergio Staino, allegata all’Unità. Erano volgarissimi. Trombadori un po’ s’incazzò e un po’ rideva”. Giuliano Ferrara ti ha chiamato “umoralista”, invece, che ne dici? “E’ una definizione che non mi dispiace. Umore e umorismo appartengono alla stessa origine semantica”. Forse però ti dava anche del moralista, in realtà. “La mia lotta adesso è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”.

Allora adesso sei disilluso? “Non proprio. Ora ho il senso del relativo. Faccio i conti con l’imperfezione, la mia e quella del mondo”. E dunque sei in grado di accettare Renzi, la nuova sinistra. “Tento di non farmi imprigionare dalla mia biografia”. E Massimo D’Alema invece? “Il suo è un rancore generazionale. Fa il vino… è così bello… faccia quello… anche io ho una campagna… ma capisco che lasciare la politica è difficile”. Però Walter Veltroni ha lasciato, senza strascichi di rancore, almeno evidenti. “Veltroni è diverso. Forse conta il carattere. Mollare è difficile. Ma è un passaggio che capita a tutti. Bisogna prepararsi a queste cose, credo. Il momento prima o poi arriva, e se non hai altre risorse sono cazzi. Perché non te ne fai una ragione”. C’è quella canzone di Jacques Brel… com’è che fa? “Ci vuole del talento / per invecchiare senza diventare adulti”. Ecco. E certo forse fa impressione la sfrontatezza giovanile di Renzi, ma in fondo non è molto differente da quella che, ciclicamente, dice Serra, si ripropone quando si cambia generazione, quando il vecchio inevitabilmente s’apparta (o più spesso viene fatto appartare). “Questi ragazzi un po’ garbatamente innovano e un po’ sgarbatamente forzano. Ma ci sono, e fanno. La legge Cirinnà è passata”. Bastava vedere il banco del governo, quando si compose, per la prima fiducia parlamentare, nel 2014: carte e smartphone e tablet e chincaglieria varia, che preciso preciso faceva venire in mente la cameretta del figlio “sdraiato” di Serra, quello del romanzo. [“a proposito, lo sai che è stato tradotto in polacco? Il mese scorso ha superato le quattrocentomila copie vendute”].

Qualche anno fa Serra diceva così: “Certe cose che dice Grillo sono sacrosante, e la sua non è antipolitica”. Ma lo pensi ancora? “Lo penso sempre, e penso che ‘antipolitica’ sia una definizione di comodo. E’ una scorciatoia. Grillo fa politica. Quanto al giudizio sul Movimento cinque stelle, ciò di cui diffido è quella patina lugubre che si diffonde dai volti delle persone. Le sedizioni hanno sempre avuto ospitalità nella storia. Ma lo sguardo sospettoso, meschino, non lo sopporto. Per fare le rivoluzioni, e per fare politica, ci vuole generosità. E invece questi del Movimento cinque stelle hanno una visione gretta delle cose: il mondo visto come una gigantesca macchinazione di certa gente per fottere altra gente. Nella vita viene premiata la generosità, a volte persino l’ingenuità, la grettezza mai”. Nel 1990 hai scritto uno spettacolo per Grillo, si chiamava “Buone notizie”. Siete amici? “Siamo stati molto amici, ho lavorato con lui per cinque anni. Quello era uno spettacolo tutto sull’informazione, sui giornali, i media… Mai avrei pensato che quelle cose potessero diventare programma politico”. Sei colpevole anche di questo? Serra ride. “Scrivevo satira, che sta su tutto un altro piano rispetto alla politica. Sono cose diverse: il linguaggio, il pubblico, il fine che ti proponi. Io già mi preoccupavo quando Sabina Guzzanti faceva questa confusione. Non si capisce più niente: stai facendo un comizio o mi fai pagare un biglietto? E il mio, guarda, è un rilievo tecnico”.

Il “vaffanculo” come programma di governo, insomma. C’è una grammatica deviata che rimanda ad altri tempi, quasi senza memoria, a mondi di pensatori gretti e di babbuini in stivaloni militari? “Capisco che il momento storico sia assai confuso, ma insomma, ‘vaffanculo’ nella satira va bene, però se diventa programma politico è insignificante, non vuol dire nulla, un po’ inquieta”. Se dici “vaffanculo” puoi anche pensare che Pinochet fosse in Venezuela, e non in Cile, chi se ne importa: tanto con vaffanculo hai spiegato tutto. “L’unica cosa per la quale mi sento vecchio è quando dico che c’è un arretramento culturale forte. E generalizzato. Che sdogana un po’ tutto e un po’ tutti. E’ un dato qualitativo, non quantitativo. Nel Pci ho conosciuto contadini che erano colti, nel senso che sapevano collegare la loro condizione di subalternità al fatto che sapevano poco e dunque volevano mandare i figli all’università. Io in questo rimango vecchio ex comunista. L’idea che l’ignoranza fosse qualcosa da cui emendarsi era tutto: il Pci era la favola, l’apologo di Di Vittorio che a dodici anni studia il dizionario della lingua italiana a memoria”. [Lampo ironico: “Mi rendo conto che ti sto facendo un discorso da Frattocchie, da scuola di partito”]

E Serra sta all’incirca dicendo che esiste una differenza oggettiva tra Norberto Bobbio e Matteo Salvini, par di capire. “Una volta un leghista, Speroni, al termine di una trasmissione, e spente le telecamere, mi disse: ‘Si ricordi che io sono maleducato perché rappresento elettori maleducati. E’ la democrazia’. Ecco, Speroni aveva ragione. Però anche io ho ragione se dico che Hegel e Carlo Sibilia non sono precisamente uguali. Sibilia è l’ignoranza rivendicata, quella che individua ogni professionalità, anzi la tecnica in sé come ‘casta’. La frustrazione sociale è fisiologica, però bisogna governarla, individuare dei percorsi… Io ho conosciuto operai del Pci che erano dei prìncipi: aplomb e dignità. Erano classe dirigente. Non riesco a credere a una classe dirigente che pensa che la mediocrità possa sostituirsi all’eccellenza, persino all’eccellenza castale. Nel Pci la rabbia, che è benzina del mondo, stava dentro una cultura, una gerarchia e un ordine dove ‘sapere’ e ‘saper fare’ contavano”.

E qui, con fraseggio godurioso, mentre arriva un risotto alla milanese, Michele Serra comincia a parlare con l’accento di Genova: sta imitando Beppe Grillo. E’ identico: “’Lascia stare, belìn… l’idraulico te lo vuole solo mettere nel culo… Dai retta a me… C’è il cugino del cognato di mia moglie che non è idraulico, e dunque ti sa riparare i tubi molto meglio…’. Questa è la filosofia di Grillo”, dice Serra. “E’ un modo di pensare che interpreta la più generale crisi della delega, cioè quell’idea piuttosto normale secondo la quale tu affidi a dei professionisti le mansioni che non sei ovviamente in grado di svolgere da solo. Grillo la ribalta: i tecnici ti vogliono solo fottere, stai attento. Il Movimento cinque stelle nasce così: nessuno si fida più di nessuno. Specialmente non ci si fida di quelli che hanno un sapere tecnico di qualche genere. Prendi questa frase Grillo: Tutto quello che scrivono i giornali è falso. E insomma il cittadino, bordeggiando bordeggiando, secondo lui si informa da solo sul web… Ma che cazzo stai dicendo?”.

Intanto i giornali non li comprano. Dieci anni fa Repubblica e Corriere viaggiavano intorno al milione di copie, oggi saranno poco più di duecentomila. “Perché c’è internet, ma anche perché in Italia i quotidiani sono oggettivamente bruttini. Gli editori hanno deciso che i giornali non li fanno i giornalisti ma i manager e gli uffici marketing. E poi una volta il quotidiano era identitario, la gente lo teneva sotto braccio per farlo vedere”. E adesso? “Io penso che i giornali, alla fine, diventeranno come i sigari cubani. Pochi, e spero buoni. Per pochi. Tutti gli altri si informeranno sul web. Uno dei miei più antichi corrispondenti, uno che mi scrive da anni delle lettere, e che è di destra, una volta mi ha scritto così: ‘Mi spieghi perché non ti piace il web? Internet è puro comunismo. Merda gratis per tutti’”. Sono in tanti a scriverti? “Ho una decina di corrispondenti affezionati. Con quasi tutti era iniziata con uno scontro, ma se poi le fai ragionare le persone cambiano tono”. E quando ti insultano? “Me ne infischio. Non rispondo, e ti assicuro che nemmeno mi arrabbio più. E’ come un rumore di fondo. Gli imbecilli, i mediocri, i poveretti… c’è di meglio da fare che andargli dietro”. C’è molta violenza verbale in giro. “C’è malanimo, frustrazione, sembriamo una società abbastanza infelice. Poco serena. Ci tocca. E’ così. La cifra costante della società di massa è la mediocrità”. Lo penso anche io, ma non è una cosa un po’ snob da dire? “Guarda, oggi va così. Se uno tira una scorreggia e tu glielo fai notare, quello è capace che ti risponde: Ehhh, quanto sei snob!. Io non mi sento snob, anzi credo proprio di essere il contrario, sono pop semmai. Niente è più snob di pensare che la massa meriti la merda. Anche otto milioni di mosche possono avere torto a convergere su un escremento. Se poi magari gli fai vedere che c’è anche dell’altro, che c’è una cosa che si chiama cioccolata, che è fatta con il cacao, che è buona… chissà magari li convinci. Questo significa essere snob?”.

A proposito di mosche: ce ne sono un paio che si avvicinano al nostro tavolo ormai vuoto di vivande, ma se ne vanno subito, con un brivido d’ali che esprime delusione. “Ti accompagno al taxi”, dice Serra, che intanto stabilisce che il conto lo paga lui (solo che invece di firmare la ricevuta della carta di credito, firma lo scontrino fiscale. Poi per un pelo non lascia anche la carta di credito alla cassa). Ma è vero che ti sei messo a produrre profumi, “Serra e Fonseca?”. E lui, con un sorriso arabo: “Fa tutto mia moglie. Io sono tifosissimo suo, ma non sono nemmeno socio. Tuttavia, guardandola, ho capito una cosa, e cioè che fare impresa in Italia è difficilissimo. Metà del tempo che uno dovrebbe impegnare per il prodotto, te lo toglie la burocrazia”. Non è che diventi di destra? Berlusconi sarebbe d’accordo. “Ma anche Renzi”.

DEFICIT SPENDING A 5 STELLE, scrive Claudio Romiti il 10 agosto 2017 su “L’Opinione". Il giornale digitale “Linkiesta”, in un articolo firmato da Francesco Cancellato, si chiede, in merito alle prossime elezioni siciliane, se il programma del Movimento Cinque Stelle non l’abbia scritto Checco Zalone. Analizzando infatti il corposo fardello di promesse elettorali con cui i grillini intendono conquistare la patria dell’assistenzialismo italiano, il nostro esprime una critica durissima nei loro confronti, associandoli nei metodi alla vecchia Democrazia Cristiana: “... promettere contemporaneamente il reddito di cittadinanza, e investimenti in personale sanitario e infrastrutture, concorsi pubblici con assunzioni di giovani e prepensionamenti dei dipendenti anziani vuol dire non aver capito nulla delle condizioni in cui è la Sicilia, una Regione che nel 2016 ha approvato il bilancio solo il 19 luglio, dopo che un lungo tira e molla con la Procura della Corte dei Conti, secondo cui il rendiconto era irregolare”. Una Regione perennemente sull’orlo del baratro che, come sottolinea ancora Cancellato, nel 2015 ha evitato il default, con un passivo di oltre 6 miliardi, solo in virtù di corposi aiuti finanziari concessi dallo Stato centrale. Ma ora arrivano i “ragazzi meravigliosi” di Beppe Grillo a sistemare le cose. Incuranti delle leggi della fisica, e soprattutto della matematica, questi nuovi campioni della cosiddetta democrazia acquisitiva, quella che per capirci ottiene il consenso con alte dosi di spesa pubblica e di debiti, anche in Sicilia ripropongono il loro modello di assistenzialismo integrale. Da questo punto di vista si può dire che la cultura politica dei grillini, se tale la vogliamo definire, rappresenta una sorta di estremizzazione a tutti i livelli di quel collettivismo strisciante che ha caratterizzato, senza soluzione di continuità, l’evoluzione politica italiana a partire dal boom economico dei primi anni Sessanta. Una lunga fase che, per l’appunto, ha sempre avuto negli aspetti legati all’assistenzialismo pubblico un elemento politico dirimente. In questo senso, i grillini interpretano una diffusa convinzione secondo la quale, presumendo che il potere politico possegga quantità illimitate di risorse da redistribuire, è solo a causa di amministratori disonesti che non si riesce a raggiungere il paradigma marcusiano di una società opulenta in cui tutti possono godere di un reddito adeguato ai loro bisogni, “lavorando” al massimo un paio di ore al giorno. Ovviamente laddove un simile, dissennato modello è stato in parte raggiunto per ampie fasce di popolazione, come appunto accade in Sicilia da decenni grazie agli enormi trasferimenti che viaggiano sempre da Nord a Sud, il M5S ha buon gioco nel proporre ulteriori camionate di onestissimi pasti gratis. Nel Paese dei balocchi era inevitabile che prima o poi arrivasse un non-partito fondato e diretto da un comico genovese a piantare ovunque copiose quantità di alberi degli zecchini d’oro.

Di Maio va a Cernobbio e rinnega il populismo. Il vicepresidente della Camera partecipa ai lavori del Forum Ambrosetti di Cernobbio. Di Maio smussa gli angoli più spigolosi del programma del Movimento 5 Stelle, scrive Luca Romano, Domenica 3/09/2017 su "Il Giornale". Non ci sono più i populisti di una volta. Pensate cosa succede a Cernobbio, al Forum Ambrosetti che ogni anno ospita i leader della politica e dell'economia. Il vicepresidente grillino della Camera, Luigi Di Maio, fa sapere che loro non sono estremisti, populisti ed anti europeisti. Nel suo intervento Di Maio prova a correggere le posizioni del suo movimento sull'Europa: "Noi vogliamo restare nell'Ue e discutere alcune delle regole che stanno soffocando e danneggiando la nostra economia. Anche i soldi che diamo al bilancio dell'Ue ogni anno devono essere uno dei temi da sottoporre alle altre nazioni". Critiche sì, ma toni decisamente più sofft verso Bruxelles. E rivendica un merito: "Sulla politica monetaria - osserva Di Maio - noi abbiamo avuto il merito di scatenare il dibattito e a questo è servito il tema che abbiamo posto del referendum sull'euro come peso contrattuale, come extrema ratio e via di uscita nel caso in cui i paesi del Mediterraneo non dovessero essere ascoltati, ma noi non siamo contro l'Ue". Sembrano lontani anni luce i tempi del "Vaffa Day", con Grillo che in piazza, a Bologna, battezzò il Movimento 5 Stelle mandando tutti a quel Paese. Oggi, dopo quattro anni dallo sbarco in parlamento, il Movimento 5 Stelle soga in grande: vuole andare al governo. E per questo fa i conti coi "poteri forti". Non solo dialogando, ma indossando l'abito buono, quelle delle cerimonie. "Sono qui per dire che non vogliamo creare un'Italia populista, antieuropeista, estremista". Di Maio dà il meglio di sé per dare un'immagine rassicurante del M5S al mondo economico-finanziario. Alcuni imprenditori che hanno partecipato al dibattito con Di Maio, Matteo Salvini e Giovanni Toti, spiegano che Di Maio ha molto annacquato la carica antisistema dei pentastellati: "Creare e non distruggere", sottolinea Di Maio. Incalzato dal finanziere Davide Serra, vicino al Pd di Renzi, Di Maio ridimensiona persino l'importanza del referendum per uscire dall'euro. Ne parla come di "extrema ratio". "Sono molto scettico - prosegue Di Maio - sulla possibilità di fare una nuova legge elettorale. Se dovessimo arrivare primi alle prossime elezioni - aggiunge - chiederemo il mandato al presidente della Repubblica e chiederemo a tutte le forze politiche di darci fiducia per realizzare questa idea del paese". Salvini e Di Maio non sono stati sdoganati dalla partecipazione al convegno di Cernobbio "ma dagli elettori". Lo afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando al seminario Ambrosetti. "Lo sdoganamento lo hanno fatto gli elettori - ha detto il Guardasigilli - penso sia giusto prendere atto di queste realtà politiche per le quali però è difficile fare i conti con la realtà". Più distaccato il giudizio di Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria. "Noi valutiamo i partiti e la politica dai provvedimenti non dalle persone. Per noi in teoria sono tutti credibili. Dipende poi dalle proposte in termini di politica economica. Li valuteremo in funzione delle proposte".

Aiuto, sono spariti i populisti! Scrive Carlo Fusi il 5 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Salvini e Di Maio cambiano abito e strategia politica, spiazzando Renzi e il Cav. Omamma: e adesso? Compulsando le cronache da Cernobbio, amena località in riva al lago di Como dove annualmente il Gotha imprenditoriale italiano si assiepa, un solo grido di dolore erompe dai petti: aiuto, mi si sono ristretti i populisti. Anzi, altro che ristretti: semplicemente spariti. Così, infatti, da un giorno all’altro, succede che i campioni di un fenomeno che sembrava avesse espugnato il cuore ( e la pancia) degli italiani Santo Graal capace di trasformare in inafferrabile purosangue lanciato verso il potere perfino il più imbolsito dei ronzini – annunciano la resa. «Non siamo populisti», fanno sapere all’unisono Luigi Di Maio, candidato premier non ufficiale dei Cinquestelle, e Matteo Salvini, ufficiale competitor di Silvio nella campaign raceverso palazzo Chigi che è cominciata e finirà nel 2018. Appunto: e ora che si fa? Secondo logica, bisogna per prima cosa avvertire quelli che ancora non lo sanno. O non lo hanno capito. Per esempio gli elettori dei due partiti, sciaguratamente cullati nelle certezze che furono. A partire dal numero uno dei grillini, il Garante del MoVimento, quel Beppe Grillo che era abituato a chiudere i suoi comizi rivolgendosi con smorfioso scherno alle telecamere dei Tg gridando: «Populistiiii!». Ben sapendo che rimpiazzare quell’urlo di guerra con l’altro appena coniato da Di Maio. «Smartistiiii!» non produce lo stesso risultato. Poco male: Grillo è uomo di palcoscenico e s’inventerà qualcosa. In alternativa può sempre chiedere aiuto ai levigati algoritmi di Casaleggio jr. Quanto a Salvini, nessun problema: è noto che i tanti che si riunivano sul pratone di Pontida indossando gli elmi con le corna tutto erano tranne che populisti: al massimo prosecutori delle gesta del Longobardi. Un po’ come i centurioni farlocchi che a Roma stazionano davanti al Colosseo per gli immancabili selfie con i turisti. Poi, proseguendo, sarebbe d’uopo scuotere gli avversari. A cominciare da Matteo Renzi che da dopo il referendum aveva elaborato una sottile quanto fondamentale strategia politico- comunicativa proprio sul quel punto basata: ossia il Pd unico argine contro il populismo di leghisti e grillini. Squassato dal terremoto grillino- leghista, come riparare? Urge Leopolda ad hoc cui magari invitare Angelino Alfano come guest star. Per non parlare di Berlusconi. Il vecchio e saggio ex Cav aveva costruito il suo ritorno al centro dell’agone politico puntando a diventare il baluardo moderato per frenare gli eccessi di Matteo, alleato senz’altro infido e soprattutto ingeneroso. Beh, cambiare all’improvviso le carte in tavola non si fa: non è carino confondere gli ottantenni. Ok, adesso però basta con il sarcasmo: com’è noto, infatti, il gioco è bello solo se dura poco. E poi se è certo che non è sufficiente il discorsetto ad un convegno e qualche dichiarazione ai Tg per cambiare la percezione che i cittadini hanno di un partito, è altrettanto sicuro che l’uscita del duo Di Maio- Salvini risulta tutt’altro che estemporanea o casuale. Fanno così per accreditarsi come forza di governo, è la spiegazione più gettonata. Senz’altro. Ma a parte che già il fatto che entrambi siano percepiti come possibili premier testimonia del vento che tira nel Paese, tanta resipiscenza non ha il medesimo effetto per l’uno e per l’altro. Nel contenitore di centrodestra improvvisamente – vero o falso che sia tornato maggioritario Salvini rappresenta la parte più dinamica. Logico che chi guida le imprese ( ma non solo loro) sia desideroso di misurarne la stoffa e le ambizioni. Ben sapendo che in caso di vittoria elettorale al Matteo 2 sarà necessario rivolgersi perché Salvini è l’uomo che agli occhi di molti appare il più adeguato a drenare in libera uscita consensi dai Cinquestelle, rovesciando lo schema che fin qui a destra è andato per la maggiore. Per quel che riguarda Di Maio, al contrario, il nodo è un altro e si chiama trasversalismo. Come è evidente da tempo, la forza dei Cinquestelle risiede nel fatto che pescano voti sia a destra che a sinistra: hanno funzionato e funzionano in un riflesso “contro” che tuttavia va in tilt nel momento in cui, arrivati al potere, è necessario prendere decisioni e inevitabilmente si finisce con lo scontentare una parte della propria costituency. Il problema, dunque, non riguarda il vicepresidente della Camera in quanto tale: riguarda il Movimento tout court. Chiunque sarà il candidato premier dei grillini avrà il medesimo problema da affrontare. Con il rischio che risulti irrisolvibile. Poi, appunto, ci sono gli altri. Berlusconi farà di tutto per stabilizzare a proprio favore la leadership ma è zavorrato dal fatto che non possiede una strategia valida nel confronto con la Lega salviniana: oscilla tra impennate autonomistiche e costrittive subalternità. Il nervo più scoperto, in quanto rappresenta un polo a sè e il competitor numero uno, è quello del Pd e di Renzi. Se è vero che l’ex premier volutamente gioca a schiacciare Silvio su Matteo convinto in questo modo di calamitare meglio i voti moderati del centrodestra, con la sua mossa Salvini rischia di tagliargli l’erba sotto i piedi: se cade il totem del populismo, infatti, i consensi moderati potrebbero restare dove sono, senza grande fatica. E del resto se davvero Renzi vuole ammantarsi dell’usbergo di unico e solo scudo al populismo, mal si comprendono certi suoi ammiccamenti dei mesi scorsi e di adesso: dal taglio delle poltrone come asset privilegiato nello scontro referendario all’abolizione dei vitalizi contro cui alla fine si è schierato perfino il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, accusando la legge di incostituzionalità. Per ultimo c’è anche un gioco tanto machiavellico quanto, per alcuni, inconsistente. Quello cioè per cui l’abbandono del populismo sarebbe nient’altro che l’uovo di Colombo per giustificare, una volta chiuso lo scontro elettorale magari senza vincitori acclarati, una possibile alleanza di governo tra Cinquestelle e Carroccio. Fondato o meno che sia, si tratta comunque di un orizzonte che più passano i giorni più si dimostra oneroso per il centrodestra e politicamente assai poco redditizio. In caso di risultato elettorale deludente, infatti, sia che Berlusconi si rivolga a Renzi sia che Salvini vellichi i Cinquestelle, si tratterebbe in ogni caso di intese siglate non nella veste di protagonisti bensì a rimorchio.

«Il compito della magistratura? Sottomettere la politica», scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2017, su "Il Dubbio".  Ho letto con molto interesse – e qualche apprensione… – il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica. La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che – finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo – potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. «Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica». Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano). Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato. Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali. Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine – è il punto chiave – riguarda il compito e la missione della magistratura. Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima ( destra Dc), e poi Falcone ( che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino ( ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata – se capiamo bene – perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere…Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano). Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che – temo – va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. «Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)». E più avanti: «I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno… Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia». La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: «Non è carcere duro – mi hanno detto ogni volta – è solo una forma diversa di detenzione…». Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. E’ probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo – non so se anche da Scarpinato – o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli.

DIFFIDATE DEI 5 STELLE.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti. 

#90secondi, Pietro Senaldi il 28 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano": "Auguri alla Costituzione: se siamo messi male è anche colpa sua". Lo scorso 27 dicembre c'è chi ha festeggiato il settantesimo anniversario della Costituzione italiana. Un testo fondamentale, quando è nato, ma che oggi ha bisogno di una radicale svecchiata, se vogliamo salvare l'Italia.

Contro gli "eletti illegittimi" in difesa della Costituzione. Il prossimo Parlamento sarà eletto con una legge elettorale immorale e truffaldina e dunque incostituzionale. Parola di Zagrebelsky e di Montanari, scrive Massimo Bordin il 29 Dicembre 2017 su "Il Foglio".  Gli eletti illegittimi non cambino la Carta. A leggere ieri questo titolo, nella pagina dei commenti del Fatto, veniva da chiedersi se il giornalaio si fosse confuso ritirando fuori una vecchia copia del quotidiano ai tempi della riforma costituzionale. Effettivamente una polemica del genere ci fu all’epoca del voto del Parlamento, poi contraddetto dal referendum, ma non c’è stato nessun errore e nessuna ristampa. L’articolo intendeva riferirsi alla stretta attualità e non agli eletti del Parlamento ormai al capolinea ma a quelli ancora da eleggere. Tomaso Montanari ha inteso mettersi avanti col lavoro, intimando ai candidati di impegnarsi solennemente almeno a non modificare la Costituzione, considerato che la loro elezione avverrà attraverso una legge elettorale immorale e truffaldina e dunque incostituzionale. Qui il ragionamento, per così dire, di Montanari ha un’impennata, necessaria per superare un ostacolo. Il professore non può non convenire sul fatto che la Corte costituzionale non si sia neppure sognata di pronunciarsi in quei termini sulla nuova legge elettorale, ma non è questo il punto. Quello che conta, scrive il professore, è che molti insigni costituzionalisti l’abbiano fatto e che fra essi in particolare spicchi il parere, per di più espresso sulle pagine del Fatto, di Gustavo Zagrebelsky. Tanto deve bastare a decretare l’illegittimità preventiva degli eletti. Per fermare un Parlamento una volta era necessario un monarca, oggi può bastare un principe ucraino.

Questa è la peggior legislatura di sempre? Non avete ancora visto la prossima. Nel 2013 c’erano tre poli, ora ce ne sono cinque. Non c’era una legge elettorale, non ci sarà nemmeno ora. Almeno però Renzi aveva una strategia, allora, ora non c’è nemmeno quella. Il peggio deve ancora venire? Probabilmente sì, scrive Francesco Cancellato su “L’Inkiesta" 12 Maggio 2017.  Se vi piacciono le metafore calcistiche, questa legislatura sembra il campionato del Milan o dell’Inter. Iniziata sotto pessimi auspici, proseguita con sorprendenti refoli di speranza - nonostante lo scarso materiale tecnico - grazie alle doti di un bravo timoniere, terminata peggio di com’era iniziata, tra continue sconfitte, scandali e senza alcuna apparente prospettiva che domani possa in qualche modo andare meglio. Perché, bisogna dirlo, finisce peggio di com’era iniziato, il diciassettesimo giro di giostra della politica italiana. C’eravamo svegliati con tre poli, all’indomani delle elezioni del 24 e 25 febbraio e oggi ne abbiamo cinque, con la destra spaccata in due tronconi equipollenti, la sinistra lacerata dalla faida tra renziani e anti-renziani e il Movimento Cinque Stelle che aspetta sulla riva del fiume, sgranocchiando popcorn. Non avevamo una legge elettorale, all’indomani del pronunciamento della Consulta del 4 dicembre 2013 che aveva dichiarato incostituzionale il Porcellum. Non siamo riuscita a darcene una nuova, tre anni esatti dopo, bocciando la riforma costituzionale su cui poggiava l’Italicum, comunque incostituzionale pure quello. Difficilmente riusciremo a darcene una prima che scada il tempo - sia essa il Mattarellum annacquato, il Tedesco corretto, l'Italicum consultellato - poiché a nessuna forza politica conviene. Renzi vuole mostrare al mondo che senza di lui è il diluvio, i Cinque Stelle che la politica fallisce un’altra volta, mentre a Berlusconi e ai piccoli partiti servono proporzionale, capilista bloccati, sbarramenti più bassi possibili e premi di maggioranza impossibili da raggiungere, per evitare la tentazione del voto utile e continuare a contare qualcosa. Perché, bisogna dirlo, finisce peggio di com’era iniziato, il diciassettesimo giro di giostra della politica italiana. C’eravamo svegliati con tre poli, all’indomani delle elezioni del 24 e 25 febbraio e oggi ne abbiamo cinque, con la destra spaccata in due tronconi equipollenti, la sinistra lacerata dalla faida tra renziani e anti-renziani e il Movimento Cinque Stelle che aspetta sulla riva del fiume, sgranocchiando popcorn. In questo marasma tattico, la strategia va a farsi benedire. Allo stato attuale sappiamo solo che Matteo Renzi, rieletto segretario, sarà il candidato premier del Partito Democratico, ma non sappiamo cosa voglia fare, visto che ha passato gli ultimi mesi a cercare di sopravvivere, più che a immaginare il futuro. Prova ne è una sintesi congressuale di tre parole - lavoro, casa, mamma - che nemmeno nei peggiori incubi di chi lo sostenne nel 2012, quando ancora si parlava di Europa, di merito e di futuro. Sintesi che peraltro è stata travolta dall’ennesimo scandalo bancario, vera e propria croce del renzismo, almeno in questa sua prima era. Il resto è commedia dell’assurdo: nella Lega si è aperta la frattura, da tempo sotto la cenere, tra nordisti e nazionalisti, coi primi - guidati dal governatore lombardo Maroni - che promuovono i referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, per costruire l’Europa delle Regioni e i secondi che vogliono l’Italia fuori dall’Euro. Poco più in là, Berlusconi aspetta la sentenza della Corte Europea di Strasburgo che dovrebbe riabilitarlo e traccheggia, incerto e malandato, alla guida di un partito in bancarotta. A sinistra non si capisce nemmeno chi stia con chi, figurarsi se esiste un programma o un leader. Ciò che sarà dei Cinque Stelle, in spregio alla democrazia diretta, è ancora nella testa di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Qualunque esito daranno le urne, in ogni caso, non sarà possibile governare. In un contesto tripolare lo sarebbe stato, forse. Se non altro perché il centrodestra a trazione berlusconiana e il centrosinistra a trazione Renzi non sono due entità inconciliabili. La mela è divisa in cinque, però: nessuna accoppiata è in grado di ricomporla per metà. E nessuna alleanza a tre è realisticamente possibile. Il tutto, proprio mentre il Quantitative Easing arriva alle ultime curve, mentre l’Europa sembra avere ripreso la sua marcia verso un percorso di ricostruzione, mentre una nuova rivoluzione tecnologica alle porte. Che sì, la diciassettesima legislatura è stata un disastro. Ma solo perché non abbiamo ancora visto la diciottesima.

Odio ad personam, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 2/11/2017, su "Il Giornale". Caccia all'uomo. Il nemico che i grillini vogliono abbattere è prima di tutti uno: Silvio Berlusconi. L'antiberlusconismo ossessivo non è una meteora, nel firmamento dei Cinque Stelle. L'odio per il leader di Forza Italia è una delle prime ragioni sociali del Movimento. E ora, alla vigilia delle elezioni siciliane e all'antivigilia di quelle politiche, con un Cavaliere sempre più forte, tirano fuori le loro vecchie cartucce. Ma la polvere da sparo ormai è bagnata. Tutto è iniziato a metà degli anni Novanta, Berlusconi non aveva fatto in tempo a mettere un piede nell'arena politica che Grillo lo aveva già messo nel mirino. Prima lo faceva dai palchi dei propri show portando a casa una lauta ricompensa. Poi ha deciso di passare all'incasso elettorale. Lo ha dipinto come un imprenditore sull'orlo del crac finanziario (ma l'unica cosa che è fallita è stata la sua previsione), un capitalista senza scrupoli e un mafioso. Ma era solo l'inizio di una campagna contra personam che sarebbe proseguita per anni, passando dalle minacce agli insulti fisici, dagli auguri di sventure ai nomignoli dispregiativi. Un odio viscerale che dal copione del comico sarebbe poi entrato anche nei programmi del politico. Gli attacchi si fanno sempre più personali, morbosi e violenti. Grillo è sempre in prima linea contro il leader di Forza Italia: nel 2002 porta in giro uno spettacolo di 150 minuti monopolizzato dalla figura del Cavaliere, nel 2003 aderisce a un'azione di boicottaggio contro i prodotti che fanno pubblicità sulle reti Mediaset. Lo scopo? «Difendere la libertà di informazione». Danneggiando un'azienda che offre occupazione a migliaia di persone. Ma era l'Italia dell'antiberlusconismo con la bava alla bocca, del nemico da abbattere a tutti i costi. Quando può, Grillo si accoda a tutte le manifestazioni anti Cav da piazza Navona al Popolo viola, e se ha bisogno di una platea maggiore va in tv, dal suo amico Santoro. Il giorno in cui il Cavaliere viene condannato in via definitiva il leader dei Cinque Stelle brinda «a un evento storico come la caduta del muro di Berlino». Si sa, lui ama sconfiggere i nemici per via giudiziaria più che elettorale. È un'ossessione ai limiti dello stalking. Grillo odia Berlusconi e tutto quello che fa riferimento a lui. A partire da Fininvest: nel 2004 scrive su Internazionale che il colosso di Cologno Monzese ha accelerato il declino del Paese. Non si sa su quali basi. Ma non c'è da stupirsi: Grillo è anche quello che diceva che l'Aids non esiste e che i vaccini sono inutili. Nel 2012 viene condannato per diffamazione a risarcire 50mila euro al Biscione. Ma la persecuzione verso il patrimonio della famiglia Berlusconi (e non solo, nel sedicente francescanesimo grillino i ricchi sono tutti dei pericolosi nemici) arriva anche nella prima bozza del programma dei pentastellati sull'informazione, nel quale è scritto nero su bianco che con un loro ipotetico governo non potrà esistere nessun canale televisivo nazionale posseduto a maggioranza da alcun soggetto privato con più del 10 per cento. Vi viene in mente qualcuno in particolare? Ecco, appunto. Praticamente un esproprio di Stato. Una misura sartoriale fatta per spegnere Mediaset. E poi - insulto dopo minaccia - arriviamo fino agli ultimi mesi, con il tentativo di far fuori Berlusconi dalla vita politica con un emendamento ad hoc da infilare nel Rosatellum. Per chiudere con la ridicola indagine, aperta a Firenze, sulle stragi di mafia, che ricalca uno dei refrain grillini e porta in calce la firma di Nino Di Matteo, amico e grande ispiratore del Movimento 5 Stelle. E siamo solo all'inizio di una lunga campagna elettorale.

Beppe Grillo e il fascismo sessantottino, scrive di Fabio Cammalleri su "Lavocedinewyork.com" il 28 Febbraio 2014. Qualsiasi espressione di dispotismo evoca Mussolini, ma nel caso del Movimento Cinque Stelle bisogna guardare agli anni ’70. Il popolo grillino sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica. Ma la memoria a breve termine è troppo scomoda. È comprensibile che generalmente si tenti di spiegare il Movimento 5 Stelle senza il Movimento 5 Stelle. Perché l’Italia è un Paese antico e perciò i paralleli, le analogie, le suggestioni rampollano dal suo vastissimo passato con naturale facilità. E, nonostante non manchi mai il dubbio “sull’utilità e il danno della storia per la vita”, resta questa facilità di evocazione e di confronto. Meno comprensibile che l’indagine nel tempo susciti risonanze obbligate. Se Grillo si muove in modo dispotico e plebiscitario, a chi si pensa? Al fascismo, naturalmente, sia pure al fascismo in statu nascendi. È una suggestione. Ma se anche non fosse, è l’unico paragone possibile? Forse no. Forse se ne può svolgere un altro più stringente, più comprensibile. Per farlo, però, bisogna uscire da quelle risonanze obbligate. Proviamo. Secondo lo storico Arthur Schlesinger Jr., che fu anche consigliere di John Kennedy, per comprendere i caratteri e le aspirazioni di una realtà politica, sia essa una singola personalità o un gruppo, bisogna considerare gli anni della sua giovinezza, quelli in cui coloro che gli diedero anima e sangue si affacciarono al mondo: gli anni dell’università o del primo lavoro. Espose questa teoria in un saggio, significativamente intitolato: I cicli della storia americana. I giovani di Roosevelt sarebbero stati la società adulta di JFK, la Nuova Frontiera, figlia del New Deal; e il ritenuto conservatorismo degli anni di Reagan, sarebbe derivato da quello degli anni di Ike, della Guerra Fredda entrata a regime. E così via. S’intende che è uno schema molto generale, ed anche generico, ma rende l’idea. Seguendo questa traccia, per capire Grillo non ci serve Mussolini, ci serve l’Italia repubblicana, ci servono gli anni ’70. Si potrebbe obiettare che molti dei “cittadini” non hanno vissuto quel periodo, e non ne potrebbero avere ereditato i caratteri. Se è per questo, non hanno vissuto neanche il fascismo, come nessuno di noi. E poi, essendo il Movimento smaccatamente personalistico, è sulla persona del Capo che occorre soffermarsi, proprio e mentre più protesta la sua fungibilità, la sua non indispensabilità. Perciò, il criterio gioventù-maturità, stretto all’arco della “generazione”, appare quanto mai appropriato. Giacché costringe a soffermarsi sulle persone in carne ed ossa, senza cedere alle comode vie di fuga di un’astrazione che, di fronte ad un quadro, guarda solo alla figura e mai all’autore. Così, il popolo casaleggesco del web, sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica in sedicesimo che di “adunate oceaniche”; più di una compulsione petulante e narcisistica, solo preoccupata di sé e col solo problema di lasciare il segno della parola più forte, della frase più figa, che di uno stazionamento attonito e ammutolito sotto un balcone oracolante; emana un monadismo delle coscienze chiuso nella mera contiguità, sazia e galleggiante, di abitudini inerti e modaiole, più che la tragica comunione di un’autentica povertà che, sperando di superarsi, si inabissa. E non è un caso che il paradigma-Mussolini sia così ampiamente sponsorizzato. Ora che Occupy-Parlamento mima indimenticate occupazioni universitarie e di fabbrica; ora che le espulsioni on line tradiscono il lezzo settario dei “venduti” e “servi del sistema”; ora che la violenza verbale tende sempre più frequentemente a concretarsi, come accadde con l’affabulazione esaltata della “controinformazione”, fattasi poi “lotta continua”, quindi “salto di qualità nella lotta”, e infine “lotta armata” e tutto il resto; ora che i “Poteri Forti” sembrano assolvere alla stessa funzione già attribuita al “terrorismo di stato” e all’ “imperialismo capitalistico”, l’infame funzione di cui ogni deliquio massificato, facinoroso e irresponsabile ha sempre bisogno, la funzione di autogiustificarsi; ora che siamo a questo, che c’entra Mussolini? C’entra, secondo quelle risonanze obbligate. Infatti, per parlare di un secolo fa, per la memoria a lungo termine, c’è sempre spazio. Ma il rispecchiamento imbarazzante, quello che si potrebbe subire appena passando da una stanza all’altra, estraendo il cassetto del comodino e avendo il coraggio di sfogliare il diario del liceo, no; la memoria a breve termine, mai. Meglio la luna. Perché lì, così vicino, c’è tutta la violenza, tutta la viltà, tutta la rozzezza, tutta la miseria, tutto il trasformismo che si attribuiscono all’Orco fascista. Solo che l’Orco fascista, dopo il liturgico richiamo di giornata, sfuma inevitabilmente in una rarefazione fiabesca, in una comoda inattualità. Mentre quel sordo rancore, quella truce disposizione d’animo, possono riprendere a gonfiarsi, ad agire, ad offendere dicendosi offesi, a colpire dicendosi colpiti. E ad inseguire palingenesi e carriere.

Così Beppe Grillo lascerà il Movimento 5 Stelle. Il comico fa i bagagli: sta per riprendersi il dominio del blog, che andrà in mano a una srl. Le scelte di Luigi Di Maio «gli stanno strette» e «non è mai scattato l'innamoramento» con Casaleggio jr. Lo anticipa L'Espresso in edicola da domenica 14 gennaio, scrivono Giovanni Tizian e Susanna Turco l'11 gennaio 2018 su "L'Espresso". Sarà una scissione invisibile, ed è già cominciata. Beppe Grillo, il Movimento delle origini, la visione di Casaleggio senior di qua. Luigi Di Maio, Casaleggio junior e le nuove regole di là. Magari si trasformerà in una guerra, ora ha la forma di una marea: più che un'esplosione, è un discreto ritirarsi. Lo ha già fatto Alessandro Di Battista annunciando di non candidarsi. Il prossimo sarà Beppe Grillo, come racconta l'Espresso in edicola domenica 14 gennaio, con un ampio servizio dal titolo: “Grillo non abita più qui”. È questo che dice chi al comico genovese è vicino davvero. Lo fanno trapelare anche a Milano, dalla Casaleggio Associati, dopo che le nuove regole hanno previsto per la prima volta che il Garante, cioè Grillo stesso, possa dare addio al Movimento. La discreta ritirata doveva effettuarsi già un mese fa, ora si parla di gennaio ma i più dicono che sarà prudente spostarla a dopo le elezioni. Dopo averci pensato per mesi, il comico genovese ha infatti chiesto di riavere indietro la proprietà del blog, che ora è formalmente in mano a un militante di fiducia e sostanzialmente gestito dalla Casaleggio. Il dominio, secondo i piani, dopo lo switch off dovrà finire in mano a una srl unipersonale, cioè a socio unico. Insomma Grillo fa i bagagli. La versione più benevola del racconto sostiene che voglia tornare a fare il comico impegnato, l’attivista, il giramondo alla scoperta di tecnologie destinate a cambiare il futuro del pianeta; secondo un’altra, meno benevola - non a caso proveniente dall’area della Casaleggio - è stufo di beghe, polemiche, lotte fratricide e soprattutto querele. Il vero motivo è nascosto nelle pieghe. Chi conosce bene il comico sa infatti che alcune scelte del nuovo leader Luigi Di Maio «gli vanno un po’ strette» (a esser gentili), mentre con Davide Casaleggio «non c’è mai stato l’innamoramento» che invece era scattato con il padre Gianroberto. Per lui, ormai, più che una passione, l'M5S è diventato l'assolvimento di un patto d'amicizia con il guru della Casaleggio. Il presente gli sta stretto. È per questo che nell'illustrare come sarà il futuro, si usa come esempio proprio Di Maio: «Tutto quello che riguarda il partito sarà sul sito a Cinque stelle, mentre beppegrillo.it tornerà ad essere un laboratorio di idee che guarda fuori dal perimetro del partito. Il video di Luigi, che oggi va sul blog, domani andrà sul sito dei Cinque stelle». Insomma Di Maio finirà da un’altra parte. È questo il punto finale di una strategia che il front man storico dei grillini ha perseguito negli ultimi mesi, facendo «in modo che l’attività del Movimento fosse via via più slegata dalla sua figura». E quindi più autonoma, a partire dagli argomenti del blog. E non è l'unica spina per il Movimento 5 Stelle, giunto ormai alla versione 3.0. Come racconta all'Espresso l'avvocato Lorenzo Borré, nel delineare uno scenario di un Movimento che si sdoppia: «Adesso i vertici hanno fatto una scissione dall'alto, creando una nuova Associazione. Ma la prima non è estinta, conta ancora degli iscritti: quindi al momento ci sono due Movimenti». Che potrebbero finire in lotta fra loro.

I giornalisti e la politica, scrive Augusto Bassi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". Gianluigi Paragone, Tommaso Cerno, Giorgio Mulè, Emilio Carelli, Francesca Barra, Primo Di Nicola sono i più illustri giornalisti che saranno candidati alle elezione del 4 marzo prossimo, trasversalmente, fra partiti e movimenti, fra forze conservatrici e riformiste. Una presenza in quantità e di qualità che non rappresenta tuttavia una rottura con il passato, quanto piuttosto la conferma di una interscambiabilità naturale fra l’impresa giornalistica e quella politica. Prima di loro c’erano stati, fra gli altri, Eugenio Scalfari, Michele Santoro, Dietlinde Gruber, Antonio Polito. E su questo tema mi era capitato di ascoltare una tavola rotonda del Parlamento Europeo dove intervenivano Antonio Tajani, David Maria Sassoli e Silvia Costa, anch’essi autorevoli ex giornalisti in seguito protagonisti ai più alti livelli di istituzioni sovranazionali. In questi giorni ho seguito con attenzione le testimonianze degli ex colleghi pronti al governo della comunità, invitati nei salotti televisivi a raccontare le ragioni di questa scelta. Così come ho letto le opinioni dei futuri elettori, ondeggianti fra convinto supporto e accuse di servilismo premiato. Ora, premetto che non ritengo deprecabile che un giornalista scenda, o salga, in politica. L’esercizio dell’obiettività, della neutralità, dell’imparzialità… è già di per sè ideologia. Ne abbiamo avuto manifesta testimonianza nell’ultima puntata di Piazza Pulita, dove Corrado Formigli – campione di quel giornalismo che pretende di raccontare i fatti, la realtà, senza filtri – ha mostrato una volta di più faziosità subdola quanto palmare. Vittorio Sgarbi gli ha levato la pelle con nevrosi chirurgica, lasciando all’osservatore il macabro spettacolo della crudité di un filisteo. Ma se è facile togliere la maschera al sedicente super partes, più difficile è prendere coscienza dell’inevitabilità di una dichiarazione, anche nel momento in cui la si rifiuta. Il giornalista non è un aruspice che legge le interiora degli animali, ma neppure un reporter. Il suo compito, in particolare nel tempo dell’immediatezza universale, non è quello di scattare l’istantanea del reale, che è comunque irriducibilmente parziale e soggettiva anche in un reportage. Non serve impegnarsi nel vano sforzo della terzietà. Deve piuttosto essere in grado di abdurre: ovvero di osservare i fatti come qualcosa di correlato, ipotizzandone le cause al fine di prevedere altri fatti, di scommettere sulle conseguenze, di condurre chi legge da ciò che è a ciò che sarà. Di pensare in maniera non lineare e post-convenzionale allargando l’orizzonte critico. Mentre il mondo è pieno di giornalisti che dopo sapevano tutto prima. Quando si parla un poco pretenziosamente di “ricerca della verità”, si intercetta la volontà buona di chi intende abdurre solo dopo essersi ripulito da incrostazioni ideologiche, farisaiche, opportunistiche. Questo è il massimo della professionalità che ci è concesso. Da lì in avanti si procede rendendo sempre maggiormente manifesta la propria idea di buona vita, chiarendo che cosa si ritiene auspicabile e che cosa nocivo. E in quel momento si fa politica, ovvero si interviene sulla realtà nella speranza di modificarla. I lettori rappresentano gli elettori e si conquistano con la lealtà e la lucidità. Escludendo i solipsismi, ogni pubblica rivendicazione morale è un’affermazione politica. Se un editorialista racconta i mali dell’Italia, dolendosene, fa politica, perché esprime implicitamente la sua idea di come l’Italia dovrebbe essere. Se in buona fede intercetta i responsabili, fa politica, perché costringe la politica stessa a correggersi. Per questo esiste un continuum naturale fra le due funzioni, fra le due dimensioni, e un equilibrio necessario. Ciò che si evince, per converso, è la buffoneria di quei colleghi che ostentano neutralità, obiettività, quasi come se le loro opinioni cadessero direttamente dalla navicella spaziale di John Rawls, per poi ritrovarli anni dopo schierati in una lista a sventolare bandierine. Paragone ha dichiarato: «Sono sempre stato un giornalista di parte, quindi non credo di presentarmi in una veste diversa. Ero già un attore politico. Non escludo dunque neppure di tornare a fare il giornalista. Mi considero come una sorta di inviato speciale nel Palazzo…». Vero. Anche se la parte è cambiata. Ma qui è possibile osservare il percorso di ciascuno e pesarne l’integrità. Nulla vieta di rimanere delusi da un partito e trovare comunanza di vedute con un altro, magari nuovo. Cerno confessa: «Ero stanco di fischiare dalle tribune, volevo scendere in campo e provare a segnare». Poi aggiunge: «L’imparzialità nasce dal pluralismo delle voci, non da una singola voce. Mi piace la parola partito perché significa prendere parte». Tutto legittimo. Anche quando si sceglie tragicamente di prendere parte al Partito Democratico. Cionondimeno, vorrei chiarire che cosa mi ha spinto a commentare. Nella totalità di questi interventi, testimonianze, confessioni, di oggi e di ieri, da ex colleghi e possibili riferimenti istituzionali, non ho sentito una sola parola sul futuro dell’informazione. Non una riflessione sulla professione che lasciano. Sull’epocale transizione digitale, fra i media intesi come medium circoscritto e regolamentato e il riconoscimento di ogni smartphone come strumento di comunicazione di massa. Sul delirante dibattito relativo alle fake news. Su come garantire l’indipendenza dell’informazione dalla politica proprio in virtù di una così stretta affinità di inclinazioni e intenti. E dall’economia sovranazionale, verso cui la politica nazionale stessa è in posizione sempre più ancillare. Silenzio. Compito del giornalismo oggi, urgente come mai prima, è la negazione dell’automatismo. La negazione di una verità immediatamente alienata. La negazione di una verità immediatamente manipolata. La negazione di ogni superstizione ideologica e del pensiero mercantile di dominio. La negazione dell’inevitabilità del reale. Il giornalista fa politica sorvegliando la politica. Vigilando sulla politica. Pungolando la politica. Potendo avvalersi di quella distanza dal potere rivendicata da Montanelli. Ma se i migliori giornalisti abbandonano la propria funzione per diventare politici stricto sensu, quis custodiet ispos custodes?

M5s, la deputata Di Benedetto se ne va: “Non mi riconosco più in un movimento che è la sua più volgare negazione”. La parlamentare uscente di Palermo, 30 anni, è ricandidata in un listino proporzionale ma difficilmente sarà rieletta: "Mi trovo in una forza politica che avrebbe dovuto cambiare il sistema e ci si è adagiato sopra, dove i candidati vengono scelti perché amici di qualcuno. Si organizzano cordate per i voti online, infangando gli avversari, mentendo e poi imbarcando ex del Pd e di altri partiti", scrive il 2 febbraio 2018 "Il Fatto Quotidiano". Chiara Di Benedetto, deputata e ricandidata alle Politiche, lascia il Movimento Cinque Stelle. “Non posso riconoscermi – scrive la parlamentare su facebook – in ciò che viene spacciato per Movimento, ma che si pone come la sua più volgare negazione”. La Di Benedetto, trent’anni, palermitana, è definita appartenente all’ala cosiddetta “ortodossa”. “Mi trovo all’interno di una forza politica che avrebbe dovuto cambiare il sistema e, invece, ci si è adagiato sopra, si è conformato a questo” aggiunge. “Mi ritrovo candidata – prosegue la Di Benedetto – con un simbolo che parla da sé. Mi ritrovo un leader, una struttura di partito e accanto a me, in lista, riciclati di altri partiti, o candidati con precedenti esperienze politiche di cui il M5s sembra vantarsi”. La Di Benedetto è stata ricandidata alle Politiche nel collegio Bagheria-Marsala-Trapani-Monreale, al quarto posto del listino proporzionale e quindi con poche chance di tornare a sedere alla Camera. Capolista, per effetto del successo alle Parlamentarie, è Antonio Lombardo, alcamese, avvocato e ex assistente di una deputata regionale. A seguire Caterina Licatini, finora presidente dell’Azienda Multiservizi di Bagheria, e un consigliere comunale di Casteldaccia, Davide Aiello. “Nei prossimi giorni – annuncia Di Benedetto – invierò la richiesta, tramite raccomandata, per uscire dalla nuova associazione del Movimento 5 Stelle”. La Di Benedetto va anche più a fondo: “In questo movimento i candidati da mettere in lista vengono scelti perché sono amici di qualcuno, perché un portavoce ha garantito per loro. Chi può, chi è vicino ai vertici, cerca di garantire l’elezione dei propri fedeli uomini, organizzando cordate per le votazioni online, denigrando e infangando altri candidati, mentendo spudoratamente, dimostrando tutta l’ipocrisia di un partito che inneggia alla trasparenza ma che poi muove le carte sottobanco. Tutte le persone che, in questi anni hanno davvero cercato di contrastare questa deriva sono state messe alla porta, me compresa; altre, si sono adeguate in fretta alla nuova forma, un po’ per furbizia, un po’ per inerzia. Io – osserva la deputata del M5s – sono stata isolata ed emarginata sia all’interno del mio gruppo Parlamentare, sia sul territorio, sia dai vertici della ‘comunicazione’ che mi hanno impedito, anche fisicamente, di partecipare ai lavori e riunioni, ad esempio, sul programma”. Per la deputata “è evidente che questo nuovo movimento non voglia me, unica portavoce uscente a Palermo, e neanche tanti altri validissimi attivisti che sono stati epurati senza alcuna motivazione. Questo movimento preferisce candidare ex assessori Pd, ex uomini di segreterie politiche, ex qualsiasi cosa, piuttosto che candidare chi, nel bene e nel male, ha sempre cercato di tutelare l’integrità del Movimento stesso”.

La morale dei 5Stelle: «Picchiare un romeno è ok, ma l’affitto pagalo!», scrive Piero Sansonetti il 3 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il candidato al Senato “processato” dal Movimento per l’affitto ma assolto per le botte agli immigrati. Una volta se dicevi Dessì ti riferivi a uno scrittore sardo di grande talento e forte impegno intellettuale. Si chiamava Giuseppe Dessì. Era uno studioso, un narratore, un pacifista. È morto una quarantina di anni fa. Temo che non lo conosca più quasi nessuno. Oggi se dici Dessì ti riferisci a questo celebre candidato dei 5 stelle. Pugile, non molto studioso, per niente pacifista. Famoso per tre ragioni: è amico degli Spada (la famiglia di Ostia recentemente indicata all’opinione pubblica come mafiosa e origine di tutti i mali del litorale laziale), ha preso a pugni tre rumeni («ho dovuto», ha scritto su facebook), paga un affitto troppo basso alle case popolari. Meno di 8 euro al mese.Il Movimento 5Stelle non ha avuto nessuna reazione quando si è saputo che Dessì era abituato a prendere a pugni i romeni. I garanti avranno pensato: «beh, se erano rumeni…». Ieri invece è successo l’iradiddio quando si è saputo dalla televisione che Dessì paga otto euro, o forse sette, per l’affitto. Lui si è difeso. Ha detto: ma io sono un nullatenente, o almeno risulto tale perché non pago le tasse. E dunque ho diritto alla casa. E poi ha gridato ancora più forte: si, ho mandato alla malora una piccola impresa messa su coi soldi di mia moglie, sì, probabilmente sono un incapace: ma disonesto no. Chissà se questa giustificazione sarà sufficiente alla Lombardi e a Di Maio, che in mattinata avevano avvertito che l’M5S non fa sconti: «Se sarà confermato che l’affitto è così basso – hanno proclamato – fuori!». Probabilmente Di Maio e Lombardi prenderanno atto dell’attenuante («sono un incapace»). Nel Movimento 5 Stelle essere incapaci non è un intralcio alla carriera. Anzi talvolta può aiutare. Però l’affitto è l’affitto… Naturalmente su una storia così si può ridere anche parecchio. Il problema è che l’affermarsi di certe idee e di certe gerarchie di valori nell’opinione pubblica, e in gran parte dell’establishment politico e giornalistico, non è una cosa sulla quale scherzare molto. L’idea che prendere a pugni uno che ti chiede una sigaretta per strada sia un bel gesto, o comunque sia molto, molto meno grave di una furbata sull’affitto, è una idea che prefigura un certo modello di società. Violento, totalitario, ispirato alla legge della giungla. Dove la religione della legalità non si fonda su una esaltazione delle regole e dello Stato di diritto, ma solo su una forte aspirazione totalitaria. Non è mica una novità. Ai tempi della prima Repubblica, Giorgio Almirante (che pure era un leader politico di notevole statura) ogni tanto, usando le sue straordinarie capacità retoriche, tirava fuori questa battuta ad effetto: «Quando appesero Mussolini per i piedi, a piazzale Loreto, non uscì neanche un centesimo dalle sue tasche». Per dire: ditegli quel che volete, al Duce, ma era onesto. Il fascismo non conosceva corruzione. Naturalmente non è vero: il fascismo alimentò ampi fenomeni di corruzione. Solo che non se ne parlava. Però Almirante aveva ragione, nella sostanza: non fu certo un eccesso di corruzione il male maggiore del fascismo. Fu piuttosto l’abolizione della libertà, della democrazia parlamentare, l’arresto di centinaia di dissidenti, e poi la guerra, la persecuzione degli ebrei, l’alleanza coi nazisti… Ecco, ho paura che rischi di tornare quel tipo di logica. Quando ti dicono che non contano le idee, le capacità, i programmi, i diritti. L’unica cosa che conta è l’onestà. E quando ti dicono che i grandi valori per una società non sono la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza, il benessere, ma solo l’onestà. Talmente conta l’onestà che un candidato alle elezioni preferisce dichiararsi incapace pur di rivendicare la sua onestà. E tanto conta che i suoi capi non si preoccupano in nessun modo che questo candidato faccia propaganda al movimento prendendo a cazzotti gli immigrati (forte delle sue capacità professionali di pugile) ma fanno scattare l’allarme sul problema dell’affitto. Come finirà questa storia? Tranquilli: Dessì – che sia o no espulso dal movimento – sarà eletto, perché ormai è in lista in un collegio abbastanza sicuro. Magari a quel punto lo costringeranno a pagare un affitto un po’ più alto, forse anche due o trecento euro, ma potrà indisturbato continuare a pestare per strada gli immigrati, e a gloriarsene su facebook. Io francamente avrei preferito il contrario: va bene – gli avrei detto – paga sette euro al mese, ma giù le mani.

IL PERICOLOSO MORALISMO A 5 STELLE, scrive Dimitri Buffa il 2 febbraio 2018 su “L’Opinione". Un moralismo ad usum delphini, pericoloso e inquietante. Oltre che non trasparente. Il partito che grida “onestà onestà” nei comizi di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista con Beppe Grillo nel doppio ruolo di garante e “bravo presentatore”, non si perita di farci conoscere il risultato delle cosiddette parlamentarie né tantomeno di quanti hanno votato on-line. E questo ormai a tre giorni dalla presentazione ufficiale dei candidati alle elezioni politiche del 4 marzo. In compenso, il sedicente candidato premier Luigi Di Maio fa la Madonna pellegrina di tutti i talk-show, specie de “La7” dove le interviste in ginocchio si sprecano. E domande imbarazzanti se ne se sentono pochine. Nessuno gli ha ancora chiesto conto della clamorosa esclusione del vincitore delle primarie on-line a Torino, tale Marco Corfiati che, a suo dire, sarebbe stato escluso in quanto frequentatore assiduo di siti di incontri per gay, con coloratura a luci rosse. E nella motivazione si legge, lo riporta Paolo Madron in un articolo per Lettera 43, che “frequentava siti di escort per omosessuali”. Una maniera furbetta per escludere un gay senza farsi accusare di omofobia. In compenso si può parlare di moralismo all’iraniana, quello della famigerata polizia per la repressione del vizio e per la promozione della virtù. E c’è chi pensa che queste assurde discriminazioni siano una sorta di riflesso condizionato in omaggio a Grillo, noto per avere moglie e suocero di origine persiana e militanti pro regime. Speriamo che qualche sperticato ammiratore di questo partito e qualche assai incauto candidato - che credendo di essere un fiore all’occhiello rischia invece di trasformarsi nella classica foglia di fico - si renda presto conto che nei criteri di esclusione di questo fantomatico regolamento dei grillini si è nel tempo aggiunta la discriminante sessuale, quella moralista e quella complottista che vede nella massoneria il male di ogni zona del mondo. Scrive giustamente Paolo Madron sul sito di Lettera 43 che “se la sola frequentazione di siti porno costituisse un capo d’accusa dirimente, tre quarti della popolazione italiana non sarebbe candidabile”. Almeno tra i Cinque Stelle. Si comincia escludendo gli inquisiti, anche quelli denunciati ad hoc da specialisti del settore, proprio perché le varie procure siano costrette a inserirli nel registro degli indagati, si continua escludendo gli omosessuali troppo attivi nei siti di incontri gay nonché i massoni e, alla fine, magari in futuro – chissà – anche gli ebrei non saranno più candidabili nel Movimento Cinque Stelle. Tanto l’ostilità anti-israeliana di certo non manca loro. Il passo dall’odio anti-israeliano all’antisemitismo notoriamente è breve.

LA SVOLTA GOVERNISTA DEL M5S, scrive Claudio Romiti il 3 febbraio 2018 su “L’Opinione". Molti segnali indicano che il Movimento 5 Stelle stia rapidamente tentando di cambiare pelle. L’inaspettato allontanamento di Beppe Grillo, con tanto di creazione di un suo nuovo blog, la decisione di non ricandidarsi da parte di Alessandro Di Battista, il più ortodosso dei grillini di vertice, unita alla scelta di non entrare in un futuro governo a Cinque Stelle, il nuovo statuto e la sostanziale introduzione del metodo delle cooptazioni nella selezione di candidati alle elezioni del 4 marzo sembrano andare nella direzione di una svolta governista di questo partito. Svolta che continua a trovare conferme, nonostante le parziali smentite di Luigi Di Maio al riguardo, nelle recenti dichiarazioni del capo politico dei grillini espresse di fronte ad alcuni importanti investitori della City di Londra. Se così fosse, tutto ciò rientrerebbe nella normale evoluzione politica e organizzativa di qualunque partito o movimento rappresentato in Parlamento. Evoluzione, si badi bene, che si basa sui principi più elementari che regolano da sempre la natura umana e che, soprattutto per gente miracolata che dalla strada si è trovata catapultata su un comodo scranno parlamentare, spinge qualunque paladino del popolo, o presunto tale, a seguire con logica inesorabile il seguente motto attribuito al grande Thomas Hobbes: “Primum vivere, deinde philosophari”. Ciò significa, per dirla molto sinteticamente in soldoni, che la naturale e assolutamente comprensibile inclinazione di ogni individuo sano di mente ad anteporre i propri interessi a quelli dell’indistinta collettività, non poteva non prevalere anche dentro il M5S, portando i suoi cosiddetti portavoce a rinsaldare la propria indubbia posizione di privilegio raggiunta attraverso una rocambolesca quanto fortunosa selezione. Da qui ne consegue, osservando la questione in rapporto alla confusa situazione politica italiana, che se l’appena consolidato establishment pentastellato ambisce ad avere un futuro che vada oltre la demagogica regola dei due mandati, non può che fare di tutto per fornire al Paese, e in primo luogo a se stesso, una sorta di copertura assicurativa contro la sciagurata possibilità di tornare rapidamente alle urne. Al di là delle chiacchiere e dei distintivi ancora ostentati, l’unica possibilità che Di Maio e soci hanno per restare in pianta stabile e da protagonisti nel teatrino della politicaccia italiota è quella, all’occorrenza, di tenere a galla il prossimo Parlamento il più a lungo possibile. Costi quel che costi!

Adesso Ricci accusa Beppe Grillo: "Si fingeva autore di canzoni non sue". Antonio Ricci, nella sua autobiografia 'Me tapiro', racconta gli aneddoti più stravaganti che lo hanno visto protagonista insieme a vip come Paolo Villaggio e Beppe Grillo, scrive Franco Grande, Sabato 28/10/2017, su "Il Giornale". Me tapiro. Si intitola così l’autobiografia di Antonio Ricci di cui il Corriere della Sera ha pubblicato alcune parti in cui l’ideatore di Striscia racconta vari episodi sui vip che ha incontrato durante la sua carriera.

Gli aneddoti su Paolo Villagio. Ricci racconta che, durante i funerali di Fabrizio De André, Paolo Villaggio gli abbia sussurrato: “Antonio, sono molto invidioso. Secondo te riuscirò mai ad avere funerali di questo tipo?” e che lui abbia risposto: “Secondo me il comico ai funerali funziona molto meno; il funerale è più da cantautori”. Villaggio, sconsolato, profetizzò: “Ho deciso di morire d’estate; d’estate succedono meno cose e c’è più spazio sui giornali e nei palinsesti tv”. Ricci, poi, smentisce per la prima volta che De Andrè, dopo aver perso una scommessa, lo abbia costretto a mangiare un topo crudo, così come raccontò Villaggio alla Dandini. “Solo un cretino farebbe un comunicato stampa per dire: ‘Contrariamente a quanto sostenuto dal signor Villaggio su Rai 2, non sono stato io ad aver fatto mangiare il topo crudo a De André’”, scrive Ricci.

Beppe Grillo, falsario e burlone. Beppe Grillo invece lo conobbe su un campo di calcio e, poi, lo rivide in una “baleraccia”, il Jolly Danze dove il comico genovese gli confidò di essere l’autore di alcune canzoni dell’epoca come L’isola e di Kzar che, in realtà, erano di Duilio Del Prete. “Mi spiegò che suo fratello, lavorando come rappresentante di una casa discografica, gli forniva in anteprima i brani, di cui lui si impadroniva. Era come un gioco, un modo per farsi grande con gli amici... Era anche solito frequentare gli spettacoli degli altri comici e appuntarsi le migliori battute su un’agenda, detta “il librone”, per riciclarle nei suoi spettacoli”. Quando, poi, Grillo fu chiamato da Pippo Baudo si rivolse proprio a Ricci perché lo aiutasse a scrivere i suoi pezzi. Un’altra volta “a Beppe venne in mente di fare il test dell’Ultimo Samurai. Completamente nudo, si era coperto con una specie di mutandozzo, creato con un asciugamano e la cintura dell’accappatoio”. “La mia camera era di fianco all’ascensore; quando arrivava, verificavo che i clienti fossero manager americani, poi, - racconta Ricci - telefonavo a Grillo per avvertirlo. Beppe si fiondava in corridoio e, caricando gli americani a testa bassa, gridava: “Yankee! Samurai! Kamikaze!”. Vedendosi arrivare addosso quella furia gli americani facevano dietrofront e scappavano dentro l’ascensore”. “Purtroppo, - conclude Ricci - poi, Beppe si ammalò: il suo corpo nudo e sudaticcio non aveva retto alle glaciali temperature dell’aria condizionata giapponese. Ritenemmo tutto questo un segno di Dio e decidemmo di non fare più Te lo do io il Giappone”. Ricci, insieme a Grillo, fu protagonista di uno scherzo fatto ai dirigenti dell’allora Fininvest e a Silvio Berlusconi. I due fecero credere loro che il comico genovese avrebbe sostituito Johnny Dorelli alla conduzione del varietà Finalmente venerdì soltanto dopo che avesse avuto le prove che Dorelli fosse stato effettivamente licenziato.

Antonio Ricci su Beppe Grillo: "Mi ha detto che voleva lasciare il M5s anche prima, la morte di Casaleggio ha cambiato tutto", scrive il 2 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". "In gioventù ho fatto lo scrutatore in quota Psiup. Diciamo che mi posso ritenere uno in area Pd. Sono sempre stato contrario a tutti i partiti carismatici con un uomo solo al comando", dice Antonio Ricci durante la conferenza di Striscia la notizia. Parla poi di Beppe Grillo: "E quindi sono contrario anche al Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo l'ho sentito una settimana fa. Lui pensava di mollare già qualche anno prima, poi la morte di Casaleggio lo ha costretto a rimanere. Comunque non so se il Movimento 5 Stelle ci perde se lui si ritira", ha concluso tagliente.

Cosa ci fa capire il nuovo blog di Beppe Grillo (che si è stufato del Movimento 5 Stelle). Il comico e fondatore del M5S si è ripreso il suo spazio digitale. E ritorna ai temi visionari delle origini, abbandonando la politica e mostrando indirettamente quanto fosse stanco delle beghe dei pentastellati. Da cui si allontana in maniera drastica, scrive Mauro Munafò il 23 gennaio 2018 su "L'Espresso". E Beppe Grillo alla fine si è ripreso il suo blog. L'anticipazione dell'Espresso si è trasformata in realtà martedì 23 gennaio, e ha mostrato in maniera quanto mai evidente quanto il comico fosse stufo di essere rinchiuso nei confini del Movimento che lui stesso ha co-fondato. Il nuovo blog è, infatti, tutto quello che il precedente non era più da anni: pulito graficamente, libero da pubblicità, senza riferimenti alla cronaca politica e giudiziaria, senza titoli urlati, polemiche e proclami elettorali. Di più, il nuovo blog di Grillo, nel momento in cui ne scriviamo, non ha neppure lo spazio per i commenti: una funzione che, nel vecchio sito (ora diventato Il blog delle Stelle) permetteva di cogliere l'umore dello zoccolo duro del Movimento, con toni spesso assai critici, dove non offensivi. Una piccola rivoluzione per chi ha fondato parte del suo successo sulla "democrazia dal basso". Scorrendo i primi articoli del nuovo blog di Grillo sembra di rivedere il progetto editoriale lanciato anni fa dal comico e da Gianroberto Casaleggio: focus su innovazione e tecnologia, dalle smart city alla blockchain, con interviste a premi Nobel ed esperti, articoli su temi legati al futuro, videoreportage sulle fiere dell'hi-tech: uno sguardo verso il domani insomma ("inseguo il futuro, ma quando arrivo già non c'è più" spiega Grillo), seppure in certi casi piuttosto ingenuo ed eccessivamente concentrato sui lati positivi. Un tecno-entusiasmo che già si leggeva nella prima fase del blog di Grillo ma che negli anni si era affievolito. Tanti i video e i brevi reportage del comico che intervista personaggi e protagonisti dell'innovazione, guidati da un intento divulgativo più che politico. Se grafica, contenuti e articoli non fossero abbastanza, è il video di presentazione del blog che segna con maggiore forza la distanza dal passato e chiarisce ogni dubbio sugli effettivi sentimenti del comico. In dieci minuti Grillo non cita mai il Movimento 5 Stelle e in tutto il nuovo sito, se si escludono un paio di link, non c'è mai un rimando ai pentastellati. Il genovese parla solo della nuova avventura, volta alla ricerca di sognatori, artisti e pensatori da raccontare. Senza citarlo Grillo critica Silvio Berlusconi che lo ha definito "pauperista", ma si lamenta anche dei politici che, mentre il mondo cambia, parlano solo "di abbassare le tasse". Una curiosa critica se si considera che solo ieri Luigi Di Maio, candidato premier del Movimento 5 Stelle, ha elencato i venti punti del suo programma tra cui anche l'eliminazione dell'Irap per le pmi e la riduzione dell'Irpef per il ceto medio. La distanza dal Movimento emerge anche dal progetto grafico del sito, affidato all'agenzia romana HappyGrafic, che ha curato anche l'ultimo spettacolo teatrale di Grillo a Roma, e non più in mano alla Casaleggio associati. Difficile definire tutto questo come qualcosa di diverso da un divorzio.

Grillo si riprende il blog e continua il suo distacco dal M5S. È l'ultimo passo di un allontanamento sempre più evidente tra il Movimento e l'uomo che lo ha fondato. Il suo sito, che adesso è formalmente in mano a un militante di fiducia, verrà gestito da una Srl a socio unico. E la precisazione dopo il nostro articolo non smentisce nulla, scrivono Giovanni Tizian e Susanna Turco il 15 gennaio 2018 su "L'Espresso". La scissione invisibile è già cominciata. Beppe Grillo, il Movimento delle origini, la visione di Casaleggio senior di qua. Luigi Di Maio, Casaleggio junior e le nuove regole di là. La mozione dei lealisti contro quella dei realisti. Potrebbe essere una separazione consensuale, o trasformarsi in una guerra giudiziaria. Dopo le elezioni si vedrà. Per ora ha la forma di una marea: più che una esplosione, è un discreto ritirarsi.  Lo ha già fatto Alessandro Di Battista - lui invariabilmente così opportuno - che annunciando di non candidarsi ha inaugurato una indecifrabile stagione di “ci vediamo più tardi”. Il prossimo sarà Beppe Grillo. Lo dice chi al comico genovese è vicino davvero. Lo fanno trapelare anche a Milano, dalla Casaleggio Associati. E mentre il nuovo M5S dominato dal «capo politico» Luigi Di Maio, in tandem con Casaleggio jr, muove i primi passi dentro la Associazione a Cinque stelle numero tre (quella che in teoria è chiamata a sussumere le prime due superandone le aporie), le nuove regole dello statuto scontentano il Movimento delle origini, quello che proviene dai Meet up e che è sempre più sfilacciato, scorato, demotivato. Già gli incontri organizzati sotto le feste sono stati un flop. Giusto per fare un esempio alla cena di auguri dei Meet up della provincia di Modena, laddove di solito a Natale si incontravano due trecento persone, stavolta erano una cinquantina al massimo, ha raccontato uno dei partecipanti. Poco dopo sono arrivati quelli che qualcuno chiama «i fatti di Capodanno»: la nascita della nuova associazione che, se partiranno i ricorsi, potrebbe portare a uno sdoppiamento del Movimento. Se questa è la costellazione grillina con cui si apre il 2018, bisogna cominciare a raccontarla a partire proprio da Beppe Grillo, il «Garante» del quale le nuove regole hanno previsto per la prima volta il possibile addio.

Addio house organ. La discreta ritirata doveva effettuarsi un mese fa, è stata realisticamente spostata a dopo le elezioni. Nessun «abbandono», come ha chiarito anche Grillo sul Fatto quotidiano. Dopo averci pensato per mesi, il comico genovese ha infatti chiesto di riavere indietro la proprietà del blog, che ora è formalmente in mano a un militante di fiducia. Il dominio, secondo i piani, dopo lo switch off dovrà finire in mano a una srl unipersonale, cioè a socio unico. La versione più benevola del racconto sostiene che Grillo voglia tornare a fare il comico impegnato, l’attivista, il giramondo alla scoperta di tecnologie destinate a cambiare il futuro del pianeta; secondo un’altra, meno benevola - non a caso proveniente dall’area della Casaleggio associati - è stufo di beghe, polemiche, lotte fratricide e soprattutto querele. Di certo, come racconta chi lo conosce bene, il front man storico dei grillini negli ultimi tempi ha «fatto in modo che l’attività del Movimento fosse via via più slegata dalla sua figura». E quindi più autonoma. Ormai Grillo non riempie più di contenuti il sito come accadeva quando ad esempio faceva le campagne a sostegno delle energie alternative. Oggi il suo blog coincide con l’house organ del partito, come del resto era prevedibile viste le norme e le linee di indirizzo che i grillini si sono dati negli anni. Non sarà più così quando Grillo ne tornerà titolare. La divisione è già chiaramente delineata da chi se ne sta occupando: «Tutto quello che riguarda il partito sarà sul sito Movimento5stelle.it, mentre beppegrillo.it tornerà ad essere un laboratorio di idee che guarda fuori dal perimetro dei Cinque stelle». Per nulla casuale l’esempio che viene fatto per chiarire il futuro: «Il video di Luigi, che oggi va sul blog, domani andrà sul sito dei Cinque stelle». Insomma Di Maio finirà da un’altra parte, anzitutto. Chi conosce bene Grillo sa infatti che alcune scelte del candidato premier a Cinque stelle «gli vanno un po’ strette» (a esser gentili), mentre con Davide Casaleggio «non c’è mai stato l’innamoramento» che invece era scattato con il padre Gianroberto.

Il leader che fu. Può sembrare questa del blog una questione meramente tecnica. Invece è sostanziale, oltreché simbolica. Nell’ultima campagna elettorale, quella dell’inverno 2013, accadeva infatti l’opposto. Grillo parlava come un vero leader politico, girava le piazze, rivendicava cose come: «Ho incontrato migliaia di persone, i pescatori di Mazzara, i produttori di formaggio valdostani, gli agricoltori della pianura di Forlì, per questo ho il polso della situazione di una certa Italia dimenticata dai sistemi di informazione». Era l’unico volto riconoscibile per gli spettatori-elettori prima che, dopo due ore di monologo, si decidesse a introdurre per cinque minuti «alcuni dei nostri ragazzi fantastici». Quando non era in piazza, Grillo parlava attraverso il blog: leggerlo era come decifrare l’oracolo, la sua legge. Quel che accade adesso è facile a riassumersi: per le regionali siciliane, dopo il giro dell’isola da parte del frizzante trio Cancelleri-Di Maio-Di Battista, Grillo si è fatto vedere giusto per le tappe più importanti, Catania e Palermo, con interventi limitati a tradizionali endorsement. Il pathos di un tempo, evaporato. Per le prossime Regionali del Lazio, Roberta Lombardi ha chiesto un suo intervento per la chiusura, e lui «avrebbe detto di sì». Gli interventi sul blog sono ridotti a tredici in sei mesi: annunci di manifestazioni, chiamate al voto, auguri di fine anno. E c’è un altro fenomeno interessante: le pagine social dei militanti grillini ribollono sì di video del comico, ma si tratta di interventi vecchi. Per esempio quelli tratti dallo spettacolo del 2005 quando lo «psiconano» era al governo. Oppure la conferenza stampa dopo l’incontro con Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica. Era luglio 2013, e proprio in quell’occasione Grillo sentenziava: «La rivoluzione l’abbiamo già fatta». Parole perfette per raccontare il suo stato d’animo di oggi, quelle di un personaggio che ritiene esaurito il proprio compito. E che, al limite, sta apparecchiando il tavolo per poter dire un giorno: non siete più quelli che eravamo. E magari far nascere un «Movimento 4 ottobre 2009», a celebrazione del primo statuto grillino (idea che circola già tra i dissidenti).

Un regno per due. Non è detto che ciò accada, anzi è più probabile che a un punto di clamorosa rottura non si arriverà: è considerata l’opzione migliore per tutti. La piccola cordata che d’intesa con Davide Casaleggio ha conquistato il vertice del Movimento ha tutto l’interesse a presentarsi in blanda continuità col passato. Blanda, ossia non sostanziale, come dimostrano le nuove regole che di fatto tradiscono i principi ispiratori del Movimento prima maniera. «Hanno stabilito che gli eletti debbano versare 300 euro al mese, quando invece il movimento è sempre stato contro il finanziamento pubblico: se me lo avessero chiesto avrei risposto di no», è lo sfogo di un militante romano: «Ma non decide più la base, la base ormai è Davide Casaleggio più altri due o tre, il Movimento è finito». È vero che il mito dell’uno vale uno era già stato infranto con la nascita del direttorio, all’epoca in cui Grillo aveva annunciato voler fare un «passo di lato». Adesso però, dopo un periodo di relativo ritorno ai vecchi assetti, quello schema ha ripreso ancora più forza: la Casaleggio Associati gestisce le stanze dei bottoni, Di Maio ne articola il lato più politico garantendo in cambio che gli equilibri non vengano stravolti. È in fondo uno degli insegnamenti che Casaleggio jr ha ereditato dal padre, quello di dare a ciascuno ciò che cerca, senza lasciare che debba procurarselo da solo. Dunque: a Davide il controllo, a Luigi il potere. Resterà chi può fedelmente contribuire a questo assetto. I riottosi, via.

Meet up e scissioni. Eh già. Perché dall’Emilia al Lazio, passando per Lombardia, Toscana e Liguria, la base a Cinque stelle freme. Militanti cresciuti nel mito della democrazia diretta attraverso la rete, manifestano stavolta tutta la loro insoddisfazione. «Ci hanno ridotto a ratificatori delle scelte dei capi, si è persa l’idea che possiamo decidere qualcosa», dice un attivista dei castelli romani. Ma c’è di più. Con l’arrivo delle nuove regole, rotti gli argini della prudenza, lo scontento straripa e ormai lasciare il M5S sembra ad alcuni una conseguenza naturale. «Torno a fare l’informatico», ha detto l’ex capogruppo Riccardo Nuti. Sono anche le nuove regole, ad agevolare l’uscita. Per poter partecipare alle parlamentarie infatti bisogna iscriversi alla nuova Associazione Cinque stelle, la terza nella storia grillina (parentesi per i maniaci: la parola MoVimento ha la V maiuscola, come nelle origini). Ma non sono pochi quelli che hanno ugualmente rinunciato a iscriversi, mentre altri sono pronti a lasciare un minuto dopo aver votato. Altri ancora - ed è questa la novità più dirompente - sono pronti a fare ricorso per proclamarsi loro il Movimento Cinque stelle autentico. Un centinaio di persone, tra cui almeno un parlamentare, si sono già rivolte all’avvocato Lorenzo Borrè, ormai una specie di autorità nella tutela di espulsi ed emarginati M5S. «C’è stata una sorta di scissione dall’alto, da parte dei vertici del Movimento: hanno creato una nuova associazione che è in conflitto di interessi con quella originaria, perché si muove con principi opposti e però si chiama nello stesso modo. Ma la prima associazione non è estinta, conta ancora degli iscritti: quindi al momento ci sono due Movimenti», sottolinea. Sottinteso: la reductio ad unum non è scontata. Anzi già si scaldano i motori: «Arriveranno sorprese», aggiunge Borrè.

Sulla scia di Pizzarotti. Insomma, la miscela ha ingredienti esplosivi e ormai sembra un dialogo tra sordi. Un esempio del cortocircuito che ha mandato in fumo l’ambizioso progetto grillino è nella vicenda che ha visto protagonista Antonello Livi, iscritto al movimento di Tivoli. «Sono stato querelato dalla senatrice Elena Fattori», racconta all’Espresso, «per aver criticato alcuni prese di posizione del movimento nel mio territorio, senza mai fare il suo nome. Mi è arrivata una denuncia e dovrò difendermi per aver fatto semplicemente politica. Nel frattempo avevo presentato la mia candidatura per le prossime regionali del Lazio. Nessuno si è degnato di fornirmi una risposta, eppure sono attivo nel Meet up da anni. Non vorrei che la mia candidatura fosse sgradita, ma è impossibile saperlo, visto che nessuno sa chi si occupa di selezionare i curriculum». C’è da dire che i numeri sono da paura. Sono arrivate 15mila candidature, in pratica gli addetti dell’ufficio controllo del Movimento devono verificarne 500 al giorno. Lo sfilacciamento della base non è una questione local. C’è grossa crisi anche al Nord. Stanno nascendo formazioni post-grilline sulla scia dell’esperienza eretica di Federico Pizzarotti come sindaco di Parma (prima legislatura come Cinque stelle, seconda come indipendente). In Liguria si contano circa 200 attivisti che hanno lasciato i Meet up per creare liste civiche che dovrebbero coagularsi al livello nazionale in un coordinamento con simpatie a sinistra. Esperienze simili hanno preso forma a Livorno, Lucca, Comacchio, La Spezia. In Lombardia, invece, il bubbone è scoppiato la settimana scorsa a Paderno Dugnano: due consiglieri comunali hanno lasciato il movimento, sempre per protestare contro la costituzione della terza Associazione. «Questo cambiamento snatura tutto ciò che era il Movimento nella sua essenza, a partire dal fatto che può essere solo accettato così come è stato presentato: non accettarlo significa che la propria posizione sulla piattaforma Rousseau verrà disattivata automaticamente», hanno spiegato. È l’inizio della valanga, appunto. Lo si capisce anche intercettando la posizione di uno degli scontenti della accoppiata Di Maio-Casaleggio junior: Andrea Tosatto, un tempo cantautore organico al movimento, ideatore fra l’altro dell’inno “Italia a Cinque stelle” e altre hit grilline del tipo l’indimenticata “Cosa resterà di questi euro Ottanta”. Tosatto ha chiarito con una frase come la definizione di ortodossi ed eretici sia questione di punti di vista. «Chi esce non può cacciare chi resta», ha scritto infatti l’artista no vax in polemica con il nuovo corso. È un vortice del “chi caccia chi”, l’alba di una divaricazione i cui confini curiosamente si cominciano a vedere proprio quando il Movimento è chiamato alla sua seconda prova alle elezioni politiche, forse la più importante della sua storia. 

Perché Grillo si fa un nuovo blog alla vigilia delle elezioni? Ha preferito rendersi autonomo in senso organizzativo e dopo le elezioni potrà decidere se appoggiare o no la svolta governista, scrive Rinaldo Mattera l'1 febbraio 2018 su Agi. Il blog beppegrillo.it è stato, a partire dai primi anni 2000, un potente mezzo di aggregazione per il mitologico “popolo della rete”, il nuovo soggetto politico che viene ufficialmente sdoganato in occasione del referendum abrogativo del 2011. Nel lontano gennaio 2005 il comico genovese dichiarava: “Sono un partigiano della terza guerra mondiale, quella dell'informazione”, iniziando a interagire online col pubblico dei suoi spettacoli itineranti di città in città e favorendo la formazione di gruppi di cittadini, futuri nuclei delle Liste Civiche e dei Meetup Amici di Beppe Grillo, confluiti nel M5S nel 2009. Nello stesso anno di nascita il blog viene premiato da testate giornalistiche prestigiose come TIME e IlSole24Ore. Tra il 2006 e il 2009 è uno dei portali digitali più influenti del mondo, poi lentamente scivola nelle retrovie, sia per l'esplosione dei social media che per la decadenza della blogosfera in generale. Decine di migliaia di utenti e centinaia di migliaia di visualizzazioni sono numeri comunque grossi, specialmente se rapportati al sistema Italia, piuttosto che al mondo intero. Il dominio beppegrillo.it è registrato sin dal 2001 a nome di Emanuele Bottaro, amico del comico e la gestione è stata, di fatto, della Casaleggio Associati fino a poco tempo fa. Laddove IlSole24Ore già nel 2013 parlava di ricavi tra i 5 e i 10 milioni di euro, i diretti interessati non hanno mai rilasciato dati consultabili, anzi a sentire loro non ci avrebbero mai guadagnato. Ma non è questo il punto d'interesse, quanto piuttosto l'interruzione della collaborazione con la Casaleggio Associati, società di marketing e comunicazione e la definitiva separazione di beppegrillo.it e ilblogdellestelle.it. Gianroberto Casaleggio così parlava nel 2012, poco prima del boom elettorale che avrebbe portato il M5S in Parlamento: "ho scritto io le regole del Movimento 5 Stelle. Sono in sostanza cofondatore di questo movimento insieme a lui. Con Beppe Grillo ho scritto il «Non Statuto», pietra angolare del MoVimento 5 Stelle prima che questo nascesse". Questa lettera al Corriere della Sera è essenziale per capire come si è strutturato, politicamente ma non solo, il M5S durante gli anni del grande sodalizio tra i due fondatori; il comico e lo stratega di rete, sono stati il cuore e la mente del primo partito digitale italiano. Con la morte di Gianroberto Casaleggio nel 2016, Beppe Grillo annuncia il famoso “passo di lato” e parte con lo spettacolo Grillo Vs Grillo, dichiarando: "non avrei mai pensato di essere l'artefice di un movimento politico. Si è creata una confusione di ruoli. Io non sono il leader dei 5 Stelle". Molto interessante, ma in netto contrasto con quanto affermato dagli statuti del M5S, che all'epoca erano solo due, scritti in seguito allo sbarco in Parlamento per adeguare la struttura organizzativa, quantomeno dal punto di vista formale. Oggi cercando il Non Statuto si rischia di finire in un deludente Error 404, in quanto il nuovo Blog di Beppe Grillo non ne ospita alcuna versione consultabile. L'ultimo codice etico approvato a fine 2017 per riorganizzare il M5S in vista delle imminenti elezioni, designa Beppe Grillo ancora come Garante, egli detiene gran parte del potere in condivisione col Capo Politico, Luigi Di Maio. Certamente, la cancellazione del divieto di alleanze, la parziale rimozione del divieto dei due mandati, la progressiva introduzione di quadri intermedi, designano un M5S ormai ben diverso da quello preconizzato dai fondatori e dagli attivisti della prima ora. Principi come la trasparenza assoluta, lo streaming, i processi decisionali aperti, l'uno vale uno, sembrano ormai chiaramente messi da parte, a favore di un pragmatismo governista, dettato dalla necessità di adeguarsi a nuovi obiettivi, diversi dall'opposizione tout court. Luca Eleuteri, uno dei soci fondatori di Casaleggio Associati, ha rilasciato al Corriere della Sera un’intervista in cui liquida il rapporto con Beppe Grillo adducendo anche motivazioni economiche: "Posso sentire la mancanza di una grande intuizione come quella del blog se non ne venissero altre, di un amico che l’aveva avuta e non c’è più, ma come imprenditore non della gestione di un blog di cui difficilmente ripagavi i costi". Eleuteri sembra inoltre voler smarcare l'azienda dalla gestione del M5S, elemento contraddittorio rispetto all'utilizzo di Rousseau, piattaforma digitale sulla quale si sono svolte le recenti Parlamentarie e per la cui gestione i prossimi eletti pentastellati dovranno versare un obolo mensile di 300 euro. «Il primo grande passo è stato fatto quando Gianroberto ha donato la nostra creatura Rousseau all’omonima Associazione. E ora c’è la separazione definitiva con la consegna del brand beppegrillo.it, e i social media da milioni di utenti a Beppe Grillo. Il tutto senza prendere un euro. Non so quante società lo avrebbero fatto: il nostro è un gesto di amicizia». Ci sono in questo passaggio delle affermazioni assolutamente decisive, a partire dalla definizione di beppegrillo.it come brand, il richiamo al capitale relazionale formato dall'utenza digitale e all'amicizia che fu il principio generatore del sodalizio tra Grillo e Casaleggio. Resta nell'ombra il dato fondamentale: di chi sono i server su cui girano le piattaforme, chi gestisce il database degli utenti, ovvero i dati sensibili, utili a profilare ed estrarre valore, economico e politico. “Ciascun parlamentare italiano, europeo e Consigliere Regionale eletto all’esito di una competizione elettorale nella quale si sia presentato sotto il simbolo del MoVimento 5 Stelle, si obbliga ad utilizzare la cd. ‘Piattaforma Rousseau’ come principale mezzo di comunicazione per uniformarsi agli obblighi di trasparenza e puntuale informazione dei cittadini e degli iscritti al MoVimento 5 Stelle delle proprie attività parlamentari”: così recita uno degli articoli del nuovo codice pentastellato, nonostante Eleuteri dichiari: "Spero che con questo chiarimento d’ora in poi le forze politiche e i giornalisti la smettano di dire che la Casaleggio associati si occupa ancora del Movimento". Le elezioni 2018 sono le prime in cui il M5S si presenta con un comitato elettorale non presieduto da Beppe Grillo, perché personalizzato da Di Maio con i nomi di Dario De Falco, storico amico del candidato di Pomigliano, Pietro Dettori, collaboratore di Davide Casaleggio e responsabile editoriale dell'Associazione Rousseau, infine Vincenzo Spadafora, mentore politico e tessitore di relazioni istituzionali. Quando è stato presentato il nuovo simbolo pentastellato, dove non c'è più il richiamo a beppegrillo.it ma al nuovo ilblogdellestelle.it, Garante e Capo Politico sono sembrati in disaccordo su alcuni temi: il primo ammetteva la possibilità di errori durante le Parlamentarie su Rousseau, il secondo smentiva categoricamente; il primo chiudeva a ogni possibile alleanza post elettorale con altri partiti, il secondo per niente. Nel frattempo a Genova prosegue la causa di diversi iscritti della prima associazione M5S, che vogliono rivalersi sulla seconda grazie alla consulenza dell'avvocato Lorenzo Borrè. Nelle sue stesse parole, il "ricorso è stato presentato da 33 membri originari del Movimento, rappresentativi di tutta Italia e di centinaia di iscritti della prima ora". L'associazione costituita nel 2009 aveva richiesto la nomina di un curatore per promuovere azione giudiziaria contro Beppe Grillo. Il legale che assiste i 33 militanti storici: "Di fatto è stato commissariato il M5s originario". Le grane giudiziarie non sono finite qui, anzi con le Parlamentarie sono decisamente aumentate, in parte a causa dei disguidi informatici della piattaforma, in parte per la scrematura dei candidati, eseguita manualmente, anche se non si sa da chi e in base a quali specifici criteri. Un mix di vecchio e nuovo, tra partecipazione digitale e vecchi metodi politici con luci e ombre, che si risolverà con lo scontro a colpi di carte bollate tra la seconda e la terza associazione del M5S. Beppe Grillo già nel 2015 si dichiarava “un po' stanchino” e nel mentre dava spazio al Direttorio, composto da Di Maio, Fico, Di Battista, Ruocco e Sibilia, votati sul suo blog da una percentuale brezneviana del 97,1%, corrispondenti a 34.050 utenti. Per capire cosa sta succedendo oggi bisogna guardare proprio a questo momento decisivo per l'evoluzione del M5S. Di Battista si è chiamato fuori da tempo, lasciando spazio alla corsa solitaria Di Maio, ma al contempo portando avanti una propria campagna parallela, per contenuti e per modi. Senza gaffe, senza toni esasperati, senza sbagliare congiuntivi, talvolta esprimendo pensieri diversi dalla linea ufficiale. Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza Raie considerato un ortodosso grillino della prima ora, resta dalla parte di Beppe Grillo, chiudendo alle alleanze elettorali con una dichiarazione perentoria: «Salvini è geneticamente diverso dal M5s perché si è alleato con uno che si è tenuto per un anno in casa un mafioso». Fico sarà ricandidato, ugualmente alla Ruocco e a Sibilia, rappresentando un sicuro segno di continuità per la politica del M5S. Nelle parole di Fico “c'è il blog di Beppe Grillo che finalmente si separa da quello delle stelle"», tutto diventa più chiaro. Da un lato resta la Casaleggio Associati, da un altro nasce Beppe Grillo srls”, che persegue una mission aziendale identica, in continuità con l’asset commerciale Grillo-beppegrillo.it. Così le parole di Eleuteri iniziano ad avere ancora più senso, perché la nuova società del comico intende perseguire lo "sviluppo di piattaforme online, blog, web, applicazioni mobile ecc.", ma anche la "vendita e intermediazione di spazi pubblicitari online e offline". Dulcis in fundo, Grillo vuole anche occuparsi di "ideazione, creazione, sviluppo, implementazione e gestione di sistemi e piattaforme informatiche accessibili attraverso anche internet"; praticamente tutto quanto sinora aveva fatto in tandem con Casaleggio. Un'azione del genere somiglia al decentramento dell'infrastruttura, ovvero la replica in scala del sistema centrale, spostato altrove: una clonazione del sistema, riprodotto in maniera indipendente e rinnovata rispetto all'originale. È come se Grillo avesse replicato il M5S nella sua interezza, tanto è vero che la nuova società intende anche perseguire "l’ideazione e la gestione di attività editoriali ivi incluse le attività di pubblicazione di contenuti informativi via internet nonché la creazione e la gestione di periodici" e "parteciperà a consorzi e appalti sia pubblici che privati". D'altro canto, Eleuteri sostiene che "noi come Casaleggio Associati stiamo spostando il nostro focus dal settore dell’editoria digitale a quelli dell’Intelligenza Artificiale, dell’Internet delle cose e dell’integrazione tra punti fisici e digitale". Le stesse identiche cose che professa Grillo nel suo nuovo blog, celebrando un tecno utopismo che non si vedeva da anni. Tutto ciò rafforza l'idea che dopo le elezioni ci potrebbe essere una vera scissione, tra i governisti capeggiati da Di Maio e gli intransigenti legati al progetto originario. Una corrente che potrebbe raggrupparsi intorno a Fico e Di Battista, con Grillo che al contempo riprenderebbe il controllo dell'associazione originale, magari patteggiando coi ribelli, con gli espulsi e con coloro che sono rimasti fuori dalle varie transizioni associative, chiudendo in tal modo cause e ricorsi e tornando protagonista. Dopo la chiusura del ciclo originario con Gianroberto Casaleggio, Grillo ha preferito rendersi autonomo in senso organizzativo e dopo le elezioni potrà decidere se appoggiare o no la svolta governista. Intanto Di Maio sta giocando il tutto per tutto, come i tentativi palesi di seduzione verso la Lega di Salvini, alla ricerca di accordi sotterranei che potrebbero essere favoriti da teste di ponte come Alberto Bagnai, esponente del fronte sovranista e antieuropeista, un tempo nelle grazie del M5S e oggi candidato col Carroccio. 

Dagospia: “Beppe Grillo fonda un nuovo movimento, il leader sarà Alessandro Di Battista”, scrive la Redazione di Blitz il 1 febbraio 2018. Beppe Grillo, secondo Dagospia, avrebbe intenzione di creare un nuovo movimento. Un partito che nascerebbe per far fronte a quella che viene definita la “democristianizzazione” del M5s, simboleggiata in modo perfetto da Davide Casaleggio e da Luigi Di Maio che, ora, aprirebbe ad alleanze con chiunque. Grillo, sempre secondo il sito diretto da Roberto D’Agostino, vorrebbe a capo del nuovo soggetto politico Alessandro Di Battista, e questo spiegherebbe la sua mancata candidatura. L’obiettivo sarà giocarsela alle ipotetiche nuove elezioni che arriveranno nel caso in cui dal 4 marzo non dovesse uscire alcun governo. E – Grillo ne sarebbe convinto – la seconda tornata elettorale dovrebbe arrivare addirittura entro la fine del 2018. Il programma? Addio Euro, addio Europa, sinergie con Vladimir Putin, graduale allontanamento dalla Nato, sostenere la battaglia No-Tav. E sarebbero proprio le insistenti voci su questo nuovo movimento ad aver spinto Di Maio ad aprire a governi di larghe intese, così da evitare che in caso di nuove elezioni una fuga di massa dei pentastellati ortodossi verso il nuovo movimento grillino.

M5s shock, altro che francescano! In un anno Grillo sestuplica il reddito. Beppe Grillo dichiara un reddito sei volte maggiore rispetto al 2016. Mentre Luigi Di Maio, Matteo Renzi e Giorgia Meloni..., scrive Venerdì, 16 marzo 2018, "Affari italiani". Il francescano Beppe Grillo sestuplica il suo reddito rispetto all'anno scorso, e nel 2017 dichiara un imponibile di oltre 400 mila euro. Rispetto all'anno precedente, si tratta quindi di 350 mila euro in più, come si evince dalle dichiarazioni dei redditi del 2017 facilmente riscontrabili sui siti di Camera dei Deputati e Senato. Scrive La Stampa: "Il cofondatore del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, dichiara nel 2017 420.807mila euro, a fronte dei 71.957mila del 2016. Un reddito, quindi, sei volte maggiore nel giro di un solo anno. Cifra che lo riporta quasi ai livelli del 2015, quando aveva dichiarato 355.247mila euro". La Stampa riporta anche i redditi di Luigi Di Maio, leader politico del Movimento 5 stelle, che in maniera peculiare risulta per lo stesso anno consecutivo il medesimo. " La cifra dichiarata nel 2017 da Di Maio è identica a quella dichiarata nel 2016 e nel 2015, pari a 98.471,04". Matteo Renzi, ex segretario del Pd, ha invece dichiarato nel 2017 un imponibile di 107.100 mila euro e Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, si arricchisce rispetto al 2016 dichiarando 98.421mila euro.  

Grillo politico d'oro In un anno guadagni moltiplicati per sei. Nel 2013 vantava il 730 a zero euro, ora è a 400mila. E Boldrini è più ricca di Padoan, scrive Patricia Tagliaferri, sabato 17/03/2018, su "Il Giornale". La curiosità di sapere quanto guadagnano i nostri politici e di confrontare i loro conti in banca c'è sempre. Ed anche quest'anno la pubblicazione dei redditi dei parlamentari sui siti di Camera e Senato riserva qualche sorpresa. A cominciare dalla costatazione che Beppe Grillo, il fondatore del Movimento Cinque Stelle fuori dai palazzi ma costretto da una norma inserita nella legge sul finanziamento ai partiti a rendere pubblici i suoi possedimenti, è sempre più ricco. I suoi redditi si sono addirittura sestuplicati rispetto allo scorso anno. Con un imponibile di 400mila euro nel 2017, quasi 350mila euro più del 2016, il comico genovese è ormai proiettato anni luce di distanza da quanto diceva in un'intervista a Enrico Mentana nel 2013 sul suo 730 pari a zero. Resta al palo invece Luigi Di Maio. Il capo politico del Movimento, infatti, dichiara la stessa identica cifra da tre anni: 98.471,04 euro. Poco più di lui guadagna il segretario dimissionario del Pd, Matteo Renzi, con un imponibile di 107.100 euro, mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, vede crescere leggermente il suo conto in banca toccando i 98.421 euro. Il presidente del Senato e frontman di LeU, Pietro Grasso, anche quest'anno vince la gara dei Paperoni sull'omologa alla Camera, Laura Boldrini. Con un notevole scarto, tra l'altro. Il presidente uscente di Palazzo Madama, infatti, dichiara 321.195 di reddito imponibile a fronte dei 137.337 euro della presidente uscente di Montecitorio. La rappresentante del governo più ricca, invece, si conferma la ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, con 182.016 euro. In seconda posizione troviamo il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda (166.264 euro) e in terza la ministra dei Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro (151.672 euro). Il premier Paolo Gentiloni, con i 107.401 euro di imponibile è soltanto sesto, dopo il ministro della Cultura Dario Franceschini e dell'Economia Pier Carlo Padoan. Dal settimo al nono posto troviamo i capi dei dicasteri di Lavoro, Infrastrutture e Ambiente, rispettivamente Giuliano Poletti, Graziano Delrio e Gianluca Galletti. A seguire gli altri ministri che hanno un reddito inferiore ai 100mila euro: Marco Minniti, Andrea Orlando, Roberta Pinotti, la sottosegretaria Maria Elena Boschi, Claudio De Vincenti, Marianna Madia, Luca Lotti, Angelino Alfano, Maurizio Martina. E in coda la Cenerentola di Palazzo Chigi, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, con 91.888 euro. In Parlamento il senatore a vita Renzo Piano appare sempre più irraggiungibile: il suo reddito, dichiarato al fisco francese, è di 2 milioni e 640mila euro, al netto di quello italiano di 349,474 euro. Ad inseguire l'archistar ci prova Mario Monti, in seconda posizione con 421,611 euro, mentre Giorgio Napolitano si ferma a 121.372 euro. Non se la passano male il re delle cliniche e deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci, che ha un reddito di 2.726.959, e l'avvocato Nicolò Ghedini, senatore azzurro, che grazie alle sue parcelle può vantare un reddito di 1.623.533 euro. Un'ultima curiosità: si aggira sui 100mila euro la cifra per i deputati del M5s sospesi o espulsi per non aver versato la quota al fondo per il microcredito.

Reddito di nascita, l’ultima utopia di Grillo che rispolvera Marx e stride con De Gasperi. Il reddito di nascita in un mondo senza lavoro. Mentre il leader ostenta moderazione, il comico attinge al suo estremismo visionario, scrive Pierluigi Battista il 15 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Nel Palazzo Luigi Di Maio fa il moderato, il perbenista, cita De Gasperi, mette la tattica politica al primo posto, media, smussa, si intrattiene con la stampa estera per salvaguardare l’immagine internazionale, cita i vescovi, indossa sempre la stessa cravatta per dire al mondo che lui non è uomo di zig zag imprevedibili, cerca le coperture finanziarie per il reddito di cittadinanza. Nel suo blog tutto nuovo e purificato Beppe Grillo, lontano dalle pastoie della politica quotidiana, dà invece fondo al suo utopismo estremo, anzi estremista. Attinge al suo repertorio di «visionario», come si dice cambiando radicalmente la semantica di un termine che prima indicava uno squilibrato che aveva le allucinazioni, le visioni, e invece indica uno che guarda lontano e che ha una visione. La visione di Beppe Grillo, assicura lui sul suo blog, non è più il reddito di cittadinanza, che il fondatore dei 5 Stelle tratta oramai alla stregua di una prosaica riformetta. Ma il reddito di nascita, l’idea che qualunque essere umano, per il semplice fatto di esistere al mondo debba essere titolare di un diritto alla retribuzione sganciato da quel reperto archeologico che secondo Grillo è stato sinora la fonte di quel reddito: il lavoro.

Mitologia lavorista. Basta, sostiene Grillo, il lavoro non è che va abolito, si è abolito da sé. La maledizione del lavoro ha cessato di esercitare i suoi effetti malefici. Ora con le stampanti 3D e i robot, l’umanità può tranquillamente buttare il lavoro nella spazzatura della storia. Chissà che umanità tutta sbadigli e inettitudine nelle attività più semplici porterà la visione grillesca di un mondo dove non servirà lavoro nemmeno per sollevare il peso immane di una tazzina di caffè da portare alle labbra. Ma è tutta una mitologia lavorista, o laburista, con i suoi miti della classe operaia, delle fabbriche, dei campi da coltivare, delle officine fumose, una mitologia che è stata carne e sangue della sinistra e del movimento operaio per tutto il secolo scorso che viene meno in questa visione. Oppure potrebbe essere il contrario. E cioè che la visione grillesca, la sua utopia da blog tutto nuovo e senza il peso della politica quotidiana, si riallacci a correnti molto potenti della storia della sinistra. Un’umanità di sfaccendati senza lavoro? Ma quando faceva sul serio il visionario, lo stesso Karl Marx, molto prima dell’avvento dei robot e delle stampanti 3D, descriveva il comunismo come un idillio in cui la costrizione del lavoro sarebbe svanita, e l’umanità, emancipata dal peso dell’alienazione, si sarebbe dilettata nella coltivazione del tempo liberato: «Fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».

Inferni totalitari terreni. Ora, andare a caccia oramai è ecologicamente scorretto, ed è difficile fare della pastorizia il centro degli interessi di un giovane iper-connesso del ventunesimo secolo. Ma la visione di Beppe Grillo, che Di Maio non deve seguire perché deve rassicurare i mercati internazionali e i vescovi italiani, riprende alcune suggestioni di una storia che per esempio difficilmente potrebbero trovare cittadinanza nell’altra variante, quella leghista e salviniana e nordista, dell’epopea antipolitica del 4 marzo. E del resto sui fogli dell’estrema sinistra degli anni Settanta campeggiavano titoli, nell’occasione della festa del Primo maggio, in cui si proclamava stentoreo l’obiettivo: «Contro il lavoro». Nessuno però aveva osato immaginare un reddito che avrebbe gratificato chiunque fosse nato. Un’utopia, dice Grillo. Ma si sa che nella storia molto spesso le utopie paradisiache hanno generato molti inferni totalitari terreni.

Dire che Grillo è un evasore per i giudici non è reato. Assolto Barbareschi che chiese controlli fiscali sui compensi del comico. Le toghe: "Notizie mai smentite dall'interessato", scrive Luca Fazzo, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Finora erano voci insistenti, chiacchiere dell'ambiente, interviste giornalistiche: che ronzavano tutte intorno allo stesso tema, ovvero l'insofferenza di Beppe Grillo verso i suoi doveri di contribuente. Ma ora si scopre che nel febbraio 2015 del singolare rapporto tra Grillo e le tasse si sono dovuti occupare anche i carabinieri. In una caserma di Santa Margherita Ligure, i militari interrogano un signore che con il leader dei 5 Stelle ha avuto a lungo rapporti d'affari. Il testimone mette nero su bianco: Beppe Grillo prendeva i soldi in nero. Un'evasione fiscale in piena regola, da parte del comico trasformatosi nell'alfiere dell'onestà-onestà-onestà. Grazie a quel verbale, d'ora in avanti chiunque potrà dare a Grillo dell'evasore senza venire condannato per diffamazione. Lo ha stabilito, con una sentenza riportata ieri dal Foglio, il giudice per le indagini preliminari di Genova, Massimo Cusatti, assolvendo con formula piena l'attore Luca Barbareschi, che da Grillo era stato querelato. Legittimo diritto di critica, scrive il gip, basato su fatti reali come la testimonianza raccolta dai carabinieri. A sollevare le ire di Grillo era stata una dichiarazione a Radiodue, in cui Barbareschi diceva: «Faremo la verifica fiscale a Grillo dove ci racconterà tutte le volte che è stato pagato in nero, per vent'anni della sua vita». Querela immediata, con l'avvocato di Grillo (ovvero suo nipote Enrico) che accusa l'attore di avere usato un «tono gratuitamente offensivo». Per difendersi, Barbareschi aveva depositato le interviste pubblicate nel 2011 dal Secolo XIX e nel 2014 dal Giornale al re della Milano by night degli anni Ottanta, l'impresario Lello Liguori, creatore anche del Covo di Nord Est a Santa Margherita. «Detesto Beppe Grillo perché va in giro a fare il politico, a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». Episodi di questo tipo, spiegava Liguori, si erano ripetuti varie volte, sia in Liguria che a Milano. Quasi una prassi costante. Forse sarebbero bastati quei ritagli a fare assolvere Barbareschi. Ma il pm sul cui tavolo è approdata la querela di Grillo, il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, decide di vederci ancora più chiaro. I giornali potrebbero avere forzato le dichiarazioni di Liguori. E così il pm incarica i carabinieri di Santa Margherita di convocare l'uomo: e quello non si tira indietro. È un personaggione, il vecchio Liguori. Per anni nei suoi locali notturni si incrociava di tutto, dai politici ai boss della criminalità organizzata. Lui stesso è stato arrestato per le dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda, processato e infine assolto. Un'autorità nel suo campo: astuto, navigato, e abituato a non parlare a vanvera. Il 21 febbraio 2015, davanti ai carabinieri, mette a verbale: «Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso e io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord Est che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di dieci milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in cotanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me e il comico». Nelle interviste, Liguori era stato ancora più dettagliato e colorito: «Una sera al 54 c'era molto più afflusso del previsto, c'era gente fuori. A un certo momento Grillo mi ha preso da una parte e mi ha detto: guarda che voglio 10 milioni in più altrimenti non lavoro. Naturalmente io non sono l'ultimo arrivato, l'ho preso per le orecchie, l'ho portato in camerino e ha fatto la serata». Ma basta la dichiarazione messa a verbale perché il pm Cardona Albini chieda il proscioglimento di Barbareschi. Grillo viene avvisato, e presenta atto formale di opposizione all'archiviazione. Si tiene l'udienza preliminare. Ma il giudice dà ragione al pm, torto al leader pentastellato e assolve Barbareschi: vista «la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia», e considerati «la dimensione pubblica del personaggio e l'obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti», va riconosciuto all'indagato il diritto di critica, «essendosi questi limitato al riferimento di circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall'interessato».

Quanto guadagna Alessandro Di Battista? Lo spiega lui anche se "sono cazzi suoi". L'ex deputato del Movimento 5 Stelle in un video sfogo smentisce le voci sui suoi presunti compensi stellari e spiega le vere cifre. Anche se, precisa: «Essendo un libero cittadino posso fare come voglio», scrive Mauro Munafò il 14 giugno 2018 su "L'Espresso". Una diretta dagli Stati Uniti su Facebook quando in Italia è piena notte, che inizia con una promessa: «È l'ultima volta che parlo dei miei compensi, ma è ora di smentire certe balle». A parlare è Alessandro Di Battista. «Non essendo più un pubblico ufficiale, sono cazzi miei e soltanto miei come mi guadagno da vivere. Ma dato che si scrivono balle, diamo un po' di cifre». Di Battista inizia citando la restituzione della buona uscita dopo la legislatura passata in Parlamento, circa 43mila euro che si aggiungono ai 220mila euro di restituzione mensile fatta da parlamentare 5 Stelle, e risponde alle critiche di chi ha definito il suo un gesto populista: «Se pensate sia così facile, fatelo anche voi e vi faremo un applauso. Io questo lo ho fatto perché lo ho dichiarato 5 anni fa in campagna elettorale». L'ex deputato smentisce poi l'esistenza di un altro contratto con Mondadori o Rizzoli per la pubblicazione di nuovi libri: «Hanno detto che prendo 400mila euro, ma non c'è questo contratto. E fatemelo dire, quella cifra neanche Dan Brown la prende». Per quanto riguarda i due precedenti libri già pubblicati dalle case editrici di Silvio Berlusconi, Di Battista sostiene di avere guadagnato circa 50 mila euro con queste due pubblicazioni. Sulle sue attuali forme di sostentamento, Di Battista ricorda di aver firmato un "bel contratto" con il Fatto Quotidiano per dei reportage dall'America e dal Sud America che sta scrivendo in questi giorni e aggiunge: «Non mi lamento, non sono soldi pubblici e quello che faccio con i miei soldi sono cazzi miei chiaro?  L'italiano deve crescere molto, io non so perché certe persone fanno certi commenti molto falsi».

Chi è Pietro Dettori, l'uomo simbolo del governo Casaleggio. Non c'è solo Rocco Casalino nella squadra dell'esecutivo Conte. Sbarca a Palazzo Chigi anche il dipendente (e fedelissimo) di Davide che ha le chiavi dell'Associazione Rousseau. E che scriveva i post per conto di Grillo, scrive Susanna Turco l'11 giugno 2018 su "L'Espresso". Il suo mestiere è fare da tramite. La sua ascesa è avvenuta tutta nell’ombra. Lenta, costante. Nel segno della continuità assoluta, senza ripensamenti. Da un appartamentino sui Navigli fino alle porte di Palazzo Chigi. Sempre alle spalle del leader, mai davanti. Dai post di Beppe Grillo, comico e frontman di M5S, ai discorsi di Giuseppe Conte, premier-frontman dell’alleanza tra Cinque stelle e Lega. Dalla Casaleggio Associati al governo. Pietro Dettori è il talentuoso e spregiudicato simbolo della compenetrazione opaca tra azienda, partito e, adesso, governo. Occhi e orecchie di Davide Casaleggio a Roma, decisivo nel consolidamento del figlio del fondatore di M5S così come nell’ascesa di Luigi Di Maio al suo interno, pronto a lavorare accanto al presidente del Consiglio a 32 anni appena compiuti - classe 1986, come il capo M5S - è l’altra faccia dell’universo che adesso sbarca al governo sfoderando perenni sorrisi alle telecamere. L’anima riservata e spregiudicata che giocherà direttamente dalle stanze della presidenza del Consiglio. Quella più lontana dai riflettori, per istinto e per calcolo, amica della riservatezza, indifferente al lisergico dilagare dei conflitti di interessi e, anzi, persino irritata verso chi lo ricorda. Quella che la popolarità non interpreta come un attore, bensì costruisce come un suggeritore. Giorno dopo giorno, mossa dopo mossa, post dopo post. Limatura dopo limatura. Prima ancora che si spalancassero le porte di Palazzo Chigi è stato Pietro Dettori ad aver scelto le parole del neo premier, sin dalla dichiarazione dopo il primo incontro con il capo dello Stato Sergio Mattarella. All’inizio della girandola, Giuseppe Conte si era addirittura recato nel suo appartamento, stesso indirizzo della sede romana della Casaleggio associati, di fronte a Castel Sant’Angelo, per «buttare giù nero su bianco il discorsetto». Una circostanza che ha lasciato «molto perplesso» l’ex senatore di Forza Italia Augusto Minzolini che l’ha rivelata. E che, in realtà, è terribilmente fisiologica nel sistema pentastellato. Dove è consuetudine che ci sia qualcun altro a occuparsi delle cose che devi dire: anche per un incastro non casuale tra le attitudini degli eletti e il controllo della comunicazione, infatti, spesso e volentieri la parola pubblica - dai profili social alle dichiarazioni - è affidata a staff e ghostwriter. In blocco, strafalcioni compresi. Pressoché senza il controllo finale dell’interessato. Tanto che, a seconda degli errori, si è persino in grado di risalire al ghost di turno. La faccenda, nel caso di Dettori, è alla sua apoteosi. Al livello massimo: prima di diventare presenza fissa alle spalle di Di Maio, lui era il ghostwriter di Beppe Grillo ed era l’unico che avesse accesso diretto al Sacro Blog quando ancora Gianroberto Casaleggio trattava il sito come una sua esclusiva creatura, di cui era gelosissimo. Non è un caso che una parlamentare di peso come Laura Castelli, ai tempi in cui con Roberto Fico faceva ancora la guerra interna a Di Maio, lo avesse descritto come un «servo d’oro di Milano». Nato a Cagliari, laureato in comunicazione a Bologna, assunto dalla Casaleggio nel 2011 e social media manager dal 2012, Dettori è stato colui che faceva da filtro attorno a Grillo durante tutto lo Tsunami Tour, e (dopo Marco Canestrari) ha ricoperto il ruolo di cinghia di trasmissione tra i Meet up e Gianroberto Casaleggio. Significa che aveva potere di vita e di morte su tutti gli «uno vale uno» d’Italia: bastava pubblicare su www. beppegrillo.it lo status di Facebook di uno sconosciuto, per farne un eroe - o magari un eletto.  È stato per anni, Dettori, colui che scriveva - tutt’altro che di rado - i post di Grillo. Quelli del blog, ma anche quelli dei profili social Facebook e Twitter. Profili dei quali aveva le chiavi d’accesso, un altro potere assoluto. Tanto da esibirsi, come ricorda chi ci ha avuto a che fare nella scorsa legislatura, in gelidi scherzi del tipo: guarda cosa ho scritto, se lo invio adesso diventiamo la prima notizia sui siti. Modalità piuttosto aggressive e abbastanza simili a quelle viste nel video diffuso da M5S nei giorni scorsi, in cui Rocco Casalino, responsabile della comunicazione, si atteggia a imperatore della notizia e sultano della sua diffusione: «L’accordo c’è, giro adesso il messaggio a Mentana, e poi anche alle agenzie, vediamo che succede», dice mostrando alla telecamera lo schermo del telefono (si intravede il dialogo, la prima riga è, per l’appunto: «PietroDettori»). Intendiamoci: Casalino resta il semidio della comunicazione stellata, con la conseguente promozione a portavoce del presidente del Consiglio, ora che si sta al governo. Però nel caso di Dettori il passo - meno visibile - è persino ulteriore. Casalino, con tutta la sua mole di potere, di arbitrio, di visibilità, il fidanzato cubano portato al ricevimento del Quirinale e la mamma portata all’ispezione nella nuova (per lui deludente) stanza a Chigi è - almeno questo - sempre stato un dipendente dei gruppi parlamentari dei Cinque stelle: il suo rapporto con i Casaleggio passa per relazioni personali, così come quello con Grillo, provenendo dal vasto mondo di Lele Mora. Dettori, al contrario, è una pura creatura di via Morone 6. Un dipendente di aziende private: la Casaleggio Associati prima, l’associazione Rousseau poi, entrambe allocate allo stesso indirizzo e guidate dallo stesso capo. Con lui sbarca quindi al governo direttamente una società privata. Una filiazione senza intermediari, di cui peraltro Dettori ha tutte le chiavi, avendo ricoperto l’intero cursus: quando tutti i dati di simpatizzanti ed eletti M5S erano custoditi dalla Casaleggio Associati, e adesso che sono nella Associazione Rousseau - associazione di cui Dettori è responsabile editoriale oltreché socio. Un sapere e una sapienza che con lui traslocano al governo. Con tutte le ambivalenze del caso. Il rafforzamento dell’osmosi, bisogna dire, era già nel programma. Ora fa un passo in più, e non da poco: dal Parlamento al Governo. Dettori, infatti all’indomani del voto del 4 marzo, aveva lasciato l’appartamento a Milano per sbarcare a Roma. Nel programma di riordino pensato da Davide Casaleggio, infatti, era già destinato a diventare in pianta stabile il suo uomo di riferimento per Camera e Senato. L’idea era quella di farlo assumere dai gruppi parlamentari, come responsabile del Blog delle stelle (che è il nome del Blog del movimento dopo il divorzio da Grillo) che a sua volta adesso è finanziato dai 331 parlamentari pentastellati a botte di 300 euro ciascuno da versare a Casaleggio ogni mese (fa circa 6 milioni di euro per l’intera legislatura). Non era ancora chiaro se lui sarebbe stato pagato attraverso l’Associazione Rousseau, o direttamente coi soldi dei contributi pubblici versati ogni anno ai gruppi di Camera e Senato (come appunto il caso di Casalino). Preoccupazioni a quanto pare ormai alle spalle. Resta invece intatta la domanda circa l’orizzonte entro cui ci si muove. Anche lasciando perdere lo straordinario pezzo di teatro dell’assurdo che avvenne quando Grillo spiegò ai giudici che non era lui l’autore del post sull’ex ministro Federica Guidi pubblicato sul sito beppegrillo.it (il post non era firmato, quindi non era «riconducibile al sottoscritto»: questo il geniale argomento del comico) a Dettori, infatti, fanno capo alcuni episodi che nel Movimento nessuno ha dimenticato. È ad esempio suo il tremendo titolo al video sull’allora presidente della Camera, che recitava «Cosa fareste in macchina con la Boldrini?» che nel 2014 scatenò i peggiori istinti della rete. Ancora prima, e sempre a proposito di alte cariche. Di suo pugno è il post in cui Beppe Grillo parlava di «golpe» a proposito della rielezione di Napolitano nel 2013: il frontman M5S in quel momento dormiva nel suo camper, si limitò a un assenso assonnato a quelle poche righe, in ore nelle quali la tensione era altissima - come è ben raccontato in “Supernova” da Nicola Biondo, che allora era il capo della comunicazione M5S, e Marco Canestrari che lavorava nella Casaleggio Associati. Adesso, sempre per la serie presidenti della Repubblica, nel lungo travaglio prima della nascita del governo c’è ancora Dettori, con Casalino che segue a ruota, dietro la scelta sconsiderata di agitare il fantasma dell’impeachment contro il capo dello Stato Sergio Mattarella dopo che le trattative tra i legastellati e il Quirinale, si erano bloccate sul nome di Paolo Savona per l’Economia. Di Maio, in quel momento, si ritrova sospinto nell’ombra, stretto tra la rinuncia di Conte e la rapidità killer di Matteo Salvini. Non sa come fare, gli arriva il suggerimento per rientrare nel dibattito, lui lo cavalca. Una operazione per lo meno spregiudicata, nella quale il capo M5S brucia i buoni rapporti coltivati con il Colle e rischia, per un momento, di finire stritolato per sempre. Ma è proprio questo in realtà uno dei tratti di Dettori: la spregiudicatezza. Che supera persino quella dell’ambizioso Di Maio, e porta il tutto a un indescrivibile livello in cui il rilancio è continuo, instancabile, implacabile. Descritto da chi lo conosce come intelligente, furbo, riservato, Dettori è il tipo che dice: che ti frega cosa sia, l’importante è che tiri sul web. Si tratti dei giornalisti da «masticare e vomitare» oppure dei pannelli fotovoltaici. Pare che abbia fatto lo stesso ragionamento su Vladimir Putin, discusso oggetto del desiderio della politica pentastellata. Comunque, è un tipo capace di stare giorni interi a studiare i trend di viralità dei post. Ed è, in questo, del tutto simile a Marcello Dettori, fratello con 4 anni in meno, anche lui specialista del web marketing, anche lui per un paio d’anni alla Casaleggio associati, una esperienza di lavoro persino a Praga - città per così dire all’avanguardia nel genere, dove peraltro vive il presidente di Publy, concessionaria di pubblicità per la Casaleggio. Marcello, comunque, da gennaio è amministratore unico di una società, la Moving fast Media srl con sede a Cagliari, diecimila euro il capitale sociale, che fra l’altro gestisce il sito Silenzi e falsità, già filoputiniano e adesso concentrato soprattutto sulla propaganda pro M5S e governo. Tutta questa sapienza - quasi un tratto familiare: si dice che il padre di Dettori fosse amico del padre di Casaleggio - la grande capacità di profilazione degli utenti della rete mescolata ad una accurata riservatezza, si riversa sul web nel suo esatto opposto: è Pietro Dettori che inventa ad esempio «ebetino», è lui a portare nel blog e quindi nel movimento il costante eccitamento verbale, come anche il dilagare del click-baiting, ossia la pubblicazione di notizie civetta, che fino al suo arrivo servivano soprattutto a fini commerciali, e invece poi diventano un genere a parte. Questo modo di fare, una volta, faceva anche imbestialire gli onorevoli a Cinque stelle, che si ritrovavano magari la mozione parlamentare faticosamente studiata e scritta, che finiva pubblicata sul blog accanto al telefonino che frigge l’uovo. Adesso, al contrario, nessuno ha più niente da ridire: in quanto maggioranza, M5S interpellanze e interrogazioni quasi nemmeno le farà più.

Casaleggio si è preso il Movimento con 150 euro. L'atto notarile di Rousseau firmato tra padre e figlio a 4 giorni dalla morte di Gianroberto, scrive Massimo Malpica, Giovedì 1/02/2018, su "Il Giornale". Più che «uno vale uno», «uno vale tutto». Il Foglio ha scoperto e pubblicato lo statuto dell'associazione Rousseau, allegato all'atto costitutivo. Un documento che, di fatto, consegna il Movimento 5 Stelle al controllo di Davide Casaleggio. Amministratore, presidente, tesoriere dell'associazione che dovrebbe assicurare l'esercizio della democrazia diretta dei pentastellati. L'atto notarile è stato redatto l'8 aprile del 2016, quattro giorni prima della scomparsa di Gianroberto Casaleggio, nella struttura sanitaria dove quest'ultimo era ricoverato. E lo statuto affida i poteri dell'associazione, battezzata con un capitale di appena 300 euro, a due soli individui, ossia i «fondatori». Che quel giorno erano due, Gianroberto (presidente) e il figlio Davide (vicepresidente e tesoriere), ossia colui che, dopo la dipartita del primo, è rimasto il solo, insostituibile fondatore e controllore della «Rousseau». E, chiosa il Foglio, di fatto pure il padrone del Movimento 5 Stelle. Casaleggio junior, infatti, è presidente, tesoriere e amministratore unico dell'associazione. È lui l'«uno che vale tutto», ricoprendo tanto i ruoli dirigenziali che quelli di vigilanza, e la rappresentanza dell'associazione, contro terzi e, in quanto tesoriere, anche per la «gestione amministrativa, finanziaria e contabile». E se vale tutto, ricorda il Foglio, vale anche essere opachi nel bilancio, visto che il rendiconto sommario, unico documento presente sul sito dell'associazione, non riporta per esempio i rimborsi spese autoassegnati dal giovane Casaleggio, che il quotidiano diretto da Claudio Cerasa definisce «Garantito», in contrapposizione al «Garante» di M5S, Beppe Grillo. Nessuna certezza anche sui rapporti economici tra l'associazione e la Casaleggio Associati, che condivide con Rousseau anche la sede oltre al presidente: non è noto, scrive il Foglio, «se è stata mai pagata per i servizi resi all'associazione e per aver sviluppato la piattaforma Rousseau». Di certo Davide Casaleggio sembra destinato a restare a vita alla guida dell'associazione che «controlla» il Movimento, visto che nel nuovo statuto pentastellato, tra norme per sfiduciare il neo leader Luigi Di Maio e il fondatore-garante Grillo, manca una via percorribile per sfilarsi dall'abbraccio con l'associazione Rousseau. Alla quale, peraltro, spetterebbe comunque la verifica e il conteggio dei voti per la complessa e quasi irrealizzabile separazione tra MoVimento e relativo «sistema operativo». Insomma, dovrebbe essere Davide Casaleggio a certificare il divorzio del M5S dalla sua stessa associazione. Uno scenario ad alta improbabilità che secondo il quotidiano potrebbe vedere una svolta solo con «una scissione» del movimento politico dal suo sistema-associazione, consegnata in discendenza diretta al giovane Casaleggio. Che, intanto, stasera al Memo Restaurant di Calvairate, a Milano, ha organizzato una cena - alla quale parteciperà anche Di Maio - dove, per 300 euro pro capite, oltre a mangiare ci si potrà iscrivere all'associazione Gianroberto Casaleggio. Un omaggio - non gratuito - alla memoria del genitore, e un'occasione per «far conoscere l'associazione», spiega Davide. E curiosamente 300 euro è anche la tassa mensile - rivela ancora il Foglio - che i parlamentari, secondo il nuovo statuto a 5 Stelle, dovranno versare all'altra associazione, la Rousseau.

Esclusiva: così Davide Casaleggio è diventato il padrone del M5s. Ecco il testo integrale dello statuto dell'associazione Rousseau che ha consegnato al figlio di Gianroberto il controllo assoluto ed eterno del partito, scrive Luciano Capone il 31 Gennaio 2018 su "Il Foglio". “L’anno duemilasedici, il giorno otto del mese di aprile. In Milano, in una stanza dell’Istituto in via Mosè Bianchi n. 90. Davanti a me, notaio Enzo Sami Giuliano, sono presenti i signori Gianroberto Casaleggio e Davide Federico Dante Casaleggio...”. Inizia così il documento più importante – e forse proprio per questo tenuto segreto, anche dopo le nostre reiterate richieste di pubblicazione – della galassia di statuti e non-statuti che regolano la vita del M5s. È l’atto costitutivo dell’“Associazione Rousseau”, che il Foglio è in grado di rivelare in versione integrale qui, di quell’associazione non riconosciuta che coincide fisicamente con la sede della Casaleggio Associati e con la persona di Davide Casaleggio, attraverso cui il figlio di Gianroberto gestisce per discendenza diretta la democrazia diretta del M5s. Al di là degli articoli dello statuto che indicano le finalità, gli organi e il funzionamento dell’associazione, ciò che è più importante per capire il contesto in cui sboccia il ruolo di dominus del M5s di Davide Casaleggio è proprio l’incipit del documento. Intanto la data: l’8 aprile del 2016. E poi il luogo: l’Istituto Auxologico di via Mosè Bianchi, dove in quei giorni Gianroberto era ricoverato sotto falso nome per esigenze di privacy. Quattro giorni prima della sua morte, avvenuta il 12 aprile 2016 al termine di una lunga malattia, un notaio viene convocato in una stanza d’ospedale per redigere un testamento politico che consegna al figlio il controllo del partito per via ereditaria. Così, se Beppe Grillo ha il ruolo di Garante del M5s, grazie a Rousseau Davide Casaleggio occupa quello di Garantito. L’Associazione Rousseau, che ha lo scopo di “promuovere lo sviluppo della democrazia digitale nonché di coadiuvare il Movimento 5 Stelle” nella sua azione politica, è un’associazione composta da due persone: Gianroberto Casaleggio, che è in fin di vita, e il figlio Davide. Versano due quote da 150 euro, che costituiscono il fondo iniziale, e sono rispettivamente Presidente e vicepresidente, entrambi componenti dell’Assemblea e membri del Consiglio direttivo, mentre Davide è anche Tesoriere. Ma l’obiettivo dello statuto, date le condizioni di salute del padre, è assicurare al figlio il controllo perpetuo e assoluto su Rousseau. E il potere di Casaleggio jr. viene blindato da due articoli – il 6 e il 13 – che consegnano eternamente i ruoli e le funzioni più importanti ai “Fondatori”. Ma di fondatori ce ne sono due e dopo appena quattro giorni, in seguito alla morte di Gianroberto, ne resta solo uno: Davide. L’art. 6 dello statuto sancisce che possono entrare nell’associazione persone “la cui ammissione è deliberata dal Consiglio direttivo”. Ma secondo l’art. 13 “il presidente del consiglio direttivo è nominato dall’Assemblea tra i soci fondatori” (quindi solo il Garantito, Davide Casaleggio). Il 12 aprile, il giorno della scomparsa di Gianroberto, tutte queste distinzioni non contano. L’Associazione Rousseau è una sola persona, in cui coincidono l’assemblea, il presidente, il consiglio direttivo e il tesoriere. Ma lo schema dello statuto è fatto per garantire a Casaleggio il dominio eterno sull’Associazione: è solo lui, l’unico Fondatore superstite, che può essere nominato presidente; ed è sempre lui che, attraverso il Consiglio direttivo, di cui è l’unico presidente possibile, a decidere chi può entrare e chi no nell’associazione. E’ in questo contesto di regole che il 5 maggio Davide fa entrare nell’Associazione Rousseau due nuovi soci, Max Bugani (consigliere comunale a Bologna) e David Borrelli (europarlamentare), il cui ruolo però è quello di fare numero. Sono solo figuranti. E questo lo ha dichiarato lo stesso Borrelli al Foglio il 4 gennaio 2018: “Sono in quell’associazione ma è come se non ci fossi. Tutti e tre gli incarichi sono intestati a Davide Casaleggio, bisogna chiedere a lui”. E veniamo ai tre incarichi. Secondo quanto emerge dal rendiconto sommario del 2016 pubblicato sul sito, il Garantito Davide è contemporaneamente presidente, tesoriere e amministratore unico di Rousseau. Ciò vuol dire innanzitutto che rispetto allo statuto il Consiglio direttivo, l’organo collegiale che amministra l’associazione, è stato sostituito da una figura monocratica come l’Amministratore unico. Ma soprattutto che il figlio di Gianroberto concentra nella sua persona tutti i ruoli dirigenziali e di vigilanza, senza alcuna divisione dei poteri, e in pieno conflitto d’interessi. Secondo lo statuto il Consiglio direttivo (ora l’Amministratore unico) nomina il tesoriere, delibera i rendiconti predisposti dal tesoriere, decide sui contratti superiori ai 100 mila euro e sui propri rimborsi spese. Il tesoriere provvede alla gestione economico-finanziaria ordinaria e predispone il rendiconto. Il presidente presiede il consiglio direttivo e rappresenta l’associazione. In pratica Casaleggio nomina se stesso, autorizza se stesso, controlla se stesso e presiede se stesso. Una condizione che potrebbe portare a un disturbo della personalità, ma che di sicuro disturba il sano e trasparente funzionamento di qualsiasi organizzazione. In particolare di un’associazione come Rousseau che, a dispetto dal numero esiguo dei membri, maneggia una flusso enorme di danaro (finora oltre 550 mila euro), rendicontato in maniera approssimativa. Nessuno sa a chi sono andati centinaia di migliaia di euro finora spesi, se ad esempio la Casaleggio Associati – società che ha la stessa sede di Rousseau e lo stesso presidente garantito per diritto ereditario – è mai stata pagata per i servizi resi all’associazione e per aver “sviluppato” la piattaforma Rousseau. Nessuno sa quali e quanti siano i “rimborsi spese” che il garantito si è autorizzato. Non lo si può evincere dal rendiconto sommario pubblicato sul sito, non lo sanno i donatori, i militanti e gli eletti del M5s, non lo sanno neppure gli altri soci di Rousseau (“Ho partecipato a una sola riunione su Skype, ho visto il bilancio che è online e ho dato l’ok”, ha detto al Foglio Borrelli). Il potere di Davide Casaleggio è ulteriormente rafforzato dalle nuove regole del M5s. L’art. 1 del nuovo statuto vincola per sempre il M5s all’associazione Rousseau e l’art. 6 del regolamento obbliga tutti i nuovi eletti in Parlamento a versare una tassa mensile da 300 euro a Rousseau (che fanno almeno 3 milioni di euro in 5 anni). Il movimento è così legato mani e piedi, giuridicamente, economicamente e tecnicamente, a un’associazione privata su cui non ha nessun potere o vigilanza. Il nuovo statuto prevede una procedura per sfiduciare il capo politico (Di Maio) e anche una per rimuovere il garante (Grillo), ma non ce n’è nessuna per recidere i legami con il garantito (Davide Casaleggio e la sua Associazione Rousseau). L’unica soluzione è modificare lo statuto. Ma per farlo serve una procedura complicatissima e una maggioranza irraggiungibile. E in ogni caso “la verifica dell’abilitazione al voto e il conteggio dei voti – dice lo statuto – sono effettuati in via automatica dal sistema informatico della Piattaforma Rousseau”. Non se ne esce, se non con una scissione. A supervisionare e gestire tutto c’è sempre lui, Davide Casaleggio, il Garantito che, per discendenza diretta e con soli 300 euro di capitale, ha preso il controllo assoluto ed eterno del primo partito italiano.

Casaleggio Leaks. I documenti segreti sulla truffa della democrazia grillina. Le scatole cinesi, Rousseau, la non competenza, il bluff della democrazia diretta. Il Foglio ha ottenuto dal Garante della privacy le carte inedite che mettono sotto processo il metodo Casaleggio. L’intreccio grillino non è solo folclore. Inchiesta di Claudio Cerasa dell'1 Febbraio 2018 su "Il Foglio". Lo ripetiamo perché forse qualcuno ancora non se ne è reso conto. Dunque. In Italia esiste un partito guidato da un comico di nome Beppe Grillo, diretto da un ologramma di nome Luigi Di Maio, eterodiretto dal capo di una srl privata di nome Davide Casaleggio che si candida ad applicare in tutta Italia il modello Raggi facendo leva su tre messaggi chiari e definiti: noi siamo il partito della trasparenza, noi siamo il partito della legalità, noi siamo il partito della democrazia diretta. Su questo partito, la classe dirigente italiana ha scelto da tempo di non farsi troppe domande, ha scelto di coprirsi gli occhi di fronte ai profili di incostituzionalità e ha scelto di voler considerare solo un puro fenomeno di folclore la presenza, in questo movimento, di un soggetto non eletto da nessuno che attraverso un’associazione privata di nome Rousseau controlla la vita democratica e le attività di un movimento senza che questo movimento possa avere alcun tipo di controllo sulle attività del suo controllore: il signor Davide Casaleggio. La democrazia del Movimento 5 stelle, come è noto, è governata dall’Associazione Rousseau, di cui Davide Casaleggio è presidente, tesoriere e amministratore unico. Ma mentre Casaleggio ha il potere di governare i dati degli iscritti di Rousseau, le procedure di votazione dei candidati del movimento, le scelte delle proposte da presentare in Parlamento, i soldi versati oggi dagli iscritti e domani dai parlamentari (300 euro al mese, con il risultato che un partito nato per abolire il finanziamento pubblico dei partiti finanzierà con i soldi pubblici incassati dai parlamentari un’associazione privata), al contrario il movimento non può indicare i vertici, non può influenzare le decisioni, non può avere contezza di quali siano le regole interne, la gestione delle risorse finanziarie e le procedure per entrare in Rousseau. Nessuna trasparenza, come è stato costretto ad ammettere ieri nel corso di una trasmissione televisiva il simpatico deputato grillino Danilo Toninelli, che proprio mentre il Foglio pubblicava online, in esclusiva, lo statuto dell’associazione Rousseau ha sostenuto che lo scoop del Foglio, sullo statuto Rousseau, fosse “una mera invenzione, perché non esiste alcuno statuto Rousseau”. Ehm... Mossi da un senso di vicinanza profonda nei confronti dell’onorevole Toninelli oggi offriamo al deputato del Movimento 5 stelle un’altra storia che gli elettori grillini meriterebbero di conoscere e che riguarda una vicenda stranamente non rilanciata nelle ultime settimane dai solitamente molto prolifici onorevoli grillini: la genesi del provvedimento del Garante della privacy contro l’Associazione Rousseau, accusata di violazioni nel trattamento dei dati personali dell’Associazione Rousseau. Quello che tutti sapete è che lo scorso 2 gennaio il Garante per la privacy ha reso noto il suo ammonimento. Quello che nessuno sa è come il garante è arrivato a quell’ammonimento. Ve lo raccontiamo. Per raccontarvi cosa è successo prima del 2 gennaio bisogna partire da qui: cosa si è scoperto durante i mesi in cui si è lavorato per studiare gli eventuali illeciti commessi da Rousseau nel trattamento dei dati personali degli iscritti alla sua piattaforma (150 mila iscritti, anche se quelli realmente attivi dovrebbero essere circa un terzo). Nel provvedimento del garante, pubblicato il 21 dicembre 2017, erano presenti alcuni rimandi a diversi allegati omessi nel provvedimento. Così ci siamo incuriositi e l’8 gennaio abbiamo mandato allo stesso garante, ai sensi del d.lgs n. 97 del 2016, una “richiesta di accesso civico agli atti relativi all’indagine del garante sulla così detta piattaforma Rousseau e al provvedimento del 21 dicembre 2017, in particolare per acquisire i verbali delle operazioni compiute e le istanze e le altre segnalazioni pervenute al garante, nonché ogni altro elaborato, analisi o rapporto prodotto dall’ufficio”. Il garante ha fatto le sue verifiche (incredibilmente, nessuno prima del Foglio lo aveva chiesto) e il 30 gennaio ci è stato consegnato un plico con tutta la documentazione. E tra i vari file allegati ci sono spunti utili per capire perché sui tre messaggi forti del Movimento 5 stelle – noi siamo il partito della trasparenza, noi siamo il partito della legalità, noi siamo il partito della democrazia diretta – c’è qualcosa che non torna e che anche l’onorevole Toninelli merita di conoscere. La prima notizia riguarda il tema della trasparenza (e il garante della privacy poi deciderà se si tratta anche di un tema che sconfina nella non legalità). Il 2 gennaio i giornali hanno riportato le accuse del garante della privacy sul tema degli “illeciti nel trattamento dei dati degli utenti” e sul voto elettronico “non anonimo”. Basta sfogliare le carte però per capire che in realtà sono gli stessi legali di Davide Casaleggio il 5 ottobre 2017 a riconoscere che i gestori della piattaforma Rousseau sono consapevoli che il voto non risponde ai criteri di segretezza e che può essere tracciato. Sentite qui: “A specifica domanda dei verbalizzanti, la parte (Casaleggio) ha fatto presente che sussiste la possibilità teorica di ricondurre, tramite altre informazioni disponibili nel sistema, il voto espresso all’identità del votante, possibilità che tuttavia non è mai stata utilizzata”. E a conferma di questa consapevolezza gli avvocati ammettono che i gestori di Rousseau stanno studiando “delle soluzioni basate su tecnologia blockchain, che consentirebbe di pervenire ad una certificazione dei voti espressi, rispettando la segretezza del voto”. Cosa che finora, ammettono gli avvocati di Casaleggio, non è stata garantita. Potrebbe bastare questo per farsi qualche domanda sulla truffa della democrazia diretta, ma nel dossier del garante della privacy si trova qualche considerazione in più. Una è in un rapporto, finora inedito, di trentaquattro pagine, depositato il 29 novembre 2017 presso l’archivio del garante per la protezione dei dati personali, e che è così intitolato: “Note sugli aspetti di sicurezza relativi alle piattaforme on line gestite dalla Casaleggio & Associati S.r.l per conto di Giuseppe Piero Grillo, dell’Associazione Rousseau e del Movimento 5 stelle”. I più attenti tra voi avranno notato che già in questa presentazione c’è una notizia: al contrario di quello che sostiene Davide Casaleggio, che il 2 gennaio ha dato mandato ai suoi legali di “riservarsi il diritto di procedere in qualsiasi sede giudiziale, sia penale che civile, nei confronti di tutti coloro che in modo mendace e in mala fede continueranno intenzionalmente e pubblicamente a confondere la predetta società (la Casaleggio Associati con l’Associazione Rousseau, il garante della privacy afferma che anche Rousseau “è gestita” non da Davide Casaleggio come persona fisica ma direttamente dalla Casaleggio Associati. E per capire perché questa affermazione è formulata senza proposizioni dubitative conviene arrivare alla fine dell’articolo.

Torniamo alla privacy. Cosa dice il rapporto del garante su Rousseau? Due cose. Ci dice che anche nell’unico campo in cui il Movimento 5 stelle avrebbe potuto mostrare la sua competenza i gestori della piattaforma che governa la democrazia diretta del movimento hanno dato prova di straordinaria non competenza. Esempio numero uno. La piattaforma Rousseau è stata realizzata con un sistema che si chiama “Cms Movable Type Enterprise Versione 4.31-en”. Ma questa versione, scrive il garante, concetto già espresso nel provvedimento del 21 dicembre, ha un problema: “E’ affetta da obsolescenza tecnica”. E che significa obsolescenza tecnica? Significa che ogni versione di quel sistema con radice pari a 4.3 scadeva il 31 dicembre del 2013 e oltre quella data, scrive il garante, “non sono più rilasciati aggiornamenti di sicurezza”. Dunque: il movimento che vuole sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta ha costruito un sistema che potenzialmente dà a chi dirige la democrazia la possibilità di controllare ciò che fanno i suoi iscritti e lo ha fatto servendosi di un sistema “artigianale” (definizione del garante) che già cinque anni fa era da buttare nel cestino. Lo diciamo noi? No. Lo dice ancora il garante. Pagina 16: “Il sistema adottato non consentiva di imporre delle policy efficaci relativamente alla qualità delle password, ammettendo l’uso di password banali, facilmente esposte alla decifrazione e ad attacchi. In particolare, si fa presente che tale limitazione comporta, laddove presente, che un qualsiasi utente applicativo o sistemistico del sistema operativo, anche con profili di minor rilievo ma che abbia accesso in sola lettura ai database delle password, solitamente registrate in forma cifrata, possa acquisirle nella forma in cui sono e condurre in modalità on line attacchi brute force sulle password, che, se fruttuosi, consentiranno in un secondo tempo l’effettuazione di accessi abusivi con l’utilizzo in chiaro delle credenziali tecnicamente correte, senza causare alcun allarme sul sistema attaccato”. Basta questo? No, non basta. Passaggio ulteriore che consigliamo a Danilo Toninelli, da sottolineare con la matita blu: “L’incertezza sulla effettiva resilienza del sistema di votazioni elettroniche, l’impossibilità di verificare a posteriori la liceità dei trattamenti svolti, l’impossibilità di accertare l’unicità del voto espresso, nonché l’incertezza sulla sua autenticità e, infine, il rischio anche solo sul piano astratto che sia possibile controllare e ricostruire le preferenze espresse dai votanti a causa della mancanza di anonimato, caratterizzando il sistema Rousseau, nella sua componente di voto elettronico, quale interessante sperimentazione di uno strumento di interazione e partecipazione politica, del tutto privo, tuttavia, di quei requisiti di sicurezza informatica e di protezione dei dati personali, che dovrebbero caratterizzare un vero e proprio sistema di e-voting”. E perché il sistema di e-voting non è sicuro? Lo spiega il garante a pagina 23: “I voti espressi tramite le funzionalità di e-voting offerte dalla piattaforma vengono archiviati, storicizzati e restano imputabili a uno specifico elettore anche successivamente alla chiusura delle operazioni di voto, consentendo elaborazioni a ritroso con, in astratto, la possibilità di profilare costantemente gli iscritti, sulla base di ogni scelta o preferenza espressa tramite il sistema operativo”. Ci si potrebbe anche fermare qui se non fosse che tra i documenti consegnati al Foglio dal garante della privacy c’è un elemento ulteriore che ci permette di mettere a fuoco il vero burattinaio del Movimento 5 stelle, l’uomo che gestendo da remoto la democrazia diretta offre agli elettori l’illusione di poter contare quando in realtà il sistema realizzato da Casaleggio & Co. non fa altro che alimentare un bluff politico in cui la democrazia diretta è diretta nel senso che c’è qualcuno che può dirigerla dall’alto. E così, come abbiamo raccontato ieri con lo statuto dell’Associazione Rousseau pubblicato da Luciano Capone, sappiamo con certezza che Casaleggio, da presidente, tesoriere e amministratore unico di Rousseau, attraverso Rousseau controlla i dati, controlla i soldi, controlla di fatto il partito teleguidato dalla sua associazione privata e potenzialmente può controllare anche i candidati (anche se certamente non l’ha mai fatto, come hanno detto al garante della privacy i suoi avvocati). Ma sappiamo anche altro. E sappiamo che al contrario di quello che ha affermato il numero uno della Casaleggio Associati in realtà tra l’Associazione Rousseau e la srl fondata da Gianroberto Casaleggio esiste una simmetria che meriterebbe di essere approfondita come nota anche il garante in un passaggio della relazione su Rousseau (“I rapporti tra Movimento, Associazione, Società e lo stesso titolare del trattamento Giuseppe Piero Grillo sono meritevoli di un approfondimento che esula però dalle finalità del presente rapporto”). La simmetria non la si deduce solo dal fatto che la sede di Rousseau è la stessa della Casaleggio Associati (via Morone 6, Milano). Ma la si deduce anche da un dettaglio che forse è sfuggito allo stesso garante. Nel corso dell’ispezione del 5 ottobre in via Morone, di fronte ai dirigenti del Garante della privacy, Casaleggio dice di rispondere non a nome della Casaleggio Associati ma “nella esclusiva qualità di presidente dell’Associazione Rousseau”. Il 18 ottobre del 2017 Davide Casaleggio però invia una email “in risposta alle richieste avanzate da parte dell’autorità garante per la protezione dei dati personali nel corso delle operazioni compiute in data 4 e 5 ottobre 2017 a Milano in via Morone 6”. In quella email Casaleggio spedisce al garante una serie di dati preziosi. La copia dei report del “penetration test”. Gli schemi delle tabelle di Rousseau. I nomi dei soggetti assegnatari di privilegi globali o specifici per ogni database o singole tabelle. I nomi delle persone che hanno accesso da remoto al sistema che gestisce la piattaforma. L’email di Davide Casaleggio si conclude con un significativo nota bene. Questo: “Si prega di mantenere strettamente riservati i nominativi sopra elencati”. C’è solo un piccolo problema: l’email con cui Davide Casaleggio risponde in qualità di presidente di Rousseau alle richieste del garante per la privacy è quella utilizzata dalla Casaleggio Associati per la sua posta certificata. Casaleggioassociati@legalmail.it. Ciò vuol dire che i dati riservati allegati sono a disposizione di chiunque abbia accesso a quella posta certificata.

La domanda che allora oggi Danilo Toninelli dovrebbe rivolgere al controllore del Movimento 5 stelle è questa: siamo sicuri che l’unico soggetto che ha le credenziali per accedere alla posta certificata della Casaleggio Associati sia Davide Casaleggio? I cinque stelle ci insegnano da sempre che il sospetto è l’anticamera della verità. Noi non siamo d’accordo. Ma per una volta un sospetto viene anche noi. E chissà che non venga voglia anche a qualcun altro di farsi due domande su un partito guidato da un comico di nome Beppe Grillo, diretto da un ologramma di nome Luigi Di Maio, eterodiretto dal capo di una srl privata di nome Davide Casaleggio che si candida a governare l’Italia puntando su tre princìpi: siamo il partito della trasparenza, della legalità, della democrazia diretta. Finora, a leggere le carte del garante della privacy, possiamo dire che la democrazia diretta è un bluff e la trasparenza non c’è. E che l’unico campo in cui sarebbe stato lecito aspettarsi almeno un po’ di competenza, la tecnologia, viene gestito dai grillini più o meno come gli alberi di Natale a Roma. Sulla legalità confidiamo di saperne di più nei prossimi mesi. E su questo punto vi invitiamo a leggere domani un’altra puntata sul Foglio sui Casaleggio Leaks. Il materiale che abbiamo è ricco e vale la pena raccontarlo ancora. A domani.

Nella Casaleggiocrazia il voto non è segreto, scrive Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 02/02/2018, su "Il Giornale". Nel segreto dell'urna Dio ti vede. E Casaleggio pure. Stalin, per fortuna, al momento non è pervenuto. Sì, quando i grillini parlavano di trasparenza, evidentemente, noi non li prendevamo abbastanza sul serio. Ora il concetto chiave della trasparenza pentastellata è nitido: loro possono vedere tutto dei loro sostenitori e i loro sostenitori pochissimo di loro. Ma per «tutto» intendiamo proprio «tutto». E cade uno dei capisaldi della democrazia per come la abbiamo conosciuta sino a oggi: la segretezza del voto. Nel mondo di Di Maio e soci anche il voto è trasparente, nel senso che i papaveri del partito possono ficcare il naso nelle urne virtuali e sbirciare gli elettori. Lo ha rivelato ieri il Foglio: i legali della Casaleggio associati - convocati dal garante della privacy per il furto dei dati alla piattaforma Rousseau subito la scorsa estate - hanno candidamente ammesso che possono collegare il voto espresso dagli iscritti alla loro identità. In parole povere: sanno chi ha votato chi. Conoscono (almeno) nome, cognome e mail di chi ha scelto un determinato candidato o una certa proposta di legge. Una falla grossa come una casa che fa precipitare il mito della democrazia diretta. E poi si delinea un paradosso: a più di due settimane da queste benedette parlamentarie non è stato ancora dato con esattezza né il numero dei votanti e neppure i risultati completi delle consultazioni on line. In compenso alla Casaleggio Associati sanno vita, morte, miracoli e codice fiscale di chi ha cliccato sulla loro piattaforma. Ma - guarda te! - non riescono a fornire il numero preciso degli elettori e delle preferenze. Allora delle due l'una: o i geni informatici a Cinque Stelle non sanno nemmeno contare e allora mettessero da parte i pc e si comprassero un abaco oppure stanno prendendo tutti per il naso: l'opinione pubblica e, soprattutto, i loro stessi militanti ed elettori. Si potrebbe declassare tutto a una bega di partito, interna ai Cinque Stelle. Se non fosse che la democrazia diretta è la ragione sociale del Movimento stesso e pensare cosa potrebbe succedere con una votazione politica nazionale gestita in questo modo fa venire i brividi. Non sarebbe una democrazia. Al massimo una Casaleggiocrazia.

Qualche domanda su Casaleggio

Ecco quello che la stampa ha messo a fuoco in modo definitivo sul Movimento 5 stelle, scrive Claudio Cerasa il 2 Febbraio 2018 su "Il Foglio". Al direttore - E’ incredibile e inquietante che nessuno reagisca alle inchieste sulla non trasparenza grillina, come se questo cosiddetto movimento fosse appunto un banale e passeggero fenomeno di costume. E, ribadisco, fatico molto a credere che siano semplicemente incompetenti. Semplicemente ci stanno abituando. Silvio Righini

Che ci vuole fare? Sono tutti molto impegnati a raccontare la bravura di Luigi Di Maio che è perfino riuscito a strappare “una candidata ad Angela Merkel”, come ha scritto tre giorni fa il Corriere della Sera – ovviamente non c’è nessuna candidata che ha lavorato con Angela Merkel e come ha raccontato Daniel Mosseri sul Foglio due giorni fa il cosiddetto “Consiglio economico della Cdu” è un’associazione di imprese vicina alla Cdu, ma del tutto indipendente dal partito della cancelliera tedesca, e la candidata “strappata alla Merkel” è una delle due assistenti del direttore per gli associati. Eppure, qualcosa di più interessante da raccontare ci sarebbe, sul Movimento 5 stelle. Per esempio raccontare quello che nessuno ha ancora messo a fuoco in modo definitivo: una truffa politica chiamata democrazia diretta, un’associazione privata telecomandata dal capo di una srl che senza trasparenza guida uno dei più importanti partiti italiani, senza che il partito abbia alcun controllo. Sarebbe bello se qualche giornale, da qui al 4 marzo, ricordasse anche agli stessi grillini che il partito che stanno votando è un partito che ha truffato politicamente i suoi stessi militanti. Si accettano scommesse: qualcuno lo farà?

Padroni e consecutio. Di Maio verso la vittoria e la stampa s’adegua. Joe riempie Via Solferino di post-it: “Se sarei, se andrei...” Scrive il 3 Febbraio 2018 "Il Foglio". Non solo City, rotative a Cinque stelle. La finanza internazionale accoglie Luigi Di Maio in marcia verso la vittoria, la Casaleggio Associati ormai conta più di Bilderberg e tutto il giornalismo autorevole italiano, va da sé, si adegua. Nuovi padroni, nuova consecutio.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Comincia il Corriere della Sera con Joe Servegnini che, da par suo, per ingraziarsi il suo nuovo faro segna sui post-it sparsi per tutti gli anfratti di Via Solferino le necessarie correzioni: “Se sarei, se andrei, se avrebbi avuto”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Il direttore di 7 se l’è legata al dito la mancata candidatura, non gliela perdona a Matteo Renzi, essere scartato per mettere avanti Tommy-Tommy Cerino all’anagrafe Cerno è troppo.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Nuovi padroni, nuova consecutio. “Renzi ha scegliuto Cerino perché fu candidato nelle liste di An raccomandato da Pasolini? E va bene, me lo ascrivo nel post-it così che quando c’incontriamo faccia a faccia glielo ricorderei ancora”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Joe è proprio in smanie: “Se avrebbi avuto a me in lista saresse stata vittoria sicura per Matteo; il mio curriculum parla chiaro: da Wanda, la più richiesta delle case chiuse, ci sono gghiuto io con Montanelli e sono entrato senza impermeabile e con la frangetta all’Umberta”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. L’occasione ghiotta, Joe, l’ha avuta durante la puntata di “Otto e Mezzo” dove ha avuto di fare la domanda delle domande a Di Maio: “Sei giovane, sei bravo, sei anche bello, non hai il conto in Banca Etruria, vuoi restituire l’Alto Adige alla grande Germania ma, ti chiedo, sei pronto a fare il presidente del Consiglio?”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. La risposta in pubblico è stata formale ma sotto al tavolo, e la Var analizzata da Lilli Gruber lo dimostra, Di Maio ha fatto piedino a Joe, come a dirgli: “Sarai ministro nel primo governo a Cinque stelle”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Servegnini ha così avuto conferma, confessando – tra stizza e rabbia – alla pur attonita Gruber che un piedino così, da Matteo, non l’aveva avuto mai. Neppure quando era costretto a e trattenere nei giardinetti il suo babbo, il Tiziano, per evitare che facesse altri danni con i pellegrini di Medjugorje.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Luigi Di Maio marcia verso la vittoria e Joe sa riconoscere il raggiante carro. Tutti i pezzacci scritti, specialmente quelli nei giornali britannici, americani, canadesi e neozelandesi dove collabora Joe, tutti dimenticati. Tutte le consecutio, aggiornate: “Se saressi, se potrebbi, se avessolo visto…”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Servegnini arriva primo al traguardo del cuore di Di Maio, l’intera Repubblica cerca di porre rimedio a siffatto svantaggio offrendo – ma il fatto in sé è interpretato come uno sgarro all’ex editore, Carlo De Benedetti – di buttarla sull’araldica.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. E’ una pensata di Marione Calabrese, sollevato di non avere più Tommy-Tommy, quella di nobilitare il cognome all’imminente prossimo premier e nelle didascalie, infatti, con tanto di sollecitazione di un ordine di servizio, sotto la foto del leader verrà scritto così: “Luigi di Maio”. Con tanto di “d” minuscola. Nuovi padroni, nuove minuscole.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Joe è proprio primo nella gara e quando Paolo Mieli, ospite di Lilli Gruber lamenta il sistema di scelta dei Cinque stelle per le candidature – ma solo perché tutti i suoi amici, ma proprio tutti, avrebbero voluto candidarsi al fianco di Di Maio – ecco che Servegnini sgama la trappola sorniona ordita dall’autorevole ex direttore del Corriere e mobilita (vero, Irene?) un meetup di Seven per ribadire la sacrosanta battaglia di onestà-tà-tà e smentire le trame oscure: “Quelli di cui parla Mieli li conosco, sono solo chiacchiere e congiuntivi!”.

Non solo City, rotative a Cinque stelle. Mieli non si lascia certo intimidire, ha messo nel sacco Massimo D’Alema, Romano Prodi, Maria Elena Boschi, Matteo Renzi, per non dire di Silvio Berlusconi – tutti quanti impigliati nei reticoli della sua ragnatela – figurarsi quanto possa essere difficile arretrare di un congiuntivo o spostare Kinshasa in Siberia per poi farne un sol boccone di Di Maio ma Servegnini ha, da par suo, il colpo d’ala. Porge il polso a Di Maio e gli dice: “Luigi, ecco, a me il braccialetto che vibra e segnala quello che faccio quando i tuoi occhi non mi vedono, vibrerà solo per te!”.

Il M5S è un esperimento creato in laboratorio. Già negli anni Novanta Gianroberto Casaleggio testava come manipolare il consenso con un team ristretto della sua azienda informatica. Dalla nascita del blog al primo Vaffa day. Sino alla normalizzazione dell'èra Di Maio, scrive Susanna Turco l'8 gennaio 2018 su "L'Espresso". Il Movimento cinque stelle è un Esperimento. O almeno nasce così. Un Esperimento di ingegneria sociale che ha inizio molti anni prima di diventare una realtà, pubblica, votabile, addirittura in lizza per il governo del Paese. Un Esperimento che alla fine - proprio mentre il suo inventore si ammala e muore - riesce nel capolavoro di addensare la frustrazione e la rabbia del popolo con gli interessi (non sempre limpidi) di alcuni gruppi di potere, diventando la principale rivoluzione politica di questi anni. Un esperimento che forse è sfuggito di mano (lo scopriremo presto) a chi ne ha preso le redini, ma nel quale di partenza e per principio tutto è fungibile, tutto può essere sostituito, brillare per un minuto come il centro del mondo ed essere estromesso un minuto dopo, senza sosta e senza una vera costruzione. «Al minimo dubbio, nessun dubbio», era uno dei motti col quale Casaleggio senior ha sempre fatto fuori chi non lo convinceva più. Perché nel Movimento è la forma - e non il contenuto - ad essere la sostanza. Non importa davvero il “chi parla”, non importa davvero il “che cosa si sostiene”. È il “come”, la formula vincente, la rivoluzione. Adesso che i Cinque stelle dell’era Luigi Di Maio cambiano regole, statuto, codice etico e si preparano alla corsa verso le elezioni con strumenti da partito classico (c’è persino il tesoriere, si tradisce infine la famosa formula «non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro») e norme che consentono di riaprire alla famosa società civile, il libro “L’Esperimento. Inchiesta sul Movimento 5 stelle”, scritto da Jacopo Iacoboni, giornalista de la Stampa tra i primi a raccontare - in maniera via via più critica - il mondo del Vaffa e le sue evoluzioni, soccorre in libreria (esce il prossimo 11 gennaio per Laterza) con questa interpretazione a mostrare in controluce su quali architravi si regga e grazie a quali meccanismi funzioni l’edificio grillino, che molto e minuziosamente viene descritto, da giornali e tv, ma spesso più frainteso che compreso. L’Esperimento smonta in radice l’idea che il M5S sia un partito. Non è un partito, almeno in origine, ma uno strumento: mima il partito, i suoi meccanismi, le sue figure. Basti pensare un momento ai suoi personaggi più noti: non solo Luigi di Maio, ma anche Alessandro Di Battista, Paola Taverna, Barbara Lezzi, Roberta Lombardi, e via declinando l’avvocato, l’impegnato, il fessacchiotto, ciascuno precisamente aderente a un canone , ciascuno somigliante a qualcuno che già esiste, come in una commedia dell’arte; c’è persino giusto per fare un esempio la figura del perfetto antagonista, Roberto Fico, che si presta a solleticare le simpatie di una certa sinistra senza tuttavia fare mai la mossa decisiva. Oppure si può ragionare su quante volte abbia cambiato posizione, M5S, dall’atteggiamento verso la Russia a quello nei confronti delle unioni civili. Come un liquido che prenda la forma del contenitore in cui sta, M5S è uno strumento che può essere governato verso qualsiasi scopo e direzione: che adesso sia quella di Luigi Di Maio da Pomigliano D’Arco è un puro accidente (o forse la scalata che ne precede la fine?). Per arrivare a raccontare tutto questo, l’Esperimento ricostruisce il suo vero inizio. Quando Gianroberto Casaleggio era un giovane manager alla guida della WebEgg, una piccola azienda di sviluppo tecnologico e consulenza informatica, e tra i settecento impiegati mise su un team ristretto di lavoro per sperimentare tecniche di formazione e distribuzione del consenso. Siamo nel 1997-1998, il Paleolitico per quel che riguarda lo sviluppo delle reti. In Webegg il team di lavoro ristretto sul forum del network interno è costituito solo da cinque persone. Iacoboni ne rintraccia uno, Carlo Baffé, e si fa raccontare come funzionava. «Ci vedevamo in una riunione ristretta per decidere “cosa lanciare sulla Intranet”, per usare un’espressione di Roberto», racconta Baffé, allora giovanissimo ingegnere. Un banale forum aziendale, all’inizio, per discutere apertamente di qualsiasi argomento. A un certo punto «si iniziò a usare il forum per far passare certe posizioni di Roberto come se fossero frutto di una discussione democratica. Il metodo, organizzato in queste riunioni, era il seguente: un membro del gruppo funzionale Intranet lancia la discussione su un tema, un altro membro risponde con una posizione contrastante, poi altri due membri prendono le parti del primo. Un po’ alla volta i normali dipendenti prendevano le parti del primo, e si creava quella che Roberto chiamava la “valanga del consenso”». Ogni tanto venivano inseriti nel forum rotture, o rumori di fondo, o distorsioni pilotate dell’opinione – testate sia sui punti di vista sostenuti dall’iniziatore della discussione, sia su quelli che lo avversavano in maniera più critica. «Il giochino era molto divertente all’inizio – può immaginarsi per un under trenta ritrovarsi a pianificare azioni di questo tipo e vedere che funzionano», racconta ancora Baffé: «Ma poi mi resi conto che non era altro che un esperimento di ingegneria sociale per capire quali fossero i metodi più efficaci per manipolare le opinioni e creare il consenso. Con una discussione apparentemente democratica». Ma i cui confini sono stabiliti dall’alto, a priori, invisibili. Siamo anni luce prima del blog, del Vaffa day, della Casaleggio Associati. Eppure i meccanismi ci sono, c’è già quasi tutto. Persino già affissi i comandamenti casaleggiani. «Assenza di competitività interna», dove pare di sentir risuonare l’ambivalente «l’uno vale uno» del Movimento. «Teamwork», cioè il dettato a lavorare per temi e piccole cellule: l’idea stessa dei futuri meetup Cinque stelle. Oppure «il divertimento come forza creativa», autentico motto precursore dell’incontro tra Casaleggio e «il suo influencer numero uno», vale a dire Beppe Grillo. È in effetti l’ingresso in scena del comico genovese, a metà anni Duemila, ad accendere la miccia necessaria a far sì che dalla Casaleggio Associati, che ha ereditato tutti i saperi della WebEgg, nascano il blog, i meet up, insomma il Movimento. Non è però un caso che nel libro venga chiamato il «paziente zero dei Cinque stelle», il primo sul quale l’Esperimento funziona. E adesso che tornano a rincorrersi voci su un prossimo addio del frontman, è particolarmente interessante l’interpretazione proposta: Grillo come «asset del blog», elemento interno all’amalgama, più Pinocchio che Mangiafuoco, di certo spesso non autore materiale dei post che compaiono sul blog che pure porta il suo nome. «Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto», racconta Iacoboni. Come quella volta dei vergognosi attacchi sessisti alla presidente della Camera Laura Boldrini. All’epoca Gianroberto Casaleggio parlando coi suoi collaboratori ammise l’errore: «Oggi abbiamo sbagliato ma il risultato che ne è venuto fuori ci dice che la rete è dalla nostra parte. È la rete che decide la reputazione delle persone. Per il futuro dobbiamo essere in grado di canalizzare questo sentimento senza apparire direttamente, governandolo». A leggerlo con il segno del poi, una specie di manifesto.

Così Acea è diventata il poltronificio del Movimento 5 Stelle. La ex municipalizzata di Roma è stata colonizzata dai grillini. Che non si sono limitati al tradizionale spoil system dei partiti, ma hanno fatto tabula rasa per assumere solo fedelissimi, scrive Susanna Turco il 10 gennaio 2018 su "L'Espresso". Raccontano strabuzzando gli occhi che, al confronto, il noto Manuale tipizzato dal democristiano Massimiliano Cencelli sia persino troppo raffinato. Dicono che quel che sta accadendo in Acea, scatola nera del potere romano, non l’hanno mai visto in decenni di potere di destra e di sinistra: e sì che chi naviga in queste acque è abituato a vederne di tutti i colori. Insomma nella Capitale il paradosso grillino è il seguente: dopo aver urlato alla discontinuità e al rifondiamo tutto, giunti al potere i Cinque stelle hanno in effetti compiuto davvero una impresa diversa dal solito. Trasformare lo spoil system nel tabula rasa system. Via tutti, largo ai fedelissimi, trasformando così, nel giro di pochi mesi, la società quotata in borsa della quale il Comune ha il 51 per cento (Gaz de France il 23, Caltagirone il 5 e via dettagliando) in una specie di feudo esclusivo, ancorché occupato tutt’altro che da neofiti del potere. E se come usava dire Luigi Di Maio già all’epoca della vittoria, Roma anticipa ciò che accadrà al livello nazionale, tenersi forte. All’Acea, alla faccia delle attente procedure di selezione, si va allegri di cooptazione e epurazione grilline, naturalmente entrambe con le dovute eleganze (chi arriva, proviene dai soliti poltronifici), con parcheggi e stanzini più o meno metaforici per i dipendenti improvvisamente fuori linea o, per dirla con chi sa stare a tavola, “preparati, ma troppo attivi” (tra gli stanzinati c’è pure il fratello di un noto attore vicino alla destra, non siamo mica a un pranzo di gala). Con una velocità di esecuzione soprattutto nelle nomine che, dicono, dipenda pure dal timore di veder anzitempo tramontare la stella della sindaca Virginia Raggi, peraltro chiamata giusto il 9 in Tribunale anche lei per questioni di nomine. In attesa di veder realizzato il pur ambizioso piano industriale appena presentato (3 miliardi di euro di investimenti in quattro anni) dal nuovo management formato dal presidente Luca Lanzalone e dall’ad Stefano Donnarumma, scorrazzano così per la multiutility di acqua e luce nuove figure di comprovata fede. Otto in più solo nella comunicazione, per dire. Prima fra tutte Massimiliano Paolucci, ex relazioni esterne a Condotte spa, prima ancora Telecom e Aeroporti di Roma (dove ha conosciuto Donnarumma), si dice legato a Fabrizio Palenzona, che è riuscito – segno di indubbio potere – a riassumere in sé le deleghe alle relazioni esterne e quelle agli affari istituzionali, prima separate: non è un caso che nei corridoi di Acea si usi ormai soprannominare l’intera azienda “Paolucci spa” a significare la carta bianca di cui dispone. In prima fila, e in ottimi rapporti con lui, ci sono infatti Giuseppe Gola, ex Enel, Wind e altre di telecomunicazioni, che è arrivato dopo l’estate alla guida di Amministrazione, Finanza e controllo, previa defenestrazione del predecessore dopo soli 18 mesi; il Ceo Office Massimiliano Garri, ex Bip e Deloitte consulting; Michele Grassi, che viene da Enel e adesso è responsabile Commerciale e trading AceaEnergia; quello che è il vero nuovo capo delle risorse umane, Pierluigi Palmigiani, per far posto al quale è stato gentilmente messo da parte il predecessore, peraltro fratello del medico personale di Berlusconi (non siamo a un pranzo di gala). Molti ingressi come si diceva nello specifico della comunicazione, dove messi da parte i tre che c’erano, ne sono arrivati sei – dirigenti esclusi. Tutti inquadrati, per lo meno come quadri o super quadri e, nel caso dei consulenti, prossimi all’assunzione o garantiti con stipendi equiparati (complessivamente una media di settanta mila euro all’anno, giusto per dare l’idea). Tutti personaggi che vengono da mondi noti. Vi è chi lavorava alla segreteria tecnica dell’ex assessore Colomban e di Romeo, chi stava con Paolucci già in Condotte, chi proviene da Telecom o da Alitalia, chi era direttore generale di Assoelettrica e ha collaborato con il management Acea ai tempi di Alemanno. Insomma la solita trasversalità, solo molto più feroce.

UOMINI DI SOROS HANNO SCRITTO IL PROGRAMMA IMMIGRAZIONE DEL M5S, scrive il 2 gennaio 2018 Vox News. Inchiesta giornalistica potenzialmente devastante per il MoVimento. Il Primato Nazionale ha scoperto che il programma immigrazione dei grillini è stato scritto da persone direttamente legate alla Open Society di Soros. Inquietante e intollerabile, visto che non parliamo del PD. Il secondo punto del programma, infatti, titolato “Il ricollocamento dei richiedenti asilo”, è stato redatto da Maurizio Veglio, avvocato membro della famigerata ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione). Di ASGI abbiamo parlato nei giorni scorsi. Come sappiamo per gli innumerevoli articoli scritti da Vox, e come rimarcato dal PN, ASGI è tra i promotori del ricorso vinto contro l’INPS a proposito del “Bonus Mamma” che in origine non veniva assegnato alle straniere senza permesso di soggiorno di lungo periodo. Quindi, grazie all’associazione di Soros, tutte le straniere regolarmente soggiornanti in Italia ora hanno diritto all’assegno di 800 euro. Insomma, il M5S fa scrivere il proprio programma sull’immigrazione a chi vuole finanziare l’invasione. Tragico e inaspettato. E non è un caso il punto 2. Infatti, anche il punto 3 del programma immigrazione del M5S è stato scritto da un avvocato di ASGI, Guido Savio, e riguarda le “Commissioni Territoriali”, ovvero chi decide in merito all’esistenza dei requisiti per l’ottenimento dello status di profugo dei richiedenti asilo. Come affidare a Pacciani un asilo nido. È paradossale – scrive il PN – che Guido Savio abbia sviluppato un documento per ASGI “con il sostegno di Open Society Foundations”, che sviluppa le medesime tematiche e le medesime critiche all’attuale regolamentazione delle Commissioni Territoriali, riportate poi nel punto del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle. Ancora più curiose sono le soluzioni sviluppate da Savio, con contenuti decisamente globalisti e di certo non “anti-establishment” che dovrebbero essere la nemesi dei pentastellati. Guido Savio propone di formare 15.000 nuovi commissari formati da enti e organizzazioni come la Croce Rossa, UNHCR e EASO (European Asylum Support Office, agenzia della Commissione Europea supportata da varie ONG, molte delle quali finanziate da Soros e tra le quali figura anche ASGI). Quindi, secondo l’avvocato di ASGI delle organizzazioni internazionali, governative e non, dovrebbero istruire chi dovrà decidere a proposito dello status di profugo, sul sovrano territorio italiano: nulla di più “establishment”. Inoltre, ASGI “al fine della promozione di azioni anti-discriminatorie, si è costituita in giudizio con ricorsi civili e penali nell’ambito di alcuni procedimenti di rilevanza nazionale e in diverse cause concernenti il diritto anti-discriminatorio e sta promuovendo una rete italiana di operatori e professionisti capaci di sollevare presso gli organismi amministrativi e giudiziari le questioni antidiscriminatorie”. Per tale motivazione, Guido Savio ha assistito un cittadino kosovaro, già pregiudicato (4 anni di carcere) presso il Tribunale di Milano, che aveva ricevuto un decreto di espulsione dall’Italia per pericolosità sociale (due rapine “violente” e un furto aggravato): il risultato è stato l’annullamento dell’allontanamento dal nostro Paese per “motivi familiari” (figlio minore residente in Italia). Quindi i punti 2, 3 e 4 (come potete leggere nell’articolo completo) del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle sono legati da un filo rosso: l’Open Society Foundations di George Soros. Ma leggendo l’interessante pezzo di Francesca Totolo, anche gli altri punti sono legati a percorsi e associazioni immigrazioniste.

Perché il M5S fa scrivere il proprio programma a personaggi finanziati dallo speculatore finanziario Gerorge Soros? Di Maio deve rispondere.

Così gli uomini di Soros hanno scritto il programma immigrazione del M5S, scrive il 2 gennaio 2018 "Primato nazionale". Ci sono pochi capisaldi nella politica italiana e nei programmi dei vari partiti, eccezione fatta sui programmi di accoglienza e gestione dei flussi migratori: tutti i partiti dell’area della sinistra liberal, globalista, e radicale (PD, Liberi e Uguali di Grasso, Più Europa della Bonino) sono per un’accoglienza incondizionata e illimitata, mentre i partiti che si riconoscono nella destra, dalla più moderata a quella più estrema (Forza Italia, Lega, Fratelli di Italia, Movimento Nazionale per la Sovranità, CasaPound) anche se con differenti sfumature, sono per fermare il costante e incontrollato sbarco nei porti italiani e per un veloce rimpatrio dei non aventi diritto alla protezione internazionale. Qualche perplessità, invece, ha sempre destato il Movimento 5 Stelle, che a seconda dell’esponente, non si è mai espresso univocamente, passando dalle dichiarazioni di Luigi Di Maio che, dopo l’avvio delle indagini delle Procure siciliane e la divulgazione dei report di Frontex, si accorse del business che ruota intorno all’immigrazione e dei lati oscuri delle ONG, a quelle di Roberto Fico che si definì contrario al respingimento e dichiarò che non bisognava “mettere al centro il dibattito sulle ONG che oggi sembrano essere considerate quasi le responsabili dei flussi migratori”. Due correnti di pensiero molto differenti e difficilmente accostabili, visto che l’una esclude l’altra. Per questo motivo, abbiamo deciso di approfondire la questione analizzando i documenti e le pubblicazioni ufficiali del Movimento 5 Stelle, e nel concreto il Programma Immigrazione intitolato emblematicamente: “Immigrazione: Obiettivo sbarchi zero – L’Italia non è il campo profughi d’Europa”. Vi garantiamo che il titolo, che sembrerebbe partorito da Matteo Salvini, trae seriamente in inganno. Analizziamo i punti del programma immigrazione del Movimento di Grillo, fieramente votati proprio dal popolo pentastellato (“Hanno votato il programma immigrazione 80.085 iscritti certificati che hanno espresso 80.085 voti”): a volte, la “democrazia dal basso” può essere solo apparente se non supportata da una chiara informazione. Il secondo punto “Il ricollocamento dei richiedenti asilo” è stato redatto da Maurizio Veglio, noto avvocato tra i membri di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione).

"Così uomini di Soros hanno scritto il piano migranti del M5S". Uomini di un'associazione finanziata da Soros avrebbero redatto una parte del programma grillino sui migranti. Ecco chi sono, scrive Giovanni Neve, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Gli "uomini di George Soros" avrebbero contribuito a scrivere il programma di governo del Movimento 5 stelle riguardante i migranti: l' "accusa" proviene da Francesca Totolo che, su Il Primato Nazionale, ha scritto un articolo che dimostrerebbe i legami intercorsi tra la Open Society Foundations e la redazione di parti del documento grillino riguardante i fenomeni migratori. "Il secondo punto - ha sottolineato la giornalista - cioè "Il ricollocamento dei richiedenti asilo" è stato redatto da Maurizio Veglio, noto avvocato tra i membri di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione)", ma questa associazione, sempre secondo quanto scritto in questo articolo, sarebbe stata fondata e finanziata dalla Open Society Foundations. "L'ASGI - ha continuato la Totolo - ha aderito a numerose campagne pro-immigrazione e pro-ius soli tra le quali "L’Italia sono anch’io, campagna per i diritti di cittadinanza", "Out of Limbo" per la promozione dei diritti dei rom apolidi o a rischio apolidia, "Ero straniero – L’umanità che fa bene", "Non aver paura. Apriti agli altri, apri ai diritti", e molte altre, in collaborazione con associazioni religiose (Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio), altre associazioni e organizzazioni sorosiane (A Buon Diritto, CIR, ARCI, Amnesty International, Antigone), Partito Radicale e diversi esponenti del Partito Democratico". L'ente in questione, insomma, sarebbe concretamente impegnato in una serie di iniziative volte a favorire l'accoglienza dei migranti. E fin qui, nulla di strano. Quello che pare emergere, però, è un collegamento diretto tra alcune parti del programma sui migranti del Movimento 5 stelle e l'ASGI, la stessa che associazione che, come si legge qui, non disdegnerebbe fare spesso causa ai sindaci di centrodestra. Il punto 3, ad esempio, cioè quello riguardante le "Commissioni territoriali", ovvero la competenza sulle decisioni di attribuzione dello status di profugo dei richiedenti asilo, sarebbe stato scritto da Guido Savio, un altro avvocato di ASGI. Le tesi di Savio sarebbero già contenute all'interno di un documento dell'associazione di cui fa parte e tenderebbero a muoversi su direttrici politiche "globaliste", quindi molto lontane dalla titolazione del programma pentastellato, che invece recita: "Immigrazione: Obiettivo sbarchi zero – L’Italia non è il campo profughi d’Europa". Una titolo, dunque, che nasconderebbe in realtà una sorta di "inganno". Il punto 4, ancora, è stato "redatto" da Nancy Porsia, che la Totolo definisce come una "giornalista esperta di Medio Oriente e Nord Africa e collaboratrice di diverse testate italiane e straniere molto mainstream media". Questi redattori del programma, secondo quanto appreso da alcune fonti de IlGiornale.it, sarebbero stati chiamati dai grillini in quanto esperti in materia d'immigrazione. Consulenti, forse, ma non direttamente esponenti politici del partito di Beppe Grillo. Quest'ultima redattrice, poi, non sarebbe direttamente riconducibile all'Open Society Foundations, ma avrebbe vinto un "working grant", "Priorità europee, realtà libiche", che sarebbe stato assegnato da Journalismfund, che sarebbe un'altra organizzazione finanziata da Soros, ai fini di "stimolare il giornalismo transfrontaliero in Europa". Per la Totolo, insomma, ci sono pochi dubbi: "Quindi i punti 2, 3 e 4 del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle sono legati da un filo rosso: l’Open Society Foundations di George Soros", ha sottolineato la giornalista. Un programma di governo, in sintesi, dove sarebbe difficilmente riscontrabile l'intenzione paventata di far sì che l'Italia non continui ad essere "il campo profughi d'Europa".

Sotto le 5 stelle il rosso: sono uguali ai comunisti. Traditi dal programma di sinistra, dall'odio per i capitalisti al pauperismo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/11/2017, su "Il Giornale". Cinque stelle rosse si agitano nel cielo della politica italiana. E non serviva un meteorologo di grande esperienza per prevederlo. Era naturale. Perché la congiunzione astrale tra i grillini e i compagni erranti (nel senso che vagano senza meta, ma pure che sbagliano) che hanno imboccato la strada alla sinistra del Pd era logica e naturale. Non tanto per una questione umana - Bersani e soci nell'immaginario pentastellato sono pur sempre parte della casta - quanto per una questione ideologica e programmatica. Chiunque si sia avventurato nella soporifera lettura del programma dei grillini non ha dubbi: sono di sinistra. E hanno tutti i tic politici e intellettuali di quei cespugli della sinistra radicale che ora non sanno dove attecchire. Volete qualche esempio? La loro storia politica è chiarissima, il loro programma ancor di più. Il movimento muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta. Sono quelli che ancora oggi si divertono a decapitare i fantocci di Renzi e lanciare sassate alla polizia, con lo scudo dei politici grillini che ne chiedono subito la scarcerazione (vedi G7 di Venaria). Dietro il completo blu di Di Maio si nascondono eskimo e kefiah. Il programma gestato e partorito in rete è ancora più chiaro e sembra la versione 2.0 di un vecchio manifesto marxista. Le multinazionali? Delle macchine di morte da imbrigliare e sconfiggere a ogni costo, poco importa che diano lavoro a migliaia di persone. Gli Stati Uniti? Il burattinaio cattivo che gestisce di nascosto i destini universali. Il liberismo? Beh, l'ossessione dei Cinque Stelle per il liberismo è quasi patologica. Ogni stortura, ogni giustizia, ogni cosa che non va al mondo - fosse la lampadina bruciata di una periferia di Roma o la crisi idrica in Burkina - è sempre colpa del neoliberismo, madre e padre di tutti i mali. Ne consegue che la ricchezza è una colpa, un difetto di fabbrica, un peccato originale. Emendabile solo con un bel bagno (di sangue) nel lavacro fiscale. Magari con una patrimoniale. Ma i destini di grillini e sinistra radicale si incontrano più di una volta: dal giustizialismo estremo all'ecologismo più spinto, dal mito del pauperismo e della decrescita felice all'odio per il mondo della finanza, senza alcuna distinzione. Esattamente come gli ex Pci preferiscono lo Stato al singolo cittadino, il pubblico al privato. E poi il pacifismo «onirico», quello che, senza fare i conti con la geopolitica, immagina un mondo nel quale le relazioni diplomatiche si possano fare solo con pacche sulle spalle e buffetti. E forse il punto di saldatura più evidente tra grillismo e comunismo è proprio questo: il fondamentalismo ideologico, l'idea che si possa far aderire la realtà ai propri ideali; il desiderio di cambiare e non la società in cui vive. Un delirio messianico che ha seminato solo danni. D'altronde Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo visionario libro Veni Vidi Web, profetizzava un mondo di downshifter (persone che decidono volontariamente di guadagnare di meno per vivere meglio), senza Tv che distrae e costa troppo, senza centri commerciali, con una proprietà privata limitata e le grandi aziende smantellate. Questo è il mondo che sognava il fondatore dei Cinque Stelle. A lui sembrava un paradiso, ma ha più i tratti un inferno sovietico. A lui pareva una nuova ricetta per cambiare il mondo, a noi sembra la solita brodaglia rancida in salsa marxista. È il comunismo digitale.

Viviamo nell’età dell’invidia. Viviamo tempi di sentimenti estremi, dice il pensatore Gunnar Hindrichs. Divisi su tutto. E uniti solo dalla paura e dalla rabbia verso gli altri. Così oggi sono livore e tristezza ad alimentare i populismi, scrive Stefano Vastano il 29 dicembre 2017 su "L'Espresso". Viviamo incollati a i telefonini e alla Rete. Pratichiamo sport estremi, siamo ossessionati da cibi e diete sempre più radicali. E non crediamo a nessun ideale, non investiamo in associazioni né in partiti, corrotti per definizione. Quello che ci unisce è, da una parte, la livida, schiumante rabbia e l’acido dell’invidia verso tutti i potenti del pianeta, politici, manager o artisti che siano. Dall’altra, il panico per il prossimo attacco terroristico, strage di kamikaze solitari o sedicenti fanatici religiosi. «Siamo nell’era degli estremismi diffusi, nel regno dell’assoluta immanenza», esordisce Gunnar Hindrichs, accogliendoci nel suo studio a Basilea. Nel suo ultimo saggio, “Philosophie der Revolution” (“Filosofia della rivoluzione”, edito da Suhrkamp Verlag Ag., e non ancora tradotto in italiano), il giovane filosofo tedesco ha analizzato i motivi che nell’era moderna, dal 1789 al 1917, hanno spinto l’Occidente alle rivoluzioni. Per concludere che «oggi non c’è più alcuna rivoluzione all’orizzonte e manca ogni senso per la trascendenza. Per questo siamo in preda a una confusa spirale di diversi estremismi».

Per lo storico Eric Hobsbawm il ventesimo secolo è stato il Secolo degli Estremi, cioè delle ideologie radicali. Il ventunesimo sarà dunque quello degli Estremismi?

«L’idea di “estremismo” è difficile da definire, ma il ventunesimo secolo si annuncia come un pullulare di tendenze estremistiche che non seguono più, come è accaduto nelle rivoluzioni della modernità, progetti utopici o trascendenti, ma restano legate al piano della realtà immanente. L’era dell’Estremismo è una inversione rispetto a quella delle Rivoluzioni. Sì, viviamo in un diffuso neo-romanticismo, immersi in una pluralità di trend estremi e soggettivi: non a caso Camus, nell’“Uomo in rivolta”, definì i terroristi “i cuori estremi”».

Per Hegel il terrore giacobino era la furia della sparizione: il terrore non segue opere politiche, dice, solo un fare negativo. Il terrorismo islamico si basa sullo stesso nichilistico cupio dissolvi?

«Nella furia della Rivoluzione i giacobini praticano una doppia “sparizione”, sia delle istituzioni e norme che dell’individuo, ghigliottinato senza pietà. Hegel criticava nel Terrore l’idea soltanto negativa della libertà, ma nel terrorismo islamico non vediamo nessuna idea di libertà, né negativa né universale».

Il Rivoluzionario, scrive nel suo libro, non è guidato, come il Conte di Montecristo, da vendette personali: da Robespierre a Lenin al Che, qual è allora l’idea di fondo della rivoluzione?

«Dopo gli attentati dell’11 settembre, il filosofo Sloterdijk ha visto nel terrorista “una malignità senza scopi”, cioè una strumentalità perversa e fine a se stessa. La forza della rivoluzione sta nel creare invece non solo discontinuità rispetto alle norme tradizionali della politica, ma nel rifondare regole nuove per un nuovo contesto sociale. Rivoluzione è la magia dell’inizio e di una nuova praxis dell’agire sociale, così come abbiamo visto all’inizio della rivoluzione russa con i Consigli dei Soviet».

Insieme all’incubo del terrorismo, altro fortissimo estremismo è il potere di Internet nella nostra vita. L’avvento del regno virtuale ha spento l’ardore per una politica rivoluzionaria?

«Non sopravvalutiamo il potere di Internet. Come la stampa nell’era di Gutenberg anche il web sta modificando le nostre vite, ma computer e tastiere non sono certo l’avvio di una vera rivoluzione. Ha ragione Hannah Arendt che nella rivoluzione vedeva all’opera appunto la creazione di nuove regole, come dicevo, per una nuova praxis sociale. E non mi pare che l’uso dei computer produca creatività e trascendenza».

In Rete circolano intanto, ed è un’altra forma di estremismo, moltissime astruse teorie, complotti e congiure, ondate di fake news da far pensare a un nuovo oscurantismo…

«La sociologia americana ha coniato al riguardo l’espressione “Lunatic fringe”, una follia che parte dai margini del sapere e si espande verso il senso comune. Oggi queste zone oscure sono entrate con Donald Trump nel cuore della Casa Bianca e nel centro della società digitale e dell’informazione, cambiando il senso dell’opinione pubblica. L’estremismo oscurantista delle fake news e congiure, travestendosi da “fatti alternativi”, stravolge il pubblico discorso. E di questo trend sono gli estremisti della politica, i populisti, ad approfittarne».

In che modo?

«I nuovi movimenti populisti non sono solo un concentrato di antipolitica, ma “maligni” nel loro attaccare senza posa e vergogna i più deboli, i profughi e le altre minoranze. Il sentimento-guida che spinge oggi i populismi in Europa non è tanto la paura dello straniero o dei profughi e nemmeno l’acido del risentimento di cui parlava Nietzsche, ma l’occhio velenoso dell’invidia».

Può spiegare meglio questo punto?

«Nella grande tradizione di Tommaso d’Aquino l’invidia è la tristezza per l’essere. Da una triste radice velenosa sprizza l’invidia per la vita e per le risorse altrui. I populisti soffiano sull’invidia quando dicono che quelli al potere - la casta - fanno ciò che vogliono o i migranti incassano i nostri soldi. Nell’era degli estremismi il linguaggio della politica e dell’opinione pubblica è pervaso da tristezza e rabbia viscerali, l’opposto del “gaudium entis”, cioè della felicità per l’essere e per la vita propria e altrui».

Siamo diventati dei mesti Paperino nell’era dell’Estremismo, schiumanti di rabbia per le gioie altrui?

«L’invidioso confronta di continuo il suo essere con quello altrui, per questo la propria vita gli appare misera. È da questo humus accidioso che i populismi oggi traggono la loro forza. I movimenti rivoluzionari e operai erano spinti da una forte carica utopica e da una lucida prospettiva nel futuro, mentre la cupa tristezza è il marchio d’identità nell’era degli Estremismi».

«La nostra è un’epoca di estremismi», scriveva anche Susan Sontag: «Viviamo sotto la minaccia di due prospettive spaventose: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile»...

«Un’analisi perfetta questa della Sontag perché combina, nella loro immanenza, terrore e banalità, e ci consente di superare il luogo comune che nel terrorismo vede una forma, ancorché violenta, di trascendenza. No, l’estremismo terrorista è il gemello della più cruda banalità, l’apoteosi dell’arbitrarietà e della contingenza».

L’Estremismo è un ingrediente anche delle nostre abitudini alimentari: a tavola siamo tutti ossessionati da trend vegani o da diete sempre più spartane.

«Di recente sono stato invitato ad una conferenza per i 100 anni di “Stato e rivoluzione” di Lenin. A cena i più giovani sostenevano la tesi che con la rivoluzione non solo il menù, ma anche il nostro rapporto con gli animali, la carne e il cibo dovrebbe cambiare».

Hanno ragione questi ultra-rivoluzionari?

«No, credo che vi siano degli standard della società borghese dietro i quali non si possa regredire. Lo storico Karl Schlögel ci assicura che anche dopo la rivoluzione del 1917 nei ristoranti di San Pietroburgo menù e camerieri non erano affatto cambiati. Oggi persino tra giovani leninisti colpisce un certo estremismo dell’immanenza».

Una dose di estremismo fa parte della giovinezza: quando pensavano alla Rivoluzione francese i giovani Schelling, Hegel e Hölderlin osannavano una “Kunstreligion”, una Religione dell’arte in grado di spargere armonia nella società. Oggi l’industria della cultura ha riempito ogni città di musei, gallerie e biennali.

«Il mio maestro Rüdiger Bubner coniò la formula di “estetizzazione delle forme di vita” per caratterizzare la massima espansione di arte ed estetica nella nostra vita post-moderna. Anche le forme della protesta, sia nell’estrema destra che sinistra, hanno assunto ora la forma di pseudo feste rivoluzionarie o eventi estetici, come ad esempio al recente G-20 ad Amburgo. I giovani Hegel, Schelling ed Hölderlin sognavano una mitologia della Ragione, ma oggi del sogno rivoluzionario ci è rimasto solo un vago Estremismo estetico, come Negri e Hardt immaginavano nel loro “Impero”».

Ejzenstejn, invece, rivoluzionò il cinema e il montaggio. Majakowski e i poeti russi hanno ricostruito un linguaggio poetico…

«I futuristi russi si sentivano avanguardia di una nuova Bellezza che spingesse verso nuove forme di vita. Non è un caso se nel mio libro non parlo di Stalin: ho scritto un libro sulla filosofia della rivoluzione, non sul suo fallimento».

Anche Gramsci, nei “Quaderni del carcere”, sognava una politica oltre le paludi del senso comune, che spingesse verso il cosiddetto “Buon senso”.

«Il pensiero di Gramsci è essenziale per chiunque voglia articolare una filosofia della rivoluzione. Il “senso comune” a cui Gramsci si riferiva è il dominio dell’immanenza nelle forme estreme che abbiamo analizzato. Contro il quale si erge una prassi utopica, il “buon senso” di Gramsci appunto, che progetta nuove norme della prassi sociale. Oggi non vediamo da nessuna parte una esigenza rivoluzionaria di nuove forme di trascendenza».

A proposito di trascendenza, Robespierre inventò un culto dell’Essere Supremo. Ma il Dio del Rivoluzionario qual è?

«Il Dio della rivoluzione è quello che nella Bibbia (Esodo 3, 14) si presenta in latino come: “Ego sum qui sum”, e nella versione ebraica come “Ehye asher ehye”, e cioè “sarò colui che sarò”. È nella dimensione escatologica della Bibbia e del Dio d’Israele, come ha visto Michael Walzer, la matrice di ogni prassi rivoluzionaria».

L’era degli Estremismi segna il ritorno ad arcaici politeismi?

«I filosofi del postmoderno sentono il politeismo come più scettico, tollerante e pacifista del monoteismo. Ma più che scegliere tra politeismo o monoteismo, la questione è se l’era degli Estremismi abbia davvero un Dio o no».

E lei cosa dice?

«Che il Dio degli Estremismi è una variabile del tutto immanente e dai tratti antropomorfici: un Dio che non è un vero Dio, senza teologia né trascendenza, percepito come mera religione umana. Ma, come diceva Karl Barth, “la religione non è fede”».

Non per niente l’unico feticcio nell’era dell’Estremismo è il Nazionalismo, l’American First di Trump.

«La casa editrice della Nuova Destra tedesca si chiama “Antaios”, da Anteo, il gigante che come ogni nazionalismo trae la sua forza dalla madre Terra, dalle presunte radici o dai confini tellurici della società. Ma persino il cosiddetto “Movimento Identitario’”, la destra radicale, ha nelle sue bandiere una Lambda greca ispirata a un film sugli spartani di Hollywood, l’industria culturale più globale della storia. Un ennesimo segno dell’estremo mix di rabbia, invidia, tristezza e banalità quotidiana in cui siamo totalmente immersi».

L’analisi più suggestiva di Marx è “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, la storia di una rivoluzione fallita, nel ’48, e della deriva autoritaria in Francia. Gli estremismi che circolano oggi in mezza Europa puntano verso nuovi Bonapartismi?

«Quel saggio di Marx è senza dubbio la chiave per capire gli Estremismi del presente. Bonapartismo è l’ambigua unione dei poteri forti con dubbiosi faccendieri e avventurieri, terroristi e criminali. Oggi persino la Faz, il quotidiano dei conservatori, scrive articoli a favore del movimento xenofobo di Pegida, e Afd fa proseliti tra i professori. Ai tempi di Marx la Repubblica francese implodeva nella forma totalitaria del bonapartismo, ed oggi populisti e l’estrema destra osannano Putin, il nuovo “Uomo forte”. A differenza dei tempi di Marx, però, non c’è più alcuna minaccia rivoluzionaria, ma i populisti rileggono il motto di Cicerone “res publica, res populi” in senso illiberale: nel loro estremismo, la Repubblica è proprietà del popolo e non delle sue libere norme ed istituzioni».

We are under a Mediaset. Generation Attack! Scrive Giuseppe Giusva Ricci venerdì 07 luglio 2017 su Next Quotidiano. La tragedia della situazione politica contemporanea (che travalica e fa apparire obsoleti i concetti di destra e sinistra) risiede nel fatto che individui appartenenti alla MediasetGeneration sono approdati a cariche istituzionali in modo naturale per scadenza biologica dei predecessori. Mezzi-adulti educati e cresciuti nel contesto culturale del berlusconismo carico di molteplici retaggi, di varie diramazioni, e di infiniti caratteri seduttivi, questi perenni adolescenti senza passato vivono secondo una coscienza deforme mossa da arrivismo, egoismo, edonismo, cialtronismo e disincanto nei confronti del Sociale, la dimensione imprescindibile del Bene Comune che una volta si poteva definire Società. In un paese culturalmente devastato dall’ognun-per-sé, dove la lotta di classe si è trasformata in invidia di classe – e che Pierpaolo Capovilla compendia così “Dai, vai, uno su mille ce la fa, stai a vedere, che sei proprio tu … sono accadute tante cose ma non è successo niente, che m’importa a me, che t’importa a te, che c’importa a noi … se tuo fratello resta al palo, mandalo affanculo, non aver pietà o rispetto per nessuno, parola d’ordine nutrire l’avvoltoio è dentro di te”** – data la loro formazione diretta o sublimata e la loro appartenenza a questa condizione ormai cristallizzata, gli attuali giovani leader non possono che essere intimamente e forse inconsapevolmente dediti a ways of life pop-nichilisti nei quali l’ambizione determina scelte e posizioni. È plausibile che siano la vanità e l’arrivismo a muoverli e a farli soccombere alle sirene del benessere privato, ossia quei valori che hanno vinto definitivamente con la resa di gran parte della precedente generazione politica contaminata dal berlusconismo perché già segnata irreparabilmente dalla caduta delle Idee e dal trionfo del privilegio e del profitto privato. Le dinamiche delle rottamazioni (in tutti gli apparati) evidentemente fallite, vista la riesumazione di figure quali Berlusconi e Prodi, furono prefigurate da Antonio Gramsci in Quaderni dal carcere [Vol. 4, 1929-1935] con queste parole: “Fare il deserto per emergere e distinguersi […] Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro, ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più.”  Con l’impostura del giovanilismo usato come paradigma di rinnovamento e basato sul concetto mistificatorio che approssima il vecchio al superato e allo sbagliato, all’interno degli apparati si sono attuate pseudo-rivoluzioni che hanno instaurato un regime della mediocrità. Questo regime supera l’appartenenza alle tradizioni e ai pensieri forti che non solo hanno mosso il Novecento, ma che paiono imprescindibili visto l’andazzo delle disparità economiche che investono oggi, come già prima delle lotte per i diritti, tutti gli ambiti della società reale. Da quando la principale agenzia di educazione-formazione è diventata la TV con le sue divizzazioni di giovani individui qualunque (o con l’enfatizzazione del ruolo dei professionisti dell’intrattenimento), le gioventù hanno assimilato la mistificazione del nuovo secolo, quella che ripone e misura il significato dell’esistenza quasi esclusivamente sulla base del successo pubblico e del relativo denaro ottenibile, sull’arrivismo e sull’individualismo. Nell’introduzione al suo Atlante illustrato della TV (2011), Massimo Coppola, senza definirla, la spiega così: “La generazione formata in quegli anni – quelli dell’affermazione della tv commerciale – non può che essere formata da anime scisse, indecise, forse incapaci di provare davvero piacere […] gente priva di uno straccio di passato cui attaccarsi senza provare rimorso, rabbia, sottile vergogna”. Questa dinamica nel tempo ha formato la MediasetGeneration, che per forza di cose sarebbe approdata, in parte, anche ai gruppi sociali dirigenti composti dagli attuali trentenni/quarantenni:

–Alessandro Di Battista, classe 1978, a 35 anni deputato e leader di Movimento, a 20-22 anni partecipò a provini per Amici di Maria De Filippi spinto da vocazione attoriale.

–Rocco Casalino, classe 1972, a 42 anni responsabile della comunicazione del M5S, a 28 anni partecipò alla prima edizione del Grande Fratello (poi ospite e opinionista di altre trasmissioni Mediaset: Buona Domenica, ecc.).

– Luigi Di Maio, classe 1986, a 27 anni Vicepresidente della Camera e leader di Movimento, con l’avvento della triade Mediaset del 1984 potrebbe avere assistito all’operazione culturale berlusconiana già dalla culla.

– Matteo Salvini, classe 1973, già a 36 anni europarlamentare, oggi leader della Lega, ancora giovanissimo partecipò a telequiz trasmessi dalle reti berlusconiane – nel 1985 (a dodici anni) a Doppio Slalom; nel 1993 (a vent’anni) a Il pranzo è servito.

– Matteo Renzi, classe 1975, a 29 anni Presidente della Provincia di Firenze, a 34 Sindaco di Firenze, a 38 segretario del PD, a 39 Presidente del Consiglio, nel 1994, diciannovenne, partecipò al telequiz di Canale5 La ruota della fortuna.

[A proposito: Hitler: a 36 anni leader del Partito Nazionalsocialista, a 44 Cancelliere del Reich. Stalin: a 43 anni Segretario Generale del Comitato Centrale, a 47 Capo dell’Urss. Mussolini: a 36 Capo del Partito Fascista, a 39 anni Presidente del Consiglio].

Ancora, il 18 ottobre 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scriveva: “Se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha praticamente concluso l’era della Pietà, e iniziato quella dell’Edonè. Era in cui dei giovani presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro, tendono inarrestabilmente a essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità”.

Gli esemplari umani recentemente consacrati mediaticamente come personaggi istituzionali e politici (Renzi, Boschi, Serracchiani, Salvini, Di Maio, Di Battista, Meloni, ecc.) sono, prima di tutto, leader mediatici abili nella spettacolarizzazione di se stessi, sono l’incarnazione dell’affermazione dell’Immagine sulla “Statura”, dello Spettacolo sulla Politica, del marketing sull’esperienza. Questi “giovani politici” sono stati graziati dalla logica da Grande Fratello della “nomination”, hanno partecipato al talent show della non-Politica moderna, e hanno vinto (forse). Se siano stati scelti e nominati da chissà quali alte sfere del Dominio, “cupole” anche diverse tra loro, non è dato sapere con certezza, ma i segnali che siano figure compiacenti e collaborative ci sono…

L’appartenenza alla MediasetGeneration in parte li scagiona, perché è mutazione genetica, poiché essi possono essere ritenuti innocenti delle strutture mentali alle quali obbediscono; ambizione e successo. Ma possono essere ritenuti inconsapevoli dell’arroganza generazionale, del modernismo scalpitante, e del superomismo che li descrive nel loro carrierismo data l’appartenenza alla società dell’opulenza?

Luigi Di Maio, se questo è un leader. Tutto quello che dovreste sapere sul grillino che vorrebbe guidare l’Italia: moralismo, rimborsi, populismo, retromarce, curriculum zoppicante...scrivono Carlo Puca e Antonio Rossitto il 5 febbraio 2018 su Panorama. I proclami moralisti, i più prosaici rimborsi, il populismo e le retromarce. Il curriculum zoppicante, in continuo restyling. I militanti di ieri e la squadra, epurata e corretta, di oggi. Solitamente, Angelo Zanfardino veste casual. È un insegnante di frontiera, impegnato nel sociale: un duro e puro. Tuttavia, aveva deciso di investire su qualche abito più classico. S’era spinto fino ai confini di Pomigliano d’Arco, negli stessi centri commerciali dove si serve Luigi «Giggino» Di Maio. Per evitare di sembrare uno scapestrato, Angelo voleva indossare la divisa d’ordinanza imposta dal nuovo corso: giacche, camicie, cravatte da agente immobiliare. Ma il leader pentastellato l’ha pietrificato, cancellando il suo nome dalla lista dei candidati al Senato. I grillini d’antan come Zanfardino vanno ormai nascosti sotto il tappeto: malvestiti, ideologici e incontrollabili. Il Movimento è saldamente in mano a Di Maio e ai suoi accoliti: furbi, impuri, devoti al capo. Una falange compatta che, in nome della realpolitik, allearsi con chi fino a pochi mesi fa considerava diavoli: il vendicativo Massimo D’Alema, il rottamato Pier Luigi Bersani e il populista Matteo Salvini.

La trasformazione. Da barricadero a consociativo. Da rivoluzionario a uomo di potere. Da rigoroso pauperista a scafato onorevole. La trasformazione di Luigi Di Maio s’è ormai compiuta. E ha coinvolto ogni piano: il partito, le idee, l’uso del denaro pubblico. Una metaformosi eterodiretta e inesorabile. S’è palesata definitivamente il 29 gennaio 2018, quando il leader ha guidato una convention all’americana. Al posto delle vecchie piazze s’è notata una borghesissima sala, quella del Tempio di Adriano, abituale sede di eventi organizzati da palazzinari, lobbisti e partitoni. E ad ascoltarlo c’era una pletora di vip dell’ultima ora: l’ora delle candidature al parlamento. Per i collegi uninominali, Di Maio ha selezionato personalmente il giornalista Gianluigi Paragone, già grande sostenitore della Lega, e l’ex direttore di SkyTg24 Emilio Carelli, uomo di salotti contigui alla Prima Repubblica, fino al comandante Gregorio De Falco, segnalatosi per aver rimbrottato Francesco Schettino la notte della tragedia all’Isola del Giglio. Insomma, addio all’«uno vale uno» delle origini. I già grillini sono diventati il partito personale di Di Maio e del suo unico e principale sponsor, quel Davide Casaleggio padrone delle piattaforme web: tolda che manovra le mosse politiche del candidato premier. Certo, tra i pentastellati qualche resistenza alla deriva oligarchica ancora si registra. Ma sono voci sempre più flebili. E nessuno tra i «dimaini» pensa che tra appena un lustro, a soli 36 anni, Giggino si ritirerà dal proscenio. Derogando al fondante e mitologico divieto del doppio mandato. Sarebbe solo l’ultima incoerenza. Le giravolte politiche, linguistiche e relazionali sono l’approdo. I prodromi dei testacoda si intravedono già dagli esordi. Nel 2010, Di Maio si propone come consigliere comunale nella sua Pomigliano. Il bottino è modesto: 59 voti. Niente consiglio comunale. Tre anni dopo, Giggino però fa il colpaccio. Sul sito di Grillo raccoglie 189 preferenze. Diventa onorevole. Poi, il triplo salto carpiato fino alla vicepresidenza della Camera. Fu lui stesso a raccontare l’elezione: «Mi alzai e andai a parlare agli altri. Dissi semplicemente: “Non chiamerò mai più i deputati onorevoli”. Venni eletto subito». I cinque anni seguenti l’hanno trasformato da barricadero a uomo del sistema. Grazie anche a piccole furberie, che oggi lo rendono assimilabile, nelle idee e nell’azione, a quegli onorevoli vituperati per anni.

Società di costruzioni. Il primo piccolo segnale, nel silenzio generale, si coglie il 31 maggio 2013. Quando il «cittadino» Di Maio presenta alla Camera la sua situazione patrimoniale. Dimenticando però di comunicare il possesso del 50 per cento di Ardima: società di costruzioni creata il 30 giugno 2012 assieme alla sorella, Rosalba. Quasi a voler giustificare la negligenza, lo stesso Di Maio, a febbraio 2015, spiega che Ardima nasce dalla fusione aziendale della vecchia ditta di famiglia. Una partecipazione «che tutti i cittadini possono apprendere dalla mia dichiarazione patrimoniale del 2014». Mentre prima, non era stata menzionata «perché non operante». Vero, ma ininfluente. La quota andava comunque dichiarata. Anche perché il leader grillino all’epoca aveva un ruolo attivo nella società. Lo conferma la banca dati del registro delle imprese, consultata da Panorama. Il 27 giugno 2013, a tre mesi dall’elezione a deputato e un mese dopo la sua lacunosa dichiarazione patrimoniale, Di Maio assieme alla sorella partecipa all’assemblea ordinaria di Ardima. Viene addirittura nominato segretario della seduta in cui è approvato il bilancio 2012, chiuso «con un risultato negativo di 1.376 euro». Nota a margine: qualche anno più tardi, l’allora aspirante sindaco di Milano, Giuseppe Sala, sarà crocifisso dai pentastellati per analoghe omissioni mentre era ad di Expo.

Transeat. A un detentore della pubblica morale tutto è concesso. Ma pure nei suoi cinque anni di irresistibile ascesa in Parlamento, Giggino, forte dell’aura da castigamatti, non s’è certo distinto per irreprensibilità. Il candidato premier dei Cinque stelle ha partecipato solo al 30,73 per cento delle votazioni. La seconda percentuale più bassa del Movimento. Il suo contendente Alessandro Di Battista, per esempio, pur non brillando per stakanovismo, ha una partecipazione quasi doppia: 57 per cento. Di Maio vanta comunque quasi l’83 per cento complessivo di presenze. Cifra ragguardevole, raggiunta però grazie all’uso smodato di missioni: 52 per cento. L’escamotage, tra deputati e senatori, è arcinoto. Basta un fax all’Ufficio di Presidenza per essere impegnati fuori dal Parlamento. A scuola si diceva: assente giustificato. Nessuno controlla. E si evitano sostanziose decurtazione di stipendio. Si dirà: percentuali di voto così modeste saranno giustificate dai pressanti impegni di Di Maio come vicepresidente della Camera.

Tesi smontata dal confronto con i colleghi omologhi. Il democratico Roberto Giachetti ha partecipato all’84 per cento delle votazioni, con una percentuale risibile di missioni. Anche Marina Sereni, sempre del Pd, e Simone Baldelli, di Forza Italia, vantano dati superiori. Insomma, Di Maio è stato il vicepresidente di Montecitorio meno presente. E l’incoronazione ad aspirante premier è di appena un mese fa: il nuovo incarico non può quindi giustificare la sua lontananza dall’emiciclo. Poi c’è l’annosa questione del vil denaro: storico cavallo di battaglia dei Cinque stelle. Le regole del Movimento sono arcinote. Gli eletti in parlamento non devono guadagnare oltre tremila euro al mese e dovrebbero rinunciare «a ogni benefit». Il resto viene versato in un fondo destinato alle piccole e medie imprese italiane. Meritorio, certo.

Rimborsi. Il diavolo si nasconde però nei dettagli. Anzi, nei rimborsi. Panoramaha spulciato i resoconti mensili delle spese di Di Maio, consultabili sul sito tirendiconto.it. E ha scoperto che il leader pentastellato spende molto di più di quanto auspicato in principio dai fondatori del Movimento, Beppe Grillo e Roberto Casaleggio. Da marzo 2013, mese dell’entrata in Parlamento del futuro leader, a settembre 2017, ultimo mese consultabile, Di Maio ha speso 402 mila euro di rimborsi: una media di 7.310 euro al mese. Gran parte di questi soldi erogati dalla Camera sono stati destinati ad «attività ed eventi sul territorio»: ben 191 mila euro. Quasi tre volte quanto speso dall’attivissimo Roberto Fico, suo storico contendente. Entrando ancora nel dettaglio: di questi 191 mila euro, poco più di 50 mila euro sono stati impiegati per le «missioni non ufficiali» e 73.985 euro «in spese logistiche per la partecipazione agli eventi». Non esattamente cifre da campione di morigeratezza, come Di Maio cerca di apparire.

Retromarce. Doppiopesista, cerchiobottista, ondivago. Il copione, del resto, adesso impone machiavellismo, per quanto improvvisato. Ultimo esempio, la fragorosa autosmentita su alcune Ong che soccorrono i migranti, definite «taxi del Mediterraneo»: retromarcia stigmatizzata da un altro campione di moralità come Roberto Saviano. Con i giornalisti, una volta reputati cancro del sistema, è giunta invece la stagione dei reciproci salamelecchi. Il caso più clamoroso è Porta a Porta: Bruno Vespa fino a poco tempo fa non aveva per i grillini i requisiti per ospitare politici in campagna elettorale. Acqua passata. Adesso Di Maio è suo cortese ospite. Quanto a indagati, arrestati e condannati, è feroce con gli avversari, ma ipergarantista con i tanti sindaci pentastellati coinvolti in inchieste: da Virginia Raggi (Roma) a Chiara Appendino (Torino), da Filippo Nogarin (Livorno) a Patrizio Cinque (Bagheria).

L’ambiguità, appunto. Come quella manifestata con Stati Uniti ed Europa. Di Maio è un entusiasta fan di Vladimir Putin, ma cerca anche di accreditarsi con gli Usa. Ancora: prima denuncia l’Ue che affama gli italiani e poi cerca di convincere le cancellerie europee a dargli fiducia. Di più: il gruppo di europarlamentari M5s ogni due settimane gli invia un report. Ma le relazioni sono spesso contraddittorie. Forse è pure per questo che, ad esempio, il leader alterna sentimenti contrastanti verso l’euro. Da contrario a favorevole. E viceversa. A Bruxelles il «dimaino» di punta è l’eurodeputato Ignazio Corrao, noto alle cronache per aver assunto 11 portaborse anche, ipse dixit, «per risolvere il problema della disoccupazione». Ma in fondo, Corrao è sulla stessa linea del capo e del movimento stesso, che ha invaso Montecitorio e Palazzo Madama di assistenti, spesso privi di qualifiche ma forti di voti e parentele. Gente che costa ai contribuenti italiani svariati milioni di euro. Per intenderci: alla Camera, nell’ultimo anno, solo le spese destinate alla comunicazione sono aumentate del 375 per cento.

Aggiornamento del curriculum. L’immagine del leader è stata, un dettaglio dopo l’altro, revisionata e adeguata al momento. Il maquillage comunicativo è passato, banalmente, pure dall’aggiornamento del curriculum. Nel 2013, sul sito di Grillo, da fresco candidato in parlamento Di Maio riferiva delle sue esperienze lavorative che tanta ilarità hanno poi suscitato: webmaster, steward allo stadio San Paolo di Napoli e «breve esperienza come assistente regista». Una serie di lavoretti che gli hanno ingenerosamente fruttato uno sfottente «Giggino webmaster»: soprannome coniato dal perfido governatore campano, Vincenzo De Luca. Di Maio ha rintuzzato: «Offende migliaia di persone che stanno sudando per fare questo lavoro». Ma il nuovo cv da aspirante premier è stato comunque epurato dai lavoretti giovanili. Al di là della comunicazione, per tentare di darsi una struttura convincente, Giggino ha coinvolto il deputato Riccardo Fraccaro, diventato raccordo con manager, imprenditori e partecipate. Soprattutto, Di Maio ha ingaggiato come responsabile delle relazioni istituzionali Vincenzo Spadafora, ora candidato dei 5 Stelle nel collegio di Casoria. Un uomo abile, già presidente di Unicef Italia e Garante per l’infanzia. Ha aperto a Di Maio le porte di ambasciate, lobby e parlamenti. A Spadafora si devono i viaggi in Israele, Regno Unito e Stati Uniti, oltre che il meeting all’Ash Center di Harvard. L’ennesima, tormentata, metamorfosi. Il leader dei Cinque stelle tenta all’estero di accreditarsi con ambasciatori, lobbisti e uomini delle istituzioni. Ma in patria lo attende il tradizionale militante grillino, che poco gradisce le virate ideologiche promesse in terra straniera: stabilità, moderazione e globalizzazione. Così, un passo dopo l’altro, «Giggino webmaster» è diventato l’arrembante trentunenne che, per vincere le elezioni, ha mascherato i Cinque stelle. La rivoluzione deve sembrare solo uno sbiadito ricordo. Come dice Frank Underwood in House of Cards: «Ho cambiato i parametri delle mie promesse». Questa è la politica, bellezza. E anche il Movimento non può farci niente. (Questo articolo è uscito sul numero del settimanale Panorama in edicola l'1 febbraio 2018, con il titolo: "Se questo è un leader")

Caro Celentano, triste ritrovarti grillino e omologato. Sgarbi al Molleggiato: "Caro Adriano non sai nulla. È logico che apprezzi uno che sbaglia i congiuntivi come Di Maio", scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 04/02/2018, su "Il Giornale".  Poverino. Anziano e orgogliosamente ignorante. Le persone consapevoli dicono fino all'ultimo giorno: «Ancora imparo». Celentano è contento di essere ignorante, esalta il suo nipotino Di Maio, che sbaglia i congiuntivi e crede che Ravenna sia in Emilia dove, a insaputa di Celentano e di Di Maio, è sepolto Dante che, già da tempo, aveva risposto all'anziano milionario: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». Ovviamente, per Celentano, parole in libertà, da dimenticare, se mai lette, e che mio padre recitava a memoria. Cacciano una professoressa che scrive scuola con la «q», ma candidano presidente del Consiglio uno ignaro di tutto, che non ha mai studiato e mai lavorato, perché la competenza è inutile e Benedetto Croce, ignoto a Celentano, ha sbagliato a pensare che «il vero politico onesto è il politico capace». Ma non gli dirò: «capra!». Poverino Celentano: non ce la fa. Anche come profeta. Non appena, anziché farsi i cazzi suoi, mi annuncia, come una maledizione «la tv per te rimarrà un lontano ricordo... nessuno più ti inviterà», io mi sveglio la mattina e, senza sapere delle polemiche di Celentano, vengo inviato da Giletti a parlarne. È dal primo giorno, ormai da trent'anni, che mi dicono «ancora un paio di alzate come quella che hai fatto a Piazza pulita e la tv per te rimarrà un lontano ricordo». Caro Celentano, più facile che chiudano Piazza pulita. Io non tramonto. Tu, soffocato dal danaro, vivi solo di retorica, hai perso l'anima, l'autonomia di giudizio. Ti confesserò che ammiro più Ornella Vanoni di te. Ornella mi ha chiamato e mi ha dato ragione, dicendo letteralmente: «I ragazzi non vivono più di letteratura e di bellezza, vivono di immagini, ne vengono influenzati. Mostrare l'orrore della realtà genera orrore. È un contagio». Tu non sembri averlo capito. Non lo capisci. Formigli non è un eroe. Io sono felice di essere stronzo, come tu dici; ma lui è un conformista. Come te, come tanti, e non ha affatto rischiato la vita. Tu, avendo la memoria corta, hai dimenticato che io ho violato due embarghi nel 1998 e nel 2000. Io ho rischiato la vita, e non l'ho fatto per vantarmene. Ma contro la violenza degli americani. Non pretendo che tu lo ricordi. Un ignorante deve ignorare, e deve vivere di retorica, come te, come lui. Vi piace commiserarvi, fingere di fare i martiri, senza in realtà rischiare nulla, tenendovi ben caldi i contratti con La7 e con la Rai. «Mentre lui è sotto i bombardamenti per cercare di raccontare agli italiani a che punto è la fine del mondo, gli dai dello stronzo». A parte i bombardamenti, io gli ho dato dello stronzo perché lui, tutto compiaciuto per i suoi fondamentali reportage, voleva impedire a me di esprimere la mia legittima opinione, che è quella di Ornella e di decine di persone che mi hanno scritto. Esattamente così: «Stavi dicendo il giusto, certi programmi esaltano le menti degli adolescenti, trasformandoli in attori protagonisti, e il conduttore, togliendoti l'audio, è stato scorretto e ignorante perché non ha intuito il tuo pensiero». E ancora: «Saviano ha marketizzato la camorra, e ora a Napoli (e non solo) i ragazzini si svegliano e tutti vogliono diventare come Genny Savastano». Mi scrive Andrea Bufano che ha vissuto il carcere per aver seguito cattivi esempi. Se avesse letto Dante, se a scuola gli avessero parlato di Caravaggio e Michelangelo, forse non avrebbe cercato di fare l'eroe sulla strada con la vanagloria esaltata dai Formigli. Ma tu, Adriano, non puoi capire, tu stai chiuso nella tua villa, e non hai mai guardato i grandi pittori, non hai parlato con loro, non sai che i veri artisti hanno superato ogni limite, e che io ho cercato di imitarli. Pasolini diceva «dire è trasgredire». Io non obbedisco, trasgredisco, come tu non riesci a fare. Sei solo Celentano, non sei Elvis Presley, non sei Bob Dylan, sei un anziano conformista, senza coraggio. D'altra parte preferisci Di Maio a Dante, ti preoccupi per il mio futuro. Ma io ti ringrazio perché non posso dimenticare il tuo messaggio del 24 gennaio per la morte di mio padre. Mi basta quello e mi consola perché rivela che, quando la conoscenza ti sfiora, anche tu riesci a ragionare. Un giorno capirai che lo Stato non è un'astrazione, ma è un buon padre un buon professore, un buon magistrato: «Ciao Vittorio, non sapevo che avessi un padre così forte: credevo fossi tu l'unico artista della famiglia. A quanto pare mi sbagliavo, tu (con tutti i tuoi pregi, il primo su tutti l'Amore per la bellezza) eri soltanto un derivato di quella grandezza che forse neanche tu conoscevi; e che ieri come d'incanto ha deciso di VOLARE in cielo verso altri lidi migliori, dove la bellezza non è un optional come qui da basso. Là, in alto, dove ora lui si trova, sta finalmente vivendo la bellezza della VERA Vita!!! Adriano». Davanti alla tomba di mio padre, ti ricordo Foscolo, che tu non hai mai letto e che vale anche per i ragazzi di Napoli: «A egregie cose il forte animo accendono/l'urne dei forti, o Pindemonte». Medita Adriano (con Di Maio): non è mai troppo tardi.

Contro la folle sinistra che sceglie Di Maio, scrive il 28 dicembre 2017 Adriano Sofri su "Il Foglio". Discutiamo pure su chi sia il meno peggio, ma sia chiaro che il peggio è il M5s. Ogni tanto sento qualcuno dire che è stanco di votare “il meno peggio”: “Questa volta non lo farò più”. Me ne stupisco e preoccupo, perché sono persuaso che il voto al “meno peggio” sia la traduzione elettorale della definizione della democrazia come il peggior sistema di governo a parte tutti gli altri. Cioè un’idea, se non volete dire pessimistica, almeno misurata nelle aspettative investite nella pubblica amministrazione. L’assolutismo politico è affare tragico della rivoluzione o della controrivoluzione, e in subordine degli imbecilli. In altri ambiti, sia della vita privata che della partecipazione sociale, ci si può proporre di perseguire il bene, quello che si crede il bene. La preferenza per il “meno peggio” mette al riparo dalle delusioni troppo dolorose e dal loro risvolto, il disgusto per il voto. Per questo stato d’animo, che non è demoralizzato se non alla lettera, perché non pretende una moralizzazione assoluta della scelta di voto, il “meno peggio” non è una opzione contingente ma una specie di filosofia relativa e durevole. La contraddizione però sorge e scuote l’assicurazione fornita dal ragionevole scetticismo elettorale quando ci si scopre incerti perfino nel riconoscimento di che cos’è il “meno peggio”. E’ il caso attuale. Vi rientra la domandina: “Per chi voteresti fra Berlusconi e Di Maio?”, che ha fatto tanto rumore. L’ipotesi del ballottaggio fra la padella e la brace è tuttavia autorizzata: la novità è che nello schieramento, chiamiamolo così, che va dal centrosinistra alla sinistra, chiamiamole così, qualcuno ha fatto intendere, scopertamente, come nel caso per me sconcertante di Bersani, o più ambiguamente, di preferire Di Maio non a Berlusconi (e Salvini) ma al Pd. Io (che non conto niente, e sono privo del diritto di voto) metto nel peggio da sventare il Movimento 5 stelle. Penso, molto sommariamente, che quel movimento abbia degradato una delle esperienze più nobili dei movimenti popolari e operai, l’autodidattismo, che era un amore per il sapere dal quale i più erano esclusi per una discriminazione sociale, e lo perseguivano al costo di enormi sacrifici attraverso società di educazione, studi serali, partiti, sindacati, “università popolari”. Che erano allo stesso tempo occasioni preziose per chi avendo avuto il privilegio degli studi volesse metterli alla prova del sapere del lavoro e dell’intelligenza suscitata dall’amalgama sociale. L’autodidattismo dei 5 stelle, in questo esemplari di una delle due possibili evoluzioni del tempo presente, è viceversa pieno dell’arroganza che deriva dalla sostituzione del sapere con la rete, serbatoio di tesori e di scempiaggini. Nel loro caso, di scempiaggini e superficialità. Era la prima impressione dei 5 stelle, è stata confermata a dismisura dagli anni trascorsi e dalla prevalenza del cretino, pur combattuta, al loro interno. Forse solo per abitudine, o per vecchiaia, perché le persone del Pd e della sinistra sono ancora largamente quelle che ho conosciuto e di cui non di rado sono stato amico, benché ne veda un immeschinimento pubblico pressoché irresistito, continuo a cercare là il mio meno peggio. Lo cerco nella disposizione del Pd a proporsi una collaborazione, se non un’amicizia, con il grosso (parola grossa, lo so) dello schieramento alla sua sinistra, e viceversa, nella disposizione della sinistra a cercare una collaborazione col Pd. E nella disposizione della lista europeista di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova ad accordarsi col Pd, e viceversa. (Vorrei che facessero altrettanto i radicali dell’altra metà, convinti che non presentarsi alle elezioni sia un principio). Senza di che l’alternativa si riduce alla domanda truccata: “Chi sceglieresti fra Berlusconi e Di Maio?” Non credo di cedere a un pregiudizio o a un sentimento, un risentimento, senile: guardo ai governi degli ultimi anni con pieno disincanto, e tuttavia mi dico che i governi di altre maggioranze avrebbero fatto peggio, e probabilmente molto peggio. Ho una postilla all’argomento del meno peggio, e riguarda la professione politica. Non occorre che dichiari il mio rispetto per la professione politica, reso a sua volta rispettabile dal fatto che non le appartengo e non ho alcuna ambizione di appartenerle – la sola idea mi sembra buffa. Dunque mi sento privatamente disinteressato, benché personalmente interessatissimo. Quando Max Weberparlava del Beruf politico, che era insieme professione e vocazione, aveva a che fare con un mondo in cui i due concetti potevano tenersi. Le famigerate ideologie erano a loro volta capaci di richiedere (anche di esigere ferocemente) il disinteresse e l’abnegazione dei dirigenti e dei militanti politici. Oggi la professione politica ha visto ridursi fino a scomparire la parte della vocazione e crescere a dismisura quella riservata al mestiere: rango, lunario. Che si sia giovani e all’arrembaggio o provati e anche francamente vecchi, un interesse personale alla conservazione si aggiunge e molto spesso prevale sugli ideali politici, quando pure ci siano. (Nelle altre professioni, a partire dalle più ipocrite, il giornalismo o la magistratura, succede almeno altrettanto, ma quelle sono il retrobottega, e la politica è la bottega e la vetrina). Nei giorni scorsi ho letto titoli come: “Concorso per preside, verso le 35 mila domande per 2.425 posti: uno su 15 potrà coronare il sogno” (Repubblica), e “In 10 mila per il posto in Parlamento M5s, un iscritto su 13 tenta la corsa” (Corriere). Temo che, meccanismi di selezione a parte, qualcosa di simile si potrebbe leggere per tutto l’arco delle forze politiche, sinistra compresa. Il disinteresse è una virtù difficile da trovare, e in politica non è nemmeno detto che sia una virtù, quando diventi oltranzista: ma senza una dose di disinteresse la politica è fottuta e noi con lei. Il disinteresse è in realtà un interesse personale differito, nel tempo e nello spazio: sul nostro prossimo nel Niger e in Myanmar, sui nostri figli e nipoti. Infatti noi non facciamo più figli, direte, e ci vantiamo di non votare lo ius soli. Già. Infatti occorre una buona dose di idealismo per impegnarsi a votare, e votare il meno peggio.

M5s, rivoluzione di Statuto e Codice etico: il Garante diventa elettivo, nasce l’Assemblea iscritti e apertura agli altri partiti. Pubblicate sul blog le nuove norme: prevista l'elezione per il ruolo finora ricoperto da Grillo. Che per ora comunque non si tocca. Più spazio agli attivisti e cade il divieto di associarsi ad altre forze. Al via auto-candidature aperte a tutti: dagli esterni agli indagati, ma con filtro di qualità. Poi il capo politico può fare due mandati da 5 anni. Maxi multa da 100mila euro per gli espulsi in Parlamento e obbligo di votare la fiducia a un presidente del consiglio grillino, scrive Martina Castigliani il 30 dicembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il Movimento 5 stelle che sogna di governare, intanto fa le rivoluzioni in casa. Fino a pensare l’impensabile: l’elezione diretta del prossimo Beppe Grillo, che per ora non si tocca, ma domani chissà. Se loro preferiscono parlare di “transizione obbligatoria” perché “è finita l’epoca dell’opposizione”, di fatto in queste ore sta avvenendo un cambio, quello sì epocale, per la forza entrata in Parlamento nel 2013. Nel primo pomeriggio il blog, dopo le indiscrezioni delle scorse ore, ha pubblicato i nuovi Codice etico e Statuto e le regole per le candidature. In quelle poche decine di pagine sono contenute alcune novità che fino a pochi anni fa sarebbero state inimmaginabili. Innanzitutto c’è più spazio per gli attivisti, a tal punto che la figura del Garante, fino ad oggi indiscutibilmente nelle mani del comico, diventa elettiva. Inoltre si inserisce tra gli organi quello dell’Assemblea degli iscritti. Poi, dettaglio importante in vista delle elezioni, cade il divieto “di associarsi ad altri partiti”. Che significa, come ripete Luigi Di Maio da giorni, che il M5s la sera del voto si presenterà agli altri con i voti ottenuti e lascerà aperta la porta a chi vuole partecipare alla realizzazione del “programma grillino”. Infine, c’è anche un’importante svolta per quanto riguarda le candidature: non solo ci si apre anche agli esterni, ma si prevede un filtro di qualità con il Capo politico (Di Maio) e il Garante (Grillo) che possono intervenire fino alla consegna delle liste. Resta la grande stretta, con conseguenti polemiche, su chi viene eletto e le misure, 27 in totale, vanno dalla maxi-multa per gli espulsi all’obbligo di votare la fiducia. Una delle novità più grandi è prevista all’articolo 8 dello Statuto: l’elezione diretta del Garante. Stiamo parlando di Beppe Grillo, l’unico dogma mai messo in discussione fino a questo momento, colui che ha creato tutta la baracca e che se l’è ripresa in mano ad ogni sentore di crisi. Per il momento, quello che dicono all’interno sperticandosi in rassicurazioni, non è prevista alcuna sua rinuncia, ma intanto le regole per il suo addio eventuale sono state stabilite nel dettaglio. E, sorpresa, si prevede una elezione tra una rosa di candidati “non inferiore a tre” proposta dal comitato di Garanzia che sceglie tra “figure che si siano distinte per il determinante contributo alla storia e all’azione politica del Movimento 5 stelle”. Ma non solo. Il Garante rimane in carica “a tempo indeterminato”, ma può essere revocato su proposta del comitato di Garanzia “a maggioranza assoluta” e ratificato dagli iscritti in rete. Se non ratificano, il comitato decade. E ne dovrà essere eletto uno nuovo. Che detto oltre i tecnicismi è una rivoluzione mai vista per il Movimento: si sta preparando una exit strategy per qualsiasi eventualità e per far sì che il Movimento possa vivere oltre qualsiasi terremoto politico e che possa, soprattutto, essere saldamente controllato dagli iscritti. In realtà Di Maio l’ha detto chiaramente. “Oggi è un giorno storico”, ha scritto nel post del blog. E storico lo è soprattutto per la cosiddetta base, gli attivisti che nel Movimento ci sono nati e che forse non si sarebbero aspettati di vedere un cambio simile così in fretta. E’ questo invece il segno che Davide Casaleggio e Beppe Grillo fanno sul serio: vogliono partecipare alle elezioni e farlo per vincere, anche a patto di snaturarsi un po’. Sbagliato pensare che Gianroberto Casaleggio non avrebbe voluto tutto questo: l’evoluzione era nella sua testa da sempre e, a quanto pare, ha istruito il figlio nel dettaglio. Il risultato è frutto di un lungo lavoro di discussione interna. Chi frequenta le riunioni che contano sa ad esempio quanto è stata sofferta l’introduzione del filtro delle candidature: significa all’improvviso che “uno vale uno” non può essere vero per sempre (lo ha detto lo stesso Di Maio pochi giorni fa) e che invece bisogna cercare di armarsi per vincere e presentare nomi di spessore. Saranno Di Maio e Grillo direttamente a scegliere chi va in testa ai collegi uninominali ad esempio e questo in tanti, quelli che già un mandato lo hanno fatto, lo chiedevano. Ci si apre a tutti a patto che non siano degli ex espulsi dal Movimento, che non siano stati iscritti in altri partiti. Possono correre anche gli indagati, anche se c’è un potere di discrezionalità in base al peso dell’inchiesta. Con il nuovo Statuto inoltre non bisogna dimenticare che nasce una nuova associazione del Movimento 5 stelle. E precisamente la terza da quando è nato il M5s. Questa ha sede a Roma (e non più a casa di Beppe Grillo a Genova) e userà il vecchio simbolo del 2009, come da concessione del Garante. Qui arriva poi un’altra delle novità più grandi: si introduce tra gli organi del Movimento (oltre al Capo politico, al Garante, al Comitato di garanzia, al Collegio dei probiviri, al Tesoriere) l’Assemblea “formata da tutti gli iscritti con iscrizione in corso di validità al momento della convocazione”. Viene convocata in luogo fisico o online almeno una volta all’anno e, in questa sede sì, possono essere fatte delle restrizioni di partecipazione in base all’anzianità. L’assenza di una struttura collettiva di partecipazione alla vita del Movimento è stata contestata negli anni più volte a Grillo e Casaleggio, che avevano sempre risposto parlando dei Meetup e dei raduni annuali. Ora, per la prima volta si danno delle regole precise e si colma una lacuna che più volte li ha messi in difficoltà. La votazione dell’organo è valida a prescindere dal numero dei partecipanti, salvo per le modifiche dello Statuto per cui saranno necessari “la metà più uno degli iscritti”. Un occhio alla democrazia interna che sorprende dopo anni in cui si era andati in diversa direzione. Certo era una necessità dettata anche alle tante cause indette nei tribunali dagli espulsi e dissidenti, ma nel concreto restituisce una nuova immagine del Movimento. Gli utenti possono ora partecipare all’elezione di tutti gli organi dell’Associazione, un’eventualità fino adesso esclusa. Il Capo politico rimane in carica massimo dieci anni, quindi fa un mandato di 5 anni rinnovabile una sola volta. E può essere sfiduciato. Mentre il Collegio dei probiviri e il Comitato di garanzia vengono scelti tra una rosa di nomi indicata dal Garante che deve tenere conto della rappresentanza di genere e delle minoranze. Per il momento sono confermati quelli in carica: nel primo Giancarlo Cancelleri, Vito Crimi e Roberta Lombardi; nel secondo Paola Carinelli, Nunzia Catalfo e Riccardo Fraccaro. Grande spazio, naturalmente, viene dato anche al comportamento degli eletti. Ovvero uno dei pallini del Movimento: come assicurarsi che chi viene scelto come portavoce (anche qui si specifica che devono rinunciare alla dicitura di “onorevole”) poi rispetti la linea e non vada a rimpolpare le fila dei dissidenti. In questo senso si ripropone la tanto contestata maxi-multa per chi lascia il gruppo, si dimette o viene espulso: “Il portavoce dovrà pagare 100mila euro quale indennizzo per gli oneri affrontati”. Poi si richiede l’obbligo di votare la fiducia di un governo guidato da un presidente del Consiglio M5s, pena naturalmente l’espulsione. Come già detto, non c’è più il riferimento al divieto di associarsi con gli altri partiti, anche se non è dato sapere cosa e fino a che punto saranno possibili mediazioni in termini di alleanze. Fondamentalmente è una materia troppo nuova e troppo scivolosa, quindi l’indicazione è: improvvisare e intanto tenere dritta la barra sul “meno compromessi possibili”. Anche perché Di Maio sostiene che arriverà al voto con una squadra già pronta e a quella, chi vuole lavorare con i grillini, verrà chiesto di piegarsi. Si chiede inoltre, e naturalmente, di rinunciare a vitalizi and company, ovvero tutti i privilegi pensionistici della carica. Vietato poi assumere familiari o conviventi (vedi figuracce del passato). E si prevede un versamento da parte degli eletti di 300 euro mensili per “mantenere le piattaforme tecnologiche che supportano l’attività dei gruppi o dei singoli parlamentari”. Da notare anche che, chi si candida e ha ricoperto una carica in enti di vario tipo dovrà consegnare bilancio e statuti. Come a verificare che non abbia già fatto danni altrove. Chi oggi apre il blog trova una scritta che recita “è ora di pensare in grande”. Quasi un buffetto di rassicurazione a chi vive la transizione con gli occhi sbarrati e si chiede cosa resterà del passato. Sotto c’è un conto alla rovescia, dei giorni e dei minuti e dei secondi che separano dalla prova delle elezioni politiche. Che questa volta come non mai sentono di non poter mancare. La prima tappa saranno le auto-candidature alle Parlamentarie (aperte fino al 3 gennaio) e poi il voto online a metà gennaio. Quindi Di Maio dovrà rispettare la sua prima promessa: presentare una squadra di governo prima del voto. Ce la farà? Il candidato gira per l’Italia da settimane e in particolare, accompagnato dall’ormai fedele Stefano Buffagni, tenta innanzitutto la conquista del nord. Veglia su di lui, da non troppo lontano, Davide Casaleggio. Che oggi, in una rarissima apparizione al suo fianco, ha commentato le nuove regole con due parole di numero: “Se siamo un partito? Non penso”. Come a dire che l’etichetta, per chi ora conta solo arrivare al governo, non è più davvero un problema.

Di Maio vuol far eleggere un esercito di "signor sì". Luigi non si fida: in Statuto 27 obblighi per i parlamentari Candidati anche gli indagati, sì alle alleanze post voto, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 31/12/2017, su "Il Giornale". C'è un qualcosa di Dorian Gray nel nuovo Movimento Cinque Stelle consacrato dalle regole per le candidature alle parlamentarie e dal varo di un altro Statuto. Come il personaggio del capolavoro di Oscar Wilde, l'ormai ex «non partito» guarda il suo ritratto e ha paura di sé stesso. E, tormentato dalla fine che potrebbe fare, decide di buttare in soffitta il quadro che rappresentava il vecchio Movimento. Così venerdì Il Giornale rivelava il casting su facebook organizzato dalla Casaleggio per evitare le brutte figure degli ultimi anni, e ieri sono arrivate le nuove regole per correre sotto le insegne pentastellate. Le autocandidature si potranno presentare fino a mercoledì. I tempi, dicono, saranno pubblicati sul sito del comico. Le modalità, invece, dovranno rispettare il nuovo regolamento. Via libera agli indagati, a patto che non abbiano «danneggiato l'immagine del Movimento», resta intatto il vincolo dei due mandati e ci sarà la deroga «salva-fedelissimi». Infatti la regola che impone agli ultra quarantenni di candidarsi al Senato non vale per chi attualmente già ricopre l'incarico di deputato. Vedi Danilo Toninelli (43 anni) e Alfonso Bonafede (41 anni) molto legati a Di Maio tanto da far sì che il candidato premier voglia tenerli ben saldi sugli scranni di Montecitorio. Tutti gli aspiranti parlamentari devono accettare lo Statuto, il Codice Etico ed essere iscritti all'associazione «Movimento 5 Stelle». Ed ecco le novità che mandano in soffitta il quadro delle origini. L'associazione ha sede a Roma in via Nomentana e sarà governata dalla diarchia Grillo-Di Maio. Il fondatore con il ruolo di garante e il candidato premier con la qualifica di «capo politico» e il potere di decidere sulle candidature. Il collegio di garanzia è formato da Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri. I probiviri restano i «portavoce» Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro e Paola Carinelli. Di Maio, che sarà anche tesoriere, ha l'ultima parola sugli uomini e le donne da portare in Parlamento. Con l'obiettivo di «creare gruppi parlamentari coesi e compatti». Stesso scopo perseguito attraverso l'istituzione della multa da 100mila euro per chi volesse andare via dal Movimento. Una regola che fa storcere il naso ai costituzionalisti, perché in contrasto con l'articolo 67 della Costituzione che vieta il vincolo di mandato. Ma alcuni uomini vicinissimi a Di Maio pensano che la «minaccia di una sanzione possa fare da deterrente psicologico». Si prospetta così un esercito di soldatini che, secondo il Codice Etico, saranno obbligati a «votare la fiducia ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del Movimento 5 Stelle». E ancora un vaffa alla Costituzione. In tutto sono 27 i doveri in capo ai nuovi eletti grillini. Cancellato l'obbligo di non allearsi ad altri partiti, in modo da aprire spiragli a Di Maio per eventuali accordi post-voto. E nei collegi uninominali porte aperte a esponenti della società civile. Le figure preferite per questi «scontri diretti» sono «imprenditori al Nord dove il M5s è debole e sicuramente saranno candidati dei magistrati». Tra gli oneri anche il versamento mensile di 300 euro al gruppo parlamentare. A margine di questa rivoluzione firmata da Di Maio cosa resta al fondatore Grillo? Il garante ha ancora la possibilità di sfiduciare il capo politico. E riprendersi il vecchio quadro buttato in soffitta.

I 300 euro al mese che gli eletti daranno a Casaleggio. Davide spiega al Corriere della Sera: «Il contributo è per la piattaforma informatica che sarà a disposizione degli eletti per strumenti di condivisione e collaborazione on line». Cioè, per Rousseau, scrive "Next Quotidiano" domenica 31 dicembre 2017.  Davide Casaleggio, intervistato da Emanuele Buzzi sul Corriere della Sera di oggi, parla tra l’altro anche del contributo di 300 euro che ciascun eletto dovrà obbligatoriamente dare per “il mantenimento delle piattaforme tecnologiche che supportano l’attività dei gruppi e dei singoli parlamentari”. Ovvero, tolti i giri di parole, al “suo” Rousseau:

Perché un contributo di 300 euro mensili agli eletti? 

«Il contributo è per la piattaforma informatica che sarà a disposizione degli eletti per strumenti di condivisione e collaborazione on line».

Un contributo per Rousseau? Cioè? 

«È uno strumento per la democrazia diretta. Stiamo sviluppando strumenti molto innovativi che saranno disponibili a partire dalla prossima legislatura. Rousseau sta continuando a evolversi e suscita sempre più curiosità in tutto il mondo perché è un unicum di cui andiamo orgogliosi».

Un contributo mensile di 300 euro al mese equivale a 3600 euro all’anno. Se gli eletti nel M5S fossero in totale 150 (la stima è prudente) si tratterebbe di 540mila euro l’anno, nei cinque anni di legislatura i contributi arriveranno a 2,7 milioni di euro.

Il codice etico M5S, Casaleggio: una multa? Il minimo per chi tradisce gli elettori. Lo stratega di M5S: vogliamo il vincolo di mandato, scrive Emanuele Buzzi il 30 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera".

Davide Casaleggio, perché questa rivoluzione nel M5S?

«La nuova associazione era necessaria per consentire al Movimento di partecipare alle elezioni Politiche, viste le nuove leggi sui partiti. Ci lavoravamo da tempo. In più volevamo puntare sulla competenza: sia per la selezione dei candidati sia aprendo alle persone di buona volontà. La nostra stella polare rimane la democrazia diretta».

Non teme che i cambi possano creare uno scollamento con la base?

«I nostri sostenitori sono sempre al nostro fianco, prova ne è lo straordinario contributo che stanno dando alla campagna elettorale con le piccole donazioni di media di 30 euro. Abbiamo raccolto in meno di un mese oltre 200.000 euro».

Lei nega che il M5S si stia avvicinando sempre più alla forma di un partito tradizionale eppure la presenza di figure come un capo politico o un tesoriere sembrano contraddirla.

«Le ripeto che la nuova struttura è finalizzata alla partecipazione alle Politiche. Il tesoriere esiste perché lo richiede la legge, ma il nostro non gestirà soldi dal momento che il Movimento 5 Stelle a differenza di tutti i partiti rifiuta i finanziamenti pubblici. I partiti sono tali perché gestiscono soldi pubblici, noi li abbiamo sempre rifiutati e continueremo a farlo».

A proposito del capo politico: come deciderà la linea del partito?

«È tutto spiegato nello Statuto».

L’obbligo di votare la fiducia, il controllo stretto del capo politico. Non saranno un po’ troppi i lacci per i parlamentari? Alcuni, come la multa per i voltagabbana, sembrano contrari alla Costituzione.

«Non è un mistero: vogliamo inserire il vincolo di mandato. È nel nostro programma dal 2013 e credo che sia atteso dalla stragrande maggioranza degli italiani. Una multa è il minimo per chi tradisce gli elettori che lo hanno votato. Dovrebbero farlo anche i partiti».

Come pensa la possano rispettare gli esponenti della società civile che si candideranno con voi?

«Per essere nelle liste del Movimento bisogna accettare questa condizione che è a garanzia prima di tutto dei cittadini».

Nessun veto sulle alleanze. Avete cambiato idea?

«Luigi Di Maio ha spiegato molto bene qual è la posizione che terrà il Movimento dopo il voto nei confronti di tutte le forze politiche. Posizione che condivido in pieno».

Non teme falle nei vostri filtri per evitare la presenza in lista di esponenti non in linea con il codice etico?

«Presto sapremo quante sono le candidature. Ma non temo falle. Il nostro codice Etico è chiaro così come i processi che abbiamo individuato per la selezione dei candidati. Mio padre in piazza San Giovanni disse che per cambiare l’Italia ci vogliono tre ingredienti: l’onestà, la trasparenza e la competenza. A questo ci ispiriamo per la selezione dei candidati».

Perché un contributo di 300 euro mensili agli eletti?

«Il contributo è per la piattaforma informatica che sarà a disposizione degli eletti per strumenti di condivisione e collaborazione online».

Un contributo per Rousseau? Cioè?

«È uno strumento per la democrazia diretta. Stiamo sviluppando strumenti molto innovativi che saranno disponibili a partire dalla prossima legislatura. Rousseau sta continuando a evolversi e suscita sempre più curiosità in tutto il mondo perché è un unicum di cui andiamo orgogliosi».

M5s, radiografia dell'associazionismo made in Casaleggio. Ora, dopo la Rousseau, nasce la Gianroberto Casaleggio. Che nei piani dovrebbe diventare l'unica cabina di regia delle stelle, esautorando i portavoce. Ma soci e donatori saranno resi pubblici? Scrive Francesca Buonfiglioli su Lettera 43 il 3 aprile 2017. Come esistono lobby «buone» e lobby «cattive» (cit. Luigi Di Maio), si può supporre che nell'universo pentastellato esistano fondazioni e associazioni da bandire e altre di cui fidarsi, perché strumenti per realizzare un fine alto e nobile. E cioè quelle made in M5s, o meglio made in Casaleggio e associati. Come l'ultima nata il 14 febbraio scorso: l'Associazione Gianroberto Casaleggio la cui missione è promuovere «attività culturali, sociali, digitali, artistiche, ricreative che contribuiscano alla crescita culturale dei propri soci, allo sviluppo del dibattito libero e indipendente sul futuro dell’uomo e di ogni forma di comunicazione, aggregazione, relazione umana, sociale e imprenditoriale, alla formazione di una rete connettiva e culturale, nella continuità dei principi che hanno animato il pensiero e l’azione di Gianroberto Casaleggio, secondo le decisioni del Comitato Direttivo».

INCONTRI E CONFRONTI. Comitato composto, si legge sempre sul sito, dai fondatori dell’Associazione: Davide Casaleggio e la vedova di Gianroberto Sabina del Monego. Il primo appuntamento è l'8 aprile, con il convegno Sum#01 a Ivrea. La politica, almeno quella di Palazzo, dunque, pare non c'entrare nulla. Pare. Alla kermesse di sabato prossimo dedicata al Futuro (tema caro a Casaleggio senior) interverranno manager, giornalisti, esperti e magistrati. Tra gli ospiti anche il managing director di Google Italia Fabio Vaccarono e Paolo Magri, direttore Ispi e e segretario italiano della Trilateral, a suggellare la trasformazione del Movimento dei «ragazzi meravigliosi» in credibile forza di governo. Il garante e capo politico Beppe Grillo sarà presente, sì, ma in platea. Insieme con, si suppone, altri portavoce pentastellati. Il palco per una volta non sarà per loro.

L'ESAUTORAZIONE DEI PARLAMENTARI. Così come è presentata, però, l'Associazione Gianroberto Casaleggio è a tutti gli effitti un think-tank, un pensatoio. Non solo: «È evidente l'esautorazione della leadership dei parlamentari», dice secco Nicola Biondo, ex capo della Comunicazione M5s alla Camera e autore con Marco Canestrari del libro di prossima uscita Supernova, chi ha ucciso il Movimento 5 stelle. «Se fossi un potente per confrontarmi con il primo partito d'Italia non andrei da Luigi Di Maio ma mi rapporterei con l'Associazione». Nell'aprile 2016, invece, venivano alla luce Rousseau, il sistema operativo del Movimento nel quale sono destinate a confluire le attività di democrazia 2.0, e l'omonima associazione, «la forma più rapida da creare che potesse operare senza scopo di lucro e quindi ricevere donazioni da parte di chi voleva sostenere il progetto», spiegava Davide sul Blog delle Stelle. Solo un passaggio perché nei piani dichiarati tutta le gestione della "macchina" è destinata a passare alla fondazione Gianroberto Casaleggio «in cui», aggiungeva Casaleggio jr, «farò confluire le attività dell'associazione».

IL QUARTIER GENERALE DI MILANO. E qui, però, la politica c'entra eccome. Anche in questo caso, infatti, il rapporto tra Movimento e azienda è tutto fuorché trasparente. Salvo cambi di programma, dunque, il controllo della piattaforma, delle votazioni online, delle candidature, delle proposte di legge si concentrerà ancora di più in via Morone a Milano. Per i critici questo accentramento rischia di trovare un primo compimento a Roma dove la maggioranza 5 stelle in Campidoglio ha proposto di modificare lo statuto di Roma Capitale all'insegna della "rivoluzione" della democrazia diretta, introducendo la possibilità di petizioni online e sperimentando il voto elettronico per i referendum comunali. Per i pentastellati un modo per passare, come scrive Virginia Raggi sul Blog «dalla città di Mafia Capitale a Roma Capitale della democrazia diretta e della trasparenza»; per il Pd la via per «consegnare definitivamente la vita della Capitale alla Casaleggio e associati».

LA BUFERA DI GENOVA E L'ASSENZA DI CONTROLLI. Senza contare gli esiti della democrazia diretta made in 5 stelle a Genova, dove il risultato della votazione online che aveva incoronato candidata sindaco Marika Cassimatis è stato cancellato dal Garante Beppe Grillo, finito per questo indagato con Alessandro Di Battista. E la mancanza di controlli da parte di società terze - tranne in rare occasioni - sulle consultazioni online del Movimento. Su associazioni e fondazioni il Movimento ha compiuto l'ennesimo voltafaccia. «Le fondazioni sono le cassette di sicurezza dei partiti, attraverso cui far transitare flussi di denaro incontrollabile», sentenziava Danilo Toninelli, l'8 giugno 2016. Il M5s per eliminare le opacità innegabili del sistema «proponeva di indicare in chiaro il collegamento fondazione-partito, applicare le regole di trasparenza sul finanziamento ai partiti anche alle relative fondazioni e, infine, impedire a enti, aziende e società partecipate da enti pubblici, concessionari pubblici o titolari di appalti pubblici di finanziare le fondazioni politiche». Norme, continuava il deputato pentastellato, «evidentemente ‘pericolose’ per il Pd e i suoi traffici che, ovviamente, sono state bocciate».

LA NEBULOSA DI FONDAZIONI E ASSOCIAZIONI. Viva la trasparenza. Eppure l'Associazione Rousseau e quella neonata intitolata a Gianroberto Casaleggio in questo non primeggiano. Non che ci sia qualcosa di illegale, tutt'altro. E come ricorda a Lettera43.it Gian Gaetano Bellavia, commercialista esperto di diritto penale dell’economia, «lo strumento dell'associazione è legittimo e non esiste l'obbligo di rendere pubblici bilanci e soci». Detto questo, però, vista la «rilevanza pubblica del soggetto sarebbe auspicabile pubblicare sul sito una minima contabilità, sono sufficienti gli estratti conto». A differenza dell'istituto della fondazione, nel quale, continua Bellavia, è il «fondatore a mettere a disposizione un patrimonio con uno scopo», l'associazione si fonda di fatto sul lavoro messo a disposizione dagli associati. Infine, la Fondazione è sottoposta a un minimo controllo da parte della prefettura dove vengono depositati bilanci e dati costitutivi. A proposito, associarsi alla Gianroberto Casaleggio costa 300 euro all'anno, per i soci ordinari. Cinquecento per i fondatori.

L'ATTIVITÀ DI FUNDRAISING. «Il fondo comune dell’Associazione è costituito dalle quote associative determinate annualmente dall’Assemblea dei soci, salvo quanto stabilito all’art. 8 per la quota di iscrizione iniziale», si legge nello Statuto disponibile online. «Il fondo comune dell’Associazione è altresì costituito dai contributi e donazioni da chiunque effettuati per sostenere l’attività dell’Associazione, nonché da proventi provenienti da qualsiasi fonte». Perché «ogni contributo, anche il più piccolo, per noi è importante», è scritto sul sito. Già, qualsiasi fonte. A pensar male, in assenza di una lista pubblica dei sottoscrittori, si potrebbe pure ipotizzare la generosità interessata di qualche azienda o società. Una sorta di finanziamento "indiretto" e privato al Movimento. La Casaleggio potrebbe diventare così la cabina di regia blindata del Movimento. O di ciò che ne resta. A questo proposito L43 ha chiesto alla società milanese se i soci e i donatori saranno resi pubblici e se la nuova Associazione assorbirà la Rousseau senza al momento ottenere risposta. L'attività di fundraising è appena partita: l'obiettivo dichiarato è di 100 mila euro, al momento si è arrivati a quota quasi 30 mila. Per quanto riguarda Rousseau, invece, le cifre sono diverse: al 3 aprile le donazioni sono arrivate a 400.714 euro per 12.903 donatori, non necessariamente iscritti al M5s. Le spese, invece, sono ancora pari a zero. Ma a cosa servono questi soldi? «Le donazioni verranno utilizzate per garantire il funzionamento di Rousseau e permetterne l'evoluzione verso i servizi che miglioreranno il coinvolgimento di tutti nel Movimento 5 stelle», recita il sito. «Ogni spesa sarà rendicontata come sempre in modo pubblico». Ma quanti soldi sono a disposizione del M5s?

LE SOMME DESTINATE AI GRUPPI. Com'è noto, i pentastellati non usufruiscono dei rimborsi elettorali a cui, del resto, non hanno diritto. Per beneficiarne infatti avrebbero dovuto presentare delle documentazioni (atti costitutivi, statuti e bilanci), al fine di essere "riconosciuti" dallo Stato. I pentastellati, per loro scelta, questi documenti non li hanno mai presentati, di fatto rinunciando al diritto in questione. Lo stesso ragionamento vale per il 2 per mille. Al pari di ogni altro partito ricevono invece, come ha ricordato Openpolis, somme destinate ai gruppi parlamentari il cui utilizzo è strettamente vincolato al funzionamento del gruppo. Nel 2015, stando alle rendicontazioni pubblicate, il gruppo M5s al Senato ha ricevuto 2.422.074 euro, ne ha spesi 2.212.250 per un avanzo di 209.824 euro. Al gruppo della Camera sono andati 3.840.915 euro, le uscite sono state 3.701.737 per un avanzo di 139.178. In Europa, poi, nel 2014 il M5s ha percepito dal gruppo Efdd contributi per 3.230.826 euro.

LE RACCOLTE EVENTO. Poi ci sono le raccolte fondi per i grandi eventi come Italia a 5 stelle Imola, a ottobre 2015, e Palermo a settembre 2016, gestite dal comitato promotore composto di volta in volta da attivisti locali e capitanato prima da Roberta Lombardi ora da David Borrelli, fedelissimo della Casaleggio e socio insieme con Massimo Bugani dell'Associazione Rousseau reduce da fallito matrimonio con l'Alde è stato destinato a questo nuovo incarico. Per il raduno imolese sono stati raccolti 751.920 euro (quasi 498 mila via bonifico e PayPal e 254 mila sul posto) e ne sono stati spesi 605.444 per un avanzo di 146.474 euro. A Palermo l'incasso è stato più magro: 401.993 gli euro raccolti per 8.774 i donatori. Le spese sono state di 125.470 euro, il che ha permesso un accantonamento di 276.524 euro. Da investire, come spiegato dai siti delle manifestazioni, per altre iniziative M5s. È dunque da questa cifra che partirà la raccolta dell'Italia5stelle 2017.

M5S, chi comanda nel Movimento? Ecco come funziona la rete di Casaleggio jr. Il figlio del guru Gianroberto e i fedelissimi Max Bugani e David Borrelli nell'associazione Rousseau. Poi un gruppo ristretto di parlamentari in posizioni chiave. Ecco i dirigenti "informali" del sistema operativo, scrivono Mauro Munafò e Luca Piana il 28 giugno 2016 su "L'Espresso". Venerdì 17 giugno, due giorni prima delle vittorie di Virginia Raggi e Chiara Appendino a Roma e Torino, il contatore delle donazioni ricevute dall’Associazione Rousseau segnava quota 270.493 euro. Tre giorni dopo il voto, era salito a 278.659 euro. L’euforia dei fan del Movimento 5 Stelle per i risultati ottenuti si è fatta subito sentire, facendo crescere ancora un po’ i fondi che Davide Casaleggio ha iniziato a raccogliere dal 25 aprile scorso. Il figlio di Gianroberto, il fondatore del Movimento scomparso a inizio aprile, ha infatti deciso che continuerà ad essere lui l’architetto della piattaforma on line che servirà per gestire le decisioni dei Cinque Stelle, affidata proprio alla neonata Associazione Rousseau. Lo aveva fatto capire sui blog, lo ha ripetuto nella sua prima intervista politica, rilasciata al "Corriere della Sera" martedì 21. «Non intendo candidarmi», ha detto Davide. Tuttavia, coloro che pensavano considerasse l’avventura del Movimento con più distacco manageriale rispetto al padre, hanno dovuto mettere in dubbio questa impressione. Perché il ruolo che si è dato è centrale: «Intendo occuparmi dello sviluppo delle applicazioni di democrazia diretta del Movimento in rete, affinché tutti i cittadini possano fare politica», ha affermato, sostenendo che la piattaforma informatica Rousseau, elaborata dalla Casaleggio Associati e ora donata all’Associazione omonima, «è la prima applicazione al mondo nel suo genere. Siamo all’avanguardia e continuiamo a lavorare». Per capire quanto Davide - 41 anni, nato a Milano, laurea in Bocconi - sia al centro del progetto dei Cinque Stelle occorre partire di nuovo da lì, dal sito che raccoglie i fondi. La mascherina è semplice. Riporta il valore complessivo delle donazioni ricevute, i 278 mila euro e rotti citati all’inizio, il numero di chi ha contribuito, 8.522 persone. Il conto è intestato, appunto, all’Associazione Rousseau. Stop. Non un indirizzo, non una partita Iva, non un nome del responsabile legale dell’organizzazione a cui vanno i soldi. È facile scoprire che il conto è presso la filiale di Milano di Banca Etica. Il direttore, Ermenegildo Russo, con grande cortesia spiega però di non poter fornire ulteriori indicazioni su chi siano i rappresentanti dell’Associazione, per non violare le norme sulla privacy. Si torna dunque al web. E lì, in fondo all’informativa sull’utilizzo dei cookies dei blog di Beppe Grillo e dei Cinque Stelle si trova finalmente una traccia: l’Associazione Rousseau ha sede a Milano, al numero 6 di via Gerolamo Morone. Lo stesso indirizzo della Casaleggio Associati. «Un’ombra». Chi ha incontrato Davide quando era con Gianroberto nelle occasioni più politiche lo descrive così, «ben attento a non interferire». Anche chi lo ha conosciuto in famiglia ne parla come di una persona riservata, capace di ritagliarsi il proprio spazio nel portare avanti le attività dell’azienda, soprattutto la consulenza per il commercio on line, uno dei suoi cavalli di battaglia. Della vita privata si sa poco. I giornali hanno ricamato su alcune passioni, gli sport estremi e gli scacchi, esagerando un po’. Negli archivi di "Escape from Alcatraz", celebre gara di triathlon nella Baia di San Francisco, non risulta ad esempio alcuna partecipazione dove sia arrivato sesto assoluto, risultato spesso citato dai media: nel 2010 il suo pur onorevole tempo di 3 ore e 27 minuti gli era valso la posizione 995 su 1.225. Anche i titoli di "Gran Maestro" di scacchi e di scacchista "tra i cinque migliori under 16 italiani già all’età di 12 anni", ripetuti da diversi giornali, sono entrambi definiti «un falso» dal portavoce della Federazione scacchistica italiana, Adolivio Capece, secondo il quale non si trova nei registri nessun punteggio di Casaleggio classificato con il metodo internazionale "Elo". Gli anni passati non c’entrano: le carriere scacchistiche di altre persone famose che giocavano da ragazzi o che hanno smesso da tempo, come il cantante Andrea Bocelli o il musicista Ennio Morricone, sono infatti ricostruibili. «Peccato, sarebbe stato bellissimo averlo come testimonial», si è rammaricato Capece su "Tra poco in edicola", in onda su Radio 1 Rai. Fuori dalla sfera del privato, negli ultimi tempi Casaleggio Jr ha invece fornito diversi segnali sulla linea che vuole dare al rapporto con il Movimento. Sull’Associazione Rousseau, ad esempio, ha pubblicato sul "Blog delle stelle" un’unica notizia ufficiale, che rivela molte cose. Dice che oltre a Casaleggio, nell’organizzazione che svilupperà e supervisionerà la piattaforma dove si scriveranno le proposte di legge e si decideranno i candidati, sono entrati due fedelissimi della prima ora. Il primo è Max Bugani, famoso per aver sempre attaccato chiunque in Emilia Romagna contestasse la linea Grillo-Casaleggio, reduce dalla seconda sconfitta nelle elezioni per fare il sindaco di Bologna: una candidatura ottenuta senza primarie, con tanto di proteste da parte di attivisti e parlamentari. Il secondo è l’europarlamentare David Borrelli, spesso in prima fila nelle proteste contro i dissidenti. Due nomi ai quali ne va aggiunto un terzo: Pietro Dettori, fino a maggio "social media manager" della Casaleggio, ora "responsabile editoriale" dell’Associazione: lo ha annunciato lui stesso su Linkedin, rafforzando la schiera dei collaboratori della ditta entrati nelle strutture decisionali del Movimento. «La mia attività per Rousseau è completamente gratuita», ha detto Davide. Ma quanti e chi sono gli altri membri dell’Associazione? Vengono pagati? E Dettori, è ancora retribuito dalla Casaleggio? Lunedì 20 giugno "l’Espresso" ha mandato queste e altre domande a Casaleggio via mail, su invito della segretaria, senza ricevere le risposte nei tempi utili per la pubblicazione. Se arriveranno, ne daremo conto in un nuovo articolo. Eppure i soldi per la piattaforma vengono versati dai donatori sul conto di un’associazione che ha la sede sempre presso la Casaleggio. Altro dettaglio importante: l’estate scorsa sul blog era stato pubblicato l’organigramma dei responsabili delle varie funzioni tecniche della piattaforma. E qui si diceva che due delle più importanti, il "fund raising" e le votazioni, erano saldamente nelle mani dello «staff», ovvero della Casaleggio. La quale, dunque, si è garantita il controllo di due leve fondamentali per governare il partito: i soldi e il consenso. È difficile prevedere come evolverà il Movimento dopo i successi di Roma e Torino. Nella capitale piemontese, ad esempio, la neo-sindaca Chiara Appendino non ha firmato il contestato codice etico sottoscritto invece da Virginia Raggi, che prevede - tra l’altro - una sanzione di 150 mila euro per chi riceverà «una contestazione a cura dello staff coordinato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio», come si legge nel documento. Appendino ha sempre voluto sottolineare la propria autonomia. Chi la conosce sostiene che ha avuto con Davide un unico incontro, a campagna già lanciata. Lei stessa è stata candidata per alzata di mano dagli attivisti, non on line, e dice di aver scelto gli assessori da sola. L’occasione di governare città importanti è probabilmente troppo ghiotta perché i Cinque Stelle si facciano subito cogliere in castagna su un tema come l’indipendenza degli eletti, sentito anche all’interno. Con il tempo, però, Grillo e Davide dovranno gestire l’apparente contraddizione fra un partito che ha l’ambizione di favorire la «democrazia diretta» ma dove ormai si moltiplicano gli organismi direttivi: il direttorio, scelto interamente dall’alto, il comitato di appello sulle espulsioni, lo staff dei garanti per Roma, l’Associazione Rousseau e i responsabili delle funzioni della piattaforma omonima. Organismi dove numerosi nomi compaiono più volte, da Alessandro Di Battista a Roberto Fico, da Bugani a Borrelli. Altre domande inviate da "l’Espresso" a Davide, rimaste senza risposta. La prima: il Movimento si è sempre opposto all’accumulo di poltrone; tuttavia nell’organigramma molti nomi compaiono più volte; non trova sia una contraddizione? E ancora: alcuni dei presenti negli organigrammi, selezionati dalla Casaleggio, hanno avuto ruoli di primo piano nelle procedure di espulsione di attivisti o eletti; come giudica questo fatto? Infine c’è una delle questioni più annose, quella dei soldi. L’ha sollevata qualche settimana fa in un’intervista a "La Stampa" anche Marco Canestrari, uno dei collaboratori storici di Gianroberto, ormai uscito dalla Casaleggio. Del direttorio e della leadership di Luigi Di Maio ha detto: «Davvero qualcuno pensa che l’onorevole Di Maio smetterà di far politica a 37 anni, dopo due mandati? Hanno già creato un patto e una casta di intoccabili: tutto quello contro cui Gianroberto ci spingeva a lottare». Di Davide: «Non ha nessuna passione politica, a differenza del padre. (…) Vuole solo raggiungere gli obiettivi che si dà. Mancato Gianroberto, il Movimento rimane solo un asset dell’azienda: chi lavora sui portali, sul blog e su Rousseau è assunto dalla Casaleggio, ad essa risponde e lavora anche su altri progetti, estranei alla politica». Chi frequentava Casaleggio padre, racconta che lui ripeteva spesso di averci perso, con la politica, non guadagnato. Una qualche conferma si ha dal bilancio 2014, l’ultimo disponibile, che dopo il boom del 2013 mostra ricavi in calo da 2 a 1,5 milioni, nonché perdite per 151 mila euro. Eppure i siti collegati alla Casaleggio e al Movimento, sono numerosi e frequentati, anche grazie al forte uso di una strategia chiamata "clickbait", "esca da click" in inglese. Funziona così: sui social network vengono condivisi link con una titolazione dai toni allarmisti, in modo da spingere il lettore a cliccare. Così tre casi di intossicazione da tonno diventano "Allarme: non mangiatelo assolutamente potrebbe uccidervi", oppure il ricovero di Vittorio Sgarbi per una colica si trasforma in "Sgarbi, tragica notizia pochi minuti fa". Una tecnica che porta risultati concreti: TzeTze e LaFucina, i siti della Casaleggio che più di tutti ne fanno uso, ricavano oltre i tre quarti dei loro accessi proprio dalle condivisioni sulle bacheche degli utenti. A rendere virali queste notizie ci pensano le pagine Facebook, compresa quella di Beppe Grillo, gestite dai social media manager della società. Ecco perché le altre domande de "l’Espresso" a Davide: i ricavi generati dalla pubblicità sui siti legati al Movimento 5 Stelle, e in particolare di "Beppegrillo.it", producono in qualche modo dei ricavi anche per la Casaleggio Associati? Se sì, quale quota? E ancora: quali sono i ricavi della Casaleggio generati dai siti "tzetze.it", "lafucina.it", "la-cosa.it"? In mancanza di risposte, almeno al momento, non resta che affidarsi a qualche ipotesi, partendo dai dati di Google Adsense, la piattaforma che cura la pubblicità sui siti del sistema. Su TzeTze e LaFucina ogni settimana vengono visualizzate 3-4 milioni di "impression" (pubblicità), mentre il blog di Grillo da solo arriva a 5-10 milioni di spot a settimana. Passare da questi numeri ai dati dei ricavi, non è facile: una stima prudente per siti generalisti e di news permette di indicare tra i 50 centesimi e 1,5 euro di incassi ogni mille visualizzazioni, a cui vanno tolte le commissioni. Questi calcoli porterebbero a collocare tra i 300 e i 700 mila euro annui i ricavi del blog di Grillo e tra i 100 e 300 mila per TzeTze e poco meno per LaFucina. Se le stime fossero corrette, e se i soldi della pubblicità non finiscono altrove, come ipotizza qualcuno, ne verrebbe però una conseguenza. È cioè che la Casaleggio, pur senza arricchirsi, è sempre più un’azienda-partito. Perché tolti i soldi che arrivano dai siti grillini, di altro business ne resterebbe poco. Un bel guaio, per l’autonomia del Movimento. E forse anche per Davide.

M5s, la piattaforma Rousseau tra sogno e incubo. Un sistema operativo, ma soprattutto l'incarnazione di un sogno, quello di Gianroberto Casaleggio, di portare la democrazia digitale al cuore del funzionamento delle istituzioni. Ma i problemi di fondo restano gli stessi: scarsa trasparenza sulle procedure e un generale strapotere di "vertici" che in teoria non dovrebbero nemmeno esserci, scrive Fabio Chiusi il 28 giugno 2016 su "L'Espresso". Rousseau non è soltanto il “sistema operativo” del Movimento 5 Stelle, nelle mani di Davide Casaleggio.  È soprattutto l’incarnazione e la prosecuzione del sogno del padre-ideologo, Gianroberto, di andare oltre la forma partito e portare la democrazia diretta, nella sua veste digitale, al cuore del funzionamento delle istituzioni. Utopia, ma che i Cinque Stelle cercano di tradurre in prassi: consentendo agli oltre 120mila iscritti “certificati” di suggerire modifiche a proposte di legge dei loro rappresentanti (i cittadini-eletti), a livello regionale, nazionale ed europeo; permettendo loro di votare candidati (ed espulsioni); facilitando raccolte fondi per le iniziative del movimento (più di 270 mila euro, finora, da oltre 8.300 donatori). È un esperimento affascinante, un caso mondiale da studiare con attenzione. Ma se la piattaforma evolve, i problemi di fondo restano gli stessi denunciati da esperti, epurati e spesso dagli stessi partecipanti fin dagli esordi: codice proprietario e non aperto, scarsa trasparenza sulle procedure e un generale strapotere di “vertici” che in teoria non dovrebbero nemmeno esserci.

La tecnologia, certo, si può migliorare. Alcuni ci hanno già provato: lo testimoniano le esperienze del “Parlamento Elettronico” e del software “Sinapsi”, dei fuoriusciti. Ma il punto è sostanziale, ed è che non è affatto detto che la democrazia diretta, specie nella sua versione elettronica, sia una forma di governo migliore di quella attuale, rappresentativa. «Può sembrare un sogno che in Italia tutti i cittadini possano scrivere una legge da casa propria usando il computer», dice il deputato e responsabile Manlio Di Stefano; ma può sembrare anche un incubo, dato che non tutti nascono col piglio e l’acume del buon legislatore. Nel movimento lo sanno bene, ed ecco spiegato per esempio il “direttorio”. Ma quella del primato della “intelligenza collettiva” in Rete è una narrazione che ben si accompagna a una rivoluzione politica. Che poi funzioni, quello resta tutto da vedere.

M5S- Rousseau in attivo di 79mila euro, scrive Andrea Saviano il 3 Luglio 2017 su "Linea Press". Tempo di bilanci in casa 5stelle. Ad un anno dalla sua nascita, la piattaforma Rousseau chiude il suo primo esercizio con un avanzo di gestione pari a 79.676 euro.  Nel bilancio dell’associazione nata da un’iniziativa di Davide Casaleggio si legge che l’attività “dopo la costituzione del modesto fondo di dotazione iniziale di 300 euro, versato dai due associati fondatori, è finanziata esclusivamente con i contributi volontari delle persone che hanno deciso di sostenere il progetto”. Sono circa 405.155 euro i proventi dell’associazione e molti di questi –circa 360mila euro- sono contributi di persone fisiche, i restanti invece provengono da soggetti esteri.  Infine, alla voce oneri della gestione corrisponde una somma pari a 325.494 euro. Tra le spese più consistenti, nella relazione firmata da Casaleggio Jr, troviamo quelle per l’acquisto di servizi –circa 250.861 euro– e i costi del personale che si aggirano intorno ai 54.000 euro.

M5S, Rousseau guadagna: primo anno in attivo di 79mila euro, scrive Domenica 2 Luglio 2017 “Il Messaggero”. A poco più di un anno dalla sua fondazione, per Rousseau è tempo di bilanci. L'associazione nata su iniziativa di Davide Casaleggio e che gestisce il sistema operativo del Movimento 5 Stelle, ha chiuso il suo primo esercizio al 31 dicembre 2016 con un avanzo di gestione (e un patrimonio netto) pari a 79.676 euro.  Nel bilancio - redatto lo scorso 5 maggio da Casaleggio, che ricopre il ruolo di presidente e tesoriere di Rousseau - si legge che l'attività dell'associazione, «dopo la costituzione del modesto fondo di dotazione iniziale di 300 euro, versato dai due associati fondatori, è finanziata esclusivamente con i contributi volontari delle persone che hanno deciso di sostenere il progetto», versati tramite il sito sul conto corrente bancario e sul conto Paypal intestati all'associazione. Il rendiconto di esercizio rivela che i proventi della gestione caratteristica ammontano a 405.155 euro, dei quali circa 360mila rappresentano i contributi da persone fisiche. «I soggetti che hanno erogato i contributi nel 2016 sono numerosi e la maggior parte di essi hanno versato modesti importi di alcune decine di euro. I loro nominativi - spiega la relazione al rendiconto - sono elencati nell'apposito Registro delle Donazioni» tenuto dall'associazione. Sono pari a 30.514 euro i contributi ricevuti da Rousseau da «soggetti esteri»: di questi, 8.500 euro provengono da Filippo Pittarello, responsabile comunicazione M5S al Parlamento europeo ed ex dipendente della Casaleggio Associati. I contributi da persone fisiche di importo inferiore a 5mila euro ammontano a 360.341 euro, mentre l'Associazione M5S-Caltanissetta, con un versamento di 14mila euro, risulta l'unico soggetto politico erogatore. Alla voce oneri della gestione caratteristica corrisponde la cifra di 325.494 euro: tra le spese più consistenti troviamo quelle per l'acquisto di servizi (250.861 euro) e i costi del personale (53.437 euro), che conta 4 dipendenti, 3 part-time e uno a tempo pieno. Al 31 dicembre l'Associazione ha debiti per 128.835 euro, dei quali 113.604 verso fornitori.  Per il futuro, infine, si legge sempre nella relazione firmata da Casaleggio, «si prevede una gestione in linea con quanto fatto fino ad oggi, tesa a sviluppare la partecipazione alla piattaforma Rousseau, ampliando e promuovendo nuovi servizi dedicati agli iscritti».

Buffonata a Cinque Stelle: Di Maio sfidato dai sette nani. Primarie blindate per il pupillo di Grillo. È l'unico big in gara per la leadership e la candidatura a premier, scrive Pasquale Napolitano, Martedì 19/09/2017 su "Il Giornale". Missione compiuta: Luigi di Maio è il nuovo leader del M5s. Ieri alle 12 è scaduto il termine per partecipare alle primarie per la scelta del candidato premier del Movimento. In corsa, esclusa la provocazione di Roberto Saviano che non ha i requisiti per prendere parte alla consultazione, ci sono Di Maio e sette candidati: Cicchetti Vincenzo, Fattori Elena, Frallicciardi Andrea Davide, Ispirato Domenico, Novi Gianmarco, Piseddu Nadia, Zordan Marco. Un po' come la favola di Biancaneve e i sette nani con un lieto fine scontato. Da Roberto Fico ad Alessandro Di Battista: tutti i big del Movimento hanno rinunciato alla corsa. Come da copione, la strada per l'investitura di Di Maio è in discesa. Certamente, l'uscita dell'autore di Gomorra condizionerà il voto ma non è in grado di insidiare la vittoria del vicepresidente della Camera. E anche i sette sfidanti sconosciuti serviranno solo a dare una forma di democrazia a una consultazione farsa. Eppure, il M5s in un post difende la consultazione fantasma: «Sarebbero stati tutti più contenti se avessimo deciso una rosa farlocca da presentare per inventarci una competizione che soddisfacesse la sete di quotidiani e di tg. Ma per favore. Ma per favore, prendetevi un po' di realtà ogni tanto!». Beppe Grillo, giunto ieri a Roma per placare le proteste dell'ala ortodossa, guidata da Roberto Fico, si prepara a consegnare le chiavi del M5s a Luigi di Maio. Perché il nuovo regolamento, varato per scegliere l'uomo che correrà per Palazzo Chigi sotto il simbolo del M5s, prevede che il candidato premier sia anche il leader della forza politica. Per la deputata Roberta Lombardi è un passaggio ovvio: «Che il candidato premier sia anche il capo politico è naturale, lo prevede anche la legge. Ieri era Beppe Grillo, oggi il futuro candidato premier, domani potrai essere anche tu. Questa è la forza del M5s». La consegna ufficiale delle chiavi del Movimento a Di Maio andrà in scena a Rimini, in occasione dell'evento «Italia a 5 stelle», dal 22 al 24 settembre. Dallo stesso palco, Alessandro Di Battista racconterà alla platea le ragioni del suo ritiro dalla corsa: «Le ragioni le spiegherò durante il mio intervento sabato prossimo a Rimini. Tra poco si inizierà a votare e invito alla massima partecipazione. A colui che sarà candidato faccio un grande in bocca al lupo ricordandogli che avrà un compito meraviglioso: quello di portare avanti il programma votato da migliaia di iscritti». Incassata l'investitura, il neoleader del M5s proverà a blindare il Movimento, plasmandolo a propria immagine e somiglianza. C'è un passaggio nel regolamento che rischia di far implodere il M5s. Non è il via libera per gli indagati: già per l'inchiesta a carico del sindaco di Roma Virginia Raggi, Grillo aveva archiviato la stagione giustizialista. Ma il punto contestato è la facoltà, riconosciuta al leader della forza politica (Di Maio), di individuare i criteri per la selezione di candidati di Camera e Senato alle prossime elezioni. Di Maio sa bene di avere scarse possibilità di approdare a Palazzo Chigi. Ecco il piano b: il candidato premier punterà ad avere carta bianca per la composizione delle liste. Nulla di diverso rispetto a ciò che accade nel Pd o in altri partiti. La missione di Di Maio cambia obiettivo: epurare le liste di candidati dell'ala ortodossa e formare un gruppo parlamentare che risponda solo alla sua linea politica. Insomma, una rottamazione in salsa grillina. Da tempo gli uomini del numero due di Montecitorio stanno portando avanti un'operazione di reclutamento tra ordini professionali, mondo dell'associazionismo e gruppi bancari per scegliere personalità da calare nelle liste. Baypassando le vecchie norme. E gli attivisti storici? I ragazzi dei banchetti? Tutti a casa. L'odore del Palazzo sta dirottando il Movimento verso una prospettiva politica nuova. E Di Maio è l'incarnazione del «nuovo» corso. La svolta non convince la base ma non importa. Di Maio si sente già leader e tira dritto per la sua strada. Con tanto di corte al seguito.

DI Maio dice sì: “Pronto a fare il premier”. Ma nel movimento è rivolta, scrive 16 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Polemica tra militanti e parlamentari M5S dopo la scelta di modificare lo statuto a favore del vicepresidente della Camera. “Oggi ho accettato la mia candidatura a Premier per il Movimento 5 Stelle”. Sceglie il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio per fare sapere di essere pronto a fare il premier. Di Maio prosegue: “Come tanti di voi ho iniziato questo percorso 10 anni fa, l’8 settembre del 2007 con un banchetto. All’inizio non volevamo neanche entrare nelle istituzioni, pensavamo che bastasse proporre alla politica progetti validi per essere ascoltati. Ma ci hanno ignorati. Per questo abbiamo deciso di entrare nelle istituzioni dall’opposizione per far conoscere al Paese il loro indegno modo di gestire la cosa pubblica. E hanno passato il tempo a deriderci. Quando il Movimento 5 Stelle è diventato la prima forza politica del Paese, hanno avuto paura e hanno iniziato a combatterci con tutto il potere mediatico e politico che avevano a disposizione. Siamo ancora qui, più forti di prima. E ora dobbiamo completare l’opera: andiamo a Palazzo Chigi e facciamo risorgere l’italia. Oggi ho accettato la mia candidatura a Premier per il Movimento 5 Stelle. “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”. Ma nel movimento è polemica. All’indomani della pubblicazione sul blog di Beppe Grillo delle regole per la premiership, i deputati 5 stelle hanno infatti iniziato a dire la loro sulle bacheche di Facebook. E non sempre con toni di approvazione. Il deputato M5S Luigi Gallo inizia il suo post con uno dei punti che già hanno scatenato malumori e perplessità: il fatto che il candidato premier diventerà il Capo politico del Movimento. E così, in attesa ancora di sapere se ci saranno altri in corsa per il ruolo di candidato premier, Gallo scrive: “Dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo al Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio. A voi i commenti!”. E spiega: “E’ quello che accadrà con la prossima votazione degli iscritti del M5S. E’ per questo che tutti gli iscritti devono sapere quali sono i poteri del capo del movimento 5 stelle definiti dal regolamento interno. Li sintetizzo: il capo politico del MoVimento 5 Stelle indice le votazioni in rete; sceglie i temi da mettere in votazione, definisce le regole per le candidature nazionali e locali degli iscritti del M5S; ha il potere di ripetere una votazione per le modifiche del non statuto e del regolamento interno e ripetere votazioni.

M5S, Di Maio unico "big" in corsa da premier. Contro di lui sette candidati minori. Di Battista e Fico rinunciano, il vicepresidente della Camera sfidato da altri sette iscritti non notissimi. Da una senatrice che ieri ringraziava Di Maio di essere sceso in campo, a un ex consigliere comunale di Monza; da un assemblatore di pc a un perito elettronico. Grillo a Roma per placare gli ortodossi, show contro i giornalisti che lo costringono a essere "recluso" in albergo. Il Financial Times: "Scarsa trasparenza dei capi del Movimento". Pd all'attacco: "Buffonarie finite prima di iniziare". E Roberto Saviano: "Allora mi candido io", scrive il 18 settembre 2017 "La Repubblica". Da imbattibile super-favorito a imbattibile per assenza di avversari "alla sua altezza": scaduto il termine per l'invio delle candidature, Luigi Di Maio resta per ora l'unico "big" in corsa per le primarie del M5S. A metà pomeriggio, il blog del Capo rende noti i nomi di altri sette possibili concorrenti, esponenti poco noti del Movimento: da Giammarco Novi, un ex consigliere comunale di Monza che si propone pubblicamente con una video-candidatura, alla senatrice Elena Fattori, che appena ieri sulla sua pagina Fb ringraziava Di Maio per essere sceso in campo, e Vincenzo Cicchetti, già candidato sindaco di Riccione, Andrea Davide Frallicciardi, perito elettronico ed ex consigliere comunale di Figline Valdarno, Domenico Ispirato, ex consigliere circoscrizionale a Verona, Nadia Piseddu, candidata a sindaco di Vignola, Marco Zordan, artigiano di Arzignano, provincia di Vicenza. Alle 12 si sono chiuse le votazioni, ma nessuno dei leader pentastellati di peso si è fatto ufficialmente avanti per sfidare il vicepresidente della Camera. Né, a metà pomeriggio, sono stati resi noti sfidanti credibili. Lo stesso Alessandro Di Battista su Facebook aveva ribadito di non voler correre: "È la scelta giusta. Tra poco si inizierà a votare e invito alla massima partecipazione". Aveva rinunciato definitivamente a candidarsi anche Roberto Fico, esponente dell'ala ortodossa e in dissenso con la regola secondo cui il vincitore delle primarie sarà anche il capo politico del M5S, ruolo finora tenuto da Grillo. Un dissenso che Beppe Grillo, arrivato ieri sera a Roma, proverà a placare incontrando probabilmente lo stesso Fico, che paventa il rischio che una serie di poteri sia accentrata non più nel "garante" ma in un suo esponente, presumendo così un conflitto di interessi. Un tema ripreso anche dal Financial Times, che dedica un'intera pagina alla "scarsa trasparenza" dei capi del M5S, in riferimento a Davide Casaleggio e al ruolo della sua società all'interno del Movimento. Ruolo che, secondo quanto sostiene il principale quotidiano economico britannico, sarebbe "coperto da segretezza". Nell'attesa, il leader prende in giro i molti giornalisti in attesa sotto il suo abituale albergo romano, calando delle lenzuola annodate come se fosse un recluso. In compenso, a rompere gli schemi nell'ombra del voto 5 Stelle arriva Roberto Saviano che lancia la sua provocazione: "Mi candido anche io a possibile premier per i Cinquestelle". E lui, Luigi Di Maio, rifugge da ogni dichiarazione da candidato superfavorito dagli altrui dinieghi: "Della questione della candidatura parlo solo a Italia 5 stelle, (il meeting M5s convocato a Rimini dal 22 settembre ndr) per ora sono impegnato in Sicilia per sostenere la candidatura di Cancelleri a governatore della Sicilia. Dobbiamo vincere in questa Regione e come primo atto dobbiamo tagliare vitalizi e stipendi. Di tutto il resto parlerò a Rimini, sì, parleremo tutti lì" dichiara frettoloso oggi pomeriggio a Catania dopo le tappe di Linguaglossa e Castiglione di Sicilia, nella provincia etnea. Silenti anche altri possibili avversari di peso, Barbara Lezzi e Nicola Morra. Fuori dai giochi anche Roberta Lombardi, che venerdì ha annunciato ufficialmente su Facebook la sua candidatura alla presidenza della Regione Lazio nel 2018. Mentre un altro potenziale avversario di Di Maio, Carlo Sibilia, si fa da parte augurando "in bocca al lupo" a chi correrà alle primarie e richiamando il Movimento delle origini. In serata, poi, su Facebook, un post del M5s difende la trasparenza delle primarie: "I giornali volevano delle primarie fiction, noi gli abbiamo dato la realtà!...Per i giornali ogni scusa è buona per parlare male del M5S e in queste ore discettano sulla qualità del voto per la candidatura a premier del M5S. Candidarsi alla guida del Paese è una grande, enorme responsabilità e tanto di cappello per chiunque ha deciso di mettersi in gioco. Il più grande in bocca al lupo di tutto il M5S". Poi una dura critica al Partito democratico: "Tutti sanno come funzionano certe primarie, ad esempio quelle del Pd: c'è un candidato sostenuto dal partito e gli altri pescati dentro (per simulare un vero e proprio match), ai quali viene garantita una quota specifica di voti, giusto perchè perdano con dignità riuscendo a restare capi della loro piccola corrente. Le primarie del Pd servono a pesarsi e poi a riposizionarsi dentro al partito e nelle correnti. È una fiction, ma contenti loro. Da noi questo non esiste, nessuno deve pesarsi, nessuno deve spartirsi quote di potere". Il Pd riparte all'attacco con il senatore Stefano Esposito che, rilanciando su Twitter gli hashtag #unovaleuno e #buffonarie, commenta: primarie per il candidato premier del #m5s sono finite prima di iniziare. @luigidimaio candidato unico. #democrazia#unovaleuno #buffonarie. Di rincalzo il suo collega d'aula Andrea Marcucci aggiunge: "Le primarie del M5S organizzate come in Corea del Nord. Di Maio non avrà contro veri concorrenti. È una colossale presa in giro". "Di Maio come Kim Jong-un", gli fa eco il deputato Giacomo Portas. Mentre Matteo Richetti, portavoce nazionale dei Democratici, osserva: "Il tramonto del confronto dentro al M5S è una pessima notizia". Ma in coda alle polemiche interne c'è un'altra ombra all'orizzonte delle primarie, quella dei ricorsi. "Le regole violano l'art.7 del 'Non Statuto' sul punto degli indagati e il codice civile vietando a chi ha fatto causa al Garante di candidarsi", spiega l'avvocato Lorenzo Borrè rivelando di essere stato contattato, in via precauzionale, già da diversi iscritti. E Borré oggi sarà al Tribunale di Palermo, chiamato a decidere se confermare o meno il congelamento delle Regionarie in Sicilia dopo il ricorso di Mauro Giulivi. L'Isola dove, anche ieri, è tornato il candidato premier in pectore Di Maio, a testimonianza di una partita che si preannuncia più difficile del previsto.

La provocazione di Roberto Saviano: "Mi candido a premier per i 5 Stelle". Lo scrittore in un post su Fb: "Lo faccio anche per trarre il MoVimento dall'impaccio di una situazione patetica per non dire bulgara. Per spezzare una lancia in mio favore, ammetto di non essere iscritto ma condivido con Di Maio lo status di indagato per diffamazione (incidenti del mestiere)", scrive il 18 settembre 2017 "La Repubblica". "Votatemi". Lo scrittore Roberto Saviano si candida a premier per i 5 Stelle. Una provocazione che, spiega lui stesso in un post sui social, "è ispirata a Marco Pannella e alla sua capacità di sorprendere e sparigliare le polverose strutture della politica tradizionale". "Questa mattina mi sono svegliato con il desiderio di omaggiare Marco Pannella. Nel 2007 si candidò alle primarie del PD ma fu escluso perché non soddisfaceva i requisiti richiesti dal neonato Partito democratico. Ebbene, approfitto di questa sede per ufficializzare la mia candidatura a premier per il M5S. Lo faccio anche per trarre il MoVimento dall'impaccio di una situazione patetica per non dire bulgara. Per spezzare una lancia in mio favore, ammetto di non essere iscritto al MoVimento, ma condivido con Luigi Di Maio lo status di indagato per diffamazione (incidenti del mestiere). Votatemi!", così scrive Saviano. Così l'autore di "Gomorra" provoca una scossa alla votazione degli iscritti M5s per designare il loro ideale candidato premier. L'unico a farsi avanti, fino a metà pomeriggio - e con tutti gli altri big che si erano defilati per tempo - è stato Luigi Di Maio. A rigore di regolamento, Saviano non risulta iscritto ai 5Stelle e poi la possibilità di presentare le candidature si chiudeva alle 12 di oggi, dunque poche chance di essere accettato. Ma anche lo stesso Grillo, con una iniziativa di rottura, provò a candidarsi alle primarie di Pd, nel 2009, contro Bersani, Franceschini e Ignazio Marino. "Offro un'alternativa al nulla", così motivò la sua campagna, che non potè portare a termine perchè il partito decretò, come nel caso di Pannella, "che non aveva i requisiti". Uno dei pochissimi a sostenerlo fu Di Pietro.

Lobbisti, amicizie e quella fidanzata: così Luigi Di Maio ha dato la scalata al M5S. Appena eletto in Parlamento era "il cucciolo". Ha assunto la più alta carica politico-istituzionale possibile per il Movimento. Ora viaggia verso Palazzo Chigi. Ma non è solo: intorno a lui parlamentari, comunicatori, lobbisti. E soprattutto Silvia Virgulti, la potente e misteriosa donna del capo, scrive Susanna Turco il 18 settembre 2017 su "L'Espresso". Appena eletto, per via dei suoi ventisei anni, lo chiamavano “il cucciolo”: un nomignolo fuori luogo. Perché Luigi Di Maio, il virgulto magico dell’M5S, un cucciolo non lo è stato mai. A ventun anni, nel 2008, da iscritto a Giurisprudenza e sconosciuto fondatore di una associazione studentesca Di Maio riuscì nel colpaccio di intervistare un signore dall’agenda tutt’altro che vuota: il prefetto di ferro Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, in quel momento commissario per i rifiuti in Campania. Uno sprovveduto, insomma, almeno per capacità di relazioni, Giggino da Pomigliano d’Arco non lo era neanche allora. E adesso che - con la festa a Cinque stelle di Rimini e l’indicazione che sarà il candidato premier del Movimento (nessun altro pentastellato si è candidato per il ruolo) - si appresta a coronare la conquista di un ruolo al quale ha lavorato per un quinquennio; solo adesso si può abbracciare in un sol colpo l’implacabile ambizione grazie alla quale è riuscito - senza troppo darlo a vedere e anzi rendendo il risultato scontato, persino banale - a scalare il Movimento Cinque stelle fino a farne una creatura tutta Di Maio-oriented. A mangiarselo in un bel boccone, l’M5S: altro che cucciolo.

L'ARTE DEL TRAMPOLINO. «A molti studenti è stato fatto credere che la politica universitaria fosse il trampolino di lancio per la politica in generale, quella che vediamo in tv», invece «l’importante è l’esperienza della partecipazione, poi è un percorso naturale». Ecco, quando nell’inverno 2013 da studente impegnato si candida per la Camera e parla così in un video forum, Di Maio ha già chiarissima la dinamica del trampolino: dall’università al Movimento, in quel caso. Ce l’ha chiara e la nega. Trampolino io, ma quando mai. «Quando ho visto i fuori onda di Favia e Salsi, ho pensato che volessero usare il Movimento come trampolino», rimarca ad Avvenire, nella sua prima intervista da candidato M5S. Niente trampolini, proclama lui. Il percorso deve essere “naturale”. Proprio come gli è “venuto naturale”, anni dopo, fidanzarsi con la sua attuale (e fondamentale) compagna, Silvia Virgulti. Naturalmente, quindi, e non per calcolo, nell’inverno 2013 grazie a quella che nel libro sui Cinque stelle di Biondo e Canestrari (Supernova) è definita una «meticolosa conoscenza dei regolamenti parlamentari», Di Maio agguanta una delle tre chiavi del suo successo: il ruolo di vicepresidente della Camera. L’incarico più importante nel M5S, che gli consente uno staff, una segreteria e insomma di avere più potere, autonomia. E di averceli a prescindere dai diktat di Grillo e di Casaleggio: dei quali diventa, al contrario, un punto di riferimento, una voce ascoltata. «Di Maio è fantastico», dice Grillo a Renzi un anno dopo, quando nell’inverno 2014 si incontrano al tavolone delle consultazioni per il governo. Di lì a poco Di Maio spiccherà il volo: a giugno di quell’anno sarà il capo delegazione a Cinque stelle che tratta con il premier sulla legge elettorale, non lo ferma più nessuno. Comandano i fondatori del Movimento, certo, ma le regole le detta lui. «Vogliamo cambiare le cose. Ma dal di dentro. Non vogliamo stravolgere le cariche istituzionali», era stata del resto la sua prima dichiarazione da vicepresidente della Camera.

IL GASTEROPODE. E così, rannicchiato dentro il Movimento come un gasteropode, come una lumaca democristiana dentro il guscio grillino, il giovane virgulto Luigi Di Maio si costruisce la sua fortezza. Un sistema di relazioni, dentro e fuori M5S. Dentro, si mette vicino quelli che contano qualcosa e disobbediscono zero, instaurando peraltro un circolo che si può definire persino virtuoso, nel suo genere. Vale a dire: chi conta qualcosa sta con Di Maio, e forse anche per questo continua a contare, o almeno va un po’ più in televisione. Non è nemmeno difficile: a volte, per entrare nelle grazie, è sufficiente cedere all’aspirante leader le proprie buone idee. È ancor più che vecchia politica: è solida e antica tradizione modello Re Sole. Tra i fedelissimi di antico conio vi è Alfonso Bonafede, avvocato, che è rimasto vicepresidente della commissione Giustizia pure nella seconda metà della legislatura, nonostante gli sia cambiato il mondo intorno. Come anche il segretario in ufficio di presidenza per i Cinque stelle, Riccardo Fraccaro, uomo di contatto con le aziende partecipate e i lobbisti in genere, papabile come eventuale ministro della democrazia diretta in un futuribile governo a Cinque stelle, e talmente incline al contraddittorio da rispondere «che ne pensi?» a qualsiasi domanda. Ci sono Danilo Toninelli, uomo chiave per tutte le faccende di legge elettorale, o Mattia Fantinati, al Senato Nunzia Catalfo. Ovviamente ci sono gli emergenti sul territorio: Cancelleri in Sicilia, ma anche Berti in Veneto, Alice Salvatore in Liguria, Buffagni in Lombardia. Tra i nuovi ingressi, la piemontese Laura Castelli, che è la tesoriera del gruppo Camera: quella che giusto nell’ultimo anno si è vista esplodere sotto il naso, fino a un +375 per cento, le spese destinate alla comunicazione del gruppo, cioè soprattutto alla comunicazione di Di Maio. Perché mentre da fuori il movimento muta, e gli attivisti diventano fan, da dentro l’asse principale, il crocevia, il metro, diventa lui solo. Altri due elementi sono fondamentali, a determinare questo disegno: il patto di non belligeranza con Alessandro Di Battista, che sarebbe poi l’unico in grado di contendergli la leadership; e, fondamentale, l’arrivo della Virgulti. Un ciclone, nella vita del non cucciolo di Pomigliano d’Arco. Arrivata alla Casaleggio attraverso i fratelli Pittarello, spedita a inizio 2014 da Gianroberto a fare la coach tv ai parlamentari e poi stabilizzata all’ufficio comunicazione della Camera, Virgulti è una misteriosa e intoccabile divinità laica del Movimento. Perché è la donna del capo, ma non solo. Laureata in glottologia, esperta di Programmazione neurolinguistica, e coautrice di un corso d’inglese nel quale si applicano alcuni grandi classici manipolativi di quella controversa teoria, contiene in sé molti dei contraddittori elementi del mondo grillino. Tra il new age e l’iper tecnologico, tra l’animalista e il moderato no vax, Virgulti risulta ad esempio curiosamente nella lista delle “mujeresquedespiertan” (donne che risvegliano) come pure delle Moon Mother italiane, cioè è, citiamo dal sito, «una donna che ha sentito nel cuore il richiamo a farsi tramite per la vibrazione del Divino Femminile condivisa durante la Benedizione Mondiale del Grembo» e che la trasmette «personalmente ad altre donne per facilitare il loro risveglio e la loro guarigione profonda». Quando non pensa alla vibrazione del Divino femminile, Virgulti si perita di eliminare le proprie tracce dalla rete: l’ultima volta, la settimana passata, cancellando da Facebook ogni traccia del proprio profilo; ma anche del suo blog sull’inglese non vi è più alcun segno. Di Maio poi non potrebbe fare a meno di quella che forse è l’ultima metamorfosi che lo porta al suo profilo attuale. Vale a dire, il consigliere per le relazioni istituzionali Vincenzo Spadafora: suo uomo ombra dal 2016 e terza chiave di volta del virgulto magico, pure lui campano e senza laurea, trasversale oltre ogni immaginazione (nato con Rutelli e Pecoraro Scanio, nominato garante per l’infanzia da Fini e Schifani, nel mezzo presidente all’Unicef) fondamentale per tessere la rete nazional-internazionale e organizzare tutti i viaggi di peso dell’aspirante leader: la trasferta a Londra, il viaggio in Israele, l’incontro all’Ash Center di Harvard della scorsa primavera, e via elencando accreditamenti che Di Maio, tramite Spadafora, ha realizzato come rappresentante del Movimento, pur senza avere alcuno specifico mandato. Un lavorio che sta dando i suoi frutti e che è già valso per Spadafora un eventuale posto a Palazzo Chigi. A tutto svantaggio di un personaggio pur potente nel movimento come Rocco Casalino, che contrariamente alle aspettative sarebbe destinato a rimaner fuori dal governo. O almeno così dicono.

Silenziosi, obbedienti e sempre allerta: ecco i due fedelissimi di Luigi Di Maio. Sempre un passo indietro al vicepresidente della Camera, con lui nella gestione degli enti locali, da commissari al Campidoglio sono occhi e orecchie di Grillo e Casaleggio sui tormenti della Raggi. Ve li raccontiamo, scrive Susanna Turco il 19 luglio 2017 su "L'Espresso". Sono talmente una accoppiata fissa che ormai li chiamano “il gatto e la volpe” di quella specie di direttorio di fatto che ha preso il posto dei precedenti (falliti per dilaniazione). I deputati M5S e avvocati Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, esatta incarnazione del “sistema Di Maio” (così lo chiamano gli ortodossi), sono probabilmente il prototipo del perfetto grillino di palazzo. Si distinguono infatti per obbedienza assoluta e indefettibile, non rischiano di far ombra a nessuno. Sempre un passo indietro al vicepresidente della Camera, con lui nella gestione degli enti locali, da commissari al Campidoglio sono occhi e orecchie di Grillo e Casaleggio sui tormenti della Raggi. Da ultimo li si vede un po’ in tv, per il resto prosperano nell’invisibilità: niente moti spontanei, zero accenni di identità individuali. Qualche traccia di Bonafede, fiorentino di origini trapanesi, due figli, già candidato sindaco contro Renzi (prese l’1,9 per cento), grillino della prima ora (era il 2006). Ancora più riservato Riccardo Fraccaro, trevigiano di Montebelluna, patito della democrazia diretta al punto che si ipotizza ritagliare per lui un ministero apposito (della democrazia diretta, appunto): cortesissimo, la sua specialità è rispondere «che ne pensi?» a qualsiasi domanda. Fece così anche quando saltarono fuori i legami tra Marra e Scarpellini: Fraccaro, che pure aveva fatto battaglia contro gli esosi affitti pagati dalla Camera per i palazzi del costruttore, anche in quel caso rispose, a tutti, «e tu come la vedi?».

Io, ex M5S, vi spiego perché le "gigginarie" sono una pagliacciata. "Queste votazioni non sono mai state una cosa seria. E anche chi avesse voluto candidarsi contro Luigi Di Maio per fermare la deriva dei 5 Stelle sarebbe stato ricoperto di fango e poi bloccato, come già successo". Lo sfogo di un ex consigliere comunale grillino, ora critico con il Movimento, scrive Vittorio Bertola il 18 settembre 2017 su "L'Espresso". Scrivo questo post per ringraziare tutti quelli che, con la massima serietà, mi hanno incoraggiato in questi giorni a partecipare alle "gigginarie", le votazioni per nominare ufficialmente come futuro premier del Movimento 5 Stelle il "candidato naturale" Luigi Di Maio, l'unico italiano che ha già una pensione prima ancora di aver finito gli studi. Sono tanti, tra cui persone di grande valore, molti di quelli che hanno fondato il M5S in varie parti d'Italia, per poi diventare, come me, dei fuoriusciti o dei critici pensanti; e mi ha fatto piacere che abbiano pensato a me, uno dei pochi critici tecnicamente in regola per candidarsi, come possibile rappresentante della delusione collettiva. Ho tuttavia deciso che non fosse il caso di presentare la mia candidatura, e vi spiego perché. Intanto, io sono una persona seria, per cui, paradossalmente, avrei potuto accettare più facilmente se le gigginarie fossero state una cosa seria. Cioé, non l'avrei fatto comunque per scelta personale, perché la passione per la politica resta ma prima vengono il mio lavoro e la mia famiglia, che ho sacrificato per troppi anni; per motivi politici, perché comunque non ho alcuna intenzione di rimettere la mia faccia al servizio di ciò che il M5S è diventato oggi, nemmeno come oppositore interno; e perché non so che competenze abbia io per fare il presidente del consiglio (però, se lo può fare Di Maio lo può fare chiunque). Tuttavia, candidarsi con la possibilità concreta di rovesciare la deriva del Movimento 5 Stelle verso un partito qualunque, di riportarlo ai principi originari, di cacciare i mediocri che ne hanno preso il controllo e gli esagitati che ne sono i pretoriani in rete, o perlomeno di avviare un dibattito serio con la base, di provocare un sussulto di coscienza negli ex cittadini attivi ora diventati militanti, avrebbe avuto un senso. Ma questa possibilità non c'è, e questo è evidente - oltre che dai precedenti, vedi il caso di Genova - da come è stata concepita tutta l'operazione: con l'annuncio il venerdì pomeriggio per il lunedì mattina, senza alcun preavviso, senza alcuna indicazione di cosa sarebbe successo dopo, senza comunque il tempo per alcun tipo di approfondita discussione collettiva, visto che già si era detto che sabato prossimo sarebbe stato tutto finito. Se anche io o qualsiasi altro candidato davvero alternativo ci fossimo messi in gioco, anche solo per provocazione, avrebbero trovato una scusa per escluderci; o peggio ci avrebbero fatto correre in una gara truccata, in cui prima ci avrebbero rovesciato addosso una tonnellata di fango, descrivendoci come rosicatori in cerca di visibilità o di un contentino, e poi ci avrebbero sottoposti al gioco di una piattaforma priva di trasparenza, frequentata ormai quasi solo da squadristi da social e truppe in carriera; e infine, dopo averci concesso dieci voti in tutto, ci avrebbero usati per legittimare la nomina di Di Maio, già decisa dall'alto da un pezzo. Con questa gente ho, abbiamo già perso troppo tempo: non vale la pena nemmeno di partecipare al voto. Si facciano la loro strada da soli, chiusi in un circoletto di mediocrità, di ambizioni sproporzionate alle capacità, di complottismi, di propaganda e di rabbia popolare montata ad arte, con cui nessuna persona dotata di un minimo di raziocinio e di credibilità vuole più avere a che fare (l'avete letta la lista dei "grandi artisti" di Rimini?). Forse troveranno all'ultimo altri candidati semisconosciuti per fingere una democrazia di cartone, ma la votazione per acclamazione di un candidato unico, il perfetto contrario della partecipazione popolare attiva, sarebbe un ottimo simbolo per smascherare il loro inganno. Magari, nel triste panorama politico dell'Italia odierna, Di Maio e soci andranno anche al governo, regalandoci inferni lastricati di buone intenzioni, diktat ideologici da stato libero di Bananas, e disastri su scala nazionale. Ma non avranno la soddisfazione di poter dire che, ancora una volta, sono riusciti a sfruttare le energie e le intelligenze dei cittadini e degli attivisti di un tempo per legittimare la propria personale scalata al potere. *Vittorio Bertola è stato consigliere comunale a Torino per il Movimento 5 Stelle. Questo post è stato prima pubblicato sulla pagina Facebook di Bertola e poi, con l'autorizzazione dell'autore, riprodotto sull'Espresso.

Un libro svela i segreti M5S: cinici, carrieristi e venali, scrive l'8 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno". “Ridurre quel sogno di movimento popolare che era il progetto Cinque Stelle in una Forza Italia 2.0 è stato forse uno dei delitti politici più efferati di questi ultimi anni”. Le rivelazioni di due ex del M5S: le cattiverie su Casaleggio, il “mistero” Di Maio, ed i denti sbiancati per andare in tv…. Dopo esattamente dieci anni dal primo “Vaffa Day” di Beppe Grillo e del M5S, arriva “Supernova, come è stato ucciso il Movimento 5 Stelle” “un libro scritto dai due ex Nicola Biondo, già capo dell’ufficio comunicazione M5S alla Camera dei Deputati, e dall’informatico Marco Canestrari dipendente della Casaleggio Associati fino al 2010, che svelano su com’è stato “ucciso” il M5s. “Noi ci siamo stati. Abbiamo visto. Sappiamo. E, adesso, raccontiamo”.  Ne viene fuori un viaggio interno al movimento, con testimonianze inedite, che rivela come il M5sabbia “tradito uno per uno i suoi principi, trasformandosi in un partito taxi, uno strumento per la carriera personale, nel massimo dell’autoritarismo possibile” per fondare “una nuova leadership che mandi in soffitta i fondatori Grillo e Casaleggio”. Un viaggio “nella casta degli anticasta che potrebbe governare l’Italia tra pochi mesi”. Questi i passaggi più “gustosi” dal libro.

GIANROBERTO È PAZZO. All’inizio, Grillo inviava i testi via fax alla Casaleggio e lì venivano corretti e pubblicati. Presto però il guru prende in mano il blog e «diventa l’ideatore di quasi tutte le campagne proposte da Grillo». Di lui il comico dice a Canestrari: «È pazzo! È completamente pazzo!».

«IO SONO COME LICIO GELLI E CUCCIA». La frase di Gianroberto Casaleggio quando, nel 2007, cura la comunicazione dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. «Io sono come un Licio Gelli buono, ma riservato come Cuccia. Se riesco a portare Di Pietro al 10% il Paese cambia».

IL BOOM DEL 2013: «E ORA COSA FACCIAMO?» La telefonata di Grillo a Casaleggio la mattina dopo che il M5s prende il 25% alle politiche del 2013. «Pronto, Beppe?». «Gianroberto, sono io. Abbiamo vinto. E adesso cosa facciamo?». Istrionico, ma anche svuotato dopo un tour massacrante, Grillo non aveva la minima intenzione di scendere a Roma, e voleva restare nella sua casa di Sant’Ilario, «a curare l’orto: ho la lattuga che mi scappa da tutte le parti».

I PARLAMENTARI M5S? «NON SONO ALL’ALTEZZA». A preoccupare i due fondatori era il gruppo parlamentare. «Abbiamo un dieci per cento di Scilipoti…» dice Grillo. «Il gruppo parlamentare non è all’altezza. Non potevamo candidare persone molto brave ma già elette negli enti locali. Le elezioni ci hanno colto di sorpresa e le nostre liste sono state riempite alla rinfusa» confida invece Casaleggio a Nicola Biondo. «Loro sono lì per il MoVimento, non devono fare politica, non tocca a loro, sono solo lo strumento di un programma e devono rispettare le regole che hanno sottoscritto. Grazie al MoVimento hanno avuto uno stipendio e un minimo di visibilità, chi non ci sta si accomodi fuori».

FRANCESCANI DA 13MILA EURO AL MESE. Inizi di maggio 2014. «Poche sere fa Beppe era a Roma. Eravamo a cena. Incalzato da una serie di racconti di alcuni miei colleghi, ha detto una cosa che mi ha lasciato stupefatta. Con la vita di merda che fate a Roma, tremila euro sono pochi. Se oggi qualcuno mettesse a paragone l’entità delle restituzioni di quel periodo con quelle odierne, capirebbe tutto. Le rendicontazioni prive di qualsiasi controllo e autoreferenziali sono insieme arma e luogo del delitto del francescanesimo, della lotta ai privilegi, del MoVimento. Oggi quasi tutti i parlamentari hanno uno stipendio in busta di circa tremila euro ma ne percepiscono tra i settemila e i diecimila al mese per le spese. E si definiscono francescani…».

DI MAIO: «QUANDO SARÒ A PALAZZO CHIGI…». «Nel 2015, io e Di Maio decidemmo di andare alla mensa di Piazza San Silvestro e passammo quindi sotto Palazzo Chigi. Luigi puntò l’indice verso il balcone. Quando saremo lì disse sorridendo tu verrai con me, non mi fido di lasciarti a Montecitorio Il ragazzo aveva le idee chiare. Fin da subito».

LO SBIANCAMENTO DENTALE. Racconta Dario Tamburrano, europarlamentare M5s, di professione dentista: «Rocco Casalino (capo comunicazione al Senato, ndr) mi ha portato in studio un sacco di parlamentari. Per tutti sbiancamento dei denti e cura delle carie. Per me va bene, ma quel fare untuoso, questa cura davvero eccessiva della forma. Mi sbaglierò, ma sento una strana aria in giro». Dalla rivoluzione morale allo sbiancamento dentale.

FICO: «SIAMO VENDITORI DI SLOGAN». Il deputato Roberto Fico, sbotta in privato con Nicola Biondo: «Ma dove stiamo andando? Che cosa stiamo diventando? Stiamo diventando venditori di slogan, buffoni da mettere davanti alle telecamere. Non è questo quello che dobbiamo fare…».

LA SCALATA DI LUIGINO. Il suo mondo si divide «tra chi è sfigato e chi non lo è», parole sue. Sinonimi di sfigato: chi critica, chi non veste in giacca e cravatta, chi nutre dubbi. Racconta un insider grillino: «L’arma vincente della scalata di Di Maio è stata quella di escludere ogni discussione dal gruppo parlamentare. O sei con lui o sei contro, in un brutto alone di omertà, che poco ha a che fare con l’Onestà». Di Maio governa col do ut des. È molto riconoscente con chi gli riferisce pettegolezzi interni al Movimento. «Racconta una storia interna al Rampollo e raggiungerai il paradiso per sempre entrando nelle sue grazie».

LADY DI MAIO E IL CAPPELLINO. Dopo il flop del M5s alle Europee, in una riunione dei parlamentari Silvia Virgulti, fidanzata di Di Maio, dice: «Le elezioni le abbiamo perse per il look lugubre di Casaleggio con il suo cappellino (Casaleggio era malato di tumore, ndr)». Gelo tra i presenti. Poco dopo un deputato va a complimentarsi con la Virgulti. È Alessandro Di Battista.

LA RAGGI COSTRUITA IN LABORATORIO. A Grillo non interessava Roma: «Se la tenessero…» dice di fronte a molti testimoni. Il candidato nel 2016 viene deciso da Casaleggio, con una telefonata alla Raggi: «Abbiamo pensato a te per la candidatura a sindaco di Roma. Te la senti?». Viene deciso che Daniele Frongia sarà il vicesindaco. E così avviene. «È la democrazia diretta. Nel senso che è diretta da Milano».

UN CONTROLLO SUI VOTI ON LINE? «COL C…O». Quando viene chiesto a Casaleggio di far verificare le votazioni online del M5s da un ente terzo, la sua risposta è: «Col cazzo che faccio entrare una società estranea nel mio database».

“Se Silvio Berlusconi oggi avesse avuto vent’anni di meno e avesse scelto di scendere in campo con un suo partito, probabilmente avrebbe utilizzato lo stesso schema di Grillo e Casaleggio: la rete, le società collegate, le fake news per fare profitti, le consulenze… Ridurre quel sogno di movimento popolare che era il progetto Cinque Stelle in una Forza Italia 2.0 è stato forse uno dei delitti politici più efferati di questi ultimi anni”. Sono le parole con cui termina l’ultimo capitolo pubblicato di “Supernova, come è stato ucciso il Movimento 5 Stelle”, il libro sostenuto da un progetto di crowfunding online, che grazie a circa 600 contributori online ha raggiunto il budget richiesto.

Gli autori:

Nicola Biondo (1970) è stato perito giudiziario ausiliario per le procure di Milano, Brescia e Palermo. Componente della redazione di Blu Notte­ – Misteri italiani, la trasmissione condotta da Carlo Lucarelli, ha scritto inchieste e reportage per Avvenimenti, La Stampa, L’Adige, L’unità, Radio Radicale e il blog di Beppe Grillo. E’ autore con Sigfrido Ranucci de “Il Patto” e “Alkamar” (Chiarelettere). Ha ideato e diretto il primo master in giornalismo investigativo per l’Università di Urbino e ha insegnato alla California University. Dall’aprile 2013 al luglio del 2014 ha diretto l’ufficio comunicazione M5S alla Camera dei deputati. Oggi coltiva felicemente il suo orto vista mare.

Marco Canestrari (1983) è uno sviluppatore informatico. Dal 2007 al 2010 ha lavorato presso Casaleggio Associati occupandosi, per il blog di Beppe Grillo, della comunicazione con i MeetUp locali, della produzione di contenuti multimediali e dell’organizzazione dei V­Day del 2007 e del 2008. E’ autore del documentario “1992 ­- Una strage di Stato” (2010). Vive a Londra.

Deriva democratica, scrive Filippo Facci il 6 Luglio 2017 su “Libero Quotidiano”. Dopo decenni a paventare derive autoritarie, stiamo cozzando contro un'autentica deriva democratica. Le opinioni da bar, che un tempo si fermavano al bar, oggi hanno gli strumenti per dilagare a livello mondiale nella cretinissima convinzione che uno valga davvero uno: e se i morti dei mancati vaccini giungono anche così, è perché la deriva, ormai, può sfiorare anche l'aristocratica scienza. C' è un geologo che negli Usa ha ottenuto il permesso per poter «dimostrare» che le rocce del Gran Canyon non si sono formate con il Big Bang - macché - ma con l'atto della creazione raccontata dalla Bibbia. Le società «Flat Earth» (che sostengono che la Terra sia piatta) hanno ripreso vigore, mentre molti scienziati islamici continuano a sostenere che la rotazione terrestre sia un'invenzione occidentale. Se non ci credi, ti travolgono di video, siti, presunte prove schiaccianti e petizioni da firmare. Però la scienza ha questo di bello: che non è democratica manco per niente, uno non varrà mai uno, non gliene frega niente di chi urla di più al bar oppure in tv, di chi becca più voti o ascolti, di chi ha una buona dialettica e si fa capire dal volgo: chiunque può sostenere qualsiasi cosa (ecco la democrazia) ma nulla è scientifico se non è scientificamente dimostrato. Fine. Ora: alzi la mano chi non vorrebbe che funzionasse così anche la politica, e la alzi, pure, chi crede che in questo modo rimarrebbe anche un solo elettore a Cinque Stelle.

Se i grillini vanno al governo ci aspettano tasse e manette. Nel programma pentastellato c'è pure la patrimoniale. Ma col Tedeschellum non avrebbero la maggioranza, scrive Gian Maria De Francesco, Mercoledì 31/05/2017, su "Il Giornale". Tasse e manette, manette e tasse. È questo, in estrema sintesi, il programma di un governo pentastellato se la formazione grillina riuscisse a farsi assegnare l'incarico dopo le prossime elezioni politiche. Il Movimento, in realtà, segue fedelmente il mantra secondo cui nessuna alleanza è possibile. Ma è altrettanto vero che il sistema tedesco, stando almeno ai sondaggi, non garantirebbe ai grillini nessuna maggioranza. Ecco, quindi, che una voce molto ascoltata dalle parti della Casaleggio&Associati, il direttore del Fatto Marco Travaglio, ha formulato nell'editoriale di ieri una proposta alternativa alla compagine guidata da Di Maio e Di Battista. «In campagna elettorale - ha scritto Travaglio - il M5s e l'eventuale sinistra unita (Mdp, Si, Pisapia e gli altri alla ricerca del 5%, ndr) hanno due opzioni». La prima è denunciare un'eventuale grosse koalition, accontentandosi di fare la solita opposizione urlata. La seconda è «costruire qualcosa di serio e alternativo, dicendo prima del voto agli elettori che cosa si vuol fare dopo se i Cinque stelle arrivano primi e ricevono l'incarico, ma non sono autosufficienti». Il giornalista è interlocutore ascoltato dal Movimento, era titolare di una rubrica sul blog grillino e di recente è riuscito a far recepire nell'armamentario pentastellato la proposta dell'agente provocatore anticorruzione.

La strada proposta non si discosta molto dal sentiero tracciato da Beppe Grillo e propone qualche correttivo che potrebbe rendere gradita la proposta anche a chi scegliesse di votare a sinistra (sebbene la connotazione «rossa» sia abbastanza prevalente anche tra gli M5s). «Reddito minimo per chi cerca lavoro, lotta alla corruzione, magari con l'aggiunta della patrimoniale, per finanziare un piano di investimenti nella manutenzione del patrimonio naturale, immobiliare e culturale». L'invito, insomma, è quello a depotenziare la portata universale del cavallo di battaglia pentastellato: il reddito di cittadinanza da circa 20 miliardi associandolo comunque a una maggiore spesa pubblica e all'imposizione di una patrimoniale (che tanto piace anche all'Unione europea, ma questo Travaglio non lo ha scritto). Invertendo l'ordine degli addendi il risultato non cambierebbe comunque giacché la proposta del Movimento si basa su un pesante inasprimento fiscale soprattutto per i redditi elevati (dai 90mila euro lordi in su) e medi in quanto il reddito di cittadinanza si fonda su un taglio generalizzato di bonus e detrazioni. La parte «manettara», che piace a Grillo e alla sinistra, è rappresentata dalla riforma della giustizia in direzione pro-magistrati con l'allungamento della prescrizione e l'inasprimento delle politiche anticorruzione, che generalmente implicano un maggior potere dei pm. Infine, «nuove politiche su energia e rifiuti» (auspicando che ciò non implichi nuovi disastri stile-Raggi) e «contestazione di alcuni trattari Ue» il che generalmente può interpretarsi come più spesa pubblica in deficit. In cambio la sinistra dovrebbe digerire «rigore e accoglienza sui migranti» riconoscendo a chi ottiene il diritto d'asilo la possibilità di frequentare scuole professionali e di svolgere lavori socialmente utili. Nessun grillino ha commentato. Probabile che i suggerimenti siano stati graditi. In fondo M5s, sedendosi al tavolo della legge elettorale, ha imparato a fare politica. Ora deve imparare, secondo Travaglio, ad accettare un appoggio esterno. Le lezioni di liberalismo, invece, non fanno ancora parte del corso di studi.

Attenti al Grillo. Il futuro a 5 stelle è un Medioevo povero e gelido. Il programma bandisce gas e petrolio, dal 2050 solo rinnovabili. I disoccupati? vanno indirizzati alla terra, scrive Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 31/07/2017, su "Il Giornale". Cosa si nasconde realmente dietro il Movimento 5 Stelle? Grattando via i proclami pubblici, le battutacce, le provocazioni e le parole d'ordine ripetute fino allo stordimento («Onestà! Onestà!») che cosa rimane della campagna elettorale permanente dei grillini? Verba volant e scripta manent, anzi web manet, come sarebbe piaciuto a Gianroberto Casaleggio. E dunque per vedere cosa ci aspetterebbe in un eventuale futuro a Cinque Stelle, siamo andati a leggerci lo sterminato programma politico partorito dalla rete tramite la piattaforma Rousseau. E la prima cosa che balza agli occhi è che il futuro tratteggiato dai seguaci di Grillo assomiglia incredibilmente al passato, a un passato di decrescita economica, di case fredde e piatti semivuoti, di lunghi spostamenti a piedi e di sacrifici. È il medioevo grillino. I cittadini immaginati da Grillo e Casaleggio sembrano automi che si muovono su uno sterminato set di Mad Max. Perché, come è proprio di tutte le ideologie utopiche a partire dal marxismo, il grillismo non ha un programma che aderisca alle richieste dei cittadini, ma si prefigge di mutare i cittadini per farli aderire alla propria ideologia. Se volete addentrarvi in questa lettura, tutt'altro che balneare, potete scaricarlo gratuitamente dal sito del Movimento. Il programma, scritto collettivamente come un romanzo di Wu Ming sulla piattaforma Rousseau, è incompleto. Lavori in corso. Una specie di Sagrada Familia che potrebbe rimanere un eterno cantiere a cielo aperto, con la differenza che dietro non c'è la mano di Gaudí. Ma i punti programmatici già approvati, votati e certificati dalla Casaleggio Associati, sono sufficienti per avere un'idea precisa di quello che combinerebbero i pentastellati una volta entrati nelle stanze dei bottoni.

IL PROGRAMMA IN CIFRE. Passiamo ai numeri, innanzitutto, perché rendono l'idea delle priorità di governo di un eventuale esecutivo pentastellato. I primi numeri che analizziamo sono quelli delle pagine. Il capitolo sul quale i grillini si sono spremuti più le meningi è quello che riguarda il programma energetico: 91 pagine in formato A4. Praticamente un libro, dedicato all'abbandono totale (entro il 2050) dell'utilizzo del carbone in favore delle energie rinnovabili. Tutti più poveri e infreddoliti, ma col sorriso ghiacciato sul volto. Al secondo posto della classifica delle urgenze nazionali c'è l'agricoltura: 43 pagine nelle quali si spazia dalla necessità di reinvestire sui campi al benessere del cavallo, passando ovviamente per la guerra senza quartiere a qualunque tipo di biotecnologia e Ogm. Ma continuiamo coi numeri. Nel Paese con la disoccupazione giovanile più alta del Continente e con un numero monstre di non impiegati e rassegnati al fancazzismo (i famosi Neet), gli ideologi del grillismo al 20 maggio di quest'anno non sono riusciti a partorire più di sei striminzite paginette. Così come, nell'era del terrore costante, il capitolo dedicato alla difesa del nostro Paese non supera le otto cartelle. Sorpassato, nella hit parade delle priorità a cinque stelle, dal programma trasporti (23 pagine), dalla scuola (12 pagine), dal turismo (11 pagine) e dagli esteri (10 pagine). Altre voci, al momento, sono ancora in via di approvazione. Ma possiamo avere comunque un'idea delle linee di massima del Movimento attraverso un programma riassuntivo, disponibile sul blog del comico.

IL FUTURO? STARE SOTTO LE COPERTE. Diminuire, diminuire e ancora diminuire. È questa la parola chiave dello sterminato programma energetico dei Cinque Stelle. Lo scopo finale deve essere secondo il vangelo grillino - la decrescita dei consumi energetici. Come? Grazie al progresso tecnologico spiegano fideisticamente i pentastellati e soprattutto grazie «al cambiamento dei comportamenti degli utenti». In poche parole: preparatevi a patire il freddo d'inverno e il caldo in estate. Sul calendario del M5S c'è già la data: l'Italia entro il 2050 userà esclusivamente energie rinnovabili. Abolite tutte le forme di energia fossile ma, soprattutto, abolite anche tutte le importazioni di energia, l'energia sarà tutta Made in Italy. Benito Mussolini saprebbe benissimo come etichettare questa politica: autarchia. Per gli esperti del settore è un'utopia che potrebbe trasformarsi in un incubo. «Oggi produciamo in proprio solo l'8% del petrolio e il 10% del gas che consumiamo. Se vogliamo raggiungere l'autosufficienza energetica dobbiamo trovare il modo di sostituire quel 92% del greggio e quel 90% del gas che importiamo dall'estero. In più, se oltre a diventare energeticamente autarchici vogliamo anche eliminare i combustibili fossili, dobbiamo trovare il modo di sostituire con altre fonti quei 7,92 barili di petrolio più 1.103 metri cubi di gas che ogni anno consuma ciascun singolo», spiega Luca Longo analista energetico. Insomma i 5 Stelle prevedono una grande crisi energetica: una riduzione dei consumi del 37%, dai 112 Mtep registrati nel 2014 ai 71 previsti per il 2050. Ma il crollo non sarà omogeneo: mentre agricoltura, industria, servizi e residenziale potranno calare «solo» del 30%, i trasporti dovranno arrivare a ridurre i consumi del 50%. Non va meglio all'energia termica: una riduzione di oltre il 72% grazie ai previsti miglioramenti «dell'efficienza degli impieghi finali e alla sostituzione degli usi termici con quelli elettrici». Meglio andare a comprare qualche maglione e qualche coperta imbottita in più, non si sa mai.

IN TAVOLA SOLO BIO, POCA CARNE E NIENTE OGM. DONNE E ANZIANI A LAVORARE NEI CAMPI. Se l'energia è un male incurabile e l'industria un nemico da combattere, come si fa a sbarcare il lunario? I grillini non hanno dubbi: con l'agricoltura, architrave della lotta al neoliberismo. L'antiscientismo si invera in una filosofia un po' hippie e new age del ritorno alla natura incontaminata, con una spruzzata di cyber punk. Ed è un paradosso che il ritorno all'oleografia bucolica venga profetizzato da un partito che della tecnologia ha fatto la sua esistenza e la sua stessa colonna vertebrale. Il valore dell'agricoltura nel Pil italiano è del 2,1%, ma i grillini contano di aumentarlo esponenzialmente. Come? Innanzitutto col «km utile», versione furbesca dell'ipocrita km zero, ma altrettanto residuale. «Il nostro obiettivo è incentivare il consumo di alimenti provenienti dalla filiera corta, ovvero caratterizzata dall'assenza di intermediari commerciali o composta da un solo intermediario tra il produttore e il consumatore e a chilometro utile, da intendersi come una distanza massima tra area di produzione e trasformazione e quella di vendita», scrivono i sacri testi. Peccato che l'Italia dal punto di vista alimentare non sia autosufficiente. Solo per fare qualche esempio: produciamo solo il 65% del grano duro necessario al fabbisogno nazionale, il resto lo importiamo. Così come importiamo la maggior parte dei legumi e grandi quantità di grano, latte e carne bovine. Ma il programma agricoltura del movimento fondato da Grillo e Casaleggio è in realtà un vero e proprio manifesto ideologico che mette nel mirino due grandi nemici: gli Ogm («da combattere strenuamente») e il consumo di carne. Quella contro gli organismi geneticamente modificati è una battaglia senza quartiere: non solo non devono essere utilizzati, ma neppure studiati e messi al margine grazie a un sovietico «Piano proteico nazionale». «La promozione ed incentivazione della produzione di proteine vegetali è indispensabile non solo per limitare l'utilizzo di mangimi arricchiti con farine animali scrivono i nutrizionisti pentastellati -, ma anche al fine di poter disporre di valide alternative per tutti quei consumatori che, contrari agli Ogm, molto diffusi nelle fonti proteiche vegetali, preferiscono prodotti nazionali garantiti». Insomma i grillini vogliono anche decidere quello che mettiamo nei nostri piatti: verdure rigorosamente senza Ogm e prodotte a km utile (facile se sei nel Chianti, più complicato e costoso se abiti nelle periferie di una grande metropoli, a meno che non pensino di fare un orto nelle aiuole di piazzale Loreto) e un minor consumo di carne. D'altronde le prime avvisaglie di questa volontà si sono già viste a Torino, dove la sindaca Appendino ha previsto un giorno alla settimana di dieta vegana nelle mense scolastiche. «Il M5S è contrario agli allevamenti intensivi e si fa promotore di un uso limitato di carne sia per motivi di salute che di sostenibilità ambientale». Chiarissimo, cristallino. Ma il programma agricoltura riserva anche insoliti e involontari suggerimenti umoristici: «Deve essere incentivato l'accesso alla terra a coloro che, non più giovani sono usciti o sono stati esclusi dal mercato del lavoro, in primis le donne e i soggetti deboli della società». Come avevamo fatto a non pensarci prima? D'altronde il lavoro dei campi non è faticoso...

Il Parlamento è il vero bersaglio, scrive Carlo Fusi il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio".  La norma sui vitalizi non ha altra giustificazione se non la gara demagogica contro la “casta”. I parlamentari hanno uno status diverso dagli altri: è la democrazia. Oggi la Camera vota e presumibilmente approva visto che la proposta è firmata dal pd Matteo Richetti ed è appoggiata dai Cinquestelle, dalla Lega e da settori di FI – la norma che equipara i vitalizi dei parlamentari al trattamento pensionistico degli altri cittadini. I vitalizi sono stati aboliti nel 2012: tuttavia chi è stato deputato o senatore in epoche precedenti gode del sistema retributivo invece che del contributivo. Di fatto, viene fatta valere retroattivamente una regola che invece riguarda il presente e il futuro. Così non si combattono i privilegi, si combatte il Parlamento. In questo modo, si interviene su una materia storicamente disciplinata dai regolamenti parlamentari e non da provvedimenti legislativi. I rischi di incostituzionalità sono evidenti e ammessi dagli stessi proponenti. Inoltre, benchè approvato a Montecitorio, il provvedimento rischia di arenarsi lo stesso al Senato, dove i confini della maggioranza sono più incerti e più ampie le perplessità su un intervento in contraddizione con basilari principi del diritto. Per di più, la retroattività così sommariamente introdotta rischia di provocare conseguenze a pioggia per milioni di pensionati semplici che di colpo potrebbero vedere i loro trattamenti decurtati per adeguarli alla nuova disciplina del contributivo. Questi sono i fatti. Cosa c’è di così importante in questa misura e perchè provoca tanto clamore? Per meglio comprendere, forse è opportuno preliminarmente indicare cosa c’è di non importante. Non c’è un’urgenza legislativa visto che il vitalizio, come detto, non esiste più da anni. Non c’è una necessità di bilancio, perché il risparmio complessivo, a detta degli stessi grillini, ammonta a circa 215 milioni. Va ricordato che la spesa pubblica complessiva dell’Italia è pari a circa 830 miliardi; che la corruzione secondo la Corte dei Conti se ne “mangia” 60 e l’evasione fiscale e contributiva si aggira intorno ai 110 miliardi l’anno. Se si cercano terreni su cui intervenire per risparmiare, le priorità sono altrove: i vitalizi rappresentano una microscopica goccia. Dunque questa legge risponde ad altre motivazioni, tutte e solo politiche. La prima è che si tratta di una misura “anti- casta”. E’ espressione cioè di quel sentimento di rivolta contro i meccanismi della democrazia rappresentativa che vedono in prima fila i Cinquestelle ma che da anni e con compiaciuta voluttà vengono cavalcati da settori della società (magistratura compresa) e dei media, sempre più restii a riconoscere alla politica e alle sue espressioni istituzionali il primato delle decisioni. Il fatto che la politica in parecchie delle sue manifestazioni – a cominciare dai partiti e dalle leadership che li incarnano – si sia dimostrata non all’altezza del proprio compito è una verità incontestabile, che tuttavia non cancella né tantomeno autorizza l’assalto suicida al corretto bilanciamento dei poteri. Caduto il quale, si sfocia inesorabilmente in regimi autoritari. La seconda è che l’assalto alla politica e alla casta così inteso, si sostanzia in un deprezzamento sempre più pervicace nei confronti del simbolo massimo del sistema democratico: il Parlamento. Invece di garantirne l’autonomia e l’indipendenza, il coretto “onestà, onestà” intende travolgerlo, aprirlo «come una scatoletta di tonno», farlo apparire un organo tanto corrotto quanto inutile o addirittura dannoso. L’antiparlamentarismo in Italia ha tradizioni consolidate: dal lancio del pitale del dannunziano Guido Keller, all’ «aula sorda e grigia da trasformare in bivacco di manipoli» di cui non c’è bisogno di ricordare il copyright. Quel che sorprende e sconcerta è che questo sentimento sia diventato così prevalente da annoverare tra i suoi profeti anche esponenti di una tradizione politica opposta. Per giustificare la spinta al provvedimento, infatti, il suo promotore, oggi capo della comunicazione del Nazareno, tranquillamente sostiene che «il rischio di incostituzionalità c’è, ma io sulla Costituzione leggo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. E dunque tutti devono avere lo stesso trattamento, compresi i parlamentari». Per comprendere quanto il sillogismo di Richetti sia fuorviante basterebbe ricordare che, seppur incarcerato, un cittadino viene immediatamente liberato una volta eletto parlamentare. Proprio perché la legge che è uguale per tutti riconosce a chi svolge un mandato rappresentativo uno status diverso e specifico, e ne garantisce la salvaguardia e tutela. E’ dunque il caso di modificare la domanda iniziale – cosa c’è di importante nella legge sui vitalizi? – in un’altra assai più fondamentale: è giusto e doveroso riconoscere ai parlamentari ruolo, condizioni, trattamenti politici, giuridici ed economici diversi dai cittadini comuni? La risposta è: sì, assolutamente sì. Come spiegava già nell’ 800 lo studioso inglese Erskine May, «il privilegio parlamentare rappresenta la somma dei diritti di cui dispongono collettivamente ciascuna Camera e individualmente ciascun parlamentare per essere in condizioni di esercitare le loro funzioni». Chi limita questi «privilegi» limita la funzione del Parlamento e in ultima analisi produce un danno alla democrazia. Il mezzo più giusto e corretto per impedire che il Parlamento diventi ricettacolo di impunità o scudo per comportamenti inadeguati o addirittura illeciti, sta nello stabilire regole precise e vincolanti meccanismi di trasparenza per i partiti e movimenti politici al momento delle candidature. C’è scritto nella Costituzione all’articolo 49: inevaso da settant’anni. Esiste una proposta di legge per l’attuazione di quell’articolo. E’ firmata anch’essa da Matteo Richetti: è ferma in chissà quale cassetto. A giudizio del Pd e di tutti coloro che agognano la distruzione della casta, è più giusto gareggiare in demagogia con Grillo e gli altri apologeti dell’antipolitica. Per usare un’espressione cara a Matteo Orfini che del Pd è presidente: bene, buon divertimento a tutti voi.

Dai sindacalisti ai magistrati Ecco i vampiri delle pensioni. Basta un incarico fittizio e scatta subito l'assegno extra: le pensioni d'oro grazie ad apposite leggine non sono sparite, scrive Mario Giordano, Martedì 28/02/2017, su "Il Giornale". I rappresentanti dei lavoratori sono in buona compagnia. Tra i «vampiri» delle fortunate categorie passate al setaccio nel nuovo libro di Mario Giordano, ci sono giornalisti, banchieri, magistrati, burocrati di Stato, politici e affini. Le pensioni d’oro favorite spesso da apposite leggine non sono affatto sparite. Caduto perfino il contributo di solidarietà per mano della Consulta, un esercito di privilegiati continua a godere di assegni sproporzionati rispetto ai contributi versati. Ecco parte del capitolo sui sindacalisti. Giugno 2016. A Castel Mella, comune di undicimila abitanti in provincia di Brescia, si scopre l'esistenza di un professore che prende una pensione un po' speciale. Anzi, di pensioni ne prende due. Oltre al regolare assegno dovuto per i suoi quarant'anni nella scuola, infatti, incassa altri 1.500 euro al mese. E perché? Perché ha fatto per un paio di mesi il sindacalista nello Snals. Ebbene sì: a un sindacalista bastano un paio di mesi, una contribuzione aggiuntiva, un (finto?) stipendio, per maturare una rendita fissa per il resto della vita. Ovviamente a carico dei contribuenti. Cioè di quei lavoratori che il sindacato in teoria dovrebbe difendere. E che invece, in questo modo, finisce per spennare. In realtà il professore non era il solo nello Snals a sfruttare questo gioco di prestigio, l'incastro magico, la scorciatoia per arrivare alla pensione d'oro. A Brescia, la guardia di finanza ne ha scoperti undici come lui, a cominciare dal segretario amministrativo nazionale del sindacato, Roberto Soldato, accompagnato nel business anche dalla moglie. Il meccanismo è sempre lo stesso: i lavoratori vicini alla pensione trascorrono gli ultimi mesi in distacco sindacale. Il sindacato per quei mesi paga (o finge di pagare: in questo caso non sono state trovate tracce di reali versamenti effettuati) uno stipendio aggiuntivo (dai 2.000 ai 4.000 euro) e versa i relativi contributi all'Inps. Il lavoratore, a sua volta, dona al sindacato una somma equivalente ai contributi versati. Risultato finale del giochetto: il sindacato non ci perde una lira, il lavoratore ci guadagna una pensione aggiuntiva. E l'Inps paga per tutti, alla faccia delle buste arancioni di chi la pensione non la prenderà mai. Un caso isolato? Macché. Un sistema generalizzato che si basa su una legge del 1996, la numero 564, che ha consentito a schiere di sindacalisti di esibirsi in questa prova olimpica di salto triplo della moralità: basta un passaggio di un mese, vero o finto, nell'organizzazione sindacale per maturare il diritto a un consistente assegno per il resto della vita. Ma quanti sono ad avere goduto di questo privilegio? Tenetevi forte. La cifra esatta l'ha fornita il ministro Giuliano Poletti nell'aula della Camera, l'8 luglio 2015, rispondendo nella disattenzione generale a un'interrogazione del deputato di Scelta civica Giulio Cesare Sottanelli. Ribadisco: tenetevi forte. Sono 17.319. Proprio così: 17.319 sindacalisti che prendono un surplus di pensione non giustificata dai contributi versati, ma basata su privilegi così assurdi che lo stesso autore di quella legge, l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, se n'è pentito: «Quella norma si è rivelata troppo costosa e ingiustificata», ha detto. «A pensarci bene si poteva pensare a dei limiti...». Ecco sì: si poteva pensare a dei limiti. Ma non è stato fatto. E continua a non essere fatto. E così, come certifica l'Inps, i sindacalisti continuano ad avere un regime privilegiato: «Hanno regole contributive diverse dagli altri lavoratori perché possono, prima di andare in pensione, farsi pagare dalle proprie organizzazioni incrementi delle pensioni a condizioni molto vantaggiose» scrivono i tecnici dell'Istituto di previdenza. E il sindacato può farlo? Può aumentare gli stipendi? Senza perderci nulla? Ma sicuro: basta che i privilegiati restituiscano la cortesia rendendo la somma ricevuta, sotto forma di elargizione. Come diceva il vecchio Carosello? Io do una cosa a te, poi tu dai una cosa a me. Tanto nessuno lo scoprirà mai, dal momento che ancora oggi i bilanci di Cgil, Cisl e Uil, che pure muovono miliardi di euro, hanno gli stessi obblighi contabili della bocciofila di Arquata Scrivia o del Club di Topolino. Dentro ci si può nascondere qualsiasi magheggio. Quello di gonfiare la pensione con i maxistipendi degli ultimi mesi, per altro, non è l'unico privilegio concesso ai sindacati. Rimane anche quello, altrettanto assurdo, dei «distacchi» e dei «contributi figurativi». Chi fa il sindacalista, in pratica, ha davanti due strade: o ottiene il distacco (cioè continua a essere pagato dal suo datore di lavoro) o prende un'aspettativa non retribuita. Se ottiene il distacco, i suoi contributi continuano a essere pagati dal datore di lavoro, che è sempre lo Stato, dal momento che nel settore privato non ne vengono concessi praticamente mai. Se prende l'aspettativa non retribuita, invece, i contributi continuano a essere a carico dallo Stato, perché sono «figurativi», cioè conteggiati senza essere realmente versati. In entrambi i casi, è evidente, paghiamo noi. Ed è proprio il meraviglioso meccanismo dei «contributi figurativi» che, come abbiamo già avuto modo di ricordare, ha consentito a D'Antoni di cominciare a incassare la pensione da professore universitario alla tenera età di 55 anni: 5.233 euro netti al mese, somma riguardevole, cui poi l'ex leader Cisl ha aggiunto i suoi vari vitalizi. Che volete? «Ho rispettato la legge» risponde lui. «Rispettiamo sempre la legge», ribadisce Susanna Camusso, battagliera segretaria Cgil, difendendo i privilegi previdenziali. «Pure noi rispettiamo la legge» ripetono in coro tutti i beneficiati. E come dare loro torto? Rispettano la legge. C'è però da chiedersi se possa essere accettata, da coloro che dovrebbero difendere i diritti di tutti, una legge che consente a 17.319 sindacalisti di andare in pensione con assegni superiori rispetto ai lavoratori che rappresentano. Una legge che permette al «soggetto 18», così lo identifica l'Inps proteggendone l'identità, di incassare 9.500 euro lordi al mese (115.000 euro l'anno), il 66 per cento in più di quello che avrebbe dovuto percepire senza «regalini». E al «soggetto 19» di incassare 11.750 euro al mese, il 18 per cento in più di quanto avrebbe avuto diritto senza «regalino». I loro nomi, nonostante le nostre insistenze, a differenza di quelli dei parlamentari, restano sconosciuti. E anche questo, a pensarci bene, è un privilegio non da poco.

Deputati, assessori, giudici: ecco i chi sono i 30 mila con pensioni d’oro. La pensione media di un politico o di un giudice oscilla tra i quarantamila e i duecentomila euro annui, a seconda dell'incarico ricoperto, e si somma ad altri privilegi, scrive il 25 Febbraio 2016 "Qui finanza". Gli italiani sapevano già da tempo che i politici godono di trattamenti privilegiati. Uno dei privilegi concessi a deputati, senatori, giudici e impiegati della Corte Costituzionale e della Regione Sicilia consente di godere di una rendita vitalizia al termine del mandato. Questi enti dovrebbero pubblicare i dati relativi alle pensioni erogate a beneficio dei loro “ex dipendenti”, ma non lo fanno. Il Centro Studi di Itinerari Previdenziali, una realtà indipendente di Milano che si occupa di ricerca e formazione sul Welfare pubblico e privato, ha realizzato una ricerca in merito. La fatica maggiore è stata reperire i dati necessari. Per mantenere il proprio sistema pensionistico, secondo una ricerca dell’ISTAT, l’Italia spende annualmente 277 miliardi di euro. La ricerca del Centro Studi di Itinerari Previdenziali evidenzia che un miliardo di questa somma è destinato ad erogare trentamila vitalizi a ex politici nazionali e regionali, ma non solo. Le cifre mensili lorde pro-capite oscillano tra i 3.338 euro destinati ad un ex dipendente della Regione Sicilia e i 16.666 euro percepiti da un ex Giudice della Corte Costituzionale. Un normale pensionato italiano, dopo aver versato trentacinque anni di contributi, percepisce mediamente 923 euro mensili. Oltre ai maggiori assegni pensionistici mensili, i politici godono anche di privilegi relativi alla cosiddetta età pensionabile. Dal 2012, un politico italiano può andare in pensione a sessantacinque anni d’età se ha prestato servizio come deputato o senatore per un totale di cinque anni, anche in legislature differenti. Un comune lavoratore italiano, invece, prima di poter godere della propria pensione deve lavorare per almeno quarantadue anni e dieci mesi ed aver compiuto sessantasei anni e sette mesi di età. Il rapporto compilato dal Centro Studi di Itinerari Previdenziali non elenca i nomi delle persone che godono di questi privilegi. È sufficiente una ricerca su internet per scoprire alcuni di questi nominativi. L’argomento delle “pensioni d’oro” ha sempre interessato la stampa quotidiana e periodica nazionale, sia di destra che di sinistra. Nel 2013 se ne occuparono sia il quotidiano economico “Il sole 24 ore”, facente capo a Confindustria, che il settimanale “L’Espresso”. Nessuna delle inchieste condotte è riuscita a modificare la situazione.

I magistrati hanno pensioni alte. E se le meritano (quasi) tutte. Il parere dell'esperto sul trattamento pensionistico delle toghe italiane, scrive il 25 Settembre 2015 su "Qui finanza", Beniamino Piccone, Docente di Sistema Finanziario presso LIUC - Università Cattaneo. Private banker, private banker presso Nextam Partners. Non si può essere sempre d'accordo. Anzi. E' dal confronto e dalla dialettica che nascono e fioriscono le idee migliori. Prosegue l’operazione Porte aperte da parte dell’Istituto Nazionale della Previdenza sociale (Inps). Sappiamo con certezza che il neo presidente prof. Tito Boeri fa proprio il motto di Louis Brandeis – consigliere della Corte Suprema americana negli anni ’30 – secondo il quale “la luce del sole è il miglior disinfettante, la luce elettrica il miglior poliziotto”. L’ultima categoria che è stata analizzata è quella dei magistrati. L’Inps specifica in partenza che “L’importo annuo lordo medio di tutte le pensioni in pagamento dei magistrati, comprese le pensioni ai superstiti, è di circa € 103.000”. Nella sezione dove si evidenziano gli effetti di un ipotetico ricalcolo contributivo delle pensioni oggi erogate ai Magistrati della Cassa trattamenti pensionistici ai dipendenti dello Stato (CTPS) emerge come le pensioni del comparto con decorrenza successiva al 2004 si rapportano con le prestazioni che sarebbero state erogate applicando il metodo contributivo. Si legge che “solo circa il 10% delle pensioni vedrebbe un aumento se ricalcolata con il contributivo.  La riduzione media che subirebbero, nel complesso, le pensioni dei magistrati è dell’ordine del 12%.” In sostanza, i magistrati ricevono pensioni poco più che proporzionali rispetto a quanto versato.

Per completezza di informazione, l’Inps specifica alcuni esempi relativi a Magistrati di Cassazione:

• Pensionato nel 2008 con 64 anni di età e 37 di anzianità, titolare di pensione lorda mensile 2015 pari a 9.755 euro, con il ricalcolo avrebbe una riduzione della prestazione pari a 2.735 euro mensili;

• Pensionato nel 2008 con 70 anni di età e 46 di anzianità, titolare di pensione lorda mensile 2015 di 11.762 euro, con il ricalcolo avrebbe una riduzione della prestazione pari a 1.367 euro mensili.

Dopo i commenti sprezzanti a seguito dell’analisi sulle storture delle pensioni delle forze dell’ordine, speriamo che questa volta vada meglio. Per renderci difficile la vita e andare contro corrente, ribadiamo che le pensioni alte, se meritate, NON vanno toccate. Nel caso dei magistrati i dati numerici sono di totale evidenza. I magistrati hanno tipicamente – al di là di eccezioni minoritarie – contribuito molto e quindi meritano pensioni elevate. Siccome sono favorevole al ricalcolo per tutti i pensionati, non credo ci siano problemi per il magistrato di Cassazione a vedersi decurtata la pensione di 2,7 mila al mese. Quando però il Movimento 5 Stelle o altri demagoghi inneggiano al taglio delle pensioni sopra un certo importo sbagliano di grosso. Non facciamo populismo. Se un pubblico ministero prende 7 mila euro di pensione a cui ha fatto fronte con contributi sonanti pagati, non c’è alcun motivo perchè gli debba venir tagliata la pensione. Tagliamola al dirigente di pubblica sicurezza che prende 6 mila euro, ma ne ha maturati solo 3 mila. Contano i contributi versati e la rivalutazione avvenuta nel tempo, non le cifre assolute. La sacrosanta battaglia contro le distorsioni pensionistiche che danneggiano la forza lavoro di oggi, i giovani in particolare, deve andare a colpire i privilegiati immeritati, non coloro che prendono pensioni elevate che derivano da versamenti all’Inps costanti nel tempo. Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scrive: “Posto che tutti si debba soffrire, per comperare a prezzo di sofferenza la futura armonia, che c’entrano però i bambini, me lo dici tu per favore? E’ assolutamente incomprensibile perchè debbano soffrire anch’essi”. Dove sta scritto che i bambini appena nati devono farsi carico di pensioni sussidiate a beneficio non di persone in difficoltà ma in condizione di agio?

Non c'è più la Casta. Ce ne sono mille. Dieci anni dopo, l’avversione verso i politici si è trasformata in odio contro le élite. Ma senza alcuna coesione tra i sommersi, scrive Alessandro Gilioli il 25 gennaio 2017 su "L'Espresso". Il 2017 celebra, tra i suoi anniversari, i dieci anni di un libro che ha segnato il dibattito politico italiano a qualsiasi livello, dal Parlamento ai social network: “La casta”, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, oltre un milione di copie vendute, dozzine di spin off e di tentativi d’imitazione. Il successo del libro di Stella e Rizzo fu una tempesta perfetta. Alla completezza del lavoro svolto dai due giornalisti si aggiunsero infatti altri fattori esterni che contribuirono alla sua esplosione. Fra questi, almeno due vanno citati: primo, la crisi economica che dì lì a pochissimo avrebbe gravemente peggiorato le condizioni di vita del ceto medio; secondo, la legge elettorale entrata in vigore l’anno prima, che aveva l’effetto (e forse lo scopo) di rinchiudere la classe politica in una roccaforte di cooptazioni e nomine reciproche. In altre parole, mentre usciva “La casta” l’Italia diventava più povera, i giovani più precari e le partite Iva più tartassate, mentre le banche iniziavano a centellinare il credito ai piccoli imprenditori per riservarlo solo ai giganti dei salotti buoni; contemporaneamente, il Palazzo - con le sue liste bloccate che solo molti anni dopo sarebbero state bocciate dalla Consulta - pensava a proteggere se stesso, chiudeva i canali di collegamento con la cittadinanza, scavava un solco tra sé e il Paese. Alla pubblicazione del libro - e dato il suo straordinario boom diffusionale - seguì la nascita di un genere giornalistico altrettanto di successo, che rivelava ogni tipo di privilegio, prebenda, spreco e immunità del ceto politico: dal menù dei senatori fino ai voli blu dei ministri al Gran Premio, dai vitalizi degli ex parlamentari ai rimborsi-monstre dei consiglieri regionali. La nascita del Movimento 5 Stelle fu, non a caso, contestuale a quest’ondata di risentimento nei confronti di quello che veniva ormai vissuto come un circolo chiuso di super privilegiati, i politici, occupati a proteggere se stessi: e anche il primo V-Day di Beppe Grillo è del 2007 (all’inizio di settembre). Ma se a incassare il maggior dividendo politico della rabbia anti casta furono fin dall’inizio i grillini, anche nel Pd c’era chi faceva sua la stessa battaglia, almeno negli intenti dichiarati: era la corrente dei futuri rottamatori, nata attorno al gruppo dei Mille sempre nello stesso periodo, tra il 2007 e il 2008. Lo stesso Renzi, ancora nel 2013, si opponeva alla candidatura di Anna Finocchiaro al Quirinale perché la senatrice usava «la scorta come carrello umano» all’Ikea, promettendo che lui invece la coda di auto blindate non l’avrebbe mai avuta perché «mi protegge la gente» (febbraio 2014); e uno dei suoi primi gesti da premier fu mettere all’asta 170 auto blu su eBay. Perfino nel recente referendum costituzionale, il renzismo ha puntato sul sentimento anti casta caratterizzando la comunicazione per il Sì con slogan come «tagliare le poltrone» e «ridurre i costi della politica». Dieci anni dopo, però, è cambiato qualcosa - e anche il fallimentare esito di quella campagna ce lo suggerisce. Non tanto nei confronti dei politici, la cui reputazione continua a essere bassa, quanto nel significato del termine “casta”. A cui si sono non a caso affiancati, nel lessico del dibattito politico, altri vocaboli come «élite» ed «establishment». Che non indicano necessariamente chi occupa una carica istituzionale, ma più in generale le classi dirigenti. Oggi come casta, insomma, s’intende sempre di più un’entità mista, qualcosa che somiglia a una rete di collegamento tra parte della politica, dell’economia pubblica e privata, della finanza e anche delle fasce di benessere economico non toccate - anzi, spesso favorite - da questi anni di crisi. In un’accezione più larga, quanti abitano nei primi municipi delle metropoli, isole circondate da un colore diverso quando si va ad analizzare come si è votato, vuoi per il sindaco vuoi al referendum. I “salvati”, insomma, in un Paese di “sommersi”. È cambiata la casta, quindi. O quanto meno il suo percepito. I politici ne fanno ancora parte, ma non ne sono più esclusivisti. Anzi, spesso vengono visti solo come interlocutori complici e “riceventi ordini” di poteri che stanno altrove rispetto ai Palazzi. Rischia di essere tuttavia ingenuo concluderne che questo sia il segno di un ritorno a una lotta di classe bidimensionale, ai “poveri” contro i “ricchi”. Perché le categorie contrapposte al cosiddetto establishment sono molteplici, molecolari e assai più sfocate, una volta spariti i vecchi blocchi sociali. Quindi lo stesso concetto di casta assume, sempre nel percepito, risvolti e sfumature ulteriori: per i fattorini della “gig economy” (due euro a consegna) è casta anche il metalmeccanico con diritto alle ferie e tredicesima; per la partita Iva a 600 euro al mese (quando non si ammala) è casta anche il docente di liceo che porta a casa il doppio (e ha diritto ad ammalare); per l’under 30 che non vedrà mai la pensione, è casta lo zio che a 65 anni incassa regolarmente il suo assegno di riposo. Quella che il sociologo Emanuele Farragina ha chiamato “la maggioranza invisibile” è insomma una galassia composita e sfrangiata, che vede come casta anche chi sta appena un gradino sopra e talvolta disprezza chi sta appena un gradino sotto (di solito: gli immigrati o gli zingari, i paria del nostro tempo). Tutto questo ci riporta al significato originale del termine “casta”: un sistema fondato su scalini successivi. In cui nessuno può realisticamente ambire al grado superiore (il famoso ascensore sociale bloccato). E in cui la parcellizzazione di condizioni e interessi nei gradini mediobassi e bassi impedisce che si sviluppino forme di solidarietà e coesione contro chi sta sulla punta, come invece avveniva ai tempi della lotta di classe duale o semiduale del Novecento. In fondo Stella e Rizzo avevano azzeccato anche il titolo, con quel riferimento all’ordine gerarchico dell’India antica. Dieci anni dopo, l’unica variazione potrebbe essere passare dal singolare al plurale. Vale a dire che la casta non è più solo quella dei politici, ma un’élite intrecciata. Sotto la quale ci sono poi altre percezioni castali reciproche: quelle in cui sono o si sentono rinchiusi tanti pezzi diversi della società in lotta tra loro per la sopravvivenza. E per questo incapaci di spezzare l’organigramma, di mettere in discussione la piramide. 

Prefetti, piloti e manager: i pensionati che resistono ai tagli previdenziali. I politici rischiano di vedersi ridotto l'assegno in base a quanto versato. Ma restano tanti regimi favorevoli nelle altre categorie. E il doppio vantaggio dei pensionamenti anticipati e del sistema retributivo ha favorito soprattutto le classi più agiate, scrive Marco Ruffolo il 30 luglio 2017 su "La Repubblica". Nella giungla delle pensioni italiane, non sono solo gli ex parlamentari ad essersi sottratti finora ai calcoli più rigorosi del sistema contributivo, quello che lega gli assegni ricevuti ai contributi versati. Anche se con privilegi di gran lunga inferiori a quelli di deputati, senatori e consiglieri regionali, intere generazioni di pensionati dai 60 anni, chi più chi meno, sono state doppiamente avvantaggiate rispetto ai loro figli e nipoti: perché hanno potuto lasciare prima il lavoro e perché la loro pensione è stata ed è ancora oggi calcolata sulla base dei redditi via via guadagnati e non dei contributi pagati. Per loro infatti, a differenza di quanto potrà accadere tra poco agli ex parlamentari, le regole più rigide introdotte nel 1996 non vengono applicate retroattivamente. Almeno finora. Nel tracciare l'identikit di questi pensionati più "fortunati", si scopre che tra il 2000 e il 2010 ben tre milioni di lavoratori hanno potuto lasciare all'età di 58 anni con una pensione media di quasi 2 mila euro lordi al mese. Ovviamente, in questo gruppone ci sono anche gli ex operai che sono usciti prima dell'età di vecchiaia avendo iniziato a lavorare molto presto, e che non godono certo di un assegno cospicuo. Ma sono una minoranza. I due terzi hanno una pensione superiore a 1.500 euro. Prendiamo allora uno di questi pensionati-tipo: uno dei primi baby-boomers figli del dopoguerra, classe 1951, assunto ventenne da un'impresa privata, in pensione nel 2009 a 58 anni dopo 38 di lavoro. Oggi riceve un assegno di 2.120 euro lordi al mese. Quando nel 1996 Lamberto Dini introdusse il sistema contributivo, lui aveva già più di diciotto anni di lavoro alle spalle, e dunque resta immune dalla riforma: gli si continuerà ad applicare il vecchio calcolo retributivo per tutta la sua carriera. Insomma, niente riduzione retroattiva, come invece potrebbe succedere ora agli ex parlamentari, se la legge venisse approvata dal Senato e superasse le forche caudine della Corte Costituzionale. In soldoni, tutto questo significa che ancora oggi il nostro pensionato-tipo riceve ogni mese più di quanto ha pagato come contributi durante la sua vita lavorativa. Se la sua pensione fosse calcolata con il sistema contributivo, spiegano diversi studi di esperti previdenziali, dovrebbe prendere non 2.120 euro ma 1.520. Seicento euro in meno, una differenza del 28%. Ed è proprio questo il divario medio in Italia tra quanto riceve e quanto ha versato chi è andato in pensione anticipata con il retributivo. Fin qui non stiamo certo parlando di pensioni ricche, ma lo squilibrio si amplia notevolmente quando si passa alle classi di reddito più alte. Chi è andato in pensione con 4.100 euro mensili non avendo neppure compiuto 60 anni, oggi riceve ogni mese 1.400 euro in più di quanto avrebbe se gli si applicasse il sistema contributivo, il 34% in più. Questo significa che il doppio vantaggio dei pensionamenti anticipati e del sistema retributivo ha favorito soprattutto le classi più agiate.

Ma le discriminazioni pensionistiche non si fermano qui. Non è solo la linea di demarcazione intergenerazionale a squilibrare la nostra previdenza pubblica, anche se è la più macroscopica, perché divide le famiglie italiane tra sessanta-settantenni con pensioni superiori al dovuto e giovani o meno giovani con carriere precarie, penalizzati dal contributivo. Anche tra i pensionati fortunati che continuano a ricevere l'assegno in base al sistema retributivo, c'è chi è più favorito di altri: sono gli ex lavoratori dei fondi speciali, in parte confluiti nell'Inps perché in rosso cronico, e messi sotto esame già da qualche anno dall'Istituto guidato da Tito Boeri. Prendiamo gli ex lavoratori delle aziende elettriche. Fino al 1992 il legame tra la loro pensione e la retribuzione era molto più vantaggioso rispetto a quello degli altri dipendenti privati. L'assegno si calcolava in base alla retribuzione degli ultimi sei mesi, e non degli ultimi 5 anni. E inoltre il rendimento era fissato al 2,5% e non al 2. Lo stesso, o quasi, accadeva per ex telefonici ed ex ferrovieri. E ancora più favorevole era il trattamento degli ex prefetti, che vedevano la loro pensione seguire addirittura lo stipendio dell'ultimo giorno di servizio, maggiorata del 18% e senza tetti. I dirigenti d'industria, dal canto loro, potevano pagare contributi percentualmente più bassi dei loro dipendenti. Poi le regole sono cambiate e sono state equiparate a quelle di tutti i dipendenti privati.

Tutto risolto? Neppure per idea, perché per gli iscritti a quei fondi i vantaggi sono cessati solo parzialmente. Ancora oggi, infatti, la parte della loro pensione calcolata sugli anni di lavoro precedenti al 1992, continua a godere di quei favori ereditati dal passato. Per avere un'idea di quanto essi possano pesare ancora, prendiamo un pensionato iscritto a uno di quei fondi speciali, e ipotizziamo che sia stato assunto nel 1971 e abbia lavorato per 38 anni (come nell'esempio precedente). Prima del 1992 ha maturato 21 anni, dopo ha lavorato per altri 17. Questo significa che la sua attuale pensione viene calcolata per il 55% con le condizioni favorevoli delle vecchie leggi, e solo per il restante 45% con le più rigide regole vigenti. Il risultato di questo retaggio è che per i lavoratori dei fondi speciali lo squilibrio tra contributi versati e pensione ricevuta è ancora più marcato che per gli altri dipendenti privati. A ricevere il 30% in più di quanto versato sono i due terzi degli ex piloti e delle ex hostess, la metà dei pensionati dello spettacolo e un terzo di ex telefonici ed ex ferrovieri.

Tutto questo ovviamente ha un costo. Tra il 2008 e il 2012 quasi un milione di lavoratori sono usciti con un'età media di 58 anni e con il sistema retributivo. Sono dipendenti privati, autonomi, ma anche dipendenti pubblici, i quali godono tuttora di pensioni di anzianità più alte del 20% rispetto alla media. Per tutti loro lo Stato ha pagato e continua a pagare il 28% in più di quanto avrebbe versato con il sistema contributivo. Significa che se magicamente quel sistema fosse esteso a tutti, risparmieremmo 46 miliardi l'anno. Qualche tempo fa Tito Boeri, presidente dell'Inps, e Stefano Patriarca (oggi consigliere economico di Palazzo Chigi) proposero di imporre solo ai più benestanti un contributo di solidarietà, commisurato allo squilibrio esistente, per aiutare i numerosi giovani privi di un dignitoso futuro pensionistico. Si gridò allo scandalo, all'attentato ai diritti acquisiti e non se ne fece nulla. In realtà, non si trattava affatto di ricalcolare retroattivamente le pensioni in base al sistema contributivo (come si vuol fare adesso per gli ex parlamentari), ma di prevedere un "obolo" (in percentuale sulle pensioni avute oltre il dovuto) per riequilibrare almeno in parte una delle più forti discriminazioni economiche presenti in Italia. Che probabilmente sarà destinata a restare tale.

Maxi-stipendi, privilegi e ritardi. I numeri della casta delle toghe. Aumenti record con Monti: ai magistrati 833 euro in più al mese. Il vero stipendio? Oltre 140mila euro l'anno, scrive Marco Cobianchi, Domenica 23/07/2017 su "Il Giornale".  Se chiedete all'Inps qual è lo stipendio medio di un magistrato vi risponderà che è di poco più di 125mila euro lordi l'anno. A parte il fatto che si tratta comunque del trattamento più ricco tra tutte le categorie di dipendenti pubblici (compresi diplomatici e dipendenti della presidenza del Consiglio) quella cifra è falsa. O, meglio, è vera, ma non tiene conto delle «indennità fisse e accessorie». Solo aggiungendo questa parte della retribuzione si giunge al numero vero. Per arrivare alla cifra totale non bisogna rivolgersi all'Inps, secondo il quale nel 2016 la retribuzione contrattuale di un magistrato è stata appunto di 125.637 euro, ma bisogna controllare l'annuario statistico della Ragioneria Generale dello Stato, i cui dati si fermano al 2014 (l'annuario di quest'anno conterrà i dati del 2015). Aggiungendo la voce «indennità fisse e accessorie», lo stipendio di un magistrato sale a 142.554 euro. Per dare un'idea: è quasi 5 volte lo stipendio medio di un professore; 3,5 volte quello di un dipendente di un ente di ricerca e 3,3 quella di un docente universitario. Ma c'è di più: il sito Truenumbers.it ha elaborato il ritmo di crescita degli stipendi dei magistrati nel corso degli anni e ha scoperto qualcosa di molto interessante. Sempre considerando l'intera retribuzione, la retribuzione di un magistrato è passata da 120.161 euro del 2007 a 142.554 del 2014, il tutto mantenendo praticamente stabile la retribuzione fissa, sottoposta al blocco degli aumenti del pubblico impiego. Ad aumentare è stata la parte «variabile» e l'anno in cui è cresciuta di più è stato il 2012, in pieno governo Monti, durante il quale la busta paga è passata da 131.295 euro a 141.675 euro. In sostanza mentre il professore della Bocconi reintroduceva l'Imu sulla prima casa e aumentava l'età pensionabile, gli stipendi dei magistrati crescevano al ritmo rossiniano di 833 euro ogni mese per 12 mesi. Naturalmente in questa media ci sono tutti: magistrati e giudici molto produttivi e quelli meno. Quali sono i primi e i secondi? L'Ufficio Parlamentare di Bilancio ha redatto la classifica dei migliori e peggiori tribunali d'Italia sulla base dei dati del 2015, considerando un indice chiamato «indicatore di sforzo». Ovvero un coefficiente che stabilisce di quanto un tribunale dovrebbe aumentare il numero di procedimenti definiti ogni anno perché in quel tribunale si arrivi alla parità tra procedimenti aperti e procedimenti chiusi nell'arco di tre anni. Il risultato è che il tribunale di Patti dovrebbe aumentare i processi definiti del 96% ogni anno, quindi quasi il doppio di ora. Quello di Vallo della Lucania dell'88% e quello di Barcellona Pozzo di Gotto del 70%. Aosta, Ferrara e Vercelli, invece, dovrebbero lavorare meno, perché hanno un «indicatore di sforzo» negativo rispettivamente del 9%, del 7% e del 4% e questo significa che la parità tra procedimenti che si aprono e procedimenti che si chiudono è già stata raggiunta. Nel grafico in queste pagine sono indicati i 10 peggiori tribunali italiani (quelli che hanno un valore positivo) e i 10 migliori (quelli con un valore negativo). Milano, in questa classifica, sta a metà: dovrebbe aumentare il numero di processi definiti dell'1% l'anno. Questa scarsa produttività è stata compensata da alcuni correttivi del sistema giudiziario che hanno accelerato i tempi di definizione dei processi. Tra questi il processo telematico, l'obbligo del tentativo di conciliazione e, non ultimo, il taglio dei giorni di ferie dei magistrati, che le toghe hanno osteggiato con tutte le loro forze. Il risultato è che l'arretrato civile è in calo dal 2011. L'arretrato resta comunque enorme: 3.761.613 processi da definire a marzo di quest'anno rispetto agli oltre 5 milioni e 700mila del 2009, quando il sistema ha rischiato effettivamente di andare in tilt. Quegli oltre 3,7 milioni di processi arretrati non hanno solo un riflesso sulla qualità della giustizia, ma sono anche una terribile minaccia per le finanze pubbliche. Nel 2001 l'onorevole prodiano Michele Pinto ha dato il nome a una legge («legge Pinto») in base alla quale il cittadino che si ritiene danneggiato per l'eccessiva durata di un processo può chiedere il risarcimento allo Stato. Ovviamente non tutti i protagonisti di quei 3,7 milioni di processi possono chiedere il risarcimento, ma solo quelli che rientrano nelle fattispecie della legge, ovvero quelli il cui processo dura da oltre tre anni per il primo grado, due anni per l'appello e un anno in Cassazione. E quanti sono questi processi? Esattamente 607.233. Ipotizzando che solo una persona per ogni processo chiedesse un risarcimento (eventualità che non succede mai), ci sarebbero 607.233 richieste di risarcimento. Per evitare il rischio di dover rifare i conti del bilancio pubblico, nel 2012 sempre il governo Monti ha limitato questa possibilità e fissato un minimo (400 euro) e un massimo (800 euro) risarcibile per ogni anno di ritardo oltre i termini fissati per legge. Ecco perché i magistrati, oltre che per gli stipendi stratosferici, a confronto con quelli di tutti gli altri dipendenti pubblici, se non lavorano abbastanza rischiano di pesare sul bilancio dello Stato due volte.

La resistenza dei dirigenti di Stato, sono i più pagati d’Occidente. Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani. Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni, scrive Sergio Rizzo il 17 luglio 2017 su "La Repubblica". L'ultima rilevazione dell'Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell'Australia. Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l'anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci. I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all'Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi. Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l'introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell'Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l'incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all'1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell'orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l'anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l'Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l'Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l'obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili. La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica. Tanto basta per innescare l'immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l'efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la "consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso", specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato "l'irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa". Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l'Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi. I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l'obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell'incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione.

“La casta dei Pionieri tiene in pugno la Croce Rossa”. Le rivelazioni di un dirigente in incognito, scrive Lorenz Martini su "it.businessinsider.com" il 13 febbraio 2017. Un’associazione nell’associazione che grazie al controllo capillare dei voti dei propri affiliati tiene in pugno la Croce Rossa Italiana (Cri). È l’accusa mossa da numerosi membri della Cri a quella fetta di volontari che in passato hanno fatto parte del corpo dei Pionieri. Un nutrito gruppo di persone, che oggi hanno tra i 30 e i 45 anni, entrate giovanissime nella Cri – quando era ancora ente pubblico – e dalla quale non ne sono più uscite. «È una sorta di confraternita che ha preso il controllo di qualsiasi struttura gerarchica, escludendo gran parte di noi volontari che siamo entrati in Cri senza passare dalla componente giovanile. È un organismo interno, ma avulso dal resto dell’Associazione che si auto-genera e autoprotegge», accusa apertamente un dirigente dell’Associazione che chiede di restare anonimo. A fare le spese di questa ascesa, le altre componenti storiche della Cri, sia militari che civili. Per comprendere chi sta vincendo la partita per la conquista del potere nella più grande e capillare associazione di volontariato italiana, è necessaria un po’ di storia: i Pionieri sono stati fino al 2012 una delle sei componenti che formavano il grande mare dei volontari, assieme a Corpo Militare, Corpo delle Infermiere Volontarie (le Crocerossine), Comitato Femminile, Donatori di Sangue e Volontari del Soccorso. Sei mondi paralleli che per decenni hanno convissuto avendo propri vertici, propri regolamenti, propri capi e proprie strutture. Sotto un’apparente unitarietà, nella Cri convivevano, cioè, sei associazioni diverse, alternative e, spesso, in competizione per il potere.

Una convivenza che si interrompe nel 2012, quando Francesco Rocca, smessi i panni di commissario straordinario di Cri e vestiti quelli di presidente della stessa Cri, vara una riforma che riduce a tre le componenti originarie: i Volontari (nei quali confluiscono anche i Pionieri), il Corpo Militare e le Crocerossine.

«Quando sono arrivato ho trovato un mondo lacerato e in lotta continua», ha spiegato lo stesso Rocca a Business Insider Italia, «con ambulanze dei Pionieri che facevano a gara con quelle dei Volontari del soccorso… Ognuna delle sei componenti poi aveva il proprio nucleo decisionale e le proprie gerarchie. Per questo le ho sciolte. Una rivoluzione che non è piaciuta a molti, e ad attaccare i Pionieri oggi sono quelli che in passato avevano un feudo e che oggi non l’hanno più». Nonostante le buone intenzioni, la riforma Rocca non sembra aver azzerato le divisioni. Al limite ha cambiato le regole della lotta intestina, che ora si gioca sul piano elettorale. Ed è proprio utilizzando nel migliore dei modi il sistema elettorale maggioritario senza quorum previsto dai regolamenti della Cri per ogni elezione che gli ex giovani, pur numericamente minoritari – sono circa 30 mila sui 150 mila associati di Cri –, riescono a fare manbassa di cariche, escludendo gli storici rivali. «I vertici degli ex Pionieri controllano capillarmente i voti dei loro ex confratelli e li fanno convergere in massa sui candidati scelti nelle loro liste. Se si considera l’alto astensionismo che si registra alle votazioni e il sistema elettorale inefficiente voluto da Rocca (che permette di conquistare la presidenza di un comitato anche con un solo voto espresso), si capisce come questa componente abbia potuto prendersi tutto. Tra Pionieri e presidente Rocca vige l’accordo perfetto: loro controllano l’Associazione e lui continua a fare il Presidente», spiega ancora il nostro dirigente. Un ombrello che coprirebbe dal piccolo comitato locale al massimo organo direttivo nazionale: «Dopo la riforma, la Cri è governata da un Comitato Direttivo Nazionale formato da cinque membri. Almeno due di questi sono ex Pionieri. Tale Comitato ha poi conferito il comando del Segretariato Generale – cioè della struttura che gestisce direttamente tutti i fondi di Cri – a un altro ex Pioniere, il dottor Flavio Ronzi, nominato con chiamata diretta e retribuito con uno stipendio da 104 mila euro annui». Interpellato da Business Insider Italia, Ronzi smentisce seccamente: «Confermo di essere stato Pioniere dai 15 anni ai 22 anni, ma poi sono andato all’estero a occuparmi di altro e non ho più avuto rapporti con quella componente», spiega. E, alla domanda se secondo lui esiste un potere parallelo che oggi controlla la Cri, risponde: «Forse fino al 2009 sì. Poi è arrivata la riforma di Rocca che ha sciolto le componenti proprio per questo motivo. La tesi del monopolio dei Pionieri non regge: i giovani erano 30 mila, i Volontari del soccorso 90 mila, quindi anche solo il rapporto numerico dimostra che non ci può essere alcuna supremazia. Credo che oggi neanche un quarto dei Comitati locali sia gestito da ex Pionieri…». Se questa proporzione fosse corretta sarebbero circa 150 Comitati locali sui 638 esistenti in mano a ex Pionieri. Sarà, ma a scorrere l’organigramma della Cri, non sembrerebbe affatto così. Ex Pionieri sono Massimo Barra, già commissario straordinario nazionale ora membro della Standing Commission del Comitato Int.le della CR; Antonino Calvano, Presidente Cri Piemonte e Pietro Ridolfi, Capo della Commissione Cri per il Diritto Umanitario e delegato tecnico nazionale per l’Obiettivo Strategico 4; Adriano De Nardis, presidente Cri Lazio e membro del Comitato di Gestione dell’Ente Strumentale alla CRI (la bad company nella quale sono confluiti i debiti monstre di Cri); Nicola Scarfò, segretario generale Cri Lazio; Rosario Valastro, già presidente Cri Sicilia, oggi vice presidente nazionale Cri e membro del Comitato Ente Strumentale Cri; Gabriele Bellocchi, membro del Consiglio Direttivo Nazionale Cri in rappresentanza della Gioventù; Francesco Pastorello, presidente Comitato Cri Roma 2; Roberto Tordi, Vice presidente Cri Lazio; Stefano Carmelo Principato, presidente della Cri di Catania, quello che controlla il famigerato CARA di Mineo. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo. Una concentrazione di potere che non si riscontra nella altre Croci Rosse del mondo. In tutti i massimi organi direttivi delle “sorelle” internazionali, infatti, è presente solo il delegato dei Giovani e le strutture sono gestite dai “normali” volontari. Nel Consiglio della Croce Rossa Svizzera, per esempio, a parte il rappresentante della Gioventù, nessun altro membro ha un passato nel corpo giovanile.  È una legge non scritta, ma da sempre rispettata a tutti i livelli, nazionali e cantonali proprio per evitare “equivoci”, fanno sapere da Ginevra. Secondo i detrattori, infine, avere in mano le cariche comporta guadagni personali ma, soprattutto, il controllo del mercato del lavoro. «Ai tempi della Cri ente pubblico, il ragazzo entrava come volontario nei Pionieri dopo i 14 anni. Una volta maggiorenne, se il soggetto era disponibile e interessato a rimanere, esistevano meccanismi di chiamata ad personam che lo inserivano in un sistema di lavoro discontinuo, ma ciclico. Infine, quel rapporto lavorativo precario veniva stabilizzato con un decreto ministeriale o con legge ad hoc», spiega il dirigente. In pratica si entrava nell’ente pubblico senza alcun concorso. «Dopo il decreto Monti del 2012 questo sistema di cooptazione è stato bloccato, tuttavia ancora oggi i Comitati locali dove possono assumono. E diciamo che tra i neo-assunti chi è stato Pioniere ha una via privilegiata. Ed è incredibile, se si pensa che la Croce Rossa ha appena finito di smaltire gli oltre 900 lavoratori in esubero che aveva dovuto assumere a seguito delle sentenze dei magistrati». Inoltre, conclude il dirigente, mancherebbe del tutto la trasparenza: «Nel comitato di Roma Città Metropolitana, nonostante il Codice Etico imponga di rendere noti a tutti i volontari i nomi degli assunti, non è dato sapere quanti siano attualmente i pionieri retribuiti».

Alla Camera gli stipendi dei dipendenti costano il doppio di quelli dei deputati. Spesi 175 milioni di euro per funzionari e commessi, 81 per gli onorevoli, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". Filtrano le prime indiscrezioni sul bilancio consuntivo interno della Camera dei deputati per l'anno appena concluso. E salta subito agli occhi che, in tempo di magra e di rigore pressoché obbligato, si possono comunque spendere 60mila euro per fotografie ufficiali. È il giornale on line La notizia, diretto da Gaetano Pedullà, a riportare alcune delle voci più curiose del bilancio di Montecitorio, appena approvato dall'ufficio di Presidenza. Altri 10mila euro sono stati investiti nel rinnovo del particolare «guardaroba» rappresentato dalle bandiere. Oltre agli acquisti ci sono naturalmente i servizi. All'interno della Camera dei deputati, ad esempio, costa 200mila euro l'anno la gestione di un efficiente servizio di guardaroba. «Senza dimenticare - si legge sul sito La notizia - i due milioni per la ristorazione, gli oltre 5 milioni per pulire i tanti uffici e sedi della Camera dei deputati e 1,6 milioni per spostare mobili e incartamenti vari». E, alla fine, il conto non può che essere salato: più di 75 milioni di euro spesi nel corso del 2016 per garantire servizi, beni e forniture di ogni tipo a deputati e dipendenti di Montecitorio». Entrando poi nel dettaglio delle varie voci di spesa si nota, tra l'altro, che la Camera dei deputati ha speso 300mila euro complessivi per rinnovare gli arredi interni degli uffici. E facendolo, peraltro, con sicuro gusto, come si può evincere da quei 25mila euro pagati a Poltrona Frau. D'altronde - rivela il sito La notizia - questi mobili sono particolarmente graditi a Montecitorio. Nel 2016, infatti, la Frau aveva ricevuto un'altra commessa da oltre 14mila euro e prima ancora da 18mila. Ma non è finita qui. Accanto alla già citata spesa di guardaroba, va ricordato quella ben più impegnativa che riguarda il vestiario di servizio. Nel 2016 sono stati spesi 170mila euro. Senza dimenticare, ancora, i 370mila euro spesi per carta e materiale da cancelleria, oppure i tanti contratti siglati per mostre, convegni e meeting: che in un anno ammontano a circa 90mila euro. Ovviamente queste sono le cifre più curiose. Ma anche le più modeste. Andando a vedere nel bilancio di previsione si può constatare come la spesa maggiore resta quella per il personale. Il costo è di 175 milioni di euro, mentre gli emolumenti per i deputati della XVII legislatura sono meno della metà (vale a dire 81 milioni di euro). Ma non è tutto. Perché nella giungla dei contratti e delle spese spuntano anche situazioni singolari. Per la locazione di uffici, per esempio, la Camera ha versato in un anno un totale di circa 43mila euro al Patriarcato di Antiochia dei siri, che è proprietaria di un immobile nella centralissima piazza di Campo Marzio. Insomma resistono le note curiose (come gli oltre 60mila euro per i corsi di inglese per personale e deputati) ma è pur vero che Montecitorio si attiene al «rigore» imperante e continua a tagliare i costi. Quello appena concluso è stato il quinto anno consecutivo di riduzione delle spese. Come si legge sul sito ufficiale della Camera dei deputati, rispetto al bilancio del 2011 che rappresentava il picco di spesa nella storia repubblicana di Montecitorio, le spese sono state ridotte del 12,8 per cento. Singolare poi che sempre nello stesso prospetto informativo si faccia un malizioso confronto con quanto speso dalle amministrazioni centrali dello Stato. E nello stesso arco di tempo 2011-2016 lo Stato avrebbe aumentato - secondo il sito della Camera dei deputati - le spese di gestione dell'11 per cento.

Gioachino Rossini, il baby pensionato che scherzò i francesi, scrive 30 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Ecco come il grande compositore aggirò legalmente la burocrazia. Tra due settimane circa inizia la trentesima edizione del Rossini Opera Festival (ROF per gli amici) e Pesaro diventa la Bayreuth italiana: pubblico internazionale, spettacoli (tre opere, un’opera per i giovani dell’Accademia Rossiniana e concerti) i cui biglietti sono esauriti da tempo e lauti guadagni al territorio (studi econometrici affermano che un euro di contributo pubblico ne porta almeno sei al territorio nel periodo della manifestazione). Rarissimi però sono i rossiniani che sanno che Rossini, grazie all’assistenza di abili avvocati, può essere considerato il proto pensionato per eccellenza italiano (la percepì dall’età di trentasette anni – morì a settantasei anni- a livelli quasi analoghi al suo stipendio). Non solo riuscì anche ad aggirare, legalissimamente, il governo francese che la erogava. Andiamo con ordine. Quando Rossini cominciò a lavorare ed avere le sue opere rappresentate nei teatri italiani, la normativa sui «diritti d’autore» stava evolvendo negli Stati della Penisola italiana, considerata dai più una mera «espressione geografica», come la avrebbe chiamata Metternich al Congresso di Vienna. Una normativa, importata dalla Francia napoleonica, esistette in quella parte allora chiamata Repubblica Cisalpina dal 1801. Si modellarono su questa normativa il Regno delle Due Sicilie nel 1811 e lo Stato Pontificio nel 1826. La convezione sui diritti d’autore austro- sarda del 1840 (a cui aderirono quasi tutti gli Stati della Penisola). Occorre sottolineare che unicamente la normativa del Regno delle Due Sicilie era tarata agli spettacoli dal vivo; tuttavia era difficile monitorare l’applicazione della brutta prassi di impresari e gestori di teatri (specialmente d’opera) di modificare organici orchestrali, vocali, tagliare brani ed introdurne altri di autori differenti. Alcune di queste prassi sono diventate di tradizione: ad esempio, sino agli Sessanta del Novecento ne Il barbiere di Siviglia, opera che restò sempre in repertorio, il ruolo di Rosina veniva affidato ad un soprano lirico- leggero (non ad un mezzo- soprano od anche contralto per cui era stato scritto) e l’aria finale del tenore Cessa di più resistere veniva tagliata. Per diversi anni, Rossini lavorava con scritture e contratti in base ai quali la proprietà dell’opera restava al teatro o all’impresario che la aveva commissionata. Non pare che si curasse eccessivamente degli “adattamenti” da lui non autorizzati in riprese od in altri teatri. In effetti, fu essenzialmente Giuseppe Verdi, con il supporto di Casa Ricordi, che si adoperò per una normativa organica che tentasse di impedire il malcostume di modificare (tagliando, aggiungendo, interpolando) opere liriche quando venivano riprese o rappresentate in altre città. Per diversi anni, Rossini venne anche pagato poco. Stendhal sottolineò che, nella prima fase del suo periodo napoletano, i suoi cachet erano la metà di quelli che a Parigi prendeva Feydeau. Propose che venisse invitato in Francia: a Rue Pellettier (sede, con diversi nomi, dell’Opéra dal 1821 al 1873 quando venne distrutta da un incendio) – scrisse nelle sue memorie – l’accoppiata Feydeau per i testi (di opere comiche) e Rossini per la musica avrebbero fatto faville e portato incassi sbalorditivi. Man mano che passarono gli anni, Rossini si smaliziò e chiese onerari più consistenti a Barbaja. Il suo capolavoro, grazie all’assistenza di ottimi legali, fu il contratto concluso nel 1824 con l’Académie Royale de Musique, parte integrante del perimetro della pubblica amministrazione del Regno di Francia. Prevedeva un’«esclusiva» per le future composizioni di opera lirica ( poteva comporre opere per altri dopo una speciale procedura di autorizzazione) sino a quando ne avesse avuto la vena, uno stipendio annuo di 6mila franchi da convertire in pensione quando non avesse più potuto comporre per la scena lirica) e l’obbligo di produrre un’opera nuova ogni due anni dietro un compenso aggiuntivo di 15mila franchi. L’interpretazione (riconosciuta corretta dalla Corte di Cassazione francese dopo una lunga vertenza giudiziaria, ben cinque anni) fu tanto lasca, e molto «arcitaliana» da ricordare i film di Steno con Totò o Sordi come protagonisti. In primo luogo, venne subito autorizzato a comporre una cantata scenica (Il viaggio a Reims) per il Théâtre des Italiens in occasione delle celebrazioni per l’incoronazione di Carlo X. In secondo luogo, le prime tre opere composte in osservanza del contratto non erano originali ma rifacimenti ed adattamenti al gusto francese: Le siège de Corinthe (una rarità che il 10 agosto inaugurerà il ROF) di quel Maometto Secondo che ( in grande anticipo sui tempi) non aveva avuto alcuna fortuna a Napoli e pochissima a Venezia, Moïse et Pharaon adattamento del Mosé in Egitto e Le comte Ory dove trasfuse oltre la metà della musica de Il viaggio a Reims,che era stato eseguito solo tre sere in un teatro frequentato prevalentemente dagli italiani residenti a Parigi. All’epoca, le comunicazioni erano tali che a Parigi pochi sapevano cosa, anni prima, era stato messo in scena a Napoli ed a Venezia. Nel 1829, ultimo capolavoro per l’Académie Royale de Musique, quel Guillaume Tell (altra opera che in versioni scorciate e, se del caso, tradotte restò sempre in repertorio, in Francia, Italia e Germania in tutto l’Ottocento). Sfibrato, dopo il Guillaume Tell, ed alle prese con una depressione che sarebbe stata la più grave e la più lunga della sua vita, invio, per così dire un «certificato medico» per documentare che non avrebbe potuto ottemperare alla stesura di una nuova opera, come previsto dal contratto. Pochi mesi dopo, con la rivoluzione del 1830 (quella descritta ne Les misérables di Victor Hugo), cambiò regime: iniziarono i 18 anni di regno di Louis Philippe. Il nuovo governo non aveva alcuna intenzione di proseguire con l’attuazione di un contratto oneroso e che aveva avuto nei primi anni un’applicazione un po’ lasca. Rossini, che dopo Guillaume Tell era andato in Italia per un periodo di riposo, tornò in Francia per seguire la vertenza legale e per tentare un ricucire con Isabella, e vi resto sino al 1836, prestando consulenza gratuita a Carlo Severini, régisseur del Théâtre des Italiens dove portò, ad esempio, Bellini, Donizetti e Mercadante. La vertenza si concluse con la vittoria di Rossini alla Corte della vita di una lauta pensione e di «diritti d’autore» per i titoli rimasti in repertorio (Il barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, Semiramide, Guillaume Tell durante il romanticismo ed il verismo).

VITALIZI, ALLA CAMERA SI VOTA IL “VIGLIACCHELLUM”, scrive Cristofaro Sola su “L’Opinione” il 27 luglio 2017. Qualcuno l’ha definito un’arma di distrazione di massa. È il disegno di legge “Richetti” (dal nome del deputato Matteo Richetti del Partito Democratico, primo firmatario della proposta), che dispone l’abolizione dei vitalizi e una nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali. Che in coda di legislatura in Parlamento si discuta un argomento parecchio scivoloso è il segno dei tempi che viviamo. Non è un caso se l’iniziativa parta dal Pd. Matteo Renzi ha ingaggiato una lunare rincorsa alla demagogia da un tanto al chilo dei Cinque Stelle. Si batte la pista del moralismo qualunquista pur di raccattare voti. È un’indecenza. Certo, la percezione dell’opinione pubblica che la “casta” goda di ingiusti privilegi è reale e non può essere negata. Soprattutto in un momento di forte crisi economica e occupazionale. La gente comune, quando soffre, si mostra più incline a erigere forche (simboliche) dalle quali far penzolare i veri o presunti responsabili delle proprie disgrazie. Ma bisogna stare attenti. Nella foga giustizialista si possono commettere abusi che ledono i fondamenti della vita democratica del Paese. Facciamo chiarezza. I vituperati vitalizi non esistono più da tempo. Già con la riforma dei Regolamenti interni delle Camere del 2012, l’assegno vitalizio di deputati e di senatori era stato abolito e sostituito con un sistema di tipo previdenziale. Ciò che si propone l’odierna iniziativa parlamentare è di estendere il trattamento previdenziale vigente, basato sul calcolo dei contributi versati, anche agli ex parlamentari che attualmente percepiscono i vitalizi in forza della legge n. 1261 del 1965, di molto antecedente alla riforma del 2011. Il nocciolo della proposta, che ha scatenato un’assurda concorrenza tra piddini e Cinque Stelle ad attribuirsi la medaglia del campione dell’anti-casta, verte sull’equiparazione del trattamento pensionistico di tutti i parlamentari e dei consiglieri regionali, passati e presenti, al sistema previdenziale vigente per i lavoratori dipendenti. Il presupposto ideologico, sancito in premessa nel disegno di legge, è di “abolire definitivamente i trattamenti in essere basati ancora sull’iniquo sistema degli assegni vitalizi”. Insomma, più “Fornero” per tutti. Sarà così, ma a noi sembra una fregnaccia pazzesca. E pericolosa. Posto che i guai dell’Italia e del suo enorme debito pubblico non si risolvono allungando le mani nei portafogli di alcune vecchie cariatidi della politica, la domanda che ci poniamo è: perché loro e solo loro? C’è un mondo di distinti signori e signore che nella vita hanno avuto la capacità e la fortuna di svolgere lavori interessanti e ben remunerati e che sono andati in pensione godendo del regime retributivo. Grazie a quel sistema ricevono trattamenti da nababbi sui quali nessuno osa dire nulla se non che, valendo il principio di affidamento sui diritti acquisiti, lo Stato non può cambiare le regole in corso. Sacrosanto! Ma se funziona per magistrati, boiardi, burocrati, generali con le stellette e direttori generali senza stellette, per funzionari di periferia e dirigenti Rai, e tanta altra varia umanità, perché non dovrebbe valere per i politici? Tralasciando le considerazioni di contorno, quello che preoccupa è la filosofia che sostiene un tale provvedimento. Rappresentare la politica come un luogo del malaffare e i politici come una banda di ladri da dover neutralizzare con apposite leggi punitive è più che sbagliato: è folle. Qui la colpa ce l’hanno tutti perché non si è fatto abbastanza per contrastare con forza la scriteriata rappresentazione della vita politica come vita di casta. La democrazia e lo Stato di diritto, per reggere, necessitano di organi i cui membri siano effettivamente liberi, cioè non subiscano ricatti o pressioni di sorta. Per questo i padri costituenti avevano previsto che venisse sancito il principio dell’affrancamento del rappresentante del popolo da ogni forma di bisogno. Anche economico. Quello che oggi viene demagogicamente definito un privilegio altro non è che una garanzia di libertà. E pazienza se, in settant’anni di vita repubblicana, ci sia stato qualcuno che di quel sacro principio abbia fatto strame. Se uno sciagurato prende a martellate la Pietà di Michelangelo non per questo si chiudono tutti i musei. Per quanto ci riguarda non abbiamo mai condiviso le idee di personaggi del calibro di Massimo D’Alema o di Ciriaco De Mita, o di altri, pensiamo a Mario Capanna contro cui in tempi lontani di bella giovinezza abbiamo combattuto e anche fatto a botte. Ma mai e poi mai ci verrebbe di pensare, sull’onda montante di un becero demagogismo, di prenderci la rivincita tagliandogli i viveri. Si può essere demenziali, e in questo piddini e Cinque Stelle si contendono la palma, ma vigliacchi fino a questo punto no.

La "solita Italia del retroattivo": l'addio ai vitalizi tra demagogia e incostituzionalità, scrive il 27 luglio 2017 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. Approvato ieri alla Camera il ddl Richetti sull'abolizione dei vitalizi dei parlamentari e la loro trasformazione in una rendita totalmente calcolata con il metodo contributivo: in attesa del passaggio in Senato, il commento del Prof. Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. Ieri la Camera dei Deputati ha votato l'abolizione dei vitalizi dei parlamentari (senatori e deputati) e la loro trasformazione in una rendita calcolata con il metodo contributivo. Ora il provvedimento passa al Senato, dove non avrà molte possibilità di essere approvato in via definitiva. Più probabile che venga modificato e debba tornare alla Camera ma, a questo punto, non ci saranno più i tempi per via della conclusione della legislatura. In qualsiasi Paese civile dove vige la "certezza del diritto", non avremmo visto uno spettacolo così deprimente di giovani parlamentari con un discutibile curriculum e ancor più discutibile esperienza - riflettano i rottamatori - esultare per aver sottratto "l'osso" alla odiata "casta" di vecchi politici. Peraltro, il Parlamento aveva già provveduto, a partire dal primo di gennaio del 2012 (con un iter partito prima della riforma Fornero), a eliminare da quella data i vitalizi sostituendoli con una pensione a calcolo contributivo; vero è che erano rimaste alcune norme di privilegio come l'età di pensionamento a 65 anni anziché 66 anni e 7 mesi (che il provvedimento approvato ieri elimina, armonizzandolo sì con quello degli altri lavoratori, ma solo dalla prossima legislatura; per questa, i "baldi giovani" si sono tenuti il privilegio, non si sa mai) e le reversibilità più generose, ma è altrettanto vero che è stata introdotta la norma "capestro", secondo la quale se non si raggiungono i 4 anni e mezzo di legislatura si perdono tutti i contributi a meno che non si venga rieletti. E non è stata prevista nemmeno l'armonizzazione con il sistema di base in termini di ricongiunzioni e totalizzazione. Ma, mentre il provvedimento del 2012 è in linea con tutte le esperienze riformatrici europee e anche italiane (dal lontano 1992), quella di ieri non solo è una manovra populistica e demagogica, ma è anche pericolosa e con buona probabilità anticostituzionale. Credo che la suprema Corte a fronte di probabili ricorsi, non possa che cassare la norma. Non credo sia necessario spiegare perché la manovra Richetti - Di Maio (non si capisce chi sia il papà e chi la mamma) sia populismo e demagogia pura (è sufficiente risentire gli interventi dei due), anche perché si poteva intervenire con contributi di solidarietà calcolati in base a anzianità contributiva ed età attuale del pensionato (a un vecchio parlamentare che oggi ha 80 anni e prende 4 mila euro di vitalizio non è civile ridurre la prestazione senza una regola precisa). Per la pericolosità, mi pare più che ovvio che, dopo questo passaggio i giovani pentastellati (chissà se anche questa volta il PD dei rottamatori vorrà superarli), punteranno a ricalcolare le pensioni che loro definiscono "d'oro" per redistribuire il tutto sotto forma di reddito di cittadinanza, ovviamente dopo aver di nuovo "rapinato" i cittadini italiani risparmiatori con una bella patrimoniale. Qualche proposta è già stata avanzata dai ruspanti di destra e sinistra e anche a livelli di più elevata competenza. Sarebbe una follia perché i primi a non fidarsi più dello Stato sarebbero i giovani: perché versare i contributi, se tra 40 anni ricomparirà un Di Maio o un Richetti a tagliare la già non elevata pensione? Siamo la solita Italia del retroattivo, come la revisione degli incentivi sulle energie rinnovabili, sui contratti di locazione della pubblica amministrazione (-15% per legge) e così via. E poi ci chiediamo perché le aziende estere non investono in Italia e, al massimo, comprano ma poi portano le produzioni, dove la politica è più seria. Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.

Il vitalizio è morto, viva il vitalizio! La sospensione dei vitalizi per i parlamentari condannati in via definitiva a reati gravi, voluta da Laura Boldrini e Pietro Grasso, è una misura giusta e moralizzatrice, oppure demagogia a buon mercato? Scrive l'8 Maggio 2015 “Il Foglio”. La sospensione dei vitalizi per i parlamentari condannati in via definitiva a reati gravi, voluta da Laura Boldrini e Pietro Grasso, è una misura giusta e moralizzatrice, oppure demagogia a buon mercato? La domanda è ancora più attuale in queste ore, mentre infuria il dibattito sulle pensioni (di tutti) sbloccate dalla Corte costituzionale ma per le quali non ci sono i soldi. A chi pensa che i politici siano tutti brutti, sporchi e cattivi, l’iniziativa della quale Boldrini & Grasso si stanno fregiando come di una medaglia (“un segnale di forte moralizzazione” tuìtta la presidente della Camera) appare minimalista. Perché allora non abolire ogni forma di finanziamento pubblico dei partiti? Peccato però che in particolare la sinistra, soprattutto boldriniana, ma anche una frangia cospicua dell’estrema destra e della Lega, non vogliano sentire parlare di erogazioni private (chiare e dichiarate, s’intende). E che quegli stessi considerino le fondazioni delle organizzazioni di malaffare a prescindere. Fingono di non sapere che anche in Italia esistono le lobby che altrove sono legali e necessitano di badge di riconoscimento, mentre qui, fino a non molto tempo fa, partecipavano alle consultazioni di governo. Coloro che rifiutano un rapporto laico con la politica, e invece lasciano che sia la politica a dipendere dalle campagne del Fatto quotidiano o da Facebook, sono però poi gli stessi che difendono l’intangibilità del mandato parlamentare, che contrabbandano le preferenze come valore etico assoluto per la “gggente”, che denunciano il voto di fiducia come prova inconfutabile di tirannide. Vabbè allora togliete i vitalizi a qualche colpevole di mafia, strage, terrorismo, truffa grave ai danni dello stato. I codici militari, per dire, prevedono già norme molto più restrittive. Poi però – e visto che proprio su questo punto i giuristi sono divisi e si rischia il bis dei giorni scorsi – spiegateci come fate contemporaneamente a difendere e a calare il tutto in un sistema previdenziale universalistico, per buoni e cattivi, con contributi fasulli e baby pensionati, scatti e riscatti, finte invalidità. Nonché con trattamenti da sogno, e supercumulati, per l’alta burocrazia e l’alta magistratura. Quelli sì intoccabili.

"Noi privilegiati? Voi invidiosi dei vitalizi".

L'INTERVISTA/FRANCESCO SPERONI (LEGA) CRITICA LA RIFORMA APPROVATA: PRENDE 79MILA EURO ALL'ANNO. In Italia chi ha pensioni sopra la media viene penalizzato. Perché allora non riduciamo anche quelle dei magistrati? scrive Monica Rubino il 24 marzo 2017 su "La Repubblica". «I tagli sono ricorrenti. In questo Paese chi ha pensioni sopra la media viene penalizzato. È una questione di demagogia pura e invidia sociale». Francesco Speroni commenta così i tagli ai vitalizi più pesanti degli ex onorevoli approvata mercoledì dall'Ufficio di presidenza della Camera su proposta del Pd. Già senatore della Lega Nord dal 1992 al 1999, nonché europarlamentare del Carroccio per quattro legislature, Speroni è un "vitaliziato" di lusso, che cumula l'assegno da ex parlamentare (circa 4.500 euro mensili) alla rendita da ex deputato europeo (altri 1.500). Un totale di seimila euro, a cui va aggiunta la pensione Inps (2 mila euro) come tecnico di volo ottenuta a 50 anni. Totale: 8 mila euro netti al mese.

Lei è consapevole di essere un privilegiato?

«Sì e non me ne vergogno, non mi sento un profittatore: tra lavoro precedente e impegno in politica ho versato 35 anni di contributi».

Ha già fatto i conti di quanto perderebbe se anche il Senato varasse i tagli decisi dalla Camera?

«Io prendo 79 mila euro lordi all'anno (da parlamentare, escluso l'Inps ndr), quindi rientrerei nella prima fascia. Dovrebbero sottrarmi il 10%. Non è un gran danno, ma mi sembra comunque un'ingiustizia».

Le rimarrebbe comunque una bella cifra.

«Chi ha un vitalizio di 69 mila euro non è toccato dai tagli. Ad averlo saputo sarei rimasto a fare la mia attività in Alitalia, così nessuno avrebbe avuto da recriminare. E avrei ottenuto la stessa somma che prendo adesso cumulando tre pensioni».

Quindi per lei c'è un "accanimento punitivo" contro i politici?

«Si, e non capisco perché. Se i tagli si fanno per una questione di solidarietà allora si estendano a tutte le altre categorie. Ad esempio i magistrati prendono pensioni più alte dei parlamentari: ma a loro nessuno dice niente».

Che ne pensa della proposta del M5S di abolire del tutto i vitalizi?

«Il M5s è contro per principio. Ma se uno nella vita fa solo il politico, poi come campa? Io sarei salvo, mi rimarrebbe la pensione Inps».

E anche quella da eurodeputato.

«Certo, quelle non sono state ritoccate. Comunque io propongo di ribaltare l'idea dei grillini».

Sarebbe a dire?

«Loro vogliono che le pensioni dei politici abbiano le stesse regole dei cittadini? Facciamo il contrario: estendiamo alle persone normali le regole dei parlamentari».

E quindi, se faccio l'operaia per 4 anni, 6 mesi e un giorno, a 65 anni mi danno la pensione?

«Esatto. Si riprende quel che ha versato».

Vitalizi: “Finalmente sarà tre volte Natale e festa tutto l'anno", Cirino Pomicino e Ciriaco De Mita ringraziano, scrive Pietro Francesco De Sarlo su Basilicata24 il 27 luglio 2017. Evviva! Giustizia è fatta! Finalmente sono stati aboliti i vitalizi a questi odiosi parlamentari! E ora andate a lavorare! Finalmente i giovani troveranno lavoro, sarà tre volte Natale e festa tutto l'anno, nessuna azienda fallirà e nessun professionista rimarrà senza lavoro. In aggiunta nessuno potrà dire ai pensionati: visto che abbiamo tagliato la pensione a Cirino Pomicino la tagliamo anche a te!” Che c’entrano i pensionati? Qui parliamo di vitalizi ai politici! Ma facciamo un passo indietro. Partiamo dall’alfabeto. Visti i commenti che si leggono sui social e che fanno alcuni giornalisti: partire dall’ABC è un obbligo.

Ad ogni crisi si tagliano le pensioni. Il rapporto tra il cittadino e il pensionato dura circa 65 anni: 45 di accumulo e 20 (se si è fortunati) di fruizione. Un rapporto così lungo si basa su un patto di fiducia tra il cittadino e lo Stato inviolabile, altrimenti nessuno pagherà più i contributi. Ogni mese ogni cittadino lavoratore versa i suoi contributi allo Stato e dovrebbe esattamente sapere quanto di ogni rata mensile verrà tradotto in pensione.  Dovrebbe saperlo ora per allora e farsi i suoi conti di convenienza / opportunità. Uno dei principi fondamentali di questo patto è quello che si possono cambiare le regole dando però un congruo tempo agli individui di programmare il proprio futuro pensionistico e, in ogni caso, le regole sulla parte già versata non possono assolutamente variare. In altri termini il patto pensionistico deve contemplare in ogni istante e per ogni singolo versamento il quando e il quanto dell’assegno pensionistico legato al versamento fatto. Questa è la teoria che prescinde dal sistema di calcolo delle pensioni (retributivo o contributivo che sia) . Purtroppo la prassi è diversa perché, tenetevi forte perché questo non ve lo dice nessuno!, il sistema di finanziamento delle pensioni (a prescindere dal meccanismo di calcolo) è a ripartizione. Cosa vuol dire? Che le pensioni pagate oggi vengono pagate da chi oggi lavora e, udite udite, poiché il rapporto tra lavoratori e pensionati in questo Paese sta drammaticamente precipitando sotto 1,5 è sempre più difficile sostenere il peso delle pensioni. Insomma se in Germania lavorano 51 persone ogni 100 in Italia ne lavorano circa 35. Con questi numeri le pensioni sono a rischio per tutti. Per questo motivo ad ogni crisi si tagliano le pensioni: non importa come!

Retributivo, contributivo e il patto generazionale. Che differenza c’è tra il calcolare la pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo? Sono molte ma attengono strettamente al patto sociale tra gli individui. Il sistema retributivo, non per sua natura ma in funzione delle correzioni introdotte via via, è maggiormente solidaristico. Quello contributivo più equo. Mi spiego meglio. Con il sistema retributivo i redditi bassi avevano una percentuale di pensione pari al 2% del salario per ogni anno lavorato, quelli alti dello 0,9%.  In altri termini l’operaio dopo 40 anni aveva una pensione pari all’80% dell’ultimo salario, il dirigente intorno al 50 – 55 %. Parliamoci chiaro se applicassimo la norma varata per i parlamentari a tutti chi percepisce oggi una pensione pari all’80% circa del proprio ultimo salario deve lasciare sul piatto un altro 25 – 30 %. Chi percepisce una pensione di 1500 euro ne prenderebbe 1050, chi 1.000 invece 700. Oppure pensate di essere più furbi di Cirino Pomicino e di cavarvela? Il sistema contributivo (al momento non sono stati introdotti grandi correttivi) prevede una stretta proporzionalità tra i contributi versati e le pensioni erogate. E’ più equo, nel senso che tutti ricevono la stessa pensione. E’ come quando si va dal fornaio e tutti pagano un chilo di pane allo stesso modo, a prescindere dal reddito. Chi ha versato 100 prende una pensione per cento, chi ha versato 10 prende una pensione per 10. E’ un criterio di calcolo che favorisce i redditi elevati e le storie contributive lunghe. Si parla spesso di patto generazionale. Questo attiene al meccanismo di finanziamento delle pensioni e non a quello di calcolo. Ossia chi nel passato ha pagato profumatamente le pensioni di chi alla data era già pensionato oggi si aspetta che ci sia qualcuno che paga le proprie. Peccato che il lavoro non ci sia e nessuno si stia dando da fare per crearlo.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo la politica. Tutta questa è ancora la teoria. Nel tempo sono però state introdotte diverse varianti. Per esempio le baby pensioni. Queste erano state fatte per favorire, soprattutto nel pubblico impiego, le donne poiché consentiva loro di occuparsi della famiglia. Per gli uomini dava un incentivo a chi voleva avviare una attività avendo però un minimo di sicurezza. Giusto o sbagliato? I legislatori dell’epoca avevano preferito questo alle norme per le start up o al fare una politica per le famiglie (assegni, asili nido, ecc.). Ai contadini, per favorire lo spostamento delle braccia dal sud al nord, privi della sussistenza dei propri figli erano state concesse pensioni senza aver pagato una lira di contributo. Giusto o sbagliato? Era la visione del momento. Oggi pur di favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro si autorizzano le aziende a non versare i contributi sociali. Giusto o sbagliato? Vedete voi, siamo all’attualità. Ci sono state invero categorie ampie di evasori, le partite iva di un tempo, quelle dello sviluppo e non quelle di oggi della crisi, che non hanno mai pagato e hanno però ben guadagnato e che oggi si lamentano perché hanno pensioni basse. Ci sono stati dipendenti pubblici e privati che hanno stretto un patto leonino con i datori di lavoro e hanno ottenuto incrementi retributivi nell’ultimo anno di lavoro per avere pensioni maggiorate. Giusto o sbagliato? All’epoca non c’erano istituti sociali come gli incentivi all’esodo e si facevano questi patti. Ci sono anche stati i parlamentari che ne hanno fatto di tutti i colori ma, obiettivamente, hanno consentito di farne di tutti i colori anche alla gran parte degli italiani.

Cirino Pomicino e Ciriaco De Mita ringraziano. Nel tripudio generale del web e dei parlamentari del PD, M5S e della Lega ieri si è sostanzialmente stabilito che ai parlamentari percettori del vitalizio questo venga ricalcolato sulla base dei contributi effettivamente versati, ossia degli anni passati in parlamento. Magari, contrariamente alle aspettative, le pensioni dei naviganti di lungo corso come quelle degli odiati D’Alema, Cirino Pomicino, De Mita eccetera aumenteranno pure, mentre chi ha provato l’ebrezza per un tempo limitato di far parte della Casta ne risentirà maggiormente.

Rotti gli argini del diritto: Italiani a rischio. Checché se ne dica, sono stati toccati i diritti acquisiti da una categoria di cittadini, i parlamentari, che sono privilegiati quanto vi pare, ma che percepiscono un assegno vitalizio in base a delle norme vigenti tempo per tempo. Disquisire tra legge e regolamento, tra vitalizio e pensione per dimostrare che questo non introduce un vulnus nelle norme e che un domani con analoghe argomentazioni non si possano toccare le pensioni in essere degli italiani mi sembra peregrino. Beato chi si sente protetto da questa foglia di fico! Aspettiamo che finisca il QE di Draghi e che ci sia un’altra crisi di fiducia … ricordate Monti e il suo “ce lo chiede l’Europa”? In aggiunta una altra violazione dei principi è quella di stabilire che ci possano essere delle categorie di cittadini che possono essere penalizzate da leggi speciali rispetto alle altre. Oggi i parlamentari e domani, chissà, i tassisti o gli impiegati del catasto. Gli argini del diritto sono rotti e si salvi chi può! I barbari sono alla porte!

Populisti di tutto il mondo unitevi! Cari amici del web, vi vedo già con il ditino pronto a urlare la vostra gioia per la legge approvata e esprimere il vostro dissenso feroce per quello che scrivo. Aspettate però un attimo. Io non difendo i parlamentari ma lo stato di diritto e il vivere civile regolato dalle norme, che fino a prova contraria tutela i più deboli. Oggi approviamo questa norma per i parlamentari e domani? Togliamo le pensioni ai contadini, poi le pensioni baby, poi quelle di chi si è fatto dare un aumento l’ultimo giorno di lavoro, e via così. Ricalcoliamo tutte le pensioni con il contributivo e a prendere pensioni adeguate saranno solo quelle persone che hanno versato tutti i contributi per 42 anni e più. Tutte? Siamo sicuri che tutte le persone che hanno versato i contributi possano serenamente continuare a percepirla magari anche aumentata dai nuovi meccanismi di calcolo? Proprio tutte?  Vogliamo veramente dare la pensione a chi ha lavorato 40 e più anni all'Eni, oltre ad inquinare anche la pensione? Oppure, peggio mi sento, alle Poste o nella pubblica amministrazione, mangia pane a tradimento anche la pensione? Per non parlare dei tanti affamatori del popolo che hanno lavorato in Banca d'Italia o nelle Banche! Che dire di quei figli di buona donna dei magistrati o delle forze di polizia? E quelli che lavorano nella Finanza o alla agenzia delle entrate? E a chi lavorato in RAI? E a Fazio? E agli insegnanti che fanno tante vacanze? E poi perché proprio a te, caro amico che godi tanto per l’approvazione della legge, dovremmo dare una pensione? Mai nella vita avrei pensato di dover considerare Brunetta uno dei pochi esseri pensanti che non si fa trascinare dalla demagogia e dal populismo. Per contro ai miei amici renziani, che consideravano Renzi come l’ultimo argine contro il populismo e la demagogia, potrò dire: Avete visto? Avevo ragione nel dirvi che Renzi è il più populista di tutti? Il peggior demagogo mai visto? Il peggio perché non è neanche originale, è una copia.

Populisti di tutto il mondo unitevi! Complimenti vivissimi a Renzi, Richetti, Di Maio, Di Battista, Salvini, Santarché, che ci fate ancora una volta parlare della vostre minchiate e complimenti anche a Mentana che da tempo insiste sulla abolizione dei vitalizio. Ora che ci penso, perché dovremmo darla anche a lei, caro Mentana, e a tutti i giornalisti la pensione? Ora che avete demolito lo Stato di Diritto possiamo parlare di come la politica perde le occasioni vere per creare occupazione per i giovani? Parliamo delle vie della seta e di Taranto? 

Soltanto gli anticasta sono peggio della casta, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 30/07/2017, su "Il Giornale". D'accordo, il mondo esisteva - con tutte le sue storture - anche prima dei grillini e, ovviamente, continuerà ad esistere dopo. Ma adesso abbiamo una certezza in più che riguarda il «durante». E cioè che sotto il regno grillino - vedi il caso Roma - il mondo va peggio, checché ne dica la martellante campagna di propaganda Cinquestelle il cui ritornello è: «Abbiamo trovato un disastro, dateci tempo». Cominciamo a dire che c'è disastro e disastro. Disastro, a mio avviso, è quello che trovarono De Gasperi e compagnia alla fine della guerra. Le buche e l'immondizia per le strade, la calura estiva che provoca siccità e i trasporti pubblici non sono «disastri» ma problemi. Per risolvere i quali servono esperienza e capacità di amministrare, doti sconosciute a persone come la Raggi, Di Maio e il giovane Casaleggio, bambinone viziato che vanta come unico titolo l'essere erede di un padre sognatore che si è arricchito vendendo agli italiani un mondo che, per fortuna, non c'è e mai ci sarà. Se uno vuole farsi un'idea del «mondo» di Casaleggio deve fare un salto a Roma, dove in mani grilline sta per fallire anche l'azienda dei trasporti pubblici che, pur malconcia, era riuscita a sopravvivere financo alla sindacatura di Marino, cioè a una delle bibliche dieci piaghe. Di questo palese fallimento stanno prendendo coscienza gli stessi grillini, i cui vertici sono sull'orlo di una crisi di nervi. Di Maio mi ha portato davanti al tribunale dell'Ordine dei giornalisti (che stranamente mi ha assolto) perché abbiamo scritto articoli sulla Raggi indagata per le nomine e sui super stipendi ai suoi amici. Rischio il bis: Di Maio è un arrogante pallone gonfiato. Se fosse quello che dice di essere, che denunci la Raggi, non me. Scavi nel passato fiscale del suo padrone Grillo prima di urlare «onestà, onestà», rinunci o devolva in beneficenza i tredicimila euro netti che riceve anche da me ogni santo mese prima di pronunciare il nome «casta».

Come peggio della mafia c'è solo l'antimafia permanente, così peggio della casta c'è solo l'anticasta militante, ipocrita, furbetta e, per di più, incapace. Forza Raggi, forza Di Maio: ancora un piccolo sforzo e ce la farete ad affossare del tutto il vostro movimento.

Cene, affitti e pulizie: il “vitalizio” nascosto dei grillini, scrive Rocco Vazzana il 27 luglio 2017 su "Il Dubbio". Tutte le trovate per aggirare il divieto. Sotto i riflettori fustigatori della casta, indulgenti quando il “privilegio” rimane nell’ombra. E così, se per i 5 Stelle i vitalizi sono un indecente retaggio medievale, sui rimborsi agli eletti i grillini non sembrano così inflessibili. Perché se è vero che deputati e senatori 5S sono gli unici ad autoridursi l’indennità (percepiscono circa 3 mila euro netti al mese a fronte dei 5 mila spettanti), è altrettanto vero che, come tutti i loro colleghi, i pentastellati non disdegnano i generosi rimborsi destinati ai parlamentari. Gli indennizzi possono arrivare anche 11 mila euro al mese e servono a coprire ogni spesa sostenuta da un rappresentante del popolo nell’esercizio delle sue funzioni. In realtà, anche per questo denaro il Movimento 5 Stelle delle regole: deputati e senatori sono tenuti a restituire quanto non speso. Però, si sa, fare il parlamentare costa: alloggio, spostamenti, vitto, assistenti. E così a fine mese resta poco da restituire. Ma come usano i soldi dei rimborsi i rappresentanti del partito più francescano d’Italia? A questa domanda è possibile rispondere grazie al fatto che i grillini sono gli unici a rendicontare online le loro spese e spulciando sul sito tirendiconto.it è possibile trovare alcune sorprese.

Ad esempio, sappiamo che Luigi Di Maio, il candidato premier del Movimento, non presenta scontrini dal dicembre scorso. Una distrazione che in passato è costata l’espulsione ad alcuni “portavoce” poco solerti. Ma il vice presidente della Camera non è uno qualunque: a lui qualche peccatuccio è concesso. Secondo l’ultima rendicontazione, Di Maio ha ricevuto 7.193 Euro di indennizzi e ne ha tenuti per sé 6.998. Eppure il numero uno del Movimento non è un grande spendaccione: paga poche centinaia di euro per un alloggio, non esagera con cene e pranzi, non ricorre a consulenze dispendiose. Spende però oltre mille euro per i trasporti e non si risparmia con l’organizzazione di eventi sul territorio: 2.902 euro a dicembre, 4.797 a novembre, 3.221 a ottobre, 3.341 a settembre. Approccio diverso per Alessandro Di Battista. Le sue ricevute più recenti risalgono a febbraio, quando ha ottenuto 7.672 euro di rimborsi, utilizzandone 7.180. Il “Che” del Movimento è molto attento e parsimonioso, ma c’è una voce che ogni mese gli costa un bel gruzzolo: l’assistenza legale. Solo a febbraio, 2.499 euro sul bilancio. Ma se i due big del M5S, tutto sommato, prestano parecchia attenzione al portafogli pubblico, sono parecchi i parlamentari grillini che non badano a spese.

La casa a Roma è una delle voci di spesa più importanti. C’è qualcuno che, tenendo fede allo spirito “rivoluzionario” del Movimento, continua a spendere poche centinaia di euro al mese, magari condividendo un appartamento con qualche collega e c’è chi non ne può più di spazi angusti e cucine in comune. E si allarga. Sono in tanti a pagare più di 2 mila euro al mese per un alloggio. La deputata Francesca Businarolo, ad esempio, a febbraio ha pagato 2.553 euro: 1.650 di canone mensile e 903 tra pulizie, manutenzione e utenze. È probabile che l’onorevole abbia fatto qualche piccolo lavoro di ristrutturazione. L’unica stranezza è che nel mese precedente, gennaio, per lo stesso alloggio la parlamentare ha pagato più di 3mila euro: sempre 1.650 di affitto e 1.351 di utenze, pulizie e manutenzione. Ma Businarolo non è l’unica. Il senatore Andrea Cioffi, a febbraio ha sborsato 4.358 euro per l’abitazione. In realtà l’affitto grava “solo” per 1.450 euro, ma Cioffi ha investito 2.908 euro di denaro pubblico per utenze, pulizie, manutenzione. Piccolo mistero, invece, attorno all’alloggio dell’onorevole Sergio Battelli che a febbraio ci è costato 0 euro, a gennaio 1.515, a dicembre 1.440, a novembre 1.610. E non sono i prezzi di eventuali hotel, la voce di spesa è sempre la stessa: canone mensile. Altro caso singolare quello del deputato Davide Crippa che, pur pagando un affitto a Roma di 1.920 euro al mese, a febbraio ha rendicontato anche 66 euro per alberghi capitolini.

Poi c’è chi solo per mangiare paga più di uno stipendio medio. Come l’onorevole Diego De Lorenzis che a febbraio ha messo nello stomaco ben 1.775 euro di cibo. Il deputato è in ottima compagnia, ma sarebbe troppo lungo elencare i nomi di chi spende oltre 1.100 euro al mese per pranzi, cene, alimentari.

Infine ci sono le rendicontazioni misteriose. Massimiliano Bernini a maggio ha ricevuto 7.193 euro di rimborsi forfettari e ne ha restituiti 3.503. Non si capisce però come abbia impiegato la somma trattenuta perché su tutte le voci di spesa compare la cifra 0. C’è anche chi ogni mese ha dei costi fissi. Il senatore Luigi Gaetti da parecchi mesi sborsa 2mila euro per non meglio precisate “altre spese” e mille per attività sul territorio. Ultima degna di nota, la studiosissima Federica Daga che ogni mese commissiona ricerche costosissime: 2 mila euro a febbraio, 2.500 a gennaio, altri 2 mila a dicembre. Altro che privilegi.

Non solo Genova. Ecco il metodo Grillo spiegato da un altro espulso 5 stelle. “A Casaleggio e Grillo non interessa più la politica dal basso dei Comuni", dice Lorenzo Andraghetti, silurato alle primarie di Bologna nel 2015. Un caso che ricorda l'espulsione di Cassimatis nel capoluogo ligure, scrive Enrico Cicchetti il 17 Marzo 2017 su “Il Foglio”. 

“Non possiamo permetterci di candidare persone su cui non siamo sicuri al 100 per cento”. Sul sacro blog c’è la firma di Beppe Grillo e quindi sembra che si possa dire, secondo la nuova teoria del comico genovese, sia stato proprio lui a dare il benservito a Marika Cassimatis, candidato sindaco di Genova. Attivista del Movimento 5 Stelle dal novembre 2012, Cassimatis aveva vinto le "comunarie" online di martedì scorso, superando al ballottaggio le 338 preferenze di Luca Pirondini, il "candidato di partito". Ma gli stretti rapporti di Cassimatis con due fuoriusciti pentastellati – Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma, e Paolo Putti – e la vicinanza agli esponenti di "Effetto Genova", la lista civica fondata da Putti prima del suo allontanamento dal M5s lo scorso gennaio, hanno indispettito il leader. La "decisione è irrevocabile" e "se qualcuno non capirà questa scelta vi chiedo di fidarvi di me", digita Grillo che cita il verbo di Gianroberto Casaleggio: "Al minimo dubbio nessun dubbio". A Grillo non piace la candidata votata dai cittadini e le toglie il simbolo. A Genova la vincitrice delle Comunarie è in ottimi rapporti con alcuni transfughi del M5s. Interviene il comico: "Qualcuno non capirà, fidatevi di me". La pratica delle espulsioni decise dal vertice è una storia vecchia. Il caso più eclatante fu quello del sindaco di Parma, sospeso dal Movimento per non aver avvisato dell'indagine sul Teatro Regio di cui era a conoscenza e che lo riguardava. Tra i primi sindaci espulsi ci fu Marco Fabbri di Comacchio, cacciato per essersi candidato alle provinciali nonostante i divieti dei vertici. E ancora il sindaco di Gela Domenico Messinese e Rosa Capuozzo, finita nella bufera per presunti legami con la camorra. Ma in tutti questi casi si trattava, appunto, di sindaci già eletti in quota 5 stelle. Mentre "di gente espulsa a primarie vinte o in corso ci siamo solo io e Cassimatis", spiega al Foglio Lorenzo Andraghetti, attivista pentastellato sin dagli albori del Movimento e candidato alle primarie di Bologna del 2015. "Casaleggio si è superato: se nel 2015 il sottoscritto è stato espulso per aver sfidato Bugani alle primarie a Bologna, oggi hanno espulso direttamente chi le aveva già vinte a Genova. Stessa giustificazione: aver fatto un danno di immagine al M5s. Stesso sistema: ho le prove ma non ve lo posso mostrare, fidatevi!", scrive Andraghetti sulla sua pagina Facebook. Nel 2015 Andraghetti - bolognese, classe 1987 e oggi ricercatore a Lisbona - si candidava alla corsa per palazzo D’Accursio contro Massimo Bugani, capogruppo in Consiglio comunale e fedelissimo della coppia Grillo-Casaleggio, dichiarando chiaramente di essere in contrasto con la politica portata avanti da Bugani. “Da oggi il termine buganaria entrerà nel dizionario giornalistico italiano per definire un caso di conclamata truffa democratica (possibilmente online) spacciata per ‘trasparente’. Prima si eliminano gli elettori dell'avversario. E se neanche questo risultasse sufficiente, si elimina direttamente l'avversario”, scriveva in quei giorni convulsi del 2015, quando il grillismo perdeva terreno rispetto all’avversario leghista – l’istituto Cattaneo segnalerà 893mila consensi persi per il M5s nelle sette regioni chiamate alle urne rispetto all’exploit delle Europee 2014 – e il non partito di Grillo aveva bisogno di mantenere il timone dritto e stroncare il dissenso interno. Poco prima erano stati espulsi Giovanni Favia e Federica Salsi ed era scoppiato il cosiddetto Bugani-leaks, uno scandalo di mail sottratte e pubblicate online. “Bugani ha dato l'ordine. Casaleggio ha eseguito. Mi è arrivata la mail dallo 'Staff'. Sono stato espulso”, spiegava Andraghetti. E l’ “affaire Andraghetti” ricorda infatti da vicino la vicenda di Cassimatis. A lui fu tolto l’uso del simbolo per aver “violato in modo grave e sostanziale (...) l'obbligo di non promuovere pubblicamente iniziative politiche al di fuori del blog ed in contrasto con le regole del MoVimento 5 Stelle, in aperta contrapposizione con l'azione politica del MoVimento e della lista civica che aveva già ottenuto la certificazione per la partecipazione alle prossime elezioni comunali di Bologna, e tentando addirittura di boicottarne l'azione in contrasto con le regole”. Lei è stata silurata per aver “tenuto comportamenti contrari ai principi del MoVimento 5 Stelle prima, durante e dopo le selezioni online del 14 marzo 2017”, Beppe dixit. “In particolare hanno ripetutamente e continuativamente danneggiato l’immagine del MoVimento 5 Stelle, dileggiando, attaccando e denigrando i portavoce e altri iscritti, condividendo pubblicamente i contenuti e la linea dei fuoriusciti”. Quell'espressione un po' così che hanno i grillini che lasciano il M5s di Genova. Dopo le defezioni in Comune, oggi l'addio del consigliere regionale Francesco Battistini. Base "devastata" e onestà "uno slogan vuoto, demagogico e strumentale". “Non capisco perché Casaleggio possa andare a parlare al meeting Cernobbio dai ‘nemici’ dell’alta finanza; Fantinati possa andare a parlare al meeting di Comunione e Liberazione, Pizzarotti alla scuola di politica dei giovani del PD; e ci siano problemi se un cittadino senza ruoli politici (come me) partecipa a un incontro di realtà civiche”, si chiedeva due anni fa Andraghetti. Oggi ha la risposta pronta: “A Casaleggio e Grillo non interessa più la politica dal basso dei Comuni dai quali erano partiti. Ora che sono i parlamentari mediatici come Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio a portare voti, il danno elettorale locale non tocca nemmeno di striscio quello nazionale. Meglio tenersi un piccolo gruppo di fedelissimi sui territori che salvaguardino il M5s da scalate interne con la certezza di continuare a guadagnare consensi a livello nazionale. Perché è questo quel che conta”.

Vi racconto i misteri buffi del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Parla il primo grillino pentito, scrive Gianluca Roselli il 09 febbraio 2017 su Formiche.net. Fa il verso a Dario Fo il primo libro di un grillino pentito, come si definisce lui. Antonio Venturino è un ex attore, eletto con il Movimento 5 Stelle al consiglio regionale siciliano, di cui è vice presidente. Dopo qualche mese, però, i continui contrasti con i suoi colleghi di partito, pardon di movimento, lo portano ai ferri corti con lo stesso Grillo. Nel maggio 2013 viene infine espulso dal Movimento, con tanto di post sul blog del comico genovese, “a causa della mancata restituzione delle somme eccedenti i 2500 euro”, come prevede il regolamento pentastellato. Secondo Grillo, Venturino “ha restituito circa 13 mila euro a fronte dei 30 mila dei suoi colleghi e le sue divergenze politiche sono solo una foglia di fico”. Il consigliere regionale, naturalmente, non la pensa così e ha scritto un libro per raccontare la sua esperienza: “Misteri Buffi. Il Movimento 5 Stelle raccontato dal primo grillino pentito”, scritto insieme al giornalista Concetto Prestifilippo, edito da Payback. “Me ne sono andato per due motivi”, racconta Venturino, “innanzitutto la totale mancanza di democrazia interna: lì dentro conta solo uno col suo gruppetto di fedelissimi, avviene a livello nazionale e pure in periferia. Poi – continua – c’è una totale mancanza di strategia: improvvisano giorno per giorno senza un orizzonte, lasciando molto al caso. L’incompetenza nel Movimento viaggia incontrastata”. L’esempio di Roma, per Venturino, è significativo. “Forse non volevano davvero vincere, ma hanno vinto, perché la gente è esasperata. Ma Virginia Raggi si sta dimostrando completamente impreparata e inadatta a governare la Capitale d’Italia. Forse in un piccolo comune ce la possono anche fare, ma non a Roma e nemmeno a Palermo”, dice l’ex grillino. In Sicilia, infatti, si va verso scadenze elettorali importanti: nel 2017 si vota sia per la Regione, dove governatore è Rosario Crocetta, che per il Comune di Palermo, dove si ricandida l’attuale sindaco Leoluca Orlando. “Il Movimento nell’isola viaggia su percentuali bulgare, il 38%: se si votasse domani vincerebbero loro e per l’isola sarebbero guai, gli stessi di Roma”, sostiene Venturino. Che racconta come l’esplosione dei 5 Stelle in Sicilia sia avvenuta con la traversata a nuoto di Beppe Grillo. “La gente era come impazzita, Messina era in festa con tutte le persone per strada”. Ma cosa è rimasto di tutto ciò? “Ricordo le prime riunioni dopo l’ingresso a Palazzo dei Normanni: si accampavano tutti nel mio ufficio senza sapere che pesci pigliare, non ce n’era uno in grado di leggere una delibera. La situazione è migliorata di poco”, racconta Venturino. Il quale poi rivela pulsioni destrorse all’interno del Movimento. “Tra di loro si annidano silenziose avanguardie reazionarie. Non dimentichiamo le aperture concesse da Grillo a Casa Pound. Le frange più oltranziste della destra italiana sembrano aver trovato rifugio tra le stelle del Movimento. Per citare Pasolini, io so ma non ho le prove. So che dietro le quinte di questo crescente e apparentemente inarrestabile fenomeno si celano influenze inconfessabili”, racconta l’ex grillino nel suo volume. Venturino poi svela altri retroscena. “Mi ha molto inquietato l’episodio dell’arrivo del politologo legato al governo americano Edward Luttwak a Bagheria nel corso della campagna elettorale per le amministrative. Il risultato, stranamente, è stato uno straordinario successo del candidato M5S. Da allora, inspiegabilmente, il Movimento di Grillo non ha mai più fatto alcun riferimento al Muos di Niscemi (il sistema Usa di comunicazione satellitare che ha sede nel paese in provincia di Caltanissetta, ndr)”. Il problema principale, secondo Venturino, resta però la mancanza di democrazia interna. “Qualsiasi voce critica e che si discosta minimamente da quella del leader viene prima blandìta e poi espulsa. Il caso Pizzarotti insegna. Il Movimento non premia la competenza o il merito, ma solo chi è più fedele alla linea dei capi, chi non disturba il manovratore”.

CAMILLERI AGLI STUDENTI: «NON CREDETE A RENZI E AI GRILLINI, SONO GIÀ MORTI». Scrive il 23/06/2017 "Famiglia cristiana". Lo scrittore si rivolge ai giovani in un incontro ospitato nella sua abitazione romana con gli allievi del suo stesso liceo di Agrigento: «Rifate la politica e ricordatevi Pericle, il discorso che fa sulla democrazia. Applicatelo. Voi giovani siete in condizioni di farlo. Renzi e i Cinque Stelle sono già cadaveri, già fuori dalla vostra storia e dal vostro avvenire. Teneteli lontani». Andrea Camilleri non le manda a dire. Incontra, nella sua casa romana, un gruppo di studenti del Liceo classico Empedocle di Agrigento, lo stesso frequentato da ragazzo dallo scrittore, e parla di tutto: i suoi romanzi, la lingua inventata per il Commissario Montalbano, la letteratura e la politica. Lancia frecciate molto polemiche: «Non credete ai Renzi e ai Cinque Stelle» perché «sono già cadaveri». Questo l'invito dello scrittore. Dal dialogo con gli studenti è venuto fuori un video proposto giovedì sera ad Agrigento nel corso di una affollata “Serata Camilleri” organizzata nell'ambito del Festival della Strada degli Scrittori. Un video destinato a suscitare polemiche nel mondo politico. Camilleri dispensa infatti consigli affilati come lame, invitando i ragazzi «a non credere ai Renzi o ai CinqueStelle» perché «sono già cadaveri, già fuori dalla vostra storia e dal vostro avvenire. Teneteli lontani dal vostro avvenire. Fatevelo voi...». Alla prima domanda dei ragazzi Camilleri racconta il suo rapporto con i vecchi partiti: «Mai votata la Democrazia cristiana. Io ho sempre votato Partito comunista che, bene o male, aveva il rispetto delle istituzioni». E oggi? «Oggi la politica è rappresentata da gente che ha degradato il lavoro. Nel lavoro consiste buona parte della dignità dell'uomo... E ci si domanda che valore abbia l'articolo 1 della Costituzione. La verità è che i primi a non considerarla sono i partiti della sinistra, del cosiddetto centrosinistra». Prevale un certo pessimismo nelle parole consegnate agli studenti dell'Empedocle da Andrea Camilleri che, per la prima volta, parla della sua vista, sempre più spenta. Ma a turbarlo è la condizione della politica: «Sono scoraggiato. Alle ultime elezioni romane non sono andato a votare. Sono invece andato al referendum. Anche se per andarci mi sono dovuto sottoporre a tre visite mediche per accertare la mia cecità e potere andare in cabina elettorale accompagnato». Ed ancora: «Voglio darvi un consiglio: rifate la politica che è diventata quasi sinonimo di disonestà. Ricordatevi Pericle, il discorso che fa sulla democrazia. Applicatelo. Voi giovani siete in condizioni di farlo». Infine una riflessione sui vecchi e i giovani, sulle responsabilità degli adulti: «Anch'io mi sento responsabile... Ho vissuto l'entusiasmo del 1945, del 1947 per rifare l'Italia. E poi? Poi io consegno a mia pronipote e a voi un futuro incerto. Questo è un fallimento che mi porto nella tomba». Ma non è un invito ad estraniarsi dalla vita pubblica, come conclude Camilleri: «È facile cadere nell'antipolitica, ma il populismo è la fiammata di un mattino. Appunto, non crediate ai Renzi o ai CinqueStelle...».

I grillini fanno l'en plein. Indagati tutti i sindaci. La Appendino si affianca alla Raggi e Nogarin: è la fine delle icone del nuovismo, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 30/06/2017, su "Il Giornale". Belli, giovani e indagati. Le icone si sono consumate in fretta. Livorno. Roma. Torino. Mancava giusto Chiara Appendino nella compagnia di giro dei sindaci grillini finiti sotto inchiesta. La lacuna è stata colmata: strike. Appendino spegne la prima candelina alla guida del Comune di Torino con l'iscrizione nel registro degli indagati per gli incidenti del 3 giugno: 1526 feriti, un morto, la povera Erika Pioletti schiacciata contro un portone nella calca indescrivibile, una figuraccia internazionale. Superficialità, dilettantismo, la speranza nella buona stella del sindaco a cinque stelle. Mancavano le vie di fuga, mancavano gli accorgimenti necessari per gestire una serata particolare, mancava tutto in piazza San Carlo, il salotto deturpato. È un tonfo di credibilità per la ragazza bene della Torino bene, ora assediata dalla magistratura. Il procuratore di Torino Armando Spataro ha detto che per ora non la interrogherà. Ma l'assedio resta. Esattamente come èer i suoi celebrati colleghi. Filippo Nogarin, classe 1970, ingegnere aerospaziale, espugna il municipio nel giugno del 2014. La Livorno di Nogarin diventa come la Parma di Pizzarotti, caparra del Paese che sarà. E poi ci sono le suggestioni della storia: qui nacque l'odiato Partito comunista che ha messo radici ovunque e occupato tutti gli spazi possibili. Ora quella dittatura morbida è finita. Il problema è che far bene non è facile anche se ci si muove con le migliori intenzioni. Nogarin inciampa nel buco della Municipalizzata che assicura la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti: la Aamps. I guai li ha combinati in gran parte la giunta precedente, ma l'ingegnere, nel tentativo di mettere mano al disastro, si sporca le mani. Lo indagano per bancarotta fraudolenta, poi Il Tirreno scopre che il menu è molto più ricco: ci sono anche il falso in bilancio e l'abuso d'ufficio. Sull'abuso lui fa fuoco e fiamme, nega sdegnato e il blog di Beppe Grillo comincia addirittura un bombardamento sui livornesi per boicottare il giornale Pinocchio. Bugiardo e inaffidabile. Passano i mesi e a ottobre scorso, salta fuori che il tanto bistrattato Tirreno non era al centro di un fantomatico complotto ma ci aveva visto giusto. Intanto Nogarin precipita come un meteorite in una classifica sul gradimenti dei sindaci commissionata dal Sole 24 ore a Ipr: era ad un già bassissimo settantasettesimo posto, si ritrova, ad un secondo rilevamento, novantaquattresimo in una classifica desolante. Nulla al confronto di Virginia Raggi, la giovane avvocatessa alla guida a Roma di una giunta che per mesi ha perso pezzi, assessori, dirigenti come un'auto dopo il crash. Una situazione penosa, dopo le ovazioni dei media internazionali al suo insediamento. Ma i balbettii non bastano. Ecco anche le ombre sul piano della tanto sbandierata trasparenza: Raffaele Marra, uno degli uomini chiave dell'establishment, anzi per molti osservatori una sorta di sindaco ombra, viene arrestato per corruzione. È una mazzata per l'immagine della metropoli che vorrebbe cambiare. E c'entra ancora Marra con due nomine controverse che rischiano ora di travolgere il sindaco: quella del fratello, Renato Marra, e l'altra di Salvatore Romeo. Una vicenda opaca in cui la Raggi è a un passo dalla richiesta di rinvio a giudizio per abuso d'ufficio e falso. Resisteva giusto la manager sabauda che aveva lavorato anche per la Juventus. Ma la sfida per l'Europa, persa dai bianconeri, non le ha portato bene. Centinaia di feriti nel salotto della città, una ragazza morta dopo una lunga agonia. La sindaca è sotto inchiesta e piace sempre meno ai torinesi: i concittadini che avevano fiducia in lei erano il 64% a settembre, ora sono solo il 45%. La luna di miele degli italiani con i Cinque stelle finisce qua.

Predica il lavoro gratis (altrui). E la Camera gli dà 56mila euro. Il guru M5s De Masi si fa pagare una ricerca dal gruppo Lui che teorizzava l'occupazione senza stipendio, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 07/07/2017, su "Il Giornale". «Lavorare gratis, lavorare tutti». Nel frattempo, in attesa di un futuro senza più disoccupazione né stipendio, farsi pagare e anche bene. Il nuovo (para)guru del M5s sui temi del lavoro, il sociologo napoletano Domenico De Masi molto stimato da Casaleggio jr (che l'ha invitato al «Sum 01» dell'Associazione Gianroberto Casaleggio a Ivrea), si è fatto fatturare dai grillini, con i soldi pubblici dei fondi ai gruppi parlamentari, la bellezza di 56.771 euro per una ricerca. Lo mette nero su bianco la deputata Laura Castelli, tesoriera del gruppo M5s alla Camera, nel bilancio 2016 appena pubblicato. Nella parte sulle spese per servizi di studio e ricerca sostenute dai deputati M5s (totale 522mila euro, voce cresciuta del 375% rispetto all'anno prima), viene evidenziato «un importo complessivo di 56.771 euro riguardante, in modo particolare, uno studio-ricerca commissionato al Prof. De Masi ed al suo team sull'evoluzione del lavoro post-industriale tra il 2016 ed il 2025 i cui risultati sono stati ampiamente illustrati in occasione del convegno Lavoro 2015 organizzato dal gruppo parlamentare presso l'aula magna di Palazzo dei Gruppi alla Camera il 18 e 19 gennaio 2017». Presente ai lavori, oltre ai deputati grillini, anche Beppe Grillo, molto entusiasta della ricerca di De Masi: «Sono quasi commosso, per la prima volta si parla di futuro si eccitò il leader - Siamo davanti ad un grande cambiamento, scomparirà il lavoro da reddito». Insomma, «soldi ben spesi, per la prima volta nella storia italiana un professore universitario ha creato una ricerca sul futuro del mondo del lavoro nei prossimi vent'anni» rivendica l'onorevole M5s Manlio Di Stefano, capogruppo grillino nella commissione Esteri. E non ci sarebbe niente di strano, se solo De Masi non avesse teorizzato la necessità, per i precari sottopagati e i disoccupati italiani, di «scompaginare la situazione offrendo gratuitamente la propria opera finché non ci sarà una redistribuzione dei carichi di lavoro». Ecco, il professore che suggerisce agli altri di non farsi pagare per trovare lavoro, non ci pensa neppure a offrire gratis il proprio, neppure per un evento istituzionale come un convengo promosso da un gruppo parlamentare. Al contrario, oltre a farsi retribuire profumatamente, De Masi ci ha ricavato pure due libri («Lavorare gratis, lavorare tutti», e «Lavoro 2025») che riprendono gli stessi temi tirati fuori dalla ricerca, pagata con i fondi pubblici in dote ai grillini. E venduti anche quelli (15 euro circa), mica regalati. Anche se, ad ascoltare le sue teorie, per creare nuovi lavori «bisogna redistribuire quelli che già esistono, serve che i lavoratori occupati e pagati cedano un po' di lavoro». Dunque, la sua ricerca doveva farla un professore disoccupato, un sociologo senza stipendio, non De Masi a cui il lavoro non è mai mancato. Negli anni scorsi, collezionista di poltrone all'ombra del Pds-Pd in Regione Campania: assessore, quindi presidente della Fondazione Ravello (nomina politica), poi all'Ente Parco del Cilento, poi un incarico di vertice nel Parco del Gran Sasso. Ora, finita la storia col Pd, è l'ideologo del M5s sul lavoro. A partire dal suo.

Boom delle spese M5S alla Camera: quasi mezzo milione di euro per la comunicazione. Il "francescano" Movimento, quello che rifiuta il finanziamento pubblico, sa come spendere i quasi quattro milioni erogati dalla Camera. 52 mila euro solo per una ricerca di De Masi; 354 mila per finanziare la campagna del No al referendum; più soldi alla società esterna che gestisce i profili social, scrive Susanna Turco il 7 luglio 2017 su "L'Espresso". Non volevano i soldi pubblici, ma quelli che incassano sanno come utilizzarli. Sempre meglio, sempre di più. Esplodono così le spese, prime fra tutte quelle per ricerche, comunicazione, editoria: aumentate del 375 per cento in un anno, da 109 mila euro del 2015 a ben 522 mila euro del 2016. Ha dell’incredibile il rendiconto 2016 appena presentato dal gruppo Cinque stelle alla Camera: soprattutto se commisurato con le premesse e le promesse del Movimento. La vocazione al pauperismo, l’esaltazione del francescanesimo. Altroché. La realtà, molto più banale, è quella di spese che almeno in Parlamento salgono di anno in anno, o fioriscono con motivazioni le più varie. Come in un partito qualsiasi. Cioè: il movimento che doveva essere a costo zero per il cittadino, quando non addirittura restituire denaro come un Robin Hood del digitale, ha finito per attingere proprio ai fondi pubblici (3,8 milioni di euro solo alla Camera) per potersi permettere di fare quel che fanno gli altri.

Esempio di costo “di particolare rilievo”, giusto a riprendere le virgolette del resoconto del tesoriere, è quello dell’ “attività di studio e ricerca, commissionata al Prof. Domenico De Masi”, “i cui risultati sono stati presentati in occasione del convegno lavoro 2025”. Un rilievo effettivamente particolare, visto che la ricerca è costata complessivamente 52.656 euro. Un’enormità senza pari, i cui altrettanto eccezionali risultati possono peraltro agevolmente leggersi nel libro omonimo appena pubblicato da De Masi per i tipi di Marsilio. Aumenta, enormemente, ancora, soprattutto il comparto comunicazione. Una impennata (435 mila contro 72 mila) che segue al +38 per cento di spese dell’anno precedente. Non soltanto perché l’ufficio comunicazione viene “ampiamente consolidato” con l’assunzione di altre tre persone (si passa da 12 a 15, già nell’esercizio 2015 l’organico era passato da 9 a 12). E’ ancora più significativo che, mentre calano le consulenze di supporto all’ufficio legislativo, aumentano del 22 per cento quelle che servono all’ufficio comunicazione, e che finiscono per lo più nelle tasche della Web side story dei fratelli Flavia e Gioele Brandi: “Al fine di migliorare ed accrescere la comunicazione all’esterno all’attività del gruppo, aspetto fondamentale nel rapporto con i cittadini”, è scritto nella relazione del tesoriere, sulla falsariga di quel che era stato già fatto nel bilancio dello scorso anno, “è stato consolidato ed ampliato il progetto affidato alla Web Side Story, che si occupa più strettamente dell’organizzazione e della campagna di comunicazione esterna dell’attività parlamentare del gruppo attraverso i social media come Facebook, twitter, instagram”. Meno soldi per collaborare e leggi ed emendamenti, ancora più soldi per raccontarsi. Insomma, par di capire, il gruppo M5S alla Camera ha bisogno di comunicare, e per farlo a dovere deve servirsi anche di società esterne, oltreché degli interni: del resto, risultano ogni mese fatture extra dal totale fisso di quasi 15 mila euro, indirizzate appunto alla comunicazione/web. Totali commisurati al ritmo delle spese, visto che complessivamente, per la promozione e organizzazione di eventi, il gruppo M5S alla Camera ha tirato fuori 403 mila euro. Soldi spesi in convegni a Montecitorio (i cui costi a paragone di altri possono far sorridere: il meno caro costa poco più di cento euro, il più oneroso poco più di mille); ma anche per usi leggermente più discosti dalla vocazione originaria, come la stampa di materiale tipografico distribuito durante il tour “IODICONO Costituzione Coast to coast”, nonché il complesso della campagna referendaria per il no al referendum, dagli incontri ai volantini al lato social. Per un totale di tutto rispetto: 354 mila euro devoluti alla sola causa del no. Una causa M5S, pagata dal suo gruppo Camera. C’è da dire che i deputati hanno portato il suo diretto sostegno economico al Movimento anche in altre occasioni. C’è infatti traccia dei costi sostenuti per i gazebo del gruppo Camera a “Italia Cinque stelle” a Palermo, kermesse annuale del settembre dell’anno scorso: una “grande festa” un “momento di incontro interamente finanziato dalle libere donazioni dei sostenitori”, e che tuttavia nella sua pancia conteneva anche una parte dei contributi erogati dalla Camera – l’orripilante finanziamento pubblico, quindi - ai gruppi parlamentari: totale delle spese, 35.850 euro, compresa la stampa di materiale divulgativo. Uno dice: spiccioli. Eppure, sono moltissimi soldi anche solo rispetto ai 1.500 euro l’anno che se ne vanno in abbonamenti ai media, perché “la Camera fornisce un servizio minimo di acceso ai portali di informazione-stampa-media che risulta purtroppo insufficiente” al paragone col numero di dipendenti. Si deve aggiungere che, d’altra parte, anche il numero totale dei dipendenti è di tutto rispetto: quest’anno sono arrivati a 49, per una spesa complessiva di poco più di tre milioni di euro l’anno (+ 340 mila euro circa sul 2015). Quarantanove dipendenti per circa novanta parlamentari (88 secondo il sito web della camera, 91 secondo il rendiconto Cinque stelle), che incidono sul bilancio per il 74 per cento, e finiscono per assorbire l’82 per cento dei contributi erogati dalla camera (3,8 milioni): ma soprattutto che già solo nel numero si mettono in linea con la più classica tradizione di Montecitorio: un dipendente ogni due parlamentari. L’uno vale uno, quasi quasi.

DUE PESI E DUE MISURE.

Se Sala mente, Raggi non dice la verità, scrive Francesco Anfossi il 28 settembre 2017 su "Famiglia Cristiana". Fatta salva la presunzione di innocenza per entrambi i protagonisti fino all’ultimo grado di giudizio, qualcosa di incontrovertibile possiamo già dire a proposito dei sindaci di Roma e di Milano: su entrambi pesa un rinvio a giudizio per falso in atto pubblico. La richiesta per Virginia Raggi infatti arriva dopo la chiusura dell’indagine da parte della Procura capitolina sulla nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, allora capo del personale al Comune di Roma. La Raggi aveva dichiarato di aver fatto tutto da sola ("ho deciso io di promuoverlo"), negando di fronte all’Anticorruzione che Raffaele Marra avesse avuto un ruolo nella designazione. Ma in una conversazione via Telegram con il capo del personale, la sindaca lo accusa di non averla informata che grazie alla promozione il fratello avrebbe ottenuto uno stipendio triplo. Come è noto, anche il sindaco di Milano Beppe Sala deve rispondere di falso in atto pubblico. Il rinvio a giudizio della Procura milanese si riferisce ai tempi in cui era commissario dell’Expo 2015. Riguardano l'appalto più cospicuo dei lavori per l'esposizione universale del 2015, la cosiddetta «piastra». Il falso sarebbe stato commesso retrodatando un verbale di commissione aggiudicatrice. Era stato ritenuto provato dalla Procura inquirente, che però lo aveva considerato innocuo e aveva chiesto l'archiviazione del fascicolo. Ma la Procura generale non ha condiviso questa impostazione. Ora il dibattito è aperto: al di là delle diverse circostanze, può un sindaco di una metropoli continuare a governare con un'accusa di falso sulle spalle? O si tratta di un peccato politicamente “veniale”? Mentire in pubblico è un reato. Lo è anche in politica o dobbiamo fare nostra la lezione di Machiavelli che consigliava al Principe di non dire la verità? L’accusa deve valere fino alla Cassazione per far scattare le dimissioni, o il primo cittadino dovrebbe dimettersi subito per evitare qualunque ombra sul suo operato? Lasciamo la questione aperta: quel che è certo è che i Cinque Stelle, che hanno puntato il dito per mesi su Sala, per nulla garantisti, da oggi dovrebbero smettere definitivamente di fare le anime belle e avviare una riflessione sui rapporti tra giustizia e politica. A meno che non vogliano utilizzare due pesi e due misure, magari cavillando sulle circostanze: garantisti con sé stessi, forcaioli con tutti gli altri.

Raggi fa peggio di Marino, ma Grillo non commenta. Nel 2015 l'esponente Pd era ottantaduesimo nella classifica dei sindaci più amati e Grillo scriveva: “Roma è governata da uno zombie”. Oggi la grillina è ottantottesima, scrive Claudio Cerasa il 28 Settembre 2017 su "Il Foglio". Virginia Raggi: ottantottesimo posto nella classifica italiana dei sindaci più graditi. Persino peggio di Ignazio Marino, che nel 2015 arrivò ottantaduesimo. Sono andato a rivedere cosa diceva in quei giorni Beppe Grillo del sindaco di Roma. Diciassette giugno 2015. Uno spasso. “Roma è governata da uno zombie: Ignaro Marino è un morto che cammina… La città è nel caos istituzionale e amministrativo e non si può più tergiversare… I servizi non sono più garantiti, Roma è sommersa dalla spazzatura e i topi banchettano con i rifiuti da Castel Sant’Angelo a Prati, a due passi da San Pietro: ‘Basta farsi un giro tra i cassonetti del quartiere Prati, che è tutto un brulicare. Da via Lucrezio Caro, a via Belli, a via Cicerone, a via Pierluigi da Palestrina, a tutta la zona intorno a San Pietro, via Candia, viale Giulio Cesare. Appena inizia a fare buio, intorno alle 20 e al mattino presto, intere colonie di roditori iniziano a rovistare tra i secchioni’”. “Negli ultimi tempi la situazione è peggiorata, adesso siamo completamente invasi – spiega Paola de Vecchis, presidente del Comitato Trionfalmente 17 –. L’aumento dei topi è direttamente proporzionale alla mancata raccolta dei rifiuti”… Il degrado è palpabile, lo vedi, lo senti. Erbacce, cantieri semi-abbandonati, pavimentazioni distrutte.… Roma deve essere liberata tramite il voto popolare… Non si può aspettare… bisogna andare a elezioni il prima possibile, prima che Roma venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai campi dei clandestini gestiti dalla mafia… L’Onestà sta tornando di moda. L’abbuffata a spese dei contribuenti sta per finire”. Il vento è cambiato.

E in Campidoglio i grillini brindano con uno spritz. Festa in casa M5S: «Cadute le accuse più infamanti». Ma il Pd: «Raggi lasci per incapacità». Raggi ha iniziato la sua giornata inaugurando la conferenza nazionale sulla famiglia in una sala del Campidoglio, scrive il 29/09/2017 Federico Capurso il 29/09/2017 su "La Stampa". In Campidoglio alle quattro del pomeriggio si brinda con uno spritz. Il Movimento 5 stelle ostenta serenità, in un’atmosfera di festa che mal si accorda alla richiesta di rinvio a giudizio invocata dai pm nei confronti della sindaca Virginia Raggi per l’accusa di falso ideologico. «Ma sono cadute le accuse più infamanti» legate all’ipotesi di abuso d’ufficio, sottolinea la sindaca nella telefonata con Beppe Grillo, immediatamente informato degli sviluppi dell’inchiesta. E Grillo, scacciando le preoccupazioni di dover affrontare una campagna elettorale con un possibile processo aperto a Roma, si dice «molto soddisfatto che i due reati più pesanti siano stati archiviati». «Contento» che Raggi sia «riuscita a dimostrare la sua innocenza». La linea comunicativa, dunque, è decisa. La caduta delle accuse per abuso d’ufficio va rimarcata come un «successo», mentre la richiesta di rinvio a giudizio va minimizzata. E Raggi deve «continuare a lavorare con serenità», è il messaggio recapitato dai vertici. La giornata «normale» di Raggi può quindi iniziare con un incontro pubblico sul tema della famiglia, insieme al premier Paolo Gentiloni e al prefetto di Roma. Poi, il ritorno in Campidoglio, nel suo fortino, per preparare il comunicato da affidare a Facebook. Ancora una volta, nel mirino dell’intervento di Raggi c’è la stampa: «Mesi di fango mediatico su di me e sul Movimento 5 Stelle», scrive la sindaca. E ancora: «Per mesi i media mi hanno fatta passare per una criminale, ora devono chiedere scusa a me e ai cittadini romani. E sono convinta che presto sarà fatta chiarezza anche sull’accusa di falso ideologico». In Campidoglio, l’assemblea capitolina sulle partecipate romane si trasforma nell’occasione per aprire lo scontro fra Pd e M5S. I dem romani invocano la presenza della sindaca in aula Giulio Cesare e le sue dimissioni: non per le questioni giudiziarie, ma «per manifesta incapacità». Anche perché, a dirla tuta, sono stati appena rinviati a giudizio sedici ex consiglieri regionali Pd, coinvolti nell’inchiesta sui fondi destinati ai gruppi. La sindaca, invece, lontana dagli strali della politica consiliare, è intenta a presiedere la riunione di giunta. E a ricevere le prime congratulazioni dal vivo da parte dei suoi assessori, con l’auspicio che «si possa risolvere quanto prima anche la questione dell’accusa di falso». Per questo, Massimo Colomban, titolare delle Partecipate, si augura «che la giustizia sia più veloce, così da evitare anni e anni di patimenti in tribunale». Nonostante il rischio di far coincidere, con tutto questo tempismo, il possibile processo a Raggi con le elezioni politiche. Un altro che avrebbe preferito più velocità è Salvatore Romeo. «Sono molto felice di come si sia risolta la vicenda», commenta l’uomo delle polizze per la cui nomina (a capo della segreteria politica) Raggi aveva rischiato l’accusa di abuso d’ufficio. Altri toni quelli di Cristina Grancio, la consigliera capitolina M5S sospesa e poi reintegrata: «Mi sembra che tra me e Raggi siano stati usati due pesi e due misure. I probiviri mi hanno sospesa per molto meno», perché contraria allo stadio della Roma.  

Richiesta giudizio Raggi, Santori (Fdi): paradossale che esulti. "Un'accusa di falso è grave", scrive il 28 settembre 2017 Askanews. “E’ paradossale l’esultanza della sindaca Raggi per la richiesta di rinvio a giudizio. E’ un po’ come se una squadra esultasse per aver perso 1-0 invece di aver subito due goal”. E’ quanto dichiara Fabrizio Santori, consigliere regionale del Lazio di Fratelli d’Italia. “Peraltro – dice Santori – l’imputazione rivolta alla prima cittadina riguarda una questione grave, un’accusa di falso che se commesso nell’esercizio delle sue funzioni di pubblico ufficiale avrebbe anche questa particolare aggravante. Un delitto vero e proprio, un illecito decisamente più pesante rispetto a quello per cui l’ex assessore Muraro è stata fatta dimettere da assessore, mentre la Raggi è ancora lì peraltro protetta e idolatrata da Grillo e Casaleggio. Roma non merita simili atteggiamenti, due pesi due misure, per gli altri dimissioni per gli appartenenti al M5S avvocati difensori gratis. Noi continueremo ad essere garantisti, sono gli onesti del 5 stelle che basano la loro visione delle cose alla Jarabe de Palo, con la sua nota canzone Depende” conclude il consigliere regionale del Lazio.

Cinque Stelle, due misure. La Raggi nei guai chiede a chi l’ha criticata di scusarsi: lei e Grillo sfacciati come gli ultrà sui social, scrive il 29 settembre 2017 Gaetano Pedullà su "La Notizia Giornale". C’è una famosa immagine che ieri è tornata in mente a molti: Totò Cuffaro che offre i cannoli per festeggiare la sua condanna. Era il 2008 e l’allora presidente della Regione siciliana aveva appena conosciuto la sentenza di primo grado – poi ribaltata – che lo condannava a cinque anni di galera per aver rivelato segreti d’ufficio, ma lo scagionava dall’accusa di favoreggiamento alla mafia. Lo stesso Cuffaro ammise successivamente che non c’era niente da festeggiare, ma di fronte a certe decisioni della magistratura non è raro che scattino inconsce barriere di protezione, al di qua delle quali ci sta l’assoluzione mentre al di là va tutto il resto, quasi a voler negare a se stessi e al mondo una realtà di cui non si vuole prendere atto. Un meccanismo scattato anche in Virginia Raggi, al centro di vicende giudiziarie molto diverse da quelle di Cuffaro, ma da ieri sottoposta a una richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Roma. I magistrati hanno archiviato l’ipotesi dell’abuso d’ufficio nella vicenda che ruota attorno alla promozione di Renato Marra, fratello di quel Raffaele che era uno dei suoi più stretti collaboratori, e che la sindaca di Roma invece definì solo uno dei 23mila dipendenti del Comune, a rischio di farsi allungare il naso più di Pinocchio. Per i giudici resta però l’accusa di falso in atto pubblico, con riferimento a quanto da lei scritto all’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. In quella lettera la Raggi sosteneva che la scelta di trasferire di incarico Renato Marra era stata solo sua. Quello che emerge da numerose intercettazioni e trascrizioni di sms di altri collaboratori della sindaca sembrerebbe però provare tutt’altro. Cosa decideranno i giudici se, come è probabile, si andrà processo lo vedremo a suo tempo. Oggi fanno invece riflettere il doppio peso dei Cinque Stelle di fronte alle azioni della magistratura e l’impermeabilità a ogni tipo di critica, o autocritica, ormai tipico nelle reazioni del Movimento, dalla base alla dirigenza. Sull’incoerenza di chi ha fatto del grido Onestà! Onestà! la sua bandiera e poi non ha nulla da dire di fronte a un suo eletto nelle istituzioni che finisce sotto processo è stato già detto molto. Quello che è valso per il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, o per quello di Quarto, Rosa Capuozzo, per la Virginia Raggi non vale. Annusata l’aria del rinvio a giudizio il Movimento ha cambiato le sue regole interne e l’espulsione che un tempo era obbligatoria adesso è facoltativa. Tanto chi decide è sempre Grillo e, forse, un po’ il giovane Casaleggio. Ma è la risposta della Raggi e degli ultrà pentastellati, che negano come se nulla fosse qualunque realtà, che fa più spavento. Pensiero zero – Prendete nota di cosa ha scritto la Raggi con toni trionfalistici sulla sua pagina Facebook subito dopo la decisione della Procura di rinviarla a giudizio: “Per mesi i media mi hanno fatto passare per una criminale, ora devono chiedere scusa a me e ai cittadini romani. E sono convinta che presto sarà fatta chiarezza anche sull’accusa di falso ideologico”. Altrettanto felice Beppe Grillo, secondo cui sono cadute le accuse più importanti, mentre sulla rete la tifoseria dei Cinque Stelle festeggia come se la sindaca fosse stata fatta santa, sorvolando splendidamente sul falso e la mancanza di chiarezza su tutta la vicenda, che la stessa prima cittadina ha contribuito a creare blindando tutt’ora inspiegabilmente quel Raffaele Marra di cui ha promosso il fratello, poi finito agli arresti con l’accusa non modesta di corruzione insieme all’immobiliarista Sergio Scarpellini. Di fronte a tutto questo, soprattutto sui social network, lo zoccolo duro del Movimento non reagisce più chiedendo spiegazioni ai dirigenti coinvolti o offrendo civilmente la propria visione delle cose, ma passa subito a insultare chiunque racconti semplicemente i fatti. Mentre chi osa un minimo di analisi o di disapprovazione viene letteralmente fucilato, come se fosse colpevole di lesa maestà. Dentro la pancia del Paese si è gonfiata a dismisura una fascia di arrabbiati, che anche per l’effetto incontrollabile della comunicazione sulla rete web si sente detentore di una verità non scalfibile. Tanto che quello stesso popolo che ieri si compattava applaudendo le inchieste dei magistrati adesso quegli stessi magistrati li critica. E li snobba, derubricandone le accuse a semplice fuffa.

Raggi, gli attacchi diventati boomerang. La sindaca, per la quale la procura chiede il rinvio a giudizio per falso, rivendicava le dimissioni per gli indagati. Attaccava Marino per gli scontrini. E Pizzarotti per la mancanza di trasparenza. E festeggia l'accordo con Cerroni, scrive Francesca Buonfiglioli su "Lettera 43" il 28 settembre 2017. «I partiti devono rispettare i requisiti. Iniziamo a cacciare condannati e indagati?». Era il 13 settembre 2015 e Virginia Raggi, allora consigliera comunale M5s, si rivolgeva così al dem Matteo Orfini, taggando naturalmente i suoi compagni d'Aula e cioè Daniele Frongia, Enrico Stefàno e Marcello De Vito. La ruota però gira: e ora per la sindaca, indagata per falso e abuso di ufficio nell'ambito dell'inchiesta sulle nomine, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio solo per la prima accusa. Quella "meno grave", almeno secondo i vertici del Movimento. «DEVONO CHIEDERMI SCUSA». Beppe Grillo si sarebbe addirittura detto «molto soddisfatto» che l'accusa di abuso di ufficio sia in via d'archiviazione e che Virginia abbia dimostrato la sua innocenza. Stesso entusiasmo per Raggi. «Apprendo con soddisfazione che, dopo mesi di fango mediatico su di me e sul MoVimento 5 stelle, la Procura di Roma ha deciso di far cadere le accuse di abuso d'ufficio», ha scritto su Facebook, sorvolando comunque sul fatto che sulla sua testa pesa una richiesta di rinvio a giudizio per falso. «Un’accusa infamante riportata per mesi dai giornali e cavalcata dall’opposizione nel tentativo di screditare me ed il MoVimento 5 Stelle. Così come non ci sarebbe alcun abuso nella nomina di Renato Marra [...]. Per mesi i media mi hanno fatta passare per una criminale, ora devono chiedere scusa a me e ai cittadini romani. E sono convinta che presto sarà fatta chiarezza anche sull'accusa di falso ideologico». Lei però, insieme ai colleghi, non ha mai chiesto scusa a Ignazio Marino accusato e denigrato per mesi. E nemmeno a Federico Pizzarotti bersaglio per anni dei pasdaran grillini. Sono sideralmente lontani i tempi in cui era sufficiente un avviso di garanzia per essere obbligati alle dimissioni. La sindaca del resto può stare tranquilla, visto che il 3 gennaio scorso la Rete ha votato la modifica del codice etico in caso di procedimenti giudiziari per gli eletti. Nella nuova versione è considerata «grave e incompatibile con il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5 stelle» solo la condanna.

AUTOSOSPESI E INDAGATI. Vero, la sindaca avrebbe potuto autosospendersi come hanno fatto per esempio il consigliere comunale bolognese Marco Piazza, rimasto però in carica, e presente pure sul palco di Rimini a 5 stelle, oppure il sindaco di Bagheria Patrizio Cinque, entrambi indagati. Ma ha scelto di restare a tutti gli effetti nel Movimento come i colleghi Chiara Appendino, indagata dopo i fatti di piazza San Carlo e Filippo Nogarin, sindaco di Livorno accusato di falso in bilancio, bancarotta e abuso d’ufficio insieme col suo ex assessore al Bilancio Gianni Lemmetti ora precettato a Roma. Rimasti saldamente al loro posto nonostante Luigi Di Maio candidato premier nel 2015 sentenziasse: «Se un sindaco è indagato per abuso d’ufficio sta fermo un giro». Ma le cose cambiano: lui, a sua volta indagato per diffamazione, corre per Palazzo Chigi nonostante i paletti del Non Statuto e non ha sottoscritto alcun codice di comportamento come invece fece Raggi.

L'UNICUM PIZZAROTTI. A quanto pare ad assaggiare il vecchio giustizialismo pentastellato è stato solo il parmigiano Federico Pizzarotti che venne sospeso dal Movimento con l'accusa, sempre smentita dal diretto interessato, di non aver comunicato al fantomatico staff il fatto di essere indagato per le nomine al Teatro Regio. La vicenda poi finì con l'archiviazione e, davanti al nulla di fatto del Movimento, il sindaco sbattè la porta. Pizzarotti, da anni indigesto a Grillo & Casaleggio, venne accusato dai caporioni pentastellati di essere stato poco trasparente. Virginia però ha sempre avuto la coscienza a posto. Appena saputo dell'indagine a suo carico, infatti, informò Beppe Grillo, adempiendo «al dovere di informazione previsto dal Codice di comportamento del Movimento 5 Stelle». Poi i consiglieri di maggioranza e i membri della giunta, quindi - «nella massima trasparenza che contraddistingue l’operato del M5s» - tutti i cittadini. Insomma, Raggi non è una Pizzarotti qualunque. E infatti pure lei si unì al coro di sdegno contro il sindaco di Parma. «L'avviso di garanzia era noto a Pizzarotti e lui ha pensato di nasconderlo», attaccò lapidaria. «Avrebbe dovuto renderlo noto ai suoi concittadini». Pizzarotti «non è sospeso per un avviso di garanzia», spiegò poi la prima cittadina di Roma, «è sospeso perché non c’è stata quella trasparenza che noi chiediamo e pretendiamo». A voler essere puntigliosi, però, proprio in nome di quella trasparenza Raggi avrebbe dovuto spiegare perché al tempo difese Marra con testardaggine, contro tutto e tutti.

DUE PESI E DUE MISURE. Le capriole del Movimento 5 stelle e i due pesi e le due misure con cui nel tempo sono stati valutati amministratori e portavoce sono note. Per non parlare degli attacchi pentastellati agli avversari piddini. La stessa Raggi, quando occupava i banchi dell'opposizione nella Capitale, non ne lasciava passare una al suo predecessore Ignazio Marino. E a ogni polemica, come legittimo che sia nel gioco delle parti della politica, era pronta a gridare alle dimissioni.

LA BATTAGLIA DI DIBBA. La battaglia dei quattro consiglieri era sponsorizzata anche dai big, prima che Roma diventasse «una questione di Virginia». A partire da Alessandro Di Battista. «Non è più una questione di legittimità», attaccava il deputato. «Ora è diventata una questione morale per questo Marino si deve dimettere». Perché «se Marino è capace di mentire per una cena da 150 euro magari ha mentito anche quando diceva di non sapere nulla delle cooperative coinvolte nell'indagine di Mafia Capitale». Un dubbio che potrebbe sorgere anche per Raggi. L'ex sindaco marziano a ottobre è stato poi assolto dalle accuse. Senza ricevere scuse, né dai dem né dai Cinquestelle. Le stesse scuse che ora pretende Raggi. La consigliera Raggi non disdegnava nemmeno lo sfottò nei confronti di Marino. Il 16 luglio 2015 aveva postato su Facebook una simpatica foto della Giunta con una croce rossa a coprire i volti degli assessori dimissionari. Il tutto corredato dalla didascalia: «E nessuno restò. Cit». Un chiaro riferimento ai Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Virginia non poteva certo immaginare il fuggi fuggi che si sarebbe scatenato dalla sua di squadra. Con l'addio - ampiamente annunciato - di Massimo Colomban sono sei gli assessori che hanno lasciato la sindaca. Spesso non in modo amichevole, come il titolare al Bilancio Andrea Mazzillo o l'Urbanista Paolo Berdini. Per non parlare della pioggia. Nel 2015 la consigliera si prendeva gioco dell'allora sindaco incapace, a suo dire, di gestire l'emergenza maltempo. «Domani piove. Gonfiate i gommoni», twittava taggando i suoi colleghi. E Di Battista rincarava la dose: «Piove un giorno e Roma diventa la città più invivibile d'Europa. SottoMarino dimettiti». Il sindaco è cambiato, ma la pioggia continua a causare caos nella Capitale. Come 10 settembre scorso quando un temporale dopo mesi di siccità ha trasformato le strade in fiumi. Ma non si piange sulla pioggia versata e Raggi non ha certo pensato di dare le dimissioni. L'ultima negación de la evidencia del Movimento si è consumata il 27 settembre. «Oggi è una giornata storica per Roma», ha dichiarato entusiasta Virginia Raggi. «Per la prima volta il Comune è riuscito a far firmare un contratto alle aziende di Manlio Cerroni. E questo ha dell'incredibile perché fino a ora per gestire il trattamento dei rifiuti nella Capitale ci sono state solo strette di mano. Mai una gara o un appalto», ha detto la Raggi in merito al contratto firmato con il consorzio, ora commissariato perché raggiunto da un'interdittiva antimafia, che gestisce gli impianti di Tmb di Malagrotta. «Portiamo a casa un risultato storico: finalmente ripristiniamo la legalità nella nostra città», ha festeggiato la sindaca.

IL M5S CAMBIA (POI). Ma come? Cerroni il «re della monnezza»? Quello a cui il Blog il 27 luglio 2016 aveva dedicato il post: «Cerroni è cosa loro» rivendicando il fatto di essere «i soli a fargli una guerra senza sosta»? Parrebbe di sì. «Tutti i partiti», continuava il post, «hanno sempre prontamente ottemperato, e parecchi anche molto volentieri. Cerroni (...) non ha capito che la sua concezione di "moderno" si è fermata ai tempi del Ddt, dell'amianto e della benzina al piombo, e insieme a lui non l'hanno capito (oppure hanno fatto finta) tutte le amministrazioni romane e laziali. Politica e partiti, tutti, continuano per decenni a credere alla "vision" da dopoguerra di Cerroni, mentre contemporaneamente si susseguono denunce, arresti, processi per associazione per delinquere e traffico di rifiuti». Per concludere: «Oggi il 1959 è lontano, la dissennata gestione inquinatrice dei rifiuti anche, e i sistemi di collusione, ricatti e mazzette a Roma, col M5S, sono finiti. Che i partiti (..) si affrettino a capirlo, e Cerroni con loro». Amen.

Tra pugni chiusi e saluti romani, scrive Luigi Iannone il 17 marzo 2017 su “Il Giornale”. Mettere a ferro e fuoco una città, devastare parchi pubblici, fare danni ad auto parcheggiate e a vetrine di privati negozi, per impedire ad un leader politico nazionale (Matteo Salvini) di incontrare al chiuso di un teatro iscritti e simpatizzanti, e oltretutto farsi furbescamente fomentare dal masaniello di turno che, di solito, a Napoli viene pure eletto sindaco, è spettacolo urticante. Osservare ventenni impettiti nel mostrare il pugno chiuso, forti di simboli e slogan che definirli antichi è puro eufemismo, significa mettere in scena per una platea nazionale una disperazione culturale e sociale che è loro ma indirettamente anche nostra. Perché non vi è alcuna strategia in quelle proteste se non millantare uno spirito ribellistico sistemato in bella vista a beneficio di fotografi e telecamere e, in realtà, utile paravento per sbraitare una serie infinita di luoghi comuni che si mescolano a straripante vigliaccheria. Innanzitutto perché questi rivoluzionari da week end celano il volto sotto caschi da motociclisti. E poi perché tanto pusillanimi quanto i loro avi che infestarono le nostre città negli anni settanta, ma ancor più vili e impalpabili, in quanto partigiani di una proposta politica inesistente. Una lotta vetusta sotto ogni profilo e anche strabica visto che, esattamente 24ore dopo, i bus e la metro di Napoli si sono fermati per uno sciopero durato tutta la giornata e indetto da varie sigle sindacali. Cittadini imbufaliti per i disagi e caos urbano mentre agli atti non risulta nemmeno un flebile ed evanescente comunicato dei Centri sociali, un pallido riverbero di lotta di questi sedicenti comunisti del Vomero o di Via di Mille; nulla di nulla. Perché il nemico è sempre un altro, quello ideologico. Tuttavia è un garbuglio nazionale dove resta però inalterato un assioma, quello dei due pesi e delle due misure rispetto agli opposti estremismi, o finti tali. Lo dimostra il fatto che nella stessa giornata, sul fronte giudiziario romano, prendeva contemporaneamente forma la confessione di Salvatore Buzzi in merito alle losche trame su cui si sarebbe organizzata ‘Mafia capitale’. Dichiarazioni che, certo, dovranno essere avvalorate da prove e riscontri visto che i soggetti in questione sono pure facili alla millanteria ma che, tuttavia, dal punto di vista della gravità rappresentano (e rappresenteranno) pur sempre un pugno nello stomaco per chi volesse dipanare una ad una le vicende capitoline dell’ultimo decennio. E invece cosa accade? Accade che il ‘compare’ di Buzzi, Massimo Carminati, collegato in video conferenza, faccia un saluto romano in direzione della telecamera e nel volgere di pochi minuti, siamo invasi da articoli e approfondimenti sull’estremismo di destra, sulla Banda della Magliana, sul neofascismo, sulla strategia della tensione, su Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, financo sul razzismo strisciante e sul populismo. Sì, finanche sul populismo. Riparte cioè quel vortice irrefrenabile di castronerie in parte storiografiche, ed alcune anche politiche, che di fronte ad episodi di poco peso sembra invece spingerci indietro in una spirale soffocante e spietata. Siamo consapevoli che, per molti, l’esegesi del radicalismo di destra è stato solluchero irrinunciabile; anzi, forse, non ha mai cessato di esserlo perché rappresenta fonte di guadagni professionali. E infatti ‘ospitate’ televisive e libri sul tema non mancano mai. Eppure, il gesto di Carminati, pur nel contesto di una inchiesta enorme per dimensioni e livelli di corruttela, sta ottenebrando ogni altra analisi imponendo sulla scena consumati commedianti pronti a rammentare a tutti noi il pericolo di un fascismo da terzo millennio quando invece trattasi solo di anticaglie varie. Basterebbe ripetere loro che Carminati faceva affari criminali. Punto. Senza far prevalere i mille rivoli sociologici di una operazione goffa ed anche capziosa. Perché ritorniamo sempre indietro nel tempo, a due pesi e due misure per fatti che hanno in tutta evidenza ripercussioni diverse. Da una parte c’è infatti la vicenda ‘Napoli’ che per l’ennesima volta mostra l’esistenza di un vasto fronte cultural-ideologico capace di emergere periodicamente da cavità carsiche, perché può godere di consensi da parte di intellettuali e pennivendoli di varia natura; dall’altra, la questione ‘Roma’, dove un enorme giro di affari e comprovato malcostume pubblico e privato vengono depotenziati della loro carica sociale esplosiva per far posto ad uno che, pur accusato di una serie infinita di reati gravi, ritorna agli onori della cronaca recente perché in cella fa il saluto romano.

Niente a me; niente a nessuno.

Beppe Grillo non si candida: "Io sono un delinquente". Il leader del M5S non vuole andare in parlamento perchè è stato condannato a 14 mesi per omicidio colposo, scrive il 21 novembre 2012 "Libero Quotidiano". Beppe Grillo è chiaro: "Io in parlamento non ci vado". In tanti glielo chiedono. Anche ad Aosta dove è andato nei giorni scorsi per dire no alla costruzione di un pirogassificatore. Ma lui resiste alla tentazione e non vuole cedere. A chi gli chiede il perchè risponde secco: "Sono pieno di carichi pendenti, sono un delinquente". Il leader del movimento cinque stelle è molto coerente con la suo credo ideologico. Chi è stato condannato non può essere eletto. Grillo quando si definisce un "delinquente", si riferisce 'alla condanna a 14 mesi di carcere (con la condizionale) per omicidio colposo relativa all'incidente d'auto nel quale, il 7 dicembre 1981, persero la vita due amici del comico, di 45 e 33 anni, e il loro figlio, di 9. Beppe non "vuole diventare come tutti gli altri". E su chi ha la tentazione di aggirare le regole del movimento Grillo ammonisce: "Dopo due mandati non ti puoi ricandidare. Queste sono le nostre regole. Se non ti stanno bene vai nel Pd o nel Pdl, mica ti tratteniamo qui". Grillo sempre da Aosta parla del futuro e delle prossime elezioni politiche: "I candidati del M5S saranno scelti online fra una lista di 1600 persone. Dobbiamo andare in parlamento perchè la politica di oggi si è divorata due generazioni. Non possiamo togliere il futuro ai nostri figli. Dobbiamo farlo per loro. E ai poliziotti che picchiano i ragazzi che sono il nostro futuro dico di smetterla ancora una volta di manganellare. Vengano con noi. Non possono andarci di mezzo sempre studenti, agricoltori, pescatori, e lavoratori". Peccato che a tenere spranghe e pietre in mano da lanciare verso le forze dell'ordine per le strade non si è visto nessun nostromo e nessun contadino. 

Un paese con un minimo di serietà, avrebbe già fatto scontare ad un soggetto del genere almeno cinque anni di carcere. Non è solo un pluriomicida colposo, ma un diffamatore seriale. CAUSE, REATI E CONDANNE.

Nel pomeriggio del 7 dicembre 1981 Beppe Grillo perse il controllo di un fuoristrada Chevrolet K5 Blazer mentre percorreva la strada militare, chiusa al traffico, che da Limone Piemonte porta sopra il Colle di Tenda. Il veicolo, sei chilometri dopo "Quota 1400" vicino al confine con la Francia, scivolò su un lastrone di ghiaccio e cadde in un burrone profondo ottanta metri. A bordo con Grillo c'erano quattro suoi amici genovesi, con i quali stava trascorrendo il fine settimana dell'Immacolata. Grillo si salvò gettandosi fuori dall'abitacolo prima che l'auto cadesse nel vuoto e, contuso e in stato di choc, riuscì a chiamare i soccorsi. Tre dei suoi amici rimasti nell'auto persero la vita. In appello il 14 marzo 1985 Grillo fu condannato per omicidio colposo a quattordici mesi di reclusione con il beneficio della condizionale e della non iscrizione. La condanna fu resa definitiva dalla IV sezione penale della Corte Suprema di Cassazione l'8 aprile 1988.

Nel 2003 Grillo patteggiò una causa per diffamazione aggravata intentata contro di lui da Rita Levi-Montalcini. Durante uno spettacolo, Beppe Grillo l'aveva definita "vecchia p u t t a n a", sostenendo che avesse ottenuto il Premio Nobel per la medicina grazie a una ditta farmaceutica che le aveva comprato il premio.

Nel 2012 in appello Grillo è stato condannato per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista Internazionale. Il risarcimento del danno patrimoniale, pari a 50.000 euro, oltre alle spese processuali, è stato stabilito dai giudici della prima sezione della corte d'appello del tribunale di Roma.

Nel settembre 2013 Grillo viene condannato in Corte di cassazione per avere diffamato l'ex sindaco di Asti, e parlamentare per Forza Italia, Giorgio Galvagno. Nel 2003, Grillo aveva definito l'ex primo cittadino "un tangentista", durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti. Grillo dovrà versare a Galvagno 25.000 euro e gli interessi a partire dal 2003, come risarcimento del danno, oltre al risarcimento per le spese legali.

Il 12 dicembre 2013 Grillo è stato condannato dal Tribunale di Genova in primo grado per diffamazione nei confronti di Antonio Misiani, in qualità di tesoriere del Partito Democratico. Nel maggio 2012 Grillo pubblicò sulla prima pagina del proprio blog un mosaico di immagini con fotografie in stile foto segnaletica degli amministratori di PdL (Rocco Crimi), PD (Antonio Misiani) e UDC (Giuseppe Naro), insieme con quelle degli ex di Lega Nord (Francesco Belsito) e Margherita (Luigi Lusi). Il giudice ha riconosciuto a titolo provvisorio un risarcimento di € 25.000 in favore di Misiani e un risarcimento in favore del Partito Democratico di € 5.000.

Il 14 settembre 2015 Grillo è stato condannato, in primo grado, dal Tribunale di Ascoli Piceno per diffamazione aggravata nei confronti di Franco Battaglia, professore dell'Università di Modena. La condanna consiste in un anno di reclusione con pena sospesa, 1.250 € di multa e una provvisionale di 50.000 € alla parte offesa. In quell'occasione, Grillo si paragonò a Nelson Mandela e a Sandro Pertini. 

Beppe Grillo - Wikipedia.

-"Inoltre Grillo si avvalse del condono fiscale del 2003 promosso dal governo Berlusconi e da lui più volte criticato in quanto premiava gli evasori".

-L'11 dicembre 2013 il quotidiano Libero in un articolo: due ville di Grillo sono inquadrate in categorie catastali errate, consentendogli risparmi sulla tassazione. In particolare: villa di 24 vani, 2 piscine e spazi esterni ubicata nella collina di Sant'Ilario, riferisce il giornalista, ha la categoria catastale A/7 (villino) in luogo di A/8 (villa). Lo stesso per un'altra sua villa in Marina di Bibbona da 21 vani, piscina e 5.600 metri quadrati di terreno oltre a una rimessa per barche di 70 metri quadrati, anch'essa con categoria catastale A/7".

Lotti si salva e accusa: «Il vero obiettivo è Renzi», scrive Giulia Merlo il 16 Marzo 2017. Sfiducia non passa, 161 voti contrari, 52 a favore (Sinistra italiana, Lega e Movimento 5 Stelle), gli altri gruppi escono dall’Aula. Renzi che non ha rinunciato ad una stoccata a Beppe Grillo e al M5s: "Non sto in un partito guidato da un pregiudicato, io ai miei principi ci tengo. Io ho una fedina penale diversa da Beppe Grillo". Lo ha detto l'ex premier Matteo Renzi, ospite di "Otto e mezzo", su La7 il 2 marzo 2017 commentando l'inchiesta Consip che vede coinvolto il padre Tiziano. "Io sto dalla parte dei magistrati anche quando c'è di mezzo mio padre". "Non accettiamo lezioni di moralità da un movimento fondato da un pregiudicato - aveva duramente detto il ministro Luca Lotti nel suo intervento difensivo -. Le forze politiche che chiedono un mio passo indietro sono culturalmente subalterne e politicamente scorrette. È in atto un tentativo di colpire me non per quello che sono, ministro dello Sport, delega preziosa e cruciale di cui ringrazio Gentiloni e Mattarella, ma per quello che nel mio piccolo rappresento: si cerca di mettere in discussione lo sforzo riformista di questi anni cui ho preso parte partendo da Firenze. Non si può cercare di liquidare quell'esperienza attraverso la strumentalizzazione di un'indagine giudiziaria che farà il suo corso". «Culturalmente subalterne e politicamente scorrette», così il ministro Luca Lotti ha definito le forze politiche che hanno chiesto la sua sfiducia, a partire dal Movimento 5 Stelle. Un tentativo a vuoto, in un’Aula gremita durante il dibattito e vuota durante la votazione perchè molti gruppi parlamentari hanno deciso di non rispondere alla chiama, terminata con 161 voti contro e 52 a favore, che blindano lo scranno del ministro. Lotti, circondato da quasi tutti i ministri del governo Gentiloni, ha parlato pochi minuti in un intervento tutto all’attacco: «Va respinta la voglia di trasformare quest’Aula in una gogna mediatica», e ancora «questo è un tentativo di colpire non me, ma quello che io nel mio piccolo rappresento: si vuole mettere in discussione lo sforzo progressista di questi anni». Nelle quattro pagine lette al termine delle due ore di dibattito, Lotti ha dedicato un solo passaggio all’inchiesta Consip, nella quale è indagato per rivelazione del segreto d’ufficio: «Non ho mai avvisato Marroni, nè ho passato informazioni riservate, chi sostiene il contrario dice una bugia». Nulla di più, nulla di meno. Poche battute per rispondere al durissimo intervento della senatrice 5 Stelle Paola Taverna, che ha spiegato i termini della mozione di sfiducia presentata dai grillini e teorizzato «un vero e proprio “sistema Renzi”: al centro di questa storia c’è Romeo che ha finanziato legalmente un po’ tutti, ma il nome di Lotti lo fanno due del “giglio tragico”. Qui si sta difendendo non solo un ministro, si sta blindando il fedelissimo di Renzi». Per la senatrice, infatti, «Il tema non è l’avviso di garanzia ma la gravità delle accuse, e per capirlo non abbiamo bisogno di aspettare le sentenze della magistratura: un principio che noi abbiamo fatto nostro nel Codice etico del Movimento». Parole pesanti, che hanno suscitato proteste dai manchi del Pd e bollate come «argomentazioni vouyeristiche» dal senatore di Ala, Ciro Falanga, che ha sbottato: «Siamo in un’aula del Parlamento, non di giustizia e questo è un caso fondato sulla violazione del segreto istruttorio, diventato ormai il segreto di pulcinella: qui è in gioco l’equilibrio tra poteri dello Stato». La parola che ha fatto da filo conduttore a tutti gli interventi, però, è stata «garantismo». Evocato da Gaetano Quagliariello di Area popolare come un «principio che vale sempre, per ogni ministro, e non subordinato alle convenienze del momento», ma anche da Miguel Gotor di “Articolo 1 – Movimento democratici progressisti” (gruppo che ha presentato una autonoma mozione per sospendere le deleghe a Lotti) particolarmente aspro nei confronti del suo ex compagno di partito. «Quello del Pd è un garantismo alla carta, una mera condotta opportunistica da utilizzare solo nel caso di amici potenti e compagni di partito», ha attaccato Gotor, ricordando che i ministri De Girolamo, Lupi e Guidi furono «costretti a dimettersi senza essere stati indagati, su richiesta di Renzi per ragioni di stile e opportunità». Ancora diversa la posizione del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che ha evocato il suo passato recente: «Anche io sono stato indagato per le stesse ragioni dallo stesso pm, Woodcock, tutto si conclude in un nulla. Noi siamo garantisti da sempre pure se avremmo forse meno ragioni per esserlo, visto il trattamento ricevuto da Silvio Berlusconi, ma voi avete commesso errori di presunzione». A difendere la posizione del ministro, dai banchi della maggioranza del Partito Democratico, è intervenuto il conterraneo Andrea Marcucci, che ha stigmatizzato la «furia giustizialista» dei 5 Stelle, perchè «un avviso di garanzia non può diventare una gogna mediatica e politica. Noi voteremo no contro questa strumentale mozione di sfiducia voluta da Beppe Grillo e dal suo blog». Al termine di una seduta incandescente, tuttavia, la novità di giornata non è il già anticipato salvataggio di Lotti, ma la formazione di un inedito fronte di Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Sinistra Italiana.

Lotti si salva grazie anche a Verdini. Bocciata la mozione presentata dai Cinque Stelle. Ma il voto di Ala imbarazza il Pd. Il ministro interviene in aula e contrattacca: “Si vuole colpire una stagione politica”. Nell’aula del Senato in dibattito sulla sfiducia individuale al ministro dello Sport Luca Lotti si è svolto senza particolari tensioni nonostante alcuni interventi molto duri, scrive Ugo Magri il 16/03/2017 su “La Stampa”. La mozione grillina contro Luca Lotti non ha travolto il ministro, come era facile scommettere. Il braccio destro di Renzi ha raccolto al Senato perfino più fiducia di quanta ne potesse desiderare: 161 voti, oltre la maggioranza assoluta, solo 52 sì. Se fossero stati 14 sostenitori in meno non gli sarebbe dispiaciuto. Il Pd infatti ha tentato di convincere i verdiniani che del loro apporto non ci sarebbe stato bisogno, dunque meglio avrebbero fatto a scomparire per ragioni estetiche (Verdini si è ritagliato un ruolo pure nella vicenda Consip). Ma è stato tutto inutile: invece di uscire dall’aula, come ha fatto Forza Italia nel nome del garantismo, il gruppo di Ala ha manifestato aperto sostegno al titolare dello Sport, che si è difeso nel suo discorso con passione, respingendo l’accusa di avere messo sul chi vive gli indagati. Porterà in Tribunale chi lo ha calunniato, promette. Proprio ieri suo figlio ha compiuto 4 anni, e difendersi in Senato (ha voluto far intendere) non è stato il modo migliore per festeggiare. 

Lo scontro con Gotor. Chi s’immagina un duello vibrante, gonfio di pathos e dai toni elevati, sbaglia di grosso. Gentiloni non c’era perché impegnato a Pistoia «Capitale della cultura». Idem la Boschi. Padoan si è affacciato all’inizio ma poi, evidentemente, aveva altro da fare. Emiciclo pieno, molti sguardi per la ministra Lorenzin con spolverino giallo, per la Cirinnà tutta in rossa, per la Pelino borchiata d’oro. Proteste e ironie dai banchi Pd quando la grillina Taverna ha tirato in ballo le indennità che i senatori perderebbero se cadesse il governo. I Cinquestelle hanno messo a segno alcuni colpi facili, ma pure loro ne hanno incassati per via della Raggi, del loro codice etico e delle disgrazie penali di Grillo, che Lotti si è spinto a bollare come «un pregiudicato» (sui banchi M5S qualcuno faceva gestacci del tipo «dopo vengo e ti sistemo io»). Si è celebrato il trionfo dell’ipocrisia, Pd e M5S impegnati a rinfacciarsi la doppia morale del giustizialismo nei confronti degli avversari, e del garantismo peloso quando i pm indagano gli amici. Per cui a conti fatti non è semplice stabilire chi le abbia buscate di più. Idem per quanto riguarda l’altro duello pieno di rancore tra il Pd e quelli che se ne sono appena andati. 

Tra Pacciani e Cutugno. Come se mai fossero stati insieme nello stesso partito, il bersaniano Gotor ha consigliato a Lotti di dimettersi, o perlomeno di restituire le deleghe in campo economico. L’attacco è stato condito con velenosi riferimenti al «familismo amorale» renziano, al «groviglio di potere» cresciuto a Rignano sull’Arno, al «giro tosco-fiorentino degli “amici miei” in salsa governativa» (i leghisti, meno raffinati, hanno evocato addirittura il Mostro di Firenze). Mentre Gotor parlava, dai banchi del governo partivano sguardi carichi di odio verso l’esponente di Mdp. Ha provveduto più tardi Marcucci a bastonarlo, denunciandone «lo spirito vendicativo, provocatorio, insoddisfatto e minaccioso». Ma tanto è bastato per scatenare l’ironia di Gasparri, berlusconiano. «Eravate venuti da Firenze a miracol mostrare», si è rivolto ai renziani, «ma non avete innovato un bel tubo. Bervenuti nell’Italia di Toto Cutugno».

Svolta forcaiola dei bersaniani per mettere al tappeto Renzi. Garantisti con Errani, ora i fuoriusciti ex Pd diventano giustizialisti con Lotti. E Pisapia rifiuta le loro avance, scrive Laura Cesaretti, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Garantisti sì, ma solo a casa propria. Gli altri, in galera. Soprattutto se gli altri erano - fino a due settimane fa - i compagni di partito. La triste parabola dei fuoriusciti Pd capeggiati da Bersani e D'Alema si riassume in due nomi: Vasco Errani e Luca Lotti. Quando l'allora presidente della regione Emilia Romagna (nonché testa pensante della segreteria Bersani), venne indagato e poi rinviato a giudizio per il caso Terremerse, l'ex segretario lo difese a spada tratta, si oppose ad ogni idea di dimissioni e ricordò solenne che «un avviso di garanzia è solo un atto a tutela di un indagato». A Errani, Bersani volle pubblicamente esprimere «solidarietà e fiducia», dicendosi certo che «avrà sicuramente l'occasione per dimostrare l'inconsistenza delle accuse». E diede un mandato preciso al Pd emiliano: altro che dimettersi, «Errani deve comunque portare a termine il suo mandato: parlare di dimissioni è irresponsabile e destabilizzante, e non è neppure in buonafede», come spiegò il capogruppo in Regione dopo consultazioni al Nazareno. Errani poi venne condannato, si dimise (e Matteo Renzi, nel frattempo diventato segretario, lo pregò di restare al suo posto), e infine venne assolto. E Bersani spiegò che - anche se lo avessero condannato - «persino nella valle di Giosafat, non avrei mai creduto alla sua scorrettezza». Altri tempi. Ora, invece, per i quattro gatti che hanno seguito Pierluigi Bersani fuori dal Pd tutto è cambiato. Reclamano a gran voce le dimissioni di Lotti (che è solo indagato) per «tutelare l'immagine del governo», e presentano una mozione per ottenere che il premier gli tolga a scatola chiusa tutte le deleghe. Il loro portavoce Miguel Gotor, con mirabile sprezzo del ridicolo, argomenta: «Non c'è bisogno di attendere il lungo corso della giustizia per ricavare il convincimento che la vicenda Consip rivela uno stile di gestione del potere di carattere familistico». Chi se ne frega dei processi, insomma: Dp ha già emesso la sua sentenza, Lotti è colpevole per ragioni di «stile». E Gotor svicola così al parallelo sul caso Errani: «Lotti prenda esempio da Errani, farebbe un servizio all'Italia e alla dignità della politica». Peccato appunto che Errani, blindato dal capo di Gotor in nome di un garantismo rapidamente dimenticato, non si dimise affatto per l'avviso di garanzia, né per il rinvio a giudizio: si dimise nel 2014 dopo la condanna in secondo grado. Ma quel che vale per Errani non vale per Lotti, nel magico mondo bersaniano. E del resto la stessa musica viene suonata un po' più a sinistra, lì dove i vendoliani che ora invocano la sfiducia e le dimissioni di Lotti non aprirono bocca quando Nichi Vendola fu indagato e rinviato a giudizio per disastro ambientale. Ma si sa, quel che vale per sé stessi non deve valere per gli altri. Curioso però che i bersanian-dalemiani, tanto accaniti nell'inseguire Lotti coi forconi, oggi annuncino di voler uscire dall'aula quando si voterà la mozione di sfiducia M5s. Ma c'è da capirli: se per un tragico pasticcio la mozione dovesse passare, rischierebbero di ritrovarsi disoccupati anzitempo. Meglio evitare, coi tempi che corrono. Anche perché il futuro è molto incerto: Bersani, per rimediare un po' di posti in lista, ha provato a salire sul carro di Pisapia, proponendogli tentatore un «ticket» con lo smagliante Roberto Speranza. Ma ieri, dal pranzo (chiuso ai bersaniani) tra l'ex sindaco di Milano e alcuni ex Sel, è trapelato che - poco sorprendentemente - Pisapia non ci pensa per niente: «Ma quale ticket, l'ipotesi non esiste», spiegano i commensali.

La senatrice Pd Capacchione: "Su Minzolini era tutto molto vago e confuso, ho votato nel merito. Invidio le certezze di Di Maio". Intervista del 16/03/2017 su "L'Huffingtonpost.it" Gabriella Cerami.

“Io non aiuto nessuno, né Augusto Minzolini né qualcun altro. Penso però che le questioni di giustizia debbano rimanere al riparo da fattori esterni ed attenere solo a una questione di coscienza. Quindi ho votato nel merito”. Rosaria Capacchione è tra i 19 senatori Pd che hanno votato insieme a Forza Italia per respingere la deliberazione della Giunta per le Immunità che nel luglio scorso aveva dichiarato decaduto l'ex giornalista dal mandato di parlamentare perché condannato per peculato con sentenza passata in giudicato. La senatrice dem, attaccata duramente da Luigi Di Maio, in un’intervista con l’Huffpost replica all’esponente grillino: “Il Movimento 5 Stelle è garantista con i suoi e giustizialista con gli altri. Forse dovrebbe leggere bene la riforma del processo penale”.

Senatrice Capacchione, come mai ha votato insieme a Forza Italia per “salvare” Augusto Minzolini dalla decadenza? I 5Stelle parlano di uno scambio: ieri FI ha votato contro la sfiducia al ministro Luca Lotti e voi oggi a favore di un loro senatore.

“Io avrei votato in questo modo a prescindere dalle indicazioni Pd, che poi giustamente ha lasciato libertà di coscienza e infatti ognuno si è espresso in modo diverso: c’è chi ha votato a favore della decadenza, chi contro, chi si è astenuto e chi è uscito dall’Aula. A dimostrazione che non c’è stato alcunché di concordato. Da parte mia non c’è stata una ragione umanitaria, ma ho valutato nel merito”.

Cosa ha valutato?

“Io sono in commissione Giustizia. Ieri mattina abbiamo votato con la fiducia la riforma del processo penale che contiene una modifica del codice di procedura penale. Modifica cioè le modalità del dibattimento in Corte d’appello. Quando si fa il processo d’appello se un giudice pensa di sovvertire il primo grado di giudizio, ad esempio condannare invece di assolvere, adesso si ha l’obbligo di rinnovare il dibattimento. Minzolini è stato assolto in primo grado e condannato in appello senza che venisse rinnovato il dibattimento. Dunque io ho un problema serio di coscienza perché ieri mattina ho votato la riforma del processo penale che vieta che questo possa accadere, a prescindere dal merito se è colpevole o innocente”.

Quindi si è espressa in linea con la riforma del processo penale e non con ciò che prevede la legge Severino.

“Oggi la Cassazione, dopo l’approvazione della riforma del processo penale, avrebbe avuto l’obbligo di annullare la sentenza di condanna perché non c’è stato un rinnovato dibattimento. Ma non so se i 5Stelle hanno letto la riforma del processo penale”.

La legge Severino prevede la sospensione di un parlamentare dopo il primo grado di giudizio. A questo punto bisogna rimettere in discussione la legge?

“Infatti, con i tempi della giustizia in Italia tra la condanna in primo grado e l’assoluzione in appello possono anche passare dieci anni e non si può chiedere a una persona si sospendersi. Bisogna capire bene cosa fare. La legge Severino è una norma regolatrice della politica, poi ci sono i partiti con il loro codice etico e se un politico ha commesso un certo tipo di reato non dovrebbe essere candidato”.

Adesso Forza Italia chiede una riflessione sul caso Berlusconi e sulla decadenza, votata sempre dal Senato, dell’ex premier.

“Le mie personalissime valutazioni di oggi non hanno a che vedere con Berlusconi e tutto il resto. Io ho votato la decadenza di Berlusconi, ma stiamo parlando di un altro tipo di reato, il paragone dal mio personale punto di vista non è fattibile. Su Minzolini era tutto molto vago e confuso. Io sono molto poco politica, i retropensieri non ce li ho, come credono invece i 5Stelle”.

Di Maio si è detto sorpreso dal suo voto essendo stata una giornalista antimafia. Cosa gli risponde?

“Beato lui che sulle questioni di giustizia ha tutte queste certezze. Non mi offendo e non vogliono scendere in polemica con Di Maio, lasciamo stare, non lo trovo utile”.

"Io vittima di un'ingiustizia vi racconto il mio calvario". Il senatore: "Chi mi ha condannato è stato prima avversario politico. Bevo la cicuta e mi dimetto", scrive Augusto Minzolini, Venerdì 17/03/2017, su "Il Giornale". Alla fine di questo calvario, una premessa mi è d'obbligo. Io sono convinto che la battaglia che ho intrapreso vada al di là della mia persona. Sono persuaso che certe incongruenze, contraddizioni, meccanismi infernali, che spesso emergono nel nostro sistema giudiziario, rappresentino l'occasione per fare il punto sulla condizione della giustizia e della democrazia nel nostro paese. Proprio per questo dico fin d'ora che, qualunque sia l'esito del voto, un attimo dopo rassegnerò le dimissioni da senatore. Dopo, però, non prima: perché voglio, appunto, che il Senato si esprima su un caso che io considero, con tutto il rispetto che posso avere per la magistratura, una grande ingiustizia. Non per nulla, io continuerò a combattere la mia battaglia su questa vicenda in tutte le sedi. In Italia e in Europa.

LA STORIA. Io penso di essere vittima di una vicenda kafkiana. Arrivo in Rai nel giugno del 2009, dopo aver lavorato 30 anni in aziende private: l'agenzia Asca; Panorama; La Stampa. Accettai uno stipendio inferiore a quello del mio predecessore, Gianni Riotta, ma posi come condizione quella di poter continuare la mia collaborazione con Panorama: volevo dire la mia, al di fuori del Tg che avrei diretto. Prima mi fu detto di sì, poi il presidente della Rai di allora, Paolo Galimberti, si oppose. Mi mandò una e-mail in cui mi diceva che «era eticamente (oltre che contrattualmente) incompatibile che io continuassi». A quel punto io posi la questione della carta di credito. Dissi all'allora direttore generale Masi che volevo una carta di credito, esattamente come quella di cui disponevo a La Stampa, da inviato speciale. Ripeto da inviato speciale non da direttore: stesso budget; stesse regole, tra le quali quella di non dover indicare i nominativi delle persone incontrate o invitate (per ovvie ragioni di riservatezza delle mie fonti). La trattativa si chiuse. Per 18 mesi andò avanti tutto come previsto. A giugno del 2010 Masi inviò una circolare nella quale era previsto che le spese prive dei beneficiari dovessero essere sottoposte all'approvazione del direttore generale: avendo io l'accordo di cui vi ho parlato, pensavo di esserne dispensato. Continuò a non esserci nessuna contestazione sulle mie note spese. Nessuno mi disse niente di questo problema fino a quando uno dei consiglieri di amministrazione, Rizzo Nervo, non pose la questione al direttore generale Masi. Il quale non avendo le idee chiare in testa - in Rai capita spesso - farfugliò e si contraddisse. In due lettere diede due risposte diverse: nella prima, indirizzata a Nervo, definì la carta un «benefit compensativo» in cambio dell'«esclusiva»; nella seconda, al sottoscritto, cambiò la natura della carta in una sorta di «facility», sostenendo che tra me e l'azienda fosse insorta un'incomprensione di natura amministrativa e, riconoscendo la mia buona fede, mi chiese di reintegrare le somme. Sia pure indignato, decisi di ridare indietro all'azienda tutta la somma in questione e comunicai che mi sarei rivolto al giudice del lavoro. Restituii le somme ancor prima che ricevessi l'avviso di garanzia per peculato, per una questione di orgoglio: essere accusato di aver sperperato soldi pubblici la reputavo, e la reputo, un'offesa. Peccando d'ingenuità, ero convinto che la vicenda si fosse chiusa lì.

IL PROCESSO E L'ASSOLUZIONE. Nel frattempo un esposto presentato dall'onorevole Antonio Di Pietro aveva messo in moto la procura di Roma. Dalle indagini non emerse una prova, un episodio, una testimonianza, da cui si potesse dedurre che fossi andato a cena per fatti miei privati. Anzi, il 26 aprile del 2011 il consiglio dell'Ordine dei giornalisti archiviò la vicenda all'unanimità. Stessa cosa fece la Corte dei Conti, il 6 dicembre 2011, ma due mesi prima il Gup di Roma mi aveva rinviato a giudizio. Il processo di primo grado durò poco più di un anno. Il pm cominciò la sua requisitoria, avvertendo che non c'era una prova diretta di quell'illecito. Non c'era la cosiddetta «pistola fumante». Il processo si concluse con l'assoluzione. Pensai che il mio calvario fosse finito, invece, stava appena cominciando.

L'APPELLO E LA CONDANNA. Il 27 ottobre del 2014, ci fu l'appello. Senza riaprire l'istruttoria, assumere nuove prove, raccogliere nuove testimonianze o riascoltarmi, la sentenza di assoluzione viene ribaltata. Di più, il tribunale va oltre le richieste dei pm: mi condanna a due anni e sei mesi e all'interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo della pena. Insomma, è una sentenza che mi consegna all'oblio. Resto esterrefatto. Non mi riconosce neppure l'attenuante della restituzione dei soldi che io ridiedi alla Rai addirittura prima di ricevere l'avviso di garanzia. La mia colpa sarebbe stata quella di non aver calcolato i danni. Ma come avrei potuto farlo? L'azienda all'epoca non me li chiese. Senza contare che, successivamente fui assolto in primo grado e il giudice del lavoro costrinse la Rai a ridarmi i soldi. E, paradosso nel paradosso, dopo che con la condanna definitiva ho di nuovo ridato i soldi all'azienda, quest'ultima non mi ha chiesto i danni.

I DUBBI SULLA SENTENZA. Resto sconvolto. Non mi do pace. Comincio ad analizzare quanto è avvenuto con lo stato d'animo di chi si sente tradito dalla giustizia. Scopro che nel tribunale di Appello, quello che ha capovolto l'assoluzione di primo grado, c'era un giudice che è stato in politica per venti anni. Il giudice in questione, Giannicola Sinisi, ha, infatti, avuto una lunga carriera in politica nello schieramento avverso rispetto al mio. Questo è il giudice che mi ha condannato, capovolgendo una sentenza di assoluzione e, ancora, che ha aumentato di 6 mesi la pena richiesta facendomi in questo modo incorrere nella legge Severino. Cosa direste se Michele Emiliano, politico, magistrato da 12 anni in aspettativa, e, ora, candidato alla segreteria del Pd, ritornasse in futuro al suo vecchio mestiere per giudicare in tribunale Renzi? Mi viene quasi da ridere.

GLI «AVVERSARI» E LE COINCIDENZE. Non basta. Il relatore del mio processo in Cassazione è stato Stefano Mogini, già capo di gabinetto del ministro di grazia e giustizia del governo Prodi. Ebbene, Mogini è stato consigliere giuridico della delegazione diplomatica che lo Stato italiano ha oltreoceano presso l'Onu. Lui e Sinisi erano i due magistrati che avevamo in America. Hanno lavorato gomito a gomito per cinque anni. Poi, tornati in Italia, nel giro di un anno, sono stati chiamati entrambi a giudicare il sottoscritto, in due diversi gradi di giudizio: beh, francamente, tutto questo fa una certa impressione sul piano delle coincidenze.

DIMISSIONI. C'è un vuoto politico grande come un oceano, quello di assicurare a un imputato un giudice terzo, imparziale, che non sia stato un avversario politico. La necessità che il Parlamento valuti nel merito la vicenda giudiziaria di un suo membro per evitare la minima ombra di una persecuzione. La politica è, innanzitutto, assunzione di responsabilità. E io me la sono assunta in toto fino all'ultima tappa di questo calvario. Sono pronto a bere la cicuta. Poi, qualunque sia l'esito mi dimetterò da senatore. Sicuro di avere la coscienza a posto. C'è una frase che mesi fa mi ha detto Di Pietro, il cui esposto è all'origine di questa assurda vicenda. «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza in politica La politica porta guai». Un'amara verità. Non per me, quanto per questo Paese.

16 marzo 2017 20.42 Rai News. E' "gravissimo che un vicepresidente della Camera inciti alla violenza" e ancora di più "per le sue responsabilità istituzionali". Lo dice il presidente dei Senatori del Pd, Zanda, a proposito di quanto dichiarato da Di Maio, dopo il voto contro la decadenza di Minzolini da senatore. "Non vi lamentate se poi i cittadini manifestano in maniera violenta". "Dire voto di scambio è offensivo", dice Zanda, sono "offese provenienti da una forza che fa della criminalizzazione degli avversari la sua cifra politica".

Caso Minzolini: Luigi Di Maio giustizialista (degli altri). Luigi Di Maio contro Minzolini, scrive Giuseppe Vatinno su “Affari Italiani" Giovedì, 16 marzo 2017. Luigi Di Maio anche oggi ha esternato il suo pasticcino quotidiano. Oggi sbraitava contro i partiti che hanno permesso ad Augusto Minzolini di “salvarsi” dalla decadenza in Senato. Non vogliamo entrare nella questione di merito dell’ex direttore del Tg Rai 1 ma solo far notare come Di Maio sia il classico parolaio populista che dà fiato alle trombe ma che non ha alcun numero per farlo visto i guai che ha in casa propria ad esempio con lo scandalo politico che rappresenta Virginia Raggi a Roma. Dunque Robespierre - Di Maio non solo accusa i “partiti” entità metafisica che nell’immaginario archetipale grillino rappresenta la negatività più pur ama addirittura “minaccia” i partiti stessi di essere responsabili delle future violenze di piazza. La domanda è: è tollerabile che il vicepresidente della Camera dei Deputati di una democrazia occidentale non si dimetta dopo il pericolosissimo messaggio inviato ad una popolazione peraltro eccitata e surriscaldata dalla mancanza di lavoro e prospettive per il futuro? Ricorda Di Maio Lotta Continua quando indicava nome e cognome i personaggi “ostili al popolo” che poi come il commissario Calabresi fecero effettivamente una brutta fine. Senza dimenticare, come detto in apertura, che se qualcuno dovesse dimettersi per provata incapacità amministrativa e problemi con la giustizia è proprio quella Virginia Raggi corifea e vessillifera di questa Armata Brancaleone che sta dando la scalata al potere in Italia infangando tutto quello che trova sul suo cammino.

Quelli che millantano di non essere maiali, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 19/03/2017, su "Il Giornale". Peter Gomez, direttore del Fatto Quotidiano edizione on line, è un collega, amico di vecchia data. Pensandola diversamente su molte cose abbiamo preso strade diverse ma ci siamo sempre rispettati, per cui mi sento di parlarne liberamente. In queste ore è a capo, con la sua penna, del partito degli indignati per il voto del Senato contrario alla decadenza di Augusto Minzolini, condannato in via definitiva per peculato per fatti che risalgono a quando dirigeva il Tg1. «Politicamente parlando - ha scritto tra l'altro Gomez - i senatori che si sono rifiutati di applicare una legge dello Stato nei confronti di un pregiudicato loro collega sono dei maiali. Del resto era stato proprio George Orwell a insegnarci che tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». Ora, mi risulta che la legge in questione preveda appunto sulla decadenza il voto del Senato a garanzia delle non rare e documentate porcate della magistratura. E il voto, almeno per ora, nel nostro paese è libero e legittimo, altrimenti saremmo in una dittatura. L'Italia, caro Peter, ancora non è un enorme partito unico dei tuoi amici grillini, nel quale se non voti come dice il capo l'elezione è annullata (vedi primarie Cinquestelle a Genova). Da noi ancora il voto vale, non è ripetibile, e qualsiasi sia l'esito, non ci crederai, è considerato legale. Non solo: nel tuo articolo, caro Gomez, accomuni nelle maialate il caso Minzolini al caso Napoletano, il direttore del Sole-24 ore indagato per false comunicazioni sociali (si è autosospeso in attesa di chiarimenti). Ti chiedi: ma come fanno, quelli di Confindustria, a non cacciare un indagato? Già, probabilmente fanno come voi che avete tenuto e tenete tra i vostri opinionisti di punta la brava Selvaggia Lucarelli, che non solo è indagata ma è a processo per intercettazione abusiva e accesso abusivo a sistemi informatici (ai danni di Mara Venier ed Elisabetta Canalis). Io spero sia assolta, ma voi del Fatto - tenendola in squadra a mo' di casta - già vi siete comportati come i «senatori maiali». Perché Napoletano fuori e la Lucarelli dentro? E anche tu, caro Peter, nulla hai scritto - maialescamente parlando - contro un vostro amico, l'ex pm Ingroia, che accusato (esattamente come Minzolini) di peculato per le sue note spese è appena stato riconfermato nel posto e nel lauto stipendio. E no, se tutti i maiali sono uguali - per dirla alla Orwell - non è possibile che voi e i vostri amici millantiate di esserlo un po' meno o per niente. Altrimenti è solo una Caro Sallusti, la Severino deve valere per tutti. Caro Gomez, è un'odiosa legge ad personam

Peter Gomez, Lunedì 20/03/2017, su "Il Giornale. Caro Alessandro, quando il parlamento applicò la legge Severino a Silvio Berlusconi facendolo decadere il Pd spiegò che si trattava di «un atto dovuto». Lo fecero, tra gli altri, molti di quei senatori dem che invece oggi hanno salvato il forzista Augusto Minzolini, condannato definitivamente per aver sottratto, attraverso la carta di credito, 66mila euro alla Rai, un'azienda che vive grazie alle nostre tasse. Il renziano Andrea Marcucci disse: «La decadenza è un atto scontato». Massimo Mucchetti spiegò che non «bisogna utilizzare il diritto politico alla difesa come un quarto grado di giudizio». Francesco Scalia affermò che «la decadenza dalla carica non è una sanzione penale né amministrativa, ma una semplice conseguenza del verificarsi di un fatto da cui la legge fa dipendere la preclusione a mantenere cariche elettive». Rosa Maria De Giorgi sostenne che si trattava della «normale applicazione della Legge Severino, voluta e votata dallo stesso centrodestra. Si riconosce solo che la legge è uguale per tutti». Di dichiarazioni di questo tipo è possibile trovarne molte. Oggi però per una parte del Pd Forza Italia non è più un nemico politico. È invece un possibile alleato in un futuro governo se le elezioni, come appare scontato, non daranno una maggioranza. Così, all'improvviso, quella legge che con i nemici andava solo applicata, con gli amici viene interpretata. Francamente lo trovo indecente. Tu no? Anche perché l'attuale capogruppo dem al Senato Luigi Zanda, che pur votando contro Minzolini ha lasciato ai suoi libertà di coscienza, quando si trattava di Berlusconi sentenziava: «Il voto sulla sua decadenza è un nostro dovere per la legalità. Per il Pd non bisogna fa altro che prendere atto della sentenza della Cassazione». Ma non basta. Come sai Italia ci sono sindaci, consiglieri regionali e comunali che si sono visti applicare la Severino anche dopo il primo grado di giudizio. Lo stabiliva la legge e la Corte costituzionale. Si tratta di persone tutte regolarmente elette e scelte dai cittadini, al contrario dei parlamentari nominati dai partiti. Ecco perché, come scriveva George Orwell, è proprio vero che tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri (i suini, nda). Minzolini è più uguale di Berlusconi, i politici nazionali sono più uguali rispetto a quelli locali. Non la trovi una maialata? Io sì. Certo, tu vuoi che la Severino venga abolita, io chiedo che, fin che c'è, venga applicata allo stesso modo a tutti. Non farlo, per me, getta discredito sulle istituzioni, esattamente come ha minato la propria credibilità Confindustria quando (prima dell'inchiesta sul Sole 24 Ore) ha scoperto che nel suo quotidiano vi erano decine e decine di migliaia di copie fasulle e che il direttore aveva siglato una scrittura privata e segreta per ottenere una buonuscita milionaria. Allora intervenire, almeno per tutelare i piccoli azionisti e la reputazione della testata, era per me obbligatorio. E lo era anche per il nuovo amministratore delegato Del Torchio. Ma alla fine Del Torchio se ne è andato e gli altri sono rimasti. Poi è arrivata la Finanza. Ti pare giusto? A me no. Di Roberto Napolitano nel mio pezzo non ho però chiesto il licenziamento. Ho invece scritto che se le sue note spese e i suoi bonus «sono reato lo stabiliranno i giudici. Ma già ora l'indecenza è evidente». Perché le sentenze si emettono in tribunale, mentre in famiglia, nelle associazioni e nelle aziende si valutano semplicemente accadimenti e comportamenti. Esattamente quello che ha fatto Marco Travaglio quando, lette le carte e ascoltato l'interessata, ha deciso che la brava Selvaggia Lucarelli continuasse a scrivere su Il Fatto Quotidiano nonostante il processo per il presunto hakeraggio, mentre io ho a malincuore prudenzialmente preferito che la sua collaborazione non venisse estesa anche alla testata online da me diretta. Ho sbagliato valutazione? Spero proprio di sì. Ma sai qui accade spesso che, pur condividendo principi e valori, si giunga a conclusioni diverse. Perché la libertà di parola e di opinione tra noi de Il Fatto viene da sempre prima di tutto. Un suinesco saluto. ps: su Ingroia indagato abbiamo scritto più volte. La sua riconferma mi era francamente sfuggita. Grazie per la segnalazione. *direttore del Fatto quotidiano edizione on line.

Caro Peter, la tua competente ricostruzione della legge Severino sulla decadenza dei politici condannati conferma che è servita soltanto a fare fuori Silvio Berlusconi dal Senato e pensavano allora i più dalla politica. Si tratta insomma di una legge ad personam e come tale odiosa. Non si è riusciti ad applicarla, tra in tanti, neppure nei casi clamorosi del sindaco di Napoli De Magistris e del governatore della Campania De Luca. E non per volontà dei politici ma per sentenze dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato. In un caso recente che riguardava un sindaco di Troia (Fg) in Puglia, un giudice ha scritto che la volontà popolare non può essere messa in discussione da una legge ordinaria. Hanno ragione queste toghe oppure anche tra di esse si annidano pericolosi «maiali»?. A te l'ardua sentenza. Alessandro Sallusti. Con immutata amicizia.

Filippo Facci il 18 marzo 2017 su “Libero Quotidiano” contro Luigi Di Maio: "Perché va ricoverato". Se un tizio paventa delle violenze di piazza, o addirittura delle masse incazzate tutte attorno al Parlamento, è perché essenzialmente le desidera. Confonde il futuro coi suoi desideri. Già sapete che il grillino Luigi Di Maio, l’altro giorno, dopo la non-decadenza da senatore di Augusto Minzolini, ha detto: «Non vi lamentate se ci saranno manifestazioni violente sotto al Parlamento», questo mentre il 22 marzo è prevista proprio una manifestazione che si propone di «circondare il Parlamento». Che dire, che fare? Non puoi neanche dire «ricoveratelo», perché è pure vicepresidente della Camera, e il punto è questo: è anche colpa nostra, l’abbiamo creato noi. A un certo punto è circolata voce che fosse il più "presentabile" dei grillini, e noi, invece di chiederci come potessero essere gli altri, quelli meno presentabili, abbiamo cominciato mediaticamente a corteggiarlo. Ora è lì che spara cazzate alla Gianfranco Miglio e noi che dovremmo fare, prendercela con lui? Io - nota personale - non ci riesco; quelli come lui, durante le scuole medie, mi facevano pena, e io li difendevo sempre. Me lo ricordo bene, l’archetipo del Luigi Di Maio: beccava sempre un sacco di botte, era una categoria anzitutto estetica, l’espressione diligente, secchione per status, studiava 10 per raccogliere cinque, il capello corto per non sbagliare, gli abiti da bancario, seduto tra i primi banchi a sorridere alle prof. Non passava mai i compiti, e, durante i compiti in classe, non ti filava neanche se gli chiedevi aiuto col megafono. Quelli come lui, in genere, a 25 anni sono già vecchi, ma in casi eccezionali possono diventare Luigi Di Maio e - credendosi qualcosa - la cazzata prima o poi la sparano. È successo l’altro giorno. Il mitico Giancarlo Perna, un paio d’anni fa, la mise così: «Beati monoculi in terra caecorum», cioè «nella terra dei ciechi anche l’orbo è re». C’è poco da aggiungere. Noi dicevamo: viva Di Maio, se gli altri ignorano i regolamenti e i galatei anche minimi, hanno quest’aria severa da ottusi convinti, fiaccano i dibattiti televisivi con sparate generiche di bassa demagogia, fanno gestacci tipo «emendami questo», dicono «boia» al Capo dello Stato, provocano, interrompono, urlano, spingono, strattonano, colpiscono e graffiano i questori, fanno i pagliacci con bavagli e striscioni, fanno ripresine in aula, inventano aggressioni dopo averle fatte, bloccano i lavori parlamentari, si avventano sui tavoli delle presidenze, occupano aule e commissioni, ne impediscono l’ingresso, disertano il Senato, gridano «siete solo merda» ai parlamentari e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, interrompono i colleghi mentre rilasciano dichiarazioni alle telecamere, accusano come niente di «assassinio» e gridano «la mafia è nello Stato» anche se si sta discutendo di cipolle. Sono tutte cose vere, tutte cose accadute dal 2014 a oggi: ma le hanno fatte i meno presentabili, diciamo così. Luigi Di Maio invece non è fisicamente brutto o malvestito, non ha una pettinatura imbarazzante, non parla un italiano da balera misto a burocratese come tanti suoi colleghi: anche se, come notò Lucia Annunziata, tende alla frase fatta come tutti i grillini. Basta, questo? Bastava eccome, se gli altri sono così. Da vicepresidente della Camera (uno dei quattro) sembrava quasi una persona normale. Ma ora, Di Maio, si è messo a pazziare pure lui. Evoca le manifestazioni violente attorno al Parlamento e trova sponda non in un sanatorio, ma in Marco Travaglio: che ieri, sempre a proposito della mancata decadenza di Minzolini (una cosa che si è votata: in Parlamento funziona ancora così) entro le prime 6 righe del suo editoriale è riuscito a scrivere «atto eversivo, abuso di potere e colpo di stato contro la Costituzione». Ecco, l’abbiamo detto. Sono passati un paio d’anni e Di Maio è diventato presentabile come Travaglio. di Filippo Facci

Tutta la verità sul pregiudicato Beppe Grillo “omicida” condannato dalla Corte di Cassazione, scrive “Il Corriere del Giorno" il 22 novembre 2016. La Corte (…) ha individuato la colpa del Grillo nell’avere proseguito nella marcia, malgrado l’avvistamento della zona ghiacciata, mentre avrebbe avuto tutto il spazio per arrestare la marcia, scendere, controllare o quanto meno, proseguire da solo”, riporta la sentenza del 7 aprile 1988 della Corte Suprema di Cassazione, che con queste parole aveva motivato così il rigetto del ricorso formulato dall’imputato e confermato la condanna emessa dalla Corte di Appello di Torino.

“Trovo Veramente ingiusto che un assassino salga sul palco a dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato…. Si vergogni perchè lui in primis ha approfittato delle leggi ballerine di questa Italia! I soldi non comprano tre vite…” iniziava così il post di Marianna Bifulco su Facebook, commentando un servizio del quotidiano La Stampa   del 22 marzo 1984, per descrivere la dinamica dell’incidente automobilistico mortale causato da Beppe Grillo quando il 7 dicembre 1981 provocò la morte di Renzo Giberti, 45 anni, della moglie Rossana Quartapelle, 34, e del figlio Francesco, di soli 9 anni.

«Ho cercato di assecondare la marcia del veicolo all’indietro, come quando si fa retromarcia –raccontava Beppe Grillo – puntando verso una sporgenza di roccia del monte, dove speravo di fermarmi. Per disgrazia ho colpito quella sporgenza con la ruota di scorta esterna e la macchina ha ruotato verso il burrone. Istintivamente ho spalancato la portiera e mi sono lanciato fuori mentre la Chevrolet precipitava”. 

Questa la tesi del comico genovese, conducente del veicolo assassino, che convinse la corte del Tribunale di Cuneo chiamata a pronunciarsi in primo grado di giudizio (l’imputato fu assolto con formula dubitativa) ma non quelle di Appello e Cassazione, che invece si pronunciarono rispettivamente nel 1985 e nel 1988: “La Corte (…) ha individuato la colpa del Grillone nell’avere proseguito nella marcia, malgrado l’avvistamento della zona ghiacciata, mentre avrebbe avuto tutto il spazio per arrestare la marcia, scendere, controllare o quanto meno, proseguire da solo”, riporta la sentenza del 7 aprile 1988 della Corte Suprema di Cassazione, che con queste parole aveva motivato così il rigetto del ricorso formulato dall’imputato e confermato la condanna emessa dalla Corte di Appello di Torino il 12 marzo 1985 a “un anno e due mesi di reclusione con sospensione della patente di guida per eguale periodo di tempo”, sentenza poi condonata. Un condono che chiaramente Grillo accolse a braccia aperte!

“Credetemi, dobbiamo sempre avere fiducia nella giustizia e nell’operato della magistratura”, aveva commentato a caldo Grillo, come riportato dal collega Gianni De Matteis sul quotidiano La Stampa all’indomani dell’assoluzione in primo grado. “In questo momento il ricordo struggente va ai poveri Renzo, Rossana e Francesco, i miei cari amici genovesi che non ci sono più. Anche se non mi sento, e anche per la magistratura non lo sono, colpevole della loro morte, l’immagine spaventosa di quel che è accaduto quel giorno a Limone non mi abbandonerà mai più”. La sentenza di assoluzione venne accolta con un “applauso spontaneo della grande folla che dal mattino gremiva l’aula”, scriveva De Matteis. Secondo quanto scritto a firma di Franco Giliberto su La Stampa il 22 marzo del 1984, Cristina Giberti, che nell’incidente aveva perso i genitori e il fratellino, “ha ricevuto dall’assicurazione quasi 300 milioni (di lire, ndr) e altri250 da Beppe”.

Ma cosa accadde realmente quel giorno?

Lo racconta Maura, sorella di Rossana, la moglie di Giberti. “Renzo Giberti, ex calciatore del Genoa, era molto tifoso. Lui e Beppe si conoscevano e si frequentavano da tempo. Andavano insieme allo stadio, si vedevano nel tempo libero. Alla fine della trasmissione tv Te la do io L’America, e dopo le riprese del film Cercasi Gesù, mia sorella e mio cognato lo avevano invitato a fare questo week end per riposarsi un po’. Quel 7 dicembre avevano comprato tartufi, vino: loro erano fatti così, gentili e ospitali. E poi erano felici perché mia sorella adorava gli spettacoli di Grillo. Appena finito di mangiare, poiché c’era un bellissimo sole, decisero di raggiungere Baita 2000. Mio cognato conosceva molto bene quel percorso, avendo avuto la casa lì fin da piccolo, ma quella volta capitarono una serie di sfortunate coincidenze. Lui e mia sorella non salivano mai in un’automobile guidata da altri, perché non si fidavano, però Grillo aveva una nuova Chevrolet appena arrivata dall’America, e la Range Rover di mio cognato non voleva saperne di partire. Si era ingolfata. Così accettarono il passaggio. In auto, con loro e il piccolo Francesco, c’erano altri tre amici, Andrea Mambretti e Carlo Stanisci con la fidanzata Monica”.

Per raggiungere quota duemila, occorre percorrere la via Del Sale, una strada militare sterrata della larghezza media di tre metri. Sulla destra l’auto ha la parete rocciosa, sulla sinistra un burrone ripidissimo. Manca qualche centinaio di metri all’arrivo e il cane di Carlo e Monica comincia ad abbaiare, forse ha bisogno di fare una passeggiata all’aperto: i due chiedono di scendere perché vogliono proseguire a piedi.

Questo il racconto di una collega, Chiara Bruschi pubblicato in tempi non sospetti e cioè il 5 febbraio 2013. L’incidente si consumerà davanti ai loro occhi. Poco più avanti, infatti, in corrispondenza di una curva a destra e in prossimità di una grande roccia chiamata Cabanaira, la strada diventa un lastrone di ghiaccio. Grillo tenta di superare l’ostacolo ma la sua auto, invece di obbedire ai comandi, scivola e slitta all’indietro, probabilmente ingovernabile. Dopo aver urtato la parete rocciosa con la parte posteriore dell’auto, il veicolo diventò ormai fuori controllo e precipitò con il muso verso il burrone. Grillo spalancò la portiera e si buttò prima del precipizio. Il tettuccio a pressione si stacca durante uno dei primi impatti.

Mambretti si aggrappa alla carrozzeria con tutte le sue forze, e questo gli permette di non essere sbalzato fuori se non negli ultimi metri della caduta. I Giberti invece, probabilmente presi dal disperato tentativo di proteggere il figlio, vennero catapultati all’esterno quasi subito: l’auto, in caduta giù per il burrone, travolgerà prima Francesco e poi Rossana. Grillo si rialza quasi illeso e corre verso lo strapiombo.

Grillo cercò di prestare soccorso, ma trova Renzo moribondo e Rossana già morta. Di Francesco non c’è traccia. Il suo corpo sarà trovato dal soccorso alpino dopo due giorni e due notti di ricerche. Alberto è ferito, ma non è in pericolo di vita. Il fuoristrada, scrivono Maria Latella, Mario Bottaro e Renzo Parodi sul Secolo XIX, è “ridotto a un ammasso di rottami”. Per recuperarlo “è stato richiesto l’intervento di un elicottero dei carabinieri, ma questa operazione è impossibile in quanto la jeep è troppo pesante (..). Toccherà così a una ditta privata rimuovere con cavi di acciaio e verricelli la carcassa del veicolo».

A Limone, luogo dell’incidente mortale ancora oggi, le opinioni sulla tragedia sono distanti e diverse:” Poteva capitare a chiunque, non è stata colpa sua. Noi quella strada la percorrevamo sempre”, dicono in tanti. Altri sottolineano l’imprudenza di viaggiare con un’auto così pesante, in pieno inverno, senza catene, su un percorso che non si conosce e dove la presenza di ghiaccio è quasi scontata. La Via del Sale infatti, è una vecchia strada militare che unisce Limone Piemonte alla Francia. La percorriamo, con una guida esperta del luogo, a inizio inverno, prima che la neve la renda impraticabile. Superiamo quota 1400 e incontriamo una prima di due limitazioni di transito, chiuse da un lucchetto. In quel punto la strada si restringe ulteriormente. È sporca, a tratti ghiacciata e in altri innevata.

Ad un certo punto la guida scende per montare le catene: sulla destra c’è una parete rocciosa e sulla sinistra lo strapiombo, meglio non rischiare. “Solitamente a dicembre questa strada è impraticabile” spiegava, “perché questa è zona sciistica. Ci sono le piste ed è tutto innevato”. Ma il 1981 è stato un anno scarsissimo quanto a precipitazioni: quel giorno, di neve non ce n’era. C’era il ghiaccio, però. Proprio sotto la roccia chiamata Cabanaira, scorre un fiumiciattolo proveniente da una sorgente più a monte. In alcuni tratti l’acqua ricopre interamente il manto stradale: basta poco per creare una lastra micidiale. In un punto, sotto cui una targa ricorda Renzo, Francesco e Rossana, la strada si stringe e il burrone ha una pendenza pressocché verticale. Sul fondo della scarpata, quasi cento metri più sotto, ancora oggi, si intravedono ancora alcuni rottami della Chevrolet rossa e bianca.

Questa è la vera storia dell’incidente in cui Beppe Grillo sterminò un’intera famiglia, a causa della sua Chevrolet appena arrivata dall’America.

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

A mia insaputa": tutti i politici che non sapevano. Da Raggi a Scajola, da Fini a Emiliano, sono tanti, e di ogni partito, i politici che (a torto o a ragione) hanno dichiarato di non sapere, scrive Claudia Daconto il 6 febbraio 2017. Ci sono cascati in molti. Pur di allontanare da sé il sospetto di essere complici di azioni moralmente, politicamente o anche legalmente poco o per nulla trasparenti, o in alcuni casi, come dimostrato dalla giustizia, avendo ragione, politici di ogni schieramento hanno dichiarato di non essersi mai accorti di ciò che avveniva a un palmo del loro naso. Anche quando di mezzo c'erano collaboratori stretti e addirittura amici e familiari. In alcuni casi la giustizia ha dato loro ragione, in altri... no. Ecco una carrellata dei più clamorosi "è successo a mia insaputa".

Virginia Raggi e le polizze vita. È giovedì 3 febbraio 2017. Virginia Raggi siede davanti al procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall'Olio. Assistita dal suo avvocato Alessandro Mancori, il sindaco di Roma sta rispondendo alle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico che la Procura di Roma le contesta in merito alla promozione a capo del dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello di Raffaele Marra, ex capo del Personale dei comunali capitolini arrestato a dicembre con l'accusa di corruzione. L'interrogatorio andrà avanti per diverse ore, ben otto. È durante quelle lunghe ore che il sindaco scopre di essere stata nominata beneficiaria di due polizze vita da 30 mila e 3 mila euro da parte del suo fedelissimo Salvatore Romeo, dipendente del Comune in aspettativa e promosso capo della sua segreteria al triplo dello stipendio. Virginia trasecola. Giura di non saperne nulla. A gennaio e marzo del 2016 Romeo le avrebbe dunque intestato tutti quei soldi a sua insaputa. Benché ciò risulti tecnicamente plausibile, il fatto ha destato comunque molti sospetti e illazioni. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe che fosse presa per buona la causale “relazione sentimentale”, indicata dall'ormai ex capo segreteria del sindaco. L'alternativa, priva finora di qualsiasi riscontro sarebbe invece che Romeo, che negli anni scorsi ha sottoscritto numerose polizze per un totale di 130mila euro a beneficio di colleghi ed esponenti del M5S, abbia utilizzato il sistema delle polizze per mascherare finanziamenti al Movimento oppure per mettere a disposizione della Raggi del denaro in cambio di favori.

Claudio Scajola e la casa al Colosseo. Che il suo nome sia stato affiancato a quello di Virginia Raggi ha molto infastidito l'ex ministro Claudio Scajola. Alla notizia delle polizze “a sua insaputa”, in effetti a molti è venuto in mente il paragone con la vicenda della casa con vista Colosseo acquistata da Scajola per 600mila euro ma in realtà costata 1,7 milioni. “Forse mi hanno fatto un regalo a mia insaputa. Se trovo chi è stato...”, una frase pronunciata in conferenza stampa il 4 maggio 2010 per commentare il dono ricevuto dal faccendiere Diego Anemone, che ha segnato il destino politico di Scajola e dal quale l'allora ministro del governo Berlusconi non si è mai più liberato. In una nota trasmessa alle agenzie nei giorni scorsi, Scajola ha voluto ricordare che egli “si dimise senza aver avuto neppure un avviso di garanzia” dalla procura di Perugia che allora indagò sulla presunta corruzione. Nel processo apertosi in seguito a una nuova inchiesta della Procura di Roma, Scajola è stato assolto in primo grado e il reato prescritto in appello.

Umberto Bossi e la villa restaurata. Claudio Scajola non è stato certo l'unico politico a passare dei guai per una casa. Quando nel 2012 scoppia lo scandalo sull'uso dei fondi della Lega da parte dell'ex tesoriere Francesco Belsito, ad andarci di mezzo fu anche l'allora leader e fondatore Umberto Bossi. Secondo l'accusa, per coprire le spese personali dei suoi familiari, i soldi del partito erano stati utilizzati anche per ristrutturare la loro casa di Gemonio. “Io non so nulla di queste cose” tuonò allora un amareggiato Umberto Bossi minacciando di denunciare i responsabili di tali manovre. Belsito, che all'epoca fu arrestato per associazione a delinquere, truffa aggravata, appropriazione indebita e riciclaggio e che oggi è ancora sotto processo per appropriazione indebita e, insieme anche allo stesso Bossi e ad altre cinque persone, per truffa ai danni dello Stato, oggi si è riciclato nel Movimento Sociale Italiano. Per Umberto Bossi, invece, quella vicenda fu all'origine della fine della sua carriera politica e ai vertici della Lega.

Roberto Maroni e gli investimenti in Tanzania. Anche l'attuale governatore della Lombardia Roberto Maroni nel 2011 dichiarò di non aver mai saputo nulla di come Francesco Belsito gestisse i fondi della Lega. Soprattutto non sapeva che l'ex cassiere leghista avesse trasferito in vari paesi esteri, tra cui la Tanzania, quasi 60 milioni di finanziamento pubblico ottenuti tra il 2008 e il 2010. “Gli investimenti in Tanzania? - trasecolò l'allora ministro dell'Interno. Io non ne sapevo niente”. Un anno dopo, nel gennaio del 2012, Maroni dichiarerà durante un incontro a Somma Lombardo, in provincia di Varese, che gli investimenti della Lega Nord in Tanzania “sono stati un errore sul piano politico, un brutto danno d'immagine al quale dovremo rimediare”. Senza presumere che dietro quelle operazioni ci fosse qualcosa di irregolare, Maroni reclamò dei chiarimenti: “non penso che qualcuno nella Lega faccia delle cose non regolari – disse allora - ma un conto è il rispetto delle leggi e un conto è il rispetto dell'etica della Lega Nord”. Oggi il presidente lombardo è uno dei teste nel processo contro Francesco Belsito.

Francesco Rutelli e Luigi Lusi. Totalmente ignaro di essersi messo in casa un tesoriere infedele si dichiarò anche Francesco Rutelli. Ascoltato dagli inquirenti che indagavano sull'appropriazione di almeno 25 milioni di euro di fondi della Margherita da parte dell'ex cassiere Luigi Lusi, che allora affermava di essere stato spinto a effettuare alcune operazioni proprio dal presidente del partito, nell'aprile 2012 Rutelli ribadiva che le attività di Lusi erano state condotte “solo per il suo tornaconto personale, al di fuori di ogni mandato, e a totale insaputa mia e del gruppo dirigente della Margherita”. Il 31 marzo del 2016 l'ex senatore è stato condannato anche in appello a 7 anni. Una sentenza accolta con grande favore dall'ex sindaco di Roma, perché “riafferma – disse – l'onore della Margherita e mio”. Ma che tuttavia non ha potuto risarcirlo del tutto dell'enorme prezzo politico pagato per essersi fidato, a occhi chiusi, di ciò che faceva uno dei suoi principali collaboratori con il soldi del suo partito.

Gianfranco Fini e la casa di Montecarlo. Gianfranco Fini nel 2010, presidente della Camera, scoprì che una parte del patrimonio immobiliare del suo vecchio partito, Alleanza Nazionale, era finito nelle mani del fratello della sua fidanzata Elisabetta. E puntualmente dichiarò: “non sapevo che la casa di Montecarlo fosse stata ristrutturata e affittata a mio cognato”. La vicenda è nota: nel 2008 An “svende” per 300mila euro un appartamento donato al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni. A comprarlo è una società offshore, la Printemps, che subito lo rivende per 330mila euro a un'altra società caraibica (pare intestata proprio a Elisabetta) che a sua volta lo affitta a Giancarlo Tulliani il quale risulterà proprietario di entrambe. Indagini recenti hanno tirato in ballo anche la figura del cosiddetto “re delle slot” Francesco Corallo, inquisito per vari reati tra cui il riciclaggio di denaro sottratto al fisco. Corallo infatti avrebbe acquistato l'immobile a prezzo pieno, 1 milione e 360 mila euro. Soldi finiti di nuovo a Tulliani che li avrebbe depositati su conti esteri intestati anche a suo padre Sergio. Intervistato nel dicembre scorso, Fini si dichiarò un uomo distrutto: “sono notizie delle quali non ero minimamente a conoscenza. Sono davanti a un bivio: o sono stato talmente fesso oppure ho mentito volutamente. In cuor mio so qual è la verità e non pretendo di essere creduto ma per me questo è un dramma familiare”.

Josefa Idem e l'Ici non pagata. Sempre per una casa ci ha rimesso il posto da ministro delle Pari Opportunità nel governo Letta anche l'ex olimpionica Josefa Idem dimessasi dalla carica il 24 giugno del 2013. “Non sapevo dell'Ici non pagata – dichiarò all'epoca a sua discolpa - Io non mi sono mai occupata personalmente della gestione di queste cose. Nella mia vita ho passato tre settimane al mese in canoa, dodici mesi l'anno. Ho sempre delegato ai tecnici chiedendo loro naturalmente di fare le cose a regola d'arte”. Una fiducia evidentemente mal riposta dal momento che per ben 4 anni la campionessa di canoa avrebbe omesso di versare la tassa sulla casa tentando di far passare una palestra come sua prima abitazione. Nello stesso periodo Idem finì nella bufera anche per un'assunzione sospetta da parte della società sportiva del marito avvenuta poco prima di essere riconfermata assessore a Ravenna. Accusati in concorso di truffa aggravata ai danni del Comune di Ravenna, per 8.642 euro di contributi previdenziali, il processo a carico della senatrice dem e del marito si è concluso con la prescrizione nel novembre del 2016.

Angelino Alfano e il caso Shalabayeva. Buio totale anche da parte dell'ex ministro dell'Interno Angelino Alfano sul cosiddetto “caso Shalabayeva”. Nessun esponente del governo, tantomeno lui, sarebbe stato infatti a conoscenza del fatto che il 28 maggio del 2013, in un blitz della polizia, era stata arrestata in una casa romana a Casal Palocco, la moglie del dissidente kazako, ricercato dal regime di Nazarbaev, Mukhtar Ablyazov, e rispedita il giorno dopo in Kazakistan insieme alla figlioletta di 6 anni. Uno scarico di responsabilità che ha gettato e continua a gettare molte ombre su Alfano, diventato nel frattempo ministro degli Esteri, e che una serie di circostanze hanno teso a smentire quando sosteneva che tutto fosse avvenuto “a sua insaputa”. Alma Shalabayeva e la figlia più piccola poterono tornare in Italia solo il 27 dicembre del 2013 in seguito all'intervento della Ue, all'appello dello stesso Ablyazov al premier Letta, all'apertura di un'inchiesta e all'iscrizione nel registro degli indagati dell'ambasciatore del Kazakistan in Italia e di altre due persone.

Michele Emiliano e le cozze pelose. E chi poteva immaginare che un compagno di partito come Gerardo Degennaro, ex consigliere regionale del Pd, titolare dell'impresa di costruzioni Dec, arrestato insieme ai fratelli e altre persone, nel marzo del 2013 per vari reati tra cui l'associazione a delinquere, che in cambio di soldi e altre utilità avrebbe ottenuto agevolazioni per ottenere appalti pubblici da parte del Comune di Bari guidato allora da Michele Emiliano, potesse essere un personaggio del genere? Non certo l'ex magistrato e attuale governatore della Puglia che alla vigilia di Natale 2012 ricevette, proprio dai Degennaro, un cesto natalizio contenente anche le celeberrime 50 cozze pelose, vanto della gastronomia locale. All'epoca Emiliano si pentì solo di non aver rimandato indietro l'omaggio natalizio ma non si dimise: “se qualcuno pensa di potermi mandare a casa solo per qualche chilo di pesce e cozze pelose, si sbaglia: rimarremo qui consapevoli degli errori commessi ma con la determinazione che solo le persone perbene riescono a mettere insieme”. 

Beppe Grillo, il blog è un caso: non rispondo dei contenuti. Questa la tesi difensiva nei confronti di una querela per diffamazione presentata dal Pd. E i dem attaccano: «Ha un blog a sua insaputa?», scrive Emanuele Buzzi il 15 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Beppe Grillo? «Non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog, né degli account Twitter, né dei tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Il Pd pubblica la memoria difensiva che il leader del Movimento ha fornito in una causa intentata dai dem nel 2016 e passa all’attacco. La nota d’accusa — scritta dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi — viene rilanciata da tutti i big del partito. «Ha un blog a sua insaputa?», commenta su Twitter Debora Serracchiani. Colui che ha registrato il dominio nel 2001 e che ne è tuttora detentore si chiama Emanuele Bottaro ed è finito in realtà già negli scorsi anni a processo per questioni relative al sito. Il gestore, ovviamente, si può ricondurre alla Casaleggio associati. Una rete a tutela del leader, già sommerso da diverse cause. Il post «incriminato» dal Pd riguarda il caso lucano che coinvolse il ministro Guidi. Un post non firmato. «La Guidi chiese l’avallo della Boschi che per blindarlo e assicurarsi che tutto andasse come doveva inserì l’emendamento incriminato nel testo del maxiemendamento su cui poi, con il consenso del Bomba, pose la questione di fiducia», si legge. E poi arriva il passaggio che ha scatenato la reazione dem: «Un meccanismo perfetto ai danni dei cittadini. Tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro. Ora si capisce perché il Pd ed il governo incitano illegalmente all’astensione sul referendum delle trivelle».

Il trucco di Grillo: querelato il suo blog, ma non pagherà lui, scrive di Enrico Paoli il 15 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. L' ultima, forse, le batte davvero tutte. Beppe Grillo, comico a tempo perso e leader a corrente alternata del Movimento 5 Stelle, non è responsabile di quanto esce sul suo Blog e dunque le cause pendenti contro di lui vanno discusse non a Genova, ma a Roma. Insomma Grillo, quel Grillo, non esiste. Esiste solo un blog, una rete, un Movimento con deputati e senatori, ma non lui. A dirlo non è uno dei tanti siti che animano il Web con notizie false, vere e verosimili, ma il tribunale di Genova, sulla scorta di una causa civile intentata dal Pd contro il leader dei pentastellati per alcune affermazioni contenute sul Blog relative all' inchiesta sui pozzi petroliferi in Basilicata. A far emergere la vicenda è il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, che ha prontamente raccolto l'invito rivolto da Matteo Renzi in occasione dell'intervento di chiusura del Lingotto di Torino. «Ora vi racconto una storia simpatica, simpatica», scrive sulla sua pagina Facebook l'esponente dem, «un noto comico, che ha costruito la propria fama soprattutto con il suo Blog, i suoi profili Facebook e Twitter, un bel giorno decide di dire a 400mila iscritti e diversi milioni di elettori del Pd che sono "tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro". Trattandosi di un comico», sottolinea Bonifazi, «ho cercato di leggere tra le pieghe del messaggio la battuta ma, ahimè, ho trovato solo offese. Quindi ho cercato di tutelare la nostra immagine, non tanto per me quanto per la comunità che rappresento, attraverso un'azione legale. Dicono che loro sono per la legalità? Bene, lo dimostrino: si lascino processare». «Poi il comico ha anche una certa esperienza di tribunali...», chiosa sarcasticamente il tesoriere del Pd, riecheggiando le vicende giudiziarie di Grillo, dato che il comico è stato condannato in via definitiva per omicidio colposo. Ma il caso sollevato da Bonifazi, che va ben al di là delle schermaglie politiche, pone una questione seria: se Grillo non risponde di ciò che viene pubblicato sul Blog, chi è il responsabile? «Leggendo la memoria difensiva con cui il comico rispondeva alla denuncia, ho creduto di essere di fronte al copione del suo nuovo spettacolo ma il mio avvocato ha confermato: è la sua memoria difensiva», spiega il parlamentare. «Il comico», scrive ancora Bonifazi riportando la memoria di Grillo, «non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Beppe Grillo non è. Il messaggio di Bonifazi viene ritwittato da numerosi dirigenti Dem, da Matteo Renzi, a Maria Elena Boschi, passando per Debora Serracchiani. «La tua difesa è ridicola, se vuoi parlare a milioni di persone abbine rispetto e assumiti la responsabilità delle cose che dici e scrivi di fronte a loro e di fronte alla legge. Noi andremo fino in fondo», annuncia alla fine Bonifazi. E siamo solo all'inizio. Enrico Paoli

I loro omessi controlli. Volevano condannarlo a sedici mesi per un articolo del 2012: però il direttore non era lui, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Uno dei giudici che nel 2012 condannò al carcere Alessandro Sallusti fece poi causa al direttore per «omesso controllo» su un articolo che lo riguardava pubblicato nei giorni seguenti all'arresto. Ieri il processo, incardinato al tribunale di Cagliari, doveva arrivare a sentenza. La pubblica accusa aveva chiesto per il direttore una condanna a 16 mesi di carcere. In aula Sallusti, con la memoria che qui riproduciamo, ha dimostrato che in quei giorni non era il direttore del «Giornale», in quanto si era dimesso. Il pm, cioè lo Stato, chiedeva quindi il carcere per un manifesto innocente. L'udienza è stata sospesa, non senza imbarazzo, e la sentenza rinviata. Signor presidente, questo processo è, diciamo così, figlio di un precedente procedimento a mio carico, concluso nell'ottobre del 2012 con la mia condanna a 14 mesi di reclusione e il conseguente arresto, cosa che ovviamente è stata per me un'esperienza non facile da affrontare. Le analogie tra allora e oggi sono diverse. Anche in quel caso un magistrato, il giudice Cocilovo, ritenendosi diffamato da un articolo pubblicato sul quotidiano che allora dirigevo, Libero, mi denunciò per omesso controllo e suoi colleghi pm chiesero per me, con alterne vicende nei vari gradi di giudizio, una condanna alla pena detentiva che alla fine ottennero. Proprio uno di quei magistrati che giudicarono con severità il caso Cocilovo, il dottor Bevere, in quei giorni ormai lontani mi denunciò, sentendosi offeso per un articolo pubblicato dal Giornale all'indomani della mia condanna definitiva. E ora un suo collega pm chiede nuovamente una pesante condanna detentiva, sedici mesi, nei miei confronti. L'articolo di cui si dibatte oggi ricostruiva, attraverso testimonianze dirette e autorevoli (un'ex parlamentare da sempre in prima linea in battaglie in difesa dei diritti civili) una presunta amicizia tra il dottor Cocilovo e il dottor Bevere (cioè tra il denunciante e uno dei giudicanti della prima vicenda) durante la loro permanenza al tribunale di Milano. Nel merito non vedo dove sia l'offesa grave da meritare una così severa richiesta di condanna. Due magistrati sono, se non necessariamente amici come peraltro spesso capita, sicuramente colleghi e come tali si muovono all'interno di rapporti potenzialmente amicali come succede in qualunque categoria professionale. Ma al di là del merito - una lettera di precisazione sarebbe stata probabilmente sufficiente a rimediare un possibile fraintendimento - mi colpisce che a distanza di quasi cinque anni dal mio arresto nessuno ritenga di dovere tenere conto delle motivazioni con cui, dopo circa un mese che ero ai domiciliari, l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commutò la mia pena da detentiva in pecuniaria. Come si evince chiaramente dal dispositivo del Quirinale che ha accompagnato la commutazione, quello del presidente non fu un gesto di clemenza né certo di simpatia nei miei confronti. Fu il rimedio - deciso anche nella veste di capo della magistratura - a una pena ritenuta oggettivamente sproporzionata per un reato d'opinione e di omesso controllo. L'appello di Napolitano, sia alla classe politica (per quello che compete alla parte normativa) sia a quella togata (per la parte tecnico-esecutiva), di evitare l'arresto di giornalisti per reati compiuti nell'esercizio della professione se non accompagnati da fatti di comprovata e grave malafede, è rimasto evidentemente inascoltato se è vero, com'è vero, che oggi la pubblica accusa, cioè lo Stato, chiede per me e per un mio bravo collega autore materiale dell'articolo in questione, Luca Fazzo, di nuovo il carcere per diffamazione e omesso controllo. L'omesso controllo, signor presidente, è un reato normato da una legge degli anni Trenta, solo leggermente rivista nel decennio successivo. Parliamo di anni in cui i giornali avevano poche pagine, a volte solo quattro, le redazioni erano composte da pochi giornalisti e la velocità delle notizie era, rispetto a oggi, quella di una lumaca rispetto a una gazzella. Oggi produciamo ogni giorno fino a cento pagine, tra le varie edizioni, e lavoriamo in tempo reale. Un altro mondo. Ma c'è ancora, come in questo caso, chi pretende dal direttore di accertare senza ombra di dubbio non solo la correttezza formale degli articoli, ma anche quella sostanziale, nonostante alcune sentenze della Cassazione sostengano che il direttore ha, sì, il dovere di vigilare sul rispetto dei principi etici generali e sui codici professionali, ma non ha potere investigativo sull'operato dei suoi collaboratori. Qui, in quest'aula, si chiede che io vada in carcere perché un'autorevole ex parlamentare - da noi interpellata all'epoca dei fatti - ha sostenuto una cosa assolutamente credibile e possibile (l'amicizia tra due magistrati). Che cosa avrei potuto controllare signor presidente? Quella parlamentare non solo non aveva mai dato segni di squilibrio né era nota per essere una millantatrice. Niente, signor presidente, anche se quel giorno fossi stato il direttore responsabile del Giornale non avrei potuto evitare, pur usando tutta l'attenzione, la pubblicazione di una notizia poi rivelatasi forse non esatta. Uso il condizionale perché in questa vicenda l'omesso controllo non l'ho compiuto io ma il querelante, il giudice Bevere, e il pm. Cioè due magistrati. Come si fa in un caso (Bevere) a denunciare, nell'altro (il pm) a chiedere il carcere per un omesso controllo quando si omette di controllare chi è il presunto colpevole? Il cui nome, per altro, era stampato in evidenza sul corpo del reato, cioè il giornale del giorno in cui è uscito l'articolo incriminato. E quel nome, signor presidente, non era il mio. Perché tre giorni prima di quella pubblicazione avevo rassegnato le dimissioni da direttore e lasciato l'azienda della quale, il giorno del presunto reato, non ero neppure dipendente. Mi ero dimesso, signor presidente, perché penso che un editore abbia diritto di decidere se tenere a capo del suo giornale un direttore privato della sua libertà. Noi, signor presidente, i nostri omessi controlli li paghiamo duramente e ne traiamo le conseguenze. Mi chiedo se anche i giudici che avviano una causa temeraria e i pm che «omettono controllo» subiscono lo stesso destino, diciamo 14 mesi di arresto e dimissioni, nel caso il loro operato danneggi per negligenza grave un cittadino non solo innocente ma che mai avrebbe potuto essere colpevole e quindi mai indagato, mai rinviato a giudizio, e mai processato con tutte le conseguenze e i costi economici per la comunità. La domanda è capziosa, perché è ovvio che non è così e non sarà così neppure questa volta. Come sostiene il loro capo Piercamillo Davigo, i magistrati non sbagliano mai, per definizione. A questo punto lei, signor presidente, potrà rimproverarmi: perché tutto questo non l'ha detto prima? Giusto. Se le dicessi: volevo vedere fino a dove potesse arrivare la sciatteria giudiziaria le mentirei, e quindi non lo faccio. Potrei dirle che sono frastornato dalle decine di atti giudiziari che invadono le redazioni. Ma la verità è che ho peccato di eccesso di fiducia nella serietà e nell'efficienza della magistratura, dando per scontato ciò che era contenuto nelle carte della procura invece di soffermarmi, cinque anni dopo i fatti - e questo già la dice lunga su tante cose - a riflettere sulla verità dei fatti. Una cambiale di fiducia evidentemente, ancora una volta, mal riposta. Spero che qualcuno, nel sistema giudiziario, mai come in questo caso autoreferenziale, avrà almeno la bontà di riconoscere l'errore, scusarsi e risarcire danni e spese - tanto paghiamo noi - che abbiamo dovuto sostenere per questa ingiusta imputazione. Ho già dato mandato ai miei legali di attivarsi in tal senso. La ringrazio per l'attenzione.

Beppe Grillo non deve rispondere dei contenuti pubblicati sul suo blog come sostengono i suoi avvocati? Ecco verità e falsità scritte in proposito, scrive “Il Corriere del Giorno" il 20 marzo 2017. Di chi è il blog di Grillo? 3 cose vere e 5 false dette in questi giorni. Nel tardo pomeriggio del 14 marzo, il tesoriere del Partito Democratico Francesco Bonifazi ha pubblicato su Facebook una pagina della memoria difensiva presentata dagli avvocati di Beppe Grillo in una causa per diffamazione. Nel documento si legge che Grillo “non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato”. La questione ha avuto molto risalto ed è nato un dibattito su chi scrive i contenuti del blog di Beppe Grillo e su chi è chiamato a risponderne. Abbiamo verificato che cosa c’è di vero e di falso nella vicenda.

1. “Il blog di Grillo non è intestato a Grillo”. Vero. E neppure alla Casaleggio Associati. Una semplice ricerca sul registro italiano dei domini.it mostra che il dominio beppegrillo.it, creato il 15 marzo 2001, è intestato a Emanuele Bottaro,52enne residente a Modena che lavora per una società di comunicazione. Nel 2001 la Casaleggio Associati ancora non esisteva e Gianroberto Casaleggio non aveva ancora incontrato Beppe Grillo: i due si conosceranno nel 2004 e il sito andrà online nel gennaio 2005. Intervistato da Repubblica, Bottaro ha detto di conoscere personalmente Beppe Grillo «da vent’anni», di avere un rapporto di stima e di fiducia con lui e di avere registrato il dominio «per toglierlo dal mercato», prima che venisse creato il blog. Ha aggiunto che tra Grillo e lui non c’è alcun accordo scritto e di non aver mai guadagnato nulla dal suo possesso del dominio.

2. “Niente lega Grillo al blog a suo nome”. Falso. Come ha scritto Matteo G.P. Flora, esperto di reputazione online, esistono comunque diversi legami tra Grillo e il sito. Nell’atto costitutivo del M5S si legge che Beppe Grillo è il «titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo beppegrillo.it». In un post del marzo 2012, firmato “Beppe Grillo”, si legge inoltre che «la responsabilità editoriale del blog è esclusivamente mia». Inoltre, il titolare del trattamento dei dati personali ai fini della privacy è indicato in Beppe Grillo dallo stesso sito, mentre il responsabile è la Casaleggio Associati. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che la stessa privacy policy indica che i dati vengono condivisi con l’Associazione Rousseau, che è titolare del trattamento per quanto riguarda l’attività del “Blog delle Stelle”. Aspetto più tecnico: il codice sorgente del sito rimanda, nel campo “autore”, all’account verificato di Grillo su Google+.

3. “Il post incriminato è firmato da Grillo”. No, si tratta di un post senza firma né indicazione dell’autore. Pubblicato il 31 marzo 2016, il giorno stesso dell’annuncio delle dimissioni del ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi per lo scandalo Tempa Rossa – dimissioni accettate alcuni giorni dopo – il post si intitolava “#RenzieBoschiACasa”. Il testo chiedeva le dimissioni anche dell’allora presidente del Consiglio e del governo, accusandoli di coinvolgimento nello scandalo e di fare «l’interesse esclusivo dei loro parenti, amici, delle lobby e mai dei cittadini». Conteneva le frasi: «Tutti collusi. Tutti complici. Tutti con le mani sporche di petrolio e denaro». Per i contenuti del post, Francesco Bonifazi ha denunciato Beppe Grillo per diffamazione.

4. Oggi nessun post del blog di Grillo è senza firma. Lo ha detto Luigi Di Maio in un’intervista il 15 marzo (al minuto 38’20’’): è vero nella forma, ma nella sostanza, in molti casi, l’autore non è esplicitato in modo chiaro e univoco. I post sul blog di Beppe Grillo, infatti, appaiono spesso sotto una firma collettiva come “MoVimento 5 Stelle”, “Gruppo di Coordinamento Comuni 5 Stelle” o “MoVimento 5 Stelle Europa”, altre ancora firmati da Beppe Grillo o da altre singole persone esterne al M5S. Beppe Grillo, almeno negli ultimi tempi, firma raramente i post che compaiono sul blog. Tra gli ultimi cento, soltanto sei portano la sua firma. Circa un terzo dei rimanenti compaiono sotto l’autore generico “MoVimento 5 Stelle”.

5. Grillo è l’autore dei suoi post. Ci sono ragioni per dubitare che Beppe Grillo scriva in concreto i post che compaiono con la sua firma, almeno in passato, anche se non è chiaro fin dove si spinga il suo controllo sul contenuto. In un’intervista con Marco Travaglio pubblicata nel 2014, Gianroberto Casaleggio – il cofondatore del Movimento 5 Stelle scomparso nell’aprile 2016 – disse che tutti i post del blog erano «loro», intendendo suoi e di Beppe Grillo: «Ci sentiamo sei-sette volte al giorno per concordarli, poi io o un mio collaboratore li scriviamo, lui li rilegge, e vanno in Rete». Alcune inchieste giornalistiche sul funzionamento della Casaleggio Associati hanno raccontato, nel corso degli anni, che i post sono stati scritti a volte da Pietro Dettori, oggi responsabile editoriale presso l’Associazione Rousseau e già dipendente della Casaleggio Associati.

6. “Non è chiaro di chi sia la responsabilità del post”. Questo è vero, almeno in parte. L’avvocato Caterina Malavenda, esperta di cause sulla stampa, ha spiegato che il responsabile dei contenuti pubblicati da un blog è il gestore, che però non è obbligato a un controllo preventivo su tutti i suoi contenuti. Grillo ha detto di non essere il gestore, lasciando quindi il dubbio su chi effettivamente lo sia, e così facendo ha inoltre «scaricato l’eventuale colpa su un altro», cioè l’autore materiale di quel post pubblicato anonimo. La Polizia Postale dovrà cercare di identificare chi ha scritto il post e lo ha messo online e su di lui (o lei) ricadrà l’eventuale responsabilità in caso di condanna nella causa intentata dal PD.

7. “Non ci sono leggi per i reati commessi attraverso Internet”. Falso. Lo ha dichiarato l’esponente del M5S Paola Taverna ospite di Otto e Mezzo (al minuto 18’35’’). In realtà, diverse sentenze hanno chiarito da anni che, ad esempio, il caso della diffamazione tramite Internet è compreso in quanto previsto dall’art. 595 del codice penale, che punisce in modo più grave la diffamazione se essa è commessa «col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità». Quello su cui discutono i giuristi è invece fin dove si possa spingere la comparazione tra i blog e la stampa, oltre ad alcune situazioni particolari come, ad esempio, se il gestore di un blog debba essere ritenuto responsabile anche per i commenti in fondo ai suoi post. Falso. Lo ha detto Di Maio nell’intervista citata sopra (al min. 37’40’’) e lo ha scritto, anche se in modo più ambiguo, lo stesso post firmato da Grillo a commento di questa vicenda. «I post di cui io sono direttamente responsabile sono quelli, come questo, che riportano la mia firma in calce», ha scritto, aggiungendo che il PD ha «per il momento perso la causa». Tuttavia, il procedimento è ancora in corso e quella pubblicata da Bonifazi è solo la memoria difensiva presentata dai legali di Grillo. La causa non si è conclusa e il PD non ha quindi ancora perso né vinto. 

Lo Statuto M5S inchioda Grillo “titolare” e “gestore” del blog. Dopo la nuova denuncia per diffamazione, scaricabarile del fondatore con la Casaleggio e con chi gestisce manualmente i social e “gli account” (al plurale). Il Pd chiede un milione di danni. La causa è in piedi, solo spostata da Genova a Roma. Beppe Grillo, per difendersi dalla querela per diffamazione e dalla richiesta di danni milionaria, fa scrivere ai suoi legali: «Orbene, il blog citato dall’attore (...) è gestito dalla Casaleggio Associati srl, e non da Giuseppe Grillo», scrive Jacopo Iacobini il 16/03/2017 su “La Stampa”. È una vicenda che, assieme ad altre, può entrare nel cuore della cyberpropaganda pro M5S e diventare un caso di scuola. Nella memoria difensiva per una nuova querela per diffamazione arrivata a Beppe Grillo dal Pd (il blog e tweet diedero sostanzialmente dei corrotti a Renzi e Boschi per Tempa Rossa, i due non furono mai neanche indagati; ora il Pd chiede un milione di danni), gli avvocati del capo del M5S scrivono: Grillo «non è responsabile, quindi non è autore (suo sinonimo), né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog, né degli account twitter (corsivi nostri), né dei tweet e facebook, non ha alcun potere di direzione né di controllo sul blog né sugli account twitter, né dei tweet o facebook, e tanto meno di, e su, ciò che ivi viene postato». Grillo scarica addosso ad altri eventuali denari da pagare, separandosi da ciò che avviene in suo nome nello spazio cibernetico. Ma addosso a chi? Alla Casaleggio? Al dipendente che gestisce i suoi social? A uomini della comunicazione ufficiale, o dell’Associazione Rousseau? E «gli account», quali sono esattamente? Gli avvocati non usano il singolare (eppure l’account in causa qui è solo quello di Grillo). Usano il plurale.  La memoria è firmata da tre legali, Enrico Grillo, Guido Torre, Michele Camboni. Il primo è il nipote di Beppe e, soprattutto, è tra i firmatari (assieme al comico e Enrico Maria Nadasi) di un atto storico, il cosiddetto statuto di cui il M5S si dovette dotare (nel dicembre 2012 a Cogoleto, vicino a Genova) per evitare, disse il fondatore M5S, di correre il rischio di non potersi presentare alle elezioni. Oggi Grillo dice: «Rispondo solo dei post firmati». Tuttavia in quell’atto fondativo, all’articolo 4, è scritto il contrario: «Giuseppe Grillo, in qualità di titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo beppegrillo.it (...) , mette a disposizione dell’Associazione Movimento cinque stelle la pagina del blog». La conclusione: «Spettano quindi al signor Giuseppe Grillo (...) titolarità e gestione della pagina del blog». Peraltro, nella memoria difensiva attuale Enrico Grillo è difensore di Beppe Grillo; nello «statuto» del M5S è, circostanza mai smentita, vicepresidente M5S. Nella pagina del blog, invece, sta scritto che Grillo è titolare per la privacy, e la Casaleggio è titolare del trattamento dei dati. L’intestatario formale è (cosa nota) tale Emanuele Bottaro. È un sistema che rende difficile, ma non impossibile, accertare responsabilità di testi, e favorisce le anonimizzazioni; facebook e account su twitter pongono più problemi di individuazione. Oggi gli avvocati di Grillo scrivono anche (al punto D): «Orbene, il blog citato dall’attore (...) è gestito dalla Casaleggio Associati srl, e non da Giuseppe Grillo». Grillo ci sta dicendo, insomma: prendetevela con ciò che avviene in Casaleggio? Sarebbe la rottura di un vecchio patto che aveva; ma con Gianroberto; non con Davide. 

Marco Canestrari, ex di quell'azienda, spiega: «ll blog è il centro di un progetto di cui Grillo non è ideatore né amministratore, ma testimonial. Per un po’ Grillo è stato tenuto al corrente delle iniziative della Casaleggio. Poi si è solo fidato. Ora non lo riguardano. O così vorrebbe. In diverse circostanze, il ruolo di chi si offre di accollarsi determinati oneri è detto “prestanome”». 

Gianroberto Casaleggio - al Fatto che gli chiedeva «quanti post del blog sono suoi e quanti di Grillo?» - rispose: «Sono tutti nostri. Ci sentiamo sei-sette volte al giorno per concordarli, poi io o un mio collaboratore li scriviamo, lui li rilegge. E vanno in rete». Scomparso lui, cosa è successo? Mesi dopo la sua morte, con lo spettro di dover pagare tanti risarcimenti danni, Grillo si sta separando dall’azienda, e dalla cyberpropaganda pro M5S? 

La causa, contrariamente agli alternative facts esposti ieri sul blog, è in piedi. È stata solo riassunta da Genova a Roma, da qui a tre mesi. 

La democrazia dei 5 Stelle in cui bisogna solo «fidarsi» di Grillo. La vittoria di Cassimatis nella consultazione interna era l’unico modo per tenere unito M5S. La sua scomunica certifica l’implosione. Non è detto che a Grillo dispiaccia, scrive Marco Imarisio il 17 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera". Forse la chiamano democrazia diretta perché c’è qualcuno che la dirige. Quindi basta la parola. «Fidatevi di me». Marika Cassimatis, la persona che avete votato sul web «si è comportata male». E poi ci vuole poco per riparare all’errore degli attivisti genovesi, che si illudevano di poter decidere l’aspirante sindaco del Movimento 5 Stelle per le Amministrative di primavera quando invece dovevano limitarsi a vidimare una scelta già fatta. Un’altra votazione sul blog di Beppe Grillo che non è di Beppe Grillo, via libera al secondo classificato, quello che invece si comporta bene. L’importante è crederci. Al tempo dell’ultima alluvione, ottobre 2014, Grillo venne fischiato come un Renzi o un Berlusconi qualunque. Il sincero stupore per quella reazione inattesa fu la spia dell’incapacità di capire la città dove è nato e dove vive. È accaduto lo stesso con il «suo» M5S. A Genova si è sviluppato negli anni intorno a un Meet up storico che raccoglieva i comitati cittadini più antichi, reduci No global e delusi da altre esperienze, desiderosi di far sentire finalmente la loro voce. Cassimatis ha il torto di appartenere a questo ceppo originario, nel frattempo soppiantato da una nuova stirpe rappresentata dalla capogruppo in Regione Alice Salvatore, più pragmatica, più Casaleggio&Associati, più disponibile all’atto di fede. Siamo tutti testimoni di una recita alla quale gli aspiranti leader nazionali e locali sono obbligati a credere per contratto. Decide uno solo, con l’aiuto di una piccola azienda milanese. Ma la democrazia eterodiretta di Genova rivela anche assenza di coraggio. La vittoria di Cassimatis nella consultazione interna era l’unico modo per tenere unito M5S. La sua scomunica certifica l’implosione. Non è detto che a Grillo dispiaccia. Dall’alto della sua Xanadu sulla collina di Sant’Ilario, ha una bella vista sul declino della sua città. A Roma non poteva esimersi. A Torino ha pescato il jolly. A Genova sarebbero lacrime, sangue e promesse di statalizzare tutto, impossibili da mantenere. Questa volta la responsabilità di un eventuale fallimento sarebbe diretta, se non altro per una questione di domicilio.

Radar (Repubblica TV) 17 marzo 2017, Massimo Giannini: "La setta pentastellata che pretende l'atto di fede". La decisione di Beppe Grillo di ritirare il simbolo alla candidatura di Marika Cassimatis - scelta dalla base a Genova - mostra il valore della cosiddetta "democrazia del clic", un meccansimo che sembra valere solo quando ratifica le decisioni del leader.

L'ex candidato sindaco M5s Putti "Inquietante, sono diventati una setta". Genova, dopo la decisione di Grillo di annullare le comunarie, scrive Matteo Pucciarelli il 18 marzo 2017 “La Repubblica”. «Giravano voci, ma non ci volevo credere. "Sarebbe troppo grossa dai", mi dicevo. E invece...». L'ex candidato sindaco del M5S nel 2012 è sbalordito dopo aver saputo della invalidazione del voto online che aveva eletto Marika Cassimatis. Quando era stata ufficializzata la vittoria della "non ortodossa" professoressa di Geografia sembrava quasi che forse, chissà, magari Putti aveva un po' esagerato con la storia della mancanza di democrazia.

Contento di aver avuto nuovamente ragione?

«Ma io in realtà ero contento che avesse vinto Cassimatis, una persona normale lì dentro, insomma. Anche se uno fa una scelta politica diversa da me, la stima rimane molto forte. Ora sento quasi dolore nel vedere ciò che è successo, la conferma di quel che avevo capito da tempo».

Ma con lei vi sentivate ancora?

«Era un bel po' di tempo che non la vedevo o altro, non volevo creargli problematiche. Sa come funziona no? Anche vedere Andrea Boccaccio in Consiglio comunale che si è allontanato fisicamente dai nostri posti, un po' mi faceva star male, poi ti abitui».

Come i testimoni di Geova: se esci fuori chi rimane dentro taglia ogni rapporto umano...

«È una setta vera e propria. Le parole di Grillo sono inquietanti: "Fidatevi di me", anche se non è giusto ciò che ha fatto. Fideismo assoluto».

Ma secondo lei adesso cosa accadrà?

«Non ne ho idea, ma non mi stupirei che le cose rimanessero come sono. Quando educhi le persone al culto del capo, alla fine si abituano anche mentalmente, non è semplice trovare la forza per uscirne schifati».

Lei però Grillo lo ha conosciuto, lui è davvero così?

«In realtà non ho mai avuto un contatto stretto con lui. Non mi è mai interessato fare la bella lavanderina, averne riverenza, e per questo non sono entrato nelle grazie dello staff. A me importava fare cosa fosse utile ai genovesi».

Comunque: ha vinto Alice Salvatore, anche stavolta.

«Lei è al di fuori di tutto ciò in cui credo, anche a livello di relazioni umane e non solo politiche».

Ma lei poteva votare a queste Comunarie?

«Non lo so, qualche mail del blog mi arriva ancora. Ma gli elenchi li ha il blog, che aveva dato via alla votazione. Non c'erano problemi prima e ci sono però dopo, quando il risultato non è stato quello che volevi? Allora dicessero: si può essere iscritti a beppegrillo.it solo se la si pensa esattamente come dice il blog. È una setta, lo ripeto».

Chiamerà Cassimatis?

«Ora vive un momento di difficoltà ed è giusto che le stiano vicino le persone più strette. Più in là vedremo, sa che ci sono».

Ma come "Effetto Genova" farete una lista o no?

«Stiamo vedendo se ci sono le condizioni, se ci sono persone che hanno voglia di impegnarsi in una lista davvero civica e non la solita lista civetta. Se riusciamo bene, altrimenti no. Non è obbligatorio...».

Con Rete a Sinistra?

«Con alcuni di loro ho parlato e c'è un contatto. Ci sono ragazzi in gamba, decideranno loro se preferiscono fare un percorso più rassicurante con il centrosinistra o se lavorare per qualcosa di davvero alternativo».

Ma quando deciderete?

«Ormai siamo davvero al limite, una decina di giorni direi per chiudere».

Lei ha cambiato idea, nel senso che potrebbe candidarsi a sindaco?

«No no, in diversi hanno fatto leva sul mio senso di responsabilità ma no».

LA SETTA DEI 5 STELLE.

M5S: storia di un movimento duro ma impuro. Le chat della compagnia di giro di Virginia Raggi hanno svelato la guerra totale che dilania l'intestino dei grillini. E che vi raccontiamo, caso per caso, scrive Carlo Puca il 14 febbraio 2017 su "Panorama".  

10 febbraio 2008. Quel giorno, era un giovedì, sotto il titolo di "comunicato politico n° 1", Beppe Grillo pubblicava sul suo blog il primo manifesto dei 5 Stelle. Sulla home-page spiccava l'immagine del comico in versione Indro Montanelli, sguardo minaccioso e una mitica macchina da scrivere, la Lettera 22 sulle ginocchia. Insomma, dopo esperienze minori, debuttava ufficialmente il "duro e puro" moVimento grillino.

E lo faceva con propositi caparbi: lo streaming, la trasparenza amministrativa, la meritocrazia contro la partitocrazia, le iniziative di legge di proposta popolare sul Parlamento pulito, i condannati da cacciare, gli indagati (almeno) da non candidare. Cinque anni dopo, il moVimento è rimasto duro, ma si è fatto impuro. Lo streaming è completamente sparito dai radar, anzi dai wifi nazionale e internazionale. Le chat della compagnia di giro di Virginia Raggi hanno invece svelato la guerra totale che dilania l'intestino dei 5 Stelle, peggiore di quella che caratterizzò la Democrazia cristiana; allora, infatti, almeno si combatteva per correnti; oggi, tra i pentastellati, ogni singolo capataz fa da sé, mosso dall'obiettivo permanente di fregare l'altro, foss'anche il suo migliore amico. Figurarsi un nemico. È così che si è arrivati ai veleni, al presunto dossier fabbricato da tre ex consiglieri comunali contro Marcello De Vito per escluderlo dalla corsa al Campidoglio in favore di Virginia Raggi.

È sempre così che sono circolate le cattiverie sulla baby sitter assunta da Roberta Lombardi e messa a nota spese di Montecitorio. È ancora così che sono volate e volano brutte chiacchiere sul candidato premier in pectore, Luigi Di Maio.

Il 5 agosto 2016 Di Maio venne informato via mail dalla senatrice Paola Taverna delle indagini sull'allora assessora all'Ambiente di Roma, Paola Muraro. Ma poi giurò di non averla letta. Non paghi, molti parlamentari rivelano sottovoce che nelle loro riunioni riservate "Luigi difendeva calorosamente Muraro" e anche Raffaele Marra (poi arrestato), Salvatore Romeo (indagato) e la stessa Raggi (idem). "Che interesse aveva?" sussurrano i suddetti con la classica risatina da complottista. Si dirà: questo è il melmoso teatrino romano, chiunque lo calchi, prima o poi si sporca. Pensiero inesatto, i capataz cospirano ovunque. In alcuni luoghi (Ravenna, Rimini, Salerno, Caserta, Latina, la Regione Sardegna) i 5 Stelle hanno persino rinunciato a presentare le liste alle elezioni a causa degli scontri interni (dossier compresi). In altri posti, per le tensioni, si sono auto eliminati dalla corsaper la vittoria, come a Milano e a Napoli, dove il battagliare tra Di Maio e Roberto Fico si è fatto insostenibile. Il caso più pittoresco, tuttavia, rimane quello di Porto Torres, in Sardegna. Qui la capogruppo del M5s, Paola Conticelli, è stata espulsa perché "il mio compagno è un giornalista" nemico del sindaco Sean Christian Wheeler, detto "l'americano". Complimenti, manco Donald Trump sarebbe arrivato a tanto...

Tra l'altro, questo rimane l'unico episodio di espulsione per motivi parentali. Proprio i 5 Stelle, infatti, sono il gruppo politico più familistico d'Italia, a partire dai vertici. Davide Casaleggio, dopo la morte del padre Gianroberto, ha ereditato società (la Casaleggio associati) e retroguida del partito (appunto, i 5 Stelle). Grillo ha creato l'Associazione moVimento 5 Stelle e si è nominato presidente. Come vice ha scelto il nipote, l'avvocato Enrico Grillo. Segretario è invece il suo commercialista, Enrico Maria Nadasi, membro del Cda della Filse, la finanziaria della regione Liguria, nominato (va da sé) in quota pentastellata.

E se Beppe fa così, figurarsi il resto: Senato, Camera, l'Europarlamento, Regioni e Comuni pullulano di parenti, fidanzati, amici degli eletti. O di trombati alle elezioni e riciclati come assistenti, nel solco della peggiore tradizione partitocratica. Insomma, altro che "lavoratori trasparenti, onesti e volenterosi, competenti e puliti" scelti su base curriculare e meritocratica, come annunciava nel marzo del 2013 la solita Lombardi. E non parliamo di poca gente: solo i 15 eurodeputati pentastellati sommano 103 collaboratori, lo stesso numero medio di qualsiasi partito tradizionale.

Smarrita la strada della diversità politico-antropologica (qual è la differenza con gli altri?), pure la magistratura, un tempo vicina alle istanze dei 5 Stelle, ha cominciato a dubitare. E ci ha messo la testa. Ai primi avvisi di garanzia, il comico-leader ha reagito così: gli avversari politici "ci stanno combattendo con tutte le armi, comprese le denunce facili, che comunque comportano atti dovuti come l'iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia". Ma i principali guai giudiziari sono tutt'altro che "denunce facili", anzi: riguardano la losca faccenda delle firme false raccolte per le comunali palermitane del 2012 e i pasticci di Virginia Raggi (e relativa corte) al Campidoglio. Per metterci una pezza, Grillo e Casaleggio hanno imposto, il 3 gennaio 2017, il nuovo Codice etico (Leggi qui cosa prevede). Stabilisce l'obbligo di dimissioni solo in caso di condanna di primo grado e, comunque, non per i reati di opinione. Inoltre, fatto più importante, l'avviso di garanzia non comporta più la sospensione o l'espulsione, tantomeno le dimissioni.

Sono tutte indicazioni, queste, che negano la storica natura grillina. Già il 10 dicembre del 2009, infatti, il comico genovese aveva diffuso il "Non Statuto". All'articolo 7 prevede, per candidati e iscritti, il criterio dell'esclusione per qualsiasi procedimento penale in corso e l'obbligo di informare il moVimento. Era quello il periodo in cui Luigi Di Maio diceva: "Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare". Ancora più netto risultava Grillo: "Basta essere indagato e sei fuori". Ecco, gli indagati. Alla nascita del M5s, il comico li etichettava come "diversamente onesti". Nel corso degli anni la presunzione d'innocenza proprio non è esistita, valeva lo slogan "o-ne-stà, o-ne-stà", tanto è vero che a ogni sospiro dei pm sui politici, corrispondeva una richiesta di dimissioni. Grillo arrivava a coniare la rubrica L'indagato del giorno e a maramaldeggiare sugli avvisi di garanzia al Pd ("Sono comei rotoloni Regina, non finiscono mai..."). A volte, anche quando indagati non ce n'erano, la ghigliottina pentastellata si abbatteva lo stesso, anche per bocca dei vari Di Maio, Fico e Alessandro Di Battista contro Angelino Alfano, Maurizio Lupi, Giovanni Toti e altri ancora. Anche perché, nel frattempo, le norme etiche del moVimento si facevano sempre più stringenti. È accaduto coni regolamenti emanati nel 2013 e nel 2014 e con il codice di comportamento per i candidati a Roma, approvato nel febbraio 2016, con il quale debutta pure la multa da 150 mila euro per i renitenti alla linea di Grillo.

A ottobre 2016 l'asticella si è alzata ancora, con la modifica dell'articolo 5 del Non Statuto. Introduce una sospensione di 24 mesi costruita ad personam contro l'irriducibile sindaco di Parma Federico Pizzarotti, che perciò molla il moVimento per fondarne uno suo. Insomma, per molti anni la strategia di Grillo e dei due Casaleggio (prima Gianroberto e poi Davide) è stata chiarissima: più i 5 Stelle si impantanavano, più stringevano la forca giustizialista. E per due ragioni. La prima era mediatica: il continuo rilancio sulle manette facili serviva a distrarre l'opinione pubblica. La seconda ragione era invece interna: con le sospensioni ed espulsioni selettive, infatti, Grillo e i Casaleggio hanno potuto liberarsi delle figure per loro più scomode. I vari fulmini giudiziari che hanno investito il moVimento segnalano infatti una disparità di trattamento impressionante. Per citare un caso dimenticato, nel 2013, in Piemonte, due consiglieri regionali (Davide Bono e Fabrizio Biolè) vennero indagati per rimborsopoli, ma poi archiviati. Bono è stato ricandidato come governatore, Biolè fatto accomodare fuori dal moVimento, proprio come Pizzarotti. Nel febbraio 2016 è invece esploso il caso-Quarto. Nel paesone in provincia di Napoli, Rosa Capuozzo è stata espulsa dopo aver respinto la richiesta di dimissioni da sindaco avanzata da Grillo perché "siamo il moVimento 5 Stelle e non un Pd qualsiasi...". Il Comune era stato infatti investito da un'inchiesta su presunte infiltrazioni camorristiche partita dai ricatti del consigliere comunale M5s, Giovanni De Robbio, ai danni della prima cittadina. In questo caso, siamo all'apoteosi del procedere selettivo. Capuozzo è stata infatti ignorata dai vertici nazionali del suo movimento anche quando si addentrava in operazioni discutibili. A parte il fatto di abitare in una mansarda abusiva, la sindaca ha: mantenuto l'appalto del marito tipografo con il municipio; cancellato la convenzione comunale con la squadra anticamorra Nuova Quarto Calcio per la Legalità; revocato la pubblicazione del Puc (Piano urbanistico comunale) approvato dalla commissione prefettizia insediatasi al Comune dopo il precedente scioglimento per camorra. Soltanto dopo è spuntato il presunto ricatto. Sul quale, comunque, lo stato maggiore grillino ha inizialmente difeso, come un sol uomo, la prima cittadina. Capuozzo, per dirla chiara, è stata espulsa quando ha ammesso che al M5s sono andati "anche i voti sporchi" e ha detto che "Di Maio e Fico lo sapevano", trascinandoli nella polemica politica e giudiziaria. Altrimenti Rosa sarebbe ancora lì a esercitare le sue pratiche amministrative in nome e per conto dei 5 Stelle. Ancora: nel maggio del 2016, il sindaco di Pomezia, Fabio Fucci, ha annunciato di aver ricevuto ben due avvisi di garanzia, poi archiviati, dei quali però non ha detto nulla ai vertici del moVimento. Per un uguale silenzio, Pizzarotti è stato messo alla porta, Fucci è ancora lì, né sospeso né espulso. Così anche il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, indagato per abuso d'ufficio per lo stanziamento di quasi 40 mila euro all'anno per rimborsare agli amministratori le spese per raggiungere il Comune. Attenzione, però: tale strategia della "doppia morale" (affettuosi con gli amici, feroci con i nemici) ha funzionato benissimo. Finora, stando ai sondaggi, a ogni crisi nei 5 Stelle è seguito un avanzamento nel gradimento degli italiani: la Medusa-Grillo è sempre stata capace di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo da giustiziere, nessun Perseo è riuscito a ucciderlo. Tuttavia, il gioco ha retto finché ha potuto. Ovvero fino al dicembre del 2016, quando a Palermo, dopo un servizio de Le Iene di Italia Uno, la procura ha scoperto l'esistenza di almeno 200 firme false, indispensabili per presentare la lista del M5s alle comunali del 2012. Tredici gli indagati pentastellati, compresi due deputati regionali, Claudia La Rocca e Giorgio Ciaccio, che hanno confermato la vicenda e si sono autosospesi, e i parlamentari nazionali Riccardo Nuti, Giulia Di Vitae Claudio Mannino, poi sospesi dal moVimento.

Sospesi, appunto, non espulsi, mentre in passato altri parlamentari e sindaci erano stati cacciati per molto meno. Quanto a Raggi, è certo, però, che tra omissioni, bugie, chat, nomine, inchieste giudiziarie, avvisi di garanzia, sembra, parafrasando Grillo, "un Pd qualsiasi". Anzi peggio perché, stando alle indagini della Procura di Roma, dopo aver promesso trasparenza e onestà, avrebbe licenziato i puri (Marcello Minenna, Carla Raineri) per circondarsi di impuri, gli indagati Paola Muraro e Salvatore Romeo e l'arrestato Raffaele Marra. È evidente: difendendo Virginia ("Er sinnaco de Roma nun se tocca"), la Medusa Grillo difende anche il suo discutibile giro. E se alla fine fosse proprio Raggi l'involontario Perseo contemporaneo?

Caso polizze, Di Maio contro l'Espresso: "Quereliamo Fittipaldi". Il direttore Cerno: "Non vediamo l'ora". Il vice presidente della Camera alla trasmissione "L'Aria che tira" condotta da Myrta Merlino (La7) il 5 gennaio 2017 annuncia che il Movimento querelerà il nostro inviato Emiliano Fittipaldi dopo avere svelato per primo il caso delle polizze sottoscritte dall'ex capo della segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi. La risposta in video del direttore dell’Espresso il 6 gennaio: «Non vediamo l’ora che arrivi la querela. I nuovi regolamenti dei 5 Stelle vietano agli iscritti di parlare, ma se proprio Di Maio ci vuole in Procura, lì potremo avere quelle informazioni che il Movimento dovrebbe dare anziché nascondere, non foss'altro che per quella trasparenza che loro stessi invocano».

Chiedeteci scusa! Scrive Luigi Di Maio il 7 febbraio 2017. Oggi ho consegnato al presidente dell'Ordine dei giornalisti la lettera che trovate qui sotto. La campagna diffamatoria nei confronti del MoVimento 5 Stelle deve finire. Vi chiedo di reagire. Dobbiamo raccontare a tutti i nostri successi ottenuti nelle città che governiamo. Nel video vi racconto un po' di cose e vi segnalo alcuni appuntamenti imminenti. Per favore guardate fino alla fine e diffondete questo video! E' tempo di reagire! Lettera al Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, Enzo Iacopino:

"Gentile Presidente, la libertà di stampa è un valore irrinunciabile per ogni Paese democratico. Ma altrettanto irrinunciabile è il rispetto della verità a cui ogni giornalista, per deontologia ed etica professionale, dovrebbe attenersi. In questi giorni abbiamo assistito a uno spettacolo indegno da parte di certa stampa, che ha usato la vicenda di una polizza a vita intestata a Salvatore Romeo, e il cui vero beneficiario è lui stesso tranne nell'ipotesi estremamente improbabile della sua morte, per infangare e colpire in maniera brutale la sindaca Virginia Raggi e l’intero Movimento 5 Stelle. L’operazione di discredito nei confronti della Raggi è iniziata ben prima che il Movimento 5 Stelle vincesse le elezioni a Roma: lo sapevamo ed eravamo preparati a questo, ma oggi si è toccato un limite che è nostro dovere denunciare. Da osservatore attento avrà seguito la vicenda sulla polizza e saprà: 1) che la Raggi non ha mai preso un soldo; 2) che appresa dai magistrati la notizia della polizza, ha immediatamente richiesto che il suo nome venisse rimosso dal documento; 3) che la Procura stessa ha precisato che nella vicenda non si ipotizza alcun reato e che la polizza non è da considerarsi uno strumento di corruzione. Su gran parte dei Tg e dei giornali usciti il 3, il 4 e il 5 febbraio, però, gli italiani hanno letto un’altra storia, costruita non su fatti documentabili, ma su menzogne e notizie letteralmente inventate. E anche quando la Procura è intervenuta per ristabilire la verità, i giornali hanno continuato con le ipotesi, i sospetti, i dubbi e le insinuazioni. Nessuno sino ad oggi ha chiesto scusa né a Virginia Raggi, né al Movimento 5 Stelle, né ai lettori. Lei Presidente mi invita a non generalizzare un’intera categoria, ma a segnalarle i casi di comportamenti deontologicamente scorretti. Eccoli qui di seguito, con nomi e cognomi. Giudichi Lei se questa è informazione.

Emiliano Fittipaldi (L’Espresso) a L’Aria Che Tira (La7) il 3 febbraio: "Qualcuno ipotizza addirittura che i soldi di Romeo non siano soldi suoi, ma soldi in conto terzi che qualche esterno ha cercato di utilizzare per fare voto di scambio e per scalare il M5S dall'esterno".

Corriere della Sera, 3 febbraio, Fiorenza Sarzanini, titolo “La provvista da 90 mila euro e la pista che porta alla compravendita di voti”: Il sospetto è che almeno una parte di quei soldi provenissero da chi aveva deciso di puntare tutto sulla giovane avvocatessa [...] Dunque servissero a comprare voti. E siano soltanto una parte dei finanziamenti occulti giunti al Movimento 5 Stelle a Roma”.

La Repubblica, 3 febbraio, Carlo Bonini, titolo “Tesoretti segreti e ricatti, che legano il nuovo potere ai vecchi padroni di Roma”: Marra sapeva bene di come trafficasse la Raggi per conto di Romeo” [...] Se infatti quelle tre polizze erano una "fiche" puntata su una delle anime del Movimento cinquestelle romano quella "nero fumo", quella che doveva garantirsi un serbatoio di voti a destra perché prevalesse sulla cordata […] se erano la contropartita per sigillare un patto politico”.

Il Giornale, 3 febbraio, Alessandro Sallusti: “se è stata una tangente postdatata - ipotesi più probabile - parliamo di reato di una certa rilevanza”.

QN-Carlino-Nazione-Giorno, 3 febbraio, Elena Polidori, titolo "La pista dei soldi". “Si indaga su altre assicurazioni a beneficio di politici del movimento".

Il Messaggero, 3 febbraio, Valentina Errante/Sara Menafra, titolo “Una polizza inguaia la Raggi. C’è la pista dei fondi elettorali”: “La pista dei fondi coperti della campagna elettorale. (...) Spunta un conto aperto da Romeo nel 2013. L'ombra dei voti comprati". "Quel legame inspiegabile con i suoi fedelissimi, favoriti contro ogni morale grillina, adesso sembra trovare davvero una chiave di lettura. E' il peccato originale di Virginia Raggi (...). Almeno in un caso ci sarebbe stato un accordo: soldi (...)".

La Stampa, 3 febbraio, Edoardo Izzo: “Potrebbe emergere un'ipotesi di corruzione dietro le irregolarità emerse nell'inchiesta sulle nomine che coinvolge la sindaca di Roma Virginia Raggi".

Corriere della Sera, 4 febbraio, Fiorenza Sarzanini/Ilaria Sacchettoni: “Quelle [...] potrebbero dunque rappresentare una sorta di fondo concesso in garanzia a chi poi poteva concedergli favori”.

QN-Carlino-Nazione-Giorno, 4 febbraio, Elena Polidori, titolo "Raggi, l'inchiesta porta ad Ama".

Il Messaggero, 4 febbraio, Valentina Errante/ Sara Menafra: "Un meccanismo che potrebbe rappresentare un modo per tenere unita l'organizzazione a cinque stelle con un patto economico, oltre che politico”.

All’elenco si aggiungono gli articoli pubblicati oggi da Corriere della Sera e Repubblica, in cui io stesso vengo tirato in ballo, nonostante avessi già smentito tutto a dicembre 2016, con illazioni diffamatorie che non trovano riscontro nei fatti:

Corriere della Sera, 7 febbraio, Fiorenza Sarzanini: “Soprattutto quel che successe l'estate scorsa quando Marra sostiene di aver deciso di lasciare l'incarico in Campidoglio e di essere stato convinto a rimanere durante l'incontro con Luigi Di Maio. Che cosa gli disse il parlamentare grillino per fargli cambiare idea? Quali garanzie gli offrì, visto che lui stesso ha detto di averlo ricevuto alla Camera su richiesta della sindaca?”

Repubblica, 7 febbraio, Carlo Bonini, titolo la scia dei "quattro amici" porta al ruolo di Di Maio: “il garante fu l'uomo che il M5S candida a guidare il Paese, Luigi Di Maio. Già, è Di Maio il convitato di pietra di questa storia. […] Fu Di Maio a convincere Marra a non abbandonare prematuramente il suo lavoro di badante della Raggi [...] E fu ancora Di Maio, quale garante di quella scelta politica, a difendere il rapporto privilegiato ed esclusivo dei «quattro amici al bar» di cui oggi nulla resta”."

I nuovi potenti e l'informazione. Ogni volta che un potente, anche se nuovo di zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa, scrive Mario Calabresi l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Il Potere attacca l’informazione quando è in difficoltà, quando la vive come un intralcio alla sua azione o alla sua narrazione. Succede da sempre, ma oggi i nuovi potenti, che amano comunicare direttamente con i cittadini senza fastidiose mediazioni e senza il rischio di fastidiose domande, sono più radicali e cercano di risolvere il problema all’origine: delegittimare i giornalisti. I nuovi potenti amano raffigurarsi come outsider, si chiamino Trump o Grillo, come freschi e genuini rappresentanti del popolo a cui giornalisti e giudici cercano invece di mettere i bastoni tra le ruote. Nel caso italiano la polemica contro i magistrati ancora non c’è ma è solo questione di tempo. Il Movimento non governa ancora il Paese ma ha già conquistato la sua capitale e ha capito che nella strada verso Palazzo Chigi l’informazione può essere un ostacolo. Questi nuovi potenti, che hanno costruito le loro fortune sulla critica radicale di ogni establishment e sulla promessa di trasparenza, dovrebbero essere abituati alla dialettica, dovrebbero accettare il confronto, invece appaiono, se possibile, più segreti e opachi dei loro predecessori. Guardate Trump, un uomo che manipola la comunicazione e squalifica chiunque metta in evidenza incongruenze e bestialità, siano essi i giudici o i giornali, arrivando ad accusarli di una sorta di complicità col terrorismo per cercare di silenziarli. Lo ha fatto fin dall’inizio della sua presidenza, indicando l’informazione come la vera opposizione, non per riconoscerne la funzione di cane da guardia del potere bensì per additarla come nemico. Lo stesso nemico che due settimane fa Alessandro Di Battista ha indicato agli ambulanti che manifestavano di fronte a Montecitorio, ottenendone come risultato grida in cui si prometteva di ammazzare quei servi maledetti che sono i giornalisti. Guardate Grillo: mai una conferenza stampa, mai un confronto, mai risposte limpide e chiare alle domande. Solo post sul blog, su Twitter e su Facebook in cui dispensa insulti e contumelie verso tutti coloro che disturbano il nuovo manovratore. Nessuno ha accesso alla Casaleggio, nessuno può chiedere conto di come si formino i processi decisionali (dalla nascita della giunta Raggi alla decisione, poi abortita, di lasciare Farage in Europa) e nessuno ottiene risposte se si permette di chiedere. Ieri sera Luigi Di Maio ha accusato giornali e giornalisti di aver orchestrato una campagna diffamatoria contro Virginia Raggi, di cui non si raccontano invece i successi. Si tratta dello stesso vicepresidente della Camera che per settimane la scorsa estate ha negato e tenuto nascosta la notizia dell’inchiesta sull’ex assessora Muraro. Nel merito delle accuse, ma soprattutto nel merito delle omissioni, entra con grande precisione Carlo Bonini all’interno del giornale, ma c’è qualcosa che continua a non tornare: perché il Movimento non fa chiarezza una volta per tutte sulle opacità e sugli inquietanti interrogativi di un gruppo di potere che ha circondato la sindaca di Roma accompagnandone l’ascesa e le prime mosse? Perché non indica nei dettagli idee e programmi? Ma soprattutto perché i grillini non imparano ad accettare che la conquista del potere porta ad un necessario cambio di status: da controllori a controllati o perlomeno controllabili? Non si può pensare di avere una delega in bianco soltanto perché si arriva da fuori, soltanto perché si è giovani e nuovi. Non basta. Il giornalismo italiano non gode di ottima salute e il nostro sistema di informazione paga un deficit di credibilità e fiducia. Lo sappiamo e ci sforziamo ogni giorno di migliorare per colmarlo. Quando Grillo rappresenta elegantemente questo giornale come un rotolo di carta igienica indica la fine che ci augura. Ci preferirebbe addomesticati, come si è sempre illusa di fare la politica, ridotti a cantori, intenti a raccontare le magnifiche sorti di una città come Roma che dovrebbe rinascere e invece è abbandonata a se stessa. Anche se forse converrebbe metterci dove tira il vento e non di traverso, continueremo a formulare domande ad alta voce, a pretendere risposte e a fare denunce. Lo abbiamo fatto con la Dc e i socialisti, con Berlusconi come con tutte le sigle dell’ex Pci fino all’odierno Pd, di cui abbiamo raccontato scandali e reclamato più volte dimissioni e passi indietro. E non ci battiamo per conto di qualcuno, ma solo per i nostri lettori e per i cittadini, che meritano di vivere con gli occhi aperti. Perché ogni volta che un potente, anche se nuovo di zecca, attacca ferocemente chi lo critica, allora bisogna preoccuparsi e non abbassare la testa.

La polizza da 30mila euro regalata da Romeo a Raggi. Otto mesi di tormenti per M5S, il diritto di raccontare e far domande. Non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi, Raggi ha fatto tutto da sola, scrive Luciano Fontana il 6 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Confezionatori seriali di menzogne», «campagna di fango contro la Raggi». Sono mesi che il blog di Beppe Grillo ed esponenti, più o meno di rilievo, del Movimento Cinque Stelle usano queste, e altre, frasi fatte per reagire alla tempesta politica e giudiziaria che investe la nuova amministrazione della Capitale. Un disco rotto, un refrain che l’Italia conosce bene: l’abbiamo ascoltato da tanti partiti, almeno dal 1992 in poi. La migliore risposta che un giornale come il Corriere può dare è continuare a fare bene il proprio mestiere. Ovvero: informare con scrupolo e obiettività i lettori, senza pregiudizi e senza distinguere tra presunti amici e nemici. C’è qualcosa però di stonato nelle dichiarazioni che arrivano ogni giorno dal M5S, con anatemi che vogliono colpire individualmente i giornalisti «nemici». Siamo arrivati alle liste di proscrizione dei mezzi d’informazione. Come se ci fosse un Eldorado politico e amministrativo dei Cinque Stelle turbato solo dai «pennivendoli». Messi ai margini questi ultimi, tutto tornerebbe perfetto.

Proviamo allora a raccontare cosa è accaduto dal giugno scorso quando Virginia Raggi è diventata sindaca di Roma con il risultato più largo dall’introduzione dell’elezione diretta nelle città. I festeggiamenti per l’incoronazione del candidato anticasta erano ancora in corso e già si avvertiva il rumore di fondo della battaglia interna al mondo grillino della Capitale, con una fronda consistente guidata dall’onorevole Roberta Lombardi. Non è un caso che mentre l’altra star dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, forma rapidamente la giunta comunale di Torino, a Roma i giorni passano e le scelte non arrivano. E quelle che arrivano, i fedelissimi Daniele Frongia a capo di Gabinetto e Raffaele Marra a vicecapo di Gabinetto, vengono revocate in appena dieci giorni. Il primo passa al ruolo politico di vicesindaco, il secondo viene spostato alla direzione del Personale. Raffaele Marra è un personaggio che ha tutte le caratteristiche per risultare indigesto alla base grillina: dirigente con il precedente sindaco Gianni Alemanno e nell’amministrazione regionale di Renata Polverini, racchiude in sé tutti i tratti di un mondo che i Cinque Stelle avevano giurato di voler spazzare via. Ma fa parte del «raggio magico». La sindaca subisce i diktat di Grillo ma non ha alcuna intenzione di rinunciare ad averlo al suo fianco. Vita ugualmente tormentata per Daniele Frongia. Il primo passo di lato non basta. Pochi mesi dopo dovrà abbandonare anche la poltrona di vicesindaco.

La falsa partenza non si ferma però qui. L’estate riserva ancora i casi del nuovo capo di Gabinetto, la magistrata Carla Romana Raineri, che abbandona dopo che la Raggi ha chiesto un parere sul suo contratto all’Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, del superassessore al bilancio, Marcello Minenna, dell’amministratore dell’Azienda per i rifiuti Ama e del direttore generale dell’Atac (tutti dimissionari). Basta così? No, accetta e subito lascia dopo due giorni il nuovo assessore al Bilancio Raffaele De Dominicis, indagato per abuso d’ufficio (una vicenda non collegata al Comune di Roma). Esplode la vicenda di Salvatore Romeo, assunto con uno stipendio triplicato come capo della segreteria politica e rimasto in carica con una decurtazione dopo il parere del solito Cantone. Abbandona il suo incarico di assessore all’Ambiente Paola Muraro, indagata dalla Procura in un’inchiesta sulla gestione dei rifiuti. Muraro e la sindaca lo sapevano da mesi ma si erano guardate bene dal renderlo pubblico.

Purtroppo non è finita qui. Raffaele Marra, a metà del dicembre scorso, viene arrestato su richiesta della Procura per una vicenda precedente al suo ruolo nell’amministrazione Raggi. Tre dei «quattro amici al bar», la chat riservata utilizzata da Marra, Frongia e Romeo per scambiare messaggi con la sindaca e decidere incarichi e progetti del Comune, sono a vario titolo nell’angolo. Inizia la stagione degli interrogatori, dei veleni, delle battaglie sotterranee. Con la curiosa vicenda delle polizze vita sottoscritte da Romeo con beneficiaria, in caso di morte, Virginia Raggi. Nessun reato, secondo quanto avrebbero accertato gli inquirenti. Deciderà il giudice ma alcune domande sulla stranezza della cosa sono o no legittime? Oppure è vietato porsele, insieme a milioni di cittadini, come vorrebbero i grillini e qualche giornale amico? Non ci addentriamo, perché sarebbe troppo lungo, nelle guerre interne ai Cinque Stelle romani con i sospetti di un’azione di screditamento di Marcello De Vito, rivale della Raggi nella corsa alla candidatura del Movimento per il Campidoglio.

Potrebbe sembrare una telenovela, se non fosse che riguarda la Capitale d’Italia. Sia chiaro: nessun rimpianto per i precedenti sindaci e le passate amministrazioni. E tutta l’attenzione dovuta alle novità positive (come i tempi veloci con cui è stato redatto il bilancio preventivo del Comune) che la Raggi e la sua giunta sapranno mettere in campo. Ma non si può chiedere a un giornale di chiudere gli occhi davanti ai fatti. È stato così, per il Corriere e i suoi giornalisti, quando alla guida di Roma c’erano altri partiti. È stato così in tutte le indagini e le vicende politiche nazionali. Senza doppi pesi e misure e casacche di schieramento da tutelare. Virginia Raggi, la sua giunta, i suoi sostenitori hanno fatto tutto da soli, compreso immergersi in un po’ di fango. Per inesperienza, libera scelta o motivi a noi sconosciuti. Aspettiamo le prossime puntate per capire.

M5S, Di Maio: "Non ci sono liste proscrizione contro giornalisti". Video di Marco Billeci su "Repubblica Tv" dell'8 febbraio 2017. Parlando a margine di una conferenza stampa per presentare il portale sulle amministrazioni M5S, Luigi Di Maio parla della lista di articoli sul caso Roma da lui segnalati come diffamatori al presidente dell'Ordine dei Giornalisti. Di Maio torna anche sulla querela annunciata contro il cronista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi e altri giornalisti sempre in merito alle vicende della sindaca Raggi. Nel 2009 Beppe Grillo chiedeva sul blog la depenalizzazione della querela per diffamazione a mezzo stampa perchè, scriveva, "La querela è un'arma da ricchi. Usata per intimidire. Per tappare la bocca". Eppure ora gli stessi esponenti del Movimento 5 Stelle si servono di questo strumento, come mai? "Non c'è nessuna volontà di intimidire nessuno - ribatte Di Maio -, ma c'è la necessità di tutelare l'immagine del Movimento".

Attacco alla stampa: Di Maio contro i cronisti del caso nomine, ma su Marra e polizze non dà risposte. La denuncia del vicepresidente della Camera all'Ordine dei giornalisti: "Ricostruzioni indegne, gettano discredito sul M5S". Ma restano i dubbi sul suo ruolo nella vicenda del Campidoglio, scrive Carlo Bonini l'8 febbraio 2017 su "La Repubblica". Avventurandosi su un terreno a lui non congeniale, i fatti, se non addirittura ostile, non fosse altro per il deficit di memoria che lo affligge ogni qual volta è chiamato a ricostruire circostanze e rispondere a domande che interpellano la sindaca Virginia Raggi e il suo fu "cerchio magico" (Raffaele Marra, Salvatore Romeo, Daniele Frongia), Luigi Di Maio accusa di mistificazione chi ha firmato le cronache di Repubblica sulla vicenda e ne chiede l'esemplare punizione disciplinare all'Ordine dei Giornalisti sulla base di quattro capi di incolpazione. Repubblica avrebbe scientemente omesso:

1) Che la Raggi non ha preso un soldo nella storia delle polizze sulla vita che Salvatore Romeo le aveva intestato "a sua insaputa".

2) La precisazione della Procura secondo cui nella vicenda delle polizze non si ipotizza alcun reato.

E ancora: Repubblica avrebbe falsamente dato conto:

3) Che le polizze assicurative, accese con fondi di origine non chiara, fossero una possibile contropartita per sigillare un patto politico.

4) Di illazioni diffamatorie relative a un incontro di Raffaele Marra e Luigi Di Maio che accredita il vicepresidente della Camera quale "garante politico" dell'allora vicecapo di gabinetto oggi detenuto a Regina Coeli per corruzione.

Le prime due circostanze sono semplicemente non vere. Per il semplice motivo che Repubblica non ha mai né affermato, né lasciato intendere che Virginia Raggi abbia "preso soldi". Né ha omesso di riferire, quando ne ha avuto contezza, che l'origine del denaro utilizzato per accendere le polizze fosse stata accertata come lecita.

La terza circostanza merita qualche fatto e argomento in più e si tira dietro qualche domanda a cui - Repubblica ne è certa - Di Maio vorrà rispondere pubblicamente con la stessa solenne enfasi e dovizia di particolari spesi per la sua denuncia. Che la vicenda delle polizze - come abbiamo raccontato - fosse e resti tutt'ora circostanza di interesse "penale" nell'inchiesta per abuso a carico di Virginia Raggi e che avesse, quando è emersa, due sole plausibili spiegazioni (fosse cioè l'evidenza di un "rapporto privatissimo" ma dalla ricaduta e dai costi pubblici tra la Raggi e Romeo o, al contrario, di una traccia che portava a una costituency elettorale della sindaca non dichiarata) è dimostrata da due circostanze. La prima: le polizze sono state oggetto di una contestazione alla sindaca durante il suo interrogatorio di giovedì scorso. La seconda: sono oggetto della nuova contestazione di abuso di ufficio a carico di Salvatore Romeo e della stessa Raggi perché resta da capire se possano essere state o meno il presupposto della nomina dello stesso Romeo a capo della segreteria della sindaca.

La vicenda pone dunque ancora delle domande alla cui risposta Di Maio vorrà certamente portare il suo contributo:

a) Come mai Salvatore Romeo non è stato in grado di spiegare per quale ragione avesse indicato quali beneficiari delle sue polizze vita la Raggi e altri militanti Cinque Stelle? A quel che se ne sa, in una delle due polizze intestate alla Raggi, secondo indiscrezioni di Procura, mai smentite, figurerebbe quale causale per l'indicazione della Raggi l'annotazione "relazione sentimentale". "Perché la stimavo", ha corretto Romeo, intervistato in tv.

b) Se è vero che la Raggi venne indicata come beneficiaria delle polizze "a sua insaputa", per quale motivo, una volta nominato dalla stessa Raggi capo della sua segreteria, Romeo non sentì l'urgenza di avvisarla, posto l'evidente conflitto di interesse?

c) Chi dei "quattro amici al bar", tra luglio e dicembre 2016 (il 16 viene arrestato Marra), decideva le nomine in Campidoglio? Marra "a insaputa " di Raggi, Romeo e Frongia? Marra e Romeo a insaputa di Raggi e Frongia? O, come documentano le chat estratte dal cellulare di Raffaele Marra dopo il suo arresto, almeno tre dei quattro amici - Raggi, Marra e Romeo tutti appassionatamente insieme? È un fatto che per le nomine di Renato Marra (fratello di Raffaele) e per quella di Salvatore Romeo, la Procura ipotizza l'abuso di ufficio della sindaca (in un caso in concorso con Raffaele Marra, nell'altro con lo stesso Romeo).

E veniamo quindi alla quarta e ultima incolpazione mossa da Di Maio. Il vicepresidente della Camera ci accusa di "illazioni diffamatorie" perché ricordiamo il suo incontro, nell'estate scorsa, con Raffaele Marra indicandolo come il momento in cui si fece "garante politico" della permanenza in Campidoglio dell'allora neonominato vicecapo di gabinetto investito dalle prime ricostruzioni di stampa che ne illuminavano il passato di destra. Ebbene, a Di Maio dovrà evidentemente essere sfuggita (ma non è la prima volta che confonde ciò che legge. Non comprese i messaggi Whatsapp con cui veniva avvisato dell'iscrizione di Paola Muraro, allora assessore all'ambiente, nel registro degli indagati per reati ambientali. E tenne per sé la notizia per oltre un mese) la minuta ricostruzione che, il 9 settembre 2016, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e la cronista Valeria Pacelli dedicano alla figura di Raffaele Marra e a quell'incontro. Una ricostruzione, converrà Di Maio, che per la fonte giornalisticamente "cristallina" può essere considerata "autentica", "ex cathedra", diciamo pure.

Vediamo: "6 luglio (2016 ndr.). Marra chiede di parlare con Luigi Di Maio, che lo riceve nel suo ufficio alla Camera. L'ex finanziere gli porta il solito valigione di documenti con tutte le sue denunce e per un'ora e mezza gli illustra la sua esperienza nell'amministrazione regionale e capitolina. "Se non l'avrò convinta - aggiunge - ho qui pronta la lettera di dimissioni". Poi, mostra anche a Raggi e Frongia una dichiarazione della Procura secondo cui non ha procedimenti penali in corso, diversamente da altri 7 dirigenti comunali (indagati o imputati, eppure ai loro posti senza alcuna polemica)". Dunque, il vicepresidente della Camera, il 6 luglio 2016, blocca le dimissioni di Marra e ne legittima il ruolo soprattutto agli occhi di quella parte del Movimento (stretta intorno alla Lombardi) che ne chiede l'allontanamento per il suo passato di "destra". Ma, del resto, a documentare la stima di Di Maio nei confronti di Marra, è anche una dichiarazione dello stesso vicepresidente della Camera del 1 luglio 2016 all'agenzia di stampa Ansa. Si legge: "Alla richiesta di un commento sulla nomina di Raffaele Marra a vice-capo di gabinetto, Di Maio risponde: "Chi ha distrutto questa città non fa parte della nostra squadra; chi in questi anni ha dimostrato buona volontà, competenze e storia personale, all'interno della macchina amministrativa, ci venga a dare una mano. L'ho detto in tempi non sospetti, la squadra non sarà legata al M5S ma sarà composta soprattutto da persone competenti che possono realizzare il programma del M5S"".

Dunque e infine: vuole, può, spiegare il vicepresidente Di Maio quale ruolo politico ha avuto e ha nelle scelte politiche e amministrative della Raggi? In particolare nella scelta di quegli "amici al bar", a cominciare da Raffaele Marra, oggi scaricati come infidi sabotatori?

Il "giornalista" Di Maio denuncia i cronisti ma non paga l'Ordine. Iscritto all'albo dei pubblicisti, da 2 anni non versa le quote. Il caso della stampa «nemica», scrive Pasquale Napolitano, Giovedì 9/02/2017, su "Il Giornale". Chi di elenco ferisce, di elenco perisce. Luigi Di Maio pubblica la lista di proscrizione dei giornalisti nemici del M5S ma finisce a sua volta in un'altra lista: quella dei giornalisti morosi. Prima di approdare ai piani alti della politica italiana, il leader pentastellato aveva intrapreso la carriera di cronista. Ora Di Maio figurerebbe nell'elenco dei morosi: sarebbero almeno due le annualità che il vicepresidente della Camera dei deputati pare non abbia ancora saldato. Sulla presunta inadempienza, Ottavio Lucarelli, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Campania, non si sbottona: «Si tratta di dati sensibili». Di Maio è iscritto all'Ordine dei giornalisti della Campania dal 4 ottobre 2007: il parlamentare grillino ha mosso i primi passi nel giornalismo con un settimanale locale, Paese Futuro, che ha sede a Pomigliano d'Arco, dove il numero due di Montecitorio vive. Poi il richiamo di Grillo è stato più forte del primo amore. Il rigido codice del M5S impone un limite di due mandati per deputati e senatori. Una regola ferrea cui nemmeno il leader in pectore dei grillini può sottrarsi. E infatti il vicepresidente della Camera dei Deputati - intervistato da Myrta Merlino a L'Aria che tira - ha chiarito che «farà un altro mandato in Parlamento e poi ritornerà al suo lavoro». Per riprendere, però, in mano penna e taccuino, l'enfant prodige del firmamento grillino dovrà fare un salto a Napoli per regolarizzare le quote associative all'albo dei pubblicisti. Di Maio sarebbe, dunque, un giornalista pubblicista moroso. Ed è curioso che il presidente nazionale dell'Ordine Enzo Iacopino sia andato negli uffici della Camera dei deputati, e non il contrario, per farsi consegnare dal pubblicista Di Maio l'elenco dei giornalisti da mettere al bando. Una visita cui ha fatto seguito il silenzio dell'Ordine dei giornalisti sulla vicenda, almeno fino a quando lo stesso Di Maio non ha diffuso su Facebook i nomi dei giornalisti inseriti nella lista di proscrizione. «Faccio presente che la lista dei nomi dei giornalisti che secondo noi hanno danneggiato il Movimento Cinque Stelle mi era stata chiesta dal presidente dell'Ordine dei giornalisti attraverso un comunicato apposito», ha fatto sapere Di Maio. Iacopino ha quindi replicato: «Confermo, ho chiesto all'onorevole Luigi Di Maio di indicare specifiche responsabilità astenendosi da generalizzazioni che di fatto criminalizzano l'intera categoria giornalistica. Il problema non è la segnalazione all'Ordine di quanti il Movimento ritenga responsabili di un comportamento scorretto. Il problema deriva dalla diffusione dei nomi degli stessi che può, indirettamente, provocare azioni e reazioni che mi piace pensare siano estranee alla cultura del presidente Di Maio ma che i colleghi in troppe occasioni hanno potuto conoscere e hanno sofferto sulla loro pelle». Se l'Ordine nazionale ha scelto di non replicare all'affondo del leader dei Cinque stelle, l'Ordine della Campania si è invece attivato e ha convocato in audizione il «giornalista» Di Maio per il quale sta valutando l'ipotesi di un deferimento al Consiglio di disciplina. «Le liste di proscrizioni sono inaccettabili», spiega il presidente campano Lucarelli. E ancora: «Quelle del nostro iscritto Di Maio sono parole inopportune perché rappresentano una pericolosa invasione del potere politico nella libertà di informazione ma soprattutto perché arrivano da un rappresentante della nostra categoria».

Berdini: “La sindaca è impreparata. Dall’inizio si è circondata di una corte dei miracoli”. Lo sfogo dell’assessore all’Urbanistica: intorno a lei una banda. «Io sono amico della magistratura, Paolo Ielo lo conosco benissimo, è un amico, ma lei è stata interrogata otto ore. Anche lì c’è qualcosa che non mi torna», scrive Federico Capurso l'8/02/2017 su “La Stampa”. Nota Questa mattina l’assessore del Comune di Roma Paolo Berdini ha smentito di aver rilasciato delle dichiarazioni al nostro giornale sulla giunta di Virginia Raggi. “La Stampa” conferma parola per parola il colloquio con l’assessore Berdini pubblicato nell’edizione odierna a firma del giornalista Federico Capurso. Se umanamente si può comprendere l’imbarazzo dell’assessore, questo comunque non giustifica in alcun modo gli inaccettabili giudizi che Berdini ha pronunciato sul collega per cercare di smentire quanto riferito. Lo hanno chiamato «eretico», «comunista», ma Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, è un uomo difficile da incasellare. Di certo anarchico, nel suo approccio con il Movimento 5 stelle: quasi esterno alla giunta grillina, libero dalle briglie nel dire sempre ciò che pensa e con una guerra da vincere, quella per evitare speculazioni edilizie nel progetto per lo stadio della Roma. Ora che la sua battaglia rischia di naufragare, e che la sindaca Virginia Raggi è sempre più incatenata dal commissariamento politico di Beppe Grillo e dalle vicende giudiziarie, Berdini sente il bisogno di sfogarsi, anche se non riesce a darsi una risposta, per come si sia arrivati a questo punto. «Non lo so, è stato fatto un errore dopo l’altro». Prima con la nomina di Raffaele Marra, poi la polizza di Romeo, «e se è uscita questa cosa su L’Espresso, fra qualche giorno magari ne esce un’altra. Non si può dire che sia finita la musica». Si stringe nella giacca, mentre dopo una giornata di lavoro tenta di fare il punto. «Trovo la situazione esplosiva, questa città non tiene». Ma le risposte non arrivano. Forse, c’è bisogno di tornare al principio di questa avventura, «quando i Cinque stelle mi hanno chiesto aiuto per affrontare alcune battaglie insieme. Anche per questo, non ho fatto gli esami con il direttorio. L’unico assessore, credo, ad essere entrato di diritto, ma non mi aspettavo tutto questo». Poi, forse, i volti delle persone con cui si è dovuto interfacciare in questi mesi tornano rapidi alla mente, dai consiglieri ai vertici del Movimento, fino a Virginia Raggi e a Salvatore Romeo, al centro dell’ultimo ciclone abbattutosi sul Campidoglio, e non riesce a tenersi: «Sono proprio sprovveduti. Questi secondo me erano amanti. L’ho sospettato fin dai primi giorni, ma mi chiedevo: “com’è che c’è questo rapporto?”». Mentre lo dice, il suo sguardo non è quello dell’insofferenza, ma della stanchezza, quasi arreso a certi comportamenti. «E poi, questa donna che dice che non sapeva niente, ma a chi la racconti? La sua fortuna è stata che non ci fosse nessun reato. Lei era anche già separata al tempo, e allora dillo! Ma possibile che questa ragazza non debba uscire mai?». Il problema del Campidoglio però, per Berdini non sembra quello di una eventuale relazione tra Raggi e Romeo, sulla quale peserebbe il sospetto, tutto politico, che Romeo abbia potuto approfittare della situazione per diventare capo staff della sindaca, con conseguente stipendio triplicato, in barba alle battaglie grilline contro le parentopoli, per la meritocrazia e così via. Il problema, per il professore “anarchico” di Roma, sembra essere proprio la Raggi: «Su certe scelte sembra inadeguata al ruolo che ricopre. I grand commis dello Stato, che devo frequentare per dovere, lo vedono che è impreparata. Ma impreparata strutturalmente, non per gli anni. Se vai, per dirne una, a un tavolo pubblico e dici che sei sindaco di Roma, spiazzi tutti. Lei invece…» - e nell’esitazione, Berdini si accarezza i baffi, prima di tirare un sospiro che nulla ha del sollievo - «Mi dispiace. Mi dispiace molto». «Se lei si fidasse delle persone giuste… Ma lei si è messa in mezzo a una corte dei miracoli. Anche in quel caso, io glie l’ho detto: “sei sindaco, quindi mettiti intorno il meglio del meglio di Roma”. E invece s’è messa vicino una banda». È forte il sapore del rimorso e della rabbia per non essere stato ascoltato quando, da mesi, aveva avvisato la sindaca dei pericoli che Marra e il Raggio magico portavano con sé. «Io sono amico della magistratura, Paolo Ielo lo conosco benissimo, è un amico, ma lei è stata interrogata otto ore. Anche lì c’è qualcosa che non mi torna». «Come se ne esce? Non lo so. Io questo non lo so». E si allontana nella notte romana. 

Berdini a Rainews 24: mai parlato con la Stampa, giornalista ha origliato chiacchiere private. L'assessore all'urbanistica smentisce le dichiarazioni sull'inadeguatezza della sindaca e sulla "corte dei miracoli". “Smentisco di aver mai conosciuto questo ragazzo che si è avvicinato a un gruppo di amici che parlano. Questo mascalzone ha registrato un colloquio privato. Non ho rilasciato alcuna intervista alla stampa” così Paolo Berdini assessore all’urbanistica al comune di Roma ai microfoni di Rainews 24 l’8 febbraio 2017 ha smentito categoricamente il colloquio con La stampa in cui definiva la sindaca di Roma “inadeguata e circondata da una corte dei miracoli”. “Sull’impreparazione – ha chiarito Berdini – io mi ci metto dentro. Non immaginavo il baratro che avrei trovato, siamo tutti impreparati e mi ci metto anche io. Questa città è in ginocchio e sia io che i colleghi di Giunta non immaginavamo che fosse messa così male”. Sui rapporti stretti tra Raggi e Romeo Berdini è ancora più categorico contro chi ha scritto l’articolo sul giornale: “Mai dette certe cose, è repellente ragionare su questo piano. Il ragazzo avrà contraffatto con i mezzi tecnologici a disposizione”. «Non ho mai detto queste cose. Non mi fate scendere nello scantinato in cui è sceso questo poveretto». “MI sono state messe in bocca parole inaudite da questo piccolo delinquente”.

Il giornalista della Stampa conferma: «Berdini ha detto anche banda di assassini», scrive l’8 febbraio 2017 “Il Corriere della Sera”. Un’altra «smentita della smentita» arriva da Federico Capurso, il giornalista della Stampa che ha pubblicato il «colloquio» con Berdini che ha fatto scoppiare la bufera. Intervenendo a «Un giorno da Pecora», su Rai Radio1, per dare la sua versione dei fatti, spiega: «Noi confermiamo questo colloquio, non c’era nessun bar, nessun caffè o aperitivo con gli amici, come ha detto Berdini. È stato un faccia a faccia, io e lui, io mi sono presentato come giornalista». E prosegue: «Mi ha detto che la Raggi è inadeguata e che le mancanze non sono dovute all’età, ma sono proprio mancanze strutturali». Capurso rincara la dose e sottolinea che il colloquio, così come è stato pubblicato, è stato alleggerito «di alcuni intercalari poco pubblicabili. Non c’erano attacchi più forti alla Raggi, c’erano alcune parolacce, usate come esclamazioni, ma le abbiamo tolte. E poi quando parlava di questa “banda”, che la Raggi si sarebbe messa intorno, invece di dire banda Berdini ha detto una banda di assassini».

Quello che non torna nelle dimissioni respinte di Berdini, scrive Alessandro D'Amato mercoledì 8 febbraio 2017 su "Next Quotidiano". Nel comunicato con cui Paolo Berdini afferma di aver rimesso il mandato nelle mani della sindaca Virginia Raggi, che vedete qui sotto riprodotto, ci sono da sottolineare un paio di circostanze molto interessanti che ci danno l’esatta dimensione della serietà dell’assessore: “Ho incontrato Virginia Raggi in Campidoglio: le ho ribadito la stima che merita. Provo profonda amarezza per la situazione che si è venuta a creare. Ne ho preso atto e, pertanto, ho rimesso il mandato conferitomi dalla sindaca lo scorso luglio. Una conversazione carpita dolosamente da uno sconosciuto che non si è nemmeno presentato come giornalista e durante la quale avrei persino affermato di essere amico del procuratore Paolo Ielo che non ho mai conosciuto in vita mia”. “Ci stanno massacrando, un vero e proprio linciaggio mediatico che si sta scatenando proprio nel momento in cui l’amministrazione comunale prende importanti decisioni che cambiano il modo di governare questa città – aggiunge – Da mesi il sottoscritto lavora per riportare la materia urbanistica e l’affidamento degli appalti pubblici nella più assoluta trasparenza. E’ questo il programma della nuova amministrazione: un’azione limpida che evidentemente crea problemi ad alcuni gruppi di potere”. “Non sto a raccontare di pesanti insulti e minacce che ricevo quotidianamente in rete, ora siamo passati anche alle trappole. Questo è il rischio che corrono coloro che vogliono rompere vecchi e consolidati equilibri di spartizione che non abbiamo mai accettato e non accetteremo mai”, prosegue l’assessore. “Ho incontrato Virginia Raggi in Campidoglio: le ho ribadito la stima che merita. Provo profonda amarezza per la situazione che si è venuta a creare. Ne ho preso atto e, pertanto, ho rimesso il mandato conferitomi dalla sindaca lo scorso luglio”, conclude Berdini. Federico Capurso durante il suo intervento a L’Aria che tira ha invece dichiarato di essersi presentato come giornalista a Paolo Berdini, come del resto prevede la deontologia. Ma non è questo il punto. Immaginiamo che invece Berdini abbia ragione e davanti a lui la settimana scorsa si sia presentato un quisque de populo chiedendogli cosa ne pensasse della Raggi. Berdini, come potete notare, nel comunicato non ha smentito di aver detto le frasi che ha detto sull’amministrazione. Così come la Raggi, del resto. Ebbene, Berdini nel colloquio sulla Stampa ha sostenuto nell’ordine:

– che Virginia Raggi aveva una relazione con Salvatore Romeo;

– che il problema della Raggi non era l’inesperienza, ma proprio l’incapacità;

– che non è vero che la sindaca non sapesse niente delle polizze vita di Romeo;

– che la sindaca si è messa vicino “una banda” (di assassini, ha precisato successivamente Capurso).

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma Berdini è solito andare in giro a raccontare segreti (o per meglio dire: diffamazioni) dell’amministrazione e giudizi così netti sulle bande in Comune al primo che passa per strada? E se così fosse, visto che le sue parole sembrano abbastanza inequivocabili, è sicura la Raggi che le dimissioni dell’assessore fossero da respingere? Poi c’è un’altra questione, anche più interessante. Respingere le dimissioni con riserva è un non senso giuridico dal momento che la riserva si appone all’accettazione delle dimissioni (come quando il Presidente della Repubblica accetta con riserva le dimissioni del presidente del consiglio invitandolo a restare in carica per il disbrigo degli affari correnti), non già alla loro reiezione. La formula “Respingerle con riserva” sembra suggerire che le dimissioni siano respinte tout court ma ci si riservasse di accettarle. In realtà la riserva serve ad evitare vuoti di potere e discontinuità amministrative causate dalle dimissioni di chi svolge pubbliche funzioni. Respingere con riserva invece è anche inconcepibile dal punto di vista logico, oltre che giuridico, visto che riconfermare la piena fiducia al dimissionario (perché di questo si tratta, altrimenti le dimissioni andrebbero “accettate con riserva”) e al tempo stesso subordinare questa fiducia ad una non meglio precisata riserva violerebbe il principio aristotetelico di non contraddizione. Ma queste, nel momento in cui parliamo di un assessore che racconta a uno sconosciuto degli amanti della sindaca, sono purtroppo mere tecnicalità.

Lo sfogo di Paola Muraro: la giunta Raggi? Una corte dei miracoli, scrive "Agi" il 9 febbraio 2017. La giunta di Virginia Raggi "ha perso di vista il bene della città e lavora per altri obiettivi". A denunciarlo è Paola Muraro, il primo assessore grillino a cadere nella giostra di dimissioni che ha segnato il Campidoglio a Cinque Stelle. L'amministrazione della Capitale "non è coerente" con il programma Cinquestelle dice la Muraro in un'intervista al Messaggero, "E' una guerra tra bande e le decisioni più delicate vengino prese dai vertici del Movimento e non dalla Giunta, dove invece si combatte "a colpi di dossieraggi e veleni", spesso propagati dal "gruppetto di fedelissimi della sindaca". A meno di due mesi dalle sue dimissioni rassegnate per avere ricevuto un avviso di garanzia, l'ex responsabile all'Ambiente di Roma Capitale si dice "delusa e amareggiata" e per nulla sorpresa dal bubbone scoppiato mercoledì per le dichiarazioni dell'assessore all'Urbanistica Paolo Berdini, che ha parlato di una Raggi attorniata da una "corte dei miracoli" e soprattutto di una sindaca "inadeguata e impreparata". "Onestamente non mi stupisce, sono cose che Berdini ha sempre detto, anche in giunta davanti a tutti. Pure di me parlò in quei toni". "Sono stata coerente con il programma del Movimento" incalza la Muraro, "Più grillina di me penso che non ci sia nessuno, da questo punto di vista. E consideri che io sono ancora grillina e per questo sono molto amareggiata. In questa giunta mancano soprattutto delle risposte a chi ha votato Cinquestelle. Prima avevamo un programma che era considerato come un vangelo. Ora non mi sembra che sia più così". L'ex assessore parla anche di chi comanda in Comune: quel "Raggio magico" un "gruppetto di fedelissimi che aveva fatto la campagna elettorale con la sindaca. Si erano creati rapporti effettivamente molto stretti. E la sindaca si è appoggiata a loro. Alla fine è stato un errore". 

Ora anche per Paola Muraro la Giunta Raggi è una guerra per bande. In un'intervista al Messaggero l'ex assessora spara a zero sulla sindaca e sul MoVimento 5 Stelle: «Dipendere dai vertici, che non ho mai conosciuto, non è una bella cosa», scrive "Next Quotidiano" giovedì 9 febbraio 2017. Francamente è incredibile. Paola Muraro, che da assessora all’ambiente a Roma ha ripetutamente mentito all’opinione pubblica celando un’indagine nei suoi confronti di cui era venuta a conoscenza per mesi, dopo le dimissioni attacca la Giunta Raggi e la sindaca. Sostenendo che quella del M5S a Roma è una “guerra per bande”, che non rivoterebbe Virginia Raggi e che le decisioni più delicate arrivano “dai vertici M5S esterni al Comune. Un’intervista in cui la Muraro, che fino a qualche tempo fa si diceva pronta a ritornare in giunta, sparge veleno a trecentosessanta gradi: forse, dopo aver scoperto ieri chi era Paolo Berdini, la sindaca dopo la lettura di questa intervista riuscirà finalmente a comprendere quanto fosse assurda la sua testardaggine nel difenderla.

Amareggiata. Per quale motivo? 

«Beh, avevo votato il Movimento.»

E ora non li rivoterebbe più? 

«Beh, diciamo che me ne resterei a casa» (ride).

Addirittura. Come mai? 

«In questa giunta manca coerenza. Mancano soprattutto delle risposte a chi ha votato Cinquestelle. Prima avevamo un programma che era considerato come un vangelo. Ora non mi sembra che sia più così».

Chi comanda in Comune? Che rapporti aveva con Romeo e Marra? 

«Quando ero assessore con il cosiddetto “Raggio magico” non avevo molti contatti. Questo gruppetto di fedelissimi aveva fatto la campagna elettorale con la sindaca. Si erano creati rapporti effettivamente molto stretti. E la sindaca si è appoggiata a loro. Alla fine è stato un errore. Alla luce di questi fatti anche io non so più con chi ho parlato. Sa, a Roma si fa fatica a capire di chi ci si può fidare…».

Si è resa conto della guerra tra bande nel Campidoglio grillino? Dei dossieraggi? 

«Certo, ho capito che c’è stata una guerra sotterranea, anche su di me. Anche se all’epoca devo dire che non me ne sono accorta».

E poi parla delle sue dimissioni: Si aspettava che le respingessero?

«No, visto il clima che si era creato… Ho capito che non dipendeva nemmeno più dai consiglieri, dipendeva da altri».

Da chi? 

«Dai vertici del Movimento. E mi faccia dire una cosa: dipendere dai vertici, che non ho mai conosciuto, non è una bella cosa».

Frasi e veleni del M5S a Frasi e veleni del M5S a Roma. Intercettazioni, insulti contro il sindaco Virginia Raggi, dichiarazioni incendiarie degli assessori. Un breve catalogo, scrive l'8 febbraio 2017 Panorama.  

“Hai rotto er cazzo. Smettila de fa la bambina deficiente... Non rompere i coglioni altrimenti te appendemo pe le orecchie... anni di lotta sudore e sangue pe na testa de cazzo”. (Annalisa Taverna, sorella della parlamentare Paola Taverna, riguardo a Virginia Raggi).

“Ti sei contornata del non plus ultra della merda. Per le tue scelte del cazzo ci andiamo di mezzo soprattutto noi”. (Annalisa Taverna, sorella della parlamentare Paola Taverna, riguardo a Virginia Raggi).

"Raffaele Marra è un virus che ci ha infettati”. (Roberta Lombardi, capogruppo del M5S).

“La Lombardi faccia pace con il cervello...” (Virginia Raggi su Roberta Lombardi).

“Chiedi al nostro amico della finanza di indagare su di lei”. (Raffaele Marra e Salvatore Romeo parlando dell’ex assessore Paola Muraro).

"Ma la stronza sono io, vabbè meglio che taccia anch’io..." (Paola Taverna in un sms scambiato con l’ex capo di gabinetto Carla Ranieri).

“(Raggi) Si è messa in mezzo a una corte dei miracoli. Anche in quel caso, io gliel’ho detto: “Sei sindaco, quindi mettiti intorno il meglio del meglio di Roma”. E invece s’è messa vicino una banda”. (Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, su Virginia Raggi in un colloquio riportato dal quotidiano La Stampa).

“Sono proprio sprovveduti. Questi secondo me erano amanti. L’ho sospettato fin dai primi giorni, ma mi chiedevo: “Com’è che c’è questo rapporto?” (Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica di Roma, su Virginia Raggi in un colloquio riportato dal quotidiano La Stampa).

Luigi Di Maio: "Posso almeno sapere se il 335 è pulito?". Paola Taverna: "No, non è pulito". (Di Maio e Taverna intorno alle indagini che vedono coinvolta l'ex assessore ai rifiuti Paola Muraro).

“Se parlo io vi rovino tutti”. (Raffaele Marra, dirigente del comune di Roma, ex braccio destro di Virginia Raggi arrestato il 16 dicembre)

Grillo, la setta dell'altrove. L'infortunio europeo conferma una mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico, scrive Ezio Mauro il 12 gennaio 2017 su "La Repubblica". Non è esattamente una passeggiata di salute quella che Grillo e Casaleggio si sono fatti sulla Grand Place di Bruxelles. Nel breve, ridicolo e clamoroso avanti e indietro tra gli antieuropeisti di Farage e i liberali di Verhofstadt si radunano infatti tutti i demoni irrisolti di un movimento perennemente allo stato gassoso che non riesce a consolidare alcunché, perché non avendo storia e tradizione (il che non è certo una colpa) non ha nemmeno saputo costruirsi un deposito culturale di riferimento a cui ancorare le trovate estemporanee del leader, abituato ad uscire da una quinta per cambiarsi d'abito e ricomparire dall'altra con uno sberleffo. La politica è un po' più complicata, a lungo andare, soprattutto negli intervalli tra una campagna elettorale e l'altra: per fortuna non tutto è performance, blog, comizio, una volta ogni tanto bisogna trasmettere l'idea che oltre a distruggere si è capaci anche di costruire qualcosa. L'Europa, poi, è complicata ancor di più. Esistono famiglie politiche, perché esistono vicende storiche e civili che hanno selezionato interessi, valori e persino personalità producendo cultura politica (mi scuso per l'espressione fuori moda): e da quella cultura, semplicemente, sono nate le costituzioni e le istituzioni nelle quali viviamo - potremmo dire - nelle difficoltà degli uomini ma nella libertà del sistema, in questo nostro lungo dopoguerra europeo di pace. Bene, se questa è la cornice, il quadro non è solo un infortunio senza precedenti, da inserire per anni nei repertori comici in teatro, per far ridere la platea. È la conferma di una mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico. Qui succede che un movimento nasce contro l'euro e contro l'Europa, oltre che contro tutte le inefficienze, le disfunzioni e le corruzioni della nostra democrazia indigena. Entra nel gruppo antieuropeista di Farage, campione della Brexit e dell'insularità britannica. Poi, dopo uno stage sul bordo-piscina di Briatore a Malindi, ecco la rivelazione keniota del fondatore, l'idea che per prepararsi a governare conviene abbandonare alleati così radicali, e spostarsi in un'area più tranquillizzante. I liberali? Perché no, vanno bene come qualsiasi opzione che non costringa a scegliere davvero tra destra e sinistra, per non dividere il fascio di consensi. La post-modernità della post-politica è questa: mani libere, destra e sinistra sono superate, il nuovo vive in un altrove indistinto che si può manipolare a piacere e abitare con comodo, interpretandolo come una pièce che si aggiorna di piazza in piazza, secondo l'estro del capocomico. Il fatto di aver ironizzato sui liberali per anni e di aver polemizzato ripetutamente con loro non conta, perché tanto nell'altrove non esiste un'opinione pubblica interna, cui rendere conto. Anzi, la giravolta è diversità, la diversità è libertà, e libertà significa semplicemente che il Capo fa quel che vuole. Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto nessuna passione: politica, storica, culturale, capace di dare anima e corpo ai diversi apparentamenti europei del movimento, di delineare una visione, una prospettiva identitaria, qualcosa di riconoscibile e riconosciuto, un modello di riferimento. L'altrove non ha modelli, se non l'idea originaria del leader, soggetta a colpi di vento o di sole africani, ma per definizione esatta, innocente, intatta nel cerchio perfetto del carisma perenne e soprattutto autosufficiente per spiegare ogni cosa. Poi naturalmente c'è il referendum, strumento perfetto di ogni meccanismo sommario. Come chiamarlo? Confermativo? Plebiscitario? Laudativo? Io direi gregario. Un sistema di acquiescenza e ratifica che governa meccanicamente un surrogato di consenso, richiesto e ottenuto in automatico ogni volta che c'è bisogno di dare una vernice comunitaria postuma alle improvvisazioni solitarie del Supremo Garante. Un referendum convocato in quattro e quattr'otto, svolto su due piedi come al circolo nautico o al club degli scacchi, attorno alla trovata di uno solo. Senza una discussione preparatoria, un confronto di idee, un dibattito aperto che consenta agli interni e agli esterni di conoscere non solo l'esito e il saldo finale, ma le ragioni di una proposta, il percorso di una scelta, rischi e opportunità, alternative possibili e i riflessi che tutte queste diverse opzioni possono avere sulla fisionomia pubblica del movimento. Tutto questo in nome di un altro demone originario: il segreto, figlio del complotto e della grande congiura, che naturalmente è sempre in atto e con tutto quel che succede nel mondo è concentrata sempre e solamente su Raggi e su Di Maio, e li fa perfidamente inciampare sui frigoriferi, sul Cile e il Venezuela. L'ultima invenzione è la congiura dell'"establishment" che Grillo ha evocato per dargli la colpa del trappolone europeo, in realtà fabbricato in casa. Come se in Italia esistesse una classe dirigente capace di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale, invece di singoli network gregari, concessionari e autogarantiti. Ma la congiura e il segreto fortificano lo spirito, trasformano la politica in fede, il movimento in setta, la trasparenza in confisca. Il referendum avviene su una piattaforma software privata di una società privata che gestisce la cosa più pubblica che c'è, vale a dire la proposta politica di un movimento, e conserva nomi e password degli iscritti nella mitica fondazione Rousseau come in uno scrigno segreto. Il segreto giustifica il vulnus di trasparenza, le decisioni europee prese in Kenya alle spalle dei deputati europei, perché gli eletti nel movimento hanno nei fatti un preciso e anticostituzionale vincolo di mandato, nei confronti del partito-moloch. Lo dice su Facebook l'eurodeputato Tamburrano: "Hanno preparato un accordo schifoso sulla testa della maggioranza di noi portavoce (di chi?) europei facendo piombare una domenica mattina una votazione farlocca, prendendo per i fondelli noi, milioni di elettori e lo stesso Beppe Grillo". E la senatrice Nugnes denuncia "la scarsità della partecipazione" ai referendum, "che si attesta intorno al 30 per cento, di solito al di sotto". "Dovevamo essere il popolo dell'intelligenza critica e della democrazia diretta - spiega - invece è successo qualcosa che per il momento ha bloccato completamente il processo". Cosa? "Una democrazia carismatica con affettività malata". Naturalmente la miseria impaurita e impotente del dibattito interno al Pd dopo la clamorosa sconfitta al referendum non è una giustificazione per il M5S: se mai poteva essere uno stimolo e un'occasione politica di diversità. Invece direttorio, garanti, portavoce: tutta un'intercapedine procedurale che è il contrario della democrazia diretta, e che consente alla Casaleggio di veicolare contenuti a piacere dall'alto al basso, come memorandum aziendali, e al leader di rivoltare il calzino a piacere dalla terrazze dell'Hotel Forum ogni volta che gli serve. Nell'altrove, tutti gli eletti, tutti i dirigenti, tutti gli uomini nuovi sono in realtà semplicemente dei fiduciari del Capo: in altre epoche li avremmo chiamati portaborse, sottopancia, boiardi minori e periferici, con in più la sovrastruttura burocratico-statutaria della multa di 250 mila euro per chi dissente, come fanno le società di calcio con un qualsiasi centravanti chiacchierone o indisciplinato. Questo evidente pasticcio che parla di democrazia e pratica la teocrazia ha portato al capitombolo europeo con la ribellione dei liberali, convinti che la "cheap politics" di Grillo cozzi con tutto il loro armamentario ideale, visto che loro ne hanno uno, a cui tengono. Segue il ritorno a Canossa da Farage, le condizioni umilianti del leader Ukip per riammetterli in casa dalla porta di servizio, la velocità di Di Maio che un minuto dopo il ritorno nel gruppo antieuropeista si dice pronto a votare contro l'euro, senza nemmeno togliersi il vestito liberale che il movimento aveva indossato da due giorni per l'occasione. Ma la brutta figura davanti all'intera Europa non è ciò che conta davvero. Conta l'anomalia del grillismo, rivelata da questa vicenda. Attenzione, non la diversità, benvenuta in un sistema politico stagnante: ma l'anomalia. In sostanza, la strozzatura di un meccanismo chiuso in sé, che come rivela questa storia non è contendibile, prima e suprema condizione della trasparenza, della libertà e della democrazia. Il resto purtroppo è chiacchiera. Tanto che in Europa basta evocare un minimo di cultura liberale per scioglierla come una bolla di sapone.

Il potere soltanto per il potere, scrive Piero Sansonetti l'11 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel drammatico sbandamento del partito di Beppe Grillo – che in pochi giorni è passato dalle sponde giustizialiste, a quelle garantiste, a quelle liberali, e poi di nuovo a quelle giustizialiste, passando anche per idee pauperiste in parte di radice ex comunista – è intervenuto ieri Marco Travaglio, direttore di quello che è considerato il giornale dei 5Stelle. Travaglio già in altre occasioni si è assunto un compito di direzione ideologica del movimento, specie nei momenti di crisi. L’idea di Travaglio: Frattocchie a 5 stelle Non per “sapere” ma per “potere”. Stavolta Travaglio cerca di indicare una via d’uscita, sulla base di una analisi politica tutt’altro che improvvisata. Ma forse monca. Travaglio sostiene che il punto debole del movimento ( o del partito) di Grillo è l’assenza di un gruppo dirigente, e addirittura di personale politico. Mi pare difficile dargli torto. Intorno a Grillo e Casaleggio non c’è nulla, neppure l’alito di un pensiero, né gente in grado di far valere la propria esperienza politica, o la saggezza, o almeno l’intelligenza. Dice Travaglio che questa è la palla al piede che rischia di portare al crash un movimento che invece avrebbe grandi potenzialità per il solo fatto di essere l’unico movimento politico seriamente e organicamente contrapposto all’establishment. Establishment è una parola inglese molto usata in politologia. Establishment può essere tradotto con due espressioni, simili ma non uguali: gotha del potere o invece classe dirigente. Non è esattamente la stessa cosa. Travaglio osserva che è difficile opporsi all’establishment con speranza di successo se non si è in grado di indicare un nuovo assetto. Per questo tutto è perduto se non si costruisce una classe dirigente attorno a Grillo. Giusto. E a questo scopo, nell’editoriale che ha pubblicato ieri sul “Fatto Quotidiano” (dai toni molto dimessi e tristi, assai diversi da quelli baldanzosi che in genere contraddistinguono i suoi scritti), non si è limitato a ripetere alcuni degli slogan usati dalla ditta Casaleggio nelle ultime ore (tipo quello sul potere terrorizzato dalle giravolte grilline) ma ha proposto una soluzione concreta e un po’ stupefacente: organizzare le scuole di partito a 5 stelle. Chiaramente un po’ sulla falsariga delle “scuole quadri” che nel secondo dopoguerra e fino a tutti gli anni ottanta venivano organizzate dal Pci (e in parte, ma in modo meno vistoso e meno capillare, dalla democrazia Cristiana e dal partito socialista). E’ una buona idea? Beh, ha dei punti deboli. Provo a dirlo in modo molto schematico. Le scuole di partito hanno bisogno di tre cose: un partito di massa, una idea (o un’ideologia) e degli insegnanti di valore. Al momento al Movimento 5 Stelle manca un partito. Si intende per partito una organizzazione molto vasta, estesa su tutto il territorio nazionale, con dei luoghi di ritrovo e di discussione che radunano quasi quotidianamente migliaia di militanti. Con la possibilità, da parte dei militanti, di discutere, esprimersi, di contare, di eleggere dei rappresentanti, di tenere dei congressi. E’ chiaro che una chat sul web, o un indirizzo di posta elettronica o una piattaforma per votare (un po’ come fa la Gazzetta dello Sport coi sondaggi sul migliore in campo) sono qualcosa di molto più semplice di un partito, ma anche di completamente diverso. Un partito costruisce sulla sua dimensione di massa la propria cultura politica. Una chat costruisce al massimo una tecnica informatica, un buon uso del ctrl, o dell’alt, o del cmd. Secondo problema: gli insegnanti. Le scuole di partito del Pci (la più celebre era quella delle Frattocchie, vicino Roma) funzionavano anche sul fatto che gli insegnanti erano di buona qualità. Molti di loro avevano una cattedra all’università, o erano presidi di facoltà o rettori, erano conosciuti in tutto il mondo. Qualche nome appena: Lucio Lombardo Radice, Eugenio Garin, Sascia Villari, Cesare Luporini, Ernesto Ragionieri, Nicola Badaloni… Beh, è difficile immaginare una scuola di partito dove gli insegnanti sono Di Battista, o Di Maio, o lo stesso Travaglio. Eppure sono convinto che questi due problemi, in qualche modo, potrebbero anche essere superati. Il terzo problema è il più ostico: l’assenza di una idea politica. Le idee politiche sono cose piuttosto complicate, generalmente maturano dopo anni e secoli, alla loro costruzione partecipano centinaia di grandi intellettuali. E’ stato così per il liberalismo, per il marxismo e anche per il socialismo democratico, che a occhio e croce sono i tre grandi filoni di idee politiche che hanno segnato la modernità. Ma è stato così, seppure con tempi e in forme più ridotti, per movimenti recenti, come il movimento ecologista. Ed è stato così anche per la formazione dei sistemi di idee più reazionari, che oggi sono alla base del funzionamento dei movimenti europei radicalmente di destra. Il problema di fondo del grillismo – che forse Travaglio non vede – è che, al momento, è del tutto privo di un sistema di idee e quindi di una linea politica. Come è stato largamente dimostrato dalle danze di questi giorni tra Goffredo Parise, Nigel Farrage e l’europeismo liberale ispirato da tipi come Einaudi e Mario Monti. Ora la domanda è semplice: si può mettere in piedi una scuola di partito che insegni metodi di poterete del tutto privi di linea politica? E cioè, se capiamo bene, che insegni pure e semplici tecniche per la conquista e l’esercizio del potere?

Forse si può. Forse è questa la post politica. La rinuncia dichiarata ai valori, ai programmi. La dichiarazione di lotta puramente per il potere. La concezione di una politica finalmente libera dalla zavorra delle idee e che può con agilità e totale camaleontismo dedicarsi puramente al potere. E’ questa la modernità? Forse sì. E’ bella? Forse no.

Da manettari a garantisti Così i grillini archiviano la (presunta) superiorità. L'inchiesta romana è un boomerang sul M5s: adesso la Raggi governi oppure si dimetta, scrive Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Boom. Alla fine il famoso botto si è sentito, come Grillo aveva - anni or sono - minacciosamente annunciato. Ma si tratta di un altro botto. Non quello elettorale. È crollata definitivamente al suolo la presunta superiorità morale dei grillini. Le stelle sono cadute. È la notte di San Lorenzo del giacobinismo a Cinque Stelle. L'iscrizione del sindaco di Roma Virginia Raggi nel registro degli indagati (è indagata per falso e abuso d'ufficio nell'ambito della nomina del fratello di Raffaele Marra, ex capo del personale del Campidoglio, poi arrestato) polverizza la verginità giudiziaria dei Cinque Stelle. Insomma: la prima cittadina della Capitale, di stretta osservanza grillina e dunque ayatollah del giustizialismo, avrebbe assunto il fratello del suo chiacchieratissimo braccio destro. Ovviamente è tutto da verificare. Ma nel colorito vocabolario pentastellato tutto sarebbe già stato metodicamente etichettato: familismo, nepotismo, abuso di potere. Diciamolo: casta. E se ci mettessimo gli occhiali del grillismo e squadrassimo dall'alto al basso la bella sindaca, dovremmo - come minimo - chiedere le sue immediate dimissioni. Seguendo alla lettera l'ottusa e rigida disciplina del Movimento 5 Stelle. Per dire: Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo libro testamento - spennellava un mondo ideale nel quale i dipendenti infedeli della pubblica amministrazione venivano «esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città». E invece no. Questa volta no. I Cinque Stelle si sono accorti che il loro fondamentalismo manettaro è un boomerang che gli sta tornando dritto dritto sulla fronte. Ma il grillismo è un camaleonte che si adatta a ogni esigenza e quando il vento della giustizia gira a sua sfavore, impegna un attimo ad assumere le nuance del giustizialismo. Ben vengano, buon ultimi, dalle parti del dubbio. Se non fosse l'ennesima buffonata. Una commedia degli equivoci nella quale tutti fingono di non sapere. La Raggi si finge stupita della convocazione in procura, quando oramai era chiaro a tutti dove sarebbero andati a parare i giudici. Pure Grillo fa il pesce in barile. Anche se proprio lui, con un anticipo da indovino, si era già affrettato a fare una conversione a U da ritiro immediato della patente di circolazione politica, sostenendo che non è necessario dimettersi di fronte a un avviso di garanzia. Ma l'effetto domino di questa commedia degli equivoci è travolgente e scivola in metamorfosi esilaranti. L'ex premier Matteo Renzi, che non aspettava altro che poter inforchettare i grillini - intima ai suoi di essere garantisti e di non infierire sulla Caporetto giudiziaria dei seguaci del comico. Mai nella storia politica recente era stato sguainato tante volte lo scudo del garantismo e della - sacrosanta! - presunzione di innocenza. Persino Marco Travaglio, nel tentativo di rimanere in equilibrio tra giustizialismo e filo grillismo, si mette a parlare a denti stretti di presunzione di innocenza. Probabilmente provocandosi un eczema. Insomma la Raggi, per il momento, come sindaco non ha fatto un bel niente. Ma come politico ha già fatto un miracolo: trasformare grillini e soci in garantisti. Ora c'è da sperare che non dimentichi la lezione. E che magari inizi a governare la Capitale. Giudici nonostante.

M5s: le nomine di parenti, amici, amici degli amici. Anche i grillini in fatto di poltrone, non sono diversi dagli altri partiti. Ecco chi fa carriera. Alla faccia della trasparenza, scrive il 23 gennaio 2017 Antonio Rossitto su Panorama. "Tantissime persone vorrebbero collaborare con noi. E vi promettiamo che faremo del nostro meglio per scegliere persone adeguate all’obiettivo: lavoratori trasparenti, onesti e volenterosi, competenti e puliti" gongolava a marzo del 2013 l’allora capogruppo dei Cinque stelle alla Camera, Roberta Lombardi, di fronte ai 18 mila curriculum che avevano intasato la casella di posta elettronica del movimento. Scegliere i migliori. Rimarcare la diversità dai partiti tradizionali. Quelli con le segreterie politiche piene di amici e amici degli amici. Non è andata così. La rivoluzione pentastellata è rimasta lessicale: portavoce al posto di onorevoli, collaboratori invece che portaborse, cittadini e non galoppini. Ma le logiche di reclutamento in molti casi non sono state dissimili da quelle vituperate. Sodali, parenti, attivisti. Dai palazzi di Bruxelles a quelli romani, passando per le assemblee regionali e i consigli comunali e di quartiere, l’ormai mitologica trasparenza grillina è spesso rimasta solo uno slogan. Come a Roma, dove lo scorso giugno è stata eletta Virginia Raggi. Le ultime polemiche sono divampate qualche giorno prima di Natale per la nomina di Alessandra Manzin, assunta da Linda Meleo, assessore ai Trasporti. Manzin è fidanzata con Dario Adamo, assistente di Rocco Casalino, influente capo della comunicazione dei Cinque stelle in Senato. Simile solfa nelle care, vecchie, circoscrizioni. Il caso più dibattuto è quello di Giovanna Tadonio, moglie di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale di Roma, vicinissimo a Roberta Lombardi. Tadonio è diventata assessore al Personale nel Municipio III. Mario Podeschi, assistente alla comunicazione del deputato Enrico Baroni, è stato nominato vice presidente del Quinto. Veronica Mammì, fidanzata del consigliere comunale Enrico Stefano e già assistente della parlamentare grillina Federica Daga, è diventata assessore alle Politiche sociali nel Settimo. Nell’Undicesimo, la delega all’Ambiente e ai Lavori pubblici è andata a Giacomo Giujusa, consulente dell’onorevole Stefano Vignaroli, compagno della verace senatrice Paola Taverna. Nel Municipio VIII divampano, invece, i caminetti familiari. In consiglio siedono Teresa Leonardi ed Eleonora Chisena: madre e figlia. Sugli stessi banchi ci sono i Morazzano: Giuseppe è il capofamiglia, Luca è il rampollo. Da Roma, i venti del rinnovamento sono arrivati pure a Genzano, a una ventina di chilometri dalla capitale, dove i Cinque stelle hanno trionfato lo scorso giugno. Il nuovo sindaco è Daniele Lorenzon. Che, appena insediato, fa un contratto di collaborazione a Daniela Gabriele, nipote della senatrice Elena Fattori. La replica è perentoria: "Non è una parente in quanto nipote del marito, ergo un’affine". Intimissima è invece Daniela Fattori, sorella della succitata parlamentare pentastellata, eletta in consiglio comunale. Dove siedono anche Elena Mercuri e Luigi Nasoni: moglie e marito. Del resto, però, il M5s è da sempre un affare di famiglia. A partire dai vertici. Davide Casaleggio, dopo la morte del padre Gianroberto, ha preso in mano le redini. Lo stesso leader carismatico, Beppe Grillo, ha creato l’Associazione movimento cinque stelle, che controlla il partito, seguendo uguali logiche. Presidente è il comico. Suo vice è il nipote: il brillante avvocato Enrico Grillo. Segretario è il suo commercialista Enrico Maria Nadasi. Che, poco più di un anno fa è stato nominato nel cda della Filse, la finanziaria della regione Liguria, su indicazione dei Cinque stelle. Dunque: Grillo, il nipote e il commercialista detengono blog e associazione. Il cui scopo è quello di determinare la politica nazionale "attraverso la presentazione alle elezioni di candidati e liste indicati secondo le procedure di diretta partecipazione attuate attraverso la rete". È successo anche in Europa. Gli eletti erano 17. Ma, dopo il pasticcio del tentato passaggio nel gruppo dell’Alde, due onorevoli hanno abbandonato il M5s: Marco Affronte e Marco Zanni. Gli eurodeputati pentastellati sono dunque rimasti in 15. Ognuno dotato, salvo rare eccezioni, di un plotone ministeriale di assistenti. Come David Borrelli, contestato per aver perorato il mancato accordo con i liberali di Guy Verhofstadt. Tra assistenti accreditati e locali, prestatori di servizi, terzi erogatori e tirocinanti per l’onorevole vicinissimo a Casaleggio lavorano 12 persone. In totale, rivela il sito del Parlamento di Bruxelles, i 15 eurodeputati grillini hanno 103 collaboratori: una media di sette persone a testa. Così fan tutti del resto. Il blogger Claudio Messora, capo della comunicazione del movimento a Bruxelles fino al novembre 2014, spiega: "Ogni portavoce può spendere fino a 21 mila euro in contratti. E molti di loro, a dispetto dei proclami contro l’uso di fondi pubblici, li usano fino all’ultimo euro". Di certo, il numero degli assistenti è nutrito. Ex attivisti, candidati o dipendenti vengono recuperati e compensati con una poltroncina. L’eurodeputato Ignazio Corrao, già assistente all’Assemblea regionale siciliana, attivissimo e votatissimo, ha nel suo staff diversi volti noti del grillismo isolano. Come Giuseppe Lo Monaco, già in corsa alle regionali e fondatore dell’Associazione M5S Sicilia. Oppure Luigi Sunseri, militante dal 2010, candidato a sindaco di Termini Imerese, nel Palermitano, a luglio 2014. E anche Adriano Varrica: fondatore del meetup di Palermo, già collaboratore parlamentare, ha appena ritirato la sua candidatura dalle «comunarie» che sceglieranno il prossimo candidato sindaco del capoluogo siciliano. Nello staff dell’europarlamentare genovese Tiziana Beghin ha invece trovato spazio uno storico pentastellato: Simone Pennino. L’Espresso, a marzo del 2013, rivelò che il suo nome compariva accanto a quello di Walter Vezzoli, autista di Grillo, e della cognata del comico, Nadereh Tadjik, in una società estera che avrebbe dovuto costruire un "ecovillaggio" in Costarica. Le nomine di assistenti e collaboratori sono spesso avversate dalla stessa base. Spese ne ha fatto pure l’eurodeputato Marco Zullo. Le critiche per la scelta dei suoi collaboratori sono finite sul Messaggero Veneto per la scarsa pubblicità nelle selezioni. Del suo staff fa parte Andrea Busetto, ex collaboratore del Pdl e dell’Ncd. Poi Francesco Vanin, candidato senza successo alle regionali in Friuli-Venezia Giulia. E Alessandro Corazza, di Pordenone, già consigliere regionale dell’Italia dei Valori. Anche a Palazzo Madama e Montecitorio molte nomine sono state contestate. Giuseppe Rondelli è collaboratore della senatrice Vilma Moronese. Ed è pure il suo compagno. Un’altra pentastellata a Palazzo Madama, Barbara Lezzi, aveva assunto come portavoce Libera Zaminga, figlia del compagno. Le successive polemiche l’hanno però costretta alla retromarcia. La moglie del deputato Emanuele Cozzolino, Maria Grazia Sanginiti, è assessore all’Ecologia a Mira, nel Veneziano, uno dei primi comuni a guida grillina. Anche qui, come a Roma e dintorni, in consiglio comunale siedono un marito e una moglie pentastellati: Allen Biasiotto ed Elisa Marchiori. In Parlamento, invece, le tribù familiari si sono progressivamente sfaldate. La senatrice Ivana Simeoni resta l’amorevole madre del deputato Cristian Iannuzzi. Solo che, espulsi dal movimento a gennaio del 2015 per le loro critiche a Grillo e Casaleggio, adesso sono iscritti al Misto. S’è trasferita nello stesso gruppo pure Cristina De Pietro, sorella di Stefano, consigliere comunale di Genova. Uguale percorso ha fatto Laura Bignami. A ruota, sono seguite le dimissioni del marito, Giampaolo Sablich, ex leader dei grillini in consiglio comunale a Busto Arsizio, nel Varesotto. Anche Giovanna Mangili, moglie di Walter Mio, capogruppo dei Cinque Stelle a Cesano Maderno, in Brianza, viene eletta in Senato. Ma le critiche al presunto attivismo del marito la spingono poi a rassegnare le dimissioni da Palazzo Madama. Alla Camera, invece, siede Azzurra Cancelleri, sorella di Giancarlo, deputato dell’Assemblea regionale siciliana, candidato governatore in pectore. Nell’isola, l’altro astro nascente è il sindaco di Ragusa: Federico Piccitto. Lo scorso settembre Grillo, durante il raduno nazionale dei Cinque stelle a Palermo, l’ha definito bravo come Chiara Appendino, pluridecorato primo cittadino di Torino. Eppure anche Piccitto è scivolato su presupposti favoritismi. A dicembre del 2015 s’è dimessa dalla sua giunta Stefania Campo, assessore alla Cultura. S’era scoperto che il marito era stato assunto da una cooperativa che gestisce l’acqua per conto del Comune. Il programma di Piccitto, come da manuale pentastellato, prometteva: partecipazione al solito bando telematico e assessori scelti in base al curriculum. Ma, eletto a giugno 2013, dopo meno di un anno il sindaco manda a casa tre dei sei selezionati. E, come nuovo assessore al nevralgico Ambiente, chiama Antonio Zanotto, già in corsa nel M5S alle ultime Europee. Prima del Natale del 2016, l’ultima disputa: alla Ragioneria del comune viene chiamata Giuliana Raniolo, attuale assessore al Bilancio di Grammichele, nel Catanese, quaranta chilometri a nord: un altro comune amministrato dai grillini. E poi c’è Antonio Calogero Bevilacqua, 28 anni: occhialini da intellettuale, volto pulito e modi garbati. Candidato dal M5s, a giugno del 2015 è eletto sindaco di Pietraperzia, in provincia di Enna. "In famiglia leggiamo quattro quotidiani al giorno" spiegò in un’intervista alla Sicilia. Ed eccola, la famiglia. Il nonno, Calogero, già sindaco del paesino. Il padre, Salvatore, ex presidente del consiglio provinciale di Enna. Il fratello, Filippo, consigliere comunale dei Cinque stelle. Li chiamano già i Kennedy di Pietraperzia.

LE SVOLTE DI GRILLO.

Lo strano rapporto M5S-banche dalle finte guerre alle nomine. Dopo l'incontro confermato con Widiba (100% Mps), i grillini fanno le prove generali con San Paolo a Torino, scrive Giampiero Timossi, Mercoledì 04/01/2017, su "Il Giornale". Tutte le banche dei Cinque Stelle. Sognate, ereditate, annusate e usate, comunque. Ieri Beppe Grillo ha confermato l'incontro di fine anno tra Davide Casaleggio e Andrea Cardamone, amministratore delegato di Widiba, la banca online di Mps, il Monte dei Paschi di Siena. Il leader pentastellato ha scritto sul suo blog: «Una falsità totale, che stravolge un fatto vero». Infatti l'incontro c'è stato ed è confermato da quanto scritto su beppegrillo.it, dove viene spiegato (testualmente) anche «il fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l'ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l'innovazione tecnologica, utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sulla Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative». Perfetto, così trapela anche la verità grillina sul possibile argomento dell'incontro. Certo, poi il comico fa il proprio mestiere, difende la creatura e «propone una giuria popolare per le balle dei media», attaccando notizie che lui stesso definisce «un fatto vero». Il post difende l'operato del figlio di Gianroberto Casaleggio, ma tralascia di scrivere che l'appuntamento milanese di fine dicembre era stato fissato con l'ad di una banca online controllata al 100% da Monte dei Paschi. La stessa banca che, sempre sul suo blog, Grillo definiva «banca di riferimento del mondo della sinistra». Era il 16 settembre 2015. Un altro fatto vero. Come è vero che il salvataggio di Mps costerà 8,8 miliardi di euro, dei quali 6,6 a carico dello Stato e quindi di tutti i contribuenti italiani. Non solo banche annusate, incontrare e accettate da anni come inserzionisti pubblicitari sul sito del leader. Ci sono, certo, le banche ereditate. Siena la «rossa» era la città del Monte? Torino la «grillina» è la città di Intesa San Paolo, la prima banca italiana, e della sua fondazione, la Compagnia di San Paolo. Ed è la stessa città della Fondazione Crt, azionista di Unicredit: il comune nomina due consiglieri in Compagnia di San Paolo e tre nella Fondazione Crt: è in questa città che nasce in maniera diretta il rapporto tra banche e Movimento Cinque Stelle. A giugno, appena insediata, la sindaca Chiara Appendino aveva chiesto le dimissioni del presidente Francesco Profumo, nominato nel consiglio generale insieme a Barbara Graffino. Erano i due nomi indicati dall'ex sindaco Piero Fassino. «Dimettermi, non ci penso neppure», aveva risposto Profumo. La ragionevolezza e il senso civico della sindaca pare abbiano fatto scoppiare la pace. E intanto, in estate, è arrivata la prima nomina grillina nella Compagnia. La regola dice che il presidente eletto decade dalla carica sottostante? Bene, Profumo liberava dunque un posto in consiglio generale. Dove Appendino ha indicato la ricercatrice universitaria Valeria Cappellato. Selezionata in base «al curriculum», dissero in Comune. Curriculum che al momento non è presente sul sito della Compagnia di San Paolo, ma non è certo colpa del sindaco. Appendino che, probabilmente, dovrà aspettare altri quattro anni per vedere il nome del suo candidato alla presidenza della Fondazione. Perché una regola «non scritta», una sabauda consuetudine, vuole che il vertice della piramide si scelga tra i candidati indicati da sindaca o sindaco. A Torino ci aveva già pensato Fassino, anche per questo esplose il caso-Profumo, poi sistemato. Ed eccoci alle banche sognate. E qui basta prendere un grillino qualsiasi e chiedergli quale modello di banca sogna per un mondo migliore. La risposta? Una sola, comprensibile: «La Grameen Bank, invenzione dell'economista bengalese Muhammad Yumus, Nobel per la Pace nel 2006, il padre del microcredito alle imprese». Ecco, questa è la linea ideale, la suprema simpatia ideologica, il migliore dei modelli da seguire. La banca sognata, diversa dalla Widiba annusata e pure da quelle ereditate. 

Un avviso di garanzia non è grave. La svolta di Grillo, scrive "Il Dubbio" il 2 gennaio 2017. Dopo il “caso Roma” Beppe Grillo corre ai ripari e vara un nuovo «Codice di comportamento del MoVimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie». Un avviso di garanzia non è più un fatto grave. Città che vai inchiesta che trovi. Beppe Grillo corre ai ripari e vara un nuovo «Codice di comportamento del MoVimento 5 Stelle in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie». Il “caso Roma” ha cambiato geneticamente il M5s che per la prima volta si è trovato addosso gli occhi di tutti, magistrati compresi. E dall’onestà senza “se e senza ma”, i grillini hanno scelto di cambiare strada, facendo alcuni distinguo e precisazioni. Il nuovo regolamento etico – che domani sarà votato on line da tutti gli iscritti – è apparso oggi sul Blog del comico genovese e si articola in sei punti. La novità più rilevante riguarda la «presunzione di gravità». Il Garante del Movimento e il collegio dei probiviri «valutano la gravità dei comportamenti tenuti dai portavoce, a prescindere dall’esistenza di un procedimento penale», si legge sul Blog. «È considerata grave ed incompatibile con il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del MoVimento 5 Stelle la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo». Sono inoltre equiparati a una condanna «la sentenza di patteggiamento, il decreto penale di condanna divenuto irrevocabile e l’estinzione del reato per prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio». Fin qui sembrerebbe tutto in sintonia con la vecchia retorica grillina della purezza. Ma nel codice vengono anche inseriti principi vagamente garantisti che mettono al riparo il Movimento da eventuali sorprese romane. «La ricezione, da parte del portavoce, di “informazioni di garanzia” o di un “avviso di conclusione delle indagini” non comporta alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti potenzialmente tenuti dal portavoce stesso», prosegue il testo. Qualora arrivasse un avviso di garanzia sarebbe sufficiente avvisare per tempo «e senza indugio il gestore del sito». In ogni caso, il portavoce può decidere, a tutela dell’immagine del M5s, «di auto-sospendersi dal MoVimento 5 Stelle senza che ciò implichi di per sé alcuna ammissione di colpa o di responsabilità».

L’ultima parola resterà sempre a lui: il Garante, Beppe Grillo. L’unico col potere di decidere il destino di ogni singolo iscritto, scrive Rocco Vazzana il 3 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Adesso Grillo può candidarsi. Col nuovo codice M5s sarà incompatibile con le cariche elettive solo chi è stato condannato «per qualsiasi reato commesso con dolo». Adesso Beppe Grillo potrebbe anche candidarsi a Palazzo Chigi. Il nuovo “Codice di comportamento”, infatti, non introduce solo novità che mettono al riparo la Giunta Raggi da eventuali sorprese giudiziarie. A leggere bene le nuove regole spunta un dettaglio che potrebbe essere il grimaldello per consentire al comico genovese di scendere in campo in prima persona alle prossime Politiche. Fino a ieri, infatti, era considerato incompatibile con un carica elettiva per il M5s chiunque avesse riportato una condanna penale, col nuovo codice lo sarà solo chi è stato condannato «per qualsiasi reato commesso con dolo». L’aggiunta del dolo non è una questione di lana caprina. Grillo si è sempre auto dichiarato incandidabile per una sentenza a suo carico passata in giudicato nel 1988: omicidio colposo. La vicenda è nota. Nel dicembre del 1981 il comico è a bordo della sua Chevrolet insieme a una coppia di amici e al loro figlio di nove anni. È pomeriggio e lungo i tornanti che si arrampicano sul Colle di Tenda, in provincia di Cuneo, l’asfalto è scivoloso. Grillo è alla guida dell’auto quando passa sopra a un lastrone di ghiaccio che fa schizzare il mezzo fuori strada e lo fa precipitare in un burrone. Il conducente si salva gettandosi dall’abitacolo, muoiono tre passeggeri: i coniugi Renzo Giberti e Rossana Quartapelle, e il loro bimbo di nove anni. Per una casualità a bordo non c’è Cristina, la seconda figlia della coppia, che ha scelto di rimanere a casa di un’amica per vedere un cartone animato. Sarà lei, nel 2013, ad accusare il comico di insensibilità per non averla mai cercata: «Non ho mai avuto occasione di sentirmi raccontare come sono andate le cose direttamente da lui, l’unico che possa davvero farlo. Mi conosceva bene, era amico dei miei, frequentava la nostra casa: come è possibile che in tutti questi anni non abbia mai sentito l’esigenza di vedermi, di chiedermi scusa, almeno di telefonare ai miei genitori adottivi per sapere come stavo?», racconterà a Vanity Fair Cristina Giberti. Per quell’incidente Grillo venne condannato in via definitiva a un anno e due mesi di reclusione – per omicidio colposo – col beneficio della condizionale. Una tragedia che il capo del Movimento ha spesso ricordato per spiegare le motivazioni della sua incompatibilità con incarichi elettivi. Ma adesso che il nuovo regolamento inserisce la discriminante solo per i reati commessi con dolo, l’autocensura potrebbe venir meno. Il Garante sarebbe libero di giocarsi la carta elettorale qualora dovessero continuare le guerre più o meno dichiarate tra i big del suo partito. Perché la “questione romana” ha messo in seria difficoltà il Movimento 5 stelle. Luigi Di Maio, il candidato designato, ha perso appeal soprattutto tra gli iscritti. I parlamentari non gli hanno perdonato la gestione “omertosa” del “caso Raggi” e faranno di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote. A costo di sostenere Roberto Fico, presidente della Vigilanza Rai, già in campo per la corsa più ambita: la candidatura alla premiership. A meno che nella bagarre non si inserisca anche Alessandro Di Battista, il volto più telegenico del Movimento. Grillo potrebbe decidere di mettere tutti a tacere, evitando inutili “spargimenti di sangue”. IL GARANTE POTREBBE SCENDERE IN CAMPO PER PORRE FINE ALLE LOTTE INTERNE AL SUO PARTITO E PUNTARE A PALAZZO CHIGI

Giustizia, ci sono giudici che scrivono l'opposto di quanto c'è negli atti. In alcuni procedimenti i giudici hanno scritto in ordinanze di archiviazione o di condanna motivazioni non rispondenti ai verbali. Il caso Yara, scrive Carlo Carpi, Giovedì, 19 luglio 2018, su "Affari Italiani". Negli ultimi mesi in maniera disordinata, casuale ma altrettanto allarmante per un pubblico televisivo dall’occhio attento si sono diramate nei principali programmi di intrattenimento notizie secondo le quali in procedimenti giudiziari di importanza nazionale e pertanto oggetto di grande attenzione massmediatica i giudici abbiano scritto in ordinanze di archiviazione o ancora peggio in sentenze di condanna motivazioni non rispondenti ai verbali di Polizia Giudiziaria o addirittura in esplicito contrasto con essi. Ebbene si sa che nelle aule di giustizia non sempre le parti in causa riescano a far emergere la verità nel senso astratto del termine, ma non può e soprattutto non deve passare sotto silenzio il fatto che dei giudici di questa Repubblica democratica seduti comodamente nelle proprie poltrone e con tutto il tempo necessario ai fini di una valutazione attenta degli atti possano permettersi l’arbitrio di scrivere esattamente il contrario di quanto emerge dai verbali di indagine e di udienza e a maggior ragione lungo tutti i tre gradi di giudizio a meno che questi non vengano sconfessati da ulteriori indagini e approfondimenti che comunque dovrebbero per lo meno risultare negli atti stessi del giudizio o di procedimenti penali a carico di quegli ufficiali di P.G. per i reati di falso e abuso di ufficio. Come non ricordare la puntata del programma “le Iene” andato in onda il 5 Novembre 2017 su Italia 1 dove si evidenziò come nell’ordinanza di archiviazione del GIP del Tribunale di Siena in merito al presunto suicidio di David Rossi, responsabile relazioni esterne del Monte dei Paschi di Siena, veniva indicata come sentita in atti la segretaria del Presidente Massari, l’ultima persona ad incontrare il manager volato dalla finestra del suo ufficio come mostrato dalle telecamere di sorveglianza, e di come dalla sua testimonianza non emergessero fatti di particolare interesse. Ebbene gli inviati delle Iene, dopo aver mostrato copia dell’ordinanza in diretta, in presenza della figlia del Rossi, dimostrarono come in realtà la donna indicata dal GIP quale teste non venne mai chiamata a testimoniare e che quindi negli atti citati non poteva esserci traccia di tali verbali. E ancora il 10 Dicembre 2017 scorso su Quarto Grado, trasmissione Mediaset specializzata nella cronaca giudiziaria, a proposito del caso Bossetti si diede spazio alle dichiarazioni del legale difensore dell’imputato secondo il quale la Corte di Appello di Brescia confermando la condanna di primo grado per omicidio della piccola Yara avrebbe scritto in sentenza che “la difesa quanto l’accusa concorda che Guarinoni sia il padre naturale di Bossetti”, aspetto che la difesa ha smentito tassativamente essere presente in atti. Non di minore rilevanza l’editoriale del giornalista indipendente Marco Delpino trasmesso il 6 Febbraio scorso su STV, emittente ligure, e successivamente condiviso su Facebook con migliaia di visualizzazioni, all’attenzione del quale vennero indirizzate segnalazioni di molti altri procedimenti penali, forse meno eclatanti per il grande pubblico, ma sicuramente significativi per le persone che ne sono state protagoniste, con tanto di ordinanze e di sentenze riconducibili ai Tribunali di Genova, Milano e Brescia con motivazione in palese contrasto, anche nel senso letterale del termine, con le risultanze dei verbali di udienza e di P.G. Siamo di fronte a delle sentenze scritte con motivazione esplicitamente falsa? Oppure scegliamo una linea più garantista concedendo il beneficio della clamorosa svista? Una cosa è certa: nelle aule di giustizia quanto emerge non è assolutamente accettabile, soprattutto per i terribili effetti che tali errori commessi, a prescindere dal dolo o dalla colpa che sia, abbiano conseguenze nefaste sui condannati, in molti casi anche in stato di detenzione, sulle loro famiglie e più in generale sulla società civile ed economica nel suo complesso. Ma un aspetto che emerge ancora più violentemente dalle sentenze citate da Marco Delpino di come anche in Cassazione vi sia una sezione, nello specifico la VII°, che come mansione dovrebbe unicamente vagliare l’ammissibilità dei ricorsi proposti dagli imputati, ricordiamolo innocenti fino a sentenza passata in giudicato, che violando la procedura penale e i quadri tabellari del Consiglio Superiore della Magistratura e della stessa Cassazione, esprime condanne si sottolinea SENZA la presenza del legale difensore dell’imputato, in quanto camere di consiglio non partecipate, e SENZA MOTIVAZIONE. In altri casi come dalla documentazione sopra citata si evince come anche altre sezioni della Suprema Corte abbiano espresso sentenze di condanna senza uno stralcio di motivazione e questo in manifesto contrasto con quanto espresso dal Codice di Procedura Penale, dalla Costituzione e dalla Carte dei Diritti dell’Uomo secondo le quali nessun uomo può essere condannato senza motivazione, senza la presenza di un legale difensore e per delle ipotesi di reato non punibili secondo la Legge oppure in analogia ai casi giudiziari trattati dalla Corte di Appello di Genova, Milano e Brescia con motivazione letteralmente contraria agli atti citati. L’Italia è ancora la patria del Diritto? E ancora, visto che si predica la doverosa ospitalità ai rifugiati politici e a coloro che scappano dalle persecuzioni, siamo un Paese che può vantarsi in quanto asseritamente Civile di dare il buon esempio a quelli che vengono bollati come incivili e inumani?

La svolta di Grillo: «Aboliamo il carcere!» «La pena non è mai stata la risposta adeguata al crimine, anzi finisce per fabbricarlo», scrive il 14 luglio 2018 "Il Dubbio". 

IL POST DEL FONDATORE DEL MOVIMENTO CINQUE STELLE. "L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone parla chiaro, dalla fine del 2015 ad oggi il numero dei detenuti in Italia è cresciuto davvero tanto, ben 6.098 in più. Il sovraffollamento è pari al 115,2%. (…) Rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla. (…) Le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. (…) Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. (…) La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. (…) La cosa importante (…) sarebbe cercare misure alternative al carcere. (…) Il sistema punitivo che stiamo adottando è antico come il mondo, ma soprattutto non funziona. Non funziona e mi pare che sia sotto gli occhi di tutti. Senza fare molta retorica, mi pare che si rubi, si stupri e si uccida ancora. Sono passati millenni, faraoni, re e interi imperi sono scomparsi, eppure in fondo in fondo parliamo sempre delle stesse cose. Diamo qualche numero. L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone parla chiaro, dalla fine del 2015 ad oggi il numero dei detenuti in Italia è cresciuto davvero tanto, ben 6.098 in più. Il sovraffollamento è pari al 115,2%. Inoltre molte sezioni di molti carceri non vengono utilizzate. Ma il vero problema è un altro, sono i recidivi. Ad oggi sono un numero incredibile. Su circa 58.000 detenuti, solo il 37% non avevano mai commesso altri crimini, per il restante 63% le mura dello Stato erano già note, addirittura il 13% di loro (più di 7000 persone) avevano dalle 5 alle 9 precedenti carcerazioni. Di tutti i detenuti, circa il 35% sono in custodia cautelare. Cioè quasi 20.000 persone. Aumentano anche quelli che vengono arrestati preventivamente ed è ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Oggi sono più di 10.000 persone. Sono numeri incredibili, allarmanti. Inoltre rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla e non capisco quali risultati dovrebbe por- tare. Oggi è chiaro. Se non fosse chiaro abbiamo i dati a dircelo. È chiaro che servono mezzi alternativi. E non sono l’unico che sta cercando di far capire che il sistema non va così come è costruito. Nils Christie è un criminologo norvegese e ha dedicato gran parte del suo impegno accademico a far emergere le distorsioni del sistema penitenziario. Sono pienamente d’accordo con lui quando dice che le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. Per prima cosa dobbiamo domandarci quale significato ha il crimine, dobbiamo capire che tipo di fenomeno è. Ma la domanda più scomoda è un’altra. Il crimine esiste? Sicuramente esistono degli atti disumani, nessuno lo mette in dubbio, ma se analizziamo bene cosa intendiamo per crimine scopriamo che c’è dell’altro. Per esempio proprio Nils Christie negli anni ’ 50 compie una ricerca sulle guardie dei campi di concentramento norvegesi. Quegli uomini che sotto l’occupazione nazista stavano facendo il loro dovere, qualche giorno dopo diventano dei criminali. Ma come percepivano, quelle guardie, le loro azioni? Come consideravano i propri atti mentre li compivano? Erano crimini, secondo loro? La risposta è no. Il crimine è difficile da definire esattamente. Non è qualcosa che esiste in natura, qualcosa di dato, finito, di certo. È qualcosa che esiste nelle nostre menti e con il tempo cambia assumendo nuove forme e colori. Dobbiamo capire che lo stato delle nostre prigioni non solo è il prodotto del crimine, ma dello stato generale della cultura di un paese. Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. Come il Canada che con il welfare ha dimostrato come sia possibile limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale. Quindi in questa prospettiva, la soluzione penale diventa una delle possibilità, non più la sola. La punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. La prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui. La cosa importante nella politica carceraria di un qualsiasi paese civile sarebbe cercare misure alternative al carcere e molto spesso questo significa accompagnarli verso uno standard di vita accettabile: provare a cercare un’abitazione, cercare alternative nei periodi di disoccupazione, rieducare, reintegrare, far sì che si possa ricreare una vita. Per davvero". DAL BLOG DI BEPPE GRILLO

Ingroia: «Condivido anch’io, spero sia la svolta per il M5s e il Paese». L’ex pm Antonio Ingroia: «Beppe non finisce mai di stupire, ma io la penso come lui. La cella è criminogena e ci finiscono solo gli emarginati», scriv e Errico Novi il 14 luglio 2018 su "Il Dubbio". Sorpresa doppia. «Saluto positivamente le parole di Grillo. Beppe non finisce mai di sorprendere, ma spero possa indurre una svolta positiva per il Paese nel dibattito sul carcere». Anche Antonio Ingroia sogna un mondo senza detenuti, o spera quanto meno in un maggiore ricorso alle misure alternative? «Sarà sorpreso lei, io queste cose le penso da sempre».

Mi scusi, avvocato Ingroia, lei ha alle spalle un’attività da pubblico ministero implacabile: è davvero contro la detenzione?

«In un mondo ideale non dovrebbe esserci il carcere. Non dovrebbero esserci neppure i reati, in realtà. Ma certo quanto dice Grillo a proposito della percentuale di recidiva per chi sconta periodi di reclusione dovrebbe far riflettere: la soluzione afflittiva è fallimentare, si dovrebbe lasciare più spazio alle misure alternative. Soprattutto, ci si dovrebbe ricordare che la stragrande maggioranza di chi commette reati proviene da condizioni di disagio e che la detenzione non è certo la cura di tali marginalità. Le malattie sociali, con la pena detentiva, si incancreniscono e rendono probabile appunto che la persona, in carcere, ci finisca di nuovo. Solo, vorrei ci si ricordasse di una distinzione».

Quale sarebbe?

«Da una parte c’è la tendenza a commettere reati determinata dal disagio, dall’altra non si deve per questo abbassare la guardia e concedere l’impunità né di fronte a quelle parti delle classi dirigenti che si rendono responsabili di comportamenti gravi, né ovviamente dinanzi al fenomeno mafioso, la forma più pericolosa di criminalità che ci troviamo a dover fronteggiare in Italia. Ma da noi la percentuale di corrotti e di mafiosi, negli istituti di pena, è bassissima…»

Il carcere è criminogeno?

«Sì. Proprio in virtù di quell’aggravarsi della marginalizzazione di cui ho appena detto.

Grillo vuole superare il carcere. Ingroia pure. Non è che l’idea di fermare la riforma Orlando perché l’opinione pubblica l’avrebbe maldigerita è senza fondamento? Che insomma gli italiani vogliono più misure alternative?

«Difficile dirlo. L’opinione pubblica oscilla, in simili valutazioni, a seconda dell’impatto emotivo suscitato dai fatti d cronaca. Ma è anche vero che un ruolo negativo è spesso svolto dall’informazione, che segnala con eccessiva enfasi i rari casi di persone evase dai domiciliari o dal regimi di semilibertà. Se questi temi venissero affrontati con più serietà anche dai media, l’atteggiamento generale dei cittadini sarebbe più sereno. Ci sarebbero posizioni meno esasperate. Ma da anni nel nostro Paese ogni dibattito è sopra le righe».

Grillo farà cambiare idea al M5s sulla riforma, riuscirà a sbloccarla?

«Va intanto salutata positivamente la sua uscita, che mette in primo piano principi e esigenze a cui si dovrebbe guardare sempre. Certo, un mondo senza carcere è appunto ideale. Ma sugli ideali bisogna sempre tener fisso lo sguardo, in modo che il nostro agire reale possa andare nella giusta direzione. Il carcere è di certo un luogo poco umano. Ripeto: da un messaggio così significativo non si deve trarre la possibilità di un attenuarsi della risposta a condotte criminali per nulla legate al disagio o alla marginalità. Ma io confido che le parole di Beppe Grillo possano stimolare un dibattito positivo, non solo nei cinquestelle e nella maggioranza ma in tutto il Paese».

Benvenuto tra i garantisti, caro Beppe, scrive Piero Sansonetti il 3 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Si può leggere in due modi diversi la svolta di Beppe Grillo. Il primo, banale, è quello di immaginare che sia uno dei tanti esempi di garantismo/ forcaiolismo a giorni alterni. Ci siamo abituati: è una schizofrenia che abita in quasi tutti i partiti. Grande rigore con gli avversari, grande rispetto per il diritto con gli amici. In questa disciplina le persone più diverse (per esempio Orfini e Travaglio, per fare due nomi) sono identiche. Oppure potrebbe essere l’inizio di una svolta vera. E allora sarebbe una cosa molto bella e saremo felici di dare a Grillo il benvenuto nella casa (al momento piccolissima) dei garantisti/ garantisti, quelli cioè che pensano che il Diritto sia molto più importante del Sospetto, sempre, sempre, e che l’uso della magistratura per fare lotta politica sia una pessima abitudine. Appena qualche mese fa un tipo come Di Maio, cioè il volto perbene dei Cinque Stelle, non si stancava di gridare che la presunzione di innocenza non vale per il mondo politico. Tutti colpevoli, ripeteva a ogni talk show. Teoria- Davigo. Ora il capo dei Cinque Stelle modifica radicalmente la posizione di Di Maio. Caro Grillo, ti aspettavamo: benvenuto tra i garantisti…La presa di posizione di Grillo contro il “linciaggi facili”, da tutti interpretata come una mossa Salva- Raggi, forse viene un po’ più da lontano. Provo a mettere in successione le ultimissime mosse (natalizie) del leader Cinque Stelle. La prima, subito dopo l’attentato di Berlino, è la richiesta di espulsione dell’Italia dei clandestini. La seconda, nella notte di Natale, è quella di pubblicare nel suo blog un vecchio articolo dello scrittore Goffredo Parise a mo’ di manifesto ideologico del movimento. Era uno scritto a favore della povertà, nel quale si abbozzava un programma politico “antisviluppista” ed egualitario verso il basso. La teoria della decrescita, per capirci, con qualche influenza del primo- Berlinguer. Ora qui non si tratta di pesare la validità di quel programma. Né di giudicare la linea anti- immigrati (di sapore leghista). Semplicemente bisogna prendere atto del fatto che inizia a delinearsi un programma. Finora i Cinque Stelle erano rimasti molto vaghi su questo terreno, ci avevano dato l’impressione di ritenere il programma politico un aspetto secondario della loro identità. Terza mossa di Grillo, insorgere (sia direttamente, sia attraverso il suo giornale, cioè “Il Fatto”) contro l’ipotesi di regole che limitino la cosiddetta “post- verità”. Voi sapete che “post- verità” è un nuovo termine della politologia e vuol dire “bufala”. Cioè menzogna, falsità. Il capo dell’Antitrust italiano aveva accennato alla possibilità di nuove regole per limitare le bufale, prendendosela soprattutto con il gran numero di balle o di leggende metropolitane diffuse attraverso il web, e che costituiscono, oggettivamente, una limitazione o addirittura una distorsione della conoscenza. Per spiegarci meglio con degli esempi, in questi giorni gira sul web l’idea che la colpa della meningite sia l’eccessivo numero di immigrati (ma la meningite esiste in Italia da secoli, e non ha niente a che fare con i rifugiati). All’iniziativa del presidente dell’antitrust si erano affiancati, seppure in modo diplomatico, sia il presidente del Consiglio, sia il Presidente della Repubblica che nel discorso di fine anno ha polemizzato con la lotta politica fondata sull’odio e sulla menzogna. Grillo (con l’appoggio di Travaglio) è insorto contro la minaccia di limitare la libertà assoluta del Web. Ha parlato di “Santa Inquisizione”. Avrebbe potuto parlare, per esempio, di minculpop (il ministero della Cultura che nel regime fascista aveva il potere di censura sulle idee e sulle informazioni) ma invece ha fatto riferimento all’inquisizione, cioè a un tribunale. Non so se è un caso. Infine la quarta mossa, ieri, che demolisce i principi giustizialisti che sin qui sono stati i pilastri del grillismo, e oggettivamente mette in discussione il diritto della magistratura di intromettersi nella politica. E diciamo pure che – in modo certamente più mediato – mette un po’ la sordina al grido di battaglia del movimento: “Onestà, onestà”. Non è che Grillo con la sua svolta antigiustizialista inviti alla disonestà, chiaro, ma rende evidente che non può essere il richiamo all’onestà l’unica bandiera – l’unico valore – del movimento. Queste quattro mosse sono lo scheletro di una nuova strategia? A me sembra di sì. E la messa a punto di questa strategia mi pare che abbia molto a che fare con la vittoria di Grillo al referendum e con la fine della fase rampante del renzismo. Il referendum ha messo una pietra sopra l’ipotesi di una democrazia maggioritaria e presidenzialista. Che era l’obiettivo di Renzi. Non conta molto se questo sia un bene o un male. E’ la realtà. Gli italiani hanno deciso che comunque si torna a una democrazia fortemente parlamentarista, non decisionista, e che anteponga il valore della rappresentatività a quello della governabilità. E questo vuol dire che nessuno vincerà le elezioni in modo netto, e che in Parlamento bisognerà costruire alleanze tra diversi, sia per governare sia per fare opposizione. Non si vince tutto alla mano elettorale, né si perde tutto. Si torna un po’ ai meccanismi della prima Repubblica e questo vuol dire che cambia il modo, cambiano i mezzi, cambia persino l’immaginario della lotta politica. Grillo vuole entrare in questa lotta politica? Probabilmente sì. E per questo prepara la svolta politica nel movimento. Se di questa svolta farà parte la fine del giustizialismo noi non lo sappiamo. Però sarebbe una bella notizia.

Il vizio del giustizialismo per gli avversari. Tutti gli attacchi di un forcaiolo doc. Da Berlusconi e Lupi, l'ex comico ha sempre chiesto processi, manette e gogna, scrive Fabrizio Boschi, Mercoledì 04/01/2017 su "Il Giornale". Indulgente con i suoi. Forcaiolo con gli altri. Il garantismo grillino, ripiego al quale, negli ultimi tempi, si sono aggrappati i discepoli della setta M5s, adatto a giustificare le infrazioni e le tante incompetenze commesse dai loro sindaci e parlamentari, è bello che finito. Si è tornati nella vecchia e cara fase forcaiola e giustizialista che più si addice al Karma cinquestelle. Nel 2012 l'attuale governatore della Lombardia, Roberto Maroni, appartenente a quella Lega Nord che mostrò un cappio in Parlamento, etichettò quella di Grillo come «una forma di lotta politica violenta e forcaiola». Forse aveva ragione. Da allora Beppe non smise più di chiedere dimissioni, galera e manette per i suoi avversari, anche se solo indagati. Giulia Grillo, altra esaltata, nel 2013 si scagliava contro Silvio Berlusconi: «È inaccettabile che un condannato per via definitiva continui a condizionare le sorti economiche del nostro Paese solo al fine di evitare l'esecuzione di una sentenza di condanna». Il garantismo è svanito da quando anche loro hanno scoperto che rispettare le regole nelle città che governano non è facile. Fa più comodo invocare la forca. Il vizietto dei grillini è sempre stato lo stesso: forcaioli con gli altri e garantisti con se stessi. L'ex ministro Maurizio Lupi fu crocifisso dai Cinque Stelle senza essere indagato, per lo scandalo del Rolex ottenuto in regalo da una persona coinvolta nell'inchiesta sulle tangenti per le grandi opere. I grillini lo attaccarono violentemente in aula, chiedendone le dimissioni. E le ottennero. Dimissioni che invocarono anche per il ministro Angelino Alfano, quando saltò fuori la storia del fratello assunto in una società delle Poste, e per la ex ministra Maria Elena Boschi per lo scandalo di Banca Etruria che coinvolge il babbo. In questi due casi senza ottenere successo però. La colla che usano per le loro poltrone è Super Attak. Nel settembre 2015, Beppe Grillo dall'alto del suo blog sognava «un Paese autoritario, illiberale e forcaiolo», «un partito unico, al 96%, senza opposizione dove ogni idea diversa è considerata inutile e dannosa». Nel mondo a cinquestelle il primo grado di giudizio sarà definitivo. «Abbiamo abolito la prescrizione», delirava. Luigi Di Maio l'intransigente, sempre nel 2015, rincarava la dose: «Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare». E questo vale per tutti tranne che per loro. I casi del doppiopesismo grillino si sprecano. Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, finita nell'inchiesta sui condizionamenti della camorra alle elezioni, venne difesa a spada tratta. Quando a finire nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta fu il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin, i pentastellati si spellarono le mani. Lo stesso per la fiducia accordata a Virginia Raggi combina-guai. «Onestà! Onestà!». Come scrive Spinoza: «Grillo propone sul blog una giuria popolare per valutare le bufale. Le migliori finiranno dritte in homepage».

Tutte le vicende giudiziarie del Movimento5Stelle. Da Parma a Quarto, da Livorno a Palermo fino a Roma. I guai degli esponenti grillini e i diversi pesi e misure di Beppe Grillo, scrive il 3 gennaio 2017 Panorama.  

Parma, Quarto, Livorno, Palermo, Roma. Sono queste le cinque città in cui il Movimento5Stelle durante il 2016 ha dovuto avere a che fare con propri rappresentanti interessati direttamente o indirettamente in indagini giudiziarie. Ecco quali sono tutte le inchieste che li vedono coinvolti e quali provvedimenti (diversi ogni volta) sono stati presi dal Movimento.

PARMA - Federico Pizzarotti. Il sindaco Federico Pizzarotti a febbraio 2016 finisce indagato per abuso d'ufficio. Secondo la procura potrebbe aver commesso qualche scorrettezza nella nomina dei vertici del Teatro Regio di Parma. Ma il sindaco non avverte i vertici cinque stelle e per questo subisce l'onta della sospensione dal movimento: mancata trasparenza, l'accusa. Pizzarotti ribatte che l'avviso di garanzia si riferiva a un fatto di lievissima entità e che i cinque stelle non avevano stabilito alcuna regola di condotta. Ma Grillo è inflessibile. La telenovela finisce a ottobre: il sindaco lascia i cinque stelle sbattendo la porta. Poche settimane dopo la procura chiede l'archiviazione. Pizzarotti non è più indagato, ma per i cinque stelle è ormai out.

ROMA - La giunta Raggi. Il sindaco Virginia Raggi chiude l'anno con Raffaele Marra, capo del personale del comune e uomo di fiducia, in manette (accusato di corruzione) e l'assessora all'ambiente Paola Muraro, altra sua fedelissima, con un avviso di garanzia per violazioni ambientali e costretta a lasciare l'incarico. Da settimane gira lo spettro di un avviso di garanzia anche per Virginia Raggi (i magistrati vogliono vederci chiaro sulla nomina del fratello di Marra a direttore del dipartimento Turismo). Se dovesse arrivare si vedrà cosa intenderà fare Grillo di fronte a una giunta romana già travolta da non pochi scandali.

PALERMO - Mannino, Di Vita e Nuti. Nel capoluogo siciliano, nel 2012, i cinque stelle si preparano a presentare la loro lista alle comunali. Mentre si sfogliano le carte, qualcuno si accorge che c'è un errore sul luogo di nascita di un candidato. Per scongiurare il rischio che la lista venga dichiarata non ammissibile, un gruppetto di militanti compila un nuovo modulo con i dati corretti e ricopia una per una le 1400 firme che erano state raccolte. Pensano che sia un peccato veniale, invece stanno violando le norme del testo unico del 1960 sulla materia elettorale. La storia viene allo scoperto nel 2016 e la procura palermitana apre un'inchiesta. Finiscono indagati in otto. Tra questi ci sono tre deputati. Il 29 novembre vanno in procura per essere interrogati e fanno scena muta: si avvalgono della facoltà di non rispondere. È per questo motivo che Claudia Mannino, Giulia Di Vita, Riccardo Nuti vengono sospesi dal movimento.

QUARTO - Rosa Capuozzo. A Quarto, in provincia di Napoli, finisce sulla graticola Rosa Capuozzo. Il sindaco eletto con la lista dei grillini non è indagato, ma alcune intercettazioni gettano un'ombra sul suo comportamento. Risulterebbe che il primo cittadino sia stato ricattato da un consigliere comunale: o fai quello che ti dico (autorizzazione di lavori che sarebbero finiti nelle mani di camorristi) oppure rivelo che a casa tua tuo marito ha compiuto un grave abuso edilizio. La Capuozzo non va a denunciare il ricatto, Grillo sulle prime la difende ("è parte lesa"), ma alla fine anche la battagliera avvocatessa Rosa viene cacciata dal movimento.

LIVORNO - Filippo Nogarin. Si salva invece il sindaco di Livorno Filippo Nogarin. A maggio del 2016 scrive sulla sua pagina Facebook di aver ricevuto un avviso di garanzia riguardo il suo ruolo nella gestione del tracollo finanziario della AAMPS, la società del comune che si occupa della raccolta dei rifiuti. A Grillo e Casaleggio basta e avanza: Nogarin non ha nascosto niente e può continuare a fare il sindaco. L'inchiesta della procura va ancora avanti. 

STADIO CAPITALE.

Inutile negarlo, Roma è una città da bestie. Ratti ovunque e non solo ratti. Ci sono anche i cinghiali, stanno arrivando i lupi, le pecore e le vacche. La fauna romana si accresce ogni giorno. E non è un caso che questo accada con la giunta Raggi, scrive Valeria Montebello il 9 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". Noi li guardiamo, li scrutiamo, ci lamentiamo. Ma a Roma anche le bestie ci guardano, ci scrutano, ci seguono. Girovagano a loro agio fra le buche e l'immondizia. Anzi, cercano le buche per farsi un bagno nelle pozzanghere e frugano nell'immondizia per trovare qualche buccia di banana da mangiare. Le buche possono diventare vasche, abbeveratoi, nidi, l'immondizia una dispensa piena di scorte illimitate. Non c'è un unico mondo che comprende tutte le specie viventi ordinate gerarchicamente, dalle forme elementari agli organismi superiori, ci sono un'infinità di mondi collegati fra loro ma reciprocamente esclusivi. Il ragno non sa nulla della mosca eppure prende le misure per costruire le maglie della sua tela. Camminando per Roma si ha questa sensazione. Nessuno sa niente degli altri ma tutti prendono le misure. I topi portano malattie. I piccioni pure. I gabbiani sporcano. Anche i corvi. I cinghiali sono aggressivi. Pericolo. Niente a che vedere con Los Angeles. Nelle strade della gemella ideale di Roma gira indisturbato P-45, un maschio di centocinquanta chili dagli occhi dorati (la P deriva da Puma concolor, la specie che include puma, pantera, gatto, leone di montagna). Los Angeles è una delle due megalopoli al mondo abitate da grandi felini - a Mumbai, l'altra, i leopardi vivono nel Sanjay Gandhi National Park e occasionalmente divorano (preferibilmente smembrano: questi gattoni non uccidono per fame ma solo per piacere) gli umani che costruiscono le loro case ai margini del parco. Anche se ci sono stati casi di puma che hanno assalito persone in California (tra il 1986 e il 2014 tre attacchi fatali) non è mai successo nella città degli angeli. Le vittime preferite dei puma losangelini sono infatti capre, pecore, lama, cavalli, gatti e chiwawa dei ricconi sulle Hollywood Hills. Qualche giorno fa, a Seattle, però, due ragazzi sono stati attaccati da un puma mentre andavano in bici in un bosco: uno è riuscito a fuggire con pezzi di gamba penzolante mentre il felino era impegnato a spezzettare l’altro. Altro che i nostri topi, corvi, cinghiali. I gatti sono passati di moda, con il loro fare romantico, sonnacchioso, ammaliante, erano più adatti ad altri sindaci, e sono stati abbandonati al loro destino fra le rovine.

La nuova passione dei romani sono i cinghiali. I gatti sono passati di moda, con il loro fare romantico, sonnacchioso, ammaliante, erano più adatti ad altri sindaci, e sono stati abbandonati al loro destino fra le rovine. Il primo avvistamento di cinghiali in ambito urbano risale al marzo 2016: un giovane esemplare aveva preso l'abitudine di girare per le aree verdi della zona. Dai parchi di campagna è arrivato ai giardini condominiali ed è diventato la mascotte del gruppo Facebook di Spinaceto. Poi sono stati avvistati e adottati in altri posti, da nord a sud della capitale, da Montemario alla Giustiniana. Le bestiole grufolanti non sono cinghiali maremmani ma sono più grandi, prolifici, affamati - vengono dall'Est Europa ma sono accettati dalle persone del quartiere più dei loro connazionali umani. Girano video sui social in cui si vedono bambini che gli danno da mangiare e li accarezzano senza timore, signore che li portano in giro con il guinzaglio e gli fanno fare capatine nei negozi. In qualche recesso della loro mente sanno che quelle zanne potrebbero trafiggere senza pietà le loro carni ma sono fiduciosi. Anche se ontologicamente pericolosi, i cinghiali sono come addomesticati dalla potenza di Roma. Tutti sanno, anche i bambini, che Roma è magica e trasforma perfino l'animale più feroce in un animale domestico: se sei arrivato fino a qui sei automaticamente parte della famiglia. Roma possiede il tocco alchemico, rende i cinghiali cagnetti, le pecore tosaerba, i rospi principi. I puma di Los Angeles potrebbero arrivare sbavanti e affamati alle porte della città, appena varcate inizierebbero a mangiare margherite e a fare le fusa.

A Roma abbiamo una varietà di specie da far invidia a certe aree protette. I birdwatcher troverebbero pane per i loro denti. Dagli uccellini agli uccellacci che, ogni mattina, ci svegliano con il loro cip cip o le loro gracchiate mischiate ai clacson. Una colonna sonora naturale continua composta da 78 sonorità diverse (Roma nidificano ben 78 specie). I gabbiani reali con i loro versi mentre frugano nella spazzatura, le cicale d'estate ovunque, i merli che non cantano più come merli, che per sovrastare i rumori e adattarsi hanno alzato il volume del loro richiamo di qualche decibel. Ma anche falchi pellegrini, gheppi, allocchi, picchi vivono fra tetti, anfratti, ville, monumenti. E i pappagalli verdissimi che volano sul parco della Caffarella e a Villa Pamphili, ma arrivano fino a Garbatella. Per non parlare delle nuvole di uccelli che si condensano al tramonto in disegni inquietanti come i fondi del caffè ma che vengono addomesticati dallo scroll infinito di foto e video postati sui social – meglio se dietro c’è pure il tramonto.

Tra i mammiferi abbiamo anche i ricci che divorano le lumache che infestano gli orti dell'Appia Antica, le volpi a piazza Cavour, gechi, lucertole, raganelle, rane e rospi smeraldini a Villa Borghese che mangiano le zanzare, le donnole che mangiano i topi che mordono i turisti in giro per Trastevere. Ma le donnole non sono abbastanza. Il classico ratto romano con la sua stazza specifica (grassoccio, unto, scoordinato), diversissimo dai ratti parigini (tutt’ossa, molto chic) o da quelli newyorkesi (pare abbiamo il pelo molto liscio), regna sovrano. I sorcetti della chiavica hanno conquistato scuole, giardini, tetti, piazze, senza nessuna difficoltà. Il classico ratto romano con la sua stazza specifica (grassoccio, unto, scoordinato), diversissimo dai ratti parigini (tutt’ossa, molto chic) o da quelli newyorkesi (pare abbiamo il pelo molto liscio), regna sovrano.

Ma abbiamo anche animali più nobili, come i granchi. In pieno centro. Nelle canaline di scarico sotterranee dei Mercati di Traiano, tra il Quirinale e il Campidoglio, nella valle che contiene i Fori Imperiali, vive una colonia di granchi fluviali: trascorrono le ore del giorno rifugiati in tane profonde scavate nel fango e di notte escono. Vedi un granchio in giro davanti a Montecitorio e strabuzzi gli occhi, ti stranisci, magari per un attimo ti dimentichi pure quello che devi fare. Lo spaesamento è un’arte. È come se guardarle tutta questa fauna che non semina, non miete, non ammassa nei granai ci facesse provare una gioia immotivata che non è dovuta al soddisfacimento di questo o quello, ma dall'essere presenti a se stessi, liberi dalla preoccupazione del domani. Non solo cervi a primavera, come cantava un Cocciante sentimentale, ma granchi tutto l’anno.

E la sindaca Raggi, attenzione, non è un sindaco fuori tema, lei è la signora degli animali, una regina che farebbe invidia a Cenerentola (con i suoi topolini infila-collane e gli uccellini taglia e cuci vestiti) e a Biancaneve (anche qui uccelli che fanno torte e cervi al suo servizio). Ma non le basta una corte del genere, vuole altri aiutanti. Ed ecco comparire pecore e capre tosaerba nei giardini e nei parchi della capitale. Adesso pure le mucche per l’erba troppo alta. Pecore, capre e mucche sono le aiutanti della Raggi come la Lupa lo è stata di Romolo e Remo. La storia si ripete. Per gli etruschi la Lupa era simbolo del signore degli inferi, mentre la lupa di foglie che hanno posizionato a piazza Venezia (piccolissima, si perde lì in mezzo) al posto di Spelacchio, non ha nemmeno la metà del carisma di mamma feroce. E nemmeno il carisma di Spelacchio, nonostante anche su di lei fiocchino battute sui social (su cosa non le fanno, ormai è il modo di comunicare preferito da tutti). Rinsecchita se ne sta lì, amorfa, in attesa di essere trasformata in una nuvola verde, informe. Invece resiste, imperturbabile, ancora in ordine dopo mesi: è uno degli oggetti più in ordine della capitale, ci sarà un mastro giardiniere che di notte va a potarla con cesoie di precisione. Sarà un presagio dei lupi che si stanno avvicinando sempre di più alle porte di Roma Nord, che da Castel di Guido stanno tentando l'avanzata per riprendersi il loro territorio. Forse. Sarà un presagio di un ritorno alla natura selvaggia di cui Roma da un bel po’ sembra farsi testimone, come se, mancando l’amministrazione e saltando un bel po’ di regole, tutto rientri in uno stato di eccezione schmittiano, in cui è sospeso il tempo giuridico della norma ed è aperto il tempo della decisione politica originaria, onnipotente, autonoma.

Cinepanettone Roma: il vecchio sistema capitolino si è già mangiato i 5 Stelle. L'ultimo scandalo sullo stadio della Roma assomiglia a una commedia che dimostra come - in breve tempo e con poco sforzo (anche economico) - il vecchio sistema abbia avuto la meglio sulla nuova amministrazione. Un brutto viatico per le ambizioni del Movimento 5 Stelle appena arrivato al governo, scrive Flavia Perina il 14 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". «Abbiamo fatto una brutta figura, sembravamo i romani dei film quando vanno a Milano». È la frase chiave per capire l'ultimo scandalo capitolino, per dargli un contesto e una dimensione. A parlare è il costruttore Luca Parnasi. Racconta al telefono le sue fatiche per conquistare relazioni e appoggi nel mondo nuovo della Lega e del Cinque Stelle, i soldi e le utilità sparsi in giro («Adesso non mi costa molto, una volta non hai idea»). Spiega il fallimento rimediato quando ha provato ad estendere la sua rete al Nord, con l'assessore all'urbanistica di Palazzo Marini Pierfrancesco Maran che liquida l'offerta di una casa dicendo: «Qui non si usa». È a questo proposito che Parnasi commenta «Sembravamo i romani dei film», e probabilmente il film che ha in mente è Colpo gobbo a Milano, dei fratelli Vanzina, con Claudio Amendola e Ricky Memphis in trasferta sotto la Madonnina per la mandrakata che dovrebbe metterli a posto per la vita (e che finirà in disastro). Chi cerca una chiave per capire l'inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ieri si è abbattuta su M5S, Forza Italia e Pd (9 arrestati, 27 indagati), deve appunto immaginarla come una commedia, un cinepanettone. Ci sono tutti gli elementi. Un colossale progetto – valore un miliardo – che deve passare attraverso dozzine di livelli autorizzativi. Un vasto generone politico-tecnico che può mettere i bastoni tra le ruote, rallentare, infastidire, opinare. Un gruppo imprenditoriale strangolato dalle esposizioni bancarie che aspetta in debito d'ossigeno il via libera ai lavori. Il placet di chi potrebbe rallentare, infastidire, opinare, conquistato con larga varietà di soluzioni. Soldi in contanti alla vecchia maniera (è l'accusa per Davide Bordoni, capogruppo FI). Pagamento di fatture false (25mila euro, è l'accusa per Adriano Palozzi, FI). Promesse di consulenze (100mila euro, è l'accusa per Luca Lanzalone, presidente Acea). L'assunzione di un figlio (è l'accusa per Michele Civita, Pd). E poi una modalità del tutto innovativa, il progetto di restyling del lungomare di Ostia offerto al capogruppo M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara, che secondo il pm Paolo Ielo se lo piglia e lo presenta come proprio per fare bella figura e avvantaggiarsene politicamente. E il fatto più sorprendente è che in un arco di tempo brevissimo – appena due anni dall'elezione di Virginia Raggi – il vecchio sistema capitolino abbia avuto ragione anche dei castigamatti del Movimento Cinque Stelle, trasformando pure la loro avventura in un plot da commedia di genere.

È lo stesso copione consociativo di tutti gli scandali romani sotto tutte le amministrazioni e tutti i sindaci. E il fatto più sorprendente è che in un arco di tempo brevissimo – appena due anni dall'elezione di Virginia Raggi – il vecchio sistema capitolino abbia avuto ragione anche dei castigamatti del Movimento Cinque Stelle, trasformando pure la loro avventura in un plot da commedia di genere. Ma non solo. Il valore degli emolumenti e dei favori è, ancora una volta, irrisorio rispetto all'impresa. E di nuovo si ha l'impressione che la benevolenza politica a Roma sia un buon affare perché si compra con pochi soldi e con poca fatica. Ora non si capisce bene come andrà a finire. Per il nuovo stadio, ma soprattutto per il Movimento Cinque Stelle che dimostra tutta la sua fragilità proprio all'epicentro del suo nuovo potere, nella Capitale-vetrina dove non deve spartire le decisioni con nessuno e sceglie in piena autonomia a chi affidarsi, chi promuovere nei ruoli che contano, come portare avanti i progetti. Oltre i destini dell'inchiesta e la solidità della pesantissima accusa di associazione a delinquere, il punto politico riguarda la rivoluzione morale Cinque Stelle che si arena nella foto di gruppo dei «romani dei film», insieme a quella di un gruppo di vecchi politici trafficoni e di un manager spregiudicato. Non è una bella immagine, nè un buon viatico per le ambizioni del Movimento che ha appena conquistato l'Italia proprio in nome della sua diversità.

I Cinque "Stalle" ballano sul Titanic, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 14/06/2018, su "Il Giornale". C'erano una volta i Cinquestelle che urlavano nelle piazze e in Parlamento «onestà, onestà». Dicevano di essere stati mandati dal messia Beppe Grillo (e dallo spirito santo Casaleggio) a purificare l'Italia corrotta e incapace. Poi i primi scivoloni giudiziari: ogni sindaco che hanno conquistato in virtù della presunta diversità etica è finito a processo per reati che vanno dal falso in bilancio alla truffa fino all'omicidio colposo. Mancava l'associazione a delinquere, che ieri si è materializzata nell'inchiesta su tangenti e accordi sottobanco che riguardano la costruzione del nuovo stadio della Roma (completamente estranea ai fatti). Tra i tanti politici e manager è finito agli arresti Luca Lanzalone, capo dell'Acea (l'azienda energetica romana), ma soprattutto braccio destro di Beppe Grillo e uomo fidato della sindaca Raggi e del vicepremier Di Maio. Indagato anche Paolo Ferrara, il capogruppo dei Cinquestelle in Campidoglio (gli altri politici coinvolti di Forza Italia e Pd diciamo che non fanno notizia). Qui non stiamo parlando di incidenti di percorso o di pecore nere. Qui si entra nel cuore del potere grillino, che, come tutti i poteri, batte dove ci sono soldi e poltrone. Da Cinquestelle a Cinquestalle il passo è stato più breve del previsto. E non solo per fatti giudiziari. Di Maio ha avuto il coraggio di mettere come sottosegretario agli Interni (parliamo di sicurezza nazionale) tale Carlo Sibilia, uno che in sequenza ha teorizzato le seguenti cose: giusto il matrimonio tra più di due persone e tra specie diverse; l'uomo sulla Luna è una bufala; l'Isis non esiste e l'attentato a Charlie Hebdo è un complotto. Sibilia non è l'unico Cinquestelle fuori di testa arrivato nelle stanze dei bottoni. L'elenco è lungo e lo trovate nelle pagine interne. Non è normale, qualche cosa ci sta sfuggendo nella nascita della cosiddetta (si fa per dire) terza Repubblica. Con quali lobby, con quali ricatti si sta formando la nuova classe dirigente? Gli indizi sono tanti e inquietanti, riguardano sia le sfere private che gli intrecci professionali con i servizi segreti e faccendieri di lungo corso. Caro Salvini, stai attento, non sei in buona compagnia. È bello ballare in prima classe, ma non sul Titanic.

Toghe e politica: prima o poi tocca anche a te…La bufera giudiziaria che si è abbattuta su Roma ha colpito anche i 5 Stelle, scrive Piero Sansonetti il 14 giugno 2018 su "Il Dubbio". Stavolta è toccata ai Cinque Stelle.  La bufera giudiziaria che si è abbattuta su Roma ha colpito un po’ tutti i partiti, ma è chiaro che il prezzo più alto – in termini politici e di immagine – lo pagano i grillini, che sono al governo della città e che hanno investito gran parte della loro credibilità sul progetto- stadio. Ora il progetto del nuovo stadio di Roma sembra svanire. E la giunta Raggi è sempre più nei guai. Dopodiché c’è un altro risvolto, a livello nazionale: in realtà, sebbene gli arresti siano tutti di esponenti – interni o esterni – dei 5 Stelle del Pd e di Forza Italia, l’inchiesta riguarda massicciamente anche la Lega. A leggere l’ordinanza, almeno, si ha l’impressione che il grosso dei soldi sia andato al partito di Salvini. Ma, paradossalmente, anche questa circostanza nuoce più ai 5 Stelle che alla Lega. Perché la Lega ha molti precedenti, e francamente non ha mai puntato le sue carte sull’ “onestà”, mentre i Cinque Stelle si troverebbero alleati con un partito sospettato di corruzione ad alto livello, e questa, per loro, è una circostanza molto imbarazzante. A occhio, comunque, l’inchiesta mi pare una cosa un po’ vaga. Come spesso succede quando le inchieste giudiziarie prendono di mira la politica. E’ abbastanza probabile che gran parte degli imputati sia innocente e che finirà assolta. Ma è anche probabile che come consuetudine – questi imputati nel frattempo vedranno annientata la loro carriera politica. E che l’inchiesta provocherà diversi spostamenti nei rapporti di forza tra i partiti. All’interno della maggioranza e tra maggioranza e opposizione. Tuttavia, a differenza del passato, questa volta nessuno potrà usare l’inchiesta del Procuratore aggiunto Ielo per combattere i suoi nemici politici. I Cinque Stelle, abituati a usare le inchieste giudiziarie come clave per la lotta politica, ora si trovano “dall’altra parte della clava”. Sarà per loro una esperienza importante. Possiamo dire che sin qui il loro principale strumento di lotta politica, soprattutto di attacco ai concorrenti, sono state le inchieste dei magistrati e il grido onestà. I Cinque Stelle perdipiù hanno sempre rifiutato di distinguere (per i politici) tra sospetto e colpevolezza. Hanno sempre fatto coincidere i due termini, con gran spavalderia. E su questa loro condotta sono stati molto aiutati dalla stampa, da quella amica, e anche da quelli che da qualche anno si chiamano “i giornaloni”.

I danni della campagna giustizialista sono stati molti. Li ha pagati quasi tutti quelli il Pd (Forza Italia aveva già pagato abbondantemente in passato). La parabola discendente del Pd a Roma – che poi ha trascinato alla discesa il Pd sul piano nazionale) è iniziata con la caduta della giunta Marino. Il sindaco Marino non aveva fatto proprio niente di male. Forse non era un sindaco bravissimo, almeno, così pareva allora (ora, se confrontato con Virginia Raggi, sembra Batman…). Fu crocifisso dai giornali, dai 5 Stelle e alla fine – ironia della sorte – dai suoi stessi compagni del Pd che decisero abbandonarlo, anzi di metterlo sulla graticola e poi do scotennarlo. E fu l’abbattimento di Marino ad aprire la strada ai 5 stelle che vinsero le elezioni comunali del 2016. E proprio dalla rovinosa sconfitta romana il Pd iniziò la discesa dal 40 ai 18 per cento. E la discesa subì una netta accelerazione con l’inchiesta Consip, anche quella guidata dai 5 Stelle e dal Fatto quotidiano, ma poi appoggiata da tutti i grandi giornali e da tutte le Tv. Qual era la tesi? Che Renzi fosse colpevole, anzi molto colpevole. Di cosa? Nessuno lo sapeva bene, ma era colpevolissimo. Poi si scoprì che era tutta una bufala, che alcuni carabinieri avevano contraffatto le informative, che qualche sostituto di Napoli aveva fatto gran pasticci, che le fughe delle notizie ( perdipiù false) e le intercettazioni illegali ( persino tra avvocato e cliente) guidate sapientemente da qualche “manina” in Procura avevano intorbidato fino all’inverosimile la lotta politica. Beh, è inutile tornare sul passato. Mettiamoci una pietra. Sarebbe importante che ora che è cambiato il governo, che i partiti populisti hanno vinto le elezioni, che addirittura Salvini è acclamato ormai come il liberatore dal passato decadente, si ristabiliscano le regole dello stato di diritto e tutti accettino di non usare più le inchieste giudiziarie contro gli altri. Quando dico tutti, però, dico tutti. E’ probabile che questa inchiesta non sarà usata da nessuno contro gli altri. Probabilmente neppure dal Fatto Quotidiano che non ama infangare i 5 Stelle. Il problema però è che non succeda che la prossima volta che viene incriminato qualche vicesindaco del Pd, probabilmente innocente, il partito dei presunti onesti torni a battere la grancassa. Come ha fatto negli ultimi mesi col sindaco di Mantova, con il segretario campano del Pd, con la Guidi, con Lupi, con Sala, con… con… con…

Lanzalone: la procura punta l’uomo di Di Maio e Raggi. Il presidente di Acea è stato il superconsulente per il Movimento 5 Stelle, scrive Rocco Vazzana il 14 giugno 2018 su "Il Dubbio". «Ho contattato subito i probiviri del Movimento e ho detto subito di accertare tutto quello che c’è sulle persone che potrebbero essere coinvolte in questa cosa». Luigi Di Maio non vuole che l’inchiesta romana, che coinvolge anche esponenti del suo partito, abbia ripercussioni nazionali e corre subito ai ripari. «Chi sbaglia paga», è la linea della fermezza indicata dal capo politico. «E mi permetto di dire che se le accuse verso queste persone, non solo del Movimento ma in generale, dovessero esser provate, questo dimostrerebbe come la gente si rovina la vita pur avendo delle posizioni di tutto rispetto». Ma, formule di rito a parte, l’inchiesta della Procura di Roma, in cui risulta indagato anche il capogruppo M5S in Campidoglio, Paolo Ferrara (già autosospeso dal partito), mettono in serio imbarazzo base e vertici pentastellati. Ma a turbare la serenità del vice premier è soprattutto la posizione di Luca Lanzalone, presidente di Acea e super consulente per il Movimento sullo stadio. È finito agli arresti domiciliari perché, secondo l’accusa, avrebbe ottenuto dal costruttore Parnasi la promessa di consulenze per un valore di circa 100 mila euro. È Lanzalone a mediare, per conto dei 5 Stelle, con i costruttori, concedendo una modifica del progetto originario. Pur non essendo un grillino, il presidente di Acea è di casa tra i vertici pentastellati, viene ascoltato con grande attenzione anche da Luigi Di Maio. Viene avvistato più volte in Translatantico insieme al gotha M5S e spunta pure all’Hotel Parco dei Principi, il quartier generale del Movimento, quando, nei giorni successivi alle elezioni politiche, Beppe Grillo e i futuri ministri ragionano sull’eventualità di un governo con un Pd “derenzizzato”. Non è un caso che a commentare il suo arresto ci siano le prime linee del nuovo esecutivo: «Lo conosco perché è stato un consulente apprezzato in varie fasi delle nostre attività politiche», dice il ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro. «Non sono mai contento quando una persona in sé viene indagata, ma se qualcuno ha sbagliato è giusto che ne risponda», spiega. «Dobbiamo però capire quali sono i motivi degli arresti. Solamente dopo un’analisi attenta si potranno esprimere dei commenti sensati. Ovviamente se qualcuno ha voluto fare il furbo io sono contento che una magistratura sia intervenuta». È un colpo durissimo per la Giunta Raggi, dopo la bocciatura elettorale dei cittadini romani alle Amministrative di domenica scorsa. «Aspettiamo di leggere le carte. Al momento non esprimiamo alcun giudizio», commenta la sindaca, evidentemente colta di sorpresa dall’operazione della Procura. «Chi ha sbagliato pagherà. Noi stiamo dalla parte della legalità», ripete come un mantra. E nello shock generale, Roberta Lombardi, l’eterna rivale della prima cittadina nel Lazio, coglie la palla al balzo per lanciare la sua stoccata. Pur salvando in premessa la presunzione di innocenza per chiunque, la consigliera regionale grillina aggiunge: nell’inchiesta «c’è anche Luca Lanzalone, agli arresti domiciliari, che non è un membro del M5S ma ha collaborato come importante consulente del MoVimento e ricopre attualmente la carica di presidente di Acea», afferma. «Questo deve far suonare con forza il nostro allarme interno: perché non solo i portavoce del Movimento, ma tutti coloro che con noi collaborano, devono avere le mani pulite e rimanere sempre al di sopra di ogni sospetto». Per il Pd, che pure ha un ex assessore regionale arrestato tra le sue file, questa vicenda è il simbolo «dell’inadeguatezza e dell’incapacità» di Virginia Raggi. «La sindaca se ha veramente a cuore le sorti di Roma ne tragga le dovute conseguenze».

Nuovo stadio della Roma: 9 arresti per corruzione, nei guai capogruppo 5S. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere, traffico di influenze, fatture per operazioni inesistenti e illecito finanziamento ai partiti, scrive Simona Musco il 14 giugno 2018 su "Il Dubbio". Una «corruzione sistemica», un ordinario ricorso a condotte illecite che costituiscono una strategia indispensabile per la realizzazione di qualsiasi progetto. Ruota tutto questo attorno alla realizzazione del nuovo stadio della Roma, finito al centro dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che ha colpito la holding capeggiata da Luca Parnasi, l’imprenditore arrestato ieri con l’indagine “Rinascimento”. Le accuse riguardano reati contro la Pubblica amministrazione nell’ambito delle procedure connesse alla realizzazione della struttura, un investimento da almeno un miliardo in mano alla società Eurnova, facente capo a Parnasi, e che ora rischia lo stop. Insieme a lui sono finiti in carcere cinque suoi collaboratori, mentre ai domiciliari ci sono Luca Lanzalone, attuale presidente di Acea, indagato in veste di consulente di fatto della giunta cinquestelle per la costruzione del nuovo stadio, il vicepresidente del Consiglio regionale Adriano Palozzi, in quota Forza Italia e l’assessore alle Politiche del territorio e alla mobilità della Regione, Michele Civita (Pd). Indagati anche il capogruppo del M5s in Campidoglio, Paolo Ferrara, il capogruppo di Forza Italia ed ex presidente del municipio X, Davide Bordoni, e Mauro Vaglio, presidente dell’ordine degli avvocati di Roma e candidato (non eletto) al Senato per il M5S alle scorse politiche. Secondo la procura, la fattibilità dei progetti imprenditoriali sarebbe sempre stata valutata alla luce delle relazioni con soggetti pubblici e mai, invece, in base all’iter normativamente previsto. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di condotte corruttive, traffico di influenze, fatture per operazioni inesistenti e illecito finanziamento ai partiti. E rappresentano, secondo il gip Maria Paola Tomaselli, «strumenti indispensabili per la realizzazione degli interessi del gruppo imprenditoriale». Il gruppo reclutava dei “mediatori”, incaricati di avvicinare illecitamente funzionari ed esponenti politici legati alle attività amministrative connesse alla realizzazione dello stadio, da ricompensare con soldi o altri favori. Un «super rapporto» con il Comune di Roma che, finito lo stadio, spiegava Parnasi a Luca Caporilli, bisognava «capitalizzare» nella direzione di altri progetti.

La genesi dell’inchiesta. Tutto nasce da un approfondimento dei rapporti tra l’imprenditore Sergio Scarpellini e diversi politici e funzionari pubblici, emersi da una diversa indagine. Da lì si è arrivati alla costruzione dello stadio, un grumo di corruzione che riguarda 16 indagati, nel quale, ha chiarito Ielo, la società As Roma non c’entra nulla. «Da un lato abbiamo il vecchio volto delle tangenti – ha spiegato -, con soldi contanti che girano, dall’altro abbiamo il volto nuovo, che è costituito dalle assunzioni o dalle consulenze». Un quadro a tinte fosche, che mette in primo piano l’azione di Parnasi, che investe fortemente nella politica, in maniera lecita e illecita. In questa attività un ruolo di primo piano è stato assunto dai vertici del gruppo Parnasi, per il quale il metodo corruttivo era «un significativo asset d’impresa», riducendo «a brandelli» il principio d’imparzialità dell’azione amministrativa.

Lo stadio. L’inchiesta riguarda il progetto modificato e approdato poi in conferenza dei servizi con l’abbattimento delle cubature rispetto al progetto iniziale. Lanzalone, tra gennaio e febbraio del 2017, si occupò di una mediazione con la Eurnova, che acquistò i terreni dell’ippodromo di Tor di Valle dalla società Sais. Una mediazione che portò al taglio delle cubature, con la soppressione delle due torri, del prolungamento della Metro B e del ponte sul Tevere. Per superare la proposta di vincolo sull’Ippodromo, Parnasi si rivolse all’avvocato Claudio Santini, già capo segreteria del Mibact, che per circa 53mila euro sfruttò le relazioni con il direttore della Sovrintendenza speciale archeologia, belle arti e paesaggio di Roma, Francesco Prosperetti, l’unico titolato a pronunciarsi. L’avvocato organizzò un incontro tra Prosperetti e il gruppo Parnasi, in seguito al quale l’architetto Paolo Desideri – amico del sovrintendente e datore di lavoro della figlia – venne incaricato della redazione di un progetto per superare la questione del vincolo, con il ricollocamento della tribuna. Desideri era dunque un tecnico appetibile, per «la possibilità di saggiare anticipatamente il gradimento del pubblico ufficiale». E alla fine, Prosperetti chiese l’archiviazione della proposta di vincolo.

Il rapporto con le istituzioni. Per Parnasi investire nella politica era una vera e propria abitudine. «Spenderò qualche soldo sulle elezioni che poi con Gianluca vedremo come vanno girati ufficialmente, coi partiti politici – diceva ai suoi collaboratori – ed è un investimento che io devo fare, molto moderato rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te le racconto, però la sostanza è che la mia forza è quella che alzo il telefono e… ». Un’abitudine consolidata nel tempo, dunque, per affermare la propria forza come interlocutore, una «scelta criminale» accettata da suoi collaboratori. Operavano con una mentalità che definivano «anni 80 o italiana», perché Parnasi «è abituato solo a questo metodo». Così, tramite una sua società, avrebbe versato 250 mila euro all’associazione Più Voci, legata alla Lega. «Questa è un’associazione – spiegava – che ha valorizzato non solo la Lega ma ha valorizzato Stefano Parisi, tutto il centrodestra diciamo». E voleva raggiungere i giusti agganci nel M5s, con il quale «in questo momento abbiamo una forte credibilità». Quindi, documenta l’indagine, si spese in un’attività «di promozione in favore del candidato alla Regione Roberta Lombardi».

Il ruolo di Lanzalone. Non sono pienamente quantificabili, invece, i favori ricevuti da Lanzalone, vicino al M5s, premiato per lo più con lucrosi e inutili incarichi al suo studio legale, come ad esempio la promessa di un incarico per l’assistenza legale stragiudiziale in merito ai rapporti con il Comune di Marino. Di sicuro, afferma Ielo, ci sono almeno 100mila euro. Favori che riceveva in cambio di informazioni sullo stato delle pratiche e partecipando alla delibera di conferma della dichiarazione di pubblico interesse ed all’intero iter procedurale relativo al nuovo stadio.

Gli altri indagati. Civita è sospettato di essersi messo a disposizione di Parnasi, fornendo informazioni sull’andamento del procedimento per l’approvazione del progetto dello stadio e con interventi per l’approvazione del progetto stesso, in cambio della promessa di assunzione di suo figlio in una delle società del gruppo. Palozzi, invece, secondo il pm avrebbe chiesto fatture per giustificare spese in nero per 25mila euro, ricambiando con informazioni sullo stato delle pratiche amministrative delle procedure autorizzatorie del progetto dello stadio. C’è poi Daniele Leoni, funzionario del dipartimento urbanistica, chiamato a partecipare, in rappresentanza del Comune di Roma, alla conferenza dei servizi per l’approvazione del progetto. Da parte sua l’imprenditore avrebbe ricevuto un atteggiamento di favore, in cambio di 1500 euro intestati alla fondazione “Fiorentino Sullo”. Paolo Ferrara, presidente del gruppo consiliare M5s al Comune di Roma, avrebbe invece votato favorevolmente per la conferma della dichiarazione di pubblico interesse del progetto per il nuovo stadio, in cambio, da parte di Parnasi, della realizzazione di un progetto di restyling del lungomare di Ostia, che Ferrara spacciava per proprio. E Giampaolo Gola, assessore allo sport del X municipio di Roma, sfruttando le relazioni con Ferrara, si sarebbe fatto promettere un incarico lavorativo alla Roma, al Coni o in subordine alla società Ampersand di Parnasi. Ma Parnasi avrebbe finanziato anche la campagna elettorale di Vaglio, la cui candidatura al Senato con il M5s sarebbe stata supportata con 15mila euro poi, secondo l’accusa, giustificati con una fattura per operazione inesistenti a Eurnova. «Desidero ribadire a tutti i colleghi di aver sempre operato nella massima correttezza – commenta Vaglio – e che questo non potrà che emergere dalle indagini attualmente in corso».

Stadio Roma, Luca Parnasi e la cena con Giorgetti: «Questo governo lo sto a fare io». Gli incontri dell’imprenditore e i finanziamenti ai partiti. Tra gli indagati Malagò, scrivono il 15 giugno 2018 Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera". Nel gennaio scorso, in vista della campagna elettorale, l’imprenditore accusato di corruzione Luca Parnasi stava tessendo la sua tela, utile per fare affari anche in un eventuale «nuovo corso» della politica italiana. Organizzava cene e incontri con i politici, si diceva a disposizione per concedere favori e regali. «Noi in questo momento - raccontava a un amico - con i 5 Stelle abbiamo una forte credibilità. Vuoi la previsione di Luca Parnasi? C’è un rischio altissimo che questi facciano il governo, magari con Salvini insieme ... e quindi noi potremmo pure avere ... incrociamo le dita, silenziosamente, senza sbandierarlo, un grande rapporto». Due mesi dopo, a urne ormai chiuse, una cena a tre fra Parnasi, Luca Lanzalone (l’ormai ex presidente di Acea, punto di riferimento dei 5Stelle in Campidoglio) e l’attuale sottosegretario a palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, della Lega, è indicato dai carabinieri come «una delle evidenze acquisite che rivela come il dominus dell’associazione investigata (cioè Parnasi, ndr), avvalendosi dei suoi sodali, sia in grado di permeare le istituzioni pubbliche». E dunque di condizionare la politica locale e nazionale attraverso una rete che dagli iniziali rapporti con esponenti del Pd s’è estesa prima ai seguaci di Grillo e poi al centro-destra. Lega compresa.

Finanziamenti «a Lega e Eyu». Riferiscono gli investigatori ai magistrati: «Il 9 marzo 2018 Parnasi va a pranzo con Lanzalone. Nel corso dell’incontro i due disquisiscono di un incontro riservato che avverrà la sera del 12 marzo a casa di Parnasi, al quale parteciperà il parlamentare della Lega Giorgetti. Dal tenore della conversazione si evince che tale incontro deve rimanere riservato». Ma il tenore della conversazione, nell’informativa degli investigatori dell’Arma che i pubblici ministeri hanno messo a disposizione delle parti, è coperto da omissis. Tuttavia in un altro passaggio i carabinieri scrivono che «la vicenda assume ulteriore rilievo in ragione delle disposizioni impartite da Parnasi ai suoi sodali affinché le operazioni di infiltrazione abbiano successo, con i conseguenti vantaggi economici che deriverebbero al gruppo imprenditoriale/criminale». Segue la trascrizione di un’altra intercettazione del 15 marzo, dieci giorno dopo le elezioni, in cui Parnasi spiega al suo commercialista di fiducia: «Scusami, ma poi abbiamo qua altri 22.000 euro della campagna (elettorale, ndt), tu qui non hai messo le cose, la Lega ed Eyu (probabilmente una fondazione, ndr)... La Lega ed Eyu li paghiamo ad aprile, quindi... È solo di essere precisissimi, che in questo momento io mi sono (poi sussurra a bassa voce parole incomprensibili)... Il governo lo sto a fare io, eh! Non so se ti è chiara questa situazione!».

Alla Casaleggio «gente molto segreta». Il 6 maggio scorso, in piene trattative per la formazione del nuovo governo, Lanzalone e Parnasi sono in un bar al centro di Roma. Annotano i carabinieri: «Parnasi parla con Lanzalone del possibile nascente governo, Lanzalone dice che gli girano le palle perché sarebbe una grande opportunità. Parnasi gli consiglia di mandare un whatsapp a Giancarlo Giorgetti “che è qua, a Roma”. Poi accennano alle consultazioni al Quirinale e Lanzalone commenta la linea politica del M5S tenuta nel post elezioni, dice che conosce pochissimo quelli della Casaleggio e Associati, sono “gente molto segreta”. Parnasi ribadisce di aver creato il rapporto con Giancarlo, Lanzalone ribadisce il rischio che si ripresenti la stessa situazione e ipotizza possibili sondaggi in caso di nuove elezioni, chi sale e chi scende». Dieci giorni più tardi, commentando con un’amica i suoi rapporti con «’sto mondo dei 5Stelle», Parnasi dice: «Ormai... proprio sodali».

La candidata Lombardi e le elezioni nel Lazio. Il 30 gennaio scorso Giulio Mangosi, cugino e collaboratore di Parnasi, «riferisce a tale Fabio che Marcello De Vito e Paolo Ferrara gli hanno chiesto di aiutare la Lombardi», candidata grillina alla Presidenza della Regione Lazio. «Il giorno successivo risulta essere ad Ostia» e i carabinieri danno conto dell’appuntamento al quale partecipano anche il capogruppo M5S al Campidoglio Paolo Ferrara e Giampaolo Gola, assessore del X municipio, entrambi ora indagati. Due settimane dopo è Luca Parnasi a raccontare di avere in programma un incontro con Roberta Lombardi. Dopo le elezioni, come si legge in un’altra informativa degli investigatori, «Parnasi afferma di avere la possibilità di influire anche nella formazione di una maggioranza di governo a livello regionale (Lazio). Ciò emerge in una conversazione intrattenuta dallo stesso, il giorno 23 marzo, con un uomo in corso di identificazione, che comunque sembra essere molto vicino al presidente Zingaretti. Nel corso del colloquio, Parnasi precisa di aver saputo che Salvini (evidentemente Matteo Salvini) e Meloni (Giorgia) siano intenzionati a non consentire la formazione o a far saltare la maggioranza in Consiglio regionale, per scongiurare un rafforzamento di Zingaretti. Nella circostanza Parnasi aggiunge di poter interloquire con Stefano Parisi, con il quale ha un ottimo rapporto».

La divisione dei contributi. La circostanza che il costruttore romano distribuisse i finanziamenti in tutte le direzioni emerge da un’ulteriore intercettazione del 14 febbraio, quando chiede al suo commercialista «se ha parlato con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ottenendo risposta positiva. Invece, citando il Pd, Parnasi precisa che provvederà personalmente l’indomani ed aggiunge, inoltre, di voler redigere una lista, evidentemente di contributi elettorali, che compilerà con l’aiuto della segretaria». Nell’elenco figura, tra gli altri, l’allora viceministro degli Esteri Francesco Giro per 5 (5.000 Euro).

Indagato anche Luigi Bisignani. In uno degli ultimi atti giudiziari compilati prima degli arresti compare la lista più aggiornata degli indagati, nella quale è compreso il presidente del Coni Giovanni Malagò. Tra le migliaia di conversazioni registrate ce n’è una del 2 dicembre 2017 nella quale «Parnasi racconta di avere intenzione di chiedere a Malagò un supporto per il progetto del nuovo stadio del Milan». Da altri colloqui gli investigatori sospettano che «Malagò abbia presentato a Parnasi il compagno della figlia con il preciso scopo di creare con quest’ultimo un’occasione professionale». Inquisito anche il faccendiere Luigi Bisignani. Il suo nome compare più volte nelle intercettazioni e i pubblici ministeri ritengono che abbia offerto «un apporto» in almeno un caso di tentata corruzione.

Bonafede il ministro «reclutatore» del M5S, fu lui a lanciare Lanzalone. La scalata da partito «di lotta» a partito «di governo» e le poltrone chiave da riempire. Il ruolo di Bonafede, che già aveva sponsorizzato il suo ex prof Conte ai vertici M5S, scrive Claudio Bozza il 15 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Quando ci si ritrova catapultati al potere, specie se ciò avviene in tempi molto rapidi, riempire le caselle chiave dei posti di comando con personalità di fiducia non è cosa semplice. Anche perché, oltre alla fedeltà, occorrono le competenze adatte per guidare il relativo settore. È il caso del Movimento Cinque Stelle, che dopo il passaggio da partito «di lotta» a partito «di governo» ha dovuto riempire, rapidamente, un gran numero di queste «caselle». E i personaggi ai vertici del M5S — chi più, chi meno — hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione di questa rete per governare e gestire il potere. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in questa operazione, ha avuto un ruolo chiave come «reclutatore». Non solo, dopo avergli fatto (da giovane) da assistente gratuito all’università di Firenze, aveva sponsorizzato a Luigi Di Maio il professore-futuro-premier Giuseppe Conte. Nel frattempo, infatti, sempre l’avvocato e futuro Guardasigilli, aveva indicato il collega Luca Lanzalone all’amministrazione Raggi per le sue competenze. Esperto di diritto delle società partecipate, Lanzalone aveva infatti già curato per conto della giunta M5s del Comune di Livorno di Filippo Nogarin la procedura di concordato preventivo in continuità per il salvataggio di Aamps, l’azienda locale dei rifiuti, riuscendo a salvarla nonostante tutti l’avessero data come spacciata. Così, anche grazie a questa operazione virtuosa, per Lanzalone, al centro dell’inchiesta per ill nuovo stadio della Roma, si spalancarono le porte del potere anche nella capitale, dove la sindaca Raggi lo indicò come presidente del colosso Acea, poltrona da cui si è dovuto dimettere per il terremoto giudiziario.

Stadio della Roma, chi sono gli arrestati. Dall'imprenditore Luca Parnasi all'avvocato Luca Lanzalone, ecco chi sono e cosa avrebbero fatto i protagonisti del nuovo scandalo della Capitale, scrive Simona Santoni il 14 giugno 2018 su "Panorama". Un macigno cade sulla costruzione del nuovo stadio della Roma, che dovrebbe sorgere nell'area dell'ex ippodromo di Tor di Valle, lungo il Tevere. Nove persone sono state arrestate in seno a un'inchiesta in cui sono complessivamente indagati in 27. Si tratta di politici, consulenti e costruttori. Tutti si sono occupati in maniera diretta e indiretta della variante del primo progetto, quello a firma dell'assessore all'urbanistica della giunta Marino, Giovanni Caudo.  I reati contestati sono associazione a delinquere, corruzione, traffico di influenze, frodi fiscali, finanziamenti illeciti. L'indagine nasce come prosecuzione di quella sulla corruzione di Raffaele Marra, ex collaboratore della sindaca di Roma Virginia Raggi, non coinvolta dal procedimento. Era il dicembre del 2012 quando James Pallotta, il presidente della società di calcio giallorossa, annunciava che nel 2014 sarebbe stato aperto il cantiere a Tor di Valle dal costruttore Luca Parnasi, che si impegnava a finire i lavori per far giocare la stagione 2016-2017 nel nuovo stadio. Proprio quel Parnasi è tra i nove arrestati. Ecco chi sono i protagonisti di questo ennesimo scandalo Capitale. 

Adriano Palozzi. Vicepresidente del Consiglio Regionale, eletto con Forza Italia, coordinatore FI della provincia di Roma, Adriano Palozzi (agli arresti domiciliari) ha chiesto soldi per la campagna elettorale. L'imprenditore Luca Parnasi gli avrebbe erogato fatture per operazioni inesistenti pari a 25 mila euro. Parlando con Parnasi in una conversazione intercettata, contenuta nell'ordinanza di custodia cautelare dell'inchiesta sul nuovo stadio della Roma, Palozzi avrebbe detto: "Se io vinco vado a fare l'assessore in Regione e sono utile". Parnasi in un'altra occasione gli avrebbe Palozzi: "Come posso darti una mano? dimmi tu...", ricevendo la risposta: "Eh! iniziami a dare una mano perché veramente io sto disperato... mi serve una mano". Alla domanda "Di quanto hai bisogno?", Palozzi avrebbe risposto: "Lasciamo perdere, di quello che si può fa. Per la campagna elettorale a me una mano serve? Cioè mi gioco il culo!". "Quanto ti costa la campagna?" avrebbe chiesto Parnasi, ricevendo la risposta: "Mi costerà 4-500 mila euro... non è che costa mille lire". "Non ti lascio solo, tranquillo!", lo avrebbe rassicurato l'imprenditore. 

Luca Parnasi. Il costruttore Luca Parnasi (in carcere), titolare della società Eurnova, acquistò il terreno a Tor di Val, dove dovrebbe sorgere la nuova struttura, dalla società Sais della famiglia Papalia. È lui l'uomo chiave dell'inchiesta. Parnasi aveva promesso all'avvocato Luca Lanzalone, presidente di Acea, consulenze per il suo studio legale pari a circa 100 mila euro e gli aveva garantito il suo aiuto nella ricerca di una casa e di uno studio a Roma. All'ex assessore regionale del Pd, Michele Civita, in cambio dell'asservimento della sua funzione, il gruppo Parnasi aveva promesso l'assunzione del figlio in una delle società. Per l'attuale vicepresidente del Consiglio regionale, Adriano Palozzi, Parnasi avrebbe erogato fatture per operazioni inesistenti pari a 25 mila euro. Infine l'attuale capogruppo M5S, Paolo Ferrara, avrebbe ottenuto da Parnasi un progetto per il restyling del lungomare di Ostia.

Luca Lanzalone. Avvocato e presidente di Acea, vicino al Movimento Cinque Stelle, Luca Lanzalone (agli arresti domiciliari) è un'altra figura chiave dell'inchiesta. Mediò con Parnasi la modifica del progetto dello stadio che portò a un taglio delle cubature. Tra il gennaio e il febbraio del 2017, nelle vesti di consulente per gli M5S seguì la mediazione con l'amministrazione comunale e la Eurnova, la società di Parnasi che acquistò i terreni dell'ex ippodromo. La trattativa portò a una modifica del primo progetto dello stadio, con una riduzione delle cubature degli immobili "extra stadio" e la cancellazione delle due torri del grattacielo che sarebbero dovute sorgere in prossimità dell'impianto. 

Michele Civita. Ex assessore all'urbanistica della Regione Lazio e oggi consigliere, casacca Pd, Michele Civita (ai domiciliari), avrebbe chiesto all'imprenditore Parnasi, in cambio della prestazione delle sue funzioni di assessore, un posto di lavoro per suo figlio.

Luca Caporilli, Simone Contasta, Naboor Zaffiri, Gianluca Talone, Gianluca Mangosi. Sono finiti in carcere anche Luca Caporilli, Simone Contasta, Naboor Zaffiri, Gianluca Talone e Gianluca Mangosi, collaboratori dell'imprenditore Luca Parnasi. 

Parnasi: "Il governo? Lo sto facendo io". La lista dei ministri discussa il 9 marzo. In un pranzo Lanzalone intercettato mentre dice: "Entrano Bonafede, Spadafora, Fraccaro". Omissis sulla cena con Giorgetti. Indagato Malagò, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri, Venerdì 15/06/2018, su "Il Giornale".  Relazioni pericolose, chiacchiere di ogni genere, dagli affari alla politica. Pure quella «nuova», leghista e a Cinque Stelle, che ha prodotto il governo gialloverde e che, dal polverone delle intercettazioni, viene fuori un po' meno «geneticamente diversa» di quanto i grillini amano raccontare. Ma pentastellati e leghisti sono al centro anche delle chiacchiere dei protagonisti dell'inchiesta, da Parnasi al «consulente di fatto» Lanzalone. Con ipotesi e indiscrezioni, a margine dei progetti dell'imprenditore che lavora allo stadio giallorosso.

Parnasi onnipotente: «Il governo lo faccio io». Il 15 marzo Parnasi chiarisce l'importanza dei suoi legami con la politica parlando con il sodale Gianluca Talone, al quale raccomanda di essere «precisissimo» nei pagamenti alla politica, riferendosi a pagamenti da effettuare a favore della Lega e della fondazione Eyu del tesoriere del PD Bonifazi. Di fronte alle perplessità di Talone, Parnasi taglia corto: «Il governo lo sto a fare io, eh! non so se ti è chiara questa situazione».

Lanzalone, Parnasi e il toto-governo. E appena cinque giorni dopo le elezioni, il 9 marzo, Luca Parnasi parla proprio di governo con il consulente di fatto della Raggi sullo stadio, Luca Lanzalone. L'uomo al quale, in altra occasione, Parnasi chiede se è interessato alla Cassa depositi e prestiti, ottenendone una risposta interlocutoria. Tornando al pranzo, invece, i due vengono intercettati mentre parlano di politica. Parnasi critica Renzi, e chiede a Lanzalone di presentargli Luigi Di Maio. Lanzalone taglia corto sull'ipotesi che Renzi voglia farsi un suo partito: «Così è morto, non c'è lo spazio per fare una mossa del genere», spiega. E poi, con larghissimo anticipo su quello che accadrà azzarda le sue previsioni su un possibile esecutivo a Cinque Stelle. E, annotano i carabinieri, «dice che sicuramente entreranno in un Governo Spadafora, Fioramonti, Fraccaro, Bonafede e forse Laura Castelli». Dopo 83 giorni la sua previsione va in porto: su cinque nomi, due sono diventati ministri, tre sottosegretari. Quello che invece Lanzalone non prevede ancora, il 9 marzo, è l'alleato di governo. L'avvocato genovese auspicava quello che la base grillina temeva di più. L'inciucio: «il Governo ideale sarebbe un governo di larghe intese con Lega, Fi, 5 Stelle e Pd per poter fare le riforme».

Quel legame con Malagò che si ritrova indagato. Nella rete di relazioni del costruttore Luca Parnasi ci finisce anche il presidente del Coni Giovanni Malagò, che si ritrova anche intercettato e indagato - almeno fino a un mese fa - nell'inchiesta sullo stadio della Roma. Sotto la lente degli inquirenti finisce un incontro al Circolo Canottieri Aniene lo scorso 11 marzo, nel corso del quale «emerge come Malagò abbia presentato il compagno della figlia con il preciso scopo di metterlo in relazione con Parnasi e creare con quest'ultimo un'occasione professionale».

Il commento su Di Maio? «Un nulla, ma sa mediare». Ma a parte la presunta «utilità», e la nota posizione favorevole allo stadio del presidente del Coni, la conversazione tra i due si incentra sulla politica. Quando arriva Malagò, lui e Parnasi, annotano gli inquirenti, «Commentano la cosa di Grillo (ovvero il via libera alle olimpiadi Torino 2026 ndt)». E Malagò racconta anche di essere stato a cena con Luca Cordero Di Montezemolo «che vorrebbe fare dichiarazioni contro i 5 Stelle (per le Olimpiadi di Roma)» e che lo stesso numero uno del Coni «ha cercato di bloccare». I grillini sono al centro della chiacchiera. Parnasi e Malagò concordano, scrivono i carabinieri, che i 5 Stelle «dovranno per forza ammorbidirsi se vanno al governo, per questo hanno scelto Di Maio che è un nulla, ma sa mediare».

Parnasi al presidente Coni: «Trovami uno nostro». Altro tema al centro della conversazione tra Parnasi e Malagò è l'individuazione di «una persona nostra», deputata a fare non è ben chiaro cosa. È il costruttore a chiedere al presidente del Coni «di trovargli quella persona, una persona nostra». «Trova la persona, no? trova la persona che metta insieme», spiega Parnasi. «Ah, ma certo», replica Malagò. E Parnasi insiste: «Pensa tu a una persona nostra! Io ho un'idea! Bisogna trovare un...». Malagò interviene: «Deve essere uno molto molto molto». E Parnasi butta lì: «Ho in testa... bisogna trovare uno legato al mondo militare!».

L'incontro a cena tra Giorgetti e Lanzalone. Proprio Parnasi è il tramite di un curioso incontro, un'anteprima atipica della confluenza di interessi tra leghisti e grillini. Il costruttore, il 12 marzo, pochi giorni dopo il voto, organizza infatti una cena «riservata» a casa propria, per far incontrare l'uomo vicino ai grillini, Luca Lanzalone, e il pontiere leghista Giancarlo Giorgetti, poi divenuto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo Conte. L'incontro viene organizzato durante il pranzo del 9 marzo tra Lanzalone e il costruttore, e che sia «riservato» emerge «dal tono della conversazione», come annotano gli inquirenti, ma anche dal fatto che la notizia, nell'informativa, sia seguita da ben 7 pagine di omissis. Di certo, secondo i carabinieri, l'incontro a cena era «dedicato alla trattazione di argomenti di carattere politico».

Alla Lega «100 e 100» «e soldi pure ai 5 Stelle». Parnasi, parlando con il sodale Talone, snocciola i pagamenti da fare a politici e società. Elenca nomi e partiti di ogni colore, anche il Carroccio («Lega c'abbiamo cento e cento», spiega, aggiungendo di voler effettuare i pagamenti «tramite due società nostre» e non come persona fisica), poi sbotta dopo aver finito di elencare tutti i pagherò: «Domani - prosegue Parnasi - c'ho un altro meeting dei Cinque Stelle... perché anche ai 5 Stelle gliel'ho dovuti dare eh...».

Il manager indagato ha procurato un tesoro al "partito Casaleggio". È Lanzalone l'autore dello statuto che obbliga gli eletti M5s a dare 6 milioni a «Rousseau», scrive Laura Cesaretti, Venerdì 15/06/2018, su "Il Giornale". Se Luca Lanzalone è diventato il Mr Wolf del Campidoglio, in pratica il sindaco ombra di una Capitale allo sbando, in cui la Raggi viene mandata solo alle serate di beneficienza, una ragione ci sarà. In casa Cinque Stelle è partita la gara al rimpallo delle responsabilità, e il pasticciaccio brutto dello stadio diventa lo strumento di una sanguinosa guerra interna, da cui tracimano odî e rivalità tra i vari capibastone grillini. La sindaca (che nessuno tra loro considera tale) strilla che lei non c'entra niente e che hanno deciso tutto «loro». Roberta Lombardi, candidata trombata alla Regione punta dritto contro il governo: a portare Lanzalone a Roma è stato «il gruppo che gestiva gli enti locali», la «responsabilità politica» è loro. Ossia di Gigino Di Maio, vicepremier; Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia; Riccardo Fraccaro, ministro ai Rapporti con il Parlamento. L'architrave grillina dell'esecutivo, in pratica. Ma in verità, nelle gerarchie occulte e opache del Movimento, le responsabilità arrivano ben più in alto, su per li rami. Perché Lanzalone, che in pubblico diceva: «Grillo? L'ho visto solo una volta, a teatro. Casaleggio? Non lo conosco», in privato aveva frequentazione ben più ravvicinate coi due boss del partito stellato. La sera prima di essere arrestato era a cena proprio con lo «sconosciuto» Casaleggio, al centro di Roma, per discutere di nomine e posti nel governo e nelle partecipate, Rai inclusa: un ricco bottino di poltrone su cui la srl di Milano intende avere voce decisiva in capitolo. Con la consulenza di Mr Wolf. Ma c'è di più: a Lanzalone e alle sue competenze tecnico-legali si deve l'ambiguo assetto interno del partito: «È stato lui - scrive Marco Canestrari, ex collaboratore di Casaleggio senior e autore del libro-denuncia Supernova - a scrivere il nuovo Statuto del Movimento Cinque Stelle e quindi a consegnare, di fatto, a Davide Casaleggio il potere negoziale e di condizionamento di cui gode nel Movimento; e, soprattutto, la possibilità di raccogliere dai parlamentari M5s, nell'arco della legislatura, quasi sei milioni di euro per la sua associazione privata, Rousseau». E sotto il getto del ventilatore impazzito finisce anche il neo Guardasigilli Alfonso Bonafede. «Non commento le inchieste in corso», cerca di svicolare lui. Ma le voci interne additano proprio il ministro come colui che ha «presentato Lanzalone a Grillo», che lo ha portato a Livorno da Nogarin prima e a commissariare la Raggi a Roma poi. E il Pd lo sfida: «Il ministro della Giustizia non può convivere con queste macchie dice il presidente dei senatori dem Andrea Marcucci - meglio che venga subito in Aula a chiarire la sua posizione e le sue relazioni». E Roberto Giachetti chiede le dimissioni di Raggi: «Non per la vicenda giudiziaria, di cui si occuperanno i tribunali. Ma perché una Giunta di incompetenti, irresponsabili e incapaci ha fatto naufragare tra impicci e imbrogli un'opera pubblica che serviva alla città». Il premier Conte, percependo la bufera, cerca di buttare la palla in tribuna: il problema non è Roma, dice, è «il caso corruzione in Italia». E per dimostrare di tenere sotto controllo la situazione, ieri era in prima fila con mezzo governo ad applaudire la relazione annuale dell'Anticorruzione di Cantone, la stessa che pochi giorni fa aveva bacchettato: «Non ha funzionato», salvo poi dover ricucire.

Le manovre della cricca sulla Regione. Oltre agli appalti, le pressioni per evitare che la giunta Zingaretti cadesse, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri, Venerdì 15/06/2018, su "Il Giornale". Non solo lo stadio. La cricca di Parnasi era in grado anche di pilotare la politica del Campidoglio e riteneva di poter influenzare la formazione di una maggioranza di governo a livello regionale, come emerge da un'intercettazione dello scorso marzo in cui parlando con una persona vicina al governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, si mostra disponibile ad intervenire per non far cadere la giunta messa in pericolo dalla mancanza di maggioranza in consiglio dopo aver saputo che Salvini e la Meloni erano intenzionati a farla saltare. Per questo si offre di poter agganciare Stefano Parisi, con il quale dice di avere un ottimo rapporto. Ieri, tra l'altro, c'è stato un botta e risposta sul coinvolgimento della Regione Lazio, chiamata in causa da Virginia Raggi. La replica: «Noi non coinvolti». Dalle intercettazioni di sicuro emerge un retroscena della defenestrazione di Cristina Grancio, consigliera grillina che si era distinta per la sua contrarietà al progetto dello stadio giallorosso. Il primo giugno del 2017 Parnasi telefona a Luca Lanzalone per dirgli che doveva incontrare Luca Montuori, assessore all'Urbanistica della Raggi. «Oggi incontro Montuori credo per parlare delle varie questioni sollevate dalla mitica Grancio». Ma l'avvocato genovese taglia corto: «Date ancora retta alla Grancio, gli ho detto anche a Montuori. Adesso io parlo con Luca, già glielo ho detto l'altro giorno, non bisogna andare dietro alle istanze della Grancio e le sue cazzate». Parnasi si lamenta delle spese legali che deve sostenere: «Sai quanto spendo per difendermi dal vincolo del cavolo che hanno messo? 300mila euro, sto incorrendo in spese contro spese ogni mese, per eseguire una procedura che si doveva concludere a marzo e per ragioni che conosciamo adesso speriamo si chiuda ad ottobre, voglio dire cioè che la Grancio dica cose di questo genere perché Berdini (l'ex assessore all'Urbanistica allontanato dal M5s) gliele dice in un orecchio, è una follia». Lanzalone replica così: «L'errore è che Montuori ci va un po' dietro». Ma il manager ex Acea lo tranquillizza: «La Grancio nel conto dei voti noi la diamo già come maggioranza fuori». E di fatti così è andata. Parole che suonano come una rivincita per l'ex grillina, che adesso si aspetta le scuse dai suoi ex colleghi di maggioranza. Sotto inchiesta è finito anche Francesco Prosperetti, il soprintendente speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma il cui intervento è stato determinante per l'archiviazione della richiesta di vincolo sulle tribune dell'ippodromo di Tor di Valle.

Nuovo stadio della Roma: le intercettazioni dell'inchiesta. "Lanzalone è stato messo a Roma da Beppe Grillo" si legge nelle carte. Questa e altre dichiarazioni che stanno mettendo in difficoltà il M5S, scrive Maurizio Tortorella il 14 giugno 2018 su "Panorama". "Ora l’avvocato Luca Lanzalone si deve dimettere" da presidente della Acea, la municipalizzata romana attiva nella gestione dell'acqua, dell'energia e dell'ambiente. È quel che sostiene oggi il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, all’indomani dei nove arresti decisi dal giudice di Roma per una rete di presunte corruttele sui lavori dello stadio della Roma Calcio. Di Maio aggiunge che “chi è agli arresti domiciliari non può rimanere in quella carica”, e si aspetta che Lanzalone, consulente del Movimento 5 stelle per lo stadio e da ieri agli arresti domiciliari, si dimetta spontaneamente. "Da noi chi sbaglia paga", aggiunge il ministro, con qualche evidente imbarazzo per il ruolo che la magistratura attribuisce al consulente della giunta grillina che da due anni esatti governa la Capitale.

L'inchiesta in corso. Con nove arresti e 16 indagati, torna a traballare la poltrona del sindaco Virginia Raggi, ma soprattutto rischia di franare il nuovo stadio della Roma: l'inchiesta ventila una presunta corruzione sulla variante del progetto, licenziato nel febbraio 2017 con il taglio del 50% delle cubature rispetto al piano iniziale. Sono finiti in carcere il costruttore Luca Parnasi e i suoi collaboratori Luca Caporilli, Simone Contasta, Naboor Zaffiri, Gianluca Talone e Gianluca Mangosi. Ai domiciliari invece sono andati (oltre a Lanzalone) Adriano Palozzi, vicepresidente del Consiglio della Regione Lazio, di Forza Italia, e Michele Civita, ex assessore regionale del Pd. La posizione del presidente grillino dell’Acea, avvocato genovese, è resa difficile per alcune intercettazioni, ma rischia di creare grane anche al governo giallo-verde: "Lanzalone è stato messo a Roma da Beppe Grillo per il problema stadio insieme al professore Fraccaro e Bonafede", afferma per esempio Luca Parnasi nel corso di una cena, citando gli attuali ministri per i Rapporti con il parlamento e della Giustizia. L'intercettazione è presente nell'ordinanza di custodia cautelare. "Parnasi” si legge nel provvedimento “dice che Lanzalone l'hanno portato i 5 Stelle ed è presidente della Acea e ha studiato a Genova. È una persona molto dotata". Secondo gli inquirenti, l’avvocato genovese in realtà sarebbe un “facilitatore” di affari, che nell'operazione stadio avrebbe avuto il compito di sovrapporre gli interessi pubblici a quelli privati. L'opera, finita nelle polemiche prima ancora di essere avviata, dovrebbe sorgere nella zona di Tor di Valle e si stima debba accendere affari complessivamente per un miliardo di euro. Parnasi, nelle intercettazioni, sintetizza la figura del presidente di Acea parlandone come di "Wolf", il personaggio che nel film Pulp Fiction “risolveva problemi” (per esempio ripulendo orribili scene del crimine). "Il 30 marzo 2018” si legge nell'ordinanza di custodia cautelare “Lanzalone parlando dello stadio comunica a Parnasi di aver individuato un escamotage idoneo per accelerare i tempi della procedura. Parnasi è entusiasta e pronuncia più volte la parola Wolf": "Eh ma quando c'è Lanzalone” ripete l'imprenditore “quando c'è Wolf... quando c'è Wolf… la questione…". Come a dire: quando c’è lui, tutto si risolve. L’inchiesta continua.

Stadio Roma: «Il consigliere della Raggi asservito ai Parnasi». Terremoto sulla giunta. Dal costruttore l'avvocato Lanzalone, fedelissimo della sindaca, ha avuto consulenze «inutili» per 100 mila euro per velocizzare il progetto. I pm: «Sono mazzette. I due hanno chiesto a Bisignani di intervenire sulla stampa per cambiare articoli sgraditi». Nei guai anche il dem Civita, uomo di Zingaretti: «Parnasi, mi assumi mio figlio?» Scrive Emiliano Fittipaldi il 13 giugno 2018 su "L'Espresso". Mazzette, assunzioni di figlio, consulenze fittizie: il sistema guidato dall'imprenditore e immobiliarista Luca Parnasi, finito agli arresti insieme ai suoi più stretti collaboratori e a politici e dirigenti di primo piano del Movimento Cinque Stelle, del Pd e di Forza Italia, era basato sulla corruzione sistematica di pubblici ufficiali del Comune di Roma e della Regione Lazio. Con l'obiettivo finale di ottenere il via libera al progetto del nuovo stadio dell'AS Roma (del tutto estranea dall'inchiesta della procura di Roma e dei Carabinieri del Nucleo investigativo di Roma), un affare che per il gruppo Parnasi vale centinaia di milioni di euro. Le intercettazioni telefoniche e ambientali, ii messaggi Whatsapp e delle caselle di posta elettronica, le analisi dei movimenti bancari segnalano come l'imprenditore, indagato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, aveva puntato molte fiches per assoldare politici che potevano aiutare il suo gruppo in Consiglio regionale, oltre a «pubblici ufficiali» di punta del Campidoglio come Luca Lanzalone, principale consigliere della sindaca Virginia Raggi sulla questione dello stadio, poi promosso alla presidenza di Acea, e oggi principale consigliere della giunta del M5S.

TERREMOTO LANZALONE. Secondo le accuse del pm Paolo Ielo, che ha coordinato l'inchiesta – uno degli stralci di quella partita dalle intercettazioni sul costruttore Sergio Scarpellini – Parnasi e i suoi uomini avrebbero «offerto a Luca Lanzalone (indagato e arrestato per concorso in corruzione, ndr) diverse utilità, e tra queste svariati incarichi professionali, al fine di corromperlo, acquisendone il costante asservimento agli interessi del gruppo imprenditoriale». Il fedelissimo della Raggi, vicino anche ad Alfonso Bonafede neoministro della Giustizia e ad altri maggiorenti del Movimento, Luigi Di Maio su tutti, avrebbe usato i suoi poteri di mediatore per gli «interessi del Parnasi e del suo gruppo...in violazione dei doveri istituzionali di imparzialità e correttezza». In cambio di «lucrosi incarichi dello studio legale Lanzalone & Partners, in persona di Luciano Costantini (socio di Lanzalone, ndr) e Stefano Sonzogni». In pratica, dicono i magistrati, Parnasi ha dato o promesso a Lanzalone varie consulenze. La prima evidenza è nella «promessa del conferimento, da parte dei referenti della Sgr Dea Capital di un incarico assolutamente inutile e assegnato per finalità corruttive» per l'assistenza legale in alcuni rapporti tra l'azienda e il Comune di Marino, amministrato dai grillini, «per la quale veniva formulato un preventivo da 50 mila euro quale compenso base, di ulteriori 40 mila euro – oltre a un importo variabile per diverse decine di migliaia di euro – in base all'esito della prestazione». Non solo. Parnasi – per tramite di una persona di fiducia, Mariangela Masi, avrebbe girato a Lanzalone un altro incarico legale da 12500 euro, più un'altra commessa «in ordine alla ristrutturazione di fondi, legati alla realizzazione presso la vecchia Fiera di Roma di un polo di intrattenimenti» e un palazzetto. In cambio Lanzalone, spiegano i magistrati romani, ha elaborato «una soluzione tecnica» per il progetto dello stadio della Roma «finalizzata a consentire un immediato inizio dei lavori senza il ricorso a procedure d'urgenza», in modo da evitare ricorsi «con conseguente allungamento dei tempi. Si tratta di un escamotage individuato dal pubblico ufficiale nell'interesse esclusivo del privato per eliminare gli ostacoli frapposti alla realizzazione del progetto». Lo stesso Lanzalone avvertiva poi Parnasi di ogni step amministrativo. I rapporti tra i due sono costanti, e apparentemente idilliaci. Tanto che Lanzalone chiede a Parnasi un intervento sul sito Dagospia, che aveva pubblicato un articolo sul suo conto e sulla sua vita privata che aveva – come si legge dalle intercettazioni – già «agitato Di Maio». Parnasi, per risolvere il problema, si affida all'ex pidduista Luigi Bisignani. Prima, però, chiede il permesso all'uomo forte dei Cinque Stelle. «Con Bisignani, se vogliamo fare una prova di forza, io ci posso parlare in tempo reale», chiosa Parnasi attovagliato con l'avvocato di Virginia al roof garden dell'hotel Eden. «Se lo fai è meglio per evitare che evitassero a menarla su cose che non hanno senso», ringrazia Lanzalone. Bisignani si muoverà, il «contenuto sgradito» dell'articolo verrà modificato (ma Roberto D'Agostino, titolare del sito web, spiega a L'Espresso che i cambi erano dovuti soprattutto all'arrivo di una querela arrivata da una signora citata nel pezzo), ma il colloquio tra i due seduti al roof dell'Eden, registrato dai pm, continua: è lì che Parnasi prospetta a Lanzalone i vari «incarichi corruttivi».

I POLITICI. Parnasi, secondo i pm, corrompe altri politici. In primis i grillini, ora al potere e principale obiettivo delle attività criminose di Parnasi e dei suoi collaboratori. Il capogruppo dei grillini Paolo Ferrara, è indagato per concorso in corruzione. Fedelissimo anche lui di Virginia, Ferrara – che ha votato a favore della conferma della dichiarazione di pubblico interesse del progetto del nuovo stadio – avrebbe «scambiato la sua funzione pubblica» che viene «mercificata per la realizzazione di un interesse privato». Al di là dei rapporti assai amichevoli tra Luca Parnasi e il consigliere grillino, i pm hanno scoperto che il gruppo avrebbe offerto a Ferrara un progetto per il restyling di un pezzo del lido di Ostia. «L'interesse personale e non pubblico del Ferrara nella vicenda» scrivono i pm «appare evidente vista la circostanza che proprio il collegio di Ostia costituisce il suo bacino elettorale». Non solo: che Parnasi non abbia un reale interesse nella riqualificazione della spiaggia è chiaro dalle frasi captate dai collaboratori che “regalano” a Ferrara il progetto: «Fare immediatamente sta roba di Ostia», chiarisce Luca Caporilli, uomo di Parnasi «Ma per incassare su Tor Di Valle», ossia il luogo su cui deve sorgere lo stadio. Se ai consiglieri forzisti di Regione e Comune Adriano Paolozzi e Davide Bordoni vengono girate utilità e/o somme di denaro per la campagna elettorale (entrambi i politici erano impegnati nelle procedure amministrative dello stadio), l'ex assessore regionale dell'Urbanistica Michele Civita, piddino e uomo vicino a Nicola Zingaretti, chiede a Parnasi direttamente l'assunzione del figlio. Parlano al caffè Doney di Via Veneto. Non sanno di essere intercettati.

Parnasi: «Che mi vai?»

Civita: «Io ti voglio chiedere una cortesia per mio figlio...tu me l'avevi detto no?»

Parnasi: «Sì sì»

Civita: «Allora, ovviamente per ragioni di opportunità...nulla che riguarda le tue società! Ovviamente! Però tu mi avevi detto che qualcuno...lui è laureato in economia...Se ti mando il curriculum...»

Parnasi: «No non mandarmi il curriculum mandami la mail....Tu non ti preoccupare! Io ho già un'idea...di una società molto seria...Lui sta all'Eur no? Sta sempre vicino a te? Io avevo in testa una società che si chiama 8BE Consulting...».

Il titolare verrà chiamato da Parnasi il giorno dopo, e gli raccomanderà il figlio «dell'uomo di Zingaretti. Una persona seria, per bene».

Così Salvini e gli altri chiedevano i biglietti a Parnasi per l'ultima partita di Totti. Nelle intercettazioni la richiesta (respinta) di due ticket da parte del ministro dell'Interno. Lo stesso favore sollecitato anche da un deputato dem e da tre esponenti nazionali 5 Stelle, scrivono Marco Mensurati, Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi il 14 giugno 2018 su "La Repubblica". Tutti da Totti. Il 28 maggio 2017 per Roma e la Roma non è una domenica qualsiasi. Quel giorno all'Olimpico si gioca Roma-Genoa, la partita d'addio del capitano giallorosso Francesco Totti. I biglietti sono introvabili. E questo, per il costruttore Luca Parnasi, al centro dell'inchiesta della procura di Roma che ipotizza un enorme giro di corruzione attorno al progetto del nuovo stadio della Roma, è un'opportunità. Perché a lui, all'ultimo minuto, si sono rivolti diversi politici, tra cui l'attuale ministro dell'Interno Matteo Salvini.

Due ticket per Salvini. Il 27 maggio Parnasi è al telefono con l'amministratore delegato della Roma Mauro Baldissoni. Per prima cosa - si legge negli atti - precisa che solo le richieste di biglietti effettuate da persone che potrebbero essere funzionali al raggiungimento dell'obiettivo della costruzione dello stadio verranno soddisfatte.

Parnasi: "Tickets come sei messo?".

Baldissoni: "Eh, come sono messo Luca...non ci stanno i biglietti...".

Parnasi: "Io volevo infilare Simone (Simone Contasta, collaboratore di Parnasi, ndr).

Baldissoni: "Per Simone lo possiamo trovare un posto...".

Parnasi: "Perfetto. Secondo, me lo ha chiesto uno Claudio Santini (già capo della segreteria del Ministero dei Beni culturali, indagato, ndr)... Claudio ci sta dando una grossa mano come sai... Lo abbiamo incontrato insieme a Piazza Morgana. Poi il terzo che me lo ha chiesto, ma questo dobbiamo capire se ci interessa sul progetto, è Francesco Boccia. Lo conosci Francesco tu? Commissione...".

Baldissoni: "Pd".

Parnasi: "...Bilancio. Pd! Sì! (...) È una persona che c'ha peso e mi ha chiesto dice guarda Luca, fondamentale due tickets. Il quarto è Matteo Salvini, che mi ha chiesto due tickets...però io onestamente di Matteo me ne fregherei".

Baldissoni: "No, sfreghiamocene...".

Parnasi: "Io sto ragionando solo con te su quelli che, secondo me, hanno un minimo di senso per il Progetto... Il resto non guarderei in faccia a nessuno".

Baldissoni: "Va bene...mandami cognome e nome e data di nascita".

Parnasi: "Io direi: uno Claudio, i due di Boccia e quello che metto io al posto di Simone e Simone lo porto con me".

Pressing dai 5 Stelle. Anche Luca Lanzalone, consulente della sindaca 5 Stelle Virginia Raggi, si muove con Baldissoni per la partita di Totti. È lo stesso dirigente della Roma a parlarne con Simone Contasta, che lo ascolta ridendo.

Baldissoni: "Lanzalone mi chiede i biglietti per Roma-Genoa, gli ho detto va bene, tranquillo... Mi ha detto: mi servono tre biglietti in più perché vengono degli esponenti nazionali dei Cinque Stelle. Tra l'altro uno di questi è funzionale a favorire una specie di photo opportunity accordo".

Contasta: "Ho capito".

Baldissoni: "Raggi-Zingaretti-Pallotta... per in qualche modo spingere e sancire il... siamo tutti d'accordo a farlo in tempo".

Stadio della Roma: tutte le tappe da Pallotta alla Giunta Raggi. Accordo trovato dopo una trattativa durissima. Taglio delle cubature del Business Park fino al 60% e niente torri, scrive Giovanni Capuano il 24 febbraio 2017 su "Panorama". Lo Stadio della Roma si farà e sarà a Tor di Valle, come voleva il club insieme ai costruttori proponenti. Il via libera definitivo alla costruzione dell'impianto è arrivato in coda a un venerdì 24 febbraio che sarà ricordato per la tensione e i continui cambi di scenario, iniziato con il malore del sindaco Virginia Raggi - costretta a un breve ricovero in ospedale - e terminato con il vertice e l'accordo serale tra le parti. La Roma ha ottenuto di poter mantenere il progetto su Tor di Valle, vincendo la perplessità tecnica e politica della nuova Giunta capitolina. Che, però, ha incassato un taglio consistente delle cubature delle opere connesse allo stadio. Non ci saranno più le torri Libenskind, che avevano suscitato un diluvio di polemiche sin dal loro apparire nelle carte del progetto. Taglio fino al 60% delle cubature per la parte del Business Park, convenzione perché sia data priorità alle opere di urbanizzazione e accordi sugli standard ecologici e tecnologici; ecco il punto di mediazione che ha sbloccato l'empasse. Un compromesso che consente a tutti di gridare alla vittoria. La Roma avrà la possibilità di avere il proprio stadio, condizione che era necessaria e fondamentale per la permanenza di Pallotta ("Serata importante, non vedo l'ora di costruirlo e mostrarlo al mondo") e per la prosecuzione negli investimenti per il rafforzamento di club e squadra, che altrimenti avrebbero rischiato un brusco stop. Il sindaco Raggi, invece, incassa una modifica sostanziale del progetto, tanto da poterlo definire uno "stadio 2.0" sottolineando di "aver evitato il progetto mostre ereditato dalla precedente amministrazione". Ora saranno i tecnici a dettare i tempi per superare gli intralci burocratici e dare corso all'accordo politico.

L'ultimo scontro tra Grillo e Pallotta alla vigilia dell'accordo. Il no di Grillo era maturato dopo un vertice con il sindaco Raggi, che si stava tutelando attraverso il parere di tecnici e legali, e i consiglieri del Movimento. La base è contraria e vuole cambiare la delibera di pubblica utilità della Giunta Marino, atto che ad oggi rende difficile qualsiasi passo indietro. L'idea del Comune è che il no sia per il sito di Tor della Valle e non per la realizzazione dell'impianto, che dovrebbe spostarsi a causa del rischio inondazione che, pure presente nel dossier della Roma con alcuni interventi compensativi, non sarebbe stato del tutto superato. La risposta della Roma è decisa e furiosa, espressa con due messaggi via Twitter direttamente dal presidente Pallotta. Non esiste l'ipotesi di spostare tutto il progetto in un luogo diverso da Tor di Valle e il no allo stadio viene ritenuto "catastrofico" per il futuro del club e degli investimenti stranieri sul territorio di Roma. La mediazione, che pure prosegue, è difficilissima e ormai non si limita più al taglio delle cubature (dal 25 al 40 per cento in meno) e delle opere connesse.

Il vincolo annunciato dalla Soprintendenza alle Belle arti. Non solo per la battaglia politica sul via libera all'impianto di Pallotta e Parnasi, ma anche per il vincolo preannunciato dalla Soprintendenza alle Belle arti sull'ippodromo di Tor di Valle a pochi giorni dalla scadenza del 3 marzo e dalla fine della Conferenza di servizi. Un colpo durissimo per le speranze della Roma: il documento spiega che in quell'area non si può costruire perché va salvaguardato il celebre ippodromo del 1959 e, in particolare, la sua tribuna considerata un gioiello architettonico. Il rischio è davvero uno stop definitivo alla costruzione dello stadio perché il vincolo vieta la realizzazione proprio della struttura e non solo delle opere connesse. Di sicuro si tratta di una svolta inattesa perché sono passati oltre due anni (e 60 milioni di euro spesi) dalla presentazione del dossier e proprio in extremis la Soprintendenza fa conoscere il suo parere. Il vincolo sarebbe anche superabile ed esiste un parere differente da parte dello stesso ufficio del Comune, ma il tempo manca.

Metà febbraio 2017 - La mediazione verso il via libera. Un passo avanti dopo quello indietro. Lo Stadio della Roma è un po' più vicino all'approvazione del progetto dopo settimane di fibrillazioni e incontri seguiti al parere negativo che sembrava aver messo una pietra tombale sul dossier. L'ultimo incontro in Campidoglio pare aver fatto fare un deciso avanzamento all'iter che si era incagliato a inizio mese e si era rimesso in movimento con il vertice di lunedì 7 febbraio, quando le parti si erano dette entrambe disponibili a fare sforzi per arrivare a una soluzione. L'accordo sulle cubature pare vicino. Un taglio del 20% che non mina l'equilibrio economico dell'investimento di Pallotta e del costruttore Parnasi ma che avvicina i numeri a quelli previsti dal piano regolatore. "Vorrei ringraziare la Roma per aver risposto alle sollecitazioni presentando una revisione che ha dei caratteri fortemente innovativi" ha aperto con decisione il vice sindaco Luca Bergamo. Soddisfazione condivisa anche dai dirigenti della società capitolina. Il termine rimane il 3 marzo, data entro cui si dovrà chiudere la conferenza di servizi e dare il via libera (o negarlo) al progetto da 1,7 miliardi di euro. Al tavolo della trattativa non c'è più l'assessore all'Urbanistica Berdini, messo in difficoltà dalle polemiche degli ultimi giorni con il sindaco Virginia Raggi. Una vicenda che si sta dipanando in numerose tappe: Febbraio 2017 - parere non favorevole dal Comune di Roma. La penultima tappa, quella che ha messo tutti in allarma, è stato lo stop del Comune di Roma al progetto definitivo. Una presa di posizione non inattesa. Da quando a Roma si è insediata la Giunta Raggi i problemi per Pallotta e soci si sono moltiplicati. A rendere pubblica lo scorso 2 febbraio la nota del Comune è stata la Regione Lazio, che deve intavolare la Conferenza dei Servizi, l'ultimo passo formale verso il via libera. "Parere non favorevole al progetto" per una serie di carenze su sicurezza stradale, veicolare e pedonale, necessità di adeguare i livelli di "servizio delle infrastrutture stradali (parcheggi, rampe, accessi e così via)" oltre all'impegno a "ridefinire il perimetro delle zone" che sono "soggette a rischio per eventi idraulici". Insomma il progetto non va bene, non è idoneo e così come presentato in Campidoglio non ha possibilità di essere approvato e diventare realtà. Apparentemente una bocciatura a tutto campo, anche se la presa di posizione è meno drastica e, come ricordato dalla Roma, non è detto che si voglia rinunciare a un investimento in strutture da 1,6 miliardi di euro. Il Comune ha, infatti, poi precisato in una nota che c'è la volontà di "andare avanti per analizzare il dossier" e che "ci sono tutti i margini per concludere positivamente la procedura". Le condizioni, però, rimangono e mettono Pallotta e il costruttore Parnasi in una situazione di debolezza nella trattativa con la Giunta dove i pareri negativi non mancano. Anzi.

Da Alemanno alla Raggi: storia del progetto. Non va dimenticato che le carte sullo Stadio della Roma hanno già attraversato i corridoi di tre diverse giunte capitoline. Il progetto è nato con Alemanno, si è sviluppato con Marino e ora viene vagliato dalla Raggi e dal Movimento 5 Stelle che dall'opposizione l'aveva bersagliato denunciando gli eccessi del piano edilizio e commerciale legato all'impianto, oltre alla scelta dell'area di Tor di Valle. Si va avanti così dal 2012, quando Pallotta era ancora nell'ombra ma già Cushman&Wakefield era incaricata di vagliare una serie di siti possibili per l'operazione. Poi la scelta di Tor di Valle e del costruttore Parnasi come socio, la stesura del progetto dell'architetto statunitense De Meis (inizio 2013), i confronti con il nuovo sindaco Marino e le perplessità sui costi lievitati per aumentare le opere pubbliche necessarie al Comune per definirla opera di pubblico interesse. Un tira e molla tra Roma e Boston in cui trasporti, cubature, rischi idrogeologici e interventi di compensazione sono stati oggetto di trattative estenuanti così come la proprietà del nascente stadio, non legata alla Roma ma a Pallotta stesso col rischio di continuare ad avere il club ospite in casa propria e l'Assemblea capitolina impegnata a vincolare gli statunitensi per almeno trent'anni.

Inizio lavori nel 2017: previsione non rispettata. La realtà è che i tempi rispetto al progetto originario sono saltati più volte nel rimpallo della documentazione. Ancora oggi il sito ufficiale del nuovo stadio indica in 'Inizio 2017' il via dei lavori con apertura al pubblico nell'agosto 2019. Per arrivarci mancano, però, ancora troppe tappe politiche e non solo. Intanto la Roma sul campo sta vivendo una stagione positiva (dal 2013 finisce stabilmente sul podio della serie A) ma non riesce a fare il salto di qualità e il gap con la Juventus, guarda caso l'unica big italiana con stadio di proprietà, si va ampliando. Pallotta e gli statunitensi continuano a legare il futuro del club al via libera alla costruzione dell'impianto. Senza stadio rischia di venire meno l'interesse principale, il motore che dal 2012 muove la conduzione di una società dalle potenzialità immense oggi non ancora del tutto espresse. Il 2017 sarà l'anno decisivo, in un senso o nell'altro.  

IL MORALISMO DI LUIGI DI MAIO.

Travajola si difende: non sapevo…Replica del direttore Sansonetti, scrive Rocco Vazzana il 28 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Sabato abbiamo pubblicato un articolo nel quale, un po’ divertiti, raccontavamo di come Marco Travaglio, il Lancillotto della lotta alla prescrizione – male dei mali della nostra giustizia – avesse chiesto anche lui la prescrizione per un suo reato. Figuraccia. Chiuso. Ieri però Travaglio ha risposto con poche righe sul suo giornale. Ha scritto (in terza persona com enel de bello gallico): «Travaglio non ha mai chiesto la prescrizione: l’ha chiesta, in subordine all’assoluzione, l’avvocato dell’Espresso.” In questo modo, Travaglio ci fa sapere due cose. Primo, che lui sarebbe stato anche disposto a rinunciare alla prescrizione se l’avessero assolto, ma i giudici, testoni, l’han-no condannato. Non è colpa sua. Secondo, che la prescrizione non l’ha chiesta lui: l’ha chiesta l’avvocato. Men-tre in genere, credo, gli imputati chiedono la prescrizione tramite l’idraulico di fiducia…Comunque adesso le cose sono chiare. Travaglio si è iscritto al club di quelli che fanno le cose a propria insaputa. Come Scajola. Niente di male, per carità. Noi pensiamo che Travaglio abbia fatto benissimo a chiedere la prescrizione, 12 anni dopo il reato. Magari, per favore, da qui in avanti, quando appare in Tv nella sua striscia quotidiana, parli d’altro. Sulla prescrizione lasci la paro-la a Scanzi…

Sorpresa, Marco Travaglio ha chiesto la prescrizione! Lo strano ricorso del direttore del Fatto Quotidiano che tante volte, insieme a Davigo, ci ha spiegato i “trucchetti” per allungare i processi e “farla franca”, scrive Piero Sansonetti il 24 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  Ieri, nel suo editoriale sul “Fatto”, Marco Travaglio ha ripetuto che c’è una lobby di avvocati che si batte contro la riforma della prescrizione, perché gli avvocati, di solito, usano la prescrizione come tecnica difensiva. Travaglio scrive con molto disprezzo la parola lobby: la considera un sinonimo di gang, o banda, o cricca. Gli avvocati – dice – cercano di fare assolvere i propri clienti colpevoli, specie quelli legati a Berlusconi o a Renzi (che di conseguenza sono colpevoli quasi automaticamente…), non smontando le accuse, perché non potrebbero, ma tirandola per le lunghe e puntando a fare scattare la prescrizione. Dunque pensavo io – Travaglio considera una cosa pessima ricorrere alla prescrizione. E più pessima che pessima, considera l’abitudine di tirare per le lunghe i processi. Lui e Davigo ci hanno spiegato tante volte che ci sono degli avvocati che ricorrono in Appello e in Cassazione, sapendo benissimo che non potranno ottenere la cancellazione della condanna, ma con la speranza di ottenere in questo modo – date le “lungaggini” della giustizia – la prescrizione e dunque la non condanna. Beh, mi sbagliavo. Ieri mi è capitata per le mani una vecchia sentenza della Corte di Cassazione che fa un lisciabbusso a Travaglio e ai suoi avvocati per aver presentato un ricorso manifestamente infondato contro una sentenza d’appello per diffamazione. Perché Travaglio allora presentò quel ricorso? L’obiettivo era evidente: quello di ottenere la prescrizione. La sentenza della Cassazione alla quale mi riferisco – che potete trovare online sul sito della Cassazione – è stata emessa dalla quinta sezione penale ed è la numero 14701 del 2014. Presidente Gennaro Marasca, relatore Paolo Micheli. La sentenza si legge nelle primissime righe riguarda il ricorso “proposto nell’interesse di Travaglio Marco, nato a Torino il 13 ottobre del 1964 e di Daniela Hamaui eccetera eccetera…”. La Hamaui era stata condannata per omesso controllo sull’articolo di Travaglio, visto che all’epoca era direttrice dell’Espresso, giornale sul quale scriveva Travaglio ( i direttori, per legge, rispondono di qualunque cosa venga scritta sul giornale del quale sono responsabili).Poche righe dopo questa intestazione, si legge questa frase: “Uditi per gli imputati ricorrenti gli avvocati Enrico Grosso e Mario Geraci, i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata ( in subordine senza rinvio, per intervenuta prescrizione)”. Naturalmente quando ho letto quelle due paroline (“intervenuta prescrizione”) ho fatto un salto sulla sedia. Marco Travaglio chiede di essere assolto per intervenuta prescrizione? Lui che considera la prescrizione il male di mali e la bandiera sporca dei garantisti? Che devo dirvi? E’ così. Travaglio ha chiesto la prescrizione. Ci sono ancora un paio di aspetti di questa sentenza che sono interessanti. Il primo riguarda il merito della condanna. Il secondo il merito della sentenza. Il merito della condanna è presto detto. Pare che Travaglio avesse scritto un articolo corredato dal solito titolo sobrio e ammiccante, che diceva così: “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. Nell’articolo, Travaglio, se ho capito bene, raccontava di un incontro avvenuto nello studio dell’avvocato Taormina nel marzo del 2001 fra lo stesso Taormina, il suo assistito Marcello Dell’Utri e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio; l’incontro – si diceva nell’articolo – sarebbe avvenuto per concordare una testimonianza, e sempre nell’articolo si diceva che nello studio di Taormina, secondo la testimonianza del colonnello, c’era anche Cesare Previti. Però Travaglio – sostengono le varie corti che lo hanno condannato – non diceva che il colonnello aveva dichiarato che sì Previti era in quello studio, ma non si incontrò con Riccio e Dell’Utri e la sua presenza non aveva niente a che fare con quell’incontro, nel quale invece si parlava della accuse a Dell’Utri di concorso esterno in associazione mafiosa. Dunque il nome di Previti era stato messo lì a sproposito – hanno stabilito le Corti, e omettendo un particolare decisivo delle dichiarazioni del colonnello Riccio. Il merito della sentenza della Cassazione è ancora più interessante. La Cassazione considera il ricorso del tutto infondato. E dunque – questo lo aggiungiamo noi – pretestuoso. E per questa ragione rifiuta la prescrizione. Perché – dice la Cassazione – siccome il ricorso è inammissibile è come se non ci fosse stato. E dunque la sentenza di appello vale come sentenza ultima, e la sentenza d’appello fu emessa prima che scattasse la prescrizione. Dunque Travaglio non ne ha diritto. Sembra proprio che la Corte di Cassazione avesse letto, quando decise così, gli articoli che Travaglio avrebbe successivamente scritto. E cioè le sue severe requisitorie contro gli avvocati che ricorrono in Appello o in Cassazione solo per allungare i tempi. La Cassazione dice che in questa occasione fu Travaglio a ricorrere solo per allungare i tempi. Cosa c’è da aggiungere? Niente di speciale. Solo constatare il perfetto funzionamento della solita legge del pendolo. Secondo la quale uno è garantista quando l’accusato è lui o qualche suo amico, e non è garantista se l’accusato è un suo nemico. Travaglio se la prende con le lobby degli avvocati. Fa male. Le lobby degli avvocati, se vogliamo usare questo termine (lobby), hanno come interesse comune la difesa dello Stato di Diritto (le lobby sono organizzazioni che tendono a difendere un interesse comune: i petrolieri il prezzo del petrolio, i commercianti il non aumento dell’Iva, i tabaccai la riduzione delle tasse sulle sigarette, gli ecologisti la riduzione delle automobili che inquinano eccetera eccetera). La difesa dello Stato di Diritto è una battaglia che riguarda lo svolgimento del mestiere di avvocati, gli interessi dei propri clienti, ma anche la saldezza del sistema democratico. Poi esistono altre lobby con interessi opposti. Per esempio la lobby che si raggruppa attorno al “Fatto”, ma anche al movimento di riferimento (cioè i 5 Stelle) e ad alcuni settori della magistratura, la quale si oppone al pieno sviluppo dello Stato di Diritto e ne chiede limitazioni che ritiene necessarie per aumentare le condanne nei processi, visto che questa lobby considera il numero alto delle condanne una garanzia di “pulizia” della società. Io personalmente non riesco a mettere sullo stesso piano le due lobby. Penso che non sia la stessa cosa difendere lo Stato di Diritto o osteggiarlo. Riconosco però la piena legittimità di tutte le battaglie ideali e il diritto di tutti ad avere e difendere le proprie idee. Anche le più reazionarie. Anche il diritto di Davigo. Anche quello di Travaglio, che è l’esponente più in vista ed è il più abile di quella lobby. Mi lascia solo un po’ perplesso questo contrasto tra condanna della prescrizione e suo uso. Sarebbe un po’ come se scoprissimo che Salvini ha un gommone col quale, di nascosto, porta in Italia stranieri clandestini…

Stangata su Travaglio: dovrà versare altri 50mila euro al padre di Renzi. A fine ottobre fu condannato a pagare 95mila euro per aver diffamato Tiziano Renzi. Oggi un'altra sentenza a sfavore: dovrà versargli altri 50mila euro, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo". Ad annunciarlo sul proprio profilo Facebook è stato Matteo Renzi. È la seconda condanna che il giornalista riceve nel giro di un mese. Adesso dovrà pagare altri 50mila euro. "Sono ovviamente contento per mio padre - ha commentato l'ex presidente del Consiglio - bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva". "Il tempo è galantuomo". A guardare il passato Renzi è dispiaciuto. Ma adesso che Travaglio è stato nuovamente condannato non nasconde la propria soddisfazione. "Ci sono dei giudici in Italia - è il commento affidato a Facebook - bisogna solo saper aspettare". E per la seconda volta che un giudice ha dato ragione al padre dell'ex premier piddì. La prima volta era successo il 22 ottobre quando Travaglio, una sua collega e la società del Fatto Quotidiano erano stati condannati a sborsare 95mila euro a Tiziano Renzi. In quell'occasione Matteo aveva avvertito: "È solo l'inizio...". E così è stato. "Non si può diffamare una persona senza essere chiamati a risponderne - commentano ora dal quartier generale del Partito democratico - è una lezione che spero impari anche Marco Travaglio". Mentre Travaglio chiedeva aiuto ai propri lettori lamentando che il pagamento dei 95mila euro avrebbero mandato il giornale in rovina, i giudici hanno portato avanti nuove cause. E oggi è arrivata un'altra sentenza che obbliga il Fatto Quotidiano a pagare altri 50mila euro. "Verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda - ha scritto oggi Matteo Renzi - hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne". Quindi la stoccata: "Adesso sono solo curioso di vedere come i Tg daranno la notizia". Al Nazareno sono in molti ad applaudire alla sentenza. E non manca chi si mette a bacchettare il direttore del Fatto Quotidiano. "Diffamare e raccontare fake news non è giornalismo, non è cronaca e quindi è giusto che abbia un prezzo da pagare - ha detto il senatore dem Dario Stefano - Travaglio inizi a fare economie per onorare la Giustizia".

Abusi, inchiesta sui Di Maio Ma li salverà la prescrizione. La Procura di Nola apre il fascicolo sulle violazioni edilizie e ambientali, ma frena: passato troppo tempo, scrive Stefano Zurlo, Sabato, 01/12/2018, su "Il Giornale".  È il versante giudiziario di un'indagine nata fra il Giornale e le tv e che sui media conoscerà la sua sentenza. Due reati per una coppia di indagati: Antonio e Giovanna Di Maio, rispettivamente padre e zia del vicepremier. L'abuso edilizio e quello ambientale. Grandi titoli, miccia corta sul piano penale. Alla procura di Nola, creata nel '94 per contenere il crimine in una Campania sempre meno felix, hanno letto l'informativa della polizia giudiziaria di Mariglianella e si sono fatti una prima idea della situazione: l'abuso edilizio c'è ma è oltre la soglia molto breve della prescrizione che scatta dopo quattro anni. Un paradosso: il meccanismo demonizzato in ogni modo dal M5s scatterebbe anche nella versione riformata. Così i Di Maio: verranno indagati nei prossimi giorni, ma poi fatalmente la prua dell'inchiesta farà rotta verso il porto dell'archiviazione. E la pratica tornerà all'autorità giudiziaria che stabilirà la strategia e valuterà il da farsi. Sull'altro fronte, un inventario veloce degli inerti sequestrati la dice lunga sullo spessore del filone investigativo: vasche, frigoriferi, tubi, calcinacci. I terreni dove giovedì si è svolto il blitz della polizia municipale erano secondo diverse testimonianze la retrovia dell'azienda di famiglia, l'Ardima, attiva proprio nel settore delle costruzioni. Ma gli oggetti individuati sono piuttosto vecchiotti. Tutto può essere ma al momento il catalogo è molto modesto, anche se si seguirà l'iter del caso. Nelle prossime ore il pm chiederà al gip la convalida del sequestro, che invece non c'è stato per l'illecito edilizio. Contemporaneamente, Antonio e la sorella verranno iscritti nel registro degli indagati una seconda volta. Poi, conclusa questa fase preliminare, il pm, che era di turno quando è arrivata l'informativa dei vigili, passerà gli incartamenti a un collega che svilupperà la notizia di reato. Sbilanciarsi è sempre molto difficile quando si maneggia la cronaca in uscita dalle procure, ma anche su questo versante è immaginabile che si finisca su un binario morto. A meno che non emergano altri elementi che oggi, con tutta franchezza, non si vedono. In ogni caso, l'indagine ha i suoi passi e le sue procedure e sarà il secondo pm a delimitarne il perimetro e a valutare eventuali atti, interrogatori, approfondimenti da delegare alla polizia giudiziaria. La partita dei Di Maio si giocherà a Nola e in piccola parte a Napoli. Qui nel 2020, secondo i tempi biblici della giustizia tricolore, si svolgerà l'appello della causa intentata contro il papà del ministro del lavoro da Mimmo Sposito, uno dei quattro operai che finora hanno dichiarato di aver effettuato prestazioni in nero. Siamo fuori dal recinto del penale ma sempre fra le carte bollate. A Nola, Sposito aveva perso il primo round; tenterà dunque di far valere le proprie ragioni davanti ai giudici della corte d'appello. Gli altri lavoratori non hanno voluto ingaggiare il braccio di ferro, anche se le loro storie sono affiorate nel corso de Le Iene. Non risulta però che la procura abbia disposto accertamenti per episodi che, in ogni caso, risalgono a molti anni fa. Questa volta, a differenza di tanti capitoli della storia patria, la cronaca giudiziaria dovrebbe rimanere periferica. Non saranno, non qui, verbali e intercettazioni a segnare la parabola di Di Maio. Semmai sarà interessante misurare fra qualche settimana l'impatto di tutta questa complessa vicenda sull'opinione pubblica e sul gradimento dei 5 Stelle.

"I grillini e la stampa? Prima l'hanno sfruttata e adesso la attaccano". Il professor Razzante: «Dimenticano che sono al potere grazie a certe penne giustizialiste», scrive Paolo Bracalini, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". Ruben Razzante, docente di Diritto dell'informazione alla Cattolica di Milano. Tanto per cambiare il M5s sul caso dell'azienda di famiglia Di Maio dà la colpa alla stampa che citiamo «non sta facendo libera informazione disinteressata ma un'opera di delegittimazione».

Quindi i giornali non ne dovrebbero parlare?

«L'inchiesta ha smascherato condotte discutibili e probabili reati, quindi si tratta di informazioni di indubbio interesse pubblico. L'interesse è ovviamente potenziato dal fatto che si tratti del papà del ministro del lavoro».

Ma perché ogni volta che il M5s è in difficoltà dà la colpa ai giornalisti?

«Credo sia un difetto della classe politica italiana in generale quello di non riuscire ad accettare le critiche della stampa. La pretesa degli altri poteri di condizionare le scelte editoriali è una regolarità della vita italiana almeno dagli anni sessanta».

Secondo lei c'è un accanimento dei media verso il M5s? Non hanno subito attacchi anche i governi precedenti, quello Berlusconi in particolare?

«L'accanimento contro Berlusconi ha pochi precedenti nella storia dell'informazione forse internazionale. Renzi ha beneficiato, nell'acme del suo potere, dell'appoggio di tutta la stampa più importante, eppure è crollato in breve tempo. I grillini hanno dimostrato, a Roma come in altre realtà territoriali, di non riuscire a gestire le complessità amministrative e quindi è stato giusto che i giornali ne denunciassero le inadempienze. Forse sulla vita privata della Raggi alcune testate hanno esagerato, ma sugli scandali del Campidoglio direi di no».

Il M5s in fondo è nato sull'onda del giornalismo filo procure, oltre che alle inchieste giornalistiche sulla casta politica?

«I grillini sono al potere anche per merito di certa stampa giustizialista che ha alimentato l'odio anti-casta e un nuovismo a tutti i costi, sganciato dalla verifica di competenze e capacità amministrative e governative».

A lei sembra normale avere un ministro e vicepremier che dà ai giornalisti degli «infimi sciacalli»? Coadiuvato da Di Battista che li chiama «puttane»?

«Li trovo attacchi volgari e di cattivo gusto, lanciati per distogliere l'attenzione dalle difficoltà che il Movimento incontra nel patto di governo con la Lega. Va riconosciuto ai pentastellati di aver messo al centro del dibattito politico temi come quello degli editori puri e dei finanziamenti a pioggia all'editoria, che peraltro sono cessati da tempo. Ma i rimedi proposti, se non condivisi con i giornalisti, gli editori, i colossi della Rete e gli altri attori della filiera di produzione e distribuzione delle notizie, rischiano di essere peggiori della situazione attuale».

Il presidente Mattarella è dovuto intervenire per ricordare il ruolo anche costituzionale della libera stampa. C'è secondo lei il rischio che il governo voglia mettere il bavaglio alla stampa?

«Non vedo questo rischio, anche perché la Lega non lo consentirebbe».

Fa parte della storia italiana l'insofferenza del potere politico verso la stampa o è un'anomalia quella che stiamo vivendo con il governo M5s?

«Non vedo grandi differenze con il passato. A parti invertite si ripetono gli stessi comportamenti di sempre. Questa volta, però, la cosa balza maggiormente all'occhio perché a pronunciare questi anatemi contro la stampa è una forza politica che ha fondato le sue battaglie su una diversità morale che spesso non trova riscontro nei comportamenti»

Di Maio e anche Crimi hanno promesso provvedimenti e tagli all'editoria. Non teme siano minacce ad un potere sgradito al governo? Sulla legge sugli «editori puri» annunciata da Di Maio che idea si è fatta?

«Condivido la necessità di una normativa sugli editori puri e sulla libertà della stampa dagli altri poteri. Lo strumento dei finanziamenti all'editoria va usato in modo intelligente e meritocratico. Ora come ora, però, abolire i contributi indiretti senza alimentare i circuiti mediatici in altro modo rischierebbe di impoverire il mondo dell'informazione, anche sul piano occupazionale. Credo che occorrerebbe convocare gli Stati generali dell'editoria per far sì che le misure sull'informazione vengano decise da tutti e non da un governo di parte. L'informazione è un bene neutrale, di tutti, non di chi temporaneamente guida il Paese».

Travaglio ed i Travaglini in sostegno di Di Maio. Pronti a giustificare la sua ipocrisia.

Travaglio: “Il video di Maria Elena Boschi sul padre di Di Maio? Forse lei confida nella smemoratezza generale”, scrive Il Fatto Quotidiano il 28 novembre 2018. “Analogie tra le vicende del padre di Luigi Di Maio e di quello di Maria Elena Boschi? Forse Boschi confida nella smemoratezza generale. In realtà, bisogna ricordare alcune cose, fermo restando che, se il padre di Di Maio ha fatto lavorare in nero uno o più operai nella sua ditta, è un fatto grave, di cui dovrà rispondere”. Così a Otto e Mezzo (La7) il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, commenta il video diffuso dall’ex ministro Maria Elena Boschi sul caso del padre di Di Maio. Travaglio spiega le differenze tra quest’ultima vicenda e quella relativa a Pier Luigi Boschi: “Il caso Etruria riguarda una banca dove il padre della Boschi era un semplice consigliere d’amministrazione. Un mese dopo che la Boschi fu nominata ministro, il padre diventò vicepresidente della banca. Poi venne giù tutto. Il governo Renzi-Boschi legiferò in materia di banche popolari, e cioè anche in materia di Banca Etruria, e successivamente, nella commissione parlamentare di inchiesta dedicata ai crac bancari, si scoprì che la Boschi aveva fatto il giro delle sette chiese per cercare di salvare la banca vicepresieduta dal padre”. E aggiunge: “La Boschi incontrò l’ad di Unicredit Ghizzoni, il presidente di Consob Vegas, il vicedirettore di Bankitalia Panetta, l’ad di Veneto Banca Consoli. Non altrettanto aveva fatto per le altre banche che erano crollate. Riguardo al caso Consip, sappiamo benissimo che ha riguardato il padre di Renzie il suo fedelissimo Carlo Russo fino a quando, dai vertici dell’Arma dei carabinieri, è partita una fuga di notizie verso gli ambienti renziani e alcuni tra i principali collaboratori di Renzi sono indiziati dalla procura di Roma di avere avvertito Tiziano Renzi e l’ad di Consip, che Matteo Renzi aveva nominato, delle indagini e delle intercettazioni, mandando a monte le indagini stesse”. Il direttore del Fatto continua: “Nel caso del padre della Boschi e del padre di Renzi, si trattava di fatti piuttosto pesanti avvenuti mentre Renzi e la Boschi erano al governo, non diversi anni addietro. Nessuno ha mai attribuito ai figli le colpe dei padri. Sono stati tirati in ballo i figli, perché era risultato che la Boschi, da una parte, e i principali collaboratori di Renzi, dall’altra, erano accusati di essersi dati da fare in difesa, rispettivamente, del padre della Boschi e del padre di Renzi”. E chiosa: “Se, ad esempio, Di Maio facesse un condono sul lavoro nero o qualcosa per sanare gli illeciti commessi dal padre, ovviamente sarebbe coinvolto in pieno. Finché non lo fa, di cosa stiamo parlando?”

Luigi Di Maio lavorava in nero col papà? Allora scatenatevi anche su Renzi. In famiglia - La storia lavorativa dell’ex premier è simile a quella del capo M5S, ma non era interessante, scrive Marco Lillo il 30 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il tabulato a fianco è l’estratto degli attivi dell’Inps. Il documento certifica “montanti contributivi” di Matteo Renzi anno per anno con accanto i giorni lavorati, il tipo di contratto e i contributi versati dalle aziende e dagli enti che hanno avuto rapporti con l’ex leader Pd. Il tabulato risale al marzo 2015 e a leggerlo si scopre che Renzi ha un’invidiabile anzianità contributiva. Il Fatto ha raccontato più volte come è riuscito a crearla: alla vigilia della candidatura da parte del Pds e della Margherita a presidente della Provincia fu assunto dalla società della mamma. La Chil Srl lo aveva tenuto fino ad allora come collaboratore coordinato e continuativo, come tanti. Non solo: Matteo era socio al 40 per cento (la sorella Benedetta aveva il 60) della Chil. Proprio quando sta impegnandosi in una campagna elettorale a rischio quasi zero, però la famiglia ha un guizzo: a ottobre 2003 Matteo cede le quote alla mamma e poi la Chil (non più di Matteo) assume Matteo, unico dirigente. Per 7 mesi lo stipendio lo paga la Chil ma quei 30mila euro sono un grande investimento per la famiglia. Dopo l’elezione ad aprile 2004 infatti non è più la famiglia a pagare i contributi ma l’ente Provincia. La stessa cosa si ripeterà nel 2009. Chil lo paga come dipendente solo per tre giorni. Poi, dopo l’elezione, da fine giugno a pagare i contributi è sempre l’ente pubblico, cioè stavolta il Comune. A noi queste sembravano le notizie presenti in questo tabulato e le abbiamo pubblicate allora. Se oggi lo ripubblichiamo è solo per aiutare i colleghi dei grandi quotidiani e delle televisioni. In questi giorni si sono scatenati alla ricerca dei contributi versati a Luigi Di Maio dieci anni fa quando il figlio dava una mano nei cantieri dell’impresa della mamma. Di Maio ha pubblicato i suoi documenti sul Blog M5S. Matteo Renzi non lo ha mai fatto e allora abbiamo deciso di farlo noi, sempre per aiutare i colleghi. A leggere il tabulato certamente i grandi quotidiani si avventeranno su una notizia che a noi sembra inesistente ma che a loro appare evidentemente uno scoop: Matteo ha dato una mano nella società a babbo e mamma Laura senza che all’Inps risultasse nulla nel 1998. Lo racconta al Fatto un ex co.co.co della Chil. Matteo Renzi – secondo la nostra fonte – andava con il furgone a portare i giornali agli strilloni che dovevano vendere le copie della Nazione agli eventi. Il 3 gennaio 1998, per esempio, Matteo è andato ad Assisi a portare i giornali nella giornata in cui Papa Giovanni Paolo II andò a portare solidarietà ai terremotati. Ebbene, secondo i canoni rigidi in voga oggi, dovremmo chiedere conto all’amministratrice, cioè a mamma Laura, perché i primi versamenti all’Inps risultino solo nel 1999. Quell’anno risulta infatti una retribuzione a Matteo di 6mila e 800 euro. Nel 2000 lo stipendio da co.co.co. sale a 10mila. Il Fatto da tre anni sa di questa discrasia ma non ne ha mai scritto. Semplicemente perché non ci sembra una grande notizia che Matteo lavorasse per Tiziano come un figlio che aiuta il babbo senza contratto. Ora però i grandi quotidiani potranno scatenarsi a fare domande simili a quelle poste a Di Maio. Certamente Matteo metterà on line i contributi versati all’Inps nel 1998 come ha fatto Di Maio. Noi non lo abbiamo mai chiesto. Mentre ci piacerebbe tanto che Matteo pubblicasse il bonifico con la cifra esatta del Tfr da lui incassato quando si è dimesso finalmente dalla Chil, nel 2014, dopo essere stato nominato premier. Il Tfr è per noi il frutto del giochino dell’assunzione da parte della Chil nel 2003. E questa ci sembra una notizia.

Tiziano Renzi: "No paragoni con Di Maio sr. Non ho lavoratori in nero". Ma la sua azienda fu condannata a risarcire un dipendente. Il padre dell'ex segretario del Pd, insieme alla Boschi e a tutto il partito, contro il genitore del leader M5s, accusato di aver tenuto in nero tre lavoratori nella sua azienda. Eppure nel 2011 una sua società è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in una delle sue società, licenziato in tronco dopo aver preteso una retribuzione adeguata al posto di 750 euro al mese. In passato altre sue aziende erano state multate per non aver versato contributi Inps, scrive Thomas Mackinson il 27 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Dopo Maria Elena Boschi e tutto il Pd, tocca a Tiziano Renzi scagliarsi contro Luigi di Maio e il caso, sollevato dalle Iene, dell’ex lavoratore al nero nell’azienda del padre del ministro del Lavoro. Su facebook, marca così la distanza: “Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88€ di tasse. Aggiungo che sono agli antipodi dall’esperienza politica missina”.  Dal recente passato di Renzi senior, però, emergono storie di lavoro irregolare che rischiano di pareggiare il conto nella surreale disfida al padre peggiore ingaggiata dal Pd e dal M5s: uno sport che incendia la politica negli ultimi tempi. Nel caso di Di Maio senior, pare fossero i muratori a lavorare in nero. Per Renzi senior sono gli “strilloni”, i venditori ambulanti di giornali ai semafori che sono stati business storico della famiglia dell’ex presidente del consiglio. A parlare sono le sentenze. Nel 2011 un’azienda del padre del futuro premier è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in della società della galassia Renzi (Arturo Srl, poi liquidata) e licenziato in tronco quando aveva preteso una retribuzione adeguata al posto di miseri 750 euro al mese.  La sentenza è stata emessa il 20 settembre 2011 dal Tribunale di Genova in favore di Evans Omoigui, oggi 45 anni, nigeriano di Benin City, che era in Italia dal 1996 e ora è tornato a vivere in Nigeria. Raggiunto dal Fatto, attacca la giustizia italiana e chiama ancora in causa “quel signore padre del premier” che gli deve ancora 90mila euro, in forza di una sentenza dello Stato. Perché? Perché proprio durante il dibattimento la società veniva portata a liquidazione restando già allora – si legge nella sentenza – “contumace”.  “Altrettanto, forse qualcosa di più, spettava alla moglie di Evans, perché lavoravano insieme ma anche qui nessuno ha pagato”, dice Simona Nicatore, che ha assistito il nigeriano nel tentativo di recuperare le somme dovute. Della storia di Evans si occupano le cronache di Genova il 9 febbraio 2013. L’edizione genovese di Repubblica scrive di “lavoro nero”. “Malato e truffato sale sulla gru” titola il quotidiano. L’occhiello spiega: “Vince la causa, ma il datore di lavoro non paga. E lui minaccia il suicidio”. L’imprenditore cui Repubblica fa riferimento, senza mai citarlo, è proprio Tiziano Renzi, padre del futuro premier che in quel momento è sindaco di Firenze. Nel 2015, in  pieno Jobs Act, è Panorama a rispolverare la storia di lavoro nero che lascia un sapore amarissimo e – scopre oggi ilfatto.it- ha epilogo anche peggiore. La Arturo nasce nel 2003 da Renzi senior, che ne detiene il 90 percento, il resto è nelle mani di sua sorella Tiziana. A Genova, all’inizio del 2007, la società organizza i venditori porta a porta del Secolo XIX. Il 7 febbraio 2007 Omoigui viene assunto come co.co.co. dalla Arturo a 750 euro al mese, per un anno. Nonostante gli accordi, viene mandato via due mesi dopo: il 13 aprile 2007 per aver chiesto la regolarizzazione del rapporto, un compenso adeguato e soldi per pagare la benzina. Nel dibattimento si chiarisce il motivo del benservito, legato alle richieste del collaboratore e di altri al seguito. Il giudice chiede a un teste quali fossero le condizioni di lavoro: “Da mezzanotte alle 6 del mattino, da lunedì a domenica. La paga era di 28 euro al giorno. E usavamo sempre la nostra macchina, senza alcun rimborso spese”. La società è condannata nel 2011 dal tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il licenziamento illegittimo di Omoigui: “Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso”, scrive il giudice. Al nigeriano sono riconosciuti altri 3.947 euro per differenze retributive e mancati riposi. La sentenza viene confermata nel 2012 ma all’inizio del 2013, quando ancora aspetta quei 90mila euro che potrebbero raddrizzare la sua vita, gli dicono che il tempo è scaduto: un decreto di espulsione pende sulla sua testa e deve rimpatriare malato, disoccupato, raggirato, senza casa. E Omoigui non regge: il 9 febbraio 2013 si arrampica su una gru di 30 metri del porto antico e minaccia di buttarsi nel vuoto mentre continua a farfugliare confuso: “Il padre del sindaco di Firenze mi deve 90mila euro. Non ce la faccio più. Voglio morire”. Solo dopo tre ore di panico e trattative Omoigui decide di scendere. La Questura prende a cuore il caso. Il nigeriano ottiene di rimanere in Italia per “motivi umanitari” ma ormai ha una vita in frantumi, vaga tra ospedali e cliniche mentre il risarcimento scompare del tutto grazie alla provvidenziale liquidazione della Arturo. Il vizietto del lavoro nero invece resta: nel 2013 la stessa Chil, la più nota delle aziende renziane, viene condannata dai giudici a risarcire 9mila euro ad altri ex distributori. Già nel 1998, del resto, Panorama scoprì che l’Inps dopo una serie di accertamenti multò la Chil per quasi 35 milioni (di vecchie lire) e la Speedy per quasi un milione per non aver pagato contributi, mentre i 500 e più “strilloni” impiegati – scrive il giudice Giovanni Bronzini – avevano un rapporto di palese continuità, a fronte di contratti che definivano la prestazione come autonoma. “La giustizia senza effetto non è giustizia”, ripete oggi Evans Omoigui dalla Nigeria, dove è tornato. Nel suo caso l’ingiustizia è doppia. Il 4 aprile 2017 è in un ospedale genovese per fare degli esami. Va in escandescenza per una questione di ticket e mentre i sanitari cercano di calmarlo qualcuno chiama la polizia. I medici vorrebbero intervenire secondo il loro protocollo, gli agenti agiscono come di fronte a un pericolo pubblico. Il risultato è una colluttazione che provoca l’arresto e la condanna per lesioni a pubblico ufficiale. Toccherà poi al giudice di secondo grado riconoscere, sentiti i testimoni, che non c’era alcuna necessità di misure contenitive di polizia e che perfino il medico ha litigato con gli agenti che intimavano l’arresto contribuendo all’alterazione del soggetto. E che in sostanza l’uomo aveva reagito in assenza di dolo. Viene quindi assolto con formula piena il 7 giugno 2018. Proprio come per quella sentenza che dispone il risarcimento in conto Renzi, ormai se ne fa ben poco. Senza i soldi cui aveva diritto resterà in Nigeria. E da seimila chilometri di distanza, lo raggiunge beffarda la eco della doppia morale.

Di Maio e lavoro nero, Di Battista: “Renzi e Boschi? Hanno la faccia come il culo. Luigi è un signore”, scrive Il Fatto Quotidiano" il 27 novembre 2018. Quella di Luigi Di Maio sulla vicenda di suo padre è stata “una reazione da signore, una reazione da Luigi Di Maio”. Lo afferma Alessandro Di Battista in una diretta facebook dal Guatemala. “Provano a indebolire Luigi perché il sistema teme Di Maio e perché c’è molta invidia nei suoi confronti. Il problema non sono i padri ma sono i figli”, sottolinea attaccando frontalmente Matteo Renzi e Maria Elena Boschi che, a suo dire, avrebbero avuto una reazione ipocrita di fronte all’episodio che ha interessato il padre del ministro dello Sviluppo economico.

Maria Elena Boschi, il videomessaggio per Antonio Di Maio: "Mio padre trascinato nel fango da suo figlio", scrive il 26 Novembre 2018 Libero Quotidiano". "Caro Antonio Di Maio, padre di Luigi Di Maio, ministro del Lavoro nero e della disoccupazione, le auguro di non vivere mai quello che suo figlio e gli amici di suo figlio hanno fatto provare a mio padre e alla mia famiglia". Maria Elena Boschi, in un videomessaggio destinato al padre del vicepremier grillino, attacca pesantemente tutta la loro famiglia e il "metodo" utilizzato sempre dal Movimento 5 stelle contro gli avversari: "Mio padre è stato trascinato nel fango da suo figlio e dagli amici di suo figlio", "le auguro di non sapere mai il fango dell'ingiustizia che ti può essere gettato contro. Perché il fango fa schifo".

Boschi al papà di Di Maio: non le auguro ciò che Luigi fece a me, scrive Lunedì 26 Novembre 2018 Il Messaggero. Grana per Luigi Di Maio dopo che un operaio ha raccontato alla trasmissione tv Le Iene di aver lavorato per anni in nero per il padre del vicepremier. «Da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre», ha detto il leader di M5S. «Il lavoratore ha fatto bene a denunciare. Consegnerò alle Iene tutti i documenti sul caso», ha aggiunto. La vicenda ha però scatenato la reazione del Pd e in particolare di Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, i cui padri sono stati entrambi coinvolti in vicende giudiziarie che in passato avevano scatenato gli attacchi grillini. I senatori del Pd chiedono poi al vice premier di andare in aula a riferire sul caso. «Vorrei poter guardare in faccia il signor Antonio Di Maio, padre di Luigi, e augurargli di non vivere mai quello che suo figlio e i suoi amici hanno fatto vivere a mio padre e alla mia famiglia», dice Maria Elena Boschi in un video pubblicato su Twitter. «Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango da una campagna di odio: caro signor Di Maio, il fango fa schifo», dice ancora riferendosi a Banca Etruria. Boschi, che definisce Luigi Di Maio, «ministro del lavoro nero e della disoccupazione di questo Paese», si rivolge al padre del vicepremier e continua: «lei è sotto i riflettori per storie davvero brutte: lavoro nero, incidenti sul lavoro, sanatorie e condoni edilizi. Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango dalla campagna creata da suo figlio e dagli amici di suo figlio. Caro signor Di Maio le auguro di dormire sonni tranquilli, di non sapere mai che cos'è il sentimento di odio che è stato scaricato addosso a me e ai miei, di non saper mai cos'è il fango dell'ingiustizia che ti può essere gettato contro perché, caro signor Di Maio, il fango fa schifo come fa schifo la campagna di fake news su cui il M5s ha fondato il proprio consenso». «Io - prosegue la deputata - continuo a fare politica solo per la mia nipotina, perché possa sapere che la sua è una famiglia di persone per bene. Le auguro, signor Di Maio, di poter dire lo stesso della sua; anche se mi rendo conto che ogni giorno che passa per voi diventa più difficile». «Sono convinto che la presunta onestà dei Cinque stelle sia una grande fakenews, una bufala come dimostrano tante vicende personali, dall'evasore Beppe Grillo in giù. Ma sono anche convinto che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli e questo lo dico da sempre, a differenza di Di Maio che se ne è accorto adesso», scrive su Facebook Matteo Renzi. «Rivedo il fango gettato addosso a mio padre. Rivedo la sua vita distrutta dalla campagna d'odio dei 5 Stelle e della Lega», continua il senatore del Pd spiegando: «La vita di mio padre è cambiata, per sempre. Non è un mio problema dunque sapere se il padre di Di Maio sia responsabile o no di lavori in nero, evasione fiscale, abusi edilizi. Non m'interessa davvero. Sono però certo che Di Maio figlio sia il capo del partito che è il principale responsabile dello sdoganamento dell'odio. Hanno educato, stimolato e spronato a detestare chi provava sinceramente a fare qualcosa di utile. Hanno ucciso la civiltà del confronto. Hanno insegnato a odiare». «Non dobbiamo ripagarli con la stessa moneta. Ma prima di fare post contriti su Facebook chiedano almeno perdono alla mia famiglia per tutta la violenza verbale di questi anni. Se Di Maio vuole essere credibile nelle sue spiegazioni prima di tutto si scusi con mio padre e con le persone che ha contribuito a rovinare. Troverà il coraggio di farlo?», conclude Renzi. «A proposito di truffe: i grillini hanno detto di essere quelli dell'onestà - insiste Renzi -. E hanno fatto tutta la campagna elettorale spargendo odio in quantità industriale e fango sugli avversari e sulla mia famiglia. Adesso non solo viene condannato due volte Marco Travaglio (senza che la notizia susciti particolare indignazione: i condannati si attaccano solo se sono del Pd, evidentemente) ma emerge una brutta storia sul padre di Luigi Di Maio. Una storia fatta di lavoro nero, incidenti sul lavoro, abusi edilizi e condoni (tanto per cambiare). Volevo evitare di parlarne ma il pensiero dei quintali di fango contro mio padre mi ha portato a scrivere una lunga riflessione su Facebook. Spiego perché se Di Maio è un uomo oggi deve chiedere scusa», aggiunge Renzi. «Il ministro Luigi Di Maio venga subito in Parlamento a dare la sua versione dei fatti su quanto trasmesso ieri dalla trasmissione televisiva le Iene. La prima cosa che l'esponente 5 Stelle deve chiarire è se la denuncia di Salvatore Pizzo è da ritenersi attendibile? In caso positivo Di Maio deve dire alle aule parlamentari se il ricorso al lavoro nero è stata una pratica costante ed è proseguita anche negli anni in cui il vicepremier risultava proprietario al 50% della Ardima srl ovvero l'impresa familiare? Di Maio è inoltre a conoscenza di altre pesanti irregolarità che riguardano l'impresa stessa? Serve che il ministro riferisca prontamente in Aula». Lo chiedono in un'interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al ministro del lavoro, i senatori del Pd, con la prima firma del presidente del gruppo Andrea Marcucci. «L'esponente del M5S è stato nel recente passato - aggiungono i senatori - il principale animatore di campagne d'odio. Chissà cosa ne pensa ora che la sua famiglia è accusata di una condotta discutibile, come il ricorso ad un condono edilizio e l'utilizzo di manodopera a nero?».

Luigi Di Maio, Maria Elena Boschi asfalta Alessandro Di Battista: "Dimostra che fascista non è solo il padre", scrive il 27 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Dopo essere intervenuta, ieri 26 novembre, nella vicenda sugli scandali che hanno toccato il padre di Luigi Di Maio, Maria Elena Boschi risponde a stretto giro anche al "sodale" 5 Stelle del vicepremier grillino, Alessandro Di Battista, che dal Messico ha fatto una diretta Facebook per difendere Giggino ("Non contano i padri, ma i figli...") e attaccare allo stesso tempo lei e Matteo Renzi: "Di Battista insulta con toni che dimostrano che il fascista in casa sua non è solo il padre. Contro mio padre hanno fatto una campagna lunga anni. E adesso che non è stato condannato? Dopo le #FakeNews, gli insulti #Vergogna" scrive in un tweet l'ex ministra e sottosegretaria alla presidenza del Consiglio.

Filippo Roma minacciato sui social dai militanti M5s. Svelate le "bufale" costruite dai grillini in rete per delegittimare l'inchiesta, scrive il 30 novembre 2018 Il Corriere del giorno. La denuncia dell’inviato de Le Iene, autore dell’inchiesta sulla famiglia di di Luigi Di Maio. C’è troppa gente che vuole zittire in ogni maniera l’informazione ed impedire a chi fa il onestamente e correttamente il proprio lavoro di poter raccontare notizie. Anche sulle nostre pagine Facebook abbiamo ricevuto offese, insulti e minacce dai soliti “odiatori” seriali che militano nel Movimento Cinque Stelle. L’inviato Filippo Roma, che con l’autore de ‘Le Iene’   Marco Occhipinti sta indagando sul caso dei lavoratori in nero impiegati nella ditta edile del padre del leader del Movimento Cinque Stelle, intervenendo al programma radiofonico “Un Giorno da Pecora” in onda su Rai-Radio1 ha raccontato gli ultimi sviluppi sulla delicata vicenda. Anche il nostro giornale vuole esprimere tutta la nostra solidarietà agli amici e colleghi de “Le Iene” invitando le forze dell’ordine a vigilare ed intervenire in quanto il clima è molto pesante e non solo per il rischio terribile che si passi dalle parole ai fatti. C’è troppa gente che vuole zittire in ogni maniera l’informazione ed impedire a chi fa il onestamente e correttamente il proprio lavoro di poter raccontare notizie. Anche sulle nostre pagine Facebook abbiamo ricevuto offese, insulti e minacce dai soliti “odiatori” seriali che militano nel Movimento Cinque Stelle che non ha gradito i nostri approfondimenti giornalisti che hanno evidenziato una serie di illegalità commesse dalla famiglia del vicepremier Di Maio.

Queste le domande a cui ha risposto Filippo Roma: Ci saranno novità sul caso? “Non lo sappiamo nemmeno noi, siamo in attesa di alcune risposte da parte di Di Maio”. Come le è parso il vicepremier quando lo ha intervistato? “Mi è parso deluso dal papà, nell’intervista è emersa questa cosa del padre e del figlio che non si parlavano, uno storia che affonda le radici in un passato molto lontano e profondo”. Nei prossimi servizi de Le Iene emergeranno anche altri lavoratori in nero? “Non si sa”. Lei che feedback ha avuto su questa inchiesta: più complimenti o più critiche? “Sui social i simpatizzanti del Movimento mi hanno sfondato, riempiendomi di insulti di ogni tipo: da servo di Berlusconi e Renzi a se ti incontro per strada ti ammazzo o ti riempio di botte”. Nessun complimento? “Per strada mi fanno i complimenti invece…”

La bufala sull’operaio in nero di Di Maio per infangare Le Iene. Chi ci conosce e legge sa molto bene che le minacce ed offese hanno un effetto diverso con noi, in quanto non ci fermiamo, anzi andiamo continuamente a caccia di notizie e documenti che possano comprovare che la millantata “onestà” e “legalità” dei grillini, come i fatti documentati hanno dimostrato di giorno in giorno, è la più grossa FAKE NEWS del secolo. Un autentica “bufala” per dirla con parole più semplici per i compaesani di Di Maio. “Salvatore Pizzo, il lavoratore in nero presso la ditta di Antonio Di Maio, è in realtà un candidato del Pd!”.  Ed ecco che nella fake news dei simpatizzanti Cinque stelle viene sostituita la sua foto con quella di un vero candidato! Il povero lavoratore sfruttato dalla famiglia Di Maio senza volerlo è finito in quel tritacarne della fabbrica delle fake news realizzate su misura, nello squallido tentativo di difendere il padre del vicepremier Luigi di Maio, che hanno invaso negli ultimi giorni i socialnetwork.

La falsa notizia è stata diffusa alle ore 19 del 26 novembre. Ed è ormai circolata sotto gli occhi e sulle tastiere avvelenate di tutti i sostenitori del Movimento Cinque Stelle: “Quel Salvatore Pizzo che ha denunciato a Le Iene di aver lavorato in nero per l’azienda del padre di Luigi Di Maio, in realtà, è stato candidato per il Pd nel 2014”. Uno notizia falsa, nello squallido tentativo di sostenere e voler dimostrerebbe che lo avrebbe fatto per motivi puramente politici. E, quindi secondo il “popolino a 5 Stelle”, probabilmente Pizzo starebbe mentendo. C’è qualcosa di falso, ed è grande quanto ma marea di indignazione “grillina” che si è subito scatenata sui social, utilizzando la “menzogna” come uno strumento per “assolvere” l’esponente del M5S sotto accusa di turno, e anticipano l’opera della magistratura mentendo e diffamando altri soggetti.  Ed ecco che Il Giunco, quotidiano locale, ci racconta una di queste storie: un indinniato speciale, evidentemente politicamente schierato, illudendosi nella sua mente di rendere servizio alla sua parte politica (che invece, ricordiamo, ne è stata danneggiata, e certamente possiamo ritenere non avrebbe voluto simili menzogne) ha composto questo “fake” con la foto di un soggetto a caso con dei loghi del PD, alle spalle ed una didascalia indinniata ed indinnante dove si dichiara “Le Iene questo non lo hanno detto!!! L’operaio che ha accusato il padre di Di Maio era candidato nel 2014 col PD!”. Chiaramente tutto falso! A svelarlo è il sito Bufale.net, (e per precisione Claudio Michelizza, detto #LoSbufalatore) che da alcuni anni si occupa di sbugiardare le troppe fake news, che sembrano aver invaso in molti casi anche i media italiani che non sono abituati a fare le necessarie dovute verifiche. Bufale.net ancora una volta mostra quella foto che ha fatto velocissimamente il giro del web (condiviso da quasi 7.000 utenti in poche ore), in cui si indica il presunto “delatore” Salvatore Pizzo (che in realtà non è lui) in compagnia di un uomo e di due donne, posare sorridente davanti a una parete interamente ricoperta dal logo del Partito democratico. “Le Iene questo non lo hanno detto!!! L’operaio che ha accusato il padre di Di Maio era candidato nel 2014 col Pd”, recita il “post” abilmente costruito e diffuso dalla già nota Fanpage M5S che ha pubblicato il messaggio intorno alle ore 19 del 26 Novembre scorso. Come racconta il quotidiano online Il Giunco (che si occupa della maremma toscana) si tratta di una evidente “fakenews” che è stata riconosciuta così da molti in provincia di Grosseto, ma non dal popolo del web. Per dovere di cronaca, va ricordato che l’uomo che ha dichiarato al programma televisivo “Le Iene” di essere stato assunto in nero nell’azienda del padre del vicepremier e ministro del lavoro è Salvatore Pizzo. A denunciare la bufala che ha generato una serie di attacchi molto violenti sui social e che ha generato una falsa verità che sta circolando da alcune ore su Facebook, è lo stesso consigliere regionale toscano Leonardo Marras (Pd) che scrive: “#fakenews Quanto ci vuole per finire nella macchina del fango dei moralisti da tastiera? Giusto il tempo di fare una grafica con informazioni false! Una delle tante pagine fake nate solo per aizzare il ‘popolo del web’ mi ha scambiato per l’operaio protagonista del servizio de Le Iene che dice di aver lavorato in nero per il padre del ministro Di Maio: hanno costruito un post prendendo un’immagine di febbraio 2018 e scrivendo falsità. In poche ore un numero impressionante di condivisioni e di commenti offensivi”. A seguire è arrivata la  pagina Facebook   “Noi con Boldrini“ che si autodefinisce di “svago”  carica di diffamazioni contro l’onorevole Laura Boldrini e a favore dell’attuale maggioranza M5S-Lega (sia pur in realtà  facendo alla stessa un pessimo servizio) che, come accade sempre con gli Indinniatori Seriali, pensa che abusando della funzione “Modifica” dei commenti su Facebook si possano nascondere le diffamazioni ed evitare le denunce e dichiarandosi “di satira” si ritengono legittimati (senza esserlo !)  a potersi inventare di tutto, coinvolgendo  una persona innocente ed estranea ai fatti scatenandole contro l’odio dei social. Ecco come hanno ritoccato il messaggio: La macchina dell’odio “grillino” intanto prosegue indisturbata, colpendo il programma e gli inviati de “Le Iene”, ritenendoli “responsabili” di aver diffuso una notizia contraria agli interessi del loro partito politico. Ecco come appaiono così i post in favore del M5S in cui gli inviati delle Iene vengono accusati in vari modi di aver creato una fake news ad arte su Luigi Di Maio dietro un’inesistente ordine di Silvio Berlusconi. Ma fake news che accusa un giornalista di fake news sostanzialmente, dimostrando come ai sostenitori ed adepti del M5S non piaccia la verità, ritenendo che solo che la loro narrazione è ben composta e confacente al loro pregiudizio. Nel pomeriggio del 27 Novembre scorsoall’improvviso le pagine Noi con Boldrini e M5S si sono auto-oscurate. Nel frattempo la pagina Facebook del Movimento 5 Stelle Notizie ha rilanciato la fake news in favore di Antonio Di Maio, contro il povero Leonardo Marras “spacciato” per Salvatore Pizzo. L’anomalia? Come si vede non trovando più la bufala “originale” hanno scaricato l’immagine dall’articolo del quotidiano toscano che denunciava la bufala stessa. E poi gli “sciacalli”, gli “infami” e le “puttane” dell’informazione sarebbero i giornalisti. Ma Luigi Di Maio con famiglia al seguito, ed Alessandro Di Battista allora cosa sono?

Così è spuntata la casa dei Di Maio, scrive il 30 Novembre 2018 Guglielmo Mastroianni su Il Dubbio.  Sigilli nei terreni di proprietà della famiglia del vicepremier, Luigi Di Maio che prova a difendersi dalle accuse di abuso edilizio. Ma le foto satellitari sembrano smentirlo. «Per quanto ne so, c’è stato un sopralluogo da parte della municipale di Mariglianella, in provincia di Napoli, nella campagna di mio padre. Sono stati posti sotto sequestro dei materiali come secchi, bidoni, una carriola, dei calcinacci e un telo in plexiglass. Si stanno facendo accertamenti sugli edifici, sono terreni di mio padre e di sua sorella che vive al nord. Tutto quello che si dovrà fare lo faranno. Io sono tranquillo». A raccontare quanto accaduto ieri mattina è lo stesso Luigi Di Maio, in trasferta a Bruxelles. Il vice premier ostenta sicurezza, di fronte ad una vicenda che sta coinvolgendo ogni giorno di più la sua famiglia. In particolare papà Antonio, che dopo l’accusa di aver utilizzato, nella sua impresa edile, lavoratori in nero, deve ora anche fare i conti col sequestro di parte del suo terreno, aree su cui erano stati depositati rifiuti inerti. Ma non solo. La polizia municipale del piccolo comune, non molto distante da Pomigliano D’Arco, si è infatti recata nella mattinata di ieri per verificare eventuali abusi edilizi sul terreno di proprietà della famiglia Di Maio, in corso Umberto. E sarebbero proprio i tre edifici che insistono sul lotto, a rischiare di creare più di qualche imbarazzo al vice premier e alla sua famiglia. Il terreno, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato acquistato nel 2000, come risulta dalla visura catastale: una prima incongruenza con quanto sostiene Luigi Di Maio, secondo cui invece quell’appezzamento e gli edifici su di esso costruiti, sarebbero di proprietà della famiglia fin dalla seconda guerra mondiale e sarebbero stati abbandonati dopo il terremoto del 1980. Ed è proprio questo il punto focale della vicenda: quando sono state costruite, realmente, le tre strutture? Per capirlo, si può utilizzare Google Earth. Grazie a al programma, infatti, è possibile risalire alla cronologia delle foto della zona, scattate negli anni dal satellite. La meno recente, risale al 2002, vale a dire due anni dopo l’acquisto del terreno, secondo quanto risulterebbe dalle carte. L’immagine, per quanto non ad altissima definizione, come sono invece le più recenti, è sufficientemente nitida: si nota la presenza di una sola struttura in tutto il terreno, quella centrale. Proseguendo con la cronologia, si salta al 2008: è in questa foto che appaiono nitidamente e per la prima volta gli altri due edifici. Il colore del tetto del manufatto già esistente è invece cambiato, segno di un’avvenuta ristrutturazione. E’ pertanto ipotizzabile che, negli anni fra il 2002 e il 2008, siano state realizzate almeno una ristrutturazione e due nuove costruzioni. Ed è proprio qui che nasce il problema. Al Comune di Mariglianella, infatti, non risulterebbero licenze edilizie, concesse o richieste, relative al terreno in questione, né per nuove costruzioni, né per delle ristrutturazioni. E’ opportuno precisare un aspetto: anche nel momento in cui, nella foto del 2002, fossero presenti dei vecchi ruderi, magari poco visibili in una foto satellitare del tempo, il fatto che vi siano comunque tre edifici, già nel 2008 chiaramente visibili, testimonia la messa in opera dei lavori, per i quali era necessaria una concessione edilizia, quanto meno per curarne la ristrutturazione. Chiaramente l’assenza di un qualsivoglia permesso, certificherebbe l’abuso edilizio. A confermare questa tesi, peraltro, ci sono le mappe catastali, in cui nessuno dei tre edifici risulterebbe accatastato. Tre immobili fantasma, come risulta evidente dalla sovrapposizione della mappa fotografica a quella catastale. In un terreno che, scorrendo le foto degli anni seguenti, risulta chiaro come non fosse una semplice zona di campagna, usata prevalentemente come deposito degli attrezzi. Nelle foto del 2014 e del 2017, infatti, fa bella mostra di sé una piscina semovente, di sette metri per tre, evidentemente montata e smontata per essere utilizzata nei mesi estivi. A mettere un punto esclamativo su tutta la vicenda, le parole del sindaco di Mariglianella, Felice Di Maiolo, arrivate nel pomeriggio di ieri: «Nel sopralluogo di stamattina sono stati accertati dei manufatti abusivi. Inoltre è stato rilevato l’abbandono di rifiuti su tre piazzole e anche su questo è stato fatto un sequestro. Tutto sarà inviato alla Procura della Repubblica».

Inchiesta sui Di Maio. La vicenda del vicepremier evidenzia l'infondatezza della sbandierata superiorità morale dei Cinquestelle, della loro "diversità genetica" rispetto a tutti gli altri, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 30/11/2018, su Il Giornale. Per Luigi Di Maio ora la questione si complica. Il caso delle presunte irregolarità edilizie fatte dalla sua società e svelate dall'inchiesta de Il Giornale, così come il lavoro nero portato in chiaro dalle Iene, non sono esagerazioni giornalistiche o bazzecole come i Cinquestelle hanno tentato di liquidare. Ora sono ipotesi di reato in capo anche in quanto socio - al ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro che si era autoproclamato campione del mondo di onestà e trasparenza. E ancora non ci si è addentrati per capire se per caso ci sia qualche crepa anche nelle denunce dei redditi della famiglia Di Maio, apparentemente incompatibili con il ruolo di imprenditori proprietari di case, fabbricati e terreni. Né si è andati a spulciare il libro paghe e contributi della sua società per accertare se i casi di lavoro nero siano solo quelli emersi o se invece si trattasse di una consuetudine della ditta. Siccome il destino è beffardo, sotto la lente di chi sta accertando i fatti c'è anche una delle cinque stelle dei Cinque Stelle, quella che rappresenta l'ambiente, il cui rispetto è scritto nello statuto del movimento, «va tutelato in ogni sua forma come bene unico e fondamentale per la vita anche per le generazioni future». Precetto che i Di Maio non avrebbero rispettato accatastando, in un terreno di loro proprietà, rifiuti e scarti dell'attività edilizia che avrebbero dovuto essere invece smaltiti a norma di legge in quanto pericolosi per l'ambiente. Luigi Di Maio dice che al più presto uscirà dalla società di famiglia, come se questo potesse in qualche modo salvargli la faccia. A noi il suo destino poco importa, anzi gli auguriamo di uscire indenne da possibili grane giudiziarie. Quello che questa vicenda insegna è l'infondatezza della sbandierata superiorità morale dei Cinquestelle, della loro «diversità genetica» rispetto a tutti gli altri, come ha sostenuto il mitico ministro Toninelli in un memorabile Porta a Porta. La verità ovvia è che parliamo di uomini che difficilmente supererebbero come ognuno di noi un accurato test di verginità. Con una aggravante: oltre che peccatori comuni sono per di più arroganti e incapaci di amministrare e governare. Per questo, più che per gli abusi edilizi, sono davvero pericolosi.

Chi è davvero Luigi Di Maio, spiegato bene dal suo biografo, scrive Francesco Prisco l'1 aprile 2018 su Il Sole 24 ore. Domenica 24 maggio 2009. A Pomigliano d’Arco, città dell’hinterland napoletano a grande tradizione industriale, tra le alterne vicende degli stabilimenti Fiat e Alenia, arriva l’uscente assessore regionale alle Attività produttive Andrea Cozzolino, «colonnello» del Pd campano e delfino del governatore Antonio Bassolino. Il comizio sarebbe un plebiscito se non fosse per l’azione disturbatrice di due ragazzi poco più che ventenni che incalzano il politico di lungo corso con domande trabocchetto su temi quali onestà e questione morale. Domande cui Cozzolino, da politico di lungo corso, non risponde. Finisce che i ragazzi vengono allontanati con modi piuttosto spicci dai militanti democrat ma uno dei due appare piuttosto rigido nell’esercizio della sua resistenza passiva. Ha 22 anni, carnagione di colorito scuro, indossa un paio di jeans scambiati e una Polo Ralph Lauren azzurra che celebra la Nazionale italiana di calcio campione del mondo in carica, con sopra il numero 3 di Fabio Grosso. «Cozzolino non ci ha risposto», si ostina a dire a chi lo mette alla porta. «Cozzolino ci deve rispondere». Si chiama Luigi Di Maio e nel 2009 nessuno, in quella sala popolata da più di una vecchia volpe della politica vesuviana, si sarebbe aspettato che nove anni più tardi sarebbe diventato il candidato premier del primo partito italiano. «E la stessa ostinazione che Luigi mise in quella resistenza passiva al comizio Pd, la stessa caparbietà nel non scendere a compromessi con i “padroni di casa”, la stessa intransigenza ideologica dalla faccia pulita la stiamo vedendo e la vedremo in questi giorni di trattative per la formazione del nuovo governo». A parlare è Paolo Picone, 47 anni, pomiglianese doc come lo stesso Di Maio, giornalista e unico biografo del giovane leader pentastellato «ma biografo not embedded», ci tiene a sottolineare, «perché non sono un militante Cinque Stelle, conosco bene Luigi ma conservo gelosamente la mia indipendenza, non mi interessava fare una biografia autorizzata». Uscirà a metà aprile Di Maio il giovane - Vita, opere e missione del politico più votato d’Italia (Aliberti, euro 12, pp. 150), edizione riveduta e corretta (alla luce dei risultati elettorali del 4 marzo) del libro che Picone un anno fa ha dedicato al «Gigino Nazionale». Biografia not embedded, ok, ma parecchio «informata, informata dei fatti», se consideriamo che l’autore, concittadino di Di Maio, ha frequentato gli stessi posti e la stessa gente, a cominciare dal locale Liceo Classico Imbriani. Per dire: nel 2007, quando a Pomigliano il Grillo-pensiero era poco più che una suggestione, Picone organizzò il primo Meetup cittadino, assistendo all’esordio politico del candidato premier M5S.

La presa del potere da parte di Luigi primo da Pomigliano d’Arco. E veniamo al dunque: quando partiranno le consultazioni con il Quirinale per il nuovo esecutivo, come si è muoverà Di Maio secondo chi lo conosce bene? Picone non ha dubbi: «Salirà al Colle e chiederà a Mattarella il mandato esplorativo per la formazione del governo. Stavolta non assisteremo al film dell’elezione dei presidenti delle Camere, perché Luigi non arretrerà di un centimetro: i Cinque Stelle non appoggeranno un esecutivo con un presidente del Consiglio diverso da Di Maio. Si cercheranno convergenze con la Lega rispetto ai 20 punti proposti dal M5S in campagna elettorale, reddito di cittadinanza in primis, magari ci saranno Salvini vicepremier, qualche ministero importante affidato al Carroccio, significative aperture al programma leghista su temi quali l’immigrazione. Magari si potrebbe guardare anche altrove, a Leu per un appoggio esterno, ma scordiamoci il sostegno pentastellato a un governo guidato da Forza Italia. Parlerà con tutti, tranne che con Berlusconi». E se il tentativo dovesse naufragare? «A quel punto - continua Picone - i Cinque Stelle si chiamerebbero fuori dai giochi. Mattarella incentiva la formazione di un governo del presidente? Di Maio è pronto a una guerra di logoramento con tutto il peso che può avere all’opposizione il primo partito d’Italia». Della serie: volete governare senza di noi? Accomodatevi e tanti auguri.

Gigino e i quattro pregiudizi. Possibile che nel Paese della famigerata Casta, con tutti i politici navigati che ci sono a giro, nessuno riesca a «mettere la museruola» a Gigino? Nessuno lo seduce? Nessuno è capace di ricondurlo a più miti consigli? «Il caso Di Maio», secondo il giornalista campano, «è forse il più clamoroso caso di sottovalutazione politica della storia recente». Il politico, secondo il suo biografo, sarebbe vittima di quattro pregiudizi: «È giovane, non ha la laurea, vendeva bibite al San Paolo, ha fatto il webmaster. Il primo pregiudizio la dice lunga su come siamo messi in Italia: essere giovani qui è quasi una colpa, un peccato originale. Sul secondo punto si potrebbero scomodare numerosissimi protagonisti assoluti della prima e della seconda Repubblica che una laurea non hanno mai provato a prendersela. Di Maio ha interrotto gli studi di giurisprudenza con l’elezione in Parlamento ma, proprio perché è ancora giovane, ci sta benissimo che, archiviati i due mandati parlamentari, torni sui banchi». Gli altri due punti sarebbero riconducibili al tentativo costante di ridurre il politico alla caricatura di sé stesso. «Quando lo scorso autunno - ricorda Picone - si affermò nelle consultazioni online tra i militanti come candidato premier, lo sport nazionale era scherzarci su: Di Maio concorre contro sette nani, si disse, lo sfidano sette carneadi, è tutta una farsa. Si alludeva al fatto che nessuno dei big pentastellati gli si fosse controproposto. Tutti alle prese con la caricatura, nessuno con un serio tentativo di comprensione di un personaggio che viene da lontano. E che, contrariamente a quello che si può pensare, quando serve studia e impara in fretta».

Uno smanettone che «impara in fretta». Il giovane Di Maio, rimarca Picone, «è figlio della buona borghesia pomiglianese. Suo padre è geometra e titolare di un’impresa edile, con trascorsi nel Movimento Sociale e in Alleanza Nazionale». A Pomigliano la politica la masticano un po’ tutti: veniva da queste terre anche Giovanni Leone, il presidente della Repubblica dello scandalo Lockheed, quello che, quando fu eletto, pare abbia salutato così la moglie a telefono: «Vittoria, t’aggio fatto regina». Istantanee del secolo scorso, quando la politica si faceva offline. La madre di Di Maio è «professoressa di italiano e latino, preside all’Istituto comprensivo di Cercola. È vero», continua il giornalista, «la cosa può sorprendere, considerando che Luigi soffre di “congiuntivite”, ma il suo, per come la vedo io, è più un problema di consecutio temporum che di scarsa dimestichezza con l’italiano». Alla faccia dell’esperienza da steward allo stadio San Paolo, il politico grillino «non si interessa minimamente al calcio. Al contrario, è un grande appassionato di Formula 1, tifoso competente della scuderia Ferrari». Al liceo «non era certo un secchione ma, quando puntava un obiettivo, riusciva a raggiungerlo. I professori lo ricordano come uno che lavorava sodo». Proprio all’epoca nacque la sua grande passione per i computer. Un Di Maio «smanettone», insomma, «punto di riferimento di compagni e insegnanti che, quando hanno problemi con il pc, a lui si rivolgono perché li risolva». Soddisfazione garantita.

Ti stai sbagliando di certo perché... non è «Gigino». Inevitabile girare al biografo una domanda che un po’ tutti gli osservatori politici a un certo punto si sono posti: perché proprio Di Maio e non Alessandro Di Battista o magari Roberto Fico? «La persona giusta a cui fare questa domanda», secondo Picone, «sarebbe stato Gianroberto Casaleggio. Aveva una grande stima di Luigi, era consapevole che, più di tutte le altre prime linee pentastellate, era dotato di un profilo istituzionale, quello che serviva per il definitivo salto di qualità del Movimento». Acquisito dove? «Nell’esperienza da vicepresidente della Camera. È lì che Di Maio cambia, lì cresce, si fa talvolta apprezzare anche dai parlamentari di altro colore politico». Come? «Studiando quando serviva e imparando in fretta. È un caso che proprio lui sia stato mandato all’estero dal partito come testimonial dei Cinque Stelle? Non direi». Qualcuno ha detto che Di Maio, con quel bel doppiopetto grigio che sfoggia a Montecitorio, è intimamente democristiano, «se avere un profilo istituzionale significa essere democristiani, - secondo Picone - allora Luigi lo è». Ma si uscirà mai dai pregiudizi anti Gigino? L’autore di Di Maio il giovane ribalta il discorso: «Lo stesso nomignolo Gigino, talvolta addirittura scritto con due “g”, corrisponde sempre al tentativo di ridurre un politico vero a macchietta. Per carità: si tratta di un diminutivo molto popolare al Sud, Napoli compresa, ma nessuno, a casa Di Maio o in giro per Pomigliano, si sognerebbe mai di chiamare così Luigi». E mentre l’opinione pubblica giocava a chiamarlo Gigino, Luigi il giovane «ha messo in fila Renzi, Berlusconi e Salvini, come aveva fatto con i sette nani delle parlamentarie. È andata a finire che adesso è lui quello che dà le carte». Altro che Gigino: questo, semmai, è Luigi primo da Pomigliano d’Arco.

Grillo: “Siamo moralisti del cazzo e ne andiamo fieri. Via i ladri, votiamo subito”. Il leader del Movimento 5 Stelle interviene sul blog a sostegno dei suoi deputati dopo la bagarre alla Camera. Difende le scelte dei suoi e attacca gli altri parlamentari: "Sembrate tonni dentro una tonnara, sapete che il vostro tempo è finito. E' questione di mesi", scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 settembre 2013. “Siamo fieri di essere moralisti del cazzo e soprattutto di starvi sul cazzo”. Il leader del Movimento 5 Stelle interviene sul blog per sostenere i suoi deputati dopo la bagarre alla Camera. Poche ore prima, gli eletti a 5 Stelle avevano protestato con manifesti tricolori e mani in alto con la scritta “No deroga art.138”. A quel punto gli altri parlamentari avevano cominciato a gridare “buffoni, buffoni” e il deputato grillino Alessandro Di Battista era stato ripreso da Laura Boldrini per aver detto: “Il Pd è peggio del Pdl”. “Meraviglioso”, ha commentato Grillo su Twitter, “la presidente della Camera ha detto che quella frase è un’offesa”. Così il leader a 5 Stelle ha deciso di scrivere il post sul blog dove evoca tra le altre cose il ritorno alle urne al più presto: “Il vostro tempo è finito, è questione di mesi e voi lo sapete, per questo reagite come un qualunque ladruncolo sorpreso con le mani nel sacco. Ieri sembravate tonni dentro una tonnara“. E’ il messaggio di Beppe Grillo ai parlamentari degli altri partiti. “Ieri, alla Camera alla richiesta del M5S di espellere i delinquenti, si è levato alto il grido Moralisti del cazzo!. I nominati del pdl e del pdmenoelle si sono indignati. E’ un paradosso che invece di accompagnare alla porta Berlusconi, un delinquente condannato in via definitiva, i nominati dai capibastone del pdmenoelle e dal truffatore fiscale, volessero buttare fuori noi, i cosiddetti moralisti (del cazzo). Noi siamo i moralisti del cazzo, quelli che hanno rifiutato i rimborsi elettorali, che si sono tagliati gli stipendi, che hanno rinunciato alle auto blu – rivendica Grillo – Noi siamo i moralisti del cazzo che non vogliono condannati in Parlamento, che mantengono la parola data agli elettori, gli unici a votare alla Camera per la decadenza del Porcellum. Noi siamo i moralisti del cazzo che vogliono restituire al Parlamento il suo ruolo che è espropriato dal governo con i decreti legge. Noi siamo i moralisti del cazzo e ne siamo fieri – conclude Grillo – E’ vero, siamo moralisti del cazzo e vogliamo moralizzare la vita pubblica, il Parlamento, ogni Comune, ogni istituzione. Al voto subito. Fuori i delinquenti dal Parlamento!”.

La Annunziata contro Di Maio: "Violento con Boschi e Renzi, ma di tuo padre non sapevi?" La giornalista si scaglia contro Luigi Di Maio e lo accusa di doppiopesismo riguardo lo scandalo che ha colpito il padre, scrive Agostino Corneli, Mercoledì 28/11/2018, su "Il Giornale". Lucia Annunziata, ospite di Giovanni Florisi a DiMrtedì, in onda su La 7, colpisce duro Luigi Di Maio. "La questione dell'onestà non è una questione di volumi: si è disonesti solo a partire da una certa quota in poi?", chiede la conduttrice parlando dello scandalo sul padre del vice premier del Movimento 5 Stelle. "La campagna contro Maria Elena Boschi e Matteo Renzi è stata violenta e definitiva, ci avete fatto la campagna elettorale mentre lei si difende dicendo che non sapeva del lavoro a nero di suo padre. Come se questo quindi valesse meno. Ma lei che in questi anni ha corso per fare il premier non pensava di guardare dentro casa sua? Dentro i suoi affari di famiglia?", domanda la Annunziata a Di Maio. E l'idea è che adesso il capo politico dei pentastellati sia sotto assedio. E per Lucia Annunziata, che già a ottobre aveva scritto un editoriale al vetriolo su Di Maio sulle colonne dell'Huffington Post, non poteva esserci occasione migliore per affondare il colpo.

Sindaci, giudici e libertà, scrive l'11 novembre 2018 Lucia Annunziata direttore dell’Huffington Post. Articolo ripreso da Il Corriere del Giorno. Congratulazioni a Virginia, ai giudici e ai cittadini. La parola torna alla politica. Non vedo l’ora che Di Maio e Di Battista rispondano con libertà a quello che hanno promesso e non hanno fatto. E noi giornalisti “puttane” aspettiamo con impazienza la punizione. Congratulazioni alla sindaca Virginia Raggi per la sua assoluzione. È sempre una ottima notizia per i cittadini sapere di essere governati da un politico impeccabile. Congratulazioni anche ai giudici della Procura della Capitale perché la velocità e la equanimità del loro giudizio ha impedito di creare un nuovo percorso giudiziario di polemiche dentro questo paese che ne ha fin troppi. Una condanna avrebbe avviato una contesa politica inquinata dal più vecchio sospetto di ogni azione in Italia – l’uso della giustizia ad orologeria. A Roma, insomma, oggi si è affermato un principio di giustezza (oltre che di giustizia) in base al quale gli amministratori si giudicano per quello che fanno. Una buona notizia che libera un po’ tutti. Libera intanto Virginia Raggi. Senza il peso di questa inchiesta che ha certamente pesato sui suoi umori e sulle sue prospettive di vita politica, il sindaco oggi potrà dunque finalmente rispondere ai suoi cittadini, che, cocciuti loro, continuano a bestemmiare contro le buche, i disservizi, la pessima qualità di vita e la destabilizzazione strisciante della città. E per identico verso, la “liberazione” del Sindaco di Roma forse incoraggerà altri sindaci sotto assedio, come oggi nella città di Torino, o i tanti ministri che non hanno tenuto fede alle loro stesse promesse, a rispondere dei loro doveri e delle loro mancanze senza riversare su chi gliene chiede conto accuse di complotti, collusioni con le elite e il grande capitale. Borsette e cagnolini inclusi. Congratulazioni, dunque, anche a tutti i cittadini che a oggi, forse, possono tornare a mugugnare come è diritto e ruolo dei cittadini fare. Gli unici che perdono in questa partita, ahi noi, sono i soliti giornalisti. Corrotti pennivendoli, puttane, addirittura. Luigi Di Maio che ormai d’abitudine perde ogni freno sia quando ha un successo che quando ha un insuccesso – per dire, sia quando annuncia di aver sconfitto la povertà dal balconcino di Palazzo Chigi, sia quando qualcuno scopre che la Lega gli ha tolto il reddito di cittadinanza dalla finanziaria spostandone l’attuazione all’anno prossimo – ha avuto un’altra crisi ed ha minacciato di fare immediatamente la legge sugli editori impuri. Per punire insomma i padroni dell’editoria che evidentemente frenano il movimento. A parte che Di Maio dovrebbe piuttosto dirci se erano invenzioni le notizie sul caso Raggi. Non è stato considerato un reato, secondo i giudici, l’intervento a favore di Marra, ma non era una fake news, di sicuro. Ed era un fake anche la preoccupazione del quartiere generale pentastellato sulla condanna di Raggi? E le feroci critiche di incompetenza all’operato del sindaco romano non sono state formulate anche da esponenti dello stesso M5s? Ma va bene. Non vediamo l’ora di vedere la proposta di legge con cui M5s ristabilirà la verità (come quando ha sconfitto la povertà?) promuovendo una azione per rendere pura l’editoria. I giornalisti italiani si augurano da tanto tempo che l’editoria evolva in un sistema privo di conflitti di interessi. Questa legge dunque non e’ una minaccia. Ci auguriamo che Luigi ci lavori da subito. Sperando che stavolta almeno questo intervento se lo studi bene in maniera da non fare come con la nazionalizzazione delle Autostrade, con la Tap, forse con la Tav, e con l’Alitalia. Tutti casi in cui dopo tre mesi circa di studi ha denunciato l’impossibilità di fare quel che voleva fare. Personalmente sono curiosa di leggere – via legge, ovviamente – l’elenco dei buoni e dei cattivi editori. E di vedere elencati i conflitti di interessi. Da queste parti, da dove scrivo, sappiamo che il gruppo Gedi (ex Espresso) è nella lista dei cattivi, e poi? Non vedo l’ora di leggere l’elenco, appunto. La curiosità maggiore è quanto campo ha la definizione di conflitto di interessi: include banche, include tv private, intrecci societari, oltre al puro business? E, a proposito di business, come sarà considerata la guida di siti privati, via strumenti di informazione, su un movimento politico da cui si ricava sostegno economico? Chissà, magari alla fine anche in questo caso Luigi di Maio scoprirà che non può farci niente. Infine due righe per Di Battista. Chi scrive ha lavorato per otto anni, come free lance, senza giornali alle spalle, nelle stesse zone dove da alcune settimane gira il leader politico pentastellato. In quei paesi hanno lavorato decine di giornalisti, moltissimi italiani, quando la situazione era grave e difficile lavorare. E alcuni ci sono morti. Di Battista può insultare i giornalisti italiani ma dovrebbe evitare di usare quelle zone del mondo come sfondo fotografico esotico per la sua campagna elettorale. Quando ci lavoravo (dal 1980 al 1988, prego verificare) gente come lui veniva chiamata sandalisti, terzomondisti, neoimperialisti, voyeur del sottosviluppo. Sono sufficienti questi appellativi, Di Battista? Nessuno, di nessuna nazionalità, avrebbe osato fare di quei paesi ragione di autopromozione politica. Che è quello che il pentastellato sta facendo. Torna a casa, Di Battista, mettici la faccia sull’Italia e vieni a darci delle puttane di persona. Magari qualcuno ti prenderà, per una volta, sul serio.

Di Maio e la solita doppia morale dei 5 stelle.

Onestà? Legalità? Ma come fanno Di Maio ed il M5S ad avere il coraggio di invocarla? Scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. All’epoca delle presunte irregolarità la ditta di famiglia era intestata alla mamma del vicepremier, Paolina Esposito che in quanto insegnante e dipendente pubblica, per legge non può ricoprire incarichi aziendali. Il padre del ministro al centro delle polemiche per le denunce di lavoro nero peraltro non era titolare di alcuna azienda. Antonio Di Maio padre di Luigi leader del M5S secondo le accuse delle IENE avrebbe fatto lavorare in nero degli operai. In realtà non è esattamente così. Infatti a voler essere precisi, è stata Paolina Esposito la madre del ministro Di Maio ad averlo fatto. Tutto ciò sarebbe ancora più grave in quanto la donna, è preside in una scuola pubblica napoletana e quindi incarna il ruolo di “pubblico ufficiale”, e facendo lavorare delle persone in “nero” oltre ad aver violato la legge, avrebbe anche omesso una delle regole fondamentali del dipendente pubblico, cioè l’ “esclusività”. Perché, salvo una deroga speciale, “i dipendenti della pubblica amministrazione non possono svolgere alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro” secondo quanto previsto e contenuto dall’articolo 58 del Decreto legislativo 29 del 1993. Cerchiamo quindi ricostruire la complicata storia degli “affari” della famiglia Di Maio. Come ben noto ai nostri lettori tutto è partito da un’inchiesta delle “Iene”, che hanno intervistato un operaio edile, Salvatore Pizzo, il quale ha dichiarato di aver lavorato in nero per l’azienda edile gestita dal padre del ministro, che si chiama Ardima Costruzioni. Circostanza questa che lo stesso Luigi Di Maio ha dovuto ammettere davanti al microfono e la telecamera dell’inviato Filippo Roma. Antonio Di Maio, classe 1950, padre dell’attuale ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, è nato e cresciuto a Pomigliano d’Arco, e non possiede alcuna azienda. Incredibile ma vero!  Dalla visura camerale effettuata da settimanale l’Espresso è venuto alla luce che il padre di Di Maio non ha intestate a suo nome azioni o quote di società. In passato è stato titolare e proprietario della Di Maio Antonio, una ditta individuale di Pomigliano, specializzata nella realizzazione di tetti, che è stata cancellata dal Registro delle imprese delle Camere di Commercio nel 1995.  Successivamente a partire dal 1997, è stato sindaco supplente del Consorzio Regionale di Edilizia Artigiana, che realizzava edifici residenziali, finito in liquidazione. Inoltre il padre del vicepremier a 5 stelle, ha anche qualche conto in sospeso con Equitalia, a cui dovrebbe versare la bellezza di 176 mila euro. La titolare dell’attività di famiglia e di alcuni terreni a Pomigliano d’Arco è infatti Paolina Esposito madre di Luigi Di Maio, la quale nel 2006 ha fondato la ditta individuale Ardima Costruzioni di cui era titolare firmataria, la quale nelle visure camerali viene qualificata come “piccola imprenditrice”. Alla fine del 2013 esattamente il 30 dicembre Paolina Esposito ha donato la proprietà della sua ditta individuale ai figli Luigi e Rosalba. L’Ardima costruzioni, risulta dichiarare soli 2 dipendenti, si occupa della demolizione di edifici e sistemazione del terreno, della posa in opera di coperture e costruzione di tetti, della tinteggiatura, posa in opera di vetri e in generale, di lavori edili di costruzione. Poichè la Ardima Costruzioni   non era una società di capitali, non aveva l’obbligo di depositare bilanci, quindi non è possibile sapere se godesse di buona salute o meno. A meno che Luigi Di Maio voglia esibire i bilanci e le dichiarazioni dei redditi che sinora sono misteriosi. Nello stesso tempo, la “Di Maio family” a marzo del 2012 ha costituito una seconda società, la ARDIMA Srl, di proprietà del ministro Luigi e della sorella Rosalba con quote paritetiche del 50 per cento ciascuno. La nuova società non ha soltanto lo stesso nome della ditta individuale della mamma, ma ha praticamente lo stesso oggetto sociale, cioè si occupa delle stesse identiche attività della ditta individuale Ardima Costruzioni intestata a mamma Esposito. A giugno del 2014 la ARDIMA Srl, cioè la nuova società costituita dal vicepremier e della sorella, acquisisce la ditta Ardima Costruzioni della madre, che così facendo cede ai figli Luigi e Rosalba un patrimonio di 80.200 euro, facendo aumentare il valore complessivo del capitale sociale della neo-costituita ARDIMA srl da 20.000 a 100.200 euro. In un primo momento amministratore unico della nuova società è Rosalba, la sorella di Luigi Di Maio, a cui a nel 2017 subentra, il fratello minore Giuseppe Di Maio (classe 1994). Ma il ruolo da amministratore unico dell’azienda di famiglia non sembra essere remunerativo: come già raccontato e documentato dal CORRIERE DEL GIORNO lo stesso Luigi Di Maio, nella sezione amministrazione trasparente di Palazzo Chigi, ha dichiarato che suo fratello Giuseppe Di Maio non ha percepito redditi nel 2017 ed aggiunto che “sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero”. Forse il 2017 è stato un anno complesso, visto che ad oggi l’azienda non ha ancora depositato il bilancio 2017. Ma come andava l’ARDIMA srl negli anni precedenti? Nel 2016 la società ha dichiarato poco più di 10.000 euro di utili, cioè il 5% su un giro d’affari di poco superiore ai 200 mila euro. Consultando online la documentazione depositata nel 2013 alla Camera dei Deputati, si evince che l’allora deputato Di Maio non aveva segnalato nell’apposita dichiarazione patrimoniale la sua partecipazione al 50 per cento nella Ardima. Omissione colmata però nel 2014. Occupiamoci di Paolina Esposito madre di Luigi di Di Maio. La signora è un dirigente scolastico statale, preside dell’Istituto Comprensivo “Giovanni Bosco” di Volla, provincia di Napoli,  dopo aver fatto dal 1980 la professoressa in Istituti scolastici di primo e secondo grado del circondario. Occorre seguire attentamente le date: dal 2001 al 2015 è stata docente di ruolo al Liceo “Imbriani” di Pomigliano d’Arco e, contestualmente titolare dell’azienda di famiglia. Tutto ciò in violazione della legge italiana che non lo permette. Infatti l’ articolo 60 del Decreto del Presidente della Repubblica del marzo 1957 e l’articolo 53 del Testo Unico del Pubblico Impiego (decreto legislativo n° 29 del 1993) stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere attività imprenditoriale, oppure assumere impieghi presso datori di lavoro privati, assumere cariche in società con scopo di lucro, esercitare attività di carattere commerciale o industriale e svolgere incarichi retribuiti non attribuiti dall’amministrazione di appartenenza. I dipendenti pubblici possono diventare imprenditori esclusivamente a patto di ottenere un’autorizzazione speciale dall’amministrazione di appartenenza. Ma si tratta di casi molto rari ed è assai difficile che la signora Paolina Esposito l’abbia ottenuto a suo tempo. Infatti per i lavoratori pubblici a tempo pieno   come la Esposito si presume che questi non abbiano il tempo necessario per svolgere un doppio lavoro senza compromettere l’efficienza dell’impiego pubblico: in questi casi si è in presenza di incompatibilità assoluta. Ricapitolando il tutto: la signora Paolina Esposito, è un’insegnante, è stata la titolare dell’azienda Ardima Costruzioni nel periodo in cui sarebbe stato denunciato l’abuso di lavoro nero. Se tutto questo trovasse conferma, la mamma del vicepremier Di Maio ha quindi violato le norme di legge in materia fiscale e contributiva, omettendo di versare imposte e contributi all’Erario, all’Inps e all’Inail, e tutto ciò a vantaggio del proprio patrimonio che, successivamente ha donato ai figli Luigi e Rosalba. Quindi Luigi Di Maio e la sorella Rosalba sarebbero di fatto, i reali “beneficiari” del lavoro in nero ed evasione fiscale svolto dall’ex azienda di mamma la quale, tecnicamente e legalmente, non avrebbe potuto ricoprire quell’incarico violando le norme sulla incompatibilità derivante dal suo ruolo di pubblico dipendente. E forse non è ancora finita...

Di Maio, sequestri dei vigili urbani nella proprietà del padre a Mariglianella, scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Un quadro di presunti abusi totalmente ignorato dal Comune di Mariglianella, fino all’accesso dei vigili urbani di questa mattina, suscitato dal clamore mediatico della vicenda guidata. L’amministrazione è guidata da Felice Di Maiolo, sindaco di centrodestra. Che, per inciso, è collega del papà di Di Maio, di cui conosceva anche i cantieri svolti nel suo comune. Questa mattina tre agenti della Polizia municipale accompagnati da responsabili dell’ufficio tecnico comunale e di un rappresentante della famiglia Di Maio, hanno effettuato delle verifiche nello stabile a corso Umberto 69 a Mariglianella (Napoli), dove si trova l’immobile di cui è comproprietario il padre del vicepremier Luigi Di Maio.   Al termine dei controlli i vigili hanno sequestrato le aree dove erano stati depositati illegalmente dei rifiuti abbandonati. Cinque tra immobili e capannoni, più un campetto di calcio. Tutto di proprietà di Antonio Di Maio, padre del leader politico del M5S, e di una sua sorella, Rosalba. Ma almeno su quattro di queste costruzioni gravano fondati sospetti di abusi edilizi. Su questi elementi saranno trasmessi in giornata gli atti e la relazione dalla polizia municipale di Mariglianella alla Procura di Nola, competente per territorio. Il comandante della Polizia municipale di Mariglianella ha riferito che sono ancora in corso gli accertamenti da parte dell’ufficio tecnico sugli immobili di proprietà dei Di Maio. Alla vista dei giornalisti, diverse persone hanno intimato ai cronisti di allontanarsi sostenendo che “Di Maio è l’orgoglio della nostra nazione”. “Fino a ieri nessuno conosceva Mariglianella, adesso siete tutti qua”, ha gridato un uomo all’ingresso della stradina che conduce al terreno, il cui accesso è in questo momento presidiato da una vettura della polizia municipale. Dal video realizzato dai colleghi Dario Del Porto e Conchita Sannino della redazione di Napoli del quotidiano La Repubblica si può notare, in alto a sinistra del cancello principale, l’edificio alto in grigio che dovrebbe essere “la casa dei nonni”, secondo le spiegazioni fornite dal vicepremier Luigi Di Maio in televisione. A destra dello stesso cancello, invece, ecco due costruzioni in muratura: una più piccola ancora molto grezza, l’altra in parte dipinta di rosa, che non risulterebbero censite e che risalgono ad un periodo successivo. In fondo, dietro attrezzi per l’edilizia ed altro materiale di risulta, ecco un altro immobile quasi tutto in lamiera ma non di quelli costruiti in modalità “temporanea”, e dunque anche per questo mancherebbe il titolo per la realizzazione. Ed anche il quinto manufatto, non visibile dalla strada, è stato censito solo oggi dai vigili. Alla destra dei vari immobili sorge poi un campetto di calcio, sempre di proprietà dei due Di Maio, sul quale si allenava la società dei piccoli calciatori del Mariglianella, pare senza corrispondere un canone di affitto. E neanche in quel caso, a qualcuno era venuto in mente di controllare la regolarità dei vari immobili. Un quadro di presunti abusi totalmente ignorato dal Comune di Mariglianella, fino all’accesso dei vigili urbani di questa mattina, suscitato dal clamore mediatico della vicenda guidata. L’amministrazione è guidata da Felice Di Maiolo, sindaco di centrodestra. Che, per inciso, è collega del papà di Di Maio, di cui conosceva anche i cantieri svolti nel suo comune. “Sì, certo è vero, facciamo lo stesso mestiere. In anni passati, ma molto addietro, so che lui ha lavorato qui da noi in zona. Per ristrutturazioni, case, progetti normali. Ma io onestamente non sapevo niente di questi terreni e queste costruzioni. Io ho appreso dai giornalisti che forse era del padre di Di Maio”, ha racconta il sindaco Di Maiolo a Repubblica. Circostanza a dir poco singolare considerato che Mariglianella è un piccolo comune di sole 8mila abitanti e che l’attuale Sindaco è stato a lungo in passato anche vicesindaco. Ora sono scattati i sigilli solo per alcune aree in cui erano stati depositati rifiuti da cantiere edilizio, da smaltire. La parola passa alla Procura. E Di Maio inizia a preoccuparsi.

Durante la causa per lavoro in nero Luigi Di Maio era già socio dell’azienda di famiglia, scrive il 28 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Il vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, nel 2014, quando era in corso la causa del dipendente dell’azienda di famiglia alla stessa società per regolarizzare la sua posizione a seguito del lavoro svolto in nero, era già socio dell’azienda di famiglia. Il procedimento in primo grado nel 2016 si è concluso. Ora si attende l’Appello. Il contenzioso tra un dipendente dell’azienda del padre di Luigi Di Maio, Antonio, e l’azienda stessa, era ancora presente nello stesso momento in cui il vicepresidente del Consiglio era diventato socio della stessa società. A renderlo noto questa volta è il Corriere della Sera, che ha messo in luce come un dipendente della Ardima Costruzioni di Antonio Di Maio e Paolina Esposito, genitori del leader politico del M5s, abbia fatto causa all’azienda per farsi riconoscere le ore lavorate in nero. In primo grado il lavoratore ha perso la causa, ma ha fatto ricorso in Appello. Il papà Di Maio a quel punto avrebbe proposto una mediazione per chiudere il contenzioso, ricevendo però il rifiuto da parte del dipendente che ha deciso di andare a giudizio in Appello. Ma per arrivare ad una sentenza si dovrà comunque attendere il 2020. Il contenzioso era ancora in corso nel 2014, quando la società è stata donata alla Ardima srl, i cui comproprietari sono Luigi Di Maio e la sorella Rosalba (entrambi soci al 50%), mentre il fratello Giuseppe ne è l’amministratore senza però stranamente ricevere alcun compendo. Di Maio ospite ieri sera   nel programma “Di Martedì” condotto da Giovanni Floris su La 7, ha spiegato che l’azienda è pronta a chiudere non avendo ormai più dipendenti. Il vicepresidente del Consiglio ha ribadito di non saper nulla dei lavoratori in nero nell’azienda gestita dal padre, ma solo oggi si è scoperto che in realtà era già diventato socio quando il contenzioso era ancora in corso. Resta quindi da verificare ed accertare se Luigi Di Maio sapesse o meno. A verificare la regolarità dei contratti lavorativi dei 4 lavoratori in nero scovati da “Le Iene” sarà l’Ispettorato del Lavoro, che dipende proprio dal ministero guidato da Di Maio. Il quale a questo punto dovrebbe avere il buon gusto di dimettersi e lasciare il Ministero del Lavoro.

Il processo per denuncia del dipendente. Il rapporto di lavoro di Domenico Sposito il dipendente che ha lavorato per la società della famiglia Di Maio è iniziato nel 2008 concludendosi nel 2011. La vicenda processuale dinnanzi al Giudice del lavoro ha avuto inizio, nel 2013 ed ha avuto un primo riscontro giudiziario nel 2016, cioè nello stesso momento in cui Luigi Di Maio era intestatario del 50% delle quote della Ardima srl mentre era anche il vicepresidente della Camera. Sposito ha chiesto di aver lavorato quotidianamente quattro ore con contratto regolare e quattro ore in nero, motivo per cui aveva chiesto la sua regolarizzazione contrattuale ed economica. Nel corso del processo il padre di Di Maio, interrogato dal giudice avrebbe detto, secondo quanto riporta il Corriere della Sera: “Preferiva ricevere un acconto a prodotto delle giornate effettivamente lavorate per 75 euro al giorno entro la prima decade, poi quando il consulente del lavoro ci portava la busta paga aveva il saldo. A lui veniva pagato tutto l’importo della busta paga più una somma in contanti pari alle giornate lavorate per 37 euro al giorno e ciò accadeva per esigenze personali e lavorative”. Affermazioni queste smentite da alcuni testimoni che non hanno confermato questa versione. Ma ciò nonostante questo, Sposito ha perso la causa in primo grado, preferendo ricorrere in secondo gradi in Appello piuttosto che accettare la transazione offertagli da Antonio Di Maio.

Luigi Di Maio ha fatto il pizzaiolo "in nero" per un anno a Pomigliano d'Arco, scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Lo ha scoperto casualmente il Fatto Quotidiano cenando nel nel ristorante dove Di Maio lavorò (in nero) tra il 2011 e il 2012. I gestori: “Tra di noi c’era un rapporto amichevole”. Dopo le polemiche conseguenti all’inchiesta delle Iene – che ha svelato che il padre di Luigi Di Maio avrebbe assunto dei dipendenti in nero – il Fatto Quotidiano ha portato alla luce anche un anno di lavoro da “non inquadrato” del futuro vicepremier alla pizzeria “La Dalila” di Pomigliano d’Arco, dove la scelta di pranzare in quella pizzeria per il giornalista si è rivela fortunata, ricca di sorprese e di notizie. Tra una margherita e una coca cola i colleghi del Fatto hanno scoperto dalla viva voce di chi serve ai tavoli, prepara le pietanze e tiene aperto il locale, che il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico ci ha lavorato per un anno, cioè fino a pochi mesi della sua elezione alla Camera, come cameriere “non inquadrato”, che da queste parti significa in nero. Ma non solo: ha regalato a questo piccolo ristorante la sua precedente attività di web master, aprendone e curandone il sito internet e la pagina Facebook “senza chiedere un euro: lo faceva a livello amichevole: era lui che faceva le foto delle pizze e le pubblicava”. Anche se fosse stato a livello amichevole, per legge, il lavoratore doveva essere regolarmente inquadrato e con una posizione aperta presso l‘INPS. La carriera di Di Maio in pizzeria sarebbe durata dall’estate del 2011 a quella del 2012.

Le Iene, orrore grillino contro Filippo Roma per l'inchiesta sul padre di Luigi Di Maio: "Ti ammazzo", scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. A Un Giorno da Pecora Rai Radio1 Filippo Roma, l'inviato de Le Iene, autore dell'inchiesta sul padre di Luigi Di Maio (che ha dato da lavorare in nero) ha raccontato gli ultimi sviluppi sulla delicata vicenda. Ci saranno novità sul caso? "Non lo sappiamo nemmeno noi, siamo in attesa di alcune risposte da parte di Di Maio". Come le è parso il vicepremier quando lo ha intervistato? "Mi è parso deluso dal papà, nell'intervista è emersa questa cosa del padre e del figlio che non si parlavano, uno storia che affonda le radici in un passato molto lontano e profondo". "Sui social i simpatizzanti del Movimento mi hanno sfondato", dice Roma, "riempiendomi di insulti di ogni tipo: da servo di Berlusconi e Renzi a se ti incontro per strada ti ammazzo o ti riempio di botte". Nessun complimento? "Per strada mi fanno i complimenti invece...". 

I seguaci grillini scatenati in Rete. Minacce all'operaio: "Pediniamolo". Sui social caccia a Salvatore Pizzo: "Quanto ti hanno dato le Iene?" Scrive Camilla Conti, Venerdì 30/11/2018, su Il Giornale. Mannaggia a Facebook. Dopo aver rilasciato l'intervista alle Iene per raccontare di aver lavorato a nero per papà Di Maio il povero Salvatore Pizzo da Pomigliano non ha avuto più pace. Il suo profilo social è stato preso d'assalto da concittadini inferociti, fan scatenati di Giggino che hanno messo l'elmetto da tastiera e sono scesi in trincea al grido «onestà, onestà». Chiesta, però, non a vicepremier che per loro è onesto a prescindere. Ma a Salvatore Pizzo (mannaggia pure ai cognomi) e alla di lui consorte, Antonella. Colpevole di fare biscotti e torte in casa per poi venderle su ordinazione con tanto di profilo Facebook, cancellato qualche giorno fa. «Emana fattura ogni volta che consegna dolci? Paga le tasse per il lavoro che svolge? o lavora a nero?», chiede la signora Silvana. «Bisogna andare al negozio a fare le poste!», risponde Rosanna che vuole addirittura pedinare i coniugi Pizzo. E comunque della pagina Facebook con le torte Rosanna ha «conservato tutto, anche il cellulare per le prenotazioni», perché lei una cosa sola vuole sapere: «ma la partita Iva ce l'ha?». Il sussulto di giustizialismo fiscale scuote il web: tale Silvana chiede il nome della pizzeria dove lavora Salvatore «per vedere se lavora ancora a nero». Ed ecco che torna Rosanna, che ha già trovato l'indirizzo: «Bisogna andare a controllare alla pizzeria La Coccinella di Pomigliano D'Arco per vedere se lavora lì e se è in regola, Non vorrei che facesse le pizze a nero... via Giuseppe Verdi, 51». Ancora più pratica la signora Donatella che esordisce con un «mandiamogli la Finanza!». Intanto il povero Pizzo posta foto di cani abbandonati in cerca di adozione e si ritrova con decine di commenti avvelenati, molti in dialetto campano. Attenzione, non si tratta di «troll» o di «bot» sguinzagliati dall'algoritmo di Casaleggio. L'esercito contro il Pizzo ha nomi e cognomi, sono persone vere. Molte donne. E aspiranti Jessica Fletcher. Le signore in Giallo partono da un indizio: perché Pizzo ha parlato dopo nove anni? «È così disgustato da questa ipocrisia 5 stelle che a maggio faceva campagna elettorale per il Movimento», scrive ancora Rosanna postando anche le prove (una foto di Pizzo con i figli e l'hashtag #ilmiovotoconta) e linkando Selvaggia Lucarelli sperando, forse, di finire citata sul Fatto Quotidiano. Ecco quindi il complotto: «Non è che ha chiesto qualche favore, che come si sa il Movimento non fa, abbia deciso di vendicarsi? E poi che colpa poteva avere Luigi in questa storia ed è palese che si vuole colpire lui. Questa è la bassezza della politica ed è evidente che c'è qualcuno dietro a questo atto», risponde Domenico. Ma c'è anche ci segue altre piste. Pizzo ha preso i soldi dalle Iene? Il signor Giuseppe evoca addirittura il Pacciani e scrive: «Caro operaio in nero pagherai insieme ai tuoi amici di merende, per un briciolo di notorietà del cazzo, per aver accettato di lavorare in nero perché ti faceva comodo anche a te non pagare l'Irpef vero? Quanto ti hanno pagato quelli delle Iene per raccontare le tue stronzate?». Su Facebook, nelle informazioni generali del profilo, Salvatore Pizzo scrive ora di vivere a Los Angeles. Ma l'esercito di Giggino e le Signore in Giallo lo troveranno anche lì. Perché, gli ricorda Luciana, «chi nasce mappina non diventerà mai foulard».

Ecco le buste paga di Di Maio: niente lavoro nero. Il vicepremier e ministro del Lavoro pubblica i documenti dopo lo scoop delle Iene sui lavoratori senza contratto nella ditta del padre. Ma restano dubbi, scrive Eleonora Lorusso il 29 novembre 2018 su Panorama. Il tentativo è quello di mettere a tacere la bufera scatenata dopo il programma Le Iene su presunti lavoratori “in nero” nella ditta del padre di Di Maio. Ora il vicepremier ha pubblicato le proprie buste paga sul Blog delle Stelle, con un link che rimanda ai “documenti che dimostrano” la sua regolare assunzione nella ditta del padre. “Trovate tutto in questo file” ha spiegato il ministro del Lavoro.

Le buste paga. Nel documento al link si trova la lettera di assunzione di Di Maio relativa a un contratto di lavoro a tempo determinato, dal 27/02/2008 al 27/05/2008. Tre mesi di lavoro per la matricola n. 1/00004 presso l’azienda di famiglia con sede in via Ugo Ricci a Napoli. Il vicepremier all’epoca era inquadrato inizialmente come “operaio”, poi come “manovale”, con un livello 1. Si tratta di un contratto di lavoro nel settore EDILIZIA, Piccole e Medie Imprese, con una retribuzione di 632,99 euro (minimo), 513,46 per contingenza, 10,33 (E.D.R), ai quali si sommavano 150, 51 euro per Indennizzo territoriale. Totale: 1.348,81 euro mensili lordi per 40 ore settimanali. Il documento prevede anche ferie e permessi retribuiti come da contratto nazionale di categoria. Compresi in busta paga anche indennità di mensa e di trasporto.

La lettera di Di Maio. Sul Blog delle Stelle, organo “ufficiale” del pentastellati, il vicepremier ha voluto spiegare le proprie ragioni così: “Oggi, come promesso, pubblico i documenti che dimostrano l’assunzione nell’azienda di mio padre e le relative buste paga per il periodo di lavoro. Trovate tutto in questo file. Pubblico nuovamente, viste le menzogne che circolano, le mie dichiarazioni patrimoniali e di reddito da quando sono parlamentare e da quando sono ministro. Per visionarle sarebbe sufficiente accedere al sito della Camera, ma per comodità le carico su un file a parte scaricabile qui. Potrete vedere come la mia quota di partecipazione senza funzioni di amministratore o sindaco nella società Ardima sia sempre stata regolarmente dichiarata a partire dal 2014. A dimostrazione ulteriore che i fatti denunciati non riguardano il periodo in cui sono socio dell’azienda". Di Maio, dunque, punta a fugare anche il dubbio di avere avuto una quota di partecipazione societaria, nella ditta di famiglia non dichiarata, nel curriculum ufficiale.

Caso chiuso? La mossa di Di Maio ha lo scopo di mettere a tacere le polemiche sollevate dal programma tv Le Iene, ai cui microfoni un lavoratore della ditta di Di Maio senior ha dichiarato di aver lavorato per anni senza contratto, aggiungendo che, in occasione di un infortunio, gli sarebbe stato chiesto il silenzio sostenendo di essersi fatto male a casa. Ma la bufera non è finita. Debora Serracchiani (Pd) ha presentato un’interrogazione parlamentare, sottoscritta da altri dem, nella quale chiede se il ministro del Lavoro intenda rendere pubblica l’intera documentazione inerente al suo rapporto di lavoro con la Ardima Costruzioni, "con particolare riguardo all’estratto conto contributivo, nonché chiarire se nel corso degli anni dal 2008 al 2013 sia stato percettore di trattamenti di indennità legati allo stato di disoccupazione”.

Il giallo dell’immobile “fantasma” e l’estratto contro contributivo. Tra le carte pubblicate dal vicepremier manca, infatti, l’estratto contro contributivo. Ma la decisione di pubblicare le buste paga da parte di Di Maio ha lasciato alcuni punti in sospeso, ad esempio la verifica su quanto dichiarato dal lavoratore intervistato dalle Iene, a cui sono seguite altre tre dichiarazioni da parte di altrettanti lavoratori che sarebbero stati impiegati “in nero” nell’azienda del padre di Di Maio. A chiedere chiarezza è stata anche la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, secondo cui il ministro del Lavoro ha “il dovere istituzionale di mandare gli ispettori a verificare la situazione, perché solo su quella base potranno essere dati giudizi”. Resta poi il “giallo” del presunto immobile “fantasma”, ossia quello sorto su terreno a Pomigliano di proprietà della famiglia Di Maio. Ad accendere i riflettori è stata un’altra inchiesta della stampa, questa volta firmata da Il Giornale. Secondo il quotidiano l’edificio “non risulta censito nel database dell’Agenzia del Territorio (ex catasto)” e servirebbe come magazzino per la ditta del vicepremier, come dimostrerebbe la presenza di attrezzi in uso in campo edile.

La società di famiglia. Al centro dell’attenzione anche la composizione societaria della Ardima di Paolina Esposito, la ditta di famiglia con sede a Mariglianella (Na). È nata nel 2006, gestita dal padre e intestata alla madre di Di Maio. Il ministro del Lavoro è socio al 50% con la sorella Rosalba della Ardima Srl nata nel 2012 a Pomigliano d’Arco, dunque dopo le presunte irregolarità. Si tratterebbe, quindi, di due società differenti, seppure con un legame dato dai soggetti coinvolti e in particolare dal fatto che la prima azienda è stata donata dalla madre di Di Maio ai figli. Dal 2014 la ditta di Luigi e Rosalba aumenta il capitale fino a 100 mila euro. Avrebbe un parco mezzi che conterebbe su una betoniera, un autocarro, quattro perforatori, due elevatori, un banco sega, trapani, flex, ponteggi e altri attrezzi utili a effettuare lavori edilizi.

Pure mammà in conflitto d'interessi. Titolare dell'azienda, ma insegnava. Da dipendente pubblica non poteva fare anche l'imprenditrice, scrive Francesca Angeli, Venerdì 30/11/2018, su "Il Giornale".  Nell'intricato caso della famiglia Di Maio entra in scena da protagonista un nuovo personaggio ovvero la mamma del vicepremier Luigi, Paolina Esposito. Con un coup de théâtre si scopre che non sarebbe stato papà Antonio a far lavorare in nero alcuni operai perché la titolare dell'azienda edile Ardima in realtà era la mamma, Paolina Esposito. E dunque alla questione del nero se ne aggiungerebbe un'altra, altrettanto imbarazzante, per il ministro dello Sviluppo Economico. La signora Di Maio nello stesso periodo in cui era al timone della società era pure insegnante a tempo pieno presso il liceo Imbriani di Pomigliano d'Arco. E un dipendente pubblico assunto a tempo pieno, come appunto sicuramente è un insegnante di ruolo, è soggetto al vincolo dell'esclusività e dunque ad una serie di divieti relativi all'esercizio di altre attività lavorative. Certamente non può svolgere attività imprenditoriale; non può svolgere impieghi alle dipendenze di privati; non può cumulare impieghi pubblici; non può ricoprire la carica di presidente o amministratore in società di capitali. Si può ipotizzare che sia stata richiesta una deroga che però difficilmente potrebbe essere stata concessa a meno che il dipendente non lavorasse part-time. A sollevare la questione è Anna Ascani, deputata del Partito Democratico che dalla sua pagina Facebook fa notare che nella ricostruzione della vicenda dell'impresa dei Di Maio qualcosa non torna. «La ditta individuale, prima di diventare una Srl, confluendo in quella dei fratelli Luigi e Rosalba - scrive la Ascani sui social - era intestata alla madre Paolina, che infatti firmava i contratti di assunzione, compreso quello di Luigi che, diversamente dagli altri poveretti, era in regola». La Ascani che segue le tematiche del mondo della scuola evidenzia che «la signora Esposito in quegli anni era insegnante di ruolo di Italiano e Latino in una scuola statale come lei stessa scrive nel suo curriculum reperibile online». Nel frattempo la madre di Di Maio si è spostata e ricopre il ruolo di dirigente scolastica presso l'Istituto comprensivo San Giovanni Bosco in provincia di Napoli. Ma la legge è chiarissima sull'incompatibilità. Il decreto legislativo 297 del '94 (che recepisce il Dpr 3 del '57) stabilisce tra l'altro che docenti, direttori didattici e presidi non possono «esercitare attività commerciale, industriale e professionale» né «assumere e mantenere impieghi alle dipendenze dei privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro». Dunque la Ascani chiede al ministro Di Maio «di fare chiarezza anche su questo».

L'azienda Di Maio? È della madre. Che per legge non potrebbe ricoprire incarichi privati. Il padre del ministro al centro delle polemiche per le denunce di lavoro nero non era titolare di alcuna azienda. Lo confermano i documenti ufficiali consultati da L'Espresso. All'epoca delle presunte irregolarità la ditta di famiglia era intestata alla mamma del vicepremier, Paolina Esposito. Che in quanto insegnante e dipendente pubblica, per legge non può ricoprire incarichi aziendali, scrive Gloria Riva il 29 novembre 2018 su "L'Espresso". Il padre di Luigi Di Maio avrebbe fatto lavorare in nero degli operai. Non è vero. A voler essere precisi, è la madre di Di Maio ad averlo fatto. Il fatto sarebbe ancora più grave perché la donna, che è preside in una scuola pubblica napoletana e quindi incarna il ruolo di pubblico ufficiale, oltre ad aver violato la legge facendo lavorare in nero delle persone, avrebbe omesso una delle regole fondamentali del dipendente pubblico, cioè l'esclusività. Perché, salvo una deroga speciale, «i dipendenti della pubblica amministrazione non possono svolgere alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro», dice l'articolo 58 del Decreto legislativo 29 del 1993. Ma andiamo con ordine e ricostruiamo la complicata storia della Di Maio Industry. Tutto è partito da un'inchiesta delle Iene, che hanno intervistato un uomo, Salvatore Pizzo, che ha dichiarato di aver lavorato in nero per l'azienda edile del padre del ministro, che si chiama Ardima. Il padre dell'attuale ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, si chiama Antonio Di Maio, classe 1950, nato e cresciuto a Pomigliano d'Arco, che non possiede alcuna azienda. Proprio così. Dalla visura camerale effettuata da l'Espresso si scopre che Di Maio padre non ha azioni o quote di società. In passato è stato titolare firmatario della Di Maio Antonio, una ditta individuale di Pomigliano, specializzata nella realizzazione di tetti, che è stata cancellata nel 1995. Ed è stato, a partire dal 1997, sindaco supplente del Consorzio Regionale di Edilizia Artigiana, che realizzava edifici residenziali, finito in liquidazione. Inoltre ha un conto in sospeso con Equitalia, a cui dovrebbe versare 176 mila euro. La titolare dell'attività di famiglia e di alcuni terreni a Pomigliano d'Arco è invece Paolina Esposito. Ovvero la madre di Luigi Di Maio, che nel 2006 ha fondato l'impresa individuale Ardima Costruzioni diventandone titolare firmatario, tanto che nelle carte camerali viene qualificata come piccola imprenditrice, Il 30 dicembre 2013 dona la proprietà dell'azienda ai figli Luigi e Rosalba. L'Ardima costruzioni, che ha due soli dipendenti, si occupa della demolizione di edifici e sistemazione del terreno, della posa in opera di coperture e costruzione di tetti, della tinteggiatura, posa in opera di vetri e in generale, di lavori edili di costruzione. Poichè non è una società di capitali, la Ardima non ha l'obbligo di depositare bilanci, quindi non è dato sapere se goda di buona salute o meno. Parallelamente, la Di Maio family crea a marzo 2012 una seconda società, la Ardima Srl, di proprietà del ministro e della sorella Rosalba in egual misura (50 per cento ciascuno). L'azienda non solo ha lo stesso nome, ma ha praticamente lo stesso oggetto sociale, cioè si occupa delle stesse attività della Ardima costruzioni intestata a mamma Esposito. A giugno 2014 la Ardima Srl, quella del vicepremier e della sorella, acquisisce la ditta della madre, che cede un patrimonio di 80.200 euro ai figli, facendo quindi salire il valore complessivo del capitale sociale della nuova Ardima a 100.200 euro. Inizialmente Rosalba è amministratore delegato della nuova società, ma nel 2017 gli subentra Giuseppe, il fratello minore (classe 1994). Tuttavia quel ruolo da amministratore unico dell'azienda di famiglia non sembra essere particolarmente remunerativo: lo stesso Luigi Di Maio, nella sezione amministrazione trasparente, dichiara che il fratello Giuseppe Di Maio nel 2017 non ha percepito redditi e aggiunge che «sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero». Forse il 2017 è stato un anno complesso, visto che ad oggi l'azienda non ha ancora depositato il bilancio 2017. E negli anni precedenti? Nel 2016 l'azienda ha dichiarato poco più di dieci mila euro di utili, per un giro d'affari di poco superiore ai 200 mila euro. Tra l'altro, dalla documentazione depositata alla Camera, si scopre che nel 2013 l'allora deputato Di Maio non ha segnalato nell'apposita dichiarazione patrimoniale la sua partecipazione al 50 per cento nella Ardima. Lacuna colmata l'anno successivo. Ma torniamo alla madre di Di Maio. Paolina Esposito è un dirigente scolastico, preside dell'Istituto Comprensivo Giovanni Bosco di Volla, provincia di Napoli, e fin dal 1980 professoressa in Istituti scolastici di primo e secondo grado del circondario. In particolare dal 2001 al 2015 è stata docente di ruolo al Liceo Imbriani di Pomigliano d'Arco e, nello stesso periodo, è stata titolare dell'azienda di famiglia. Eppure la legge italiana non lo permette. L'articolo 60 del Decreto del Presidente della Repubblica del marzo 1957 e l'articolo 53 del testo unico del pubblico impiego (decreto legislativo 29 del 1993) stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere attività imprenditoriale, oppure assumere impieghi presso datori di lavoro privati, assumere cariche in società con scopo di lucro, esercitare attività di carattere commerciale o industriale e svolgere incarichi retribuiti non attribuiti dall'amministrazione di appartenenza. I dipendenti pubblici possono diventare imprenditori solo a patto di ottenere un'autorizzazione speciale dall'amministrazione di appartenenza. Ma si tratta di casi rari ed è molto difficile che Paolina Esposito l'abbia ottenuto. Infatti per i lavoratori pubblici a tempo pieno – come lo è Esposito - si presume che questi non abbiano il tempo necessario per svolgere un doppio lavoro senza compromettere l'efficienza dell'impiego pubblico: in questi casi si parla infatti di incompatibilità assoluta. Riassumiamo: Paolina Esposito, che è un'insegnante, è stata la titolare dell'azienda Ardima nel periodo in cui sarebbe stato denunciato l'abuso di lavoro nero. Se questo fosse confermato, avrebbe quindi violato le norme di legge in materia fiscale e contributiva, sottraendo imposte e contributi all'Erario, all'Inps e all'Inail a vantaggio del proprio patrimonio che, successivamente, è stato donato ai figli Luigi e Rosalba. Dunque, Luigi di Maio e sorella sarebbero i veri beneficiari del lavoro sporco fatto dall'ex azienda di mamma che, tecnicamente, non avrebbe potuto ricoprire quell'incarico. La docente e madre del ministro, infatti, avrebbe violato le norme sulla incompatibilità derivante dal suo ruolo di pubblico dipendente.

Papà Di Maio scagiona il figlio: "Luigi non sapeva nulla". In una intervista al Corriere della sera ammette i lavoratori in nero, ma aggiunge: "Abbiamo sempre detto ai nostri figli che era tutto in regola", scrive il 30/11/2018 Huffington Post. Il papà a difesa del figlio, conscio del cataclisma politico che lo sta colpendo. "Le mie responsabilità non possono ricadere sui miei figli". In una lunga intervista al Corriere della sera Antonio Di Maio spiega come, a suo dire, sono andate le cose su terreni, lavoratori in nero e altro. "Stanno cercando di colpirlo - dice papà di Maio - ma lui non ha la minima colpa". Sui lavoratori in nero, da lui ammessi dice: "Come papà ho sempre cercato di tutelare la mia famiglia. Sono pronto a rispondere dei miei errori. Ma dovete lasciar stare la mia famiglia, i miei figli che non c'entrano nulla con tutto questo. Quando si commettono degli errori li si nasconde ai propri figli perché si ha paura che possono perdere la stima nei tuoi confronti. Io volevo che i miei figli fossero orgogliosi del loro papà. E ora non so se è così ed è la cosa che mi fa più male. Abbiamo sempre detto ai nostri figli che era tutto in regola". Quanto al contratto di Luigi Di Maio nel 2008 il papà dice: "Ha lavorato per l'azienda di famiglia da febbraio a maggio 2008 regolarmente contrattualizzato: d'estate qualche volta mi accompagnava al cantiere". Ma la cosa principale a cui tiene papà di Maio è la pulizia morale del figlio: "Non si è sottratto alle domande, non ha fatto nulla per favorirmi o nascondere fatti e ha fatto bene. Lo conosco, è mio figlio, non avrebbe potuto avere altro comportamento perché è una persona onesta".

L’ipocrita Di Maio. La colpa dei padri non ricade sui figli, ma vale solo per lui.

Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Non andrò a Corleone". Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Va espulso". Il vicepremier: "Non vado a Corleone. Un ministro, lo Stato, non può partecipare a un comizio dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci, aspirante primo cittadino del M5S: "Sto valutando il ritiro", scrive Daniele Ditta il 23 novembre 2018 su Palermo Today. Il vicepremier Luigi Di Maio stasera non parteciperà al comizio finale del candidato sindaco del M5S di Corleone Maurizio Pascucci, finito nell'occhio del ciclone dopo la foto pubblicata su Facebook col nipote di Provenzano. La rinuncia pochi minuti dopo l'atterraggio a Punta Raisi. Di Maio, con un video diffuso sulla sua fanpage di Facebook, ha comunicato la sua decisione. "Mi dispiace - ha detto rivolgendosi agli elettori del M5S di Corleone - ma stasera non ci sarò. Anche se mi avrebbe fatto piacere. Poco fa ho aperto lo smartphone e tra le news c'era la notizia del nostro candidato sindaco M5S che voleva aprire al dialogo con i parenti dei mafiosi. Questa dichiarazione fa il paio con la foto sua con il nipote del boss Provenzano, uno dei capi della mafia stragista degli anni '80 e '90. Sono sicuro che foto e dichiarazioni siano state fatte in buona fede, ma è il concetto ad essere pericolosissimo. Non posso correre il rischio che un ministro, lo Stato, partecipi ad un comizio elettorale dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci si è lasciato immortalare con Salvatore Provenzano, nipote di Binnu 'u tratturi, nel bar che a Corleone gestisce con la moglie. "Un buon caffè con Salvatore. Delusione per i maldicenti..." questo il commento di accompagnamento. L'istantanea ha sollevato un vespaio di polemiche. Per il ministro Di Maio "se ti fai una foto col nipote di Provenzano stai comunicando qualcosa - anche involontariamente - a quelli lì. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo". Un vero e proprio terremoto politico, tanto da mettere in discussione la candidatura di Pascuccia. "Il ritiro della mia candidatura? Sto valutando. Tra un po' mi incontrerò con il mio staff e decideremo tutti insieme", ha detto Pascucci all'AdnKronos. "Chiedo scusa a Di Maio, ma quella foto con il nipote di Provenzano è stata concordata con lo staff e il deputato di riferimento di Corleone (Giuseppe Chiazzese, ndr). E' stata frutto di una scelta precisa, perché volevamo dare un segnale e non per chiedere i voti dei mafiosi, anzi per evidenziare la presa di distanza del nipote di Provenzano dalla mafia". Pascucci, dopo aver visto il video del vicepremier Di Maio, ha parlato di "incomprensione". E ha ribadito: "Io non li voglio i voti dei mafiosi e lo dirò al comizio stasera. Sono a Corleone da 14 anni e combatto contro la mafia e i mafiosi, quindi mai e poi mai posso pensare di arrivare a un compromesso con loro. Il fatto è molto semplice - ha provato a spiegare Pascucci - ci sono dei parenti di mafiosi condannati che prendono le distanze dai loro congiunti e non è giusto che questi parenti siano esclusi per tutta la loro vita dalla comunità. Solo a questa condizione, se loro prendono le distanze dai loro congiunti che hanno commesso dei reati gravissimi penso che si possa aprire con loro un dialogo per farli uscire da una dinamica che li colpevolizza in quanto i parenti dei mafiosi non hanno commesso dei reati". Pascucci non ha ancora parlato con Di Maio, che stasera incontrerà alcune categorie di lavoratori in difficoltà, mentre domani visiterà lo stabilimento della Fincantieri e farà un meeting con un centinaio di imprenditori. "Spero - ha concluso - di incontrarlo domani a Palermo". Un addio al M5S? "No, nessuna rottura. Io mi scuso con Di Maio e con i cittadini che hanno pensato che io volessi i voti dei mafiosi". Visto che, malgrado le scuse, Pascucci ha organizzato il comizio, Di Maio ha annunciato sanzioni: "Lo denunceremo ai probiviri, va espulso dal M5S. Qualora qualcuno della lista fosse eletto, gli verrà subito ritirato il simbolo. Sulla mafia - ha concluso Di Maio - non è concesso neppure peccare d'ingenuità da parte di chi si candida a ricoprire cariche pubbliche. Non ci aspettavamo questa arroganza. Non è un comportamento da Movimento 5 Stelle e come tale deve essere sanzionato immediatamente". Preoccupazione è espressa dalla Camera del Lavoro di Corleone. "Fermo restando che la lotta alla mafia non si fa emarginando i parenti dei mafiosi ma condividendo con chiunque i valori di giustizia e legalità, la scelta di Pascucci appare preoccupante perché il tema dei rapporti con la mafia doveva essere affrontato sia da lui che dai suoi avversari in modo del tutto diverso e con modalità più serie - dice Cosimo Lo Sciuto, segretario della Camera del Lavoro - La città di Corleone ritorna al voto dopo due anni di commissariamento per mafia. Solo questo avrebbe dovuto spingere chi si è candidato alla guida della città a prendere delle posizioni nette e inequivocabili contro il sistema mafioso ancora presente nella nostra realtà. Purtroppo, si è parlato più di pacchetti di voti che di programmi o di ripudio della mafia. Riteniamo gravissima la scelta del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio di non essere presente a Corleone, ricordandogli che prima di essere capo politico di un partito è uno dei massimi rappresentanti dello Stato. Parlando di mafia, Di Maio avrebbe dovuto dismettere i panni dell’uomo di partito e da uomo delle istituzioni assicurare vicinanza ai cittadini corleonesi, stanchi di essere etichettati come mafiosi, e garantire vigilanza, possibilmente incontrando tutti i candidati. L’antimafia non va fatta solo nelle stanze del governo, ma soprattutto nei territori che questa situazione la vivono. La nostra non può solo essere terra di consensi".  "Ricordiamo al vicepresidente del Consiglio Di Maio che la legalità e l'antimafia non si praticano lasciando spazio ai concetti e alle interpretazioni e riteniamo che con le sue dichiarazioni abbia offeso gente che quotidianamente lotta per scrollarsi di dosso etichette, figlie di una storia triste come quella che riguarda Corleone. Dispiace dover constatare che ancora una volta questo paese, in barba ai proclami elettorali che urlano al cambiamento, risulti essere anche vittima di abbandono di Stato".

Corleone, Di Maio e la morte del garantismo, scrive Domenico Ferrara il 24 novembre 2018 su "Il Giornale". I fatti ormai sono noti. Maurizio Pascucci, candidato sindaco M5s a Corleone, dichiara di voler “aprire un dialogo coi parenti dei mafiosi” perché “spesso un condannato per mafia coinvolge tutta la famiglia e i parenti vengono individuati anche loro come colpevoli”. Poi posta su Facebook una foto che lo ritrae con il nipote di Provenzano. Su di lui scoppia la bufera, Di Maio annulla il comizio nella città de Il Padrino e minaccia l’espulsione di Pascucci dal Movimento. Sul caso però a mio avviso sono stati commessi errori e c’è tanta ipocrisia. E sintetizzo il tutto con delle domande e delle considerazioni.

1) Pascucci ha motivato le sue dichiarazioni basandosi sul fatto che il nipote di Provenzano è incensurato e ha preso le distanze dai fatti sanguinosi commessi dalla mafia. Ma allora perché rimarcare pubblicamente la volontà di dialogare con lui? Se è un cittadino come gli altri, perché evidenziare in una intervista a un quotidiano di voler riaprire il dialogo coi parenti dei mafiosi e non, per esempio, di volerlo riaprire con gli agricoltori over 60? L’errore è stato proprio questo, l’aver riposto maggiore attenzione a una fetta di potenziali elettori, quasi a voler conferire loro una superiorità di considerazione rispetto agli altri, differenziandoli da tutto il resto della popolazione.

2) Di Maio, invece di attaccare la stampa cattiva, dovrebbe ringraziarla perché è stata proprio la stampa cattiva a dargli la possibilità di conoscere l’accaduto. E questa per lui potrebbe essere l’occasione per migliorare dai propri errori.

3) Di Maio, però, piuttosto che scatenare la sua rabbia sui social, avrebbe dovuto, almeno per coerenza, andare al comizio di Corleone e ribadire lì in pubblico la sua dura condanna verso il candidato e verso la mafia e tutto il mondo che le ruota attorno. Quello sì che sarebbe stato un segnale concreto. Invece, rimanendo nell’ambito dei social e non scendendo sul territorio, ha di fatto abbandonato il suo candidato bollandolo come colluso per una dichiarazione e per una foto con un incensurato.

4) Un altro errore è stato quello di criminalizzare ed esporre al pubblico ludibrio una persona, Salvatore Provenzano, che, almeno fino al momento, è un cittadino incensurato che gode degli stessi diritti civili e politici di cui gode il vicepremier. “Sono sicuro che la foto e la dichiarazione sono state fatte in buona fede ma il concetto è pericolosissimo. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo. Faremo piazza pulita dei corrotti e dei mafiosi”, ha dichiarato Di Maio. Ma nella foto incriminata non c’è nessun corrotto e nessun mafioso. Altrimenti bisognerebbe ghettizzare i parenti dei mafiosi (fino al primo, secondo, terzo grado?), privarli di ogni diritto e condannarli a vita solo per il cognome che portano. E sarebbe la morte del garantismo.

5) Tempo fa Di Maio è finito nella bufera per una foto del 2016 scattata a Cesa, in provincia di Caserta, in cui compariva accanto a Salvatore Vassallo, inquisito per traffico illecito di rifiuti e fratello di Gaetano, pentito del clan dei Casalesi. Il grillino si è giustificato dicendo che erano stati gli attivisti a portarlo a cena in quel ristorante e che non sapeva chi fosse quell’uomo. Bene. Ma Di Maio è finito alla gogna lo stesso. Come ci è finito Salvatore Provenzano. Ma come non è colpevole il grillino non lo è nemmeno il parente del boss.

Ma se si seguissero i principi cari all’estremizzazione del giustizialismo pentastellato allora si dovrebbero chiedere le dimissioni anche di Di Maio.

Lavoro nero nella ditta del padre di Di Maio, la denuncia delle Iene. La replica: "E' vero, consegnerò i documenti". La trasmissione Mediaset ricostruisce la vicenda di Salvatore Pizzo, ex dipendente dell'azienda edile del padre del ministro del Lavoro. Il vicepremier: "Mio padre ha fatto degli errori", scrive Carmine Saviano il 25 novembre 2018 su "La Repubblica". Casi di lavoro nero nella ditta del padre del ministro del Lavoro. Emerge tutto in un servizio de Le Iene andato in onda durante la trasmissione di domenica. Parte tutto dalla denuncia di Salvatore Pizzo, di Pomigliano d'Arco, ex dipendente della ditta edile della famiglia di Luigi Di Maio. Che denuncia di aver lavorato in nero per due anni, tra il 2009 e il 2010 e che a pagarlo era Antonio Di Maio. Non solo. Pizzo racconta anche di un suo infortunio sul lavoro "coperto" dal padre del vicepremier. Che gli avrebbe consigliato di non denunciare l'accaduto per non incorrere in sanzioni. E la trasmissione di Mediaset ha anche richiesto un commento al capo politico del Movimento 5 Stelle. Di Maio nega ogni personale coinvolgimento, si dichiara all'oscuro dei fatti e promette di verificare immediatamente la veridicità delle affermazioni di Salvatore Pizzo. I fatti, precisa il programma di approfondimento di Italia 1 nella puntata in onda questa sera, risalgono a un periodo antecedente di due anni a quando Luigi Di Maio è diventato proprietario al 50% dell'azienda di famiglia, impresa in cui lo stesso attuale vicepremier ha lavorato per un periodo come operaio. Subito dopo la messa in onda del servizio arriva la replica del vicepremier. Affidata a un post su Facebook. Ammette l'errore. E prende le distanze dal padre: "Mio padre ha fatto degli errori nella vita e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. Ancora: "A maggior ragione - aggiunge- se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio”.

Luigi Di Maio 25 novembre 2018. "Avrete visto il servizio delle Iene. E avrete visto anche la mia intervista. Come sapete, in tutti questi anni, alle Iene abbiamo sempre dato il massimo della disponibilità, non abbiamo chiesto di non mandare in onda servizi, a differenza di altri; non abbiamo mai chiesto alcun trattamento di favore e quando ci hanno rivelato qualcosa di importante li abbiamo ringraziati. Il caso di stasera riguarda un lavoratore che 8 anni fa ha lavorato in nero per mio padre. Sono contento che Salvatore - l’operaio - abbia trovato il coraggio di denunciare pubblicamente dopo 8 anni. Ho letto dei commenti che lo attaccano per averlo detto pubblicamente solo ora, personalmente non credo lo si debba aggredire, inoltre credo che Salvatore Pizzo abbia anche votato il Movimento alle ultime elezioni, visto che ha aderito alla nostra campagna di maggio #ilmiovotoconta. Salvatore Pizzo all’epoca dei fatti si è rivolto al Sindacato CGIL che gli consigliò di trovare un accordo con mio padre per farsi assumere, e infatti poi ha ottenuto un contratto regolare. Successivamente gli fu corrisposto anche un indennizzo. 8 anni fa, come avrete visto dal servizio io non ero né socio dell’azienda, né mai mi sono occupato delle questioni di mio padre. Mio padre ha fatto degli errori nella sua vita, e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. E capirete anche che sia improbabile che un padre racconti al figlio 24enne un accaduto del genere. A maggior ragione se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio. Buona serata a tutti".

I dubbi sulla ditta di famiglia. Usava il magazzino fantasma? Da cinque anni l'azienda è intestata per metà al capo grillino. E nel cortile dell'edificio ci sono materiali edili, scrive Pasquale Napolitano, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". Nel 2015 il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio ha pubblicamente dichiarato che la sua famiglia ha alle spalle una lunga tradizione nel settore edilizio. Circostanza che pare confermata, visionando i terreni di proprietà (al 50 %) del padre Antonio Di Maio nel Comune di Mariglianella e su cui è spuntato un manufatto fantasma che ad oggi non risulta censito nel database dell'Agenzia del Territorio (ex catasto). Mettendo bene a fuoco le foto si notano infatti a pochi metri dal manufatto fantasma attrezzi in un uso a una ditta edile. Si vedono, tavole in legno che potrebbero servire per l'installazione di impalcature nei cantieri edili. Ma anche mattoni e residui di cemento. Tutto materiale che un'impresa edile utilizza sia per l'allestimento di un cantiere che per la realizzazione di case e altri interventi. La presenza di materiale edile non dimostrerebbe nulla ma ovviamente fa sorgere alcuni sospetti. Che si aggiungono alle domande già poste dal Giornale al ministro del Lavoro sul manufatto realizzato sui terreni di proprietà della famiglia Di Maio. Il primo dubbio che andrebbe chiarito riguarda le attività svolte nel manufatto fantasma. Potrebbe essere stato utilizzato come deposito per le attrezzatture della ditta edile della famiglia Di Maio? La presenza sui terreni e all'interno del manufatto di mattoni e tavole in legno farebbe ipotizzare un uso di quei vani per l'attività edile. Ma potrebbe essere solo una coincidenza. E magari i Di Maio potrebbero aiutare a risolvere l'enigma. C'è un secondo passaggio che andrebbe chiarito: il periodo. In questo caso, la data è importante perché potrebbe scagionare Di Maio da ogni legame (fatta eccezione per quello familiare) con la storia del manufatto fantasma. In caso contrario potrebbe chiamarlo direttamente in causa. Ma bisogna andare indietro nel tempo. Nel 2014, la società di famiglia Ardima Srl viene ceduta al capo politico dei Cinque stelle e alla sorella. Il vicepremier diventa socio al 50% della società di famiglia che ha come principale scopo sociale la costruzione di edifici residenziali. La società, in realtà, è stata costituita nel 2012 mentre nel 2014 passa a Di Maio e la sorella. Il ministro ha sempre chiarito di non essersi mai occupato delle attività della società e di non aver mai versato un euro. Mentre la società è stata sempre attiva. Ma c'è un passaggio da chiarire: se terreni e immobile (fantasma) che si trovano nel Comune di Mariglianella siano stati usati per le attività edilizie. E soprattutto in quali anni. Prima del 2014, il vicepremier non avrebbe alcun legame societario con Ardima Srl. Dopo il 2014 sì. E c'è il rischio che la società, di cui è azionista al 50%, abbia utilizzato come deposito per le attività edilizie un immobile che non risulta censito negli archivi dell'Agenzia del Territorio. I dubbi aumentano. E anche il silenzio. Restano senza risposte alcune domande: perché quell'immobile non risulta censito? C'è una autorizzazione edilizia? Una pratica di condono in corso? Da ieri non solo per il catasto il manufatto è sconosciuto. Ma anche per Equitalia che nel 2010 ha iscritto un'ipoteca solo sui due terreni. E non sull'immobile. Come si spiega?

Il silenzio di Di Maio sull'edificio fantasma intestato a suo papà. L'immobile non risulta al catasto, il Comune avvia accertamenti. Il leader non chiarisce, scrive Pasquale Napolitano, Sabato 24/11/2018, su "Il Giornale". Il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio imbocca la strada del silenzio. Tace dopo l'articolo de il Giornale nel quale vengono sollevati sospetti di irregolarità edilizie su immobile fantasma costruito su un terreno nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli, intestato al padre Antonio Di Maio. Il capo politico dei Cinque stelle parla di Babbo Natale ma non preferisce parola sul proprio Babbo e la storia del manufatto non censito. Eppure, ieri, il ministro del Lavoro ha inondato le agenzie e i seguaci con una raffica di dichiarazioni. Dal summit «Wide opportunities world» di Samsung Italia, il ministro ha parlato di innovazione imprese, reddito di cittadinanza, Europa. Ha elogiato l'abbattimento delle case abusive dei Casamonica a Roma e annullato il comizio elettorale a Corleone. Ma nessun cenno alla storia dell'immobile fantasma beccato con una foto satellitare sul terreno di proprietà di Di Maio senior. Il numero uno dei grillini ha optato per il profilo basso. Per un silenzio sospetto, senza dare spiegazioni sia al Giornale, che aveva provato ad avere un commento attraverso l'ufficio stampa, che agli attivisti dei Cinque stelle. La platea pentastellata è molto sensibile su questi temi. Quando è saltata fuori la storia del condono edilizio, il ministro non ha perso tempo per chiarire la vicenda. Ieri invece nulla: bocche cucite. Il caso crea imbarazzo nel M5S. Sarebbe bastata una diretta Facebook di una cinquanta secondi per fugare i dubbi. Rispondere agli interrogativi posti da il Giornale. Nel 2000 il padre del vicepremier acquista due terreni e un fabbricato a Mariglianella. Ne rileva però solo il 50 per cento, sia dei terreni che del fabbricato. I due appezzamenti ricadono in un'area che il Prg del 1983 del Comune (ancora vigente) destina alla realizzazione di attrezzature sportive ed edifici scolastici. Al momento del passaggio di proprietà non risulterebbero immobili realizzati sui due terreni. Le domande che pone il Giornale sono semplici: nei documenti presenti nel database in dell'Agenzia del Territorio (ex catasto), Di Maio padre è titolare solamente delle due particelle di terreno: la n.1309 e n.811. Ma visionando gli estratti satellitari salterebbe fuori un immobile sulla particella 1309. La struttura in muratura non risulterebbe censita al catasto. E non figurerebbe nemmeno nell'elenco dei fabbricati intestati a Di Maio senior. Quell'immobile è stato costruito sulla base di un'autorizzazione edilizia? C'è una pratica di condono in corso? Ma quale? La Campania non ha aderito all'ultimo condono mentre le altre sanatorie risalgono agli anni antecedenti al passaggio di proprietà dei terreni. E quindi, la richiesta di condono pendente andava inserita nell'atto notarile. Domande semplici alle quali Di Maio non ha risposto. Le risposte potrebbero arrivare, presto, dagli uffici del Comune di Mariglianella. Il caso è finito all'attenzione del settore antiabusivismo che ora predisporrà i controlli per accertare eventuali irregolarità. In attesa dell'iter amministrativo, il Pd incalza il vicepremier, chiedendo di riferire in Aula: «Il vizietto di casa Di Maio. Dopo la casa abusiva, anche le tasse evase. Ma tanto ci pensa il figlio ministro a fargli un altro condono. Di Maio riferisca in Parlamento. Eccola l'onestà dei 5 Stelle», scrive su Twitter la senatrice Laura Garavini. Mentre la deputata Alessia Morani lo stuzzica: «Di Maio perché taci?».

Tutto quello che Di Maio non ci dice, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 25/11/2018, su "Il Giornale". Da tre giorni stiamo raccontando la storia dell'immobile fantasma costruito su un terreno di proprietà della famiglia Di Maio nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli. Il fabbricato esiste nella realtà, ma non risulta al catasto e non ve n'è traccia nelle modeste, anzi modestissime, dichiarazioni dei redditi della famiglia del vicepremier grillino. Questa vicenda non ha nulla a che fare, apparentemente, con i condoni edilizi dei Di Maio, recentemente saliti agli onori della cronaca e sbrigativamente liquidati dagli stessi come «vecchie storie». Qui stiamo parlando di una storia attuale, probabilmente legata all'attività della società di famiglia, la Ardima srl che opera nel campo dell'edilizia e di cui Luigi è proprietario al 50 per cento. La restante metà figura in capo alla sorella Rosalba, di professione architetto e di fatto la persona che si occupa dell'azienda insieme all'altro fratello Giuseppe che, secondo notizie mai smentite, sarebbe l'amministratore unico. Di che cosa si occupi la Ardima non è chiaro. Ammesso che si occupi di qualche cosa perché i Di Maio sono poco più che nullatenenti, almeno stando alle loro dichiarazioni dei redditi. Il padre dichiara un imponibile di 88 euro nonostante risulti proprietario di terreni e fabbricati, il fratello Giuseppe zero, la sorella Rosalba poco più di 11mila. A mandare avanti la famiglia pare essere la madre, con i suoi 52mila euro all'anno. Il fabbricato fantasma c'entra qualcosa con gli apparentemente non floridi affari della società di famiglia? Non lo sappiamo ancora, stiamo lavorando per capirlo anche perché attorno alla vicenda si è alzato un muro di omertà. Abbiamo chiesto spiegazioni a Luigi Di Maio stesso attraverso i canali istituzionali ma niente, nessuno al momento ha intenzione di chiarire. Può essere che la spiegazione dell'anomalia sia il classico uovo di Colombo, ma anche no. Nel dubbio noi insistiamo, non perché siamo «prostitute» come sostiene Di Maio, ma perché è il nostro mestiere. Le case dei politici e dei loro congiunti, come insegna la vicenda Fini-Montecarlo, non sono case come tutte le altre. Sono speciali, soprattutto se di proprietà di chi ha raccolto voti al motto di «onestà» e «trasparenza».

La figuraccia di Di Maio: condoni a gogò a casa. Nell'abitazione di famiglia a Pomigliano sanati 150 mq di abusi nel 2006. Lui s'infuria: «Era di mio nonno», scrive Lodovica Bulian, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Centocinquanta metri quadri di abusi edilizi, su due livelli, condonati con 2mila euro grazie a una legge del governo Craxi del 1985. Dopo il caso Ischia, il Movimento Cinque Stelle scivola, ancora, sul condono. Dopo le polemiche sul caso Ischia Repubblica scova un'istanza di sanatoria della casa di famiglia del vicepremier Luigi Di Maio a Pomigliano D'Arco. Una pratica presentata nel 1986, intestata ad Antonio Di Maio, padre del leader grillino: la richiesta di condono viene esaminata, e accolta, ben vent'anni dopo, nel 2006. Il conto per mettersi in regola e sanare l'abuso è composto da due rate da 594 euro più altri 410 euro di oneri di concessione, per un totale di duemila euro. «Ampliamenti su secondo e terzo piano», recita la domanda presentata da Di Maio senior, che negli anni in quanto geometra avrebbe anche dato una mano agli esaminatori delle tante pratiche di condono confluite nei comuni dopo il terremoto. La ristrutturazione per ricavare camere e bagni genera una superficie fuorilegge pari a 74 metri quadri abitabili, più altri 3 qualificati come «non residente». Questi solo su un piano. Sull'altro piano i metri quadri da sanare con i lavori realizzati fuori norma sono 73. In totale fa 151 metri di abitazione da condonare. «Adesso si capisce perché il ministro abbia un problema anche solo a pronunciare la parola condono», lo attacca il quotidiano, ricordando come l'espulsione della prima sindaca pentastellata, quella di Quarto (Napoli), Rosa Capuozzo, nacque proprio da un abuso edilizio: la prima cittadina viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il vicepremier, che da giorni respinge le accuse sulle norme per Ischia inserite nel decreto Genova, risponde all'attacco frontale con un lungo post su Facebook, in cui rivendica la legalità della pratica, mentre sui social scoppiano le polemiche con l'hashtag #condonodifamiglia. «Stamattina Repubblica si è inventata questo scoop sul condono sulla casa di famiglia di Di Maio - ribatte -. Andiamo a pagina 10 - scusate ma ho dovuto comprarla - dove è sbattuta la foto della mia famiglia, una famiglia che è sempre stata onesta. Allora io questa mattina ho chiamato mio padre e chiesto: ma cosa hai combinato? E lui mi ha detto che nel 2006 ci è arrivata una risposta di una domanda fatta nel 1985 su una casa costruita nel 1966. La casa era stata costruita da mio nonno in base al Regio decreto del 1942». La sua Pomigliano è uno dei tanti comuni dove in passato è dilagato il fenomeno dell'abusivismo: la Campania, secondo Legambiente, ha una quota record di 50,6 immobili fuorilegge ogni 100. Nel 1985, precisa Di Maio, «mio padre chiese la regolarizzazione della casa, presentò la domanda ad aprile 86 e nel 2006 è arrivata la risposta in cui il Comune dice: devi pagare 2000 euro e regolarizzi la casa costruita nel 1966. Così mio padre regolarizza un manufatto costruito da mio nonno quando lui aveva 16 anni, io chiaramente non ero ancora nato ma Repubblica non me la perdonerà, questo è il grande scoop di Repubblica. A queste persone che ogni giorno sputano veleno su di me, sul M5s e forse solo così riescono ad andare sui quotidiani dico: metteteci un po' più di amore e meno rabbia». Il quotidiano risponde a sua volta, e punta il dito sulle «omissioni» del vicepremier: «Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano, sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri».

La supercazzola di Di Maio sull’abuso edilizio del padre, scrive Giovanni Drogo il 7 novembre 2018 su Next Quotidiano. Oggi Repubblica ha raccontato la curiosa vicenda del signor Antonio Di Maio, padre del Capo Politico del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio, che nel 1986 usufruì del condono edilizio varato dal governo Craxi. Per quell’abuso edilizio il signor Di Maio pagò nel 2006 appena 2mila euro, un affarone visto che in totale stiamo parlando di circa 150 metri quadri di superficie abitabile in più creati in maniera abusiva.

Di Maio ammette che suo padre ha usufruito del condono edilizio del 1985. Luigi Di Maio all’epoca del condono aveva vent’anni e non ha nulla a che fare con l’abuso edilizio, commesso prima che lui nascesse. Durante una diretta su Facebook dopo aver ripetuto per l’ennesima volta che a Ischia – dove guarda caso il governo ha deciso di consentire il ricorso a condono edilizio del 1985 per i proprietari di immobili abusivi danneggiati dal terremoto – non c’è nessun condono ci ha tenuto però a smentire le fake news di Repubblica sul condono di cui ha usufruito il padre. Il Capo Politico del M5S spiega che il quotidiano Repubblica «si è inventato questo scoop» relativo al condono dell’abuso edilizio richiesto dal padre.  Di Maio si lamenta che Repubblica ha “sbattuto la foto” della sua famiglia. Foto che però non è stata rubata visto che è stato proprio il vicepremier a pubblicarla il giorno di Pasqua sulla sua pagina Facebook. Il ministro del Lavoro racconta di aver chiamato il padre per chiedere «ma nel 2006 che cosa hai combinato?». Il signor Di Maio ha spiegato al figlio che «nel 2006 è arrivata una risposta del 1985 che riguarda la casa a una casa costruita nel 1966».  Questa risposta conferma quello che è scritto nell’articolo di Repubblica che dice appunto che nel 1986 il signor Di Maio ha presentato una richiesta di sanatoria che è stata concessa vent’anni dopo.

La storia della casa abusiva del papà di Di Maio. Il Capo Politico del M5S la prende alla lontana: «Nel 1966 mio nonno costruisce la casa in cui vivono oggi i miei genitori e vive mio fratello e mia sorella con suo marito. Nel 1966 aveva all’incirca sedici anni. Mio padre costruisce una casa in base ad una legge che era il regio decreto del 1942». Immaginiamo che qui il vicepremier stia facendo riferimento alla legge quadro urbanistica che imponeva l’obbligo di licenza edilizia per chiunque volesse costruire un immobile o fare ampliamenti ad edifici esistenti (legge poi integrata dalla Legge Ponte n. 765/1967 dell’agosto 1967). Non dice però se il nonno avesse ottenuto la licenza edilizia oppure se la licenza era per una metratura inferiore a quella sanata grazie al condono del 1985. Il fatto che il padre del vicepremier abbia chiesto di accedere al condono edilizio varato dai famigerati e cattivissimi governi precedenti però è un chiaro indizio. Scrive Repubblica che nella casa dove ha abitato il vicepremier: «il secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo». Quindi non nel 1966. Gli abusi in questione sono «nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro», in pratica – vista l’entità della metratura condonata – una casa abusiva aggiunta successivamente al “nucleo originario” della dimora Di Maio. «Mio padre nel 1985 da geometra viene a conoscenza della legge che permette di regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza». Quella legge non è una legge qualsiasi, è la legge 47 del 1985 nota anche come condono Craxi. Una legge che permetteva di sanare gli abusi edilizi e a cui ovviamente hanno fatto ricorso molti italiani che erano proprietari di una casa abusiva o di un immobile dove erano stati commessi abusi. Secondo Luigi Di Maio invece il padre ha fatto ricorso a quella legge – di cui parlavano tutti, non stiamo parlando di un codicillo “da geometra” – sostanzialmente “per scrupolo” perché «nell’85 è difficile che esistessero tutte le carte di quella casa» (costruita vent’anni prima, non duecento anni prima). Ora è chiaro anche ad un bambino che le carte possono “non esistere” perché sono andate perse (dove? nei cassetti di casa o al catasto?) ma anche perché quelle carte – essendo stato commesso un abuso – non sono mai esistite. Nel 2006 «diversi decine di anni dopo» (due, per l’esattezza) il padre riceve la risposta da parte del Comune. Di Maio non dice che si tratta – come riporta Repubblica – di un condono per opere di ampliamento fatte in anni diversi che tecnicamente si configurano come “ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano”. Dice invece che il Comune ha risposto: «devi pagare duemila euro e regolarizzi quella casa costruita nel 1966». Ma come è possibile? Se la casa era stata costruita dal nonno rispettando le prescrizioni della legge urbanistica del 1942 allora era già in regola. Viceversa se magari, nel corso degli anni, erano state fatte delle aggiunte – per un totale di 150 metri quadri – significa che dal 1966 al 1985 la casa ha subito qualche ampliamento non autorizzato. Modifiche che in italiano si chiamano abusi edilizi. Proprio come quelli di Ischia.

La stalla? Una casa con piscina Le foto ora incastrano Di Maio. A Le Iene gli scatti che ritraggono il vicepremier grillino a mollo nel cortile di quello che sosteneva fosse un ricovero per animali, scrive Chiara Sarra, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale". "Lì c'è sempre stata una stalla". Luigi Di Maio dice di ricordarselo fin da quando era bimbo. Eppure così non sembra a guardare le foto mostrate questa sera da Le Iene che hanno mandato in onda la terza puntata sul fabbricato abusivo al centro dell'inchiesta del Giornale. Scatti che risalgono al 2013 e che mostrano a Mariglianella (Napoli) esattamente nel punto in cui secondo il vicepremier ci sarebbe da sempre un ricovero per gli animali un villino con patio. Si vede una cucina, si vedono le immagini di una festa. E si vede il giovane Di Maio - allora da poco eletto alla Camera dei deputati e nominato vicepresidente a Montecitorio - a mollo in una piscina sopraelevata. Eppure quando il Giornale ha scoperto gli edifici abusivi - ora in parte sequestrati dalla procura che ha aperto le indagini - il capo politico del M5S ha prima "scaricato" il padre e poi ha negato che si trattasse di fabbricati irregolari. E agli inviati de Le Filippo Roma e Marco Occhipinti ha persino raccontato che il villino apparso "dal nulla" nelle foto satellitari del 2002 era in realtà una stalla sempre esistita fin da quando era piccolo. Ma ora le nuove prove portate dal programma Mediaset lo incastrano: possibile abbia dimenticato cosa ha fatto solo 5 anni fa?

Di Maio: “l'aiuto” nei magazzini abusivi, la stalla che diventa villetta e i prestanome, scrivono Le Iene il 02 dicembre 2018. Terza puntata dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sull’azienda di famiglia di Di Maio. Dopo la storia dei 4 lavoratori al nero, ecco i fabbricati abusivi, una stalla che si trasforma in villa con piscina (anche se il vicepremier non se lo ricorda) e un grande dubbio su chi realmente conduce l’impresa di famiglia senza comparire. Terza puntata dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sull’azienda di famiglia del ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque Stelle. Nel servizio che potete vedere qui sopra, vi mostriamo in esclusiva le immagini delle proprietà del padre di Luigi Di Maio, Antonio: terreni e costruzioni a Mariglianella (Napoli). Parte di queste proprietà sono state sequestrate due giorni fa e la Procura di Nola sta indagando per abusi edilizi e violazioni ambientali. Mostriamo a Di Maio quattro fabbricati abusivi. Non solo, lui stesso, Luigi Di Maio avrebbe dato una mano nella logistica nei terreni sequestrati. A raccontarcelo è Mimmo, che ha fatto causa all'azienda di famiglia per essere stato impiegato in nero e fatto ricorso in Appello nel 2016 quando Luigi Di Maio era già nell'assetto proprietario dell'azienda. Nel primo servizio di quest’inchiesta (clicca qui per vederlo, vi riproponiamo poi entrambi in fondo all'articolo), Salvatore Pizzo ci ha raccontato di aver lavorato in nero per l’impresa edile dei Di Maio. Il ministro del Lavoro, nel secondo servizio (clicca qui per vederlo), come promesso, ha verificato e ha confermato le prime rivelazioni di Pizzo. Sono spuntati però altri tre lavoratori in nero nell’azienda. Tutti gli episodi si riferiscono al periodo tra il 2008 e il 2010, prima comunque che nel 2014 lo stesso Luigi Di Maio entrasse nell’assetto proprietario dell’azienda. L’azienda edile che da trent’anni porta avanti il padre di Luigi, Antonio, infatti, prima era intestata alla madre Paolina Esposito, poi è confluita nel 2014 nell’Ardima srl, di proprietà al 50% del ministro e della sorella Rosalba. Ma torniamo a Mariglianella: abbiamo parlato dei quattro fabbricati che non risultano al catasto e che il sindaco del paese ci ha confermato abusivi e delle sue attività nei magazzini. Luigi Di Maio promette nuove verifiche con il padre. Ci colpisce in particolare una bella casetta con patio e piscina che mostriamo al ministro. Lì secondo i suoi ricordi ci sarebbe stata una stalla, ci dice. In una foto del 2013 si vede però Di Maio che si fa un bel bagno in quella stessa piscina con fabbricato abusivo alle sue spalle ben in evidenza. E, in altre, gran feste in quel patio. Non se ne ricorda più ministro? Tutto in una settimana molto difficile, per carità. Dopo una bufala contro Pizzo che è stata smascherata, Filippo Roma è stato minacciato di morte su Internet: ringraziamo Di Maio per essersi associato alla solidarietà alla Iena dichiarando: “Non attaccate lui né Le Iene”. C’è però un’altra domanda che dobbiamo fare per forza: perché papà Antonio Di Maio non compare mai dal 2006 nell’assetto proprietario dell’azienda, né come socio né come amministratore? Non è che mamma Paolina e poi Luigi Di Maio e la sorella Rosalba sono, ai sensi della legge, dei prestanome?

Dalla casa abusiva al lavoro nero, tutte le grane di Di Maio senior, scrive Andrea Carli su Il Sole 24 ore il 28 novembre 2018. C'è l'inchiesta de «Le Iene» che ha fatto emergere quattro casi di muratori impiegati in nero nell'azienda del padre di Luigi Di Maio, l'Ardima Srl. I casi si sarebbero verificati tra il 2008 e il 2010, quindi prima che suo figlio diventasse socio ed entrasse nell'assetto proprietario dell'azienda. E c'è un altro fronte che chiama in causa il padre del vicepremier dell'esecutivo giallo-verde, Luigi Di Maio: un abuso edilizio della casa dove il capo politico pentastellato risiede ancora, nonostante trascorra gran parte del tempo a Roma per impegni di governo. C’è l’inchiesta de «Le Iene» che ha fatto emergere quattro casi di muratori impiegati in nero nell’azienda edile di famiglia, l’Ardima Srl. I casi si sarebbero verificati tra il 2008 e il 2010, quindi prima che suo figlio diventasse socio ed entrasse nell’assetto proprietario dell’azienda. E c’è un altro fronte che chiama in causa Antonio, il padre del vicepremier dell’esecutivo giallo-verde, Luigi Di Maio. Un abuso edilizio della casa dove il capo politico dei Cinque Stelle tuttora risiede, nonostante trascorra gran parte del tempo a Roma per impegni di governo. La casa a tre piani di Pomigliano d’Arco, dove il vicepremier risiede nonostante trascorra gran parte del suo tempo a Roma, costruita 52 anni fa dal nonno di Luigi, è stata condonata nel 2006 dal padre Antonio. Di Maio senior lo ha ammesso a una troupe di “Stasera Italia”: «l’abuso edilizio c’è stato - ha affermato -, io non le dico che non ci sia stato, perché all’epoca questo era il metodo di costruire in questa zona».

Di Maio senior: «dove sta la notizia?» «Dove sta la notizia?», si è chiesto. «Io ho condonato una casa fatta nel 1966 da mio padre, dove mio figlio risiede ma che all’epoca non stava neppure nei conti di essere concepito», ha continuato Di Maio padre. «Qual è la stranezza? La legge consentiva di regolarizzare alcune case che fossero state fatte abusivamente o che non avessero certificazioni. Si potevano condonare. Visto che la spesa non era immane, ho pensato di sanare il tutto», ha concluso.

C’è poi un altro caso: un terreno di famiglia, un fabbricato che, secondo «Il Giornale», non sarebbe stato registrato al catasto. «C’è un rudere colpito dal terremoto dove mio padre viveva con gli zii, e altri edifici sgarrupati» - ha spiegato il leader politico pentastellato davanti alle telecamere di La7 -. Si vedrà se è accatastato». Dal modello Persone fisiche 2018 (redditi 2017) di Antonio Di Maio emerge che il padre del vicepremier è comproprietario di quattro fabbricati e nove terreni.

Di Maio assicura: ho lavorato per l’azienda di mio padre in maniera regolare. A tenere banco in queste ore è tuttavia il faro acceso dalla trasmissione televisiva sui casi di lavoratori in nero, soprattutto perché questi casi sono riconducibili al padre di Di Maio, nella doppia veste di leader politico di un Movimento che ha fatto del rispetto delle regole e della lotta al sommerso un cavallo di battaglia, e di ministro del Lavoro. Lui, Di Maio, ha garantito di aver lavorato per il padre nell’azienda di famiglia in maniera regolare. «Esibirò le buste paga e tutte le certificazioni», ha assicurato. Fino al 2013 titolare dell’azienda di famiglia è la madre di Di Maio, Paolina Esposito; il padre la gestisce. Dopodiché la società passa ai figlio. Ad oggi le quote sono divise a metà tra Luigi e sua sorella Rosalba, mentre l’altro fratello del vicepremier, Giuseppe Di Maio, è amministratore unico.

Nel 2017 il padre di Di Maio ha dichiarato un reddito imponibile di 88 euro, scrive Andrea Carli su Il Sole 24 ore il 27 novembre 2018. Dopo che la trasmissione Le Iene ha acceso i fari su Antonio Di Maio, padre del capo politico del Movimento 5 Stelle, mettendo in evidenza che, quando gestiva l’impresa edile di famiglia (la Srl Ardima) - tra il 2009 e il 2010 - c’erano persone che prestavano lavoro senza un contratto, l’attenzione si sposta sui redditi dei parenti stretti del vicepremier pentastellato: oltre al padre, la madre Paolina Esposito, il fratello Giuseppe e la sorella Rosalba. Le informazioni più aggiornate possono essere consultate sul sito di palazzo Chigi, nella sezione “amministrazione trasparente”. Il modello Persone fisiche 2018 (redditi 2017) di Antonio Di Maio segnala un imponibile di 88 euro appena. Un valore contenuto, specie se si considera che lo stesso Antonio è comproprietario di quattro fabbricati e nove terreni. La moglie dichiara invece intorno ai 52.403 euro; la sorella di Di Maio sta sui sette mila. Mentre il fratello Giuseppe non ha percepito redditi nel 2007. La situazione patrimoniale del vicepremier e la quota nell'azienda di famiglia. Il vicepremier socio al 50% di Srl Ardima, l’altra metà è della sorella. Quanto al vicepremier, la Certificazione Unica 2018 segnala un reddito di oltre 98mila e 400 euro. Il materiale online consente anche di capire qual è il rapporto tra il leader pentastellato e l’azienda di famiglia. Nell’ “Attestazione situazione patrimoniale 2018”, modello C, alla voce “Azioni e quote di partecipazioni in società”, emerge che Luigi Di Maio detiene, ad oggi, il 50% della Srl. L’altra metà della società è nelle mani della sorella del capo politico di M5s, Rosalba. Amministratore unico: l’altro fratello del vicepremier, Giuseppe. Oggi il padre di Di Maio non ha alcun legame con la srl, la cui attività è dunque seguita dai figli, soprattutto Rosalba e Giuseppe.

Fuga dal fisco in casa Di Maio. Il padre "cancellato" nel 2005. È da 13 anni che non risulta fare impresa in prima persona, eppure è lui che guida la ditta di famiglia, scrive Pasquale Napolitano, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale".  Le tracce dell'imprenditore-contribuente Antonio Di Maio, padre del vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio, si perdono il 31 dicembre del 2005. Dal primo gennaio 2006, per lo Stato italiano Di Maio senior non ha più alcuna attività censita dal Fisco. Nel 2005, il padre del capo politico dei Cinque stelle cancella, infatti, la ditta individuale artigianale che aveva costituito nell'anno 1995. C'è il sospetto che dietro la decisione di rinunciare a fare impresa in prima persona, ci sia il tentativo di scappare dalle maglie del Fisco. Sospetto che potrebbe trovare un'ulteriore conferma in un altro passaggio: il 3 settembre 2010, quattro anni dopo la chiusura della ditta artigianale, Equitalia iscrive un'ipoteca legale su due beni di proprietà di Antonio Di Maio. L'ipoteca scatta su due terreni nel Comune di Mariglianella per un debito di 176mila euro. Un'iscrizione ipotecaria può essere fatta per mille motivi: multe di vario tipo non pagate, bollette, fallimenti, detrazioni fittizie di cui l'Agenzia chiede la restituzione, o ancora tasse e imposte dovute e mai versate all'erario. Il debito potrebbe essere collegato agli anni in cui il genitore del vicepremier svolgeva l'attività imprenditoriale. C'è un altro elemento, che potrebbe fornire la spiegazione sulla lotta contro il Fisco ingaggiata dal genitore del ministro del Lavoro e sviluppo economico: nel 2006, quindi, pochi mesi dopo la decisione di chiudere la ditta individuale, la moglie di Antonio Di Maio costituisce una nuova ditta individuale, Ardima Costruzione. L'attività è identica a quella appena sciolta dal marito: la costruzione di edifici residenziali. Dunque, se la missione imprenditoriale è stessa, perché la famiglia di Maio ha deciso di cambiare la scatola societaria? Sembra un sistema di scatole cinesi. Una delle spiegazioni potrebbe essere il contenzioso con Equitalia. Ma c'è un buco nero. Di quattro anni, che il padre del vicepremier potrebbe aiutare a chiarire: tra il 2006, l'anno di nascita di Ardima (dopo la chiusura della vecchia ditta individuale artigianale) e il 2010 quando Equitalia fa scattare l'ipoteca sui beni di Di Maio senior. Quattro anni in cui in cui sarebbe potuto nascere un contenzioso tra il Fisco e il padre del vicepremier. Fino ad arrivare, nel 2010, all'azione sui beni. Il terzo anello si chiude nel 2013. Quando la ditta individuale, intestata alla moglie insegnante Paolina Esposito, confluisce in Ardima Srl: le quote sono assegnate ai due figli, Luigi Di Maio, all'epoca vicepresidente della Camera, e Rosalba Di Maio, architetto. Mentre Giuseppe Di Maio, terzo figlio, assume l'incarico di amministratore. Le attività di famiglia, nell'arco di un trentennio, cambiano per tre volte società. Nel mezzo, l'inserimento di Equitalia che potrebbe essere la chiave di lettura. Sul filone dei lavoratori in nero, è utile analizzare i costi del personale di Ardima Srl: 103mila euro nel 2016; 48mila nel 2015; 1632 nel 2014; 13mila nel 2013. Prima dell'ingresso in società del ministro i costi per i dipendenti erano bassi. Poi sono schizzati. Quello del Fisco potrebbe essere il nuovo filone che riguarda la famiglia del vicepremier. Mentre si attendono gli esiti del lavoro dei magistrati di Nola: la municipale di Mariglianella venerdì ha consegnato l'informativa su abusi edilizi e reati ambientali. I pm dovranno decidere se confermare il sequestro dei terreni dove sono stati ritrovati rifiuti speciali e soprattutto procedere sul versante dell'abusivismo edilizio.

Di Maio, accuse alla ditta del padre. Quando gli affari di famiglia imbarazzano il leader, scrive Riccardo Ferrazza su Il Sole 24 ore il 26 novembre 2018. Genitori che imbarazzo i figli politici. Rientra nel filone la vicenda raccontata ieri dalla trasmissione Le Iene con protagonista Antonio Di Maio, padre del capo politico del Movimento 5 Stelle: nella sua ditta (Ardima) c’erano persone che prestavano lavoro senza un contratto secondo quanto denunciato dall’operaio Salvatore (detto Sasà) Pizzo di Pomigliano d’Arco (il paese della famiglia Di Maio). Non solo lavoro in nero: lo stesso Pizzo ha raccontato che, quando ebbe un incidente, il padre del vicepremier gli chiese «di non dire che mi ero fatto male nel suo cantiere. Mi consigliò di dire che mi ero fatto male in casa, altrimenti gli avrebbero fatto una multa di 20mila euro». Attualmente le quote societario della Ardima srl sono ripartite al 50% tra il ministro dello Sviluppo economico e sua sorella; i fatti risalgono però a un periodo antecedente di due anni a quando Luigi Di Maio è diventato socio. «Io - ha risposto Di Maio all’inviato della trasmissione Mediaset - non gestisco direttamente l’azienda. E tra il 2009 e il 2010 non ero socio. A me questa cosa non risulta ma il fatto è grave, verificherò». Di Maio ha anche descritto le difficoltà nei rapporti con il proprio genitore: «Io e mio padre per anni non ci siamo neanche parlati, non c'è stato un bel rapporto, adesso è migliorato un po’. A quell’epoca avevo 24-25 anni, io nell’azienda di famiglia ho aiutato mio padre come operaio ma non gestivo le cose di famiglia. Devo verificare questa cosa, verifichiamo tutto assolutamente». Maria Elena Boschi commenta il caso in un video su Twitter. «Vorrei poter guardare in faccia il signor Antonio Di Maio, padre di Luigi, e augurargli di non vivere mai quello che suo figlio e i suoi amici hanno fatto vivere a mio padre e alla mia famiglia» dice riferendosi a Banca Etruria. «Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango da una campagna di odio: caro signor Di Maio, il fango fa schifo» dice ancora riferendosi al fallimento di Banca Etruria, istituto di cui il padre Pierluigi è stato prima consigliere d’amministrazione e poi vicepresidente. Per il filone del falso in prospetto la Procura di Arezzo ne ha chiesto l’archiviazione. «È giusto che Fico venga in Parlamento a chiarire» disse nei giorni del “caso colf” Matteo Renzi. L’ex presidente del Consiglio e segretario del Pd è un altro protagonista politico che dagli “affari di famiglia” ha avuto qualche intralcio. Il padre Tiziano è finito indagato in uno dei filoni dell’inchiesta su Consip portata avanti dalla Procura di Roma: per Renzi senior i magistrati hanno chiesto l’archiviazione per l’accusa di millantato credito pur sottolineando che nel suo interrogatorio fece «affermazioni non credibili» fornendo una «inverosimile ricostruzione dei fatti». Una vicenda sulla quale uno dei più duri fu proprio Di Maio: «Dobbiamo fare di tutto - disse - per liberare le istituzioni dalla malattia del “renzismo”». Oggi, parlando del caso svelato dalla Iene, è Renzi a dire che Di Maio «deve chiedere scusa» per «una storia fatta di lavoro nero, incidenti sul lavoro, abusi edilizi e condoni». Tiziano Renzi, invece, chiede «cortesemente di non essere accostato a personaggi come il signor Antonio Di Maio». «Io - dice il padre dell’ex presidente del Consiglio - non ho mai avuto incidenti sul lavoro in azienda e se si fossero verificati mi sarei preoccupato di curare il ferito nel miglior ospedale, non di nascondere il problema. Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88 euro di tasse. Sono agli antipodi dall’esperienza politica missina» scrive nel suo intervento sull pagina Facebook. E conclude: «Se avessi fatto io ciò che ha fatto il signor Di Maio, i Cinque Stelle avrebbero già chiesto sui social la reintroduzione della pena di morte». Le vicende casalinghe hanno creato imbarazzo anche a un altro esponente di primo piano del Movimento 5 Stelle, Roberto Fico.Proprio Le Iene, ad aprile, avevano raccontato di presunte irregolarità nella posizione contrattuale di una colf del presidente della Camera nella sua casa di Napoli. Fico smentì spiegando che in quell’abitazione «non ci sono né ci sono mai stati collaboratori domestici a qualunque titolo né con contratto né senza». Poi aggiunse che c’è «una carissima amica della mia compagna Yvonne» e che «si aiutano a vicenda». In casa Movimento 5 Stelle c’è anche il protagonismo di un altro padre: Vittorio Di Battista, genitore di Alessandro, finito sotto inchiesta con l’accusa di offesa al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In un post del 23 maggio scorso pubblicato e poi rimosso su Facebook consigliava minacciosamente al capo dello Stato di andarsi a rileggersi le vicende della Bastiglia e poi scriveva: «Quando il Popolo di Parigi assaltò e distrusse quel gran palazzone, simbolo della perfidia del potere, rimasero gli enormi cumuli di macerie che, vendute successivamente, arricchirono un mastro di provincia. Ecco, il Quirinale è più di una Bastiglia, ha quadri, arazzi, tappeti e statue».

Fioccano denunce: «Dai Di Maio si lavorava in nero». Spuntano nuovi operai senza contratto nell’azienda di famiglia del vicepremier, scrive il 28 novembre 2018 Rocco Vazzana su "Il Dubbio". «I o sono a disposizione per dare tutte le informazioni che servono, ovviamente riguardano un periodo in cui non ero né socio né gestore di quella azienda, come non sono gestore dell’attuale». Luigi Di Maio è costretto a fornire ancora spiegazioni sulla società di famiglia, la Ardima, finita al centro dei riflettori grazie a un servizio delle Iene dedicato a Salvatore Pizzo, ex operaio dell’impresa edile, che sarebbe stato assunto in nero dal padre del vice premier. Ma quello di Pizzo non sarebbe un caso isolato. Il programma televisivo, infatti, ha trovato altri tre vecchi dipendenti dell’azienda di famiglia, chiamati a lavorare senza alcun contratto. E anche se si tratta di episodi avvenuti tra il 2008 e il 2010, dunque almeno due anni prima che l’attuale capo politico del Movimento 5 Stelle acquisisse il 50 per cento dell’impresa, le rivelazioni delle Iene non possono non imbarazzare il ministro del Lavoro. Grillino, per di più, purista dell’onestà a tutti i costi. Da quanto trapela (mentre scriviamo la trasmissione non è ancora andata in onda,ndr) le nuove testimonianze partono dal racconto di un uomo che avrebbe lavorato per almeno tre anni per il signor Antonio Di Maio senza alcun contratto. Ma a differenza di Salvatore Pizzo, questo ex dipendente dell’Ardima avrebbe denunciato il suo datore di lavoro e la causa sarebbe ancora in corso. Un dettaglio che potrebbe minare la solidità dell’autodifesa del ministro Di Maio, fin dal primo momento asserragliato dietro alla linea del «non sapevo». Le altre testimonianze raccolte dal giornalista Filippo Roma sono quelle di un operaio che avrebbe prestato servizio in nero per otto mesi e di un terzo uomo, assunto part-time senza alcun contratto, già impiegato su un altro cantiere per il resto della giornata. La notizia crea parecchio imbarazzo tra gli ortodossi pentastellati, già costretti a mandar giù la complessa convivenza con la Lega, e mette a dura prova la leadership del vice presidente del Consiglio. Per difenderlo deve intervenire persino Alessandro Di Battista dal Sud America. Per le opposizioni, invece, è l’occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Soprattutto per la vecchia dirigenza del Pd, a partire da Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, in passato bersagliati dai banchi pentastellati proprio per vicende riguardanti i genitori. «Sull’azienda edile di Luigi Di Maio e sulle scelte di suo padre, ho già detto tutto nel post scritto l’altra notte. Per me basta e avanza: adesso toccherà al vice premier venire in Parlamento e spiegare all’Aula ciò che va chiarito», scrive su Facebook il senatore semplice Renzi. «Ma il ragionamento è un altro. Non mi interessa sbirciare dal buco della serratura che cosa ha fatto Di Maio padre», prosegue l’esponente dem. «Mi sconvolge pensare che Di Maio figlio ha voluto un decreto dignità prima e il reddito di cittadinanza poi che per definizione sono due misure che fanno aumentare la piaga del lavoro nero», affonda l’ex segretario del Pd. «Bisogna rendere più facili le assunzioni, non i licenziamenti come invece ha fatto il decreto dignità. Bisogna dare incentivi per assumere, come il JobsAct, non il reddito di cittadinanza. Bisogna combattere chi evade, non rinviare le fatturazioni elettroniche. Bisogna sanzionare chi fa gli abusi edilizi, non votare i condoni», insiste Renzi, prima di mettere definitivamente in dubbio la buona fede del leader grillino: «Noi siamo contro il lavoro nero, contro l’evasione, contro gli abusi edilizi. L’imprenditore Di Maio non può dire altrettanto. Ma il politico Di Maio da che parte sta?». E se il Pd chiede al ministro di riferire in Aula, Forza Italia non è da meno. «Non ci si può fidare di un ministro del Lavoro che risulterebbe socio di un’azienda accusata di aver fatto lavorare in nero uno o più operai», dice la vice presidente dei senatori azzurri, Licia Ronzulli. «Siamo sempre garantisti verso tutte le persone che subiscono un’accusa, ma riteniamo altresì che il ministro del Lavoro farebbe bene, se già non l’ha fatto, a risolvere il suo conflitto di interessi dimettendosi quantomeno da socio dell’azienda incriminata, lui che del conflitto di interessi degli altri ne fa la sua bandiera di vita», prosegue Ronzulli, stuzzicando Di Maio su un altro cavallo di battaglia del Movimento. «Non vorremmo, infatti, che il doppio incarico di ministro del Lavoro e di socio della società facesse desistere l’ispettorato del Lavoro, che opera sotto la vigilanza del ministro del Lavoro, dall’esercitare con serenità quelle funzioni di controllo e accertamento che gli sono proprie.

Dai terreni al lavoro in nero: il racconto di Luigi non torna. La replica del ministro è piena di contraddizioni: "Eredità dei nonni". Ma l'atto di acquisto è del 2000, scrive Pasquale Napolitano, Gioved' 29/11/2018, su "Il Giornale". Il giovane vicepremier Luigi Di Maio ha ricordi vaghi. Tanti non so. Mi sfugge. Ero giovane, non mi occupavo delle attività di famiglia. Eppure è già trascorsa una settimana dal giorno in cui il Giornale ha sollevato sospetti su alcuni manufatti costruiti sui terreni del padre, Antonio Di Maio, nel Comune di Mariglianella. Ad oggi non sono arrivate smentite. Né sono spuntati documenti che potrebbero chiarire il giallo. E, dunque, il mistero si infittisce. Martedì sera, nel salotto di Giovanni Floris, il capo politico dei Cinque stelle ha interrotto il silenzio sul caso degli immobili di Mariglianella, comune in provincia di Napoli a un tiro di schioppo da Pomigliano D'Arco, solo poche parole, insufficienti a dare risposta agli interrogativi posti con gli articoli del Giornale. «I terreni erano dei miei nonni. Che io ricordi ci sono un rudere, una baracca e un deposito per attrezzi. I manufatti risalgono ai tempi della Seconda guerra mondiale. I nonni, mio padre e mia zia hanno lasciato quelle proprietà in seguito al terremoto» - ha spiegato Di Maio, rispondendo alle domande di Floris. Parole su cui è opportuno fare alcune valutazioni. I terreni. Gli appezzamenti di terreno, almeno da quanto risulta sia all'Agenzia del Territorio che nel database del Conservatoria di Santa Maria Capua Vetere, sono stati acquistati con un atto redatto alla presenza di un notaio nel 2000: l'atto di vendita coincide perfettamente con la visura catastale. L'anno di costruzione. Di Maio sostiene che quei manufatti esistano già dal dopoguerra. Potrebbe essere vero. Però risulta strano che gli immobili non siano mai stati censiti né dall'Agenzia del Territorio (ex catasto) né dal Comune in 70 anni. E sembra un'anomalia che gli immobili, già presenti negli anni 50, non siano stati inseriti nell'atto di vendita nel 2000. Altri dubbi riguardano il materiale con cui sono stati costruiti i manufatti; sembrerebbe di recente costruzione. Il silenzio. Il ministro del Lavoro parla dei manufatti ma non fa alcun cenno al campetto di calcetto che ricade nella proprietà della famiglia Di Maio. È una struttura autorizzata o abusiva? Al netto della difesa del vicepremier, il mistero resta. Mentre ieri, nel tentativo di dar prova di non essere stato un lavoratore abusivo nella ditta del padre, Di Maio è caduto in un'altra contraddizione. Il vicepremier ha pubblicato sul Blog delle stelle il contratto di lavoro con la ditta di famiglia: un'assunzione trimestrale, da febbraio a maggio 2008. Peccato che lui stesso abbia, pubblicamente, dichiarato di aver passato l'estate a lavorare come muratore nell'azienda di papà. Oggi, invece, potrebbe esserci la prima svolta: i vigili urbani del Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli, alle 9 hanno un appuntamento. Ai cancelli di via Umberto I si presenterà il padre del vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Di Maio. Dovrà aprire i cancelli perché la polizia locale, inviata dal sindaco Felice Di Maiolo, che è di Forza Italia ma in questa vicenda vuole mantenersi rigorosamente neutrale, da buon amministratore, vuole tecnicamente «conoscere lo stato dei luoghi», vedere cioé se i dati catastali sono conformi a quanto è riscontrabile nella proprietà. Quei terreni sono solo per il 50 per cento di Antonio Di Maio e per metà della sorella e all'interno ci sarebbero dei manufatti, almeno tre, sui quali occorre fare delle verifiche. Se questi risultassero abusivi, tutta l'informativa passerebbe alla Procura di Nola che dovrebbe indagare per abusi edilizi. I vigili erano stati al terreno di via Umberto a Mariglianella già lunedì mattina. Cercavano il proprietario: Antonio Di Maio. Ma c'erano i lucchetti al cancello e non avevano il mandato per entrare in una proprietà privata. Così hanno notificato a Di Maio senior l'invito per oggi.

C'è pure il campo di calcio "spontaneo". Tra abusivismo e generosità: c'è un impianto usato per giocare a pallone, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 29/11/2018, su "Il Giornale". Mariglianella - I ragazzini disegnano slalom sull'erba. Il mister li incita a tenere il pallone incollato al piede. È pomeriggio di allenamenti nel campo del centro sportivo, anzi nell'attiguo campetto spuntato come un fungo fra le erbacce. A voler essere pignoli, chirurgici in un paese slabbrato ed elastico come una fisarmonica, in quel fazzoletto di terra non si potrebbe giocare a pallone, o almeno questo si ricava dalla lettura del rattoppatissimo piano regolatore che il sindaco Felice Di Maiolo mostra ai giornalisti. «In quest'area - spiega - non dovrebbero esserci impianti sportivi. In ogni caso stanno per partire gli accertamenti e chiariremo i dubbi». Franco Cucca, l'allenatore, la vede in un altro modo: «Questo non è un impianto sportivo, anzi non è nemmeno un campo da calcio». Anche se misura a spanne una trentina di metri e le zolle sono abbastanza curate. «Le porte - riprende il mister - possono essere smontate in un attimo. Anzi, devo ringraziare la signora Giovanna che ci permette di utilizzare gratuitamente, senza canone, questa striscia». La signora Giovanna, per la cronaca, è la zia del vicepremier, insomma la sorella del padre Antonio. Si apre dunque un nuovo capitolo nella saga sconcertante dei terreni di famiglia di Mariglianella su cui il Giornale ha posato la lente di ingrandimento. In quelle particelle di terra qualcosa non quadra: i dati catastali non combaciano con le foto satellitari e con una semplice occhiata oltre il cancello. Nel complesso si notano alcuni manufatti, casotti e piccoli edifici, che potrebbero essere irregolari. Ora, in un pozzo senza fondo, spunta pure il rettangolo verde da football. In bilico fra abusivismo e generosità. Una via di mezzo tutta italiana che non si sa come classificare. «Il campo comunale, gestito da privati, è insufficiente - riprende Cucca - i palloni finivano spesso al di là delle rete, nella proprietà dei Di Maio. Cosi quattro o cinque anni fa ci siamo rivolti alla signora Giovanna e lei è stata gentilissima: ci ha concesso quel terreno. Noi l'abbiamo pulito e sistemato, poi abbiamo messo le porte. Ma non è un vero campo, è un appoggio per l'allenamento dei pulcini che utilizzano i servizi e gli spogliatoi del campo principale, come pure i riflettori. Poi che le devo dire, se dovremo andarcene ce ne andremo». Proprio oggi i Di Maio sono attesi in Comune per chiarire la situazione ancora nebulosa. E per capire se ci siano stati abusi edilizi o no. Cucca, dipendente dell'Alenia con la passione per il calcio, si preoccupa: «Lo stato degli impianti a Mariglianella non è dei migliori. C'era un campo a undici, ma è stato chiuso anni fa. Dicevano che l'avrebbero ristrutturato ma non se n'è saputo più nulla. Facciamo come possiamo». Certo, le panchine a bordo campo potrebbero essere pericolose per i baby giocatori ed è difficile immaginare che tutte le norme sulla sicurezza siano rispettate. «Siamo sempre molto attenti - ribatte Cucca - e controlliamo i movimenti dei nostri campioncini. Qui non si svolgono competizioni agonistiche». È l'educazione dei piccoli talenti. Ma oltre la rete ci sono i Di Maio e tutto diventa più complicato.

Di Maio, ispettori e condono Doppio conflitto di interessi. I funzionari che dovrebbero indagare sul lavoro nero nell'azienda di papà dipendono dal suo ministero, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 29/11/2018, su "Il Giornale". Lui continua a promettere spiegazioni che per ora non arrivano e a camminare ignaro sulla storia della propria famiglia. Ma Luigi Di Maio è anche vicepremier e soprattutto ministro del Lavoro e l'orizzonte si fa sempre più oscuro.

La falsa onestà dei sepolcri imbiancati. Ci sono quattro persone che in forma diversa raccontano di aver prestato servizio in nero nell'Ardima, la società di costruzioni di cui il leader dei Cinque stelle e'socio al 50 per cento. Uno dei quattro, Mimmo Sposito, aveva pure fatto causa a Di Maio senior, o meglio all'Ardima, e in quel procedimento un altro lavoratore, Giovanni La Marca, aveva messo a verbale: «Ho lavorato in nero per un anno, per questo me ne sono andato. Guadagnavo 60 euro il giorno, in contanti, non regolari ma non ci sarà un seguito in tribunale. La storia è finita così». Ma potrebbe non essere conclusa per gli ispettori del lavoro che, combinazione, dipendono dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Certo, in primo grado, nel 2016, l'Ardima aveva vinto e la richiesta di indennizzo per 40mila euro era stata respinta, ma il risultato potrebbe cambiare, davanti al giudice d'appello che si occuperà del caso, con una sconcertante calma tutta italiana, nel 2020. Ci sono elementi e suggestioni che potrebbero portare gli ispettori a dare un'occhiata dentro il perimetro dell'azienda dei Di Maio. Insomma, gira e rigira, c'è'un potenziale conflitto di interessi che potrebbe esplodere: gli ispettori di Di Maio a casa dei Di Maio per verificare le condizioni dei dipendenti di Di Maio. Sembra una filastrocca, è un cortocircuito perfetto. Torna alla memoria la vicenda di Maria Elena Boschi che, imbarazzatissima, usciva da Palazzo Chigi quando si discuteva di banche e dell'istituto di credito di papa, la tribolatissima Banca Etruria di cui Pier Luigi Boschi era il vicepresidente. Il disastro dell'istituto di credito ha pesato sulle fortune del governo Renzi e le contraddizioni di Maria Elena hanno riempito intere rassegne stampa. Ora la ruota è girata, le spine sono in casa Di Maio. L'altra sera, ospite del salotto televisivo di Floris, il ministro ha sottolineato che in questo momento l'azienda di famiglia non lavora e non ci sono cantieri aperti, anzi ha disegnato un percorso che va verso la chiusura. Può essere, ma gli ispettori, come San Tommaso, potrebbero mettere il dito nella piaga. E sulle loro teste aleggerebbe una presenza a dir poco ingombrante. Un altro ex operaio, Salvatore Pizzo, detto Sasà, ha svelato poi che non solo lavorava in modo irregolare, ma che ebbe un incidente: in quell'occasione andò in ospedale ma Di Maio senior lo convinse a non denunciare l'accaduto. Il silenzio - questa la sua versione - comprato con la miseria di 500 euro, per non buttare in un mare di guai il piccolo imprenditore di Pomigliano. Il figlio Luigi non sa o afferma di non sapere tutte queste cose, ma ci sarebbe più di una ragione, sulla carta, per mettere il naso in quell'azienda, per riaprire gli accertamenti e per risentire i lavoratori. E però sarebbe tutto più faticoso e complicato, per via di quell'incrocio di ruoli, le troppe parti in commedia su un palcoscenico troppo piccolo. E l'onnipresente Di Maio potrebbe trovarsi invischiato, in teoria, in un secondo conflitto: i terreni di famiglia di Mariglianella sono sotto ipoteca, ma il condono fiscale appena varato dal governo gialloverde offre una via d'uscita per evitare che quegli appezzamenti di terra finiscano all'asta, come ha indicato in tv lo stesso vicepremier. L'adesione alla sanatoria fermerebbe, come previsto dall'articolo 3, comma 10, lettera E, la procedura e il patrimonio, peraltro molto modesto, sarebbe salvo. Forse l'adesione non converrebbe nemmeno ai Di Maio, ma questa è un'altra storia. Che non scioglie i nodi sempre più intricati della sua azione politica.

Siamo garantisti ma non fessi. Essere garantisti non significa essere fessi, non al punto da farsi prendere in giro dai Di Maio e dai Di Battista, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 28/11/2018, su "Il Giornale". Essere garantisti non significa essere fessi, non al punto da farsi prendere in giro dai Di Maio e dai Di Battista. E siccome siamo garantisti non chiediamo né manette né dimissioni, almeno non fino a sentenze passate in giudicato. Non le chiediamo per nessuno, neppure per il ministro Di Maio coinvolto con la sua famiglia in episodi più che sospetti di correttezza fiscale ed etica. Non lo facciamo perché siamo diversi da loro, che da anni insorgono, strepitano e infangano i rivali politici alla sola ipotesi che direttamente o per interposto parente siano coinvolti in qualche malaffare. Siamo convinti che le sentenze le debba emettere la Corte di Cassazione, non il Parlamento e neppure i giornali, e prendiamo atto con piacere che da oggi, grazie ai guai della famiglia Di Maio, anche i Cinquestelle la pensano così. Fa sorridere vedere Di Maio e Di Battista prima arrossire e poi strepitare contro chi racconta verità scomode che riguardano loro e i loro famigliari. Sempre rossa, ma di arroganza, era la loro faccia quando chiedevano la testa di Renzi, Boschi, Lupi e Guidi tanto per citare loro colleghi ministri all'apparire di presunti scandali che coinvolgevano loro congiunti, tutti peraltro poi assolti. I princìpi non si contano, si pesano. In questo senso l'ipotesi di aver truffato un lavoratore (caso babbo Di Maio) non è meno grave di quella di aver truffato un risparmiatore (caso babbo Boschi); e un possibile abuso di potere (caso babbo Renzi) non è più sconveniente di un probabile abuso edilizio (caso babbo Di Maio), tanto che i grillini nel 2013 guidarono dall'opposizione la rivolta per ottenere la testa dell'allora ministra Josefa Idem colpevole di un «banale» abuso edilizio nel garage di famiglia. Adesso i grillini scoprono di avere un passato e di tenere famiglia. Ma il loro passato e le loro famiglie non sono più sacre delle altrui per diritto divino. Il rispetto va conquistato, e senza le scuse per le infondate campagne forcaiole, la loro credibilità è pari a zero. Vuoi vedere che scavando si scoprirà che anche i grillini fanno parte di quella «classe dirigente corrotta» di cui parlava e sparlava Piercamillo Davigo, loro guru in fatto di giustizialismo? Chissà. Al momento la migliore l'ha detta l'ex ministro Gianfranco Rotondi, democristiano di lungo corso e uomo di spirito: «I familiari? Noi della Prima Repubblica avevamo il vantaggio che arrivando in età non più giovane alle prime file della politica eravamo quasi tutti orfani».

I MORALISTI MANETTARI SOMMERSI DALL’INCHIESTE.

Perquisito il Campidoglio. La Raggi braccata dai pm. Nomine, acquisiti dalla Finanza cinque mesi di atti. Lei minimizza: "Nulla da nascondere, è ridicolo", scrive Anna Maria Greco, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Le fiamme gialle fanno mercoledì una perquisizione in Campidoglio? La vicenda alla sindaca di Roma sembra «ridicola», perché lei non ha «nulla da nascondere». I pm indagano sulle nomine probabilmente irregolari dei suoi fedelissimi Salvatore Romeo e Raffaele Marra? Virginia Raggi parla di «atto dovuto» e trova «simpatico» che tutto nasca dall'esposto del suo ex capo di gabinetto Carla Raineri, indotta alle dimissioni dopo la bocciatura di un parere dell'Anac a settembre, proprio per essersi opposta a quelle nomine. C'è alto rischio di un'accusa di abuso d'ufficio? La primadonna del Campidoglio definisce «interessante» che «l'unica persona che sia stata nominata con una procedura irregolare stia ora levando gli scudi» e confessa candidamente che lei la Raineri intendeva «nominarla con un'altra procedura», come se in Comune comandasse qualcun altro. La sindaca grillina fa spallucce, minimizza, di fronte alla bufera. E mette nei guai ancora una volta il M5S, che intanto cerca in ogni modo di dimostrare che può andare al governo del Paese. Beppe Grillo, a Roma per una riunione con i vertici del M5S, prova a prendere le distanze dicendo che il blitz è affare del Comune. Poi, al solito, spiega che il movimento è «sotto attacco» e i giornalisti non capiscono nulla. Gioca sulle parole: «Si inventano vere e proprie bufale. Quanto riportato da tutti i media è falso. Non c'è stata nessuna perquisizione in Campidoglio, si è trattato di una semplice acquisizione di atti». Ricorda la Muraro, che quando le chiedevano se era indagata (lo era e lo sapeva) per mesi ha risposto: «Non ho ricevuto un avviso di garanzia». Ecco ora l'ha ricevuto, il 21 dovrà rispondere al pm Alberto Galanti su 5 contestazioni per reati ambientali ed è stata obbligata a dare le dimissioni, perché non poteva mentire più. La Raggi, che l'ha sempre difesa, ne assume le deleghe e assicura «che l'attività di risanamento di Ama prosegue». Ma un altro fatto grave dice il contrario. Si parla insistentemente dell'intenzione del direttore generale di Ama Stefano Bina di dare le dimissioni. Nominato il 22 agosto, già il primo settembre stava per seguire l'esempio dell'ex amministratore unico Alessandro Solidoro, che lasciò il posto con la Raineri, il superassessore al Bilancio Marcello Minenna e i dirigenti di Atac. Pare non tollerasse lo strapotere della Muraro, come Bina. Con un Campidoglio che perde pezzi in continuazione, un'aula comunale in cui si sfiora spesso la rissa, le società partecipate nel caos e l'incombere delle inchieste della magistratura, c'è poco da ridere. La visita della Finanza conferma la pesantezza delle accuse sulle manovre del «raggio magico», ma Virginia dichiara «assoluta serenità». Eppure, la polizia giudiziaria specializzata in reati contro la Pa ha sequestrato scatoloni di atti e documenti per andare a fondo sulle nomine dei suoi dirigenti. Come il capo della segreteria della Raggi, Romeo, che ad agosto si è fatto promuovere e triplicare lo stipendio tagliato ad ottobre, per le proteste, con una procedura bocciata lo stesso mese dall'Anac. Come l'ex vice capo di gabinetto Marra, ora al vertice del Personale, che pare non abbia i requisiti da dirigente. Raffaele Cantone ha chiesto al responsabile Anticorruzione del Comune gli atti per una verifica, dopo la nomina del fratello Renato alla guida della direzione Turismo e i 15 giorni per rispondere sono già scaduti. Altri guai per la Raggi sono dietro l'angolo, perché l'amico Raffaele non ha rispettato l'obbligo di astenersi, quando si tratta di parenti. La Procura procede contro ignoti e non indica ancora il reato, ma la sindaca potrebbe finire indagata per abuso d'ufficio. La Raineri, nell'esposto, ha riferito dettagliatamente non solo di nomine illegittime, ma di pressioni, minacce e manovre, confermate ai pm da Minenna e Solidoro.

Roma, arrestato per corruzione Marra: in manette il fedelissimo della Raggi. In manette il capo del personale del Comune di Roma. L'arresto non sarebbe collegato all'indagine sulle nomine decise dal sindaco, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Nuova bufera sul Campidoglio. Raffaele Marra, ex vice capo di gabinetto del Campidoglio e ora alla guida del personale del Comune di Roma, è stato arrestato in mattinata dai carabinieri. Il reato di cui lo accusano è pesantissimo: corruzione. Il provvedimento restrittivo che ha colpito il fedelissimo del sindaco Virginia Raggi è stato emesso dal gip Tomaselli su richiesta della procura della Capitale. L'arresto non sarebbe collegato all'indagine sulle nomine decise dal primo cittadino pentastellato, tra le quali c'è anche quella dello stesso Marra, ma riguarderebbe invece un'operazione immobiliare. Lo ha difeso con i denti fino all'ultimo. Quando i grillini l'hanno messa alle strette, la Raggi ha messo in chiaro che se avessero fatto saltare Marra, sarebbe andata a casa anche lei. Così l'ex direttore del Patrimonio della casa della Giunta Alemanno è rimasto tra nella squadra della sindaca grillina. E proprio questo aut aut rischia ora di travolgere la sindaca grillina che, dopo le perquisizioni delle Fiamme Gialle in Campidoglio, si trova a dover gestire un'inchiesta sull'acquisto di un immobile dell'Enasarco, l'ente di assistenza dei rappresentanti di commercio. Secondo l'accusa, Marra avrebbe ricevuto una somma dal costruttore Sergio Scarpellini, anche lui finito agli arrestati questa mattina. All'epoca dei fatti, Marra era dirigente del Campidoglio e il sindaco era appunto Gianni Alemanno. La notizia dell'arresto di Marra ha travolto i vertici del Movimento 5 Stelle. Tanto che, una volta appresa la notizia, Beppe Grillo ha deciso di annullare il flashmob previsto per oggi a Siena a difesa dei risparmiatori del Monte dei Paschi di Siena. "Prima le tardive dimissioni della Muraro, poi le perquisizioni in Campidoglio, oggi l'arresto di Marra - tuona il presidente piddì Matteo Orfini - Grillo, Di Battista e Di Maio sono politicamente corresponsabili". Anche il centrodestra non ha risparmiato critiche alla Raggi. Maurizio Gasparri ne ha subito chiesto le dimissioni. "I grillini - attacca il senatore di Forza Italia - hanno chiesto le dimissioni per chiunque e per qualunque cosa. Si applichi lo stesso metodo che hanno evocato contro i loro avversari".

Arrestato Marra, il braccio destro di Raggi che faceva affari con l'immobiliarista della Casta. Il fedelissimo della sindaca di Roma Raffaele Marra, quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio in quota Alemanno, comprò un attico di lusso dal gruppo di Sergio Scarpellini. Ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. In barba al conflitto di interessi: il costruttore, definito da Grillo «un evasore di Iva» e da Di Battista «un gentleman detto "er cavallaro"» fa business milionari con il Comune, scrive Emiliano Fittipaldi il 14 settembre 2016 su "L'Espresso". L'Espresso lo aveva scritto tre mesi fa. Nelle sue inchieste giornalistiche su Raffaele Marra, l'inviato del nostro settimanale Emiliano Fittipaldi aveva rivelato che Raffaele Marra - il fedelissimo di Virginia Raggi -  quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio in quota Alemanno aveva comprato un attico di lusso dal gruppo di Sergio Scarpellini. Ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. Marra e Scarpellini sono stati arrestati oggi dai carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Roma su richiesta della procura della Capitale con l'accusa di corruzione. Qui di seguito, l'inchiesta-scoop di Emiliano Fittipaldi e qui un ritratto dell'uomo  che ha terremotato la giunta capitolina.

Sergio Scarpellini è un immobiliarista romano. Famoso per essere il costruttore preferito dalla Casta, perché proprietario di alcuni palazzi affittati per lustri dalla Camera dei Deputati a peso d'oro. Un imprenditore pieno di amici ed entrature importanti considerato, dai big del movimento Cinque Stelle, uno dei nemici pubblici numero uno della Capitale. Un simbolo plastico della “suburra” di affaristi che si arricchisce grazie ai politici e ai soldi pubblici, sempre a scapito dei contribuenti. Non a caso Beppe Grillo, in un post del gennaio 2015 dedicato ai «regali di Renzie ai grandi evasori» definiva Scarpellini «un evasore di Iva», mentre Alessandro Di Battista (dopo la battaglia vittoriosa del M5S per la rescissione di un contratto ventennale, quello di palazzo Marini, costato in totale «500 milioni di euro») lo definì letteralmente «un gentleman meglio noto come “er cavallaro”». È sorprendente scoprire, dunque, che il braccio destro di Virginia Raggi, l'ex vice capo di gabinetto Raffaele Marra (dopo la crisi della scorsa settimana in procinto di trasferirsi, pare, ad altro incarico apicale) nel 2010 abbia comprato un attico proprio da una società del gruppo dell'immobiliarista, ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. Circa il 40 per cento in meno rispetto a un altro acquirente che, nello stesso periodo, prese da Scarpellini un appartamento gemello dirimpetto al suo. La compravendita di Marra fu perfezionata, tra l'altro, quando il dirigente era seduto - grazie agli eccellenti rapporti con l'ex sindaco Gianni Alemanno - sulla poltrona di direttore dell'Ufficio delle Politiche abitative del Comune di Roma e su quella, strategica, di capo del dipartimento del Patrimonio e della Casa, la prima ottenuta nel giugno del 2008 e la seconda a fine 2009. L'acquisto tra due privati dovrebbe escludere in teoria qualsiasi conflitto di interessi. Però Scarpellini era (ed è ancora) proprietario di sedi affittate direttamente al Comune di Roma con contratti a sei zeri, ed aveva (ed ha ancora) interessi su importanti aree edificabili che obbligano il gruppo a un rapporto costante (a volte complesso) con il Campidoglio e i suoi uomini. Basti pensare allo scandalo del palazzo a Largo della Loria, di proprietà di un ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi, affittato dalla Milano 90 di Scarpellini per 2,1 milioni annui e poi subaffittata al Comune di Roma per 9,5 milioni nel 2008. O ai sei milioni annui che il Campidoglio ha dato all'immobiliarista per alcuni locali usati dall'assemblea e dal gabinetto del sindaco a Via delle Vergini, e fortunatamente restituiti.

La sindaca di Roma Virginia Raggi difende senza indugio la sua assessora all'Ambiente indagata Paola Muraro e l'ex fedelissimo di Alemanno Raffaele Marra. La Muraro è stata collaboratrice dell'Ama per 12 anni, anche in tempo di Mafia Capitale. Marra quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio, comprò con uno sconto di quasi mezzo milione di euro un attico di lusso dal gruppo di Scarpellini, come rivela l'Espresso.it. Perché la sindaca continua a fare quadrato su due figure così difficili da digerire anche al suo Movimento? Chi c'è dietro di lei? l'analisi di Carlo Bonini e Emiliano Fittipaldi. “L'Espresso” ha consultato gli archivi dell'Agenzia del Territorio, scoprendo il giro di compravendite tra il costruttore e Marra, ancora oggi principale collaboratore della sindaca e defintito qualche giorno fa «un bravo ragazzo» dall'assessore Adriano Meloni, nonostante gli attacchi di parte del direttorio grillino per il suo passato alemanniano. Il dirigente aveva deciso di trasferirsi nell'elegante residence dell'Eur all'Acqua Acetosa già a fine 2009, quando aveva firmato un rogito con la società Progetto 90 di Scarpellini. Allora la società aveva quasi finito di costruire i cinque palazzi di un complesso residenziale di lusso, con due piscine (una di 25 metri con lettini e ombrelloni e un’altra destinata ai bambini), comprensiva di palestra, videosorveglianza e guardiania H24 e un bellissimo campo da golf da 18 buche, non ancora ultimato. L'appartamento di cui Marra si innamora è uno dei più belli del mazzo: un attico su due piani di 168 metri quadri con doppio terrazzo (nella brochure di vendita si spiega che le fioriere sono «ad irrigazione automatica»), ingresso, soggiorno, cucina, ripostiglio, tre bagni e due camere. Gemello per valore catastale e metratura di quello comprato qualche mese prima da un imprenditore, che – documenti alla mano - aveva sborsato per un gioiellino (secondo la pubblicità sono tutti con «infissi in rovere, pavimenti pregiati in marmo o parquet a listoni in rovere, armadi a muro realizzati artigianalmente, cucine in marmo, bagni in marco con doccia o vasca idromassaggio, androni con boiserie e cornici in gesso, pavimento in travertino») più un box auto ben 1.204.000 euro Iva inclusa. Marra un anno dopo riesce a concludere l'affare della vita, perché davanti al notaio Claudio Togna e al figlio di Scarpellini, Emanuele, si mette in tasca una casa identica a soli 728 mila euro, con un risparmio di quasi mezzo milione rispetto a quello che il gruppo immobiliare considerava evidentemente prezzo di mercato. I due appartamenti sono nell'edificio E, quelli più alti. Facendo altri raffronti, è un fatto che Scarpellini venda a una ragazza, nell'edificio A, un appartamento della metà del valore catastale rispetto a quello di Marra quasi allo stesso prezzo: 676 mila euro. Stesso criterio, quello della dura legge di mercato, per il signor A.V., che è riuscito a ottenere un piano terra di sole 5 stanze a 724 mila euro. “L'Espresso” ha provato a chiedere all'ufficio acquisti il costo attuale di un attico nello stesso comprensorio: “Ce ne sono pochi invenduti. Ne abbiamo uno di 110 metri quadri calpestabili nell'edificio B, che è un po' più basso, più un grande terrazzo. Costa 1.350 milioni di euro, ma c'è un minimo di trattabilità. I prezzi li abbiamo abbassati, qualche tempo fa stavamo a 10 mila euro al metro quadro. Oggi stanno a nove». Marra ha comprato a circa 4.500. Un business da leccarsi i baffi. Ma ci sono altri particolari che rischiano di imbarazzare Raggi e il M5S. Il dirigente comunale, che ha già versato una caparra nell'ottobre del 2009, il 23 giugno 2010 salda la Progetto 90 srl con un assegno da 400 mila euro, a cui aggiunge quello ottenuto attraverso un mutuo da 250 mila euro della banca Barclays. Ma Scarpellini sembra aver preso davvero a cuore questa compravendita: lo stesso giorno, davanti allo stesso notaio, compra la vecchia casa di Marra, in tutto quattro camere di una modesta palazzina distante poche centinaia di metri dalla nuova residenza. Scarpellini per accaparrarsela gira a Marra un assegno da 400 mila euro attraverso la sua Progetto 90, stessa identica cifra che qualche minuto dopo Marra gira al gruppo Scarpellini per comprarsi l'attico. Un nuovo affare per il funzionario: Marra nel 2003 aveva infatti acquistato la sua prima casa in via Francesco Gentile attraverso una cartolarizzazione fatta dalla società SCIP: l'immobile era infatti dell'Inpdap. Nel 2003 il fedelissimo di Virginia la paga poco meno di 140 mila euro. Sette anni dopo Scarpellini la ricompra a prezzo triplo. Non sappiamo perché il costruttore fa, dopo il maxi sconto, un secondo favore al consigliere della sindaca. Scarpellini infatti non solo nell'appartamento non ci metterà mai piedi (vivendo in una stupenda villa sull'Appia Antica che fu di Silvana Mangano) ma se ne libererà appena possibile (un anno dopo) per 380 mila euro. Perdendoci dunque 20 mila euro. Non sappiamo nemmeno se negli anni Marra e Scarpellini siano rimasti in contatto. È un fatto che, dopo qualche screzio con Alemanno, Marra sia poi stato nominato (dal 2011 al 2013) dall'allora governatore della Regione Lazio direttore Regionale del Demanio e del Patrimonio. Anche l'ente oggi guidato da Nicola Zingaretti ha affittato immobili da Scarpellini. Finora nessuno conosceva gli affari immobiliari del fedelissimo di Virginia. Nemmeno Grillo, che lo considerava inadatto a fare il capo o il vicecapo di gabinetto già a luglio perché considerato troppo vicino alla destra romana. Marra è stato spostato a capo del personale del Campidoglio, con una insolita delibera a tempo che scadrà a fine ottobre. Si tratta di una poltrona di enorme peso che sovrintende su 24 mila dipendenti diretti, che arrivano a 60 mila se si considerano anche gli impiegati delle partecipate. Chissà se Raggi, dopo il nuovo scandalo, riuscirà a proteggerlo ancora.

Raffaele Marra, il sindaco ombra di Roma. Il dirigente, arrestato per corruzione, è il Rasputin della giunta capitolina, più potente di qualsiasi assessore. Per questo in Campidoglio tutti lo definiscono senza alcuna ironia «il vero sindaco di Roma» al posto di Virginia Raggi. Ecco chi è, i contratti sospetti che ha firmato per il Comune e i suoi affari immobiliari, scrive Emiliano Fittipaldi il 2 novembre 2016 su "L'Espresso". L'inchiesta su Raffaele Marra e i suoi affari al Comune di Roma realizzata a novembre dall'Espresso: il dirigente è stato poche ore fa arrestato per aver intascato una tangente quando lavorava per l'Enasarco. Ecco il ritratto dell'uomo, i suoi affari sospetti e la sua passione per le case a prezzo stracciato. Un'ombra si allunga su Virginia Raggi e rischia di avvolgere il Campidoglio. L'ombra ha il profilo di Raffaele Marra, l'uomo che negli uffici del Comune tutti definiscono senza alcuna ironia "il vero sindaco di Roma". Come ha scoperto l'Espresso, Marra - quando era un fedelissimo di Gianni Alemanno - ha sottoscritto contratti milionari a favore di Fabrizio Amore, un imprenditore oggi indagato in una delle inchieste su Mafia Capitale. Un costruttore (imputato anche per associazione a delinquere e turbativa d'asta in un altro procedimento) che nel luglio 2009 grazie a una convenzione a trattativa diretta firmata da Marra in persona, allora capo del dipartimento delle Politiche abitative, è riuscito a fare il colpo della vita: affittare al comune capitolino 96 appartamenti in un residence fuori dal grande raccordo anulare alla stratosferica cifra di 2,6 milioni l'anno. Pari a un costo medio per abitazione di 2.256 euro al mese, il prezzo di una casa da 150 metri in centro. Una maxi inchiesta davanti alla quale il braccio destro di Virginia non fa ua piega. Anzi: all’ex ufficiale della Guardia di Finanza non dispiace nemmeno che le srl italiane proprietarie degli appartamenti siano controllate al cento per cento da società anonime con sede in Lussemburgo. Holding che poi finiranno nel mirino degli inquirenti per un presunto giro di false fatture da 11 milioni di euro. Per il M5S la vicenda è paradossale. Se nei giorni scorsi sui giornali ha campeggiato la presunta “congiura dei frigoriferi” invocata dalla sindaca, e deputati di peso sono tornati a chiedere a Grillo di mettere mano al caos in Campidoglio «che rischia di far implodere l’intero progetto politico del M5S», la questione Marra può far saltare di nuovo i traballanti equilibri interni. Perché il napoletano Raffaele, entrato alla corte di Alemanno e Franco Panzironi grazie ai buoni uffici del vescovo Giovanni D’Ercole, già braccio destro di Renata Polverini e poi passato alla causa di Beppe Grillo (tanto da autodefinirsi «lo spermatozoo che ha fecondato il Movimento», mentre per la grillina Roberta Lombardi è solo «il virus che lo ha infettato»), oggi non è solo l’onnipotente capo del personale promosso per ferrea volontà della sindaca e in attesa di una nuova e prestigiosa collocazione. Ma anche il Rasputin che tutti i giorni consiglia a Virginia ogni mossa e ogni passo, il dioscuro che accompagna la sindaca agli incontri istituzionali a Palazzo Chigi, e il leader indiscusso (dal punto di vista tecnico è il più competente del mazzo: ha una laurea in legge - 103 su 110 - e una in Economia e Commercio, strappata con 82 su 110) dei “quattro amici al bar”, come si chiamano tra loro su WhatsApp Marra, Virginia, il segretario generale Salvatore Romeo e il vicesindaco Daniele Frongia. Una chat spesso usata per darsi appuntamenti lontani da orecchie indiscrete sul tetto del Comune o ai tavoli della terrazza Caffarelli. Non sappiamo se «il vero sindaco di Roma» durante gli spuntini di lavoro abbia raccontato ai suoi nuovi amici i trascorsi con i costruttori romani o la sua passione sfrenata per il mattone. Di certo l’Espresso è in grado di raccontare il lato meno conosciuto dell’uomo chiave del “raggio magico”, grazie alla lettura di contratti conservati negli archivi del Comune, a convenzioni a trattativa privata, mai pubblicati prima. Oltre a certificati di residenza, deliberazioni della giunta e fogli del catasto che evidenziano come Marra e sua moglie siano riusciti a comprare a prezzi stracciati e sconti record case da privati e da enti come la Fondazione Enasarco. Partiamo dall’inizio. Dall’affare che Marra serve ad Amore su un piatto d’argento. Un regalo inspiegabile, anche se giustificato dall’emergenza abitativa e dalla necessità di trovare rapidamente casa a oltre un centinaio di sfollati. Nel luglio 2009 l’ex uomo di Alemanno affitta infatti 53 appartamenti dalla società Arca ’93, e altri 43 dalla GE.IM 96, proprietarie della grande struttura “Borgo del Poggio”, a Via di Fioranello. Piena periferia. Per la prima convenzione, si legge, «il compenso annuale è di 1,4 milioni annui», mentre per la seconda srl il business vale «1,2 milioni di euro». Il Comune di Roma si impegna a pagare ad Amore anche gas, acqua ed energia elettrica. In tutto fanno 2,6 milioni all’anno (diventeranno 2,3 nel 2012 con il rinnovo del contratto, che dura sei anni più sei in assenza di disdetta), che a oggi hanno permesso all’imprenditore di incassare circa 17 milioni di euro. Una cifra mostruosa che ha stupito anche i giudici della procura guidata da Giuseppe Pignatone: nel giugno del 2015 il gip che ha convalidato le misure cautelari per il costruttore (poi annullate dal tribunale della libertà) nonostante l’assenza di illeciti comprovati riguardo la convenzione firmata da Marra, ha duramente commentato l’accordo. «Il canone è eccessivamente oneroso... in più è tuttora in atto una truffa ai danni del comune di Roma che paga canoni di locazione per 96 unità abitative che dovrebbero essere a disposizione degli sfollati, mentre sei di queste sono utilizzate da Amore e dai suoi collaboratori per fini propri e del tutto estranei alle emergenze abitative. Un fatto ancora più grave se si pensa che il comune ha rimborsato alle società locatrici anche i costi delle varie utenze». Per la cronaca, Amore è finito sotto inchiesta non per il patto firmato insieme a Marra, ma per altre due vicende. Al procedimento-costola del processo a Carminati e Buzzi, dove è indagato per una turbativa d’asta per la gestione di alloggi per l’accoglienza, si è aggiunta l’imputazione di associazione a delinquere per evasione fiscale e turbativa d’asta a causa di un appalto da 1,2 milioni per lavori urgenti dell’aula Giulio Cesare del Campidoglio. Amore è imputato insieme all’allora capo della Direzione tecnica del Comune Maurizio Anastasi: per gli inquirenti sarebbe stato quest’ultimo a favorire illegalmente l’immobiliarista, attraverso una gara a trattativa privata vinta da Amore attraverso società di costruzioni. Anche queste controllate dalle holding lussemburghesi proprietarie del residence (sia chiamano Essonne SA e Hortense Sa) che Marra ha affittato nel 2009. Il collaboratore di Virginia, capo dei 23 mila dipendenti del Comune e due mesi fa vincitore della guerra contro l’ex assessore al Bilancio Claudio Minenna e il capo di gabinetto Carla Raineri («Marra e Romeo? Personaggi assai mediocri, il duo ha continuato a gestire il Campidoglio forte della protezione della Raggi», disse il magistrato Raineri dopo le sue dimissioni) ha però firmato altri contratti per l’emergenza abitativa. A fine 2009 Amore ottiene infatti altri 800 mila euro l’anno per l’affitto di un altro suo immobile a via Giacomini (di proprietà della Generalappalti srl, anche questa di un socio unico lussemburghese), mentre un anno prima era stata l’Immobiliare Ten del campione della Roma Francesco Totti a firmare con Marra un ricco contratto di locazione. Marco Lillo del “Fatto Quotidiano” aveva raccontato l’affare nei dettagli, spiegando che il Campidoglio aveva affittato dalle società del “Capitano” 35 appartamenti «all’estrema periferia romana». Per un costo di 908 mila euro l’anno, circa 2.160 euro ad abitazione: un prezzo degno di un trilocale vista Colosseo e non certo di palazzoni anonimi del quartiere di Tor Tre Teste. La commissione che valutò le offerte degli aspiranti locatari era presieduta da Luca Odevaine, il dirigente vicino al Pd oggi imputato per corruzione nel processo a Mafia Capitale. Il 18 dicembre 2008 è però il solito Marra, come rappresentante del Comune, a firmare il contratto definitivo che permetterà a Totti e soci di incassare oltre 5 milioni in sei anni. Nessun illecito riscontrato dai pm, ma uno spreco di denaro pubblico che grida ancora vendetta: come direttore del dipartimento, Marra avrebbe comunque potuto rifiutarsi di firmare il contratto, anche in autotutela. Durante gli anni in cui Marra è a capo del Dipartimento per le Politiche abitative il Comune guidato dagli uomini di Alemanno si lanciò anche in un’altra operazione spericolata: l’acquisto di tre palazzine a Torre Spaccata di proprietà della Farvem Real Estate, una srl dell’imprenditore Massimo Ferrero detto “Viperetta”, diventato famoso negli ultimi anni per essere l’eclettico patron della Sampdoria. Nel 2008-2009 il Campidoglio, che da qualche tempo pagava a Ferrero due milioni l’anno di affitto (lievitati poi a 3,1 milioni) decise di investire e comprare finalmente gli immobili. Una mossa per far risparmiare le casse comunali, si dirà: peccato che nel bilancio comunale fu accantonata una cifra pazzesca, di poco inferiore ai 50 milioni di euro. Uno sproposito, dal momento che Ferrero per i tre palazzi popolari aveva sborsato tre anni prima appena 15 milioni. L’affare alla fine saltò, grazie alle proteste degli inquilini e delle opposizioni, e grazie a un articolo assai informato di Giovanna Vitale su Repubblica. Lo ammetta o meno, Marra a destra era assai benvisto. Sarà l’aplomb dell’ex ufficiale della Gdf, il diploma (45 su 60) alla scuola militare Nunziatella di Napoli, ma è un fatto che Raffaele - dopo aver litigato con Alemanno - riesca ad accasarsi nel 2011 alla Regione Lazio con la Polverini e che, nel maggio del 2010 (appena lasciato il Campidoglio) sia riuscito a farsi chiamare in Rai dal berlusconiano ex direttore generale Mauro Masi, che decide di stipendiare Marra come «consulente in materia economica e finanziaria per la realizzazione di un progetto connesso alle tematiche aziendali finalizzato alla implementazione del Piano industriale 2010-2012». Una volta finite le esperienze in Rai e alla Regione, l’ex finanziere (che nel 2006 vinse un concorso da dirigente pubblico al ministero dell’Agricoltura guidato da Alemanno) torna in Campidoglio, ma sia Ignazio Marino sia il prefetto Francesco Paolo Tronca preferiscono tenerlo ai margini del loro progetto amministrativo, affidandogli prima l’«ufficio di scopo» per i rapporti con i consumatori e poi la direzione per le relazioni sindacali. È in questo periodo che Marra conosce Frongia, con cui stringe un’amicizia di ferro che lo catapulterà - dopo la vittoria del M5S e della Raggi - ai vertici della nuova squadra di governo. Scatenando l’ira di un pezzo del direttorio grillino (su tutti la Lombardi e Carla Ruocco) che non vedono di buon occhio il suo percorso politico e l’ascendente sulla sindaca. L’ostilità di frange importanti del movimento crescono qualche settimana fa, quando l’Espresso svela come nel 2010, mentre era alla direzione del dipartimento delle Politiche abitative e della Casa, Marra sia riuscito a comprare un attico di lusso dall’imprenditore Sergio Scarpellini, ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. Un evidente conflitto di interessi: Scarpellini, già definito da Alessandro Di Battista «l’immobiliarista della Casta», con il Comune aveva in piedi affari a sei zeri, affittando al Campidoglio locali per milioni di euro l’anno. Oggi, però, scopriamo che il quarantacinquenne dirigente napoletano di affari ne ha fatti altri. Già: una volta comprato l’attico da Scarpellini, Marra decide di metterlo a reddito e affittarlo. Non per restare nella casetta di via Gentili, ma per trasferirsi in un altra casa di otto stanze a via dei Prati Fiscali, dove risiede tuttora. Poco più di 152 metri quadrati comprati nel maggio del 2013 da sua moglie, Chiara Perico, che riesce ad acquistare il grande appartamento più un box auto per appena 367 mila euro. Il venditore è Enasarco, una fondazione sottoposta al controllo pubblico del Ministero del Lavoro e di quello dell’Economia che nel settembre 2008 aveva annunciato (prima con una delibera interna e poi con un accordo siglato con i sindacati) di voler dismettere il suo immenso patrimonio immobiliare, offrendo a tutti i suoi inquilini uno sconto del 30 per cento, che arriva al 40 in caso di “acquisti collettivi” dell’intero stabile. Nel settembre 2008 Marra e la Perico (che a ottobre di quell’anno, pochi mesi dopo l’arrivo del marito alla guida del dipartimento della casa, viene assunta a tempo determinato nello staff dell’assessore al Personale, l’alemanniano Enrico Cavallari) vivono però in una casa a via Gentile. L’affare è ghiotto: così la Perico chiede e ottiene un contratto di locazione da Enasarco (la casa era sfitta), cambia residenza diventando inquilina Enasarco nel novembre 2009, quando trasferisce la residenza a via dei Prati Fiscali. Quattro anni dopo, la signora Marra ha così le carte in regola per esercitare il diritto di prelazione: nell’atto di vendita del 26 giugno 2013 dichiara «di essere coniugata, ma in regime di separazione dei beni con il proprio coniuge». L’affare con sconto record è concluso. A cinque mesi dall’acquisto dell’appartamento Enasarco, Marra - che ha già nel suo carniere l’attico preso da Scarpellini, e che mai avrebbe potuto prendere una casa Enasarco con super sconto - decide di trasferire anche lui la residenza nella nuova casa della moglie. Oggi vive lì da solo: la Perico nel 2015 ha infatti spostato la sua residenza all’estero, in un elegante residence della città di St. Julian, a Malta. Un’isola che i Marra conoscono bene: il fratello Catello, anche lui con un passato nella Gdf, bazzica La Valletta da anni, facendo affari e gestendo da “governatore” armato di mostrine, mantello e spadaccino, una fantomatica associazione chiamata International Organization for Diplomatic Relations, che organizza eventi e premiazioni a Malta, Boston e nei soliti salotti romani. Un dubbio alla fine resta inevaso: o la Raggi non conosce bene la storia di Marra o non può, per qualche ragione sconosciuta, fare a meno di lui.

«Di Maio copriva politicamente l’assessora Muraro». Secondo i pm il parlamentare grillino era al corrente delle attività illecite dell’ex consulente Ama, che avrebbe truccato le autorizzazioni per gli impianti di smaltimento dei rifiuti, scrive Giulia Merlo il 15 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Referente» è la parola che inguaia Luigi Di Maio e si legge negli atti dell’inchiesta – pubblicati da Fiorenza Sarzanini, del Corriere della Sera – che accusa Paola Muraro, ex superassessore all’Ambiente in Campidoglio. Luigi di Maio avrebbe infatti «offerto copertura politica a lei (Paola Muraro ndr) e a Raggi» nelle difficili giornate dell’iscrizione dell’assessore nel registro delle notizie di reato, si legge nei verbali dell’ex assessore al Bilancio Marcello Minenna (dimessosi lo scorso settembre, in polemica con «il deficit di trasparenza» dell’amministrazione comunale) e dell’ex ad della municipalizzata, Alessandro Solidoro. Il vicepresidente della Camera non è indagato, ma i risvolti politici di queste dichiarazioni potrebbero creare un piccolo terremoto tra le fazioni contrapposte all’interno del movimento, in cui è iniziata la corsa al posizionamento in vista delle future elezioni politiche. Il fatto che proprio il suo nome sia finito in un fascicolo al vaglio della procura di Roma, potrebbe frenare – e addirittura stroncare, se ci fossero ulteriori risvolti opachi – le ambizioni del “candidato perfetto” a palazzo Chigi. Una grana inaspettata in una situazione già di per sè preoccupante per il Movimento 5 Stelle, che con l’amministrazione di Roma si gioca una parte dei consensi alle prossime politiche. Del resto, la questione Muraro era già da tempo sul tavolo: da un lato la sindaca, che l’ha sempre difesa con la copertura politica esterna di Luigi di Maio, dall’altro una fronda degli eletti in Campidoglio che non hanno mai apprezzato la posizione privilegiata di Muraro al fianco di Virginia Raggi, sostenuti dalla deputata romana Roberta Lombardi. Ora che la bomba giudiziaria è esplosa, l’ormai ex assessora all’Ambiente dovrà difendersi da accuse tutt’altro che risibili: l’indagine riguarda reati ambientali, e i magistrati ipotizzano che le autorizzazioni per gli impianti di smaltimento dei rifiuti siano state «truccate» quando lei era consulente di Ama. Non solo, secondo i pm i macchinari avrebbero lavorato a regime ridotto per favorire altri impianti privati come quello di Manlio Cerroni, il «re dei rifiuti» e proprietario della discarica di Malagrotta con cui Muraro aveva rapporti professionali, anche lui indagato. Muraro si è difesa sostenendo che «era tutto in regola», ma il 21 dicembre comparirà davanti ai magistrati per un interrogatorio in cui spiegare, ridimensionare il suo ruolo nella vicenda e controbattere alle dichiarazioni degli accusatori Minenna e Solidoro. Al netto della vicenda giudiziaria, il cui contraccolpo politico ha già fatto scoppiare la bagarre in Campidoglio tra maggioranza 5 Stelle e opposizioni, ora per il comune capitolino si apre un nuovo capitolo di difficoltà, dopo le dimissioni della Capo di gabinetto Carla Raineri, degli assessori al Bilancio Marcello Minenna e Raffaele de Dominicis. Nonostante il nome di Muraro fosse già in odore di inchiesta da mesi, Raggi l’ha sempre difesa contro tutto e tutti, Beppe Grillo compreso. «Paola non si tocca» , avrebbe detto spesso, e anche oggi continua a sostenerla: « Sono accuse risibili, appena cadranno lei tornerà in giunta » . Per ora le deleghe rimangono in capo alla sindaca ma, in una Roma in perenne difficoltà con lo smaltimento dei rifiuti, la casella va riempita al più presto. Non solo, in aria di dimissioni ci sarebbe anche Stefano Bina, nominato direttore generale di Ama (la municipalizzata che si occupa dei rifiuti) da poco più di tre mesi. A motivare il suo addio ci sarebbero una serie di incomprensioni con la neo- amministratrice unica, Antonella Giglio, per modifiche non concordate nell’organigramma aziendale. Una situazione esplosiva, quella del Campidoglio, su cui potrebbe intervenire a spegnere l’incendio addirittura Beppe Grillo. Ora che Luigi Di Maio è fuori gioco e si terrà a distanza di sicurezza dall’aula Giulio Cesare per evitare ulteriori fianchi scoperti, potrebbe arrivare la pax di Beppe. Il leader pentastellato è in città per incontrare i gruppi parlamentari e potrebbe cogliere l’occasione per provare a ricondurre Bina a più miti consigli, evitando l’ennesimo addio problematico nell’amministrazione della Capitale. Un intervento che, però, suona come il primo atto di commissariamento della giunta più irrequieta e allo stesso tempo preziosa per il Movimento.

Roma, il signore degli affitti d'oro e la tangente a "er Gnappa", il bandito della Magliana. Il racconto. Nei rapporti tra il costruttore e il pregiudicato, l’eterno triangolo tra palazzinari, politici e criminalità organizzata nella storia della Capitale, scrivono Alberto Custodero e Gianluca De Feo il 17 dicembre 2016 su “La Repubblica”. Il palazzinaro e l'uomo della Magliana, come se a Roma tutte le storie finissero sempre per intrecciarsi in un triangolo perverso di mattoni, politica e violenza; come se l'unico potere che conta fosse quello brutale della strada che da mezzo secolo s'incarna in queste due figure ugualmente spregiudicate, ma allo stesso tempo indistruttibili. L'inchiesta che ha fatto finire in cella Raffaele Marra e devastato la credibilità di Virginia Raggi nasce dal buco nero di trame e soldi che continua a condizionare la vita dell'Urbe, quasi fosse un sequel di Mafia Capitale o l'ennesimo capitolo dell'infinito Romanzo Criminale. I carabinieri che hanno messo in luce le relazioni pericolose di quello che si autodefiniva "l'uomo più potente" del Campidoglio stavano occupandosi di altro: erano sulle tracce di Manlio Vitale, meglio noto come "er Gnappa" o "er Succhia". Quando nel '77 il Libanese e il Freddo decisero di "prendersi Roma", Vitale era al loro fianco. Un gregario, padroncino della Garbatella e molto dinamico nel tenere i rapporti tra la Banda e i padrini di camorra e 'ndrangheta. Poi ha fatto carriera, tra frequentazioni con i terroristi neri e accuse di omicidio. Dentro e fuori dal carcere, "er Gnappa" ossia "il Piccoletto" è cresciuto fino al rango di capo. La sua specialità sono le rapine. A mano armata, nelle ville più prestigiose. O nei caveau: si è parlato di lui per il colpo a Palazzo di Giustizia, quello che avrebbe consegnato a Carminati i segreti della Roma che conta. Nei verbali c'è un racconto più recente. Ogni giovedì Vitale si faceva consegnare una mazzetta dal costruttore Sergio Scarpellini. Il motivo di questa elargizione non viene chiarito, l'ipotesi è che l'imprenditore fosse ricattato. Ma è suggestivo il luogo dello scambio: "nei pressi del Senato". La notorietà di Scarpellini nasce proprio dagli affitti di immobili al Parlamento: canoni a prezzi gonfiatissimi, che sono diventati l'icona degli sprechi della casta. Come denunciò la deputata radicale Rita Bernardini, il 41% delle spese di Montecitorio per i fornitori finiva nelle tasche del palazzinaro: 51 milioni per la pigione di uffici usati dalla Camera sin dal '97. Ed eccolo diventare il "re degli affitti d'oro", bersaglio prediletto delle interrogazioni grilline che secondo i magistrati voleva domare proprio grazie all'intercessione di Marra. Per Scarpellini un partito vale l'altro: "Io non sono né di sinistra né di centro o di destra: sono di tutti. Tifo per la Roma e vado a vedere pure la Lazio. Sono un imprenditore da larghe intese. Non conto sui politici". E poi offriva una versione difensiva dei rapporti altolocati: "Se mi chiedono un aiuto, li aiuto, però loro non fanno nulla per me". Un self made man. Letteralmente. La prima accusa è stata di truffa: un guardiaparco dell'Appia Antica lo ha denunciato perché stava trasformando l'ex villa dell'attrice Silvana Mangano in un centro di feste e convegni. Come aveva ottenuto i permessi in una zona vincolata? Falsificando le licenze, con timbri altrettanto fasulli. Un maestro nel moltiplicare il valore degli immobili. Nell'ordine di cattura si cita il suo capolavoro: durante la giunta Veltroni, subaffitta al Comune un palazzo dell'Inpgi, la cassa pensionistica dei giornalisti. Paga 2,1 milioni l'anno e se ne fa dare 9,5 dal Campidoglio: sette anni di contratto gli avrebbero fruttato 51 milioni. Un caso sollevato proprio dai 5stelle, quando ancora erano all'opposizione. Scarpellini ha piazzato uffici al Tar, Consiglio di Stato, Rai, Agcom, Stampa estera. Un'ascesa inarrestabile, cantiere dopo cantiere. Suo è il progetto nella periferia della Romanina, "ancora in corso di trattativa con il Campidoglio", sottolineano i pm. Suoi i terreni per il nuovo stadio della Roma, con la prospettiva di guidare la cordata che l'avrebbe tirato su. Ha sempre tenuto buoni rapporti con gli altri signori del mattone. E lo dimostrano le telefonate in cui Marra lo implorava - invano - di intervenire su Francesco Gaetano Caltagirone per fermare le agguerrite campagne de il Messaggero. Ma il suo impero nato dalla strada oggi viene messo in crisi dagli incontri sulla strada con "er Gnappa", ultimo emissario di quel "Mondo di Mezzo" teorizzato da Massimo Carminati. Che ora fa traballare pure la poltrona di Virginia Raggi.

E Roberta Lombardi denunciò Raffaele Marra: ecco l'esposto contro l'uomo della Raggi. Clamorosa querela presentata dal deputato pentastellato a fine novembre dopo l'inchiesta dell'Espresso. Un attacco durissimo contro il consigliere prediletto della sindaca e compagna di partito. Ora la battaglia tra il gruppo degli ortodossi e i fedelissimi di Virginia e Di Maio sarà senza esclusione di colpi, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". Il tifone giudiziario che ha investito il Campidoglio dopo l'inchiesta dell'Espresso e l'arresto del fedelissimo Raffaele Marra da parte della procura di Roma rischia di trasformarsi, nelle prossime ore, in un dramma politico. Non solo nel partito romano, ma per l'intero Movimento Cinque Stelle nazionale. “L'Espresso” ha scoperto infatti che il 22 novembre 2016, un mese dopo dopo la pubblicazione dell'ultima inchiesta del nostro settimanale, il deputato pentastellato Roberta Lombardi si è presentata in procura per depositare una durissima denuncia-querela proprio contro Marra, braccio destro della sua compagna di partito. Un esposto di una decina di pagine di fuoco, in cui la deputata grillina chiede senza giri di parole ai magistrati di indagare sulla casa acquistata dalla moglie di Marra dalla Fondazione Enasarco (quella per cui è stata individuata la corruzione tra Marra e Scarpellini), sui rapporti tra Marra e l'altro costruttore Fabrizio Amore (oggi imputato in Mafia Capitale), sui possibili episodi illeciti della gestione delle emergenze abitative quando Marra era dirigente del dipartimento della Casa. Il fedelissimo della sindaca di Roma Raffaele Marra, quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio in quota Alemanno, comprò un attico di lusso dal gruppo di Sergio Scarpellini. Ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. In barba al conflitto di interessi: il costruttore, definito da Grillo «un evasore di Iva» e da Di Battista «un gentleman detto "er cavallaro"» fa business milionari con il Comune. Non solo: la Lombardi – che si è in passato occupata dei temi dell'emergenza abitativa, compreso la dismissione degli immobili Enasarco – mostra dubbi persino sulla legittimità di Marra a coprire ruoli dirigenziali in Campidoglio, ipotizzando che il concorso a cui partecipò nel 2006 fu caratterizzato da un «quadro inquietante di collusioni e favori». La Lombardi, insieme a big del movimento come Roberto Fico, Paola Taverna e Carla Ruocco, ha mosso critiche alla Raggi e al suo staff fin dall'inizio dell'avventura della sindaca (dopo le inchieste de “L'Espresso” definì Marra «un virus che sta infettando il movimento»), ma nessuno sapeva finora che era andata dritta in procura a denunciare il consigliere della “sua” sindaca. Un fatto politico clamoroso: non sappiamo se l'esposto della Lombardi è poi confluito nel filone d'indagine già aperto dalla procura che ha portato agli arresti odierni del dirigente di Virginia. Di certo la notizia di una battaglia giudiziarie tra Lombardi e uomini della Raggi aprirà una faglia ancora più larga tra gli “ortodossi” del Movimento che da mesi consigliavano a Virginia di obbligare i sui fedelissimi a un passo indietro, e i seguaci della linea di Luigi Di Maio, che credevano che la sindaca andasse difesa a spada tratta contro tutto e contro tutto. Questi ultimi, dopo gli eventi di stamattina, sono politicamente molto più deboli di prima.

"Catastrofe politica": così Casaleggio ha convinto Grillo a salvare la Raggi, scrive il 18 dicembre 2016 “Libero Quotidiano”. "Davide, parliamo io e te". Nelle ore più difficili, Virginia Raggi si è aggrappata a Davide Casaleggio. D'altronde, era stato suo padre Gianroberto Casaleggio a scommettere su di lei come sindaca di Roma e ora è stato il figlio a convincere Beppe Grillo a non affondare il colpo. Casaleggio Junior ha condotto la trattativa che ha portato tutte le parti in causa a perdere qualcosa, ma non tutto. La Raggi ha accettato di essere di fatto commissariata (il vice-sindaco sarà con ogni probabilità Massimo Colomban, uomo di fiducia della Casaleggio Associati, imprenditore veneto già imposto come assessore alle Partecipate). Il suo vice Daniele Frongia ha accettato di dimettersi (così come il caposegreteria Salvatore Romeo) ma ha mantenuto un ruolo non marginale nella Giunta (mantiene la delega allo Sport, pesante nella Capitale). Roberta Lombardi, Paola Taverna, Roberto Fico e gli altri grillini "ortodossi" hanno vinto la loro battaglia a metà, visto che non hanno piazzato al Campidoglio un loro uomo di fiducia (De Vito o Ferrara, delusi). E ha perso in parte anche Grillo, che di pancia avrebbe fatto cadere la testa della stessa Raggi, revocandole l'uso del simbolo del Movimento 5 Stelle (e di fatto condannandola a morte politica) dopo averla pressata per settimane chiedendole di allontanare Raffaele Marra ("Tu l'hai difeso, tu ora risolvi tutto", le ha rinfacciato dopo l'arresto del capo del personale), Romeo ("Chi sono questi qui?", le ha domandato nell'ultimo faccia a faccia prima dello scandalo), Frongia ("Ti tengo d'occhio", gli aveva detto subito dopo la vittoria alle Comunali a giugno). "Una catastrofe politica" - D'altronde, per un giorno intero, Casaleggio (da Milano) ha ripetuto a Beppe (a Genova) un concetto che Grillo ha dovuto accettare a malincuore e fare suo: "Perdere Roma in questo modo, staccare la spina a un sindaco che per il momento non ha indagini a suo carico sarebbe una catastrofe politica". Una catastrofe che, al di là dell'eventuale penale da 180mila euro che si potrebbe incassare dalla Raggi per danno al Movimento (questo recita il "contratto" a 5 Stelle) potrebbe segnare la fine del sogno di governo nazionale del'M5s. Ecco perché il braccio di ferro tra Raggi e vertici del partito (con Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, suoi grandi sponsor, in significativo silenzio per non compromettersi ulteriormente) alla fine è finito con botte, lividi, ossa rotte ma nessun morto. Almeno per ora. E lo stesso Grillo avrebbe deciso di difendere Di Maio, tenendolo lontano dalla contesa: "Sul caso Raggi la responsabilità politica è mia, io l'ho sostenuta, io l'ho difesa". Non è propriamente così, ma per arrivare a Palazzo Chigi questo e altro. 

Il gioco di fare ammuina. I garantisti diventano giustizialisti, i giustizialisti garantisti, scrive Piero Sansonetti il 16 dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Facite ammuina», sapete che significa? E’ una espressione napoletana, vuol dire: fate casino. Si dice che nel regolamento della Marina borbonica ci fosse un articolo che in determinate situazioni prevedeva un comportamento un po’ goliardico dell’equipaggio, per sbalordire e confondere il nemico. Diceva così: «All’ordine, tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora: tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio…». È un po’ quello che sta succedendo attorno al caso Raggi. E cioè all’irrompere della magistratura nella vicenda politica del Campidoglio. L’opposizione, che si raccoglie attorno al Pd e proviene da posizioni moderatamente garantiste, ora è scatenata sul fronte pienamente giustizialista, prendendo a prestito il vocabolario dai 5 stelle. I 5 Stelle, Travaglio, il Pd, i Pm e il gioco di fare ammuina. A loro volta con rapida inversione di rotta dichiarano che le indagini sono “ridicole” (testuale della Raggi) e invocano la presunzione di innocenza. Cosa è successo? Tre cose. Prima gli avvisi vari di garanzia all’assessora 5 stelle Paola Muraro per indagini note da molti mesi ma per un lungo periodo di tempo tenute nascoste dalla stessa Muraro e dal candidato premier grillino Di Maio, che pare sapesse tutto. Poi la decisione di alcuni magistrati di fornire al Corriere della Sera gli atti dell’inchiesta, nei quali sta scritto che Di Maio era «referente» della Muraro e aveva «offerto copertura politica a lei e alla sindaca Virginia Raggi». Niente di illegale, per carità, e infatti nessun avviso di garanzia né per lui né per la sindaca. I magistrati si limitano a scrivere personali valutazioni politi- che e a dargli peso diffondendole e rendendole clamorose attraverso i giornali. Più che un documento giudiziario, quello pubblicato dal Corriere, sembra il testo di un intervento al comitato centrale di un partito politico: ma ormai ci siamo abituati, e raramente in questi casi vediamo qualche costituzionalista insorgere e chiedere che si ponga un freno all’invasione di campo. Terzo passo, la perquisizione in Campidoglio effettuata ieri dalla Guardia di Finanza che si è portata via un bel po’ di scatoloni di carte che riguardano la sindaca Raggi e le nomine che ha deciso negli ultimi mesi. È molto, molto probabile che gli scatoloni non serviranno a niente, però il segnale è fortissimo. Perquisire il Campidoglio è una iniziativa spettacolare, e contiene un avvertimento: “Siamo in grado di arrivare ovunque e la politica o si sottomette o la spazziamo via. Vuoi decidere te il nome di chi dirigerà la tua segreteria? No, devi chiederci il permesso… ”. Era troppo sperare che dinnanzi a questa offensiva, in conflitto con la democrazia, il Pd insorgesse e difendesse le prerogative della democrazia politica, schierandosi con la Raggi. Però almeno ci si poteva augurare che non si gettasse a pesce sulla ghiotta occasione, sperando, come tutti, di potere di volta in volta lucrare dagli sconfinamenti dei Pm qualche vantaggino politico o elettorale. Non è andata così. Il Pd ha iniziato a strepitare allo scandalo con lo stesso tono usato, di norma, dai grillini. Ha fatto come i marinai borbonici: «Chilli che stanno a prora vann’a poppa…». A difendere Virginia Raggi da questo nuovo attacco sono accorsi invece i giustizialisti. Il Fatto di Marco Travaglio, che di quello schieramento è il “cacciatorpediniere”, ha reagito in primo luogo depotenziando le notizie, e poi congratulandosi con la Muraro che si è dimessa appena raggiunta da avviso di garanzia e segnalando come questo sia un fatto del tutto inedito nella politica italiana perché quei manigoldi dei renziani non si dimettono mai e poi mai. Bah. E La Guidi, ministra di primo piano che se ne è andata a casa in 12 ore perché sfiorata da una inchiesta sul suo fidanzato? E Lupi, ministro alle infrastrutture – mica niente – dimessosi in quattro e quattr’otto per un’inchiesta su suo figlio (anche lui senza avviso di garanzia)? Oppure vogliamo restare al Campidoglio, e raccontare di Marino (renzaino no ma piddino sì), liquidato dal suo partito per una inchiesta che poi è finita con assoluzione piena? Il fatto è che i giustizialisti quando si mettono a fare i garantisti («chilli che stanno abbascio vann’ncoppa… ») si trovano a disagio, non conoscono bene i meccanismi, le parole giuste, e così dicono e scrivono molte cose imprecise. Travaglio, che dà del bugiardo a Renzi un giorno sì e l’altro pure, dovrebbe starci un po’ attento, sennò finisce che l’appellativo che ha appiccicato a Renzi (“il bomba”), ora che l’ex premier esce di scena lo eredita proprio lui…Naturalmente scherziamo. Travaglio ha pienamente ragione – al di là delle argomentazioni un po’ sbilenche – a difendere la Raggi dagli attacchi di stampa e Pm (sarebbe quel circolo mediatico– giudiziario del quale forse, altre volte, ha sentito parlare). E anche Grillo, che è sceso a Roma per occuparsi della questione, fa bene a difendere il Campidoglio e la giunta democraticamente eletta. Però forse dovrebbero prendere atto del fatto che la magistratura, se non le si danno dei limiti, rischia di far saltare il gioco democratico. Una volta faceva male solo a Berlusconi. Poi ha iniziato a bastonare il Pd. Ora tocca ai 5 stelle. Come diceva Nenni? «Attenti a fare i puri, che poi viene uno più puro di voi e vi epura».

"Trasformare un verbale in articolo". Il Fatto insegna l'arte dello sputtanamento (a soli 85 euro). Il giornale diretto da Marco Travaglio organizza un corso di formazione per spiegare ai giornalisti "come usare le intercettazioni" e i verbali dei pm. Ospite della lezione un magistrato, scrive Ermes Antonucci il 21 Aprile 2016 su "Il Foglio. Un corso diretto ai giornalisti per imparare a “usare le intercettazioni” e a “trasformare un verbale in una notizia”. Non è uno scherzo: a organizzarlo è il Fatto Quotidiano, il giornale diretto da Marco Travaglio leader nello sputtanamento mediatico-giustizialista. Il corso di formazione, intitolato “Cronaca giudiziaria: le fonti del cronista”, si terrà nella sede romana del giornale sabato 30 aprile (al costo di 85 euro), e sarà composto da tre moduli: “Avvocati, magistrati, investigatori: i rapporti con le fonti”, “Come usare le intercettazioni”, e “Come trasformare un verbale in una notizia: esercitazione pratica”. Nel mettere “in pratica” i consigli ricevuti, i giornalisti-studenti potranno avvalersi del sostegno diretto di un magistrato (ma poi non si dica che alcune testate sono i megafoni delle procure): ospite del corso sarà infatti Stefano Aprile, gip del tribunale di Roma, che – come si legge nell’annuncio pubblicato dal Fatto – è stato autore, tra le altre cose, delle indagini su Franco Fiorito, l’ex capogruppo Pdl finito al centro dello scandalo sull’uso dei fondi del gruppo regionale. A tenere la lezione sarà la cronista giudiziaria del Fatto Valeria Pacelli, che proprio ieri ha firmato sul giornale un articolo in cui vengono riportati stralci di intercettazioni, assolutamente prive di rilevanza penale, realizzate più di tre anni fa nei confronti di un politico che non è mai stato neanche indagato. Si tratta dell’attuale sottosegretario ai Trasporti, Umberto Del Basso De Caro (Pd), che nel 2013 venne intercettato per un mese e mezzo nell’ambito di un’indagine a Benevento su presunti legami tra politici locali e clan mafiosi. L’allora consigliere regionale campano non venne mai iscritto nel registro degli indagati, ma solo intercettato “per cercare reati di terzi”. Alla fine il caso si sgonfiò, ma i pm decisero di inserire i colloqui avuti al telefono da Del Basso De Caro – inutili sul piano penale – nell’avviso di conclusione delle indagini per un filone minore dell’inchiesta, in cui, anche qui, il sottosegretario non è tra gli indagati, rendendo così pubbliche le intercettazioni. L’atto, depositato nell’ottobre 2015, non è sfuggito agli occhi attenti del Fatto, che già a novembre aveva deciso di pubblicare una parte di queste intercettazioni, sostenendo che nelle conversazioni Del Basso De Caro promettesse favori in cambio di voti (teorema evidentemente non condiviso dai magistrati, che non hanno mai deciso di aprire un’indagine a riguardo). Ieri è giunta la seconda puntata: nuove intercettazioni, prive di rilievo penale, sono state divulgate, e ora il sottosegretario è accusato di aver dichiarato al telefono che gli omosessuali gli “fanno schifo”, e che a questi ha sempre preferito “le femmine”. Sarà dunque proprio l’autrice di questo “scoop”, Valeria Pacelli, a salire in cattedra e a dare lezioni di giornalismo giudiziario. E’ lei, d’altronde, a scrivere nella sua biografia sul sito del Fatto: “Non credo nell’aldilà, ma nella giustizia, assolutamente sì”. Amen, allora.

Intercettazioni, Travaglio messo alle strette: "Vuoi fare i processi di Stalin?". Ad "Otto e mezzo" il giustizialista Marco Travaglio perde le staffe con la giornalista spagnola Angela Rodicio, scrive Francesco Curridori Venerdì 22/04/2016, su "Il Giornale". Marco Travaglio su tutte le furie. L’argomento è il suo pane quotidiano, le intercettazioni. E così la trasmissione Otto e mezzo diventa terreno di scontro quando Lilly Gruber chiede alla giornalista spagnola Angela Rodicio, corrispondente dell’emittente spagnola Tve, una sua opinione sull’eccesso nell’uso delle intercettazioni da parte della stampa italiana. “Assolutamente sì e poi si dovrebbe sapere qual è la fonte di queste intercettazioni e di chi le fa pubbliche”, afferma la Rodicio che trova in Travaglio un valido maestro. “Te lo spiego io, se vuoi”, dice il direttore del Fatto Quotidiano che, poco prima aveva avuto un battibecco anche con la parlamentare Pd Alessia Rotta. “Sì, in tre parole per favore”, mette dubito in chiaro la Rodicio temendo la logorrea di Travaglio che, infatti, fa tutto un lungo giro di parole per spiegare che “qui non c’è nessuno che passa le veline, come ha detto il presidente del Consiglio”. Il direttore del Fatto, in versione professorino, spiega che lui pubblica gli atti che diventano pubblici dopo che agli indagati arriva l’ordinanza di custodia cautelare. La giornalista spagnola, allora, chiede “Ma magari questo potrebbe vulnerare il diritto di difesa, no?” mandando in tilt Travaglio che diventa un fiume in piena. “Assolutamente no. La legge italiana stabilisce che cade il segreto e l’hanno fatta i politici, mica i giudici. Noi, a quel punto, dato che facciamo i giornalisti, se tra quelle persone ci sono delle persone che non hanno nessun ruolo pubblico ce ne possiamo pure fregare perché alla gente non gliene importa niente. Se ci sono ministri, sottosegretari, imprenditori, banchieri, gente che amministra la cosa e il denaro pubblico, informiamo i cittadini”, spiega il direttore del Fatto precisando che ogni volta omette qualsiasi racconto a sfondo sessuale. Ma secondo Travaglio “se invece c’è una ministra (Federica Guidi ndr) che dice: ‘con tutti i favori che ti ho fatto mi tratti come una sguattera del Guatemala’ quello non è privato, è pubblico perché c’è una ministra che è succube del suo fidanzato che fa affari grazie al fatto che la sua fidanzata fa la ministra e questo si chiama traffico di influenza illecita”. A questo punto la Rodicio rimane interdetta e dice ciò che qualsiasi persona di buon senso direbbe: “Ma quello lo dovrebbe decidere un giudice”. Un Travaglio spiazzato vira le sue argomentazioni verso un giustizialismo feroce: “Il giudice non deve stabilire quello che ha detto la ministra e quello che ha detto il fidanzato. Quello è nelle intercettazioni che vengono trascritte. Se poi è reato lo sapremo col processo e, anche se non è un reato, è uno schifo”, sentenzia. La Rodicio cerca di intervenire e di spiegare che se un’intercettazione è reato la pubblichi altrimenti no. Affermazione che porta Travaglio a fare un paragone che non stenta a stare in piedi. “Se tu hai il tuo vicino di casa che è sotto processo per pedofilia. Tu non lo sai se è un pedofilo o no. Tu tua figlia di 5 anni la lasci in custodia a lui quando vai a far la spesa o per prudenza non gliela dai perché c’è il sospetto che sia un pedofilo?”, dice il direttore che viene subito redarguito dalla corrispondente estera. “Mi sembra molto demagogico. Non mi piace questo. Noi siamo giornalisti. È molto pericoloso questo. Facciamo i giornalisti, non i giudici”, dice la Rodicio. E qui Travaglio si aggrappa palesemente agli specchi citando gli attentati di Bruxelles. “Quando hanno arrestato Salah tu lo sai se è colpevole o innocente? No… E allora perché abbiamo scritto che l’hanno arrestato?”, si chiede il direttore giustizialista. “Quello sì, è un fatto di cronaca che l’hanno arrestato ma le intercettazioni che possono vulnerare la difesa della persona… “, ribatte la Rodicio spiegando che così si può orientare in un verso o nell’altro l’opinione pubblica. Travaglio va in escandescenza: “Cosa vogliamo 50 milioni di cittadini sordi e ciechi che non sanno niente? Ma come fanno ad andare a votare?” ma viene rimproverato nuovamente. “Una cosa è l’opinione pubblica, un’altra è il giudizio pubblico”, dice la giornalista di Tve a un Travaglio sempre più inferocito. “Voi avete una concezione da Stato sovietico dell’informazione. Il potere autorizza la stampa a scrivere quello che il potere vuole. Ma siamo matti?”, dice. Ma la Rodicio non si fa intimorire e chiosa: “Tu vorresti fare i processi di Stalin? Tu lo fai con quello che hai detto. Non rigirare la frittata”. Ma ad avere l’ultima parola è la Gruber che doveva mandare in onda il servizio del collega Paolo Pagliaro e perciò ha il diritto di zittire Travaglio con una frase che lo gela: “Non fai parlare nessuno e alla fine nessuno capisce niente”.

Chi di intercettazione ferisce...di intercettazione perisce!

Occhio all'intercettazione. Dalle carte spunta Travaglio, la frase rubata al telefono, scrive il 18 dicembre 2016 “Libero Quotidiano”. Spunta anche Marco Travaglio nelle carte dell'inchiesta che ha portato in cella Raffaele Marra. Il direttore del Fatto Quotidiano, giornale di riferimento della galassia grillina, è citato in una intercettazione del 31 ottobre scorso tra Salvatore Romeo (fino a ieri capo segreteria del sindaco Raggi) e lo stesso Marra. «Salvatore dice che ha notato Virginia molto forte e molto incazzata mentre non si aspettava la non reazione di Massimo Colomban (assessore alle Partecipate, ndr). Marra dice che lui è andato da Grillo e aggiunge che un giorno gli racconterà tutto. Salvatore dice che anche lui deve parlargli, ma non per telefono. Salvatore ha sentito Travaglio e dicono che ha fatto un bel lavoro. Marra dice che lui non può chiamare Travaglio». I due fedelissimi del sindaco discutono di come il loro giornale preferito sta trattando le vicende del Campidoglio. Sono soddisfatti. Del resto Travaglio è considerato una sorta di riferimento politico per il M5S. E il direttore del Fatto non è l'unico giornalista che spunta dalle carte. In un'altra intercettazione dell'8 novembre viene infatti citato un altro giornalista misterioso (di cui è riportato solo il nome, Marco), che conosce bene Marra e anche tale Giovanni (col quale è entrato in contatto tramite monsignor D' Ercole).

Se nelle intercettazioni di Marra spunta pure Travaglio. In una intercettazione, Marra e Romeo parlano del "buon lavoro" fatto dal Fatto Quotidiano. E in un'altra il dirigente parla con un giornalista di nome Marco, scrive Rachele Nenzi, Domenica 18/12/2016, su "Il Giornale". "Salvatore ha sentito Marco Travaglio e dicono che ha fatto un bel lavoro. Marra dice che lui non può chiamare Travaglio". È la relazione dei carabinieri che hanno intercettato Salvatore Romeo e Raffaele Marra, fedelissimi di Virginia Raggi almeno fino a che il primo non è stato rimosso da Grillo dopo che il secondo è finito in manette per corruzione. Una conversazione, quella raccontata da Repubblica e ricostruita da Next Quotidiano, che risale allo scorso 31 ottobre, quando i due parlano del Fatto Quotidiano e di come sta trattando il caos in cui è piombata la giunta capitolina già da quest'estate. "Stanno facendo un buon lavoro", concordano. Addirittura Romeo racconta di aver telefonato a Travaglio per complimentarsi con lui mentre il resto della stampa - e in particolare le testate che fanno capo al costruttore Francesco Caltagirone - non perdono occasione per sparare a zero contro Virginia Raggi e i suoi. Poi, a inizio novembre e dopo che proprio sul Fatto è uscita un'intervista a Marra, il dirigente capitolino parla con un giornalista chiamato Marco (il cognome è stato omesso negli atti), che gli dice di essere stato convocato da monsignor Giovanni d'Ercole, vescovo di Ascoli Piceno che - aveva raccontato Marra nell'intervista - aveva presentato il dirigente ad Alemanno. "Mi ha chiamato quattro volte, penso per parlare di te", spiega Marco, rassicurando l'interlocutore assicurandolo che avrebbe detto al monsignore che "l'attaccano solo per attaccare la Raggi".

"Io lavoro per i 5Stelle": così Marra è diventato il signore delle nomine. I verbali del capo dell'avvocatura capitolina: "Mi disse che era il loro referente da un anno", scrive Carlo Bonini il 18 dicembre 2016 su "La Repubblica". Parlano lingue diverse Virginia Raggi e le carte delle due inchieste della Procura di Roma - quella sulle "nomine" e quella per corruzione che ha portato in carcere venerdì Raffaele Marra e Sergio Scarpellini - destinate a stritolarla politicamente. Accade infatti che un lungo verbale di testimonianza e almeno tre brogliacci di intercettazioni telefoniche travolgano con la forza dei fatti l'ultimo, disperato esorcismo della sindaca. "Il dottor Raffaele Marra era soltanto uno dei 23 mila dipendenti capitolini, non un esponente politico". E lo mostrino per ciò che è: una menzogna. L'uomo che parla a verbale è l'avvocato Rodolfo Murra. È un galantuomo, capo dell'Avvocatura Capitolina, e, venerdì, nelle stesse ore in cui la Raggi declina ogni domanda, lui non si sottrae a nessuna di quelle che gli rivolgono i pm che indagano sulle "nomine" in Campidoglio. Ne indica il Rasputin, Marra, e svela di quale pasta sia stato il rapporto tra questo "tecnico" e la sindaca. È l'8 luglio di quest'anno - racconta - e nell'anticamera della Raggi, che si è insediata da sole 24 ore, incrocia Marra. I due non si vedono da un pezzo. Da quando, due anni prima, Marra ha chiesto un'aspettativa per motivi di studio che lo ha portato lontano dal Campidoglio. Murra è sorpreso di vederlo lì e ne chiede le ragioni. "È un anno che lavoro per loro - gli dice - Sono stato il loro referente. E ora lo sarò con la nuova Giunta. Sono un po' inesperti e si affidano a me". Marra dunque lavora per "loro" - intesi i 5Stelle - da oltre un anno. Gli ha fatto da consigliori. Da passacarte nell'ombra, quando Raggi&co sono ancora consiglieri di opposizione nella agonizzante consiliatura Marino, scommettendo facile su un cavallo che sa sarà quello vincente e con cui va ora all'incasso. Ha un rapporto di consuetudine con il vicesindaco Daniele Frongia e, naturalmente con lei, Virginia, e Salvatore Romeo, il miracolato carneade che di Virginia è il pesce pilota, diventato da semplice dipendente comunale capo della segreteria della sindaca. Murra conosce presto il nuovo stile della casa. Marra, "il tecnico", prova prima a blandirlo spiegandogli che se vuole conservare il posto in cui è - il vertice dell'Avvocatura - è meglio che non si metta di traverso. Sulla nomina di Romeo, come sulla defenestrazione della Carla Raineri, revocata da capo di gabinetto con una gabola amministrativa. Poi, lo fa aggredire dalla Raggi. A verbale, Murra conferma infatti le circostanze annotate nella memoria consegnata in Procura dalla Raineri dove si ricostruisce cosa diavolo accada quando si permette di segnalare che la nomina di Salvatore Romeo, così come concertata dalla Raggi, è illegittima. Si legge: "Convocò l'avvocato Murra alla presenza della giovane avvocatessa cui si era rivolta, di Marra e del suo vice Viggiano (ex ufficiale della gdf come lui, ndr ) per fargli cambiare opinione e, di fronte al suo rifiuto, gli prefigurò che ne avrebbe pagato le conseguenze. Poi, poco prima di una riunione di Giunta, lo aggredì verbalmente e con tale foga che io e l'allora assessore Minenna ne rimanemmo sconcertati". Del resto, come ancora la Raineri ricorda, sono quelle le settimane in cui "Marra amava definirsi lo spermatozoo che aveva fecondato l'ovulo 5Stelle". Uno "spermatozoo", a ben vedere, che non viaggia da solo. Perché tiene famiglia. E un fratello, Renato, in quel momento vicecomandante della Polizia Municipale. Per promuoverlo a dirigente, Raffaele, "il tecnico tra tanti", e la Raggi mettono in piedi un "interpello" (il provvedimento con cui si chiede la manifestazione di interesse dei funzionari pubblici interessati) che gli calza come un abito di sartoria anche se, formalmente, riguarda la rotazione di oltre cento dipendenti comunali. Due sono infatti le regole. La prima: la scelta del nominato verrà fatta senza alcun obbligo di comparazione dei curriculum dei potenziali concorrenti e dunque senza obbligo di motivazione. La seconda: ciascun dirigente che intenda ruotare può esprimere una sola preferenza sulla destinazione. Raffaele Marra, nel frattempo diventato capo del Personale, in palese conflitto di interesse, dovrebbe astenersi sulla nomina del fratello. Sia nel definire la procedura, che nel condurla. Ma che lo abbia fatto lo dice solo la Raggi. Non un pezzo di carta che lo dimostri. Marra e Romeo, del resto, sono ovunque. Decidono su chiunque. E parlano, parlano, parlano in continuazione. Con gergo da carbonari. Questo almeno si capisce in tre brogliacci di intercettazione sopravvissuti alle intere pagine di "omissis" che segnano il primo deposito di atti dell'inchiesta su Marra e in cui, tra l'altro, evocano il Fatto Quotidiano e il suo direttore, Marco Travaglio. Come accade, per esempio, il 31 ottobre scorso. Scrivono i carabinieri: "Salvatore (Romeo) dice che ha notato Virginia (Raggi) molto forte e molto incazzata, mentre non si aspettava la non reazione di Massimo Colomban (assessore alle Partecipate). Marra dice che è lui che è andato da Grillo e aggiunge che un giorno gli racconterà tutto. Salvatore dice che anche lui deve parlargli, ma non per telefono. Salvatore ha sentito Marco Travaglio e dicono che ha fatto un bel lavoro. Marra dice che lui non può chiamare Travaglio".

C’è anche il nome di Marco Travaglio nelle intercettazioni dell’inchiesta che ha portato in galera Raffaele Marra, scrive Dario Ferri su Next Quotidiano il 18 dicembre 2016. Il direttore del Fatto Quotidiano, che spesso aveva scritto in difesa dell’ex vicecapo di gabinetto della sindaca Virginia Raggi, viene citato nelle discussioni dell’ex finanziere che in molte occasioni si riferisce a lui con toni lusinghieri. Una di queste intercettazioni è riportata oggi da Carlo Bonini su Repubblica: a parlare sono Salvatore Romeo, il dipendente grillino con stipendio triplicato dalla Giunta Raggi che diceva che avevano sbagliato le nomine perché “era agosto, faceva caldo” e lo stesso Marra; le intercettazioni sono trascritte in brogliacci pieni di omissis e il dialogo fa tra l’altro comprendere che secondo i due è stato Massimo Colomban, l’assessore alle partecipate suggerito dalla Casaleggio dopo la prima crisi di giunta, a riferire a Grillo dei problemi interni della giunta. Poi Romeo dice che “ha sentito Marco Travaglio” e i due dicono che “ha fatto un bel lavoro”. Marra e Romeo, del resto, sono ovunque. Decidono su chiunque. E parlano, parlano, parlano in continuazione. Con gergo da carbonari. Questo almeno si capisce in tre brogliacci di intercettazione sopravvissuti alle intere pagine di “omissis” che segnano il primo deposito di atti dell’inchiesta su Marra e in cui, tra l’altro, evocano il Fatto Quotidiano e il suo direttore, Marco Travaglio. Come accade, per esempio, il 31 ottobre scorso. Scrivono i carabinieri: «Salvatore (Romeo) dice che ha notato Virginia (Raggi) molto forte e molto incazzata, mentre non si aspettava la non reazione di Massimo Colomban (assessore alle Partecipate). Marra dice che è lui che è andato da Grillo e aggiunge che un giorno gli racconterà tutto. Salvatore dice che anche lui deve parlargli, ma non per telefono. Salvatore ha sentito Marco Travaglio e dicono che ha fatto un bel lavoro. Marra dice che lui non può chiamare Travaglio». A cosa si riferiscono i due parlando di un bel lavoro? Non si sa, ma il giorno prima, 30 ottobre, Travaglio in un lunghissime editoriale sul Fatto era tornato su Raggi & Co. difendendo Virginia per la figuraccia sui frigoriferi e parlando anche di Raffaele Marra: E il fondamentale “Frigogate” (testuale) è rimasto per due giorni in cima al sito di Repubblica, mentre notizie più trascurabili come i 31 arrestati per tangenti sulle grandi opere venivano molto dopo. L’assessora Paola Muraro, indagata per reati ambientali oblazionabili con una multa da 6.500 euro, e il dirigente Raffaele Marra, mai indagato per nulla, hanno avuto più titoli di Riina e Messina Denaro, accostati continuamente a Mafia Capitale pur non avendo alcun legame con quell’inchiesta. Intanto il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che s’è scoperto indagato per Mafia Capitale solo quando i pm han chiesto (e non ancora ottenuto) l’archiviazione, veniva nascosto in una notizietta in breve, anche quando faceva scena muta davanti ai giudici. E ancora: Ieri Repubblica rilanciava l’ultima inchiesta dell’Espresso su Marra, l’uomo nero nel mirino del gruppo (e di parte del M5S) perché, essendo un dirigente pubblico, lavorò col sindaco Alemanno e poi con la giunta Marino, e in Regione Lazio collaborò con la giunta Polverini e poi con quella di Zingaretti. Finora, a suo carico, s’era scoperto che ha comprato casa da un costruttore di case, Scarpellini, che gli avrebbe fatto uno sconto (tutto da dimostrare) in cambio di favori (mai dimostrati). Ora il nuovo scoop è che nel 2009, da dirigente comunale alle Politiche abitative, fece affittare dal Comune su indicazione della Protezione civile e del suo assessore, per ricoverare gli inquilini di due palazzi andati in fiamme, alcuni immobili dital Fabrizio Amore, che ora si scopre indagato nell’inchiesta Mafia Capitale. Repubblica titola: “I favori di Marra al costruttore indagato” (peccato che all’epoca dei fatti non lo fosse), “Ira grillina: ‘Vada via’. Bufera sulla sindaca” (la frase “Vada via” è attribuita a una non meglio precisata “ira grillina”, anzi a una “bufera” parlante, visto che nessun 5Stelle dichiara nulla del genere). Il sito dell’Espresso si supera: “Il fedelissimo della Raggi e i contratti con Mafia Capitale” (cioè con Amore, che Marra nel 2009 non aveva colpevolmente previsto che nel 2016 sarebbe stato indagato). Intanto, mentre Marra si guadagnava il suo titolone quotidiano su Repubblica come si addice alle celebrità, Vincenzo De Luca veniva rinviato all’ennesimo giudizio per falso in atto pubblico, ma la notizia finiva in una breve di sei righe, invisibile a occhio umano. Chi sarà mai un governatore plurimputato di fronte a uno dei 110 dirigenti del Comune di Roma mai indagato? C’è poi il caso di un’altra intercettazione tra Marra e un giornalista di nome Marco che viene analizzata direttamente nell’articolo del Fatto Quotidiano a firma di Valeria Pacelli e Marco Lillo. L’antefatto è l’intervista del 5 novembre allo stesso Marra firmata da Pacelli con Antonio Massari. Il giornalista “di nome Marco” non è Travaglio, spiegano Lillo e Pacelli, ma la conversazione è ugualmente interessante: Tre giorni dopo, l’8 novembre, Marra lo racconta a un giornalista non identificato di nome ‘Marco’ che ovviamente non è Travaglio ma qualcuno amico di D’Ercole. L’anonimo Marco riferisce a Marra di essere stato chiamato dal monsignore dopo l’intervista del Fatto. MARRA SI LAMENTA con ‘Marco’ della parte in cui Massari e Pacelli gli contestano il conflitto di interesse sulla nomina del fratello, dirigente di Roma Capitale anche lui. E poi quella foto sua (di Marra) mentre parlano nel pezzo del costruttore Amore, imputato per turbativa d’asta e che secondo l’Espresso aveva ottenuto contratti nell’era in cui c’era Marra a dirigere il settore. Poi commenta la parte in cui lo incalzano fino a fargli dire della raccomandazione di D’Ercole. Marra dice a Marco di avere la registrazione del colloquio e si giustifica così: “digli (a D’ercole, Ndr) che dalla registrazione si capisce che lo sapevano già”. Alla fine, sintetizzano i Carabinieri così il commento di Marra al trattamento ricevuto: “stanno provando ad ammazzarmi”.

Dove sono finiti ora i fans di Travaglio…? “Appena la Raggi l’ha chiamato come vicecapo di gabinetto – scriveva il direttore del Fatto – è diventato il paria, l’appestato, l’uomo nero”, scrive Ghino di Tacco su “Il Corriere del Giorno” il 16 dicembre 2016. L’arresto di Raffaele Marra non è stato a tutti gli effetti un fulmine a ciel sereno. Da mesi molti addetti ai lavori, molti quotidiani nazionali, molti esponenti politici (tra cui una buona parte del M5S) mettono in evidenza, un giorno sì e l’altro pure, il passato oscuro di quello che oggi Virginia Raggi ha definito “uno dei 23mila dipendenti del Campidoglio” ma che fino a ieri difendeva a spada tratta. Tra i pochi che, invece, hanno sempre difeso il funzionario capitolino c’è il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, noto picchiatore mediatico, reinventatosi, in questo caso, paladino del garantismo. Il 17 settembre scorso, a proposito di Marra, Travaglio in un suo editoriale pubblicato sul Fatto, scriveva: “Raffaele Marra, ex finanziere plurilaureato, è un dirigente pubblico passato dal ministero dell’Agricoltura all’Unire, dal Comune alla Regione, dalla Rai di nuovo al Comune. Ha collaborato con le giunte Alemanno e Polverini, come pure con Zingaretti e di Marino, almeno finché non lo cacciavano, il che avveniva regolarmente perché troppo “giacobino” (parola di Alemanno), cioè perché denunciava un sacco di porcherie in Procura. Appena la Raggi l’ha chiamato come vicecapo di gabinetto, è diventato il paria, l’appestato, l’uomo nero. Per smorzare la tensione, la sindaca l’ha spostato al Personale. Invano: Marra continua a occupare ogni giorno una o due pagine dei giornaloni. Roberta Lombardi, in un tweet, lo definisce “un virus”? Il tweet finisce su tutte le prime pagine, col contorno di notizie inventate di sana pianta (la Raggi che chiama in lacrime Grillo e Casaleggio per chiedere protezione e minacciare di andarsene e dire sì alle Olimpiadi: telefonata mai avvenuta, lacrime mai versate, minacce mai pronunciate; o la Raggi che nasconde i pareri negativi di Cantone sulle nomine di Marra e Romeo: il parere su Marra non esiste e quello su Romeo è positivo). E dire che il Comune di Roma ne ha 200, di dirigenti, di cui 8 tra indagati e condannati, ma mai rimossi né citati sui giornali. Marra invece è incensurato, e questo forse è il problema: però il Messaggero assicura che, siccome comprò casa dal costruttore Scarpellini allo stesso prezzo stimato da una perizia della banca Barclays che gli erogò il mutuo, senza mai firmare un atto riguardante Scarpellini (all’epoca si occupava di incremento delle razze equine), “la Procura sembra voler fare chiarezza”. Ergo, è il mostro di Lochness”. Qualche giorno prima, in una immaginaria lettera scritta da Virginia Raggi, Travaglio si occupò del caso Marra segnalando che aveva sempre denunciato le illegalità in cui si imbatteva: “Molti nel Movimento diffidano di Marra e Romeo, considerandoli troppo vicini a me o fidandosi dei giornaloni che li diffamano ogni giorno impunemente. Marra è dipinto come l’uomo nero di Alemanno, mentre da dirigente pubblico ha sempre denunciato in Procura le illegalità in cui si imbatteva, inimicandosi la destra alemanniana come la sinistra pidina. Finora nessuno mi ha spiegato che cosa avrebbero fatto di male Marra e Romeo, dunque – in mancanza di novità – li confermo nei rispettivi incarichi, perché di loro mi fido e un sindaco eletto dal popolo ha tutto il diritto di scegliersi i collaboratori. Così, se farò bene, sarà merito anche mio; se fallirò, sarà tutta colpa mia”. Il destino a volte è atroce. Il braccio destro della Raggi viene arrestato proprio nello stesso giorno in cui viene scagionato dalla magistratura il papà di Maria Elena Boschi. Oggi è davvero una giornata difficile per Marco Travaglio e la Boschi dovrebbe ricevere delle scuse dal direttore del Fatto ( o Fango) Quotidiano e dei suoi “sodali” per un anno di continui e vergognosi attacchi personali. Adesso il caro Marco Travaglio dove andrà a nascondere la faccia??? Lui che ha sempre qualcosa da dire di tutto su tutti….

Ma cosa lega Marco Travaglio, la Raggi e Raffaele Marra? Negli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Raffaele Marra, emerge come il “Raggio magico” della Raggi avrebbe trovato un solido alleato in Marco Travaglio. Ritorna spesso anche il nome di monsignor Giovanni D’Ercole, del cui favore Marra sembra essere sempre preoccupato…scrive Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno" il 18 dicembre 2016. 31 ottobre del 2016, fissate bene nella vostra memoria questa data.  Raffaele Marra mentre parla al telefono con Salvatore Romeo il capo della segreteria politica della Raggi in Capidoglio appena dimessosi (o meglio scaricato) viene intercettato. I due “fedelissimi” sodali di Virginia Raggi parlano di come il Fatto Quotidiano stia trattando le vicende romane e concordano: “Stanno facendo un buon lavoro”.  Salvatore Romeo racconta di aver telefonato per complimentarsi con il direttore Marco Travaglio, proprio quando, mentre tutti gli altri giornali sono pieni di critiche rivolte alla giunta Raggi e ai suoi più stretti collaboratori, Marra e Romeo apprezzano la linea editoriale di Travaglio. Mentre tutta la stampa romana e nazionale lo attacca, in soccorso di Marra arriva il sostegno (inaspettato…?) del giornalista Marco Travaglio, ormai da tempo uno dei sostenitori più incalliti del Movimento5Stelle, travestitosi da “alleato” per l’ex finanziere che ambiva ad entrare nei servizi segreti, e ringraziamo Dio e Gianni Alemanno che non ci sia mai entrato. Il direttore del Fatto Quotidiano, sotto la cui gestione il giornale ha perso circa il 50% dei suoi lettori, li supporta attraverso i suoi editoriali, come quello del 17 settembre in cui scrive: “Raffaele Marra, ex finanziere plurilaureato, è un dirigente pubblico passato dal ministero dell’Agricoltura all’Unire, dal Comune alla Regione, dalla Rai di nuovo al Comune. Ha collaborato con le giunte Alemanno e Polverini, come pure con Zingaretti e di Marino, almeno finché non lo cacciavano, il che avveniva regolarmente perché troppo “giacobino” (parola di Alemanno), cioè perché denunciava un sacco di porcherie in Procura. Appena la Raggi l’ha chiamato come vicecapo di gabinetto, è diventato il paria, l’appestato, l’uomo nero”. In poche parole… per Travaglio, Raffaele Marra è un eroe! Il 5 novembre Marra dichiarava sempre a il Fatto Quotidiano la propria vicinanza politica: “Ora mi sento 5Stelle” ed il giornale diretto da Travaglio lo esaltava: “ha sempre denunciato in procura le illegalità in cui si imbatteva… un sindaco ha diritto di scegliersi i collaboratori”! Ma per fortuna non tutti, al Fatto la pensano come Travaglio, e stiamo parlando di Peter Gomez, direttore del sito del quotidiano, un vecchio amico ed ottimo collega che in una sua “diretta” su Facebook tra l’altro ha detto queste cose: “Virginia Raggi è stata avvertita da più parti, anche dal suo movimento, del rischio che rappresentava Marra. Poi un giorno ha avuto una notizia: questo signore ha avuto uno sconto da 500mila euro su una casa dal costruttore Scarpellini, contro cui il suo Movimento si è scagliato più volte e che considerava un palazzinaro. Allora, uno si domanda o meno di quello sconto? Mezzo milione di euro sono un sacco di soldi. Gliel’avrà fatto perché gli sta simpatico?”. Guarda caso, è sempre dalle pagine del Fatto Quotidiano che il “plurilaureato ex finanziere” Marra in un’intervista dello scorso 5 Novembre si difendeva dalle accuse “confessando” di aver chiesto alcuni anni fa una raccomandazione al monsignor Giovanni D’Ercole per poter entrare nei servizi segreti. Ma guarda un pò. Povero a chi crede che si entra per capacità e preparazione… Infatti Marra otterrà dal vescovo (ma i presti non dovrebbero occuparsi solo di anime?) le referenze per incontrare Gianni Alemanno all’epoca dei fatti ministro dell’Agricoltura per Alleanza nazionale. Esattamente dopo tre giorni dall’uscita dell’intervista sul Fatto Quotidiano la polizia giudiziaria su mandato della Procura di Roma intercetta ed ascolta una telefonata tra il Marra e un giornalista di nome “Marco” (il cui cognome viene coperto da “omissis” negli atti degli investigatori). Sarà Marco Travaglio o Marco Lillo? Una cosa è certa: i due al telefono parlano dell’intervista a Marra pubblicata sul Fatto Quotidiano. Marco il giornalista racconta a Raffaele Marra di essere stato addirittura contattato e convocato da monsignor Giovanni d’Ercole, e dice “Mi ha chiamato quattro volte, penso per parlare di te” e lo informa che “Mi ha convocato domattina per le 8 “. Travaglio nel suo editoriale di ieri, dal titolo “Resta solo il napalm”, Travaglio racconta qualcosa di più. ““Noi, quando Marra balzò ai disonori delle cronache come l’Uomo Nero della Raggi, gli chiedemmo un incontro. Si presentò con una valigia di faldoni per documentare il suo curriculum, le sue lauree e la correttezza delle sue condotte, le denunce che aveva presentato contro il malaffare capitolino. Lo avvertimmo che avremmo verificato ogni carta. E così facemmo senza trovare nulla che smentisse la sua versione… Ovviamente non potevamo intercettarlo né introdurci nei suoi conti bancari”. In effetti va ricordato: Travaglio è da sempre esclusivamente abituato a lavorare e scrivere sulle carte delle Procure e degli atti processuali. Ma il giornalismo è ben altra cosa, come ad esempio quello di Emiliano Fittipaldi dell’Espresso che a settembre del 2016 aveva svelato gli affari fra Marra e Scarpellini. Una cosa sono le fotocopie…caro Travaglio, un’altra il giornalismo d’inchiesta. Ma chi è monsignor Giovanni D’Ercole? E’ il vescovo di Ascoli Piceno. Già cardinale a L’Aquila dopo il terremoto, è noto alle cronache prevalentemente per la sua capacità imprenditoriali e di management, piuttosto che di anime.  Raffaele Marra è molto preoccupato e vuole continuare a godere dei “favori” del vescovo, al punto tale di arrivare a chiedere al giornalista “Marco” di riferire al prelato che era stato proprio lui ad aver raccontato che a farlo entrare nelle “grazie” iniziali  di Alemanno, sarebbe stato in realtà un tentativo utilizzato  nel corso dell’intervista al Fatto Quotidiano per prevenire ed anticipare ogni possibili indiscrezione ed aggiunge “tanto i giornalisti già lo sanno”. Il giornalista “Marco” invece di pensare a fare il suo lavoro, tranquillizza il Marra e gli riferisce che probabilmente la possibile motivazione della convocazione è proprio quella “di farti arrivare un messaggio”; il giornalista “Marco” anticipa al suo interlocutore telefonico quello che lui dirà su di lui (Marra) a monsignor D’Ercole e cioè che “lui è bravo” e che in realtà “l‘attaccano solo per attaccare la Raggi”. La conversazione tra i due riportata sui brogliacci dopo essere stata sbobinata dalle intercettazioni effettuata dalla Procura, procede ed i due interlocutori parlano della vicenda del fratello di Marra (Renato n.d.a) che è uno dei vice comandante della Polizia Locale di Roma Capitale, e sulle conseguenze che potrebbero arrivare da nuovo attacco giornalistico al dirigente comunale il quale potrebbe essere accusato di conflitto di interessi. Renato Marra dopo pochi giorni da vice comandante dei vigili urbani verrà promosso a Dirigente della Direzione Turismo del Comune di Roma dal Sindaco Raggi su proposta di Raffaele Marra. Una promozione che comporta un aumento di stipendio di 20mila euro. Ma chi è il giornalista “Marco” del Fatto Quotidiano con cui parla Marra? Come mai ha questo comportamento così tanto reverente con il vescovo D’Ercole, al punto tale di andare ad incontrarlo alle 8 del mattino? Come mai un giornalista così importante (Travaglio è direttore, Lillo vice direttore) è così “devoto” e disponibile con un monsignore che è soltanto il Vescovo di Ascoli Piceno nelle Marche? La domanda che alla fine occorre farsi è principalmente un’altra: come mai Marco Travaglio difende con tanto vigore un “faccendiere” che cercava la “protezione” giornalistica di Caltagirone, e che ambiva ad entrare nei servizi segreti? A queste domande, siamo sicuri non arriveranno risposte. Ed ha ragione Michele Santoro ad aver preso da tempo le distanze da Travaglio…

Chi di intercettazione ferisce...di intercettazione perisce!

Martelli: «Alla fine i moralisti finiscono alla gogna». «Chiunque faccia dell’onestà il principale, se non l’unico motivo della propria iniziativa politica, nasconde un’assenza di programmi più approfonditi”, scrive Giulia Merlo il 17 dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Nessun ritorno a Mani Pulite». Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia nel difficile biennio tra il 1991 e il 1993, analizza le inchieste che hanno gettato nel caos le amministrazioni di Milano e Roma, a partire dal rapporto sempre teso tra politica e magistratura.

Onorevole, traballano sia Milano che Roma: con Beppe Sala autosospeso e il braccio destro della sindaca Virginia Raggi arrestato. Ci sono somiglianze con il 1992 di Mani Pulite?

«Somiglianze non direi. Non vedo un’ondata di arresti scatenati da metodi di indagine alla Di Pietro, in cui il motto era «o parli o butto la chiave», con una catena di delazioni a comando provocate dalla carcerazione preventiva. Vedo però uno stillicidio continuo di indagini e accuse e una particolare devozione della nostra magistratura alle indagini sulla pubblica amministrazione. Per un verso bisogna rallegrarsene, per altro verso suscita qualche interrogativo, a fronte della mole di reati, anche più gravi, non perseguiti».

Partiamo dal caso Roma. L’amministrazione grillina rischia di crollare sotto il peso delle dimissioni di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra. Che fine ha fatto lo slogan “onestà– onestà”?

«Come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna. S’è già visto in passato: quelli che sbandieravano il partito degli onesti poi finirono nel tritacarne giudiziario e questo è vero anche oggi. Chiunque faccia dell’onestà il principale se non l’unico motivo della propria discesa politica in campo nasconde un’assenza di programmi più approfonditi. L’onestà è una precondizione e la politica è un mestiere talmente difficile e insidioso che pensare di cavarsela semplicemente restando onesti è una pia illusione».

Poi anche Milano, la sua città: Expo è stato uno dei più sbandierati successi del governo Renzi e ora rischia di essere la pietra tombale del Comune, faticosamente mantenuto dal Pd. Quali equilibri si stanno muovendo?

«La procura aveva archiviato il caso Sala, in cui non si era trovata traccia di tangenti. Per dirla con Ilda Boccassini, non c’era odor di «piccioli», ma solo una gran fretta, che ha fatto compiere anomalie. Sembra infatti che sia stato retrodatato un documento di indizione di una gara d’appalto, per poter rientrare nei termini di legge. Nei giorni di Expo, infatti, ricordo grande frenesia per arrivare con le opere compiute all’inaugurazione, smentendo i gufi del «non ce la farete mai»».

Invece la procura generale ha ritenuto di riaprire l’inchiesta…

«Che la procura generale abbia ritenuto di riaprire un caso archiviato dalla procura della Repubblica e come questo si inserisca nella lotta devastante della magistratura milanese, purtroppo è nelle carte. Del resto, è stato lo stesso Csm a tentare di sedare le lotte, legittimando Edmondo Bruti Liberati e trasferendo Alfredo Robledo. Io temo che l’iscrizione di Sala ne registro degli indagati possa essere un danno collaterale provocato da quel conflitto. Del resto, i conflitti tra magistrati sono i più accaniti e avvelenati, perché tutte le parti brandiscono il diritto, indossano la toga e sono ammantati di intransigenza assoluta, impuntata su dettagli e cavilli».

Una magistratura milanese, dunque, molto diversa da quella di Mani Pulite?

«Decisamente. Allora c’era una compattezza incredibile nel pool di Mani Pulite: anche quando – come poi si scoprirà – i giudici non erano d’accordo uno con l’altro, erano però tutti saldi nel far fronte comune contro l’opinione pubblica rispetto ai politici».

Ma anche oggi si ripete, però, un dualismo guerriero tra magistratura e politica?

«Questa è la visione manichea di Piercamillo Davigo, che parla di lotta del bene contro il male, in cui i magistrati sono tutti buoni e politici tutti corrotti».

Lei, invece, come la pensa?

«Io credo ci sia la somma di due mali. E’ vero che la corruzione in Italia alligna più che altrove che questo merita indagini e sanzioni. Se però nelle indagini si cede a eccessi giustizialisti, ecco che si somma male ad altro male: la corruzione diffusa e la repressione arbitraria».

Torna, dunque, al centro il rapporto difficile tra politica a tutti i livelli e magistratura.

Io credo che, di questo, il caso di Beppe Sala sia emblematico. Ancora non si sa con certezza se abbia ricevuto un avviso di garanzia e tutto è nato da indiscrezioni sui giornali. Quando dalle procure trapelano notizie riservate, storcendo il principio della tutela dell’indagato e del suo diritto alla riservatezza, ecco che si è già compiuto un abuso grave. Ma la violazione del segreto istruttorio è diventata un passatempo, ed anzi è strano quando ciò non avviene. Se si distrugge la reputazione dell’imputato nella fase precedente l’indagine formale, però, si altera il corso della giustizia e questo è il punto cruciale e che più interessa i rapporti tra politica e magistratura. La sentenza, infatti, può anche essere di assoluzione, ma intanto la carriera politica è già bella che finita».

L’autosospensione di Sala è una scelta politica che deriva da questa distorsione del sistema?

«Io credo che lui abbia fatto una scelta opportuna. La sua decisione fungerà da sollecito alla procura generale, perché si decida in fretta a formalizzare le accuse o archiviarle».

Il caso Roma, invece, ha delle implicazioni diverse. Raggi è sotto scacco?

«L’elemento politico di questa vicenda lo ha colto bene Giorgia Meloni, che si è chiesta se ci troviamo di fronte a incompetenza assoluta oppure a stupida malizia della sindaca Raggi. Perché ha insistito a scegliere personaggi che hanno fatto il loro curriculum amministrativo nelle passate gestioni, che in pubblico lei è stata la prima a condannare? Questo a me pare incomprensibile. Noi siamo osservatori estranei, ma anche dal suo stesso movimento in tanti l’hanno messa in guardia. La sua è stata ostinazione, ma del resto questo è un periodo in cui va di moda per sindaci ed ex sindaci non ascoltare i consigli».

Un riferimento a Matteo Renzi?

«Non ho fatto che leggere elogi per la cosiddetta «determinazione» di Matteo Renzi. Eppure io credo che ostinarsi sia un errore, non certo una qualità. E di qualità Renzi ne avrebbe molte altre».

La nuova classe dominante, scrive Piero Sansonetti il 17 dicembre 2016. È in una giornata come questa che si capisce perché la magistratura, in Italia, sta assumendo un potere sempre più sovrastante, rispetto alla politica. Per la semplice ragione che la politica non solo glielo consente ma glielo chiede espressamente. Le reazioni dell’intero schieramento politico, di sinistra e di destra, di fronte alla drammatica vicenda dell’arresto del capo del personale del Comune di Roma, sono la prova provata di quel che sto dicendo. Tutti si sono buttati a capofitto sulla notizia delle manette a un grillino nella speranza di poter lucrare qualcosa in termini di consenso politico. E tutti hanno iniziato ad usare un vocabolario sbrindellato, preso a prestito proprio dal bagaglio lessicale e dalla cultura del movimento 5 Stelle. La politica opportunista e i Pm portatori di ideologia “Dimissioni, vergogna, responsabilità collettive, colpevolezza sicura, latrocinio, eccetera eccetera”. E poi hanno iniziato a muoversi con gli stessi gesti politici – stereotipati, spettacolari, forcaioli – che ispirarono e si ispirano al vaffaday. Le scene che abbiamo visto in Campidoglio, con l’occupazione dei banchi della giunta da parte dei consiglieri di opposizione, e poi i cartelli sventolati, con la scritta “onestà”, o “trasparenza”, o cose così, francamente erano molto tristi. Del resto allo scambio di vocabolari ha partecipato attivamente il movimento 5 Stelle, il quale in un comunicato ufficiale, ieri, ha parlato di  “giustizia ad orologeria”, espressione – per altro nient’affatto infondata – carpita dal lessico del cavalier Berlusconi (e prima ancora di Bettino Craxi), e contro la quale fin qui era sempre stata scagliata furia, vituperio e indignazione di massa. Insomma, lo spettacolo non è bello. E pur senza conoscere ancora né le notizie su Raffaele Marra e neppure quelle sulle indagini aperte dalla Procura generale di Milano a carico del sindaco Beppe Sala, già sul “Dubbio” di ieri segnalavamo questo rapidissimo alternarsi di posizioni tra i partiti tradizionali e i 5 stelle. È molto preoccupante lo scambio di ruoli tra giustizialisti e (semi) garantisti perché sta lì a dimostrare un fatto semplicissimo: non esistono né forcaioli né garantisti, nella politica italiana, ma solo partiti che usano forcaiolismi e (semi) garantismi per scopi politici che non hanno niente a che fare con uno strutturato sistema di idee. E’ puro opportunismo. Per questo possono cambiar bandiera anche un paio di volte a settimana. E nel giornalismo è la stessa cosa. Basta dare un occhiata in questi giorni al Fatto dell’amico Travaglio, che – quasi colto da visione mistica nei pressi di Damasco – fa scomparire il tema degli scandali politici della prima pagina. Grazia persino l’odiato sindaco di Milano, Sala, per non essere costretto a parlar di Raggi. Bisogna dire che almeno la corrente giustizialista della magistratura, raccolta attorno all’Anm, è coerente. Ieri il presidente di Anm Davigo è tornato alla carica sempre nei panni di Savonarola: «Tutti ladri, i politici, tutti, tutti, tutti». Le proprie idee, la magistratura, le ha ben radicate, costituiscono una ideologia forte e solidamente strutturata. Forse, oggi, è l’unica ideologia che è ancora in campo nell’agone della politica. Talmente robusta da sfiorare il fondamentalismo, come avviene, per esempio, nella persona di Davigo (dichiaratamente), ma anche di altri. Credo che sia questa una delle ragioni principali per le quali la magistratura riesce a mantenere la sua superiorità e il controllo praticamente assoluto sulla politica. Non solo per ragioni di potere, e cioè per come è riuscita in vent’anni a modificare a suo favore la Costituzione materiale. Ma anche per la propria superiorità ideologica, cioè per la sua “cultura politica” che diventa un fattore di egemonia. Egemonia esattamente come la immaginava, quasi un secolo fa, Antonio Gramsci: la capacità di una classe sociale di imporre prima i propri valori, rendendoli nazionali, e solo successivamente il proprio potere. Gramsci però parlava di “classi”, nel significato marxista di questa parola. Qui invece chi crea egemonia è un ordine dello Stato. Che forse – lo dico scherzando, ma mica tanto – si è messo in testa di costituirsi in “classe”: per sostituire il proletariato sconfitto e la borghesia debole e sempre impaurita. P. S. Virginia Raggi è stata eletta dal popolo. Non ha senso chiedere le sue dimissioni perché ha sbagliato nella scelta di un collaboratore. Ha un mandato che dura cinque anni. La defenestrazione di Marino fu un colpo di mano dei partiti: non ripetiamolo. P. S. 2 Oltretutto sarebbe grazioso aspettare di capire se davvero la Raggi ha sbagliato nella scelta. Noi sappiamo che il dottor Marra è stato arrestato. Non che è colpevole. C’è sempre quell’articolino dimenticato della Costituzione (il 27) che dice che presumibilmente è ancora innocente….

Quei moralisti sommersi da inchieste. Il metodo M5S per cadere in piedi: cercare di delegittimare la stampa, scrive Giampiero Timossi, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale".  Una risata li seppellirà. Anzi, li ha già seppelliti. Chi? Tutti quelli che non si allineano con l'onda lunga grillina. E ovviamente più o meno tutti i tradizionali mezzi d'informazione. A rinfrescare la memoria sul metodo-cinque stelle ci ha pensato due giorni fa il co-fondatore, Beppe Grillo. Sono i tempi che fanno grande un comico e il leader è un grande comico: Dead man walking/dead man walking, ripeteva come una cantilena appena sbarcato a Roma, rivolgendosi ai giornalisti che lo aspettavano all'esterno e nella hall dell'hotel romano dove è solito alloggiare. Eccoli i nemici, i morti che camminano, l'informazione «faziosa e bugiarda». Grillo aveva mollato la presa, ricordate? Aveva accettato l'invito di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Era il 19 maggio di due anni fa, sembra passato un secolo. Da allora il Movimento Cinque Stelle è cresciuto, è rimasto il secondo partito alle Europee del 2014, ha conquistato città simbolo come Roma e Torino ed è stato protagonista del No al referendum che ha fatto cadere il governo Renzi. Poi però sono spuntate le inchieste: il sindaco di Parma, quello di Livorno, i pasticci e le firme false al Sud e il ciclone Roma: prima l'avviso di garanzia e l'inchiesta sui rifiuti che ha portato alle dimissioni di Paola Muraro, assessora all'Ambiente. Ora le perquisizioni della guardia di finanza in Campidoglio e le indagine sulle nomine fatte nei primi cinque mesi di mandato dalla sindaca Raggi. E allora via, sotto con le accuse all'informazione, con la volontà di delegittimare questi zombie, sempre e comunque. Grillo e Davide Casaleggio sono scesi a Roma, non vogliono che «questo casino interrompa il cammino verso un governo» 5 Stelle, ma tant'è il consenso non cambia. Chi sperava in un effetto Tangentopoli, chi credeva che magistrati e stampa potessero replicare la «rivoluzione» del 1992 è rimasto deluso. Intanto perché le differenze esistono e sono rilevanti: quello degli anni Novanta era, in buona misura, un sistema di potere con elementi di corruzione individuati e provati. Qui siamo di fronte a inchieste che sono appena iniziate. Però è probabile che sia un altro elemento a tener alto il consenso tra gli elettori pentastellati. Non bastano a spiegare il fenomeno il cortocircuito dell'informazione e la controinformazione con la quale Grillo e compagnia bombardano gli italiani, soprattutto grazie alla Rete. Oggi almeno il trenta per cento degli elettori non identifica ancora il Movimento come una forza di governo. Lo stesso meccanismo mentale ha portato Renzi (e il Pd) a sfondare il 40% delle preferenze alle Europee del 2014. In questi anni le aspettative dei cittadini non sono diminuite, malgrado la crisi che ha investito il Paese. Anzi, sono cresciute, dovendo però fare i conti con i nuovi problemi della globalizzazione: la mancanza di lavoro, i flussi migratori, la sicurezza. Gli elettori vogliono che sia chi governa a risolvere i problemi. Ma non tutti si possono affrontare senza chiedere sacrifici ai cittadini. Che, stanchi, non hanno più voglia di sopportarne altri. E allora bocciano la classe dirigente che non riesce a far uscire dai guai il Paese. Cittadini e un po' bambini E si sa: ai bimbi piace tanto ridere.

INTRODUZIONE. IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

 

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

"Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti. Il capitalismo è un'ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria. Il comunismo è la filosofia dei falliti, il credo degli ignoranti, il vangelo dell’invidia; la sua caratteristica intrinseca è la condivisione della povertà. (Lo diceva dei comunisti solo perchè a quel tempo non c'erano i grillini Ndr). Pensieri attribuiti dal web a Winston Churchill.

Quel bisogno primordiale del Capro espiatorio, scrive Daniele Zaccaria il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il giustizialismo è la traduzione politica di una pulsione profonda: tra sacrifici umani e letterari, le società espiano le proprie colpe individuando una vittima designata all'interno del gruppo, da Edipo a Dreyfus, da Gesù Cristo al signor Malaussène. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l'applauso ammorbante del "popolo", questo tutti contro uno (o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall'alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che delinea una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all'interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta, confraternita) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle corrispondenze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è la regola aurea del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell'intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l'Affaire Dreyfus, l'ebreo alsaziano ufficiale dell'esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, donne in burquini, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l'antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l'ordine all'interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all'equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l'ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L'aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l'involucro di un espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo della vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac direttore tecnico di un grande magazzino nonché "capro espiatorio di professione". Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l'incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un'epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo come è raccontato dal Nuovo Testamento: "l'agnello di Dio", letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché si ritiene colpevole di lesa maestà ma perché sa che c'è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. È uno schema ciclico, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi idoli e i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell'indignazione popolare e della calunnia collettiva. Diffamare qualcuno senza prove, additare un comportamento non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, vedere ovunque complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario incarnate dai "signori" disincarnati dell'economia, del farmaco, della guerra, della droga, della religione, dell'informazione, dell'immigrazione testimonia questo bisogno corale di costruire sempre nuovi capri espiatori. Che poi uno lo faccia al grido di "onestà, onestà" o a quello di "fuori gli immigrati" poco cambia.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma. 

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 13 giugno 2016, il sospetto terrificante: complotto contro Cav e Ratzinger. Robert Spaemann e Josef Seifert, due filosofi cattolici, amici e collaboratori di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, demoliscono l'Amoris laetitia (e il pensiero) di Bergoglio. Il cardinale Mueller definisce «eretica» l'affermazione di «uno dei più stretti consiglieri» di Bergoglio. Mentre il catto-conservatore americano George Weigel, che sta con Bergoglio, se la prende con Benedetto XVI perché è ancora «papa emerito», mentre - secondo lui - doveva tornare semplicemente vescovo. Sono fatti di questi giorni. Nella Chiesa è in corso un terremoto. Ma per capirlo bisogna partire dagli antefatti. Non era mai accaduto, in 2000 anni, che un papa iniziasse il suo pontificato dicendo: «Pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi». Per un curioso caso proprio quel papa, senza alcun grosso motivo dichiarato, poi «rinuncia» al ministero (il diritto canonico lo ammette, ma per gravissimi motivi). Tuttavia decide - primo nella storia - di essere «papa emerito», dicendo nel suo ultimo discorso: «La mia decisione di rinunciare all' esercizio attivo del ministero, non revoca questo». Fu vera rinuncia? Nel febbraio del 2014 pubblicai su Libero un'inchiesta su questa domanda e sulle cause di quella vicenda misteriosa, anche perché era evidente che Ratzinger non aveva problemi di salute. Un vaticanista andò a disturbarlo. E alla domanda sul perché era rimasto papa emerito (invece di tornare vescovo), si sentì rispondere: «Il mantenimento dell'abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c' erano a disposizione altri vestiti». La veste misteriosa - Una raffinata e ironica elusione della domanda: come si poteva credere che, invece di tornare vescovo (come di prassi), Benedetto fosse rimasto papa per motivi sartoriali? In tutto il Vaticano non c'era una tonaca nera? Una tale risposta faceva capire che, in quel momento, il papa non poteva ancora parlare e c'era un mistero. Solo ora, dopo tre anni, i veli finalmente si stanno squarciando. Il 21 maggio scorso infatti mons. Georg Gaenswein, segretario di Ratzinger, ha tenuto un'esplosiva conferenza dove ha ribaltato la «tesi sartoriale», rivelando che dal 2013 c' è un «ministero (petrino) allargato. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l'appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è "Santità". Egli non ha abbandonato l'ufficio di Pietro, egli ha invece rinnovato quest' ufficio». Inoltre siamo in «una sorta di stato d' eccezione» e quello di Benedetto è un «pontificato d' eccezione». Il fulmine di quel giorno su San Pietro? «Di rado il cosmo ha accompagnato in modo più drammatico una svolta storica». Gaenswein ha pure spiegato che Benedetto non si è dimesso per la vicenda Vatileaks: «Quello scandalo era troppo piccolo per una cosa del genere e tanto più grande il ben ponderato passo di millenaria portata storica che Benedetto XVI ha compiuto». Dunque tutt' altro che un banale andare in pensione con la veste bianca perché era nell' armadio. Oggi si scopre che si tratta di un «passo di millenaria portata storica» in cui Benedetto «non ha affatto abbandonato questo ministero». Il terremoto in corso nella Chiesa ruota attorno a questi eventi. Ma va letto all' interno di un complicato scontro geopolitico e ideologico planetario. In esso c' è anche la chiave per capire i fatti politici degli ultimi anni: l'egemonia tedesca della Ue che ha terremotato la nostra economia; la defenestrazione di Berlusconi del 2011 e l'arrivo di Monti e Renzi; la criminalizzazione e l'isolamento di Putin; il tumulto per la Brexit (forse pure il crollo del prezzo del petrolio). L'alleanza proibita - I contorni di questa guerra non convenzionale emergono ora grazie al tramonto di Obama, all' irrompere dei cosiddetti «populismi» che in Europa sono nati per reazione alla Ue tecnocratica (tedesca) e grazie al terremoto rappresentato dal successo di Trump, un corpo estraneo per la Casta americana, fatta di Democratici, di Wall Street e (alcuni) Repubblicani. In sintesi l'obiettivo strategico della Casta americana - rappresentata da Obama e dalla Clinton - è impedire che si saldi la storica alleanza fra Europa e Russia che farebbe la fortuna di entrambe: la prima ha un'enorme potenza tecnologica e industriale, la seconda è un immenso scrigno di risorse naturali. Una tale alleanza euro-asiatica, di 800 milioni di persone unite da una storia che affonda le sue radici nel cristianesimo (fortemente riscoperto nella Russia di Putin), diventerebbe inevitabilmente interlocutrice della Cina (il più grande mercato del pianeta) e produrrebbe di fatto un mondo multipolare. Gli Usa hanno cercato di far saltare questa prospettiva anzitutto destabilizzando alcuni paesi ex sovietici, in particolare l'Ucraina, sostenendo lì regimi antirussi. Poi costringendo l'Europa a imporre sanzioni economiche alla Russia per isolare Putin (sanzioni che all' Italia costano tantissimo). Infine cercando addirittura di allargare la Nato fino ai Paesi baltici, con strategie aggressive e provocatorie (come le esercitazioni militari Anaconda 2016 di questi giorni). Lo scopo è creare un corridoio che dall'Europa occidentale arriva fino all' Asia (l'Ucraina è fondamentale). Questa strategia americana presuppone però un'Europa unificata sotto la Germania, come tecnocrazia, e sotto un'ideologia «liberal» (ovvero laicista), per isolare Putin. Per conseguire tale obiettivo dovevano essere spazzati via i soggetti estranei a questo progetto. Per esempio - in Italia - quel Berlusconi che prendeva le distanze dalla tecnocrazia Ue e propagandava l'amicizia e l'alleanza con Putin. Silurato. Ieri il «populista» Nigel Farage ha fatto la «vera storia d' Europa» di questi anni in una mirabolante intervista al Corriere della Sera dove spiega come siamo diventati «una colonia tedesca». Ma uno degli intoppi per questo progetto era rappresentato anche dalla Chiesa di Benedetto XVI. Paradossalmente il papa tedesco era un ostacolo per una Ue a guida tedesca, sotto l'egemonia «liberal» obamiana. Fu prospettato a Benedetto XVI di accettare una «riunificazione ecumenica» con i protestanti del Nord Europa e del Nord America per dar vita a una sorta di «religione comune dell'Occidente». Per la Chiesa Cattolica significava sciogliersi nel minestrone del pensiero unico «politically correct». Diventando un irrilevante museo folk in un'Europa «multiculturale». A questa «dittatura del relativismo» Benedetto XVI disse no. Rispose: finché ci sono io non accadrà. Il «caso» volle che dopo un po' sentì venir meno il vigore e fu costretto a rinunciare all'«esercizio attivo» del ministero petrino (rinuncia a metà?). Dentro la Chiesa - ha spiegato Gaenswein - era in corso un «drammatico scontro» fra la fazione progressista e quanti seguivano Ratzinger nella sua lotta contro «la dittatura del relativismo». I progressisti persero al Conclave del 2005, ma, dopo la rinuncia, vinsero nel 2013. Religione imperiale - Ora papa Bergoglio ha fatto sua l'Agenda Obama. Il 18 maggio, a Washington, al Catholic-Evangelical Leadership Summit, Obama ha affermato che le chiese devono lasciar perdere i «temi divisivi» come aborto e matrimoni gay e dedicarsi al problema della povertà. L' Impero vuole una Chiesa «assistente sociale» che consola i perdenti nell' ospedale da campo dei poteri forti, ma non disturba i manovratori. La candidata Hillary Clinton un anno fa, a un convegno di femministe abortiste, ha addirittura affermato: «I codici culturali profondamente radicati, le credenze religiose e i pregiudizi strutturali devono essere modificati». Le chiese dunque devono arrendersi al laicismo «liberal» dell'Impero. Di fatto Bergoglio ha abbandonato i «principi non negoziabili». E ora lui, da sempre in ottimi rapporti con i protestanti americani, si prepara al viaggio del 31 ottobre in Svezia per celebrare Lutero e «ricucire» a 500 anni esatti dallo scisma. Prove di nuova religione imperiale? Antonio Socci

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 3 settembre 2016: "Il Papa, l'islam e migranti. Dopo secoli, così fa a pezzi la Chiesa". Proprio nelle stesse ore in cui il Viminale dava notizia di una nuova ondata migratoria all' assalto dell' Italia (oltre 13 mila in soli quattro giorni: siamo già arrivati a 145 mila migranti ospitati, quando in tutto il 2015 erano stati 103 mila), proprio nelle stesse ore - dicevo - Papa Bergoglio ha varato un nuovo dicastero sociale prendendo lui stesso - in persona - la responsabilità della sezione migranti per potenziare al massimo le sue pressioni per l' abbattimento delle frontiere d' Europa. Ormai quello dell'emigrazione, per lui, è qualcosa più di un'ossessione: è un dogma ideologico con cui sta sostituendo i bimillenari pilastri della Chiesa Cattolica. Non lo sfiora l'idea che l'emigrazione, in sé, sia una tragedia che dovrebbe essere scongiurata (sia per i paesi d' origine, sia per chi parte, sia per i paesi d' arrivo). Così come lo lascia indifferente la crisi del nostro stato sociale che ormai non riesce più a sostenere nemmeno le fasce indigenti della popolazione italiana. È indifferente pure all' enorme problema rappresentato dall' immigrazione musulmana in Europa che risulta non assimilabile ai nostri valori e a volte permeabile alla predicazione violenta o terroristica. La propaganda bergogliana per una immigrazione indiscriminata iniziò nel luglio 2013 con il viaggio a Lampedusa (che è stato preso come un invito a salpare dalle coste africane) ed è stata particolarmente devastante per l'Italia. L' ultimo numero di Limes dedicato proprio all' emigrazione, rileva la novità del 2016: «da Paese di transito siamo diventati Paese obiettivo». La rivista di geopolitica aggiunge: «L' Italia sta cambiando pelle» e «immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull' Italia senza produrvi strappi, a tessuto sociale e politico-istituzionale costante, implica l'uso di sostanze stupefacenti. Eppure proprio questa sembra la postura della nostra classe dirigente». L'asse con la sinistra - Purtroppo l'asse Bergoglio-Sinistra porta non solo a sottovalutare il problema, ma, peggio, a considerarlo positivo. A marzo scorso Bergoglio ha apertamente ammesso che è in atto una «invasione araba», ma che non è di per sé una cosa negativa. Del resto ha anche giustificato ed elogiato l'Islam in tutti i modi, assestando invece sui cattolici (e sull' Occidente) una gragnuola continua di accuse. Bergoglio sembra perseguire un progetto nichilista di distruzione delle identità dei popoli e della Chiesa stessa, nella quale assistiamo da tre anni a un radicale ribaltamento di direzione. Fino a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI - in continuità con duemila anni di tradizione cattolica - la missione fondamentale è stata spirituale (la salvezza eterna), al centro delle preoccupazioni e del lavoro della Chiesa c' è stata l'evangelizzazione (per far fronte alla scristianizzazione di interi popoli) e la difesa della vita e della famiglia, come fondamenti dell'umano aggrediti dall' ideologia moderna. Con Bergoglio sparisce ciò che è spirituale e soprannaturale e tutta la scena viene occupata dai temi mondani della rozza Teologia della liberazione sudamericana (un cattocomunismo ribollito). Bergoglio infatti intrattiene rapporti fraterni con tutti i capoccia della sinistra sudamericana, a cominciare da quel Morales che gli regalò il crocifisso su Falce e martello, per finire alla brasiliana Dilma Rousseff, appena destituita e sottoposta a impeachment (Leonardo Boff, uno dei padri della Teologia della liberazione, amico personale di Bergoglio, ha reso noto che il papa argentino ha scritto una lettera personale di sostegno alla Roussef). Ma ancor di più Bergoglio è vezzeggiato dai magnati del nuovo capitalismo americano che amano atteggiarsi da progressisti magari sostenendo le crociate più anticattoliche dell'ideologia politically correct. I paperoni laicisti - Il pellegrinaggio di questi paperoni laicisti da Bergoglio è continuo: l'ultimo in ordine di tempo è stato Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Il 22 gennaio scorso era stata la volta di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che ha portato a Bergoglio una grossa elargizione (pecunia non olet). Pure Leonardo Di Caprio il 28 gennaio si è presentato con un assegno «per opere di carità». Bergoglio aveva ricevuto anche il capo di Google, Eric Schmidt e - a fine febbraio - Kevin Systrom, fondatore e amministratore delegato di Instagram. Invece il Papa argentino ha chiuso la porta in faccia ai poverissimi familiari di Asia Bibi, la madre cristiana condannata a morte in Pakistan per la sua fede, quando sono venuti in Europa a cercare aiuto e sostegno (hanno trovato appoggio perfino in Hollande, ma Bergoglio non ha accordato loro un'udienza privata o un appello pubblico). Solo per miliardari e vip ha sempre la porta spalancata. Ma il suo sponsor più potente e discusso è il famoso speculatore d' assalto George Soros (recentemente schieratosi contro la Brexit). Considerando il tipo di cause che Soros sostiene e finanzia è sicuramente da considerarsi un nemico della Chiesa Cattolica. Proprio le sue battaglie sono venute alla luce di recente grazie ad hacker che hanno reso pubblici migliaia di documenti della sua Open Society. Si è appreso del sostegno dato alla causa dell'aborto e a quella Lgbt, infine alla lotta contro la cosiddetta islamofobia (la sua fondazione finanzia anche organizzazioni anti-israeliane). Si batte inoltre a favore dell'emigrazione in Europa da considerarsi come «nuovo standard di normalità». Infine è emerso - ma i giornali italiani lo hanno taciuto - che Soros è potentemente intervenuto perché si cambino «le priorità della Chiesa Cattolica Usa» e perché i vescovi americani si allineino a Bergoglio. Lo scopo è portare l'elettorato cattolico a votare Clinton (di cui Soros è donatore) e non Trump. Cambiare le priorità della Chiesa significa accantonare i temi della famiglia e della vita e sbandierare i temi sociali cari ai liberal, alla Sinistra. Già altri potentati nei decenni scorsi hanno cercato di influenzare cattolici e gerarchia per sovvertire l'insegnamento della Chiesa. Ma ora, per la prima volta, hanno il loro migliore alleato nel vescovo di Roma. Nella Chiesa di Bergoglio sono spariti i «principi non negoziabili» e pure su sacramenti e legge morale si assestano colpi pesanti. Mentre sono stati elevati a verità indiscutibili l'emigrazione e l'ambientalismo più eco-catastrofista. Ieri per esempio Bergoglio ha celebrato la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato. Non una giornata mondiale di preghiera per i cristiani perseguitati e massacrati, ma una giornata per la salvaguardia di zanzare e piccoli rettili di cui si preoccupa già nella sua enciclica ecologista. Sapore new age - È quella nuova «religione della terra» di sapore New age, cioè gnostico, che già ha celebrato il suo trionfo con la mostruosa proiezione di scimmioni sulla facciata di San Pietro. Nel suo messaggio per l'evento di ieri, Bergoglio chiede una «conversione ecologica». In un'epoca di grande apostasia, in cui interi popoli hanno dimenticato Dio, Bergoglio - vicario di un «Dio non cattolico» (parole sue) - chiede la «conversione ecologica», invece della conversione a Gesù Cristo. Inoltre papa Bergoglio - che evita di rinnovare il grido di dolore dei predecessori davanti a un miliardo di aborti in 20 anni - invita a pentirsi «del male che stiamo facendo alla terra», per esempio, quando non facciamo la raccolta differenziata, quando non facciamo un uso oculato della plastica e quando non utilizziamo il trasporto pubblico, ma quello privato (esempi suoi). Queste trasgressioni vanno confessate ed espiate, dice il Papa che nell' Amoris laetitia ha archiviato i peccati mortali da sempre condannati nel Vangelo. Come si vede qua il cambiamento di priorità è vertiginoso. Benedetto XVI aveva iniziato il suo pontificato tuonando contro «la dittatura del relativismo», Bergoglio in questo regime nichilista e anticristiano è invece applauditissimo. Antonio Socci

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 20 agosto 2016: il megasiluro su islam e Papa. Sberla ai cristiani che stanno con Allah. Ieri Avvenire ha pubblicato un editoriale (un editoriale esprime la linea ufficiale del giornale) e il cuore di tale editoriale è un'enormità fuori dalla fede cattolica. Purtroppo tale editoriale è firmato da un mio amico di Cl, ma bisogna essere anzitutto amici della verità, per cui - con dolore - devo rilevare che se il giornale della Cei propone una simile idea come suo editoriale, siamo a un passo dall'abisso (e anche dal ridicolo). Ecco la frase su cui l'editoriale di Avvenire costruisce tutto il suo teorema bergogliano: "Infatti, per chiunque creda - cristiano o islamico o ebreo - Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze semmai sono a riguardo dell'io". Come si vede ormai "l'effetto Bergoglio" sta dilagando. Siamo alle parole in liberà. A leggere questo editoriale del giornale della Cei infatti la fede dei cristiani e dei musulmani sarebbe la stessa e identica sarebbe la loro concezione di Dio. Ma il direttore di Avvenire, Tarquinio, che un tempo fu ratzingeriano, non ha mai sentito parlare della Santissima Trinità che è il cuore della fede cristiana e che i musulmani ritengono la peggiore delle bestemmie? nella cupola della Moschea della Roccia, costruita dai musulmani sul luogo santo degli ebrei, al posto dell'antico Tempo di Gerusalemme, campeggia una scritta che appunto nega la Trinità. L'islam in quella scritta proclama: "Dio non ha un figlio". L'islam nasce proprio dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e dalla negazione della Trinità di Dio. È il più radicale e violento attacco che si sia visto al cuore della fede cristiana. Possiamo dunque dire che non c'è differenza nella concezione di Dio fra cristiani e musulmani? È lo stesso apostolo san Giovanni a chiarire che se non si riconosce il Figlio, non si possiede nemmeno il Padre: "Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre (1Gv 2, 22-23). Mi sembra chiarissimo. Ed è ovvio che l'abissale differenza nella concezione dell'"io" (della persona), fra islam e cristianesimo, deriva proprio da un'abissale differenza nella concezione di Dio. Ad avvenire però lo ignorano. So per certo che l'editorialista ha almeno sentito parlare della Santissima Trinità e del credo trinitario dei cristiani. Tuttavia i tempi - nella Chiesa e dentro Cl - sono tali che la Verità della fede viene ormai allegramente cestinata, per dar voce alle più assurde supercazzole. Mi pare, vedendo quello che accade nella Chiesa (e anche il triste spettacolo del Meeting 2016) che si possa dire che molti "si vergognano di Cristo", come amaramente lamentò don Giussani nella sua ultima intervista. Oggi questa tendenza è diventata dominante dentro Cl e nella Chiesa. Solo come memorandum riproduco qui sotto alcuni passi della Dominus Jesus che ricordano a tutti qual è la fede dei cattolici: "Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo dalle teorie di tipo relativistico che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo". Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6), so dà la rivelazione della pienezza della verità divina: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27); "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18); "È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza" (Col 2,9-10). Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: "La profonda verità, poi, sia su Dio sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione". E ribadisce: "Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come 'uomo agli uomini', 'parla le parole di Dio' (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sè, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti, e infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'Economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo" (cf 1 Tm 6,14 e Tt 2,13). Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità: "In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il Vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso". Solo la rivelazione di Gesù Cristo quindi "immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai". Antonio Socci

Non scappano: ci invadono! Scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” Giovedì 1 settembre 2016. Ci siamo distratti con l’apocalittica tragedia di casa nostra, il drammatico terremoto del Centro Italia, e loro, farabutti, ne hanno approfittato! Quasi quindicimila sbarcati in quattro giorni. In verità, siamo andati a prenderli fin sul bagnasciuga libico e li abbiamo portati, sani e salvi fin dentro le nostre viscere. Altri quindicimila (quasi, per gli amanti della precisione) vagabondi, mantenuti e viziati. Tutti armati di smartphone e agenda di indirizzi dei migliori hotel disponibili sul suolo italico. Quelli dove si dorme e si mangia bene, dove le piscine sono piene e funzionanti, le SPA attive anche nella sala massaggi, la vista è confortevole e romantica. Quelli collegati con la navetta col Centro città o che hanno vicino le villette da svuotare, gli anziani da violare e rapinare, magari uccidere. Quelli buoni, dove c’è il wifi che funziona. Noi ci dedichiamo ai nostri Italiani morti sotto le macerie dell’ira di Dio, facciamo quadrato sui loro bisogni mettendo mano al portafogli, e lo Stato e l’UE, tartassando noi, si occupa dei clandestini: li coccolano e li vezzeggiano come fossero graziadiddio! Non può andare avanti così! Non può essere che questa Italia, questa Europa, vengano invase senza colpo ferire da interi popoli di furbastri con la fedina penale incerta… Forse sporca. Magari sporchissima. La maggior parte di questi codardi non scappa da Paesi in guerra. Non lascia madre, sorelle, mogli e figlie, in pericolo di stupro, schiavitù e morte. E se lo fa, è merda umana! La maggior parte di questa teppa è chiamata a cancellare secoli di lotte operaie, contadine, sociali. Viene a rompere il mercato del lavoro, l’organizzazione sociale, i progetti per l’avvenire. Viene a radere al suolo tutta l’emancipazione femminile, fino a riportarla al medioevo della sua storia. La maggior parte di questi carichi di carne umana non sa nemmeno perché deve venirci, in Occidente. Sa solo che deve venire a pisciare per strada, cagare ai giardinetti, spacciare droga, sfruttare la prostituzione, fare da cane da guardia per la mafia. O ci rendiamo conto che dobbiamo scendere in piazza e cominciare a fare barricate, oppure è finita. La nostra Civiltà è finita…Fra me e me. 

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

Siamo un Paese in ostaggio degli scioperati. Se vogliono ci fanno tornare al Medioevo. 

Mario Cervi il 13 luglio 1979 tuona contro le serrate selvagge che cancellano luce, acqua e trasporti, (pubblicato su “Il Giornale” il 28/08/2016) per dimostrare che mai nulla cambia. Gli italiani possono ancora nutrirsi, dissetarsi, viaggiare sia pure irregolarmente in treno e in aereo, ricevere sporadicamente la posta, telefonare, solo perché gli scioperanti di questa o quella categoria, nella loro autonoma valutazione, decidono di consentirglielo: non perché esiste uno Stato che sappia o voglia garantire ai cittadini i beni e gli strumenti essenziali alla vita di ogni giorno. Quando i dipendenti degli acquedotti lo deliberassero mancherebbe l'acqua, così come è mancata l'energia elettrica perché l'hanno deliberato i dipendenti dell'Enel. II precedente delle luci tolte alle piste di Fiumicino ha fatto scuola. Non abbiamo più addetti ai servizi pubblici. Abbiamo i proprietari dei servizi pubblici, che possono disporne come di «cosa loro». Una categoria malcontenta si sente autorizzata a sequestrare il Paese, per ottenere soddisfazione. Quando non le pare sufficiente la sua pressione diretta sulla controparte - nella quale sta l'essenza dello sciopero - dilaga, blocca strade, ponti, stazioni: preannunciando queste azioni, che sono reati, con appositi comunicati, e facendole seguire da dichiarazioni sindacali che si assumono la «responsabilità politica» del sopruso. Se ancora non basta si ricorre al contagio, ossia agli scioperi di solidarietà, i lavoratori della Malpensa hanno interrotto il traffico per un'ora e mezzo, in segno di simpatia per i compagni metalmeccanici. Non hanno voluto infierire. Potevano interromperlo, se gli pareva, per un giorno o per una settimana. Questa tecnica schiude possibilità infinite. Il buio degli elettrici non metterà subito in ginocchio l'Enel? Potranno intervenire allora i dipendenti delle poste e dei telefoni, per aggiungere al buio l'isolamento totale, e costringerci a comunicare con messaggi recapitati magari a piedi o in bicicletta se per avventura si associassero al grande ricatto i ferrovieri e i benzinai. Una volta stabilito che l'Italia, priva di una legge che regolamenti lo sciopero, ha un codice penale caduto in desuetudine perché polizia e magistratura rinunciano ad applicarlo, senza il previo consenso dei sindacati; una volta stabilito che il governo, di fronte a questi avvenimenti, non vede (forse per il black-out) non sente e non parla, cos'altro resta da fare se non affidarsi alla benevolenza degli scioperanti? Siano magnanimi. Lascino un po' di energia elettrica e qualche strada transitabile a questo popolo di ostaggi. 13 luglio 1979

Dopo la maturità i figli non trovano lavoro? Cari genitori, mandateli a fare i politici. L'ironia di Marchi sul "mestiere migliore del mondo": l'unico senza responsabilità, scrive Cesare Marchi l'8 agosto 1981 (Pubblicato su “Il Giornale” il 26/08/2016). L'estate è tempo di vacanze ma anche di importanti decisioni familiari. II ragazzo ha finito le scuole, superato la maturità. Che mestiere gli faremo fare? Se mi è permesso dare un consiglio, suggerirei ai genitori incerti: carriera politica. È il più bel mestiere del mondo. L'unico dove non esista la responsabilità personale; dove, se le cose vanno bene, ci si impadronisce del merito, se vanno male, si scarica la colpa sugli altri. Il politico bocciato alle elezioni non resta disoccupato, non entra in cassa di integrazione, tutt'al più in una delle tante Casse di risparmio, come presidente o vice. Non viene mai silurato, bensì «promosso ad altro incarico», perché la politica è la sola branca dell'attività umana esente dalle ferree leggi della logica. Per esempio, in Francia i comunisti hanno preso una sonora batosta alle elezioni, perciò sono entrati nel governo con ben quattro ministri. In Italia i repubblicani, alle amministrative, non hanno guadagnato punti, perciò hanno ottenuto la presidenza del Consiglio. Il politico è sottratto alle leggi del tempo. Durante un incendio, un vigile del fuoco aziona immediatamente le pompe, un chirurgo, se gli presentano una gamba cancerosa, la amputa prima che sia troppo tardi. Un politico, davanti all'Italia che va in malora, chiede una «pausa di riflessione». In questo mestiere non esistono problemi di mobilità. I politici sono mobilissimi, pronti a balzare da un ministero all'altro, da un ente a una banca, spinti soltanto dal desiderio di impratichirsi nei molteplici e delicati settori dell'amministrazione pubblica. Grazie alla brevità dei governi e alla acrobatica rotazione dei portafogli, nessun Paese vanta dei politici specializzati, come i nostri, in tutto. Passando dalla Marina alle Poste, dai Trasporti ai Beni culturali, dall'Agricoltura alla Sanità, essi, in pochi mesi, sanno tutto sugli incrociatori e sulle raccomandate, sui Tir e sui bronzi di Riace, sui pomodori e sulle endovenose. Certo, per dare stabilità all'esecutivo, bisognerebbe creare dei governi composti di duecento ministri e ottocento sottosegretari, così tutti i mille parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama entrerebbero nel gabinetto ed avremmo non un governo di legislatura, bensì di vita natural durante, perché nessuno dei mille voterebbe la sfiducia contro se stesso. Sento l'obiezione di un genitore: mio figlio non sa parlare, come può tenere comizi? A parte il fatto che i comizi non usano più, per parlare in pubblico basta il foglietto preparato dallo zelante segretario. La stragrande maggioranza, senza foglietto, non arrischia due parole in croce. Meglio così, sarebbe una crocifissione straziante. Ad ogni modo, per fronteggiare qualunque emergenza orale, l'aspirante politico tenga presente questo prontuario di «ministrese» ottimo, come lo specifico di Dulcamara per tutti gli usi. Se non sa che cosa dire, tiri fuori il modello partecipativo che presuppone l'accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, in una visione totalizzante, enucleando, nel quadro di una tematica differenziata, l'annullamento di ogni ghettizzazione stratificante. Oppure per risolvere i problemi prioritari, porti avanti un approccio programmatorio, in una impostazione organica delle strutture verticistiche che privilegi, non senza il consenso della base, un modello di sviluppo, a monte e a valle della situazione contingente, in un contesto, beninteso, di iniziative cogestite e, al limite, autogestite. Chiaro? Il politico gode anche l'impagabile beneficio dell'incoerenza. Vota l'istituzione delle Saub ma se ha bisogno di cure si fa ricoverare in clinica privata. Vota anche la liberalizzazione degli accessi universitari, ma appena si accorge di quanto sia declassata, anche per colpa sua, la scuola italiana, manda il figlio a studiare all'estero. Insomma egli può, legittimamente, predicar bene e razzolar male. Raramente rispetta le leggi approvate da lui. Un commerciante, se dice al fornitore, scadutogli un pagamento: non ho soldi, torna fra sei mesi, perde la faccia. Il governo può rinviare il pagamento degli arretrati già pattuiti con gli insegnanti e non perde la faccia. Forse perché non ne ha mai avuta una. Ultimo vantaggio. Per ottenere un diploma alla fine delle scuole medie superiori, 350mila studenti hanno sudato l'anima. I politici non sono sottoposti a nessun esame di maturità politica. E dove li troveremmo, del resto, adeguati esaminatori? L'aspirante geometra deve dimostrare alla commissione di saper disegnare il progetto di una casa, calcolare la resistenza di un pavimento. I politici, sanno calcolare la resistenza degli italiani? In sfiduciosa attesa di una risposta, mi piace immaginarli, per un attimo, seduti in aula, per la prova di italiano, si può scegliere fra alcuni temi. Uno di questi dice, pressappoco «esponete i maggiori avvenimenti politici e sociali che hanno caratterizzato il periodo fra le due guerre mondiali». Non so come lo svolgerebbero gli altri, ma quello di Giovanni Spadolini comincerebbe sicuramente così: «Tra le due guerre mondiali sono nato io». Cesare Marchi 8 agosto 1981

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Figli di...La pancia della politica, scrive Cristina Cucciniello il 22 ago 2016 su “L’Espresso”. Da molti anni, trovo ridicola la reverenza del contro sinistra italiano verso uno sparuto gruppo di famiglie ritenute portatrici sane del gene dell'ortodossia sinistroide. Cognomi, famiglie, alberi genealogici che - per un motivo o l'altro - vengono ritenuti i capisaldi dell'aristocrazia della sinistra italiana, perché alla loro origine ci sono personaggi che - mi ripeto - per un motivo o l'altro hanno contribuito alla storia stessa della sinistra italiana: partigiani, intellettuali, giornalisti, scrittori, membri delle Camere durante le prime legislature repubblicane. Perché trovo ridicola la reverenza, perfino il sussiego, con i quali - tutt'oggi - vengono trattati i discendenti, gli eredi di cotanti pedigree? Beh, perché la sinistra in Europa nasce come un anelito all'eguaglianza - sociale, civile. Nasce come il superamento dei privilegi delle elite, che in altri secoli hanno coinciso con i privilegi di nascita: noi sappiamo che la nostra società, quella occidentale, ha vissuto secoli in cui nascere nobile o nascere figlio di contadino, servo della gleba, comportava un bel po' di differenze nel successivo svolgimento della propria esistenza. Sappiamo che, in altre epoche, nascere nobile - e benestante - significava poter accedere all'istruzione, alla cultura, alla possibilità di viaggiare ed ai diritti politici. Ma la sinistra nasce proprio dal bisogno, dal desiderio, dalla speranza di consentire a chiunque l'accesso ai diritti fondamentali della persona. Nasce come un atto rivoluzionario: dal riconoscimento che siamo eguali e che non importa il cognome che portiamo, la famiglia dalla quale proveniamo, il censo della nostra cerchia familiare. E questo spiega la profonda ridicolaggine - oggi, nel 2016, nel XXI secolo - del riverire totem, del provare reverenza verso l'aristocrazia che ha preso il posto di quella di origine feudale, nel pantheon dei riferimenti culturali della sinistra italiana. Abbattuti i troni, spodestati re, principi e principesse, la sinistra italiana ha ancora bisogno dei suoi aristocratici, probabilmente perché orfana di figure carismatiche contemporanee. Non mi provoca stupore vedere i vari fronti del Partito Democratico rincorrersi nella gara a chi ha in squadra il "figlio di" più famoso, nella battaglia referendaria. Posso soltanto ridere dei renziani che si appuntano sul petto la medaglia dell'endorsement della figlia di Palmiro Togliatti e dei componenti della minoranza del partito che cercano una papessa straniera nei molti rami della discendenza Berlinguer. Posso riderne perché io - che, se scorro il mio albero genealogico, posso vantare di discendere da Costanza di Chiaromonte, che da regina di Napoli si ritrovò dapprima a dover lavorare, perché ripudiata, e poi sposa, come nella migliore delle favole, di un vero principe azzurro - dicevo, io oggi, grazie alle rivoluzioni dei secoli scorsi, posso vantare di essere eguale fra gli eguali, cittadina di una repubblica democratica, parlamentare. Posso vantare di non aver privilegi di nascita e di essere elettore di uno schieramento che - in barba alla logica, al raziocinio, alla sua stessa origine e natura - ancora osanna chi, per banale casualità, porta un cognome particolare.

Berlinguer papessa del Pd? Soltanto un fuoco d'estate, scrive Francesco Damato il 21 ago 2016 su “Il Dubbio”. Bianca, il giornalismo è il suo mestiere. Prima di andare in ferie Bianca Berlinguer ha avuto la conferma del vecchio adagio popolare col quale siamo sempre stati invitati a guardarci più dagli amici che dai nemici, dai quali ultimi già cerca di proteggerci il Signore. Già difesa troppo pelosamente da giornali e giornalisti di area di centrodestra che da una parte ne hanno lamentata la sostituzione al vertice del Tg3 e dall'altra Le hanno praticamente rinfacciato il cognome che porta, come per dire che a suo tempo arrivò alla Rai perché figlia di un certo papà, si è trovata per un po' di giorni candidata addirittura a segretaria del Pd: per sostituire al prossimo congresso, ordinario o anticipato che sarà, l'odiato Matteo Renzi. Al quale si è attribuita, a torto o a ragione, la responsabilità politica della sua sostituzione alla direzione del telegiornale della terza rete della Rai. Una ritorsione alla grande, diciamo così. L'idea di una simile candidatura, per quanto Bianca Berlinguer fosse stata già prenotata pubblicamente dall'azienda per altri programmi d'impegno e di visibilità sulla stessa rete televisiva, è stata lanciata per primo da Il Fatto Quotidiano con un articolo di Fabrizio d'Esposito. Che si è spinto a prospettare una disponibilità dell'ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, in verità mai esplicitata davvero, a non candidarsi più al congresso contro Renzi nel caso di una corsa dell'ex direttrice del Tg3. Poi sono arrivate interviste dell'ex presidente del Pd Gianni Cuperlo, a La Stampa e ad altri giornali, su una "Papessa straniera", con esplicito riferimento proprio a Bianca Berlinguer, capace di rivitalizzare il maggiore partito italiano. Dove la sinistra non sarebbe riuscita a trovare ancora la personalità giusta da contrapporre a Renzi. Contemporaneamente un incontenibile, come al solito, Carlo Freccero, consigliere d'amministrazione della Rai indicato dai grillini, in una intervista a Il Foglio ha teorizzato il diritto di "strumentalizzare" tutto nella lotta al segretario del Pd: anche la vicenda della "rimozione" della Berlinguer dalla direzione del Tg3, pur essendo - ha riconosciuto Freccero - l'avvicendamento previsto, e direi fisiologico dopo una direzione durata sette anni. Strumentalizzazione per strumentalizzazione - ha fatto capire Freccero - starebbe bene anche una candidatura, a questo punto, della Berlinguer alla guida del partito di cui probabilmente è elettrice, forse anche iscritta. L'interessata ha sapientemente resistito ad ogni tentazione di commentare le cose che si scrivevano e di dicevano di lei, limitandosi a ricordare a chi l'assillava di domande di avere sempre considerato il giornalismo "il suo mestiere". Il silenzio di Bianca Berlinguer ha probabilmente, e opportunamente, contribuito a spegnere il dibattito, spiaggiato sulle cronache ferragostane di tutt'altro segno e contenuto. Ne ha in qualche modo tratto le somme su la Repubblica Claudio Tito liquidando la discussione su Papi e Papesse "straniere" per il Pd come l'ennesimo diversivo di una sinistra interna al Pd in cerca d'autore e d'identità. Un modo come un altro - ha scritto forse non a torto Tito prendendosela, in particolare, con Gianni Cuperlo - per cercare di segare le gambe al povero Roberto Speranza. Che probabilmente è troppo amico di Pier Luigi Bersani per piacere alle altre componenti della minoranza antirenziana del partito. È stato insomma un fuoco d'estate. Estinto per fortuna da una giornalista che anche sotto questo aspetto non meritava e non merita di vedere strumentalizzati il proprio cognome e la propria vicenda professionale.

Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge lasinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.

Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.

Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela,  l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…

I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.

Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.

Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film. 

Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».

I centri sociali sono un cancro da estirpare con la forza, scrive il 19 agosto 2016 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Centri sociali. Centri a-sociali, una piaga di questo paese figlia della borghesia dello status quo, sono da iscrivere al novero dei nemici della nazione. Quindici anni fa era la torrida estate del 2001, quando il 20 luglio morì, per mano del carabiniere ausiliario Mario Placanica, Carlo Giuliani. Il fondale Piazza Alimonda, protagonista la berretta del militare dell’Arma che esplose due colpi. Due colpi misero fine alla generazione “ingenua” dell’antifascismo scriteriato e intriso d’odio perorato da cobas, pacifisti, antagonisti, black bloc e c.s. assortiti. La Superba sconvolta dalla furia distruttiva di chi ha poco sale in zucca e come unico fine politico quello di spaccare vetrine ed incendiare auto, quelle di normali lavoratori, di cittadini italiani lontani anni luce dalle dinamiche del G8. Anch’essi vittime delle scelte dei pochi potenti che ci opprimono attraverso il loro cappio. Qual è il vero scopo di queste persone? Nei loro comunicati, nelle loro parole, nei loro gesti di fondo notiamo un astio viscerale verso l’Italia. Sputano sulle nostre città, si isolano in contesti lontani dalla legalità per tendere la mano agli extracomunitari a cui già l’UE e le Boldrini varie pensano in maniera ossessiva. Il brodo culturale da cui sono partoriti è un ammasso di Mtv e cantanti sbiaditi, in cerca di autore, che rispondono al nome di Banda Bassotti, Punkreas, 99 posse e Assalti Frontali. Si potrebbe citarne altri, ma sono spariti dai radar insieme alle loro battaglie di retroguardia. In quel luglio l’intento era di mostrare i muscoli contro le Forze dell’ordine, gettarsi in una battaglia per distruggere Genova, l’Italia e se stessi. La morte celebrale di individui che sputano sul seno della madre che li ha allevati. Serpi contro Roma. In quel contesto, tra i manifestanti, erano presenti alcuni dei governanti d’oggi, Alexis Tsipras, leader di Syriza e primo ministro greco, e Pablo Iglesias, segretario del partito spagnolo Podemos. Quelli che per una vita si sono dipinti come vittime del sistema, oggi sono i boia a guardia della struttura, a guardia dell’Europa di Bruxelles quella che schiaccia il loro tanto “amato” proletariato. Da Genova migriamo a Parma, anno 2010. Una giovane, allora ventenne, mantovana venne attratta nei locali della Rete Antifascista Parmigiana, centro sociale della città ducale, e dopo essere stata drogata venne ripetutamente violentata da più persone. Per questo fatto quattro persone sono agli arresti domiciliari, oltre a questo orrendo misfatto, molti antifascisti locali hanno cercato tramite sms e messaggi su Facebook di tappare la bocca alla ragazza. Tappargli la bocca per non far rilevare agli inquirenti nuovi dettagli arrivando, addirittura, a cercare di far ritrattare completamente la sua versione dei fatti. Il pm Giuseppe Amara ha aperto un nuovo corridoio all’interno dell’inchiesta facendo comparire in aula altre quattro persone con le accuse di estorsione e favoreggiamento. Una modalità d’azione cara a mafiosi, con pratiche di ricatto bieche e vergognose. Uno dei loro ispiratori Peppino Impastato, fondatore di Radio Aut, morto colpito dalla mano di Cosa Nostra per le sue denunce al sistema mafioso italiano, costretto a rigirarsi nella tomba. Come dimenticare la vile aggressione perorata ai danni di un banchetto elettorale di CasaPound, durante le scorse elezioni comunali tenutesi a Roma, quando un gruppo di cinquanta antifascisti armati di caschi e bastoni aggredì sei militanti del movimento della tartaruga frecciata. Nel corso dell’aggressione restarono feriti un invalido ed una donna. Il ragazzo disabile subì la rottura dello zigomo e venne operato d’urgenza. Il senso di fare politica dei centri sociali è quello di aggredire chi non la pensa come loro, coperti da certe istituzioni che li coccolano e ne chiedono i voti durante le campagne elettorali. Impossibile non citare il caso del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, pappa e ciccia con i militanti di Controllo Popolare. Anche Roberto Saviano ha dovuto ammetterlo via mezzo stampa: “Nel suo comizio riferendosi alle scorse elezioni nel capoluogo campano ha addirittura utilizzato l’immaginario preunitario, ‘Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro’. A tutti è sembrata un’ingenuità. Invece de Magitris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica”. Per accompagnarvi facendovi immergere nell’ideologia della radicale di sinistra, quella distante mille miglia dai lavoratori, basta ascoltare le parole pronunciate in questi giorni dal deputato di Sel, Arcangelo Sannicandro, inerenti ai tagli degli stipendi dei politici. L’onorevole è arrivato ad affermare “non siamo mica metalmeccanici”. Questo è il quadro. Il loro specchio riflette l’immagine del capitalismo più sfrenato, dell’uomo come numero a difesa dei propri privilegi, capitanati da un individualismo completamente dissoluto. Del resto basta prendere Milano per capire. Un articolo, apparso lo scorso anno, su MilanoPost ci aiuta a farci un’idea su cosa siano realmente i centri sociali: “Frutta agli occupanti riferendosi al Leoncavallo un rispettabile introito, valutato circa 20.000 euro a week-end, rigorosamente in nero, tra pranzi, chupito, aperitivi, concerti, ristorazione e alloggio. Perché il giovane emarginato, il rappomane sfigato, il “ggiovane tatuatissimo”, il clandestino, lo studente fuori corso, il giramondo no global consumano. Niente Siae, niente biglietti, niente fatture: si entra con una “offerta libera”. Tutto è low cost, ma gli incassi sono da capogiro. Ne sanno qualcosa gli imprenditori della notte del Cantiere, la nave scuola del vandalismo e dell’antagonismo dei black bloc chic, che girano ormai in Mercedes e ostentano Rolex da Costa Smeralda”. In tutto questo quante attività commerciali distrutte, quanti beni di comuni cittadini dati alle fiamme, da Milano a Palermo, da Roma a Cremona, un via vai di inutilità atte solo alla rovina del patrimonio altrui. Ma alla fine questa gente paga i danni che combina? Quasi mai, le istituzioni soprassiedono, si voltano dall’altra parte chiudendo gli occhi. Chi rompe paga, mi hanno insegnato da bambino, eppure con queste persone non succede mai. Sono una sorta di ente sovranazionale che si muove con logiche astruse, il solo fine quello di punire quelli che i loro padri gli hanno indicato di difendere. Tra sfratti evitati ai clandestini, aggressioni, stile malavitoso nel modo di relazionarsi con il mondo, i centri sociali sono diventati teatranti nel gioco della parti. Non servono a nulla e ci ricordiamo di loro solo quando spaccato tutto, in preda all’isterismo. Per non parlare di quando affrontano incappucciati, come veri codardi, armati di caschi e bastoni le Forze dell’ordine. Quest’ultimi devono essere umiliati, presi a sputi e a botte da gli omuncoli dei centri sociali, nient’altro che figli viziati di papà senza attributi per affrontare una vita onesta e senza conoscere cosa sia il sacrificio. I veri eroi, in tutto questo, sono i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri a cui lo Stato non dice nemmeno grazie. Anzi vuole cucirgli sulla divisa un numero identificativo, così da poter essere riconosciuti durante le spietate aggressioni che subiscono e qualora ferissero uno di questi delinquenti, dovrebbero essere riconosciuti e magari puniti o addirittura risarcire il criminale di turno ferito nella colluttazione. Ma vi rendete conto come siamo caduti in basso? Questa gente deve pagare quando viene arrestata, pagare i danni che ha combinato e deve marcire in galera, imparando in maniera dura ed irreprensibile cosa vuole dire distruggere i beni altrui. Qualcosa che con sacrificio e rinunce la gente per bene ha acquistato e che questi criminali da strapazzo, lo fanno solo per hobby, distruggono senza motivo. Offendono e sputano contro questo Stato che ai livelli più bassi cerca disperatamente di combatterli con le poche forze e i mezzi che ha a disposizione, per inciso Forze dell’ordine e magistratura. Ma ai livelli più alti, in Parlamento, esprime la precisa volontà di non punirli. Dunque mi chiedo perché nessuno ha mai, fino ad ora, varato delle leggi ad hoc per fermare, con il pugno di ferro, questi veri e propri criminali da strapazzo? In troppi sono collusi con gli antifascisti che si credono intoccabili.  

Quei tossici che hanno in mano la nostra vita. Medici, piloti e manager al lavoro sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o alcol. Ecco i pericoli che nessuno racconta, scrive Cristina Bassi, Lunedì 22/08/2016, su "Il Giornale". Un'operazione a cuore aperto, i comandi di un volo di linea, il futuro di centinaia di lavoratori: affidarli a una persona drogata o ubriaca equivale a un suicidio collettivo. Eppure ci sono categorie professionali più a rischio di altre per l'abuso di alcol e l'uso di sostanze stupefacenti. Sono medici, piloti, manager. Ma anche infermieri, controllori di volo, gruisti, conducenti di camion, autobus e treni. Cos'hanno in comune? Fanno lavori molto stressanti e hanno in mano la vita di altre persone. Non se ne parla. Si tratta di argomenti tabù, anche all'interno delle stesse categorie. E non ci sono, almeno in Italia, statistiche ufficiali sul fenomeno. Il velo sta appena cominciando ad alzarsi da ospedali e sale operatorie, rivelando che le professioni mediche sono tra quelle più colpite. Studi internazionali, negli Stati Uniti ma anche in Paesi europei come Spagna, Germania e Inghilterra, parlano del 12 per cento circa di operatori sanitari che hanno problemi - abuso oppure vere e proprie dipendenze - con alcol, droghe, farmaci, gioco d'azzardo. Nel nostro Paese una ricerca di Dianova International (del 2012) stima un dottore su dieci. Numeri, comunque, preoccupanti. Nasce da qui il Progetto Helper di Torino, un centro per la disintossicazione e la cura di medici affetti da dipendenze. L'idea è partita da don Paolo Fini, che da anni si occupa di recupero dei tossicodipendenti nel Centro torinese di solidarietà, e dal professor Augusto Consoli, capo del Dipartimento dipendenze della Asl Torino 2, in collaborazione con l'Ordine provinciale dei medici. Ma perché serve una clinica «speciale» per dottori? «Medici e infermieri - spiega la dottoressa Tiziana Borsatti, consigliera dell'Ordine e referente del progetto - sono pazienti difficili da gestire. Prima di tutto perché sono convinti di potersi autocurare. Poi perché hanno bisogno di un luogo dove isolarsi e dove ci sia privacy assoluta e l'anonimato sia garantito. Non possono permettersi che si sappia del loro problema o che qualcuno li riconosca al Sert. Diventerebbe uno stigma». La dottoressa, anestesista rianimatrice, ha incontrato colleghi che abusavano di sostanze. «Mi chiedevano aiuto - dice -, ma soprattutto di mantenere il segreto. È un fenomeno negato per anni. Helper oggi è un servizio indispensabile». I più colpiti sono chirurghi, anestesisti, psichiatri, medici di pronto soccorso, ginecologi. Con i cali di organico hanno turni sempre più duri. Non possono sbagliare nulla, sono sotto pressione continua, a contatto quotidiano con la sofferenza e la morte ma anche con le sostanze «proibite». Un dottore si prepara da solo la dose e crede di poterne gestire gli effetti. I veleni più utilizzati sono alcol, cocaina e psicofarmaci. Le conseguenze sono errori e conflittualità nelle équipe. I medici devono poi fare i conti con il rischio burn-out, la sindrome da «esaurimento emotivo» che colpisce chi lavora con il pubblico. Tra i dottori (il dato è nordamericano) c'è un tasso di suicidi doppio rispetto al resto della popolazione. Tra le donne medico, che spesso sopportano anche il peso della famiglia, il tasso è addirittura quadruplo se confrontato con la popolazione femminile. Aggiunge Borsatti: «Per il nostro centro, la cui apertura è prevista per il 2017, c'è già una lista d'attesa di persone interessate. Mi hanno contattato medici da altre regioni, sono gli stessi che oggi sarebbero costretti a farsi assistere all'estero». La struttura fornirà all'inizio un servizio ambulatoriale, poi anche di ricovero. Sono pronti la sede (l'indirizzo è segreto) e lo staff formato da medico internista, psichiatra, psicologo, infermieri. Mancano i fondi per partire. «La Regione Piemonte - conclude la consigliera dell'Ordine - è l'unica realtà a livello nazionale ad aver approvato un progetto come questo. Ed è pronta a creare le condizioni e le sinergie con le altre istituzioni per accompagnarlo e sostenerlo». Gabriele Gallone, medico del lavoro, ha l'incarico di svolgere i controlli tra i colleghi. «I professionisti della sanità - ammette - sono più esposti al bere problematico e all'assunzione di droghe. Il lavoro che fanno è uno dei fattori scatenanti dell'abuso di sostanze. Per questo occorre uno sforzo maggiore per aiutarli». La normativa che regola le verifiche sui dottori è diversa per ogni regione. «In alcune - continua Gallone -, come Veneto, Toscana, Lombardia, Piemonte i controlli sono frequenti. In Piemonte facciamo test anti alcol a campione direttamente nei reparti, a sorpresa. Ci presentiamo con l'etilometro e il tasso alcolemico deve risultare pari a zero. È quasi sempre così: gli accertamenti hanno un effetto deterrente. Alcuni medici segnalati subiscono anche esami del capello e del sangue». Se qualcuno risulta positivo, viene preso in cura dal Sert e ha diritto a sei mesi di astensione retribuita dal lavoro per curarsi. «Per le droghe - sottolinea l'esperto - è molto diverso. Non sono previsti controlli di questo tipo». Le legge elenca le categorie per cui i test anti droga sono obbligatori. Ci sono tra gli altri piloti, addetti a fabbriche di esplosivi, manovratori di muletti, conducenti di mezzi pubblici. «Non ci sono i sanitari - conclude il medico -. Si tratta di una lacuna da sanare. Anche se a mio avviso negli ospedali gli stupefacenti sono meno diffusi dell'alcol. In 12 anni di servizio non ho incontrato alcun caso di uso conclamato». Per i piloti, in Italia i test anti alcol e anti droga sono severi. Semmai c'è disparità tra le nostre regole e quelle degli altri Stati, pure europei. Anche se dopo il disastro Germanwings del marzo 2015 l'Agenzia europea per la sicurezza aerea lavora a un giro di vite. «La responsabilità dei controlli è della compagnia, che li affida a un medico competente spiega Antonello Furia, responsabile Funzione medica aeronautica dell'Enac. Vengono prelevati campioni di urine e rilevato il tasso alcolemico, con un preavviso molto breve, entro le 24 ore». Al pilota positivo l'Enac blocca l'idoneità al volo in attesa di accertamenti. Questo però avviene solo per le compagnie italiane, ogni Paese ha le proprie regole. Ma un pilota impiegato dove i test non si fanno può mettere a rischio passeggeri, scali e cieli italiani. «L'Agenzia europea continua Furia pensa di introdurre verifiche obbligatorie alla prima visita di idoneità e dopo ogni incidente grave o minore». Il lavoro di pilota comporta enormi carichi di stress e fatica. «Tuttavia sottolinea Ivan Viglietti, responsabile di categoria della Uil da noi la normativa è molto più severa che altrove, gli accertamenti sono rigidi e funzionano. Piuttosto mi preoccuperei della quantità e della qualità del riposo che oggi viene lasciato ai piloti». Non ci sono statistiche sui manager che fanno uso di droghe. Solo ricerche sulle sostanze più usate contro lo stress da chi guida un'azienda. In testa cocaina, alcol, antidepressivi, benzodiazepine come Tavor e Valium per la loro proprietà calmante, anfetamine e Ritalin, che aumentano le capacità cognitive. Tutte a elevato rischio di dipendenza e condannate dalle associazioni di categoria: «In particolare dichiara Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale dell'Associazione per la direzione del personale chi si occupa di risorse umane è un punto di riferimento per gli altri manager. Da qui la condanna di tutte le dipendenze per chi deve gestire persone e tutelare il loro benessere sul posto di lavoro».

Poi, per questi addirittura, non è previsto il testo psico-attitudinale. (Adnkronos 1 dic. 1997) - ''Buon senso ed equilibrio sono per un magistrato qualità più importanti della preparazione giuridica, perchè quando alla preparazione si unisce la mancanza di equilibrio i guasti possono essere devastanti''. Così il giudice di Cassazione Ferdinando Imposimato a Torino per presentare il volume del presidente del deputati del Ccd Carlo Giovanardi ''Storie di straordinaria ingiustizia'', interviene sulla proposta di sottoporre i giudici a visita medica obbligatoria. ''Credo - ha aggiunto il giudice di Cassazione - che sia giusto, senza nessuna offesa per i magistrati, prevedere che l'ingresso in magistratura di una persona sia preceduto da un esame psico-attitudinale che del resto si fa per chi vuole entrare in Polizia, nei Carabinieri e nella Finanza. Poi -ha concluso Imposimato - c'è il problema della verifica ricorrente, poichè bisogna verificare le capacità di intendere e di volere di una persona che deve essere dotata di equilibrio prima ancora che di preparazione giuridica''. Di diversa opinione il procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena che, a margine di un convegno organizzato dalla Sinistra giovanile torinese per discutere sulla bozza Boato, ha osservato: “il magistrato è un uomo, non un superuomo e io non sono dell'opinione che bisogna criminalizzare una categoria. Debbo dire che nell'ambito del pubblico impiego, dall'insegnamento alla sanità, è opportuno avere la sicurezza dell'equilibrio delle persone. Credo però che non si possa fare, all'interno del pubblico impiego, una differenziazione tra una categoria e l'altra anche se ci devono essere dei meccanismi che siano in grado di rimediare situazioni che si dovessero creare come per esempio maggiori tipi di controllo”.

Cossiga: «Test psichico per i magistrati». È polemica. Protesta Oscar Luigi Scalfaro: «Viviamo in un'epoca di continui attacchi ai giudici», scrive “Il Tempo” il 07/12/2003.  E si scontra con un altro presidente della Repubblica, il suo successore Oscar Luigi Scalfaro. Materia del contendere: i magistrati. Cossiga propone di sottoporre i candidati al concorso in magistratura ad un preventivo «esame psichiatrico e psico-attitudinale». Il senatore a vota ha anche presentato un disegno di legge in base al quale anche i magistrati già in servizio potrebbero essere sottoposti allo stesso tipo di esame medico. «L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero - scrive il Cossiga nella relazione al ddl - incide così profondamente e talvolta irreversibilmente sui diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera». Dunque, chi venga dichiarato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente non sarebbe ammesso al concorso. Inoltre, in qualunque momento il Csm, «di sua iniziativa o su richiesta del Ministro della Giustizia, del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione o di un Procuratore Generale della Repubblica presso una Corte d'Appello, può sottoporre qualunque magistrato all'esame psichiatrico e psico-attitudinale». Sarebbero nominato dal Csm i componenti di questa commissione medico-psicologica, il cui giudizio «deve esser valutato, e respinto o approvato, dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura». Chi venga giudicato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente è dichiarato decaduto e collocato in pensione o sospeso dall'esercizio delle funzioni e collocato in aspettativa, al termine della quale è di nuovo sottoposto a visita medico-psicologica». Un paio d'ore dopo aver presentato la proposta ha riferito di aver ricevuto una telefonata anonima da parte di un sedicente magistrato «dopo la trasmissione della relazione del testo del disegno di legge sul modo di risolvere i problemi della capacità mentale e dell'attitudine psichica di coloro che aspirano a diventare magistrati o di coloro che già fanno parte dell'ordine giudiziario». Arriva poi la la protesta di Scalfaro: «È un'epoca di attacchi continui a giudici e magistrati», afferma l'ex Capo dello stato anche lui magistrato. «È un'epoca di sortite con valutazioni antropologiche dissennate. E poi c'è un'ansia, servendosi della forza di una maggioranza che conosce sono l'ubbidienza cieca, una volontà ferrea di sottrarsi ad ogni costo al giudizio del magistrato, a cui un cittadino comune non può invece sottrarsi», dichiara ancora Scalfaro che, pur senza far riferimenti precisi, ha fatto chiare allusioni alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti. L'ex presidente della Repubblica ha parlato anche di «una maggioranza in certi momenti decisamente servile, che vota con entusiasmo una legge che serve a uno solo, non ad altri...». Scalfaro ha partecipato ad un convegno in ricordo dell'ex capo del pool di Palermo Antonino Caponnetto, morto un anno fa. Alla manifestazione c'erano anche altri magistrati tra i quali Gian Carlo Caselli, Piero Luigi Vigna, Gherardo Colombo, Piero Grasso.

Si drogava in tribunale. Per il magistrato solo una sospensione, scrive Qelsi Quotidiano il 12 novembre 2015. In qualsiasi altro luogo di lavoro, lo avrebbero licenziato. Lui, però, nonostante si drogasse in servizio, e all’interno di un Tribunale, ha avuto come pena un anno di collocamento fuori ruolo dalla magistratura. L’incredibile vicenda è stata raccontata dal sito Calabria Web Oggi: Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come “chance” di recupero, considerato che il giovane magistrato, F.S., è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All’epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all’esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, il magistrato era accusato di “aver violato l’obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio”, poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia “riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale” al punto che, si legge nel capo d’incolpazione, “continuava a dimenarsi e a farneticare”, facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il “regolare svolgimento del servizio”. Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l’accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la “rilevante recidività” e l’esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria”.

Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza. Scrive Manuela D’Alessandro su “Giustiziami” l'11 maggio 2015. Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto. Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze, ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte.

La carriera serena dei pm, paghe alte e scatti automatici, scrive “Il Dubbio” il 17 ago 2016. Gli scatti di anzianità sono automatici per tutti, a parità di anni di servizio non c'è differenza tra un procuratore capo e un suo sostituto. Un primario non va oltre i 4.200 euro netti. «Non faccio beneficenza, sono un giudice, ho diritto a quei soldi. Chi critica il mio stipendio conduce una battaglia contro tutta la magistratura e dovrà vedersela con l'Anm!». Queste dichiarazioni di fuoco, rilasciate da Carla Romana Raineri, neo capo di gabinetto del sindaco di Roma, a proposito del suo compenso da 193mila euro l'anno, suscitano fra i comuni mortali la curiosità di conoscere quanto guadagnano effettivamente i magistrati italiani. Diciamo subito che lo stipendio di un giovane magistrato vincitore di concorso, quello che un tempo si chiamava uditore e adesso invece magistrato ordinario in tirocinio, è di circa 2.400 euro netti al mese. Per tredici mensilità. Gli aumenti sono ogni quattro anni, coincidenti con la valutazione di professionalità. Cioè il momento valutativo sull'operato del magistrato compiuto dal Csm. Dopo i primi quattro anni si raggiungono circa 3.600 euro. All'ultima valutazione di professionalità, la settima, quindi dopo 28 anni dalla nomina, si arriva a 6.900 euro netti. Il massimo si raggiunge dopo i 35 anni, con 7.500 euro. Discorso a parte per il primo presidente della Cassazione che ha un emolumento a sé. Cifre importanti, che dovrebbero garantire l'indipendenza del giudice dai condizionamenti esterni. Insomma, non farsi corrompere. Fra i dirigenti pubblici i magistrati sono, dunque, quelli con la busta paga più alta. Più dei prefetti o dei professori universitari, tanto per fare qualche esempio. Il problema, però, non è tanto l'importo in sé dell'emolumento delle toghe, che per i motivi sopra esposti è anche giustificato, ma il criterio con cui questo stipendio viene erogato. Come si è visto, il passaggio da una classe economica a un'altra avviene in maniera automatica. In forza del solo trascorrere del tempo. Le valutazioni di professionalità, infatti, sono positive per il 99,6 per cento delle toghe. Praticamente tutte. Lo stipendio del magistrato rappresenta dunque un importo fisso e invariabile. Non essendo legato in alcun modo alla quantità e qualità delle funzioni svolte o al tempo impiegato a svolgerle. Non contempla neppure lo straordinario, non avendo il magistrato vincoli di orario. Considerando, poi, che i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni, lo stipendio di un giudice del dibattimento è identico a quello del pm, sempre a parità di anzianità e valutazione di professionalità. Ma c'è di più. Lo stipendio, per citare un magistrato conosciuto, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è uguale a quello di un suo sostituto con la sua stessa anzianità di servizio e la medesima valutazione di professionalità. Quindi il dirigente dell'ufficio non ha, come gli altri dirigenti della pubblica amministrazione, un riconoscimento per la particolare funzione svolta. E non ha neppure delle indennità legate al raggiungimento di determinati risultati, ad esempio se ha diminuito l'arretrato o ha pianificato una best practice che permetta un miglior funzionamento dell'ufficio. Trattandosi di un argomento assai delicato, ovviamente, nessuno ha pensato di mettere all'ordine del giorno una riforma di questo meccanismo retributivo. Che andava però bene il secolo scorso. Nell'attuale società, in cui con la riforma Madia del pubblico impiego è previsto anche il licenziamento per i dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, una riflessione sul punto sarebbe opportuna. Anche per valorizzare concretamente chi merita. Può essere comunque utile un raffronto con i medici ospedalieri e la loro retribuzione. Che, per un camice bianco appena assunto, è di circa 2.200, di poco inferiore dunque a quella di un giudice fresco vincitore di concorso. Ma ai 3.600 euro spettanti a un magistrato già dopo i primi 4 anni, un medico Asl ci arriva a stento a metà carriera. E un primario non supererà mai i 4.200 euro netti al mese, neppure col massimo dell'anzianità. Si ferma dunque poco oltre la metà di una toga arrivata al top della retribuzione. Entrambi dipendenti pubblici, entrambi con enormi responsabilità, entrambi con una professionalità molto alta (forse quella di alcuni medici è la più alta professionalità tra tutte le possibili professionalità), ma con regimi stipendiali che sembrano appartenere a due Stati diversi. Forse dipende anche dal fatto che è diverso, molto diverso, il potere che possiedono.

"Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali". Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli, scrive Marco Patarnello il 5 agosto 2016 su “La Repubblica”. In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti. "Caro direttore, l'opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell'importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un'attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent'anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un'analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un'impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l'economia di un territorio o anche dell'intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un'impresa, anche se si trattasse di denaro dell'Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso".

Crac bancari, giustizia non è fatta: quelle indagini fra sospetti e conflitti di interesse. I processi ai banchieri hanno tempi lunghi. E rischiano la prescrizione. Ma il problema non sono solo i tempi. Ci sono episodi più gravi. Negli atti spuntano infatti rapporti con magistrati che gettano ombre sulle attività giudiziarie. Assunzioni, favori, regali. Da Vicenza e Treviso, per arrivare a Palermo. Ecco i nomi, scrive Vittorio Malaguti il 17 agosto 2016 su "L'Espresso". Il processo? Non si può fare. Ad Ancona, i pm della Procura cittadina vagano da tre anni nel labirinto del crac di Banca Marche, un disastro da un miliardo di euro che ha travolto i risparmi di 50 mila famiglie. La lista degli indagati è lunga, 36 nomi, ma le accuse più pesanti riguardano l’ex direttore generale Massimo Bianconi, al vertice dell’istituto dal 2004 al 2012. È lui, secondo la ricostruzione dei commissari inviati da Bankitalia, l’uomo che ha dato le carte al tavolo di un poker affollato di bari e truffatori. Ebbene, poche settimane fa, per la prima volta dall’inizio delle indagini, un magistrato è stato chiamato a decidere se mandare alla sbarra Bianconi. Niente da fare. Il 9 giugno, l’udienza sul rinvio a giudizio del manager si è conclusa con un nulla di fatto. Motivo: nel fascicolo del procedimento depositato dalla Procura mancavano alcuni documenti. Il caso di Ancona non è un’eccezione. Nell’anno nero del risparmio, le polemiche sulla giustizia lenta si sommano a quelle sui controllori distratti, Bankitalia e Consob, capaci di intervenire solo per raccogliere i cocci. Nelle Marche come in Veneto, da Vicenza a Treviso, e poi ad Arezzo e a Genova, le indagini sui banchieri rischiano di affondare nelle sabbie mobili dei sospetti e dei veleni. I magistrati sono chiamati a esplorare una zona grigia di favori e complicità. Le inchieste delle procure tentano di smontare sistemi di potere consolidati nel tempo. Sistemi di cui spesso, come risulta dalle carte, gli stessi magistrati erano parte integrante. Ad Ancona il rinvio deciso a giugno riguarda un filone di indagine marginale. Una storia di presunte mazzette che l’ex direttore generale avrebbe incassato per dare via libera ai finanziamenti richiesti da due imprenditori, Vittorio Casale e Davide Degennaro, anche loro indagati. Il danno stimato si aggira sui 15 milioni: poca cosa nel calderone di Banca Marche, affondata in un mare di affari sballati. Se ne riparla a ottobre. Solo che, nel frattempo, i reati contestati a Bianconi rischiano di andare in prescrizione prima di approdare in tribunale. Intanto, il popolo degli sbancati, migliaia di famiglie che hanno perso i loro soldi nel tritacarne gestito da Bianconi, assiste rassegnato alla corsa a ostacoli della giustizia. Sono passati più di tre anni da quando, nella primavera del 2013, la Procura di Ancona aprì un fascicolo sulla disastrosa gestione dell’istituto marchigiano. A ben guardare, però, si scopre che già nel 2010 e nel 2011 gli ispettori della Vigilanza avevano segnalato ai magistrati irregolarità e omissioni nella gestione dell’istituto marchigiano. Nulla si mosse, all’epoca. Fino a quando, dopo il ribaltone al vertice e l’uscita di scena di Bianconi (con tanto di buonuscita milionaria e lettera di encomio), i pm scesero finalmente in campo. Ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, l’inchiesta della procura si è frantumata in cinque filoni. Quello principale per bancarotta, aperto dopo la formale dichiarazione d’insolvenza dell’istituto nel febbraio scorso, è alle prime battute. E gli altri riguardano aspetti secondari nella complicata vicenda di un crac da 1,1 miliardi di euro. A ottobre potrebbe arrivare il primo verdetto, ma solo perché Giuseppe Fornasari, ex presidente dell’istituto aretino, insieme a Luca Bronchi, già direttore generale, e all’ex dirigente Davide Canestri, saranno processati con il rito abbreviato per ostacolo alla Vigilanza su uno specifico affare immobiliare. Ben altri saranno i tempi dell’indagine che punta ad accertare le responsabilità del fallimento della banca. Un’indagine che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Proprio gli incroci pericolosi con il governo hanno finito per creare nuovi intralci in un’inchiesta già di per sé complicata. Nei mesi scorsi, Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo e titolare delle indagini sul dissesto della banca cittadina, è stato costretto a difendersi davanti al Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) per gli incarichi di consulenza ricevuti dalla presidenza del Consiglio ai tempi di Enrico Letta e mantenuti anche quando a Palazzo Chigi è approdato Matteo Renzi. Il verdetto è di fine luglio. «Tutto regolare: non c’è incompatibilità». Il pm potrà continuare a indagare sul padre di un ministro del governo di cui è stato consulente. Intanto, sono trascorsi più di tre anni da quando, nel 2013, gli ispettori di Bankitalia avevano formulato i primi pesanti rilievi sulla gestione dell’istituto. Nel novembre scorso, con l’azzeramento di Banca Etruria deciso dal governo, migliaia di azionisti e obbligazionisti hanno perso per intero il loro investimento. Le proteste e le manifestazioni di quei giorni sono un ricordo. Quel che resta sono centinaia di esposti dei risparmiatori che attendono giustizia. A Treviso e dintorni invece, decine di cittadini sono tornati in piazza il 2 agosto per brindare all’arresto di Vincenzo Consoli, un tempo riverito gran capo di Veneto Banca. Sui social network è partito il tormentone: «Perché Consoli sì e Zonin no?». Una storia parallela, quella dei due banchieri, ex potenti finiti nella polvere. Anche Gianni Zonin, già presidente della Popolare di Vicenza, è sotto inchiesta per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, gli stessi reati che al suo ex collega di Veneto Banca sono costati un’ordinanza di custodia cautelare. Nella città del Palladio, il capo della locale Procura si è fatto scudo di un’ovvietà: «Ogni inchiesta fa storia a sé», ha scandito il magistrato Antonio Cappelleri. Difficile affermare il contrario, in effetti. Intanto però i pm di Vicenza si sono tenuti ben stretto il fascicolo che riguarda la Popolare. Treviso invece, competente per territorio su Veneto Banca, ha ceduto il passo a Roma, con la motivazione che il reato di ostacolo alla Vigilanza della Banca d’Italia si è consumato nella capitale. Una rinuncia, quella di Treviso, disseminata di imbarazzi. Soprattutto da quando, nei mesi scorsi, sono emersi i rapporti tra Consoli e il colonnello Giuseppe De Maio, comandante della Guardia di Finanza trevigiana fotografato in Brasile, all’epoca dei mondiali 2014, mentre brinda con il banchiere. Al vaglio del Csm è finita anche la posizione di Michele Dalla Costa, il magistrato che dal 2013 guida la procura di Treviso. Sua moglie si chiama Ippolita Ghedini e lavora nello studio di famiglia insieme al fratello Niccolò, parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi in tanti processi. Gli accertamenti su Dalla Costa riguardano incarichi professionali che la signora Ghedini avrebbe ottenuto dal gruppo Veneto Banca. Del resto anche Giuseppe Schiavon, fino al 2012 presidente del tribunale di Treviso, era in rapporti più che cordiali con Consoli. Amicizia a parte, nelle settimane scorse Schiavon si è trovato nella spiacevole situazione di dover giustificare i regali ricevuti nel 2009 e nel 2010 dall’istituto con base a Montebelluna. Regali da migliaia di euro: una mountain bike, un orologio in oro bianco. «Non ho mai chiesto o ricevuto alcun compenso da Veneto Banca», ha tagliato corso il magistrato quando gli è stato chiesto di questi omaggi. Polemiche, veleni, sospetti: questo è il clima che circonda l’inchiesta su Consoli. Non è una sorpresa, allora, che la procura di Treviso abbia deciso di farsi da parte. A Vicenza, invece, Zonin continua a giocare in casa. In passato, i procedimenti a suo carico si sono invariabilmente chiusi con un nulla di fatto, mentre il banchiere vignaiolo, forte di una rete impressionante di relazioni nel mondo della politica, dell’alta burocrazia, della finanza e dei giornali, si è costruito la fama dell’intoccabile. Solo ora che il suo regno è finito, qualcosa si muove. Il Csm ha aperto un’indagine per chiarire le motivazioni che hanno portato all’archiviazione di due inchieste giudiziarie, che risalgono al 2001 e al 2008, a carico dell’allora presidente della Popolare. Sono già stati chiamati a deporre il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, e il procuratore capo Cappelleri. Dei pm che all’epoca si occuparono di quei casi, solo uno, Stefano Furlani, è ancora al lavoro nella città berica e adesso rischia il trasferimento. Tutti gli altri hanno cambiato sede o sono andati in pensione. E qualcuno, chiusa la carriera in magistratura, ha trovato una sistemazione a libro paga della banca vicentina. “L’Espresso”, nel febbraio 2015, ha rivelato il caso dell’ex pm Antonio Fojadelli, che nel 2014 è entrato nel consiglio di amministrazione di Nordest sgr, una società di gestione del risparmio controllata dalla Popolare di Vicenza. Nel 2002 l’allora procuratore Fojadelli chiese, e alla fine ottenne, l’archiviazione di un’inchiesta su Zonin. A distanza di anni il magistrato, da tempo in pensione, si è accomodato su una poltrona offerta dal banchiere su cui aveva indagato. Caso vuole che lo stesso Fojadelli, una volta lasciato l’incarico a Vicenza, sia approdato nel 2003 a Treviso, dove all’epoca regnava Vincenzo Consoli, patron di Veneto Banca. Dopo otto anni nella nuova sede, arriva la pensione e, nel 2014, Fojadelli accetta l’offerta della Popolare di Vicenza. Si ignora quali siano le sue competenze in materia di risparmio. Sta di fatto che anche adesso che la stella di Zonin è tramontata, l’ex pm risulta ancora amministratore di Nordest sgr. Stesso discorso per un altro magistrato come Manuela Romei Pasetti, che nel 2012 è entrata nel consiglio di Banca Nuova, controllata palermitana della Popolare Vicenza. Pochi mesi prima della nomina, Romei Pasetti aveva lasciato la toga come presidente della corte d’Appello di Venezia, competente anche su Vicenza. In quegli anni l’istituto palermitano, all’epoca guidato dal direttore generale Francesco Maiolini, aveva arruolato una schiera di dipendenti dai cognomi eccellenti: parenti di politici e di alti burocrati locali. Una lista in cui non mancavano figli e consorti di magistrati. Tra questi anche il figlio di Francesco Messineo, fino al luglio 2014 capo della procura di Palermo. E poi Germana Cupido, moglie di Ignazio De Francisci, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, e Margherita Milone, nuora di Leonardo Guarnotta, che nel 2015 ha lasciato l’incarico di presidente del tribunale palermitano. Nessun reato, salvo prova contraria, ma talvolta gli intrecci tra finanza e giustizia alimentano i peggiori sospetti. È successo a Genova, dove nel 2014 è stato arrestato Giovanni Berneschi, fino all’anno prima dominus assoluto di Carige, un’altra banca di provincia finita nei guai. Nelle carte dell’inchiesta sono emersi i rapporti tra Berneschi e alcuni magistrati, come l’ex procuratore capo Francesco Lalla e il giudice Roberto Fucigna. Entrambi, risulta dagli atti, avevano bussato alla porta del banchiere per ottenere favori di vario tipo. Proprio in quegli anni diverse indagini sul sistema Carige erano state archiviate. Una proprio da Fucigna. Solo nel 2013 comincia l’inchiesta che porterà alla caduta di Berneschi. A capo della procura però non c’era più Lalla, ma Michele Di Lecce, un magistrato venuto da fuori.

Popolare di Vicenza, Gianni Zonin arruola il pm che aveva indagato su di lui. Il magistrato in pensione Antonio Fojadelli è ora consigliere di una controllata dell'istituto, la Nordest sgr. E non è l'unica ex toga nel gruppo, scrive Vittorio Malaguti il 23 febbraio 2015 su "L'Espresso". All'epoca, correva l'anno 2002, la vicenda fece grande scalpore a Vicenza. L'uomo più potente della città, il banchiere Gianni Zonin, sotto inchiesta per falso in bilancio e conflitto d'interessi. E un giudice, il gip Cecilia Carreri, che ordina l'imputazione coatta dell'indagato eccellente sconfessando apertamente l'operato del pm Antonio Fojadelli, che invece aveva chiesto l'archiviazione. La vicenda giudiziaria, assai intricata, è arrivata al capolinea solo nel 2005 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del presidente della Popolare di Vicenza. A distanza di un decennio, però, le strade di Zonin e del pm che indagò su di lui sono tornate a incrociarsi. Alcuni mesi fa, infatti, Fojadelli, classe 1939, è stato nominato amministratore di Nordest sgr, una società che gestisce alcuni fondi d'investimento controllata al 100 per cento dalla Popolare di Vicenza. Nel frattempo il magistrato è andato in pensione, chiudendo la carriera a fine 2011 con i gradi di procuratore capo a Treviso. L'anno successivo l'ex sostituto procuratore vicentino aveva tentato lo sbarco in politica candidandosi senza successo a sindaco di Conegliano Veneto in una lista di centro sinistra appoggiata dal Pd. Nel 2014 è arrivata la chiamata della banca presieduta da Zonin. Fojadelli, peraltro, non è l'unica toga arruolata dal gruppo creditizio veneto. Nel consiglio di Banca Nuova, l'istituto con base a Palermo controllato dalla Popolare di Vicenza, siede da più di due anni Manuela Romei Pasetti. Ovvero l'ex giudice, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, coinvolta nell'inchiesta sulla gestione di Finmeccanica dell'ex amministratore delegato Giuseppe Orsi. Secondo l'accusa, Romei Pasetti, che era presidente dell'organo di vigilanza del gruppo pubblico, avrebbe fatto pressioni sul Csm per ostacolare le indagini del pm milanese Eugenio Fusco, distaccato a Busto Arsizio per condurre l'indagine su Finmeccanica. Da qui il coinvolgimento nell'inchiesta. Il nome di Romei Pasetti (questa volta non indagata) è tornato alla ribalta delle cronache l'anno scorso con l'inchiesta veneziana sul Mose, per le sue telefonate (intercettate dagli investigatori) con l'ex numero due della Guardia di Finanza, il generale Emilio Spaziante, che ha già patteggiato una pena di quattro anni.

Concordia, la rabbia dei naufraghi francesi: "Rubati i nostri beni di valore". "Soldi e gioielli mai restituiti. Sparite le casseforti". La compagnia replica: "Il relitto era sotto sequestro giudiziario", scrive Anais Ginori il 5 settembre 2016 su “La Repubblica”. Alcuni dei sopravvissuti francesi al naufragio della Costa Concordia denunciano il furto dei loro beni di valore, gioielli, soldi e apparecchi elettronici lasciati nelle casseforti delle cabine nella fuga precipitosa la sera del 13 gennaio 2012. Secondo Anne Decré, responsabile del collettivo che rappresenta 390 dei 450 naufraghi francesi della Concordia, le casseforti presenti in ogni cabina e il loro contenuto sono "misteriosamente spariti". Quattro anni e mezzo dopo, al termine del lungo percorso di smantellamento della nave, la Costa Crociere ha finalmente rispedito ad alcuni passeggeri gli oggetti ritrovati e consegnati all'armatore dalla Guardia costiera. Ma secondo i naufraghi francesi mancano all'appello molte cose. L'accusa del collettivo è che qualcuno se ne sia impossessato durante le operazioni di recupero o di smantellamento del relitto. "Nelle cabine sul ponte superiore stranamente sono sparite tutte le casseforti", nota la responsabile del collettivo francese che ha lanciato la polemica con un'intervista al Parisien, intitolata Saccheggi a bordo della Concordia. Negli anni passati ci sono già state diverse denunce per segnalare intrusioni non autorizzate a bordo della nave. Costa Crociere respinge ogni responsabilità, argomentando che, nei due anni in cui la nave è rimasta incagliata all'isola del Giglio, il relitto era sotto sequestro giudiziario e poi è stato venduto a un consorzio per lo smantellamento a Genova. "Tutte le operazioni di recupero dei portavalori sulla nave sono state effettuate dalla Guardia costiera italiana, sotto la vigilanza del tribunale di Grosseto", aggiunge Costa Crociere in un comunicato. Inoltre, secondo l'armatore, le strutture del ponte 6 "sono state disperse in mare, comprese le casseforti". Una società è stata incaricata di ritrovarle, ma finora "solo qualcuna è stata recuperata". La maggior parte dei passeggeri francesi ha già accettato un risarcimento danni per la perdita di oggetti durante il naufragio: il valore forfettario offerto dalla compagnia è stato di circa 11mila euro. "È una somma che prevedeva però la restituzione dei beni presenti nella cassaforte", sottolinea Decré, che denuncia anche una certa confusione nell'invio dei beni, con errori di destinatari, e il mancato ritrovamento delle valigie dei passeggeri che pure si vedevano nelle immagini all'interno del relitto. Al di là del valore economico, aggiunge, c'è anche un valore affettivo. Una passeggera sostiene di aver visto tre anelli appartenuti alla nonna nelle fotografie presentate da Costa Crociere tra gli oggetti ritrovati, senza averli poi mai riavuti indietro. Un altro francese che era a bordo della Concordia ha raccontato di aver riavuto la macchina fotografica, ma non la collana di perle e gli orecchini di brillanti lasciati in cabina. "L'incompetenza di Costa è pari a quella del suo comandante", accusa la titolare del collettivo francese, chiedendo un nuovo risarcimento pari ai beni scomparsi.

GLI ITALIANI DI OGGI. TRA LADROCINIO E MALEDUCAZIONE. Galateo? Le buone maniere non sono più di moda. Oggi sei un cafone se non dici parolacce. Il galateo alla rovescia di Cesare Marchi irride i costumi scostumati del tempo, Scrive Cesare Marchi il 2 luglio 1980 (Pubblicato da "Il Giornale" il 10/08/2016). "Cambia il mondo e con esso il galateo. In tram non si cede più il posto alle signore, avendo esse ottenuto, assieme ai diritti dell'uomo, anche i doveri, compreso quello di stare in piedi. Nemmeno ai vecchi si cede più il posto, essendo per costoro ingiurioso affronto l'essere considerati tali, anzi ci sono dei vegliardi che vestono abiti giovanili, a tinte sgargianti, per camuffare l'inesorabile carta d'identità, mentre a loro volta i giovani, per distinguersi da questi pseudo coetanei, si invecchiano artificialmente con zazzere beethoveniane e barbe mosaiche. Ci si dà subito del tu. Chissà come esulterà nella tomba l'anima di Achille Starace apprendendo che è stato finalmente abolito il «lei», traguardo che una volta si raggiungeva solo dopo anni di guardinga, reciproca conoscenza, e reciproche, discrete indagini, presso i carabinieri o il parroco, l'uno all'insaputa dell'altro, per scoprire eventuali macchie del reciproco passato. E il fatto che dopo trent'anni di matrimonio i nostri nonni, i nostri genitori, usassero anche nell'intimità il lei, era la prova che quegli accertamenti non si erano ancora conclusi. Per abituare i ragazzi a mangiare composti, senza appoggiare i gomiti al tavolo, si infilavano sotto le loro ascelle due monetine. Se alla fine del pranzo non erano cadute, diventavano loro proprietà. I bambini parlavano solo se interrogati. I grandi avevano sempre ragione. Nei collegi-bene certi vocaboli erano proibiti, una educanda fu punita per aver scritto, nel tema, che il cavallo rinculò. Frequenti cartelli intimavano vietata la bestemmia e il turpiloquio, cose oggi tollerate se non addirittura incoraggiate. Un teologo ha scritto che la bestemmia è una, sia pur rabbiosa, invocazione al cielo, una sorta di «preghiera capovolta» (alla stessa stregua si potrebbe affermare che quel teologo è «ateo travestito»). Abbattuti i tabù puritani, il turpiloquio è entrato nella conversazione di tutti i giorni, e le signore nei salotti gli hanno spalancato le braccia, con l'entusiasmo dei neofiti, e le parolacce da trivio, fino allora costrette a rifugiarsi nei cessi, quasi non volevano credere ai loro occhi vedendo correre verso di sé, e accoglierle da pari a pari, letterati, intellettuali, poetesse, capintesta Cesare Zavattini, quello che si firma con due zeta. Una volta chi diceva le parolacce era un anticonformista, oggi lo è chi non le dice. Ma, ancora una volta, l'inflazione ha rovinato tutto. Pessimi amministratori del nostro patrimonio turpiloquente, lo abbiamo dilapidato col dissennato abuso; le parolacce che, ai tempi del proibizionismo, avevano lo stordente e raro profumo dei fiori del male, si sono svuotate di significato. Si sono, come dicono i semiologi, desemantizzati. Tornasse a vivere il grande Cambronne, visto lo spreco che si è fatto del suo vocabolo, al nemico che intima di arrendersi griderebbe «ciclamino». Queste considerazioni (stavo per dire preambolo, altro vocabolo inflazionato) mi sono state suggerite dalla lettura del libro di Giovanni Mosca «Il nuovo galateo», scritto dall'inesauribile umorista per colmare una lacuna, diventata negli ultimi tempi sempre più preoccupante. Infatti per quattro secoli funzionò quale indiscusso manuale di comportamento il famoso Galateo, trattato di buone maniere dedicato da monsignor Giovanni Della Casa all'amico Galeazzo Florimonte. Ma dopo l'ultimo dopoguerra le cose sono cambiate, la società ha subito tali mutazioni che quel codice non serve più. Anzi, è pericoloso seguirlo. Della Casa, per esempio, esorta ad evitare l'esagerata adulazione, la affettata umiltà, condanna il servilismo, il conformismo. Ma chi vuol fare carriera, difficilmente rinuncia a queste scorciatoie, tanto deplorevoli moralmente quanto redditizie professionalmente. A tempi nuovi, galateo nuovo. E qui la fantasia dell'umorista si scatena ondeggiando tra la satira graffiante, la serena ironia contemplativa e l'umorismo astratto, funambolico del vecchio Bertoldo. Ecco qualche perla. Il nudo, oggi tanto di moda, è espressione di libertà? «Niente di più falso. Abramo Lincoln, che della libertà fu uno dei più grandi campioni, abolì la schiavitù rimanendo sempre completamente vestito». Desiderate combinare qualche scherzo telefonico? «Mai telefonare a personaggi universalmente stimati probi e onesti, fingendosi carabinieri che li accusano di peculato e concussione: tali scherzi possono riuscire mortali, perché sono proprio gli uomini che reputiamo al di sopra di ogni sospetto, quelli che maggiormente si dedicano al peculato e alla concussione». In salotto non dite mai «non c'è denaro che possa comprarmi», «io dico pane al pane e vino al vino, sono un uomo tutto d'un pezzo», bensì «sono disposto a farmi corrompere anche per una modica somma», «quello che debbo dire mi guardo bene dal dirlo», «ho sempre cambiato idea», «se vado a testa alta è solo per l'artrosi». Così guadagnerete la stima e le fiducia da tutti, e tutto il mondo dirà «è uno dei nostri». Alle mostre di pittura, mai domandare che cosa il quadro rappresenti, e se per caso non sia stato appeso per il rovescio. Quanto agli omosessuali, non giudicateli anormali: «Sono semplicemente una minoranza che domani, diventando maggioranza, potrebbe capovolgere la situazione e gettare noi nel ghetto della minoranza, inducendoci a organizzare manifestazioni per ottenere la parità dei diritti». 2 luglio 1980".

Il bello è che gli ipocriti lestofanti sono i maestri del Politically correct. L'espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone.

LA MANCANZA DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.

Altro che disgrazia, Marcinelle fu un crimine! Scrive Ilario Ammendolia il 9 ago 2016 su “Il Dubbio”. Sessant'anni fa la strage dei minatori italiani emigrati in Belgio. I soccorsi furono ritardati: non si volevano far vedere l'inferno delle miniere e le baracche dei migranti. Nel mese di giugno del 1946 il governo italiano firmava con il Belgio l'accordo di scambio tra uomini e carbone. Per ogni italiano che scendeva in miniera, l'Italia riceveva 200 chili di carbone al giorno. In tutti gli uffici di collocamento furono affissi dei manifestini di color rosa pallido che invitavano gli aspiranti ed improvvisati minatori a trasferirsi in Belgio. Per ricevere il visto di ingresso in quel Paese, avrebbero dovuto però sottoporsi a visita medica e, a tal fine, fu creato un centro nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Da paesi del Sud (ma anche dal Veneto) partirono in migliaia e molti fecero ritorno con i bronchi distrutti dalla silicosi. L'8 agosto di sessanta anni fa la tragedia di Marcinelle! La miniera si trasforma in un inferno e 262 uomini bruciano come torce umane. La maggioranza sono meridionali. Dalla fine della guerra al 1956 i paesi del Sud vedono ridursi la popolazione di oltre un terzo dei propri abitanti. Ho un nitido ricordo delle famiglie del mio paese che aspettavano con trepidante attesa notizie dei loro cari residenti in Belgio. Le lacrime silenziose di quanti con compostezza si recavano quotidianamente in caserma nella speranza di conoscere la sorte dei loro familiari. Il carbone è servito per alimentare le industrie del "triangolo" industriale. Le rimesse degli emigranti furono utilizzate dalle banche per finanziare il "miracolo economico" italiano. Era l'Italia del 1956! Marcinelle non fu una disgrazia, fu un crimine. I soccorsi furono ritardati per non mostrare al mondo le condizioni impossibili nei quali i minatori erano costretti a lavorare. Non si volevano far vedere le miniere dove tutto era inadeguato e neanche le baracche dei migranti privi di servizi igienici. I padroni delle miniere risparmiavano sulle attrezzature e finanche sui mezzi di prevenzione e di soccorso, puntando ad aumentare i profitti sullo sfruttamento inumano dei minatori costretti a scendere a mille metri di profondità senza tutela alcuna. La tragedia fu circondata da un muro di omertà e finanche di crudeltà. Si pensi che i familiari delle vittime e dei feriti furono fermati per giorni alle frontiera perché non avevano il visto di ingresso in Belgio. Tuttavia c'era anche una diversa sensibilità rispetto al mondo del lavoro, tanto in Italia che in Europa. Quando ancora si scavava nella miniera di Marcinelle per raggiungere quota 835 alla ricerca di impossibili sopravvissuti, ovunque, lavoratori del Nord e del Sud scendevano in lotta in un moto di spontanea solidarietà alle famiglie delle vittime. Manifestazioni di solidarietà ai minatori furono indetti dai sindacati del Belgio ed in Francia. Il governo italiano fu costretto a denunciare l'infame accordo "uomo- carbone". Sulla stampa, in Parlamento e nel Paese, la strage di Marcinelle venne interpretata come l'ennesimo tributo di sangue imposto ai lavoratori, soprattutto meridionali, per consentire alla industria "padana" di potersi sviluppare. Negli stessi giorni si rivendicò con forza la centralità dell'uomo rispetto alle leggi del mercato. Fu riproposta la necessità di un "piano nazionale", capace di incentivare insediamenti industriali nei luoghi di residenza dei lavoratori disoccupati piuttosto che sradicare la gente del Sud e farla dormire nelle soffitte di Torino e di Milano ed, ancor peggio, nelle baracche belghe costruite per i prigionieri di guerra. Oggi la solidarietà tra gli uomini è messa a dura prova. Mentre, la stessa industria "padana" cresciuta sul sangue dei lavoratori meridionali (e settentrionali) in nome della comune Patria trasferisce i propri impianti all'estero inseguendo la sola legge del massimo profitto. Altro che ndrangheta! Nessuno pagò per il crimine di Marcinelle quasi che provocare la morte di minatori non dovesse esser considerato un reato! A sessant'anni di distanza il tasso di disoccupazione giovanile al Sud è maggiore rispetto al 1956. La forbice si è allargata ed oggi la distanza tra Calabria e Lombardia è maggiore rispetto a quella tra Germania e Grecia. Gli ospedali calabresi sono molto più vicini a quelli dell'Egitto rispetto a quelli del Veneto! Nonostante ciò, la questione meridionale è stata ridotta a mera questione criminale. Nei giorni scorsi il Senato della Repubblica ha dedicato sette ore del suo tempo per decidere l'arresto del senatore Caridi, considerato un "invisibile" di una "cupola" occulta, secondo quanto ipotizzato nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria denominata "Mammasantissima". E' stata l'unica occasione, in tutti questi anni, in cui in un'aula parlamentare si è speso così tanto tempo a parlare, sia pure di riflesso, di una vicenda calabrese. E' successo a sessanta anni esatti di Marcinelle. Un unico filo rosso collega e fa da sfondo ad avvenimenti così diversi e così distanti: la grande disperazione del Sud che le classi dirigenti nazionali non hanno mai affrontato e che ieri veniva camuffata come logica conseguenza di una «naturale depressione economica» mentre oggi viene derubricata a mera questione criminale.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

MALEDUCAZIONE? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Scuola, proteste insegnanti. Rondolino: "Perché la polizia non li riempie di botte?". Il tweet del giornalista ed ex spin doctor di Massimo D'Alema attacca i docenti che il 24 giugno sono scesi in piazza contro l'approvazione del ddl Renzi-Giannini al Senato. E, visti i disagi alla circolazione, chiede che le forze dell'ordine, dopo averli colpiti, liberino "il centro storico di Roma". A ilfattoquotidiano.it dice: "E' una provocazione, ma la città non può essere ostaggio di ultragarantiti che lavorano poco e male", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 giugno 2015. Rivendica la “libertà d’espressione e il diritto di essere provocatorio”, anche se ammette che avrebbe “dovuto scrivere semplicemente che le strade andavano sgomberate”. Ma non si pente di quanto ha scritto, perché una città non può essere “ostaggio” dalla protesta di “ultragarantiti che lavorano poco e male e che accusano Renzi di avere ucciso la scuola pubblica, quando in realtà sono loro i responsabili”. Fabrizio Rondolino, ex spin doctor di Massimo D’Alema, contattato da ilfattoquotidiano.it, spiega il significato del suo tweet pubblicato il 25 giugno in occasione delle proteste di migliaia di docenti contro il ddl scuola, approvato con la fiducia al Senato.” Ma perché la polizia non riempie di botte sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”, ha scritto Rondolino online. Dalle 17 migliaia di manifestanti hanno attraversato la Capitale, partendo dalla Bocca della verità e si è fermato, bloccato dalla polizia, a piazza Sant’Andrea della Valle, poco prima del Senato. In corso Rinascimento, di fronte all’accesso principale del Senato, si sono verificati momenti di tensione e la strada per precauzione è stata chiusa al traffico. “Si può protestare – prosegue il giornalista – ma non è possibile che una città rimanga paralizzata come è successo ieri a Roma. Sono uscito di casa alle 21.30 e alle 22 Roma era ancora bloccata. Una situazione inaccettabile. Ora, non dico di mandare gli insegnanti a manifestare sul raccordo”. Ma suggerisce: “Bastano 10, 50 docenti che vanno fuori dal Senato, così possono dire le loro cose. Davanti alla città presa in ostaggio, però, mi aspetto che le forze dell’ordine reagiscano. Si sa, quando c’è una piazza da sgomberare, ci possono essere anche cariche di alleggerimento”. Quindi i docenti in piazza dovevano essere caricati dalla polizia? “No, è una provocazione. Ma sindaco e prefetto non possono consentire che la città sia totalmente paralizzata”. Tanti i commenti al tweet di Rondolino, che in passato aveva insultato anche il direttore della Stampa e suo ex datore di lavoro, Mario Calabresi, definendolo “orfanello”. “Deve essere evidentemente una battuta. Di pessimo gusto ma una battuta”, spera Cassandra. E c’è chi ironizza: “Perché non fucilarli o gettarli da un aereo?”, “un bel rogo in piazza e via?”, “Dov’è la candid camera Fabrizio?”. Poi c’è chi spera che Rondolino non fosse “capace di intendere e di volere” e chi si augura che dopo questo messaggio La7 lo escluda “definitivamente dai palinsensti”. E ancora: “Perché non vai a dirglielo di persona agli insegnanti quello che scrivi qua?”, “Non hai le palle per dire in faccia queste cose!”. Rondolino, però, replica anche ad un attacco che arriva nei commenti sulla piattaforma di microblogging. “Se questo è un uomo”, scrive la cronista della Stampa Antonella Rampino, riportando poi il tweet sugli insegnanti. “Beh, se tu sei una donna…”, è la risposta del giornalista che a ilfattoquotidiano.it minimizza: “E’ semplicemente una risposta speculare a quanto ha scritto lei. Piuttosto dovremmo chiederci per quale motivo abbia abusato del titolo di un libro di Primo Levi”. I motivi della protesta – Dopo l’approvazione del Senato, il sindacato Anief ha ricordato i motivi della protesta di piazza: “Si fa un bel passo indietro sulla libertà all’insegnamento, si trasformano gli istituti scolastici in prototipi di aziende, i presidi sceglieranno il personale pescando dagli albi territoriali, scegliendo i 50mila docenti e i vincitori del nuovo concorso – ha spiegato il presidente Marcello Pacifico – Gli altri 50mila immessi in ruolo saranno assunti ad anno scolastico iniziato, con almeno altri 70mila insegnanti non assunti che chiederanno risarcimenti al tribunale civile di Roma”. Inoltre, ha aggiunto, “a settembre nelle scuole si creerà un caos senza precedenti, per il ritorno in classe dei vicepresidi e migliaia di dirigenti sguarniti dell’organico dell’autonomia. Vengono poi beffati tutti gli abilitati laureati, che per i prossimi cinque anni non potranno fare concorsi, né insegnare. Arriva, infine, il comitato di valutazione dei docenti, con i fondi del merito distribuiti dal preside-manager, sulla base delle indicazioni fornite anche dagli studenti 15enni”.

La sinistra e i professori non si vogliono più bene, scrive Francesco Boezi l’8 agosto 2016 su “Il Giornale”. Si erano tanto amati, la sinistra ed i docenti. Incontratisi per la prima volta sulle scale dell’università, si fusero nell’enfasi marxista; quindi la sinistra con tono impositorio disse: “Ora, se vorrete guadagnare la vera libertà, leggerete Marcuse tre volte, sovvertirete il sistema borghese, brucerete jeep, appiccherete roghi, occuperete facoltà e predicherete la fine dei costumi dei padri. Solo così diverrete veramente liberi!” Fu colpo di fulmine. I docenti, che allora erano solo degli studentelli sbarbati, credettero. Era il 1968’. “Ricordi? Sbocciavan le molotov.” Lei seduceva con l’inchiostro. Loro, in fin dei conti, erano solo i figli di quella borghesia da distruggere: la leva ideologica di un ventennio. Pier Paolo Pasolini pensava fossero vittime di un gigantesco equivoco: non sono rivoluzioni quelle fatte con i soldi di papà. L’esito? Un po’ l’inconsistenza, la finzione e la disperazione del terrazzo radical chic di Jep Gambardella, un po’ la “spada de’ foco” di Carlo Verdone nel salotto di Mario Brega. Vennero i governi e le riforme, la fantasia al potere, in televisione ed in cattedra. Gad Lerner e Michele Santoro, Marco Boato e Massimo Cacciari. Il sentimento tenne. Dalle aule delle università, vennero occupati i conti correnti: dicono i grafici di Bankitalia che il reddito medio di quella generazione crebbe molto di più rispetto quello delle successive. Sinistra progressista e classe docente, unite per la vita. “Encore!”, dice Lacan, è la domanda dell’amore. Ancora! Senza soluzione di continuità. Dal 18 politico con l’eskimo, al modello 730 con la barca a vela. A braccetto, nella buona e nella buonissima sorte. Anche gli insegnanti malpagati gridarono: “Encore!” Nei momenti di crisi si sparò a zero contro l’avversario politico, fatto qualche girotondo, andati al cinema insieme. Una passione filtrata dai decenni e mai interrotta. Neppure “La Cosa” di Achille Occhetto poté farci nulla. Persino il Partito Democratico andò giù liscio come l’olio. Ci voleva un algoritmo impazzito per distruggere un amore. Un nemico difficile contro cui girotondare perché, alla fine, è solo un numeretto. Che rende la vita precaria ancor prima del lavoro. Che ti spara dal sud al nord come la pallina di un flipper: docenti con punteggi altissimi costretti a lasciare la famiglia per trasferirsi a 700 km di distanza, altri con punteggi minori che possono insegnare sotto casa. L’evoluzione neoliberista della sinistra governativa europea. In Italia lo hanno fatto quelli che dicevano di voler visitare una scuola ogni settimana ed aumentare gli stipendi dei professori. Ve la ricordate la prima Leopolda sì? Senza famiglia a due passi, però, diventano tutti irascibili. Persino le truppe dell’egemonia gramsciana. La voglia di instabilità relazionale millantata nel 68’ era pura propaganda. L’idea di Marx per cui la borghesia avrebbe ridotto tutte le libertà a quella della mercificazione, meno. La sinistra e i professori no, non si vogliono più bene. 

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

LADROCINIO? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.

I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.

Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.

Indagati, rovinati e assolti. La crociata dei pm contro la politica, scrive Simona Musco il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici che devono subire il peso della gogna mediatica. E il caso di Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo. Lo diceva perfino la pm di ferro Ilda Boccassini: alcuni magistrati «hanno usato le inchieste per "altro", per scopi diversi dalla giustizia». Una giustizia "politicizzata", che a volte colpisce e annichilisce chi, alla fine, riesce ad uscirne pulito. Ma solo alla fine. Certo, non sempre l'errore è strumentale. Ma a volte, lo ammette tra le righe anche la pm più agguerrita d'Italia, è così. L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici. Che, seppure hanno forze diverse, devono subire il peso della gogna mediatica e politica. E Stefano Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo della lista. Certo, sulla sua testa rimane ancora un'accusa pesante dalla quale difendersi: voto di scambio. Ma per i pm non c'è più agevolazione della camorra, non c'è, cioè, il patto scellerato con la malavita, accusa che ad aprile lo aveva portato ad autosospendersi dalla carica di presidente, uscendo dal gruppo e mandando in crisi il Pd in Campania, che alle amministrative di Napoli ha fatto cilecca. Ma Graziano è solo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il caso Emilia - «C'è da chiedersi: che la golosità della preda abbia alterato le regole della caccia?», diceva al Dubbio, a giugno, Alessandro Gamberini, difensore dell'ex governatore dell'Emilia, Vasco Errani, assolto perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni, dallo scandalo "Terremerse". Uno scandalo che aveva trascinato l'Emilia-Romagna alle elezioni anticipate, con le dimissioni dell'ex governatore dopo la condanna nel primo appello del processo. Subito dopo, nel 2014, alla vigilia delle regionali, un altro scandalo: il deputato Pd Matteo Richetti, accusato di peculato, rinunciò alle primarie, diversamente dal suo sfidante, Stefano Bonaccini, in seguito prosciolto dalle accuse e poi eletto presidente della Regione. Primarie ed elezioni indette a causa di dimissioni evitabili. Così come la gogna, che invece fu implacabile. "Why not" - Dieci anni e tutti assolti per non aver commesso il fatto. Si è concluso così un troncone dell'inchiesta dell'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris sui politici calabresi imputati in un processo per associazione a delinquere nell'ambito di un'inchiesta sui presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria aperta nel 2006. Un'indagine molto più ampia, che coinvolse circa 150 persone e che portò alle dimissioni dell'allora Guardasigilli Clemente Mastella, alla caduta del governo Prodi e allo scontro fra le procure di Salerno e Catanzaro. Significative, però, sono le parole scritte dal gup Abigail Mellace nelle motivazioni della sentenza in abbreviato: quell'indagine, secondo il giudice, era il risultato di «un'operazione dal grande risalto mediatico». Per i politici e i manager coinvolti la condanna fu immediata: gogna mediatica e pubblico ludibrio. L'impresentabile De Luca - Un passo indietro di qualche mese ci porta a Vincenzo De Luca, governatore Pd della Campania. Su di lui si era scatenata la falce della presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che lo aveva inserito nella lista degli "impresentabili" alle scorse regionali per la vicenda "Sea Park", il parco acquatico mai realizzato nell'area industriale di Salerno, dove aveva da poco chiuso l'Ideal Standard, che lasciò a casa 200 lavoratori. De Luca, all'epoca deputato, intervenne per accelerare i tempi per la cassa integrazione di quei lavoratori. L'inchiesta è partita ben 18 anni fa e il pm, dopo otto anni di dibattimento, ha chiesto l'assoluzione dall'accusa di associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso perché «i fatti non sono sussistiti e non sussistono». Per lui, però, ci furono «anni di pesante aggressione politica e mediatica». Il "Sistema Sesto" - Altra vicenda clamorosa è quella che ha visto coinvolto l'ex presidente della provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, Filippo Penati, assolto in primo grado dal tribunale di Monza perché il fatto non sussiste dalle accuse di corruzione sulla gestione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni e finanziamento illecito dei partiti. Ma quando il suo nome finì su tutti i giornali, riempiendo pagine e pagine con parole altisonanti, rimase solo. «A suo tempo il Pd mi cancellò in fretta e furia - dichiarò dopo l'assoluzione -. Ma è sbagliato cedere alla gogna invocata dalla pubblica piazza. È ora che la politica si riprenda il suo primato, e stabilisca regole certe contro i furori di chi strumentalizza le inchieste». Tre anni di processi che hanno portato alla fine della sua carriera politica, terminati con un'assoluzione. Che non gli ha ridato ciò che gli è stato tolto. I grillini contro Venafro - Nell'inchiesta "Mafia Capitale" era comparso anche il suo nome. Maurizio Venafro, capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, era stato accusato di turbativa d'asta e rivelazione di segreto d'ufficio per aver favorito un imprenditore per la gara Recup (centralino unico prenotazioni). Lui si era subito dimesso dall'incarico, dichiarando la sua totale estraneità ai fatti. Ma il M5S ne aveva approfittato subito per lanciare la propria invettiva, ipotizzando un coinvolgimento della Regione Lazio nell'inchiesta. Qualche giorno fa, però, il tribunale penale di Roma ha assolto Venafro con formula piena. Il Pm aveva chiesto 2 anni e 6 mesi di carcere. «Ha combattuto nel processo, non ha mai concesso nulla alla polemica. Abbiamo avuto fiducia nella magistratura, meno nel mix tra una certa cattiva stampa e molta cattiva politica», ha commentato Zingaretti. Che per circa un anno si è sentito chiedere le dimissioni da tutti, dal M5S alla destra di Storace, passando per il Fatto Quotidiano. Oggi, però, quel castello di insinuazioni sulla corruzione all'interno del palazzo crolla. E anche le ricostruzioni fantasiose. Ma la gogna, nel frattempo, ha fatto il suo corso. Lo sceriffo Cioni - Hanno provato a chiedergli scusa. Ma non basta. Graziano Cioni, ex assessore Pd al Comune di Firenze, è stato assolto definitivamente dall'accusa di corruzione sulla trasformazione urbanistica dell'area di Castello. Il suo nome era stato inserito nel grafico della "piovra" che campeggia sul blog di Beppe Grillo. Un grafico preventivo, per il quale non vale il principio del "fino a prova contraria". Che ora c'è. Cioni «esce a testa alta da questi processi dopo otto anni di sofferenza», ha commentato l'avvocato Pasquale De Luca. Ma tre giorni dopo la sentenza del 6 maggio scorso, quel nome era ancora lì, alle spalle del deputato Alessandro Di Battista, intervenuto nel corso di una trasmissione su La7. Da qui la denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento di un milione. E le scuse. Tardive.

Mafia Capitale, l'arma persa per sempre dai grillini, scrive Errico Novi il 9 ago 2016 su "Il Dubbio". Il caso Muraro cambia lo schema del malaffare tutto in capo ai dem. Il direttorio M5S resta a difesa dell'assessora finita nella bufera, ma il maxiprocesso non potrà più essere bandito come una clava. Non sarà mai più la stessa Mafia Capitale. Non per i cinquestelle, che non solo governano Roma e sono dunque destinati a "sporcarsi le mani" per destino istituzionale, ma hanno anche un'assessora, Paola Muraro, in odore di rapporti con Salvatore Buzzi. La donna scelta da Virginia Raggi per occuparsi di Ambiente e per farsi carico, nell'amministrazione a cinque stelle, della grana rifiuti, è nel mirino dei media e soprattutto dei pm. In uno dei quattro filone d'indagine aperti da sostituto della Procura di Roma Alberto Galanti, Muraro rischia di entrare con tutti e due i piedi come figura coinvolta nelle commesse fuorilegge assegnate da Ama, la municipalizzata al centro del maxi processo a Buzzi e compagni. Al momento Muraro non rischia l'avviso di garanzia solo perché siamo nel pieno della sospensione dei termini feriali. Il dottor Galanti non si muoverebbe in ogni caso sotto Ferragosto, né il procuratore aggiunto Paolo Ieolo e il capo dell'ufficio Giuseppe Pignatone lo solleciteranno ad accelerare i tempi. Eppure l'iscrizione della Muraro al registro degli indagati pare inevitabile. Intanto perché l'ex amministratore delegato dell'Ama Daniele Forini ha presentato a piazzale Clodio una vera e propria collezione di esposti sull'epopea della gestione dei rifiuti a Roma, e nei dossier Muraro è chiamata più o meno direttamente in causa. Inoltre le carte sulla presunta cupola romana relative all'ex ad di Ama Franco Panzironi riferiscono del ruolo di Muraro in una commessa su un impianto di rifiuti a Trento. Nell'ordinanza ripresa ieri da Repubblica si profila addirittura un impegno preso da Panzironi con Muraro per assumerla come «tecnico» nella società che avrebbe dovuto gestire lo stabilimento. Panzironi è un imputato "top" del maxiprocesso: nelle carte, certo, non emerge alcunché di penalmente rilevante a carico della Muraro, ma basta la parola stessa, "Mafia Capitale", per determinare il contagio. Contagio mediatico, ovvio: fatto sta che d'ora in poi i cinquestelle faranno grande fatica a scaraventare la maxi inchiesta contro chi li ha preceduti in Campidiglio, ovvero il Pd. La situazione è di vera emergenza per il Movimento di Beppe Grillo. Ieri Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e altri esponenti di primo piano hanno riferito a Casaleggio junior sullo stato dei fatti. Ferma la linea di fare quadrato contro gli attacchi all'assessora. Ma c'è anche consapevolezza che il caso cambia per sempre il valore simbolico del processo su Mafia Capitale: non avrà mai più lo stesso significato proprio perché "una di loro", un'assessora di Virginia Raggi, è lambita da quelle vicende. E anzi, la materia sarà suscettibilissima di manipolazioni a danno dei grillini. Che la vedranno usata per dimostrare la loro "omogeneità" al resto della politica. Una macchia forse indelebile. Lo sanno bene gli altri assessori della giunta Raggi, che domani probabilmente neppure si presenteranno al Consiglio comunale. La seduta è convocata in via straordinaria per consentire a sindaca e assessora di rispondere a una raffica di interrogazioni su rifiuti e consulenze pagate più o meno a peso d'oro. Di sostanza, almeno in termini penali, praticamente non ce n'è. Ma del bommerang mediatico si vedono tutti i segni.

«Scusi lei è garantista?» «Oggi no: forse domani sera...», scrive Piero Sansonetti il 5 ago 2016 su "Il Dubbio".  Scusi, ma le oggi è garantista? «No, mi spiace, oggi son forcaiolo, ripassi domani, per favore». E’ esattamente così, nella politica italiana. Se escludiamo un minuscolo drappello di garantisti veri (in Parlamento saranno quattro o cinque tra destra e sinistra...) tutti gli altri vanno “a ore”. Garantisti granitici a favore dei propri amici, distributori di manette e gogne per gli avversari. Il cambio di casacca può avvenire anche nel giro di 24 ore e in casi eccezionali persino nella stessa giornata. Non solo l’aula del parlamento pullula di parlamentari pronti a votare a favore dell’arresto di qualunque collega dello schieramento opposto - senza neppure un briciolo di senso dell’umanità, né, naturalmente, della legalità - non solo trovi centinaia di esponenti politici che tuonano contro la giustizia spettacolo e poi chiedono abbondanti retate di piccoli spacciatori o immigrati illegali, o ladruncoli; ma ormai succede anche il contrario: forcaioli d’acciaio scattano come un sol uomo a difesa dei politici forcaioli, e gridano al complotto. L’altro ieri persino l’integerrimo Marco Travaglio ha speso un intero, lungo editoriale, furioso col “Corriere della Sera”, il quale aveva osato parlare di conflitto di interessi per l’assessora romana a 5 Stelle (la Muraro) che ha un contenzioso di svariate decine di miglia di euro (che lei vorrebbe riscuotere) con l’Ama, e cioè con l’azienda che ora entra sotto il suo controllo politico. Travaglio ha abbandonato anche lui la tradizionale intransigenza, e ha iniziato a chiedere “prove”. Un colpo di fulmine: la odiata e vituperata presunzione di innocenza - negata a tutti, specialmente a quelli del Pd - è tornata con baldanza alla ribalta a difesa della Muraro, oggetto del complotto della sinistra. Qualche settimana fa il dottor Graziano, segretario del Pd campano, per “il Fatto” era un camorrista (è stato prosciolto recentemente, con tante scuse: giusto il tempo di far tenere le elezioni regionali e mettere il Pd fuorigioco). Oggi invece il conflitto della Muraro non esiste e chi dice il contrario è un farabutto. Un tempo Travaglio scriveva che un politico deve dimettersi dinnanzi anche al più esile sospetto; oggi - intendiamoci: giustamente - chiede rispetto dell’innocenza presunta dell’assessora Muraro, anche in presenza delle registrazioni delle sue telefonate con Salvatore Buzzi, che fin qui i giornali hanno descritto come il capo della mafia romana. Bene: Travaglio ha ragione. E’ chiaro che ha ragione: la Muraro, a quanto ne sappiamo, è chiaramente in conflitto di interessi (ma questo si sapeva prima che fosse nominata) ma non ha commesso nessun reato, o almeno non risulta, e non è un reato aver parlato al telefono con Buzzi, che era semplicemente il capo di una cooperativa, e non risultava imputato di niente, tantomeno di associazione mafiosa (peraltro va detto che questa accusa è chiaramente assurda, anche se non bisogna dirlo). Travaglio ha ragione, e hanno ragione i grillini a difendere il diritto della Muraro a non dimettersi. Hanno torto quelli del Pd a chiederne le dimissioni. Così come ebbero torto i giornali romani, il “Corriere”, i grillini, Travaglio e tutta la santa alleanza che cacciò Marino dal Campidoglio per ragioni che non avevano nulla a che fare né con l’etica, né col diritto. Però questa splendida alternanza tra garantismo e forche - che dimostra la fragilità, o forse l’inesistenza dei principi, e la strumentalità di tutte le battaglie - mette una grande tristezza. La stessa tristezza che ci ha colto l’altra sera, quando abbiamo visto e sentito manipoli di mazzieri accanirsi contro Antonio Caridi in lacrime.

Giustizialisti, curatevi col cinema! Scrive Andrea Camaiora il 09/08/2016 su "Il Giornale". Moderati alla ricerca dell’unità. Si tormentano da mesi alla ricerca di una ricetta in grado di rimettere un’area politica in competizione con una sinistra resa forte dall’effetto Renzi. Ebbene, l’unità dei moderati passa attraverso la riscoperta del proprio dna. Prendete il garantismo, bandiera storica di Forza Italia e del centro destra in generale, finito prima col perdere smalto ed essere addirittura da qualcuno rinnegato, emulando una certa  sinistra a cinque stelle. Alla classe politica italiana servirebbe insomma un corso di cineforum di quelli che fino a qualche tempo fa organizzavano con successo le parrocchie.  Primo suggerimento: il film “Le vite degli altri” (2006), scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero. Il grande attore tedesco oggi scomparso¸ Ulrich Mühe, interpreta il capitano della Stasi Gerd Wiesler che viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale ed intellettuale della Germania orientale. Una grande lezione: attraverso un sistema di intercettazioni si poteva (e si può) giungere a devastare la vita anche di cittadini comuni.  Il secondo consiglio è “Tutti dentro”, dimenticato film del 1984 con Alberto Sordi, Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro. Il nostro amato Albertone è Annibale Salvemini, magistrato noto per il proprio carattere “zelante”. All’inizio del film Salvemini è vice di un collega anziano che sta indagando su fatti di corruzione relativi a personaggi dello spettacolo, della finanza e della politica. Il consigliere Vanzetti, collega ormai prossimo alla pensione, non è certo della piena fondatezza delle proprie indagini, dell’effettivo coinvolgimento di molti indagati e dunque della responsabilità di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta e pertanto non se la sente di spiccare un considerevole numero di mandati di cattura e decide così di affidare il fascicolo a Salvemini, raccomandandogli di esaminare tutta la documentazione e le varie informative con la massima cura e attenzione e di non agire avventatamente. Salvemini agirà con assai poca attenzione e firmerà centinaia di ordini di cattura, tra gli altri ai danni di un apprezzato (e poi innocente) conduttore del Tg2, Enrico Patellaro, nella cui storia e nelle cui sembianze non è difficile rinvenire la volontà di Sordi di spezzare una lancia in favore di Enzo Tortora (il cui caso risale al 1983). Terza pellicola, emblematica, è “In nome del popolo italiano” (1971), diretta da Dino Risi, nella quale il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), indagando sulla morte di una giovane prostituta, prende di mira l’imprenditore Renzo Santenocito (Vittorio Gassmann), imprenditore spregiudicato, che gode di influenti amicizie e che fa soldi corrompendo funzionari pubblici, inquinando e deturpando il paesaggio con veri e propri scempi edilizi. Il film di Risi – pietra miliare della cinematografia italiana – con disarmante lungimiranza, vede Santenocito che viene prelevato dalla polizia giudiziaria mentre partecipa a una festa vestito da antico romano. Immagini che riportano alla festa in maschera “Olympus”, organizzata da esponenti del Pdl di Roma nel 2010. In un crescendo drammatico, Bonifazi, quando pensa ormai di dover incriminare per omicidio Santenocito, entra in possesso del diario della giovane morta che annuncia il suicidio. Caso risolto? Non proprio. Bonifazi si trova a leggere il diario per strada proprio nel momento in cui l’Italia vince ai mondiali contro il Regno Unito. Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato in Santenocito. Disgustato proprio da quel «popolo italiano», il magistrato getta tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani la prova dell’innocenza dell’avversario. Quarto, indimenticabile prodotto del cinema italiano sulla malagiustizia, sugli effetti della carcerazione preventiva e le lentezze del nostro sistema giudiziario, infine, un capolavoro di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), che ha ancora una volta per protagonista il nostro amato Sordi. Il povero geometra romano Giuseppe Di Noi, accusato della mirabolante (e infondata) accusa di «omicidio colposo preterintenzionale», verrà arrestato non appena giunto alla frontiera italiana. Il lungo periodo in carcere, appunto “in attesa di giudizio”, lo vedrà vittima di umiliazioni e brutalità che lo segneranno irrimediabilmente sul piano fisico e psicologico. La “Cinecittà moderata” che ha reso grande il nostro cinema aveva le idee più chiare di giornalisti, politici e registi del giorno d’oggi. Garantismo, giustizia giusta e tempestiva, condizioni carcerarie umane, certezza della pena, indipendenza della magistratura e terzietà del giudice devono ancora passare dal grande schermo alla vita reale. * autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau).

Quelle vite spezzate dagli errori giudiziari, scrive Agostina Di Mare il 09/08/2016 su "Il Giornale". Avete mai pensato che una notte potrebbe suonare il campanello e che la vostra vita possa essere segnata per sempre? Detta così risulterebbe surreale; assistendo alla visione di “Non voltarti indietro” di Francesco Del Grosso, invece, quest’ipotesi diventa concreta e palpabile. Si avverte sulla propria pelle quella sensazione di comunanza con i cinque casi scelti e l’angoscia che lo spettatore prova sta proprio nella percezione tangibile che possa capitare a chiunque e in qualsiasi momento. La macchina da presa del documentarista cattura i volti e le parole di tre uomini e due donne: una commercialista, un impiegato delle Poste, un designer di moda, un assessore comunale e una dipendente pubblica. Persone accusate ingiustamente di reati ma i commessi. «Il docu-film si articola in tre macro blocchi, ciascuno chiamato a rappresentare i punti cardine tipici dell’architettura narrativa della tragedia classica. Passaggi che segnano e simboleggiano a loro volta le tappe fondamentali nel destino del personaggio che solitamente la anima: ascesa, caduta e rinascita. […] Questa esperienza che li ha segnati nel profondo passa proprio attraverso le tre fasi: arresto, detenzione, riconoscimento dell’innocenza» (dalle note di regia). Man mano che l’opera si dipana, si entra con loro al di là di quelle sbarre che di lì a poco si chiuderanno senza comprendere il motivo di quella reclusione. Del Grosso non cerca la lacrima facile, anzi la rifugge, ma siamo sicuri che, in modo particolare le spettatrici, saranno toccate dalla rievocazione delle fasi che precedono l’ingresso in cella (ci si deve denudare e viene chiesto di fare delle flessioni per i controlli anali). Si prova, con loro, la claustrofobia di essere in una gabbia 2×3, dormendo con estranei. Innegabilmente, per chi non l’ha provato direttamente, non è semplice immedesimarsi, eppure “Non voltarti indietro” riesce a traghettare la platea in un vortice di emozioni che va dallo spaesamento alla rabbia, dall’aggrapparsi al barlume di speranza alla paura di non vedere più la luce. Il merito va non solo alla sincerità e al trasporto dei racconti, ma anche all’intuizione registica di avvalersi dei disegni, foto realistici e in bianco e nero (realizzati a mano, a matita, dal giovane Luca Esposito), che aiutano a visualizzare ciò che i protagonisti narrano. A corollario, nota di merito va alle musiche di Emanuele Arnone e al montaggio del suono curato da Daniele Guarnera. Durante tutti i 75′ del docu-film si coglie costantemente il lavoro certosino fatto sul sonoro e non ci riferiamo soltanto alle chiavi del carcere, ma è un mix che avvolge lo spettatore continuando a farsi sentire anche a visione conclusa. Risuonano le gocce delle docce così come un eco (per fortuna lontano) delle voci nell’ora d’aria. Del Grosso, dopo diversi documentari tra cui “Negli occhi” dedicato a Vittorio Mezzogiorno, “11 metri” su Agostino Di Bartolomei e “Fuoco amico – La storia di Davide Cervia”, decide con quest’ultimo di puntare l’obiettivo su vite ferite per errori giudiziari. L’intento è quello di dar loro spazio, parola e dignità in un percorso di cicatrizzazione del dolore provocato dall’ingiusta detenzione. Si entra in empatia con i calvari di questi uomini e donne, restando attoniti di fronte all’idea che la realtà possa superare la fantasia. A partire dal 1992 ci sono stati 1000 casi di errori giudiziari e quindi 24.000 casi in 24 anni, per una spesa complessiva di 630 milioni di euro. Ovviamente vale il detto “errare humanum est” e, come in altre storie, sarebbe scorretto prendersela con il singolo giudice. Se i numeri sono così elevati c’è qualcosa che non va e questa considerazione non può che sorgere spontanea. Per fortuna il cinema, in questo caso reale, sceglie di non chiudere gli occhi. Non voltarti indietro nasce da un’idea, sposata dal regista, di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (i quali hanno dato vita a “Errorigiudiziari.com”, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni), e un avvocato, Stefano Oliva. I tre hanno voluto produrre con le proprie risorse, con il supporto della produzione esecutiva di Own Air, il documentario pensando anche che la Settima Arte possa arrivare in meandri impensabili. Il regista ha già ricevuto dei riconoscimenti importanti per questo lavoro: il Premio Speciale “Gold Elephant World Festival” e il Premio SAFITER alla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae. Recentemente, all’“Ariano International Film Festival”, “Non voltarti indietro” è stato decretato il vincitore della sezione Documentari. Post visione e prendendo atto dell’impegno civile e artistico di regista, produttori e troupe, non possiamo che dirci: non voltiamoci dall’altra parte.

Enzo Tortora, una ferita italiana, scrive Edoardo Sylos Labini il 09/08/2016 su "Il Giornale". A 30 anni dall’arresto di Enzo Tortora e dall’infame passerella mediatica che fu costretto a subire, questo film, come dice il titolo, riapre una ferita su un tema che in Italia non si affronta mai in modo adeguato: la malagiustizia. Con la politica in mezzo sempre pronta a strumentalizzare questa o quella battaglia, sembra non si riesca a fare una riforma che riequilibri quello che è diventato, nel nostro Paese, un problema molto serio. Chi risarcisce la vita e la reputazione di tutti quegli innocenti che ancora prima di subire un processo vengono puniti con feroce cinismo dalla gogna mediatica? Che fine fanno le famiglie di tutti questi presunti colpevoli’, che futuro hanno e come vengono visti in questa sempre più superficiale società dell’apparire? L’arte, il cinema servono anche a questo, a denunciare le ingiustizie, ad essere opere civili, oltre che di intrattenimento. E se il direttore del Festival di Roma ha reputato questo prodotto non interessante per il programma di una kermesse così prestigiosa, al contrario ilgiornaleoff.it – che nasce con l’intento di dare visibilità a chi viene oscurato o escluso dai grandi circuiti – vi offre in anteprima, grazie al regista Ambrogio Crespi, le prime immagini del film. Enzo Tortora, una ferita italiana andrebbe proiettato non solo nei Festival, ma in tutte le sale d’Italia, affinché insegni a ognuno di noi dove può arrivare l’ingiustizia italiana. Dunque, dove eravamo rimasti? Buona visione.

Ballata della giustizia ingiusta, scrive Andrea Piersanti il 09/08/2016 su "Il Giornale". “Prigioniero della mia libertà”, un film racconta gli innocenti vittime di errori giudiziari. “Ogni tanto me lo domando ancora: ma non poteva uccidermi e basta”. Si conclude così una dellesette testimonianze delle vittime degli errori giudiziari che sono raccolte nel libro “Prigioniero della mia libertà” di Rosario Errico, Stefano Pomilia e Michela Turchetta. Il volume è curato da Gabriele Magno (avvocato, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari) e da Luisa Badolato. Nella prima parte è stata pubblicata la sceneggiatura integrale del film omonimo diretto da Errico e interpretato, fra gli altri, anche da Giancarlo Giannini. La storia di fantasia raccontata nel film (la cui uscita è prevista per il prossimo autunno) prende spunto dalla realtà. Sono infatti quasi cinquantamila gli italiani innocenti che, dal 1989 ad oggi, sono finiti in carcere per errori giudiziari. Il caso di Enzo Tortora è solo la punta di un iceberg immenso. “Ogni anno vengono riconosciute dai tribunali, con l’assoluzione, circa 2.500 ingiuste detenzioni frutto in parte di errori giudiziari – ha spiegato l’avvocato Magno -. Ma solo un terzo, circa 800 vengono risarcite. Spesso, infatti, anche se riconosciuto innocente, l’ex detenuto viene considerato responsabile, per colpa grave o dolo, di aver indotto la pubblica accusa a ritenerlo colpevole. Un’altra causa delle celle strapiene è la lentezza dei processi, poiché molti detenuti sono in attesa di giudizio. Qualche mese fa il 40 per cento aspettava il primo grado”. Un fenomeno impressionante che ha spinto il regista (e attore) Rosario Errico ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione del film. “Comincio dalla fine di “Detenuto in attesa di giudizio”, ha detto Errico. Il protagonista del film è un architetto che cade nella trappola di un sedicente amico. E’ la vittima di una truffa ma si ritrova ad essere accusato di estorsione. Un apologo dell’orrore che stravolge completamente la serenità personale e familiare del protagonista.

Quando Garibaldi rubò i soldi al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, scrive su "Time Sicilia" Ignazio Coppola. Sulla gloriosa spedizione dei Mille in Sicilia ci hanno raccontato un sacco di menzogne. Non solo non ci fu nulla di eroico, ma Garibaldi svuotò le casse del Banco di Sicilia (depredando 5 milioni di ducati corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni) e poi le casse del Banco di Napoli (depredando 6 milioni di ducati equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro). Tutti soldi portati ai Savoia. E noi ancora oggi ricordiamo questo bandito di passo! 11 Maggio 1860, esattamente 156 anni fa, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala inizia la invasione del Sud e la sistematica colonizzazione della Sicilia. Uno sbarco che come tutto il resto della spedizione dei Mille, da Calatafimi alla presa di Palermo, sarà un’indegna sceneggiata caratterizzata da squallidi episodi che in termini militari si usano definire di “intelligenza con il nemico”. E di intelligenza con il nemico, a differenza di quanto da sempre ci è stato propinato dalla storiografia ufficiale, è macchiato ed inficiato lo sbarco dei garibaldini a Marsala. Basta rivisitare obbiettivamente le cronache dello sbarco indisturbato della camice rosse di quel lontano giorno alle ore 13,00 del 11 maggio 1861 per rendersi conto dell’accordo sottobanco tra Garibaldini e gli ufficiali della marina borbonica che avrebbero dovuto ostacolare e non lo fecero, se non in ritardo ed a sbarco avvenuto, e tutto questo con la complicità degli inglesi che avevano un forte radicamento economico a Marsala con una notevole presenza di loro bastimenti ancorati in quel porto. Non a caso, da parte di Garibaldi, essendo tutto, con chiare complicità, preparato a dovere, si scelse di sbarcare a Marsala. Le due navi il Piemonte ed il Lombardo – precedentemente prese a Genova non requisendole manu militari (come falsamente viene raccontato dalla storiografia ufficiale), ma pagate attraverso una fidejussione di 500 mila lire (una somma enorme per quei tempi) dagli industriali fratelli Antongini alla società Rubattino – entrano senza colpo ferire nel porto di Marsala, come anzidetto, alle ore 13,00 iniziando, indisturbate, a sbarcare il loro contingentamento mentre le navi della marina borbonica, la corvetta a vapore Stromboli e la fregata a vela Partenope, al comando del capitano Guglielmo Acton che si erano lanciate, con colpevole e sospetto ritardo, all’inseguimento del Piemonte e del Lombardo giungendo in vista del porto di Marsala alle ore 14 pomeridiane rimanevano, restando a guardare, inattive ed assistendo allo sbarco. Restare a guardare Un bel modo davvero per impedire un ‘aggressione armata al territorio sovrano delle Due Sicilie Tutto andava svolgendosi secondo il programma da parte del comandante Acton ossia di dichiarata e manifesta complicità ed “intelligenza con il nemico”. Guglielmo Acton, successivamente ricompensato da tale vergognoso comportamento e tradimento, diverrà ufficiale di grado superiore della marina-italo piemontese. Il tradimento alla fine paga. Ecco quanto scrive al proposito il capitano Marryat, ufficiale della marina inglese, presente e testimone degli avvenimenti di quel giorno, in un suo rapporto che lo si può considerare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’incomprensibile atteggiamento di Acton: “L’altro vapore era però arenato (si tratta del Lombardo che Bixio aveva mandato a schiantarsi contro il molo) quando i legni napoletani furono a portata con i loro cannoni. I parapetti erano già calati ed i legni a posto. Noi aspettavamo e seguivamo – prosegue Marryat nel suo rapporto – con ansietà per vedere il risultato della prima scarica (che ovviamente non ci fu). Invece di cominciare il fuoco, abbassarono un battello e lo mandarono verso i vapori sardi, ma – a nostra sorpresa – ecco che il vapore napoletano spinge la sua macchina verso l’Intrepido (una nave inglese), anziché impedire più oltre lo sbarco della spedizione”. Di una chiarezza disarmante il rapporto di Murryat sulla espressa volontà di Acton – che ritardò il suo intervento – di non volere ostacolare lo sbarco dei garibaldini giunti sani e salvi a terra e senza un graffio. Solo alcune ore dopo, a sbarco avvenuto e dopo che l’ultimo garibaldino avrà messo piede sul molo di Marsala ed assicuratosi che non vi fossero più ostacoli di sorta allo sbarco degli invasori, Guglielmo Acton si deciderà – troppo tardi, bontà sua – a fare fuoco. Risultato, molti dei colpi finirono in mare, uno uccise un cane che fu l’unica e sola povera vittima di quella giornata e altri ferirono di striscio due garibaldini. A dimostrazione della sua intelligenza e complicità con il nemico dopo il finto cannoneggiamento, il comandante Acton non si preoccupò minimamente di fare sbarcare gli equipaggi delle sue navi per combattere ed inseguire i garibaldini che poterono così entrare a Marsala indisturbati. Con questo atto di ignavia e di tradimento iniziava in Sicilia l’impresa dei Mille. Le battaglie-farsa caratterizzate da tradimenti e corruzioni si ripeteranno poi a Calatafimi e più avanti nella presa di Palermo. Protagonisti, i generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Entrato a Marsala, Garibaldi troverà, tranne il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, una popolazione ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica. Ecco quanto scrive Giuseppe Bandi, uno dei maggiori protagonisti dell’impresa garibaldina nel suo libro I Mille a proposito della fredda accoglienza ricevuta dalle camice rosse a Marsala da parte della popolazione locale: “Appena entrato in città, qualche curioso mi si fè incontro, che udendomi gridare: ‘Viva l’Italia e Vittorio Emanuele’, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca e poi tirò di lungo. Le strade erano quasi deserte. Finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città, per mio diporto, ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente, colta così di sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno”. (Purtroppo i siciliani e i meridionali lo capiranno molto bene sulla loro pelle negli anni a venire e sino ai nostri giorni). Questa l’autorevole è testimonianza dello scrittore e ufficiale dell’esercito garibaldino, Giuseppe Bandi, sulle “entusiastiche” accoglienze dei cittadini di Marsala all’ingresso di Garibaldi nella loro città. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle casse comunali. La stessa cosa farà poi depredando ed appropriandosi indebitamente del denaro contenuto nelle casse del Banco di Sicilia a Palermo: 5 milioni di ducati (corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni). Giunto a Napoli fece altrettanto con il Banco di Napoli, impossessandosi di 6 milioni di ducati (equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro) depositati nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziava la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

Sembra la sorte dei comunisti di oggi…

Vogliamo fare la storia e non subirla: al lavoro! Un milione di voti comincia ad essere un carico pesante per un Partito come il nostro, scrive Benito Mussolini, pubblicata Martedì 02/08/2016 “Il Giornale”. Bando alle illusioni e parliamoci chiaro, ora che il momento è opportuno. Che il Partito Socialista abbia condotto una buona battaglia e che i suoi sforzi siano stati coronati dal più lusinghiero successo, nessuno contesta più. È un fatto. Sono cifre. Ma... son dolori se il Partito crede o s'illude di aver compiuta l'opera spazzando via dalla scena politica parecchi rappresentanti della reazione dernier cri, e i dolori aumenteranno se la elezione di 53 deputati sembrerà a taluno giustificazione sufficiente per ricadere nell'inerzia fatalistica che ha seguito sempre ogni agitazione elettorale. Diciamo la verità, noi, prima degli stessi avversari: un milione di voti comincia ad essere un carico alquanto pesante per un Partito come il nostro. Noi abbiamo vinto un po' per virtù nostra, ma moltissimo per la debolezza dei Partiti che ci stavano di fronte, e per un complesso di circostanze a noi propizie. Sulle quali si potrà - a tempo opportuno - ragionare. Noi non sappiamo se in un'altra «congiuntura» per dirla con un tedeschismo, riusciremo a strappare una così brillante vittoria. E poiché i Partiti si organizzeranno come noi, formando gruppi e federazioni; poiché la storia - checché si possa dire in contrario - non si ripete, ma presenta sempre nuove situazioni di fatto e nuovi problemi, è necessario non abbandonarci ai facili entusiasmi cui seguono immancabilmente le dolorose sorprese. È necessario agguerrirci. È necessario agguerrire il Partito che è l'organo delle nostre conquiste politiche. Questo diciamo ai deputati vecchi e nuovi, i quali hanno dispiegato un'attività veramente encomiabile durante il periodo elettorale; questo diciamo ai propagandisti - illustri o no - del Partito che hanno corso in lungo e in largo l'Italia portando la parola del socialismo dalle città ai borghi, alle campagne; questo diciamo ai quarantamila inscritti del Partito che leggono, o dovrebbero leggere, le nostre parole. Noi diciamo che paragonato a ciò che resta da fare, il già fatto è poco. Noi sappiamo una cosa sola: che la piattaforma elettorale del Partito Socialista ha trovato quello che si direbbe un ambiente «simpatico», ma niente ci autorizza a ritenere che questo ambiente sarà lo stesso domani o non sarà invece indifferente o refrattario. Noi non possiamo fare eccessivo calcolo sulla massa elettorale e per ragioni intuitive: la nostra milizia è il Partito. Ora, riflettano bene i socialisti italiani, il pericolo che si delinea è uno solo: quello, cioè, che il Partito resti schiacciato sotto il pondo inaspettato delle sue stesse vittorie elettorali. Il caso non è nuovo nella storia e nella vita. Si può cadere toccando una meta, si può morire nell'atto di dare la vita, si può essere dei vinti vincendo. Dinanzi a tali eventualità, noi, come si vede, non indugiamo molto a lanciare il nostro grido d'allarme. Prima del suffragio universale accadeva spesso di udire tra i socialisti italiani frasi di questo genere: Ah se noi avessimo un milione di voti!...Ecco: il milione di voti c'è; e, forse, abbondante. Questa enorme massa elettorale ci ha creduto, ha riposto fiducia in noi e...aspetta. Ma noi saremo incapaci di realizzare uno solo dei postulati del nostro programma elettorale, se il Partito non raddoppierà almeno i suoi contingenti; se i quarantamila inscritti non diventeranno ottanta o centomila; se questo giornale non circolerà sempre più diffusamente fra le moltitudini che l'esperimento del 26 ottobre ha lanciato nel girone della vita politica. Un Partito come il socialista, non può rassegnarsi ad avere un'influenza meramente elettorale. Prima di tutto perché le elezioni non sono che un episodio preliminare di una più vasta attività politica; in secondo luogo perché nella vita dei popoli moderni ci sono avvenimenti dai quali - pena il suicidio - il Partito non può essere dominato o travolto. Il milione di voti che noi volevamo toccare e abbiamo toccato, è cagione di legittimo orgoglio, ma è anche di gravissima preoccupazione e responsabilità. Noi non possiamo più retrocedere, e nemmeno sostare. Alle prossime elezioni politiche - diciamo prossime perché è convincimento generale che la nuova legislatura non avrà lunga vita - se noi non aumenteremo ancora il numero dei voti, gli avversari ritorneranno a cantarci più noioso e insistente l'elogio funebre. E se i nostri voti diminuissero che cosa diventerebbero - nel ricordo - i funerali simbolici che noi abbiamo fatto nei giorni scorsi agli altri? Questi interrogativi ci dicono tutta la portata e l'«urgenza» del compito che il Partito è chiamato ad assolvere. Avanzare! questa è la parola d'ordine. Gli uomini moderni vanno in fretta più che i morti della ballata di Burger e noi socialisti abbiamo più fretta degli altri. Noi vogliamo vedere trasformarsi sotto ai nostri occhi la realtà e coll'opera delle nostre mani. Noi vogliamo «fare» la storia e non subirla. Incidere sulle istituzioni e sugli uomini che ci circondano sempre più profondo il segno della nostra volontà. Al lavoro! Al lavoro! La strada è aspra e la meta è lontana. 4 novembre 1913

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.

Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. ‘Mettetevi in salvo’, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa. 

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

Non si spende per fare le opere, si fanno le opere per spendere, scrive Giuseppe De Tomaso il 17 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Duole dirlo in circostanze come questa. Ma la tragedia ferroviaria sulla linea Andria-Corato ha tragicamente messo in risalto l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali (politiche e burocratiche). Se queste terre del Sud sono ancora le «periferie» dell’Italia, per ripetere la locuzione del Papa ripresa da monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, davanti al presidente Sergio Mattarella, nell’omelia ai funerali per le vittime della strage del 12 luglio, la responsabilità non va attribuita solo allo Stato centrale, solitamente poco attento al Sud, ma anche o soprattutto alle sue diramazioni territoriali, che non possono certo ritenersi risparmiate da un altro brano dell’omelia vescovile: «Le nostre coscienze sono state addormentate da prassi che ci sembrano normali, ma non lo sono: quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere». Il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del Sud, un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale. Più grave perché stronca la fiducia, l’ottimismo. Se, anche quando i finanziamenti ci sono, si allungano spirali di ritardi, contenziosi, blocchi, da mandare in tilt un computer, figurarsi quando i soldi non ci sono, quando cioè bisogna mettersi in coda sperando in un Babbo Natale romano o europeo. Purtroppo, non si vede via d’uscita. Nel Sud, ma l’andazzo riguarda ormai l’intera nazione, spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere. L’obiettivo non è realizzare migliori servizi pubblici per i cittadini, ma utilizzare i progetti per mungere altra spesa pubblica, da destinare ad apparati privati, come possono essere i cenacoli clientelari ed elettorali in cui si danno di gomito politici di radicamento, burocrati di riferimento e (im) prenditori di sostentamento. La spesa per la spesa. Le opere al servizio della nomenklatura. Non la nomenklatura al servizio delle opere. L’istituto della concessione è istruttivo, a cominciare dalla parola stessa. In diritto amministrativo, la concessione è un atto con cui la Pubblica Amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati, e riservate ai pubblici poteri. Traduzione: il Principe «concede» di fatto a un suo devoto il rango di feudatario, con tutti i benefìci e i privilegi che l’elargizione comporta. Oggi, quasi sempre, la concessione consente al concessionario - non solo nel settore ferroviario - di incidere, decidere lui, sui tempi di realizzazione delle opere. Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo. E così all’infinito, o quasi. Nell’indifferenza generale e nella capillare complicità tra i protagonisti della vicenda. Ma siccome al peggio non c’è mai fine e a volte non si tocca mai il fondo, dal momento che dopo averlo toccato si può continuare a scavare ancora, prepariamoci nei prossimi mesi a prendere atto di una realtà vieppiù allarmante e frustrante. Da quando, nell’aprile 2016, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, il numero delle gare è crollato dell’85%. Praticamente è tutto fermo. Il dato lo ha illustrato sabato 16 luglio 2016 a Bari, nel convegno organizzato dalla Guardia di Finanza, il dottor Michele Corradino, componente dell’Anac presieduta da Raffaele Cantone. Ma c’è di più, cioè di peggio. Già a partire da novembre 2015 si era registrata una flessione del 30% delle gare, dovuta all’obbligo per i Comuni di comprare attraverso centrali di committenza, non più da soli. Risultato: il binomio centralizzazione degli acquisti e nuovo codice degli appalti sta devitalizzando, paralizzando il sistema. Le burocrazie comunali temono di sbagliare, le formazioni politiche stanno a guardare. Insieme forse stanno facendo resistenza alle due riforme. Ora. È vero che l’Italia è il paradiso del positivismo giuridico (una legge per qualsiasi inezia). È vero che il ricorso alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) spesso assume forme patologiche, ossessionanti e paralizzanti. È vero che il normativismo sfrenato e il proceduralismo bizantino oggi manderebbero in depressione gli antichi giuristi di Costantinopoli. È vero che ciascun comitato rionale si sente investito di un potere d’interdizione che non si sognerebbe nemmeno un taglieggiatore piazzatosi su un sentiero obbligato. Ma lo strabiliante ostruzionismo delle Caste politico-burocratiche nell’applicazione delle leggi dello Stato suscita più di un (angosciante) interrogativo. Qual è il livello di preparazione delle classi dirigenti? E qual è il loro livello di moralità? Possibile che nessuno, o quasi, sappia orientarsi fra i nuovi codici? Cosa c’è dietro lo sciopero bianco, dietro il sabotaggio di ogni novità? Non è semplice rispondere, anche se a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. Gira e rigira, la questione non cambia. Il Sud (ma non solo il Sud) è vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano, e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare. Progettare per spendere, anziché spendere per realizzare. C’è soprattutto questa filosofia perversa dietro la stagnazione-corruzione meridionale e dietro le tragedie umane che si susseguono con una frequenza vertiginosa. Giuseppe De Tomaso.

Il nuovo Codice degli appalti? Un capolavoro: 181 errori. Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti, scrive Gian Antonio Stella il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Centottantuno errori! Finisse sottomano ai maestri d’una volta, il dirigente di Palazzo Chigi che ha vistato il «Codice degli appalti», quello famoso che doveva «far ripartire l’Italia», sarebbe spedito dietro la lavagna col berretto a punta da somaro. Come si può incasinare una legge fondamentale con 181 errori su 220 articoli? C’è poi da stupirsi se il valore delle gare bandite, in questo caos, è crollato secondo l’Ance del 75%? «Voglio la testa dell’asino», dirà probabilmente Matteo Renzi nella scia del celeberrimo «Voglio la testa di Garcia» di Sam Peckinpah. Anche noi. Nome, cognome, ruolo. Per sapere se magari ha avuto lui pure il premio di «performance» come l’89% (ultimo dato disponibile) degli alti burocrati della presidenza del consiglio. Tutti bravissimi, tutti intelligentissimi, tutti preparatissimi. Sul «somarismo» non ci sono dubbi. La sentenza è della Gazzetta Ufficiale che ha appena pubblicato un umiliante «avviso di rettifica» (che vergogna…) con tutte le correzioni al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto…». Cinquecentoventisei righe per mettere in fila, come dicevamo, le correzioni a centottantuno errori. Alcune frutto di demenza burocratica. Come l’introduzione di un punto e il trasloco di un punto e virgola: «alla pagina 110, all’art. 97, comma 4, lettera c), dove è scritto: “...proposti dall’offerente;” leggasi: “...proposti dall’offerente.”;» Altre dovute alla negligenza: «Alla pagina 1, nelle premesse, al settimo visto, dove è scritto: “per l’attuazione delle direttive” leggasi: “per l’attuazione delle direttive”;» Altre causate da sciatterie sfuggite alla rilettura: «servizi di ingegnera». Altre ancora generate da evidenti difficoltà grammaticali: «alla pagina 18, all’art. 16, comma 1, al secondo rigo, dove è scritto: “è tenuto ad aggiudicare”, leggasi: “...sono tenute ad aggiudicare...”». Per non dire di spropositi vari: «alla pagina 28, all’art. 25, comma 6, al quinto rigo, dove è scritto: «... in sito dire periti archeologici.” leggasi: “... in sito di reperti archeologici.”» Oppure: «alla pagina 23, all’art. 23, comma 4, al secondo rigo, dove è scritto: “... i requisitigli elaborati ...” leggasi: “... i requisiti e gli elaborati ...”». Fino alle varianti pecorecce: «alla pagina 123, all’art. 105, comma 21, all’ultimo rigo, dove è scritto “...casi di pagamento di retto dei subappaltatori” leggasi “... casi di pagamento diretto dei subappaltatori”». E via così: dov’è scritto «infrastrutture strategiche» va letto «infrastrutture prioritarie», dove «...di cui al presente Titolo...» va letto «di cui al presente capo», dove «“il progetto di base indica ...” leggasi: “Il progetto a base di gara indica”». Dove «la seconda fase, avente ad oggetto» leggasi «il secondo grado, avente ad oggetto». Un delirio, con l’aggiunta di parole rococò: «alla pagina 61, all’art. 53, il comma 7 è da intendersi espunto». Sic. Nella galleria degli orrori, tuttavia, i più mostruosi sono altri. «Alla pagina 30, all’art. 26, comma 6, lettera b), dove è scritto: “... e di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... e di cui all’articolo 46, comma 1”». Per capirci: perfino un genio in materie tributarie o contrattualistiche, se i riferimenti sono sbagliati, si schianta. Sbagliare su queste cose, le pietre miliari delle leggi, significa far deragliare anche i fuoriclasse del settore. E il «Codice degli appalti» è pieno di strafalcioni così. «Il “comma 28” leggasi “comma 26”». «Dove è scritto: “... articoli 152, 153, 154, 155, 156 e 157.” leggasi: “... articoli 152, 153, 154, 155 e 156”». «Dove è scritto: “...di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... di cui all’articolo 46, comma 1”». Al che verrebbe da urlare: ne avessi almeno indovinato uno! Ora, non c’è al mondo piastrellista che possa posare 181 piastrelle sbagliate su 220, cuoco che possa carbonizzare 181 bistecche su 220, bomber che possa sbagliare 181 rigori su 220... Sarebbero tutti buttati fuori. Tutti. Giuliano Cazzola, sul blog formiche.net ironizza: «Nel Belpaese esiste una presunzione assoluta di corruzione a carico di tutte le opere pubbliche. Il che porta, in primo luogo, a fare delle leggi assurde e inapplicabili, vero e proprio tormentone per le imprese del settore. Ecco un esempio illuminante». Ancora più sferzante il giudizio di LavoriPubblici.it che per primo ha dato la notizia denunciando, al di là degli errori grammaticali o degli svarioni nella punteggiatura, la sostanziale modifica del «44% dell’articolato». «Ciò significa che per quasi tre mesi gli operatori hanno avuto a che fare con un codice difficilmente leggibile, con conseguenze che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di fare un’analisi libera da legacci politici», accusa durissimo il sito, «ci chiediamo, e vi chiediamo, se questo è il modo di legiferare e perché il testo originario sia stato predisposto dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri espropriando il ministero delle Infrastrutture della responsabilità e competenza della predisposizione di una legge che riguarda le infrastrutture ed i trasporti». Rileggiamo il verbo: «espropriando». Segno di uno scontro termonucleare tra due burocrazie. Di qua il ministero, di là Palazzo Chigi. Ma scusate: sarebbero questi i dirigenti pubblici che, stando al dossier del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, vengono pagati ai livelli apicali 12,63 volte più del reddito pro capite italiano cioè quasi il triplo, in proporzione, dei colleghi tedeschi? Questi i burocrati che mediamente prendono molto più che i vertici della Casa Bianca? Queste le «eccellenze» che per bocca di una sindacalista sostengono che il loro lavoro «richiede una elevata professionalità» e che «come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo» e che «nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio»? Ci si dirà: non facciamo d’ogni erba un fascio. Giusto. Per evitare generalizzazioni inique occorre però che chi aveva confezionato quello sconclusionato codice degli appalti, che secondo i costruttori ha fatto precipitare del 27% le gare bandite e del 75% il loro valore, venga subito rimosso. Anzi, per dirla a modo suo: espunto.

Mazzette nello spumante. Così pilotavano i processi. Sequestrato un elenco di sentenze a casa di Mazzocchi. Alcune riguardano Berlusconi, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Interventi al Consiglio di Stato per «aggiustare» i processi. È il nuovo e clamoroso filone di indagine avviato dai magistrati romani dopo la perquisizione effettuata a casa di Renato Mazzocchi, il funzionario di Palazzo Chigi indagato per riciclaggio perché nascondeva in casa oltre 230mila euro in contanti, bustarelle e fascicoli giudiziari. In particolare, alcune decisioni che riguardano Silvio Berlusconi. Gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava — titolari dell’inchiesta sul gruppo di faccendieri guidati da Raffaele Pizza che avrebbe truccato appalti e orientato nomine e assunzioni in enti pubblici — si concentrano sulle sentenze emesse negli ultimi due anni. E si intrecciano con quelli che hanno portato in carcere Stefano Ricucci. Anello di congiunzione sembra essere il giudice Nicola Russo, indagato e perquisito dalla Guardia di Finanza proprio perché sospettato di aver ottenuto soldi e favori, compreso il pagamento di notti in albergo con una donna, per «pilotare» l’esito dei provvedimenti. Ma i controlli riguardano adesso tutti i giudici componenti dei collegi. Il 4 luglio scorso — quando vengono arrestati Pizza, il suo presunto complice Alberto Orsini e numerosi imprenditori, mentre viene indagato il parlamentare di Ncd Antonio Marotta — gli investigatori del Nucleo Valutario coordinati dal generale Giuseppe Bottillo perquisiscono l’appartamento di Mazzocchi. Si tratta del capo della segreteria dell’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, funzionario del governo per la ricostruzione in Abruzzo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali dimostrano che l’uomo è molto legato a Marotta, dunque si cercano eventuali elementi utili all’indagine. E la sorpresa non manca. Come viene specificato nel decreto di sequestro «all’interno di una confezione di vino “Ferrari”, di una confezione di vino “Cavelleri”, di una scatola recante il logo “Frittyna”, tutte chiuse con nastro adesivo, sono occultati 247.350 euro». Una parte del denaro è già chiuso in alcune buste e tanto basta per avvalorare il sospetto che si tratti di tangenti. Anche perché nell’appartamento c’è molto altro: lettere di raccomandazioni e un pacco di sentenze emesse dal Tar e dal Consiglio di Stato. I pubblici ministeri chiedono la convalida del sequestro. Il giudice Pina Guglielmi accoglie l’istanza e nel provvedimento elenca i documenti trovati da Mazzocchi. Ma evidenzia anche il sospetto della Procura sui processi «aggiustati», sottolineando proprio il ruolo del funzionario all’interno delle istituzioni. E tanto basta per dare corpo al sospetto sull’esistenza di una «rete» in grado di orientare le scelte di alcuni giudici amministrativi e delle commissioni tributarie. Scrive la gip: «Circa la somma sequestrata al Mazzocchi, deve osservarsi che depongono nel senso della illecita provenienza l’importo rilevante, le modalità di occultamento, i contenuti della documentazione sequestrata (curriculum vitae di alcune persone, domanda di partecipazione del concorso di tale De Stefano Damiano, ordinanze e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato relative a contenziosi nei quali è parte Silvio Berlusconi). Detti elementi, complessivamente valutati, inducono a ritenere che Mazzocchi, grazie al lavoro che svolge (dipendente della Presidenza del Consiglio) sia il referente di persone interessate a concorsi pubblici o a giudizi amministrativi e che abbia ricevuto quel denaro di tali opachi contatti. A ciò si aggiunge che l’unica ragionevole spiegazione al fatto che Mazzocchi abbia scelto di occultare in casa una somma così rilevante, esponendosi in tal modo a tutti i gravi rischi conseguenti, può essere rappresentata solo dalla consapevolezza di non poterne dimostrare di averne acquisito la disponibilità in maniera lecita, a conferma, almeno in termini di fumus, che la somma proviene da un delitto che potrebbe essere il millantato credito o la corruzione». Nelle conversazioni di Pizza e di Marotta si parla spesso del Consiglio di Stato. Entrambi mostrano dimestichezza con i giudici. In un colloquio del 9 gennaio 2015 con Davide Tedesco, stretto collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Pizza dichiara: «Tanto per essere chiari io ho bloccato il sistema elettorale, se non era per me non si votava... perché vedi i miei rapporti, la dimostrazione è questa, io sono riuscito con i miei rapporti... nonostante c’erano il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministero degli Interni... con i miei rapporti sono riuscito a bloccare il sistema... il Consiglio di Stato ha dato ragione a me...». In questo «sistema» emerge il ruolo Nicola Russo, il giudice accusato di aver favorito Ricucci. Molti indagati ne parlano e le verifiche svolte sul suo conto hanno fatto emergere i regali e i favori ottenuti. Come le due notti presso l’hotel Valadier di Roma «insieme all’amante Zaineb Dridi, dove Ricucci lo ha accompagnato nel marzo scorso e lo ha contatto il giorno successivo». E dove, questo è il sospetto dei magistrati, ha pagato il conto.

Un giudice tarantino nello scandalo Ricucci. Si tratta di Nicola Russo, magistrato del Consiglio di Stato: è indagato, scrive Taranto Buona Sera il 23 luglio 2016.  È tarantino il giudice coinvolto nello scandalo che ha portato agli arresti l’immobiliarista Stefano Ricucci e l’imprenditore Mirko Coppola. Il magistrato è Nicola Russo, cinquantenne, in servizio al Consiglio di Stato e componente della Commissione tributaria regionale del Lazio. L’inchiesta riguarda un giro di fatture false per un milione di euro e un presunto aggiustamento di sentenze grazie alle quali Ricucci avrebbe ottenuto enormi vantaggi economici. Il caso, come è noto, è esploso con gli arresti eseguiti dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del Gip di Roma, nell’ambito di una inchiesta sul fallimento di una delle società del Gruppo Magiste, riconducibile a Ricucci. Veniamo al ruolo che avrebbe avuto il magistrato tarantino. Da quanto emerso dagli accertamenti disposti dal procuratore Paolo Ielo, il magistrato avrebbe ottenuto favori per pilotare alcune sentenze. Ma quali favori avrebbe ottenuto da Ricucci? Soldi, innanzitutto. Secondo quanto scrive Repubblica, per gli inquirenti «è altamente probabile» che Russo «sia stato indebitamente retribuito da Stefano Ricucci in cambio della indebita rivelazione e/o anche dello sviamento della decisione in favore della società del gruppo Magiste». A questa presunta indebita retribuzione, gli inquirenti fanno risalire l’acquisto da parte del giudice Russo di una Porsche Cayenne e di un immobile. Acquisti, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, effettuati dopo il deposito di una sentenza della Commissione Tributaria che avrebbe fatto maturare a Ricucci un credito da 20 milioni di euro. Nelle carte dell’inchiesta si fa riferimento allo «smodato tenore di vita» del magistrato. Nella storia c’è anche un particolare piuttosto piccante: Ricucci avrebbe pagato il soggiorno del magistrato in compagnia di una donna, tale Zaineb Dridi, all’hotel Valadier di Roma. Tutte circostanze che Ricucci, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, smentisce: «Non ho mai pagato il giudice Russo e nemmeno gli ho pagato l’albergo. Russo l’avrò visto una volta in vita mia e di sicuro dopo che era già uscita la sentenza». C’è da dire che la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto per il magistrato l’interdizione dalla professione, richiesta non accolta dal gip. Il giudice Russo resta comunque indagato.

La verità di Zaineb Dridi, con una lettera inviata alla stampa che ha fatto il suo nome accostandolo alla vicenda Ricucci-Russo e pubblicata solo su "Affari Italiani" il 14 agosto 2016. "Spett.li redazioni in indirizzo, con la presente e-mail, io sottoscritta Zaineb Dridi, intendo chiarire il macroscopico travisamento dei fatti in base al quale sono stata assurta addirittura a prova dei legami tra Stefano Ricucci e il giudice Nicola Russo, nonché falsamente e ingiustamente apostrofata all’interno di atti giudiziari quale “amante/meretrice” di quest’ultimo, con mio grande stupore e sgomento: e io che pensavo che le indagini e la giustizia fossero una cosa seria! Non conosco assolutamente il loro grado di conoscenza - come apparirà chiaro da quanto di seguito narrato -  ma conosco ovviamente la verità dei fatti che mi riguardano e che diverge totalmente da quanto riportato da alcuni di Voi negli articoli pubblicati dal 20 al 25 luglio scorso. Anzitutto desidero precisare che solo ora, a distanza di 20 giorni, sto trovando quel minimo di forza per contattarvi e affrontare questa vicenda per me drammatica: vi posso garantire che mi avete distrutto la vita e violentata nell’animo. Vi spiego ora come stanno le cose. Io non ho nessunissima relazione con Nicola Russo se non in quanto padre della mia migliore amica: io e la figlia siamo amiche intime da ormai due anni e di conseguenza è del tutto naturale che io ne conosca anche il padre, il quale diverse volte ha accompagnato la figlia intrattenendosi con noi in alcune delle numerosissime nostre serate trascorse insieme, da padre moderno e premuroso. Dunque io non ho mai passato un istante da sola con il giudice Russo, ma sempre alla presenza della figlia! Questo che vi sto dicendo lo posso provare con centinaia di foto e video (meno male che ho questa mania) fatti con il mio telefonino, con tanto di indicazione di data, ora e luogo, compreso un video fatto nella fatidica sera dell’8 marzo (nonché fiumi di conversazioni e messaggi vocali su WhatsApp sempre con la figlia). Quella sera eravamo una grossa tavolata a cena al “Bolognese” (tra cui Nicola Russo e la figlia) e verso fine cena abbiamo incontrato, ritengo per caso, un’altra comitiva con diverse amicizie in comune con la mia e nella quale c’era anche Stefano Ricucci. Quest’ultimo è una persona che ho incontrato pochissime volte per caso nei locali romani, si contano a stento sulle dita di una mano: in due anni che frequento Roma saranno state tre o quattro volte al massimo e con lui non ho alcun grado di conoscenza, benché mi abbia chiesto il numero di telefono io non glielo ho mai dato. Tornando a quella sera, si è deciso poi di continuare la serata andando a ballare tutti insieme all’hotel “Valadier”, dove come noto si svolgono tra le più belle feste serali romane. Ci siamo dunque spostati in gruppo con diverse macchine di proprietà e taxi tutti quanti pieni e insieme. Quindi non risponde minimamente al vero che Ricucci abbia accompagnato me e Russo al predetto hotel per avere un rapporto sessuale a pagamento. Continuando la narrazione della vicenda, siamo arrivati al Valadier dove abbiamo trascorso la serata ballando tutti quanti in comitiva e come vi dicevo ho anche un video di questo. In particolare, ricordo che Nicola Russo è rimasto pochissimo lì, forse mezz’ora e poi è andato via, presumo a casa da sua moglie. Io, invece, sono rimasta a ballare insieme alla figlia e ad un’altra mia amica intima e durante la serata Ricucci ha cercato di parlare, approcciare credo con me, ma io non gli ho dato alcuna particolare confidenza se non due chiacchiere di cortesia. A fine serata, siccome si era fatto molto tardi ed eravamo stanchissime, abbiamo deciso (io, la figlia di Russo e la mia suddetta amica, pronta a testimoniare) di rimanere a dormire lì al Valadier e a quanto so il conto della camera l’ha pagato il padre della mia amica, Nicola Russo. Preciso peraltro che non è la prima volta che io e la figlia Russo o l’altra mia amica dormivamo insieme in quell’hotel (circostanze documentate con numerose foto, selfie e video fatti nelle camere dell’hotel insieme) dove sono da tempo registrata. La mattina seguente, in camera è arrivata una telefonata da parte di Ricucci, da quanto ho capito sotto intercettazione, alla quale purtroppo ho risposto io. Ed in base a questa telefonata, intercettata dalla Guardia di Finanza, e nella quale Ricucci parlando con la reception faceva il mio nome e quello di Russo, non sapendo a che nome era prenotata la stanza (ma sapendo che ero lì a dormire con la figlia), facendosi transitare l’interno con il fine di parlare con me per invitarmi a pranzo e chiedere il mio numero di cellulare, richieste che ovviamente declinavo. Ebbene, da questa telefonata hanno costruito un castello: quanto si legge nei miei riguardi negli atti giudiziari è frutto del desiderio degli investigatori di far quadrare il cerchio e provare, in qualche modo o in qualsiasi modo, che Ricucci abbia pagato Russo e con lui avesse un’amicizia intima. Sono cose che io non so assolutamente e sono stata tirata in mezzo senza neanche uno straccio di prova. Hanno costruito un castello, ripeto, su base meramente indiziaria e sono stata usata, triturata come persona per una banale telefonata: …forse perché sono di origine straniera e dunque non valgo niente, non ho una dignità di persona… o forse perché l’equivalenza straniera-prostituta viene facile…ma così non è giusto, ne ho versate di lacrime nelle notti insonni per questo…Nessun’altra prova, neanche indizio! Se fossi stata l’amante di Russo avrebbero dovuto intercettare almeno qualche nostra telefonata intima, qualche messaggino amoroso, e invece niente! O se fossi stata una “meretrice” al soldo di Ricucci doveva avere almeno il mio numero di telefono, non credete??? E invece anche qui nulla di tutto questo, neanche una telefonata intercettata tra noi! Mi chiedo allora perché farmi tutto questo…distruggere chiunque pur di provare un reato…Questa storia, da quel 20 luglio, mi ha veramente rovinato la vita. Nonostante tutta la sofferenza che sto patendo ho trovato la forza per ribellarmi a questa brutale violenza subita: ora ho capito che le parole unite alla superficialità di chi indaga possono fare più male di qualsiasi altra cosa. Non sono un’esperta, ma basta vedere un qualsiasi film poliziesco per sapere che sarebbe bastato controllare le celle telefoniche agganciate quella notte dai nostri telefoni per verificare che in quell’hotel Nicola Russo non c’era ma c’eravamo io, sua figlia e un’altra mia amica. Quanto vi sto dicendo, l’ho anche dichiarato alla Guardia di Finanza il giorno 20 pomeriggio, quando sono stata ascoltata come persona informata sui fatti dopo l’arresto di Ricucci e dopo che quell’ordinanza riportata nei quotidiani, per me fatidica, era purtroppo già stata scritta. Sperando, questa volta, che sia chiara la verità, perché questa è la verità dei fatti! Per quanto sopra esposto, confido nella pubblicazione della mie dichiarazioni, oltre che per dovere di cronaca, anche a parziale ristoro della mia reputazione e onore, gravemente lesi, e per migliorare il mio stato di salute. Distinti saluti. Zaineb Dridi"

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su "Il Foglio". “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».

Guardia di Finanza, gli hotel pagati al generale Toschi: omaggio del socio di Verdini. Spuntano prove della sua rete di relazioni con personaggi come Riccardo Fusi, regista del sistema Grandi Appalti, poi condannato per corruzione e bancarotta fraudolenta, scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Nel passato del Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giorgio Toschi, c'è una scatola di cartone che dice qualcosa dell'uomo, quanto basta dell'ufficiale, molto della sua rete di rapporti che ne avrebbe sconsigliato la nomina il 29 aprile scorso e che forse, e al contrario, a questo punto la spiega. In quella scatola, custodita nell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, ci sono due fatture per altrettanti soggiorni alberghieri.  Soggiorni del luglio e del settembre del 2008 che il generale non ha mai saldato, perché qualcun altro lo faceva per lui. Un costruttore e corruttore che di nome fa Riccardo Fusi, un "pratese" che in quegli anni, a Firenze, dove Toschi era Comandante regionale, contava. Perché tasca e "socio occulto" di Denis Verdini. Perché Grande Elemosiniere toscano e perno del Sistema trasversale che presiedeva agli assetti politici e imprenditoriali lungo l'Arno. Almeno fino a quando le inchieste giudiziarie sui Grandi Appalti (2010) non lo hanno travolto insieme al suo gruppo (la BF holding e la BTP), schiantato sotto il peso dei debiti e per il cui crac Fusi risponde ora di bancarotta fraudolenta. Ultimo, ma non unico, dei processi che lo hanno visto e lo vedono imputato. Da quello che sta celebrando il suo primo grado a Firenze per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino (dove Fusi è imputato con Verdini), a quello chiuso nel febbraio scorso in Cassazione con una sentenza di condanna a 2 anni per la corruzione nell'appalto per la scuola dei Marescialli di Firenze. La scatola e il Generale, dunque. Sepolta negli atti del processo per il crack del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini, l'evidenza è numerata "B14". E, nel 2010, è parte delle migliaia di carte che il Ros dei Carabinieri acquisisce durante le perquisizioni negli uffici del Gruppo Fusi. All'interno, una messe di fatture, molte delle quali intestate "UNA hotel", la catena alberghiera di cui Fusi è proprietario. La scatola appare da subito un formidabile strumento di lettura della rete di relazioni di Riccardo Fusi, oltre che prova del suo rapporto "a catena" con Denis Verdini. Ma non solo. Tanto è vero che, con una decisione inedita e che la dice lunga sul grado di condizionamento ambientale che Verdini e Fusi erano riusciti a imporre, l'analisi del suo contenuto "contabile" viene delegata non alla Finanza, evidentemente ritenuta non affidabile, ma alla direzione generale dell'Agenzia delle Entrate della Toscana che, il 24 maggio di quell'anno, ne redige un rapporto di una quarantina di pagine. Le ultime delle quali di particolare interesse. "Nella stessa scatola B14 - scrive l'Agenzia delle Entrate - sono stati reperiti documenti di spesa emessi da UNA spa, addebito spese alberghiere non pagate dai relativi beneficiari e addebitate alla società BF servizi srl. (altra società del Gruppo Fusi ndr.)". E di quei beneficiari a scrocco viene allegato un elenco di 50 nomi. Alcuni decisamente più importanti di altri. Accanto al figlio di Denis Verdini, Tommaso, e ai suoi amici che, di volta in volta, decideva di portare con sé all'Una hotel del Lido di Camaiore, figurano infatti due ufficiali della Guardia di Finanza. Giorgio Toschi (laconicamente indicato dall'Agenzia come "generale della Gdf") e Marco De Fila (neppure indicato come appartenente alla Finanza). Il primo, Comandante regionale in Toscana dal 2006 al 2010. Il secondo, comandante provinciale nel 2009 della Finanza di Prato, quella competente per i controlli sul Gruppo Fusi (la cui sede legale era a Calenzano). E del resto che Fusi avesse un occhio attento a Prato lo dimostra la presenza nell'elenco degli ospiti anche di Costanza Palazzo, figlia di Salvatore, Presidente del Tribunale di Prato fino all'ottobre 2013, quando si dimise dalla magistratura per far cadere al Csm l'azione disciplinare cui era stato sottoposto per avere "omesso consapevolmente di astenersi dalla trattazione e dall'emissione di numerosi decreti ingiuntivi in favore di società che, pur in concordato preventivo, erano collegate a Riccardo Fusi, cui era legato da amicizia e assidua frequentazione". Fusi, insomma, sa scegliere i suoi ospiti. E il generale Giorgio Toschi, lo è almeno due volte come documentano le fatture XRF 310520/07 e XRF453092/07. Entrambe nello stesso albergo: il quattro stelle UNA hotel di Bergamo, in via Borgo Palazzo, una costruzione in vetro e acciaio che chiuderà i battenti alla fine del 2013. La prima fattura è relativa a un soggiorno di due notti il 5 e 6 luglio 2008, un sabato e una domenica. La seconda, ancora due notti, il 9 e 10 settembre, un martedì e mercoledì, di quello stesso anno. Sempre la stessa camera. Una "matrimoniale classic" con "free upgrade in executive junior suite". Per una spesa che, in luglio, è pari a 199 euro e 50 centesimi, e in settembre a 188 euro. E in cui, perché l'ospite non abbia a rimanerne a male, tutto è compreso. Oltre al lettone, una mezza minerale e un pacchetto di patatine in luglio. Due mezze minerali e un succo di frutta in settembre. Del resto, l'ospite è così di riguardo che il lunedì 30 giugno del 2008, alla vigilia del primo soggiorno del Generale, una mail inviata dall'ufficio prenotazioni UNA all'hotel di Bergamo e allegata alla fattura trovata nella scatola "B14", raccomanda di "far trovare in camera al sig. Toschi un cesto di frutta". Non è dato sapere, né ha importanza, per quale motivo l'allora Comandante della Regione Toscana della Guardia di Finanza fosse a Bergamo e avesse bisogno di una matrimoniale con free upgrade a junior suite. Né se fossero improrogabili ragioni di servizio a spingerlo in Lombardia in un week-end estivo. Certo, si potrebbe osservare che se fossero state ragioni di ufficio a muoverlo da Firenze, non una ma due volte, il Generale avrebbe sicuramente potuto usufruire della foresteria dell'Accademia che a Bergamo ha la sua sede e che lo stesso Toschi ha comandato. In ogni caso, è singolare che un generale di divisione quale allora era Toschi, con uno stipendio netto mensile di circa 4mila e 500 euro, dovesse scroccare una camera di albergo, un pacchetto di patatine, due succhi di frutta a Riccardo Fusi e al suo Gruppo sui quali, come Comandante regionale, aveva "giurisdizione", senza che questo gli apparisse sconveniente. Non fosse altro per la formula linguistica con cui, riferendosi al Generale Toschi, la direzione della UNA Hotel di Bergamo chiede alla "Bf servizi srl" (società infragruppo di Fusi) di liquidare le fatture in sospeso dei suoi due soggiorni ("Con riferimento al soggiorno dei vostri clienti presso il nostro hotel siamo lieti di inviarvi le fatture per il relativo saldo"). Non fosse altro, perché - "cliente" o meno che fosse considerato dal Gruppo Fusi - i fatti hanno documentato come, fino al 2010 e alle indagini della Procura di Firenze e del Ros dei carabinieri, la Guardia di Finanza, che aveva in Toschi il suo ufficiale più alto in grado in Toscana, non si sia accorta di quale grumo di corruzione si fosse saldato nel rapporto tra Fusi e Verdini, tra il Gruppo BF-BTP e il Credito Cooperativo Fiorentino. È un fatto che le notti a Bergamo in carico a Fusi non sembrano uno sfortunato inciampo nella storia di Toschi. L'ufficiale era già finito in una vicenda non edificante in quel di Pisa nel 2002, dove era stato comandante Provinciale e dove una generosa archiviazione (come ha documentato il "il Fatto" il 3 maggio) lo aveva salvato da un processo per concussione. Accusato di aver chiesto e ottenuto denaro contante dalle concerie della zona per evitare verifiche (e per questo indagato), Toschi aveva dovuto spiegare per quale misteriosa ragione fosse riuscito a cambiare in cinque anni tre Mercedes nuove di pacca con formidabili sconti. Perché fosse per lui abitudine cenare con imprenditori della zona. Soprattutto, per quale ragione, non facesse altro che cambiare banconote vecchie con banconote nuove o perché, nell'arco di anni solari successivi, il suo conto corrente personale avesse registrato prelievi tra i 4 e i 10 milioni di lire. Come se l'uomo potessero campare di aria. "Ho ricevuto denaro contante dalla mia famiglia di origine", aveva sostenuto Toschi in un drammatico interrogatorio con l'allora procuratore Enzo Iannelli. In quel 2002, la spiegazione bastò. La scatola "B14" meriterà altre risposte.

Consob, il caso della funzionaria che vigila su stessa. La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo, scrivono Milena Gabanelli e Giovanna Boursier il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni? Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti. Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti», aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu. L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain». Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà. L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione. Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.

Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.

Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.

Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.

Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.

Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.

La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.

Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.

Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.

Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.

Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.

Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.

Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.

Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».

Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.

Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.

La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.

Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».

Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»

Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.

Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.

Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.

Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.

Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.

Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.

Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!

Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:

– Gesù è stato un leader religioso.

– Maometto è stato un leader religioso e militare.

– Gesù non ha mai ucciso nessuno.

– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.

– Gesù non ha mai posseduto schiavi.

– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).

– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.

– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).

– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.

– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.

– Gesù non ha mai torturato nessuno.

– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.

– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).

– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.

– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.

– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.

– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.

– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.

– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).

– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.

“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.

“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39

“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12

“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22

“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4

“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18

“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64

“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11

“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16

“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111

“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52

“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10

“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47

“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29

Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29

“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13

“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4

“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51

“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”.  – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234

“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36

“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35

“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28

“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14

“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12

“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13 

Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI….POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE“. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV

L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.

Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste». 

7 Luglio 1647, i potenti tremano: Masaniello è il Re di Napoli, scrive il 7 luglio 2015 Francesco Pipitone su “Vesuvio Live”. Masaniello è un nome che a Napoli viaggia ancora nell’aria, uno spirito che aleggia nella città, in particolare nella zona di Piazza Mercato, luogo dove la persona con una buona predisposizione dell’animo può allungare le mani e afferrare l’umile pescatore, Re senza corona che ha governato per pochi giorni e facendo tremare i potenti, fin quando la pazzia e le basse mire non hanno, brutalmente e fatalmente, ucciso il corpo, e solamente il corpo, del rivoltoso. Quella buona predisposizione d’animo in altro non consiste se non nel desiderio fermo, puro e forse un po’ ingenuo, di libertà, una libertà bella e semplice che vuol dire amare e rispettare la propria Terra, la propria gente. Tommaso Aniello d’Amalfi, luogo di origine del padre di Masaniello, nacque in Vico Rotto a Napoli il 29 Giugno 1620, da Cicco e Antonia Gargano. Nella metà del Seicento la popolazione partenopea all’interno delle mura ammonta a circa mezzo milione, del quale solo una piccola parte ha un’occupazione stabile: il resto vive alla giornata, mentre le classi più alte e agiate vivono di usura, speculando sulle gabelle (imposte indirette sulle merci), vendita di voti e rendita, mentre tra i nobili i soli che esercitano con onore la propria funzione erano quelli dei più antichi Sedili cittadini. Le gabelle gravano in particolar modo sui beni di prima necessità, come il grano, il pane, frutta, verdura, carne, pesce, in modo da costringere il popolo alla fame. Il pretesto per la rivolta popolare nasce da lontano, il giorno di Santo Stefano del 1646, quando il viceré don Rodrigo de Leon, Duca d’Arcos, viene contestato mentre si reca alla Santa Messa dopo la notizia di nuove gabelle sulla frutta. Il 3 Gennaio 1647 vengono pubblicate le tariffe, tuttavia è solo il 20 Maggio dello stesso anno che qualcosa si muove: in città spuntano manifesti che parlano di tumulti sorti a Palermo ed esortanti a fare lo stesso a Napoli; diciassette giorni dopo, il 6 Giugno, viene incendiata di notte la bottega nella quale avviene la riscossione della gabella sulla frutta, gesto che, come si seppe in seguito, fu compiuto da Masaniello. Come mai, però, costui si decise ad agire? Masaniello è un lazzaro, un giovane plebeo ca votta a campà, ossia tira a campare come può, che col tempo però si è “specializzato” nell’attività di pescivendolo. Molto furbo e con grande carisma, fedele alla sua gente, alla religione e al Re, come ogni lazzaro aveva avuto a che fare praticamente con tutti, dai poveracci ai signori, dai mariuoli agli intellettuali e agli artisti, specialmente quando era finito in galera per essersi opposto ai sequestri di pesce. In prigione ebbe modo di conoscere dei prigionieri politici, che lo portarono ad incontrare don Giulio Genoino, eletto del popolo destituito perché fastidioso e fervente nel difendere la plebe contro la nobiltà, fattosi prete a più di 70 anni perché stanco di entrare e uscire dalle carceri e il quale, con la sua cultura, affascinò Masaniello e lo rese cosciente della corruzione che soffocava la popolazione, pur senza mai arrivare a manovrarlo: se ci fosse riuscito, d’altra parte, il ragazzo non avrebbe fatto una triste fine. Spaventato dall’incendio, il viceré tenta di calmare la situazione scarcerando due guappi affinché l’eletto Naclerio potesse contrattarvi, Peppe Palumbo e l’abate Perrone, amici di Naclerio stesso oltre che di don Genoino. Nel frattempo Masaniello addestra qualche centinaio di alarbi, i lazzari che dovevano sfilare alla festa per la Madonna del Carmine curata da fra’ Savino, cuciniere del Carmine e amico di Genoino, in modo da indurli sì a protestare contro il mal governo, ma allo stesso tempo sottolineando la fedeltà al Re Filippo IV, detto El Rey Planeta perché con lui la Spagna portò alla massima espansione il suo impero dove non tramontava mai il Sole. La tappa successiva fu il 30 Giugno, quando Masaniello e più di duecento alarbi con un tamburo e vestiti di stracci, urlano “Mora lo mal governo, viva ‘o Rre”, oltre a vari altri gridi contro le gabelle e le soverchierie. Giunti sotto Palazzo Reale ai pezzenti non viene vietato di protestare, probabilmente per ordine dello stesso viceré che voleva evitare pericolose tensioni. Un chiaro segno di debolezza che incoraggia Masaniello, suo cognato Mase Carrese (padrone abbastanza benestante di una bottega di frutta, verdura e carbone) e Ciommo Donnarumma (ortolano, anch’egli abbastanza benestante) a organizzare una protesta ben più dura giusto una settimana dopo, domenica 7 Luglio, la vera e propria rivoluzione. Quella mattina gli alarbi sono circa trecento ed armati di canne, stanno dietro Sant’Eligio. Ad essi si aggiungono contadini, pescatori e commercianti che davanti alla bottega per la riscossione della gabella manifestano l’intenzione di non pagare. Coloro che ricorrono a Naclerio, che fa il doppio gioco insieme ai due camorristi (categoria fatta di venduti geneticamente traditori del popolo, dunque), si sentono dire che è meglio che paghino; una delegazione di negozianti riesce a farsi ricevere da Don Rodrigo d’Arcos, il quale li manda da un commissario, ma alla fine nulla cambia e perciò Carrese, dopo aver preso uno schiaffone sul volto al Mercato, rovescia a terra la sua merce e se la mette a vendere 4 soldi al rotolo senza alcuna tassa. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro. A quel segnale, Masaniello e alcuni dei suoi lasciano Sant’Eligio e si catapultano nel mezzo del mercato, gli scugnizzi portano l’Inferno a Napoli e non vogliono conoscere alcuna ragione, buttando dei fichi in faccia a un Naclerio che come al suo solito voleva dimostrare alla polizia di essere il padrone della folla. Gli alarbi scappano e seminano i poliziotti, arrivano altri lazzari che di fichi non sanno cosa farsene, se non mangiarli, allora tirano grossi sassi colpendo in petto Naclerio, salvato e condotto svenuto al Palazzo Reale da Perrone. A questo punto la folla si fa davvero consistente e Masaniello la arringa dalla fontana con i delfini, lo stesso punto, più o meno, dove trovò la morte per decapitazione Corradino di Svevia: non si sa di preciso cosa abbia detto, secondo alcuni semplicemente di ribellarsi e incendiare le botteghe dei dazi, secondo altri un discorso da capo con la promessa che, grazie alla Madonna del Carmine e il patrono San Gennaro, la sofferenza sarebbe ora finita. Masaniello, a capo di quasi mille persone, distrusse i locali del dazio e si diresse a Palazzo Reale per prendere Naclerio, rifugiato nelle stanze della moglie di don Rodrigo. Quello scappa, ma la rivolta si sta propagando in tutta la città e i soldati vengono man mano disarmati. Il viceré prepara la fuga e si rifugia al convento di San Luigi, da dove, sotto suggerimento del conte genovese Sauli, scrive dei bigliettini dove annuncia la soppressione della gabella e li lancia alla gente. Non è sufficiente per don Giulio Genoino, che vuole la reintroduzione di un discusso privilegio concesso al Regno di Napoli dall’imperatore Carlo V, con cui si stabiliva uguale rappresentanza per patrizi e plebei, oltre a una giusta redistribuzione dell’onere delle gabelle. Contemporaneamente in città venivano aperte le carceri e compiuti saccheggi, con i camorristi Perrone e Palumbo stavolta a capo di alcuni insorti – chissà se il viceré lo sapeva. Alla sera Masaniello fa suonare le campane del Carmine per adunare la gente, dando appuntamento per il giorno successivo: bisognava far abbassare anche la tassa sulla farina; don Rodrigo d’Arcos si è rifugiato al Maschio Angioino e ci resterà tre giorni. Masaniello ora è consapevole di quanto potere abbia nelle proprie mani; Genoino lo lascia fare, i due guappi pure. Il caporivolta dà i primi ordini, primo tra tutti abbassare il prezzo del pane, girando per gli esercizi, controllando di persone e minacciando di tagliare la testa agli imbroglioni. Inevitabilmente si concede qualche vendetta: per esempio, dà al fratello un elenco di case da bruciare, tutte appartenenti a uomini corrotti, con l’ordine puntualmente rispettato di non rubare neanche la cosa più insignificante: tutto alle fiamme. I consensi attorno a Masaniello crescono, a un certo punto medita una rottura con la Spagna, dato che può facilmente conquistare i castelli, ma Giulio Genoino lo fa desistere perché non vuole rinunciare alla protezione del Re, bensì solo le riforme: è la scelta, forse, che condanna Masaniello a morte. Don Rodrigo era convinto, in fondo, che si trattasse solo di un po’ di caos, il capriccio di un pescivendolo che presto sarebbe stato abbandonato, o si sarebbe scocciato. Un pescivendolo facilmente ammansibile, magari con un vitalizio consistente, da signore, ma il tentativo di corruzione non sortisce effetto. Altri individui bisogna dunque comprare, e allora gli avvocati Mastellone e De Palma fanno spuntare un documento che somiglia al privilegio di cui parla Genoino, che provvede personalmente a integrare e renderlo uguale all’originale, che secondo lui, evidentemente, si trova in Spagna. Genoino crede di non aver più bisogno di Masaniello, del quale il viceré può fare ciò che vuole: la notte tra mercoledì e giovedì, la vita di Masaniello è attentata due volte, prima con un coltello e poi con cinque colpi di archibugio, ma la colonna di nemici viene afferrata dal popolo devoto e giustiziata per essersi ribella al Re e al popolo: decapitati, teste infilzate sui pali in mostra al mercato e circa 30 corpi trascinati in città. Il privilegio viene letto finalmente nella Chiesa del Carmine e approvato dal popolo, ora Masaniello può andare dal viceré, insieme a Genoino e al mediatore cardinale Filomarino, affinché fosse firmato; per l’occasione don Rodrigo gli ha fatto consegnare un veste d’argento. Durante il tragitto Masaniello ripete più volte alla gente di incendiare tutta Napoli se non dovesse tornare dal palazzo, però tutto va liscio e dal balcone saluta la folla, oltre a baciare i piedi al viceré tra le acclamazioni della plebe, ricevendo in cambio il titolo di capitano del popolo e una collana d’oro, accettata solo una volta ricevuta l’autorizzazione dei popolani. Sono i primi segnali del suo crollo nervoso. I giorni seguenti prosegue a governare con i soliti buoni propositi, distribuisce le vivande, fa saccheggiare i tesori dei disonesti e le case dei nobili scappati per le opere utili al popolo, ristabilisce l’ordine pubblico. Con don Giulio e il nuovo eletto Francesco Arpaja però è sprezzante e irrispettoso, il suo comportamento si fa stravagante, anche nel Duomo in occasione del giuramento sul privilegio. Masaniello ha vinto la sua lotta, anche i suoi manovratori, i quali ora meditano la sua morte. Prima di tutto bisogna fargli mancare un favore così incondizionato della gente, dunque viene sparsa la falsa voce della pederastia di Masaniello, oltre a insinuare che non sia giusto che un semplice pescivendolo comandi sui suoi pari. La domenica annuncia di non voler più comandare e fa smantellare le milizie popolari, la gente festeggia e lui se ne va a Posillipo con il viceré che lo ha invitato, per distrarlo mentre si forma in segreto il nuovo assetto: d’ora in poi gli ordini di Masaniello sono considerati senza valore. Lunedì si sveglia dopo una notte febbricitante e comincia dare ordini, a pretendere esecuzioni, il suo fisico è debolissimo e la gente non lo segue più, essendogli anzi ostile per la sua pazzia. Di sera viene legato e sorvegliato in casa sua, il 16, giorno di celebrazione della Madonna del Carmine, viene destituito e se ne ordina l’incarcerazione fino alla guarigione. Masaniello, però, riesce a fuggire e si reca nella Chiesa, dove tiene sul pulpito l’ultimo amaro discorso in preda alla follia, in cui ricorda i risultati della lotta, ammonisce i concittadini che lo hanno tradito e annuncia la sua morte imminente, poi scese e si denudò in mezzo alla navata. Portato in cella, fu ucciso con alcuni colpi di archibugio da alcuni capitani corrotti e decapitato, il copro ai rifiuti e la testa al viceré come prova. I corrotti sono premiati con cariche di potere e somme di denaro. Il 17 Giugno il popolo si accorge che il pane costa di nuovo come prima e le gabelle reintrodotte, così va a recuperare il corpo disfatto di Tommaso Aniello e lo porta in processione, dopo averlo lavato e ricucito, il 18 Luglio al funerale celebrato dal cardinale Filomarino, forse l’unica persona che ha davvero apprezzato Masaniello, pur allontanandosene dopo le prime stravaganze. Con il feretro davanti al Palazzo Reale, don Rodrigo in segno di lutto fa abbassare le bandiere. Di lui il cardinale Filomarino scrisse, in una lettera al papa: Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA. 

La Storia violata, scrive Valerio Rizzo il 17 maggio 2009. Gli storici continuano a voler ignorare una storia piena di dolore, disperazione e di morte che da quasi 150 anni aspetta di essere scritta sui testi scolastici. L’esempio più emblematico di questa continua censura storica è il Lager di Finestrelle. Ma facciamo un piccolo passo indietro, cosa ha comportato l’Unità d’Italia? Le cifre ufficiali, anche se molto sotto-valutate, sono terrificanti: 5212 condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Una vera e propria repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia e forse la si può definire come la prima pulizia etnica dell’epoca moderna, operata sulle popolazioni meridionali, dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti. Se queste argomentazioni ci indignano, niente può farci venire il ribrezzo più delle vicende che hanno coinvolto il forte di Fenestrelle dal 1860 al 1870. In quel periodo si concretizzò il primo campo di sterminio della storia moderna, in esso trovarono la morte più di 8.000 soldati del Regno delle Due Sicilie, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di letterati, preti, briganti e miseri contadini. Ma tutto ciò continua ad essere ignorato dalle menti illustri della storiografia “ufficiale” italiana e dai letterati; addirittura sul sito dell’Amministrazione Provinciale la fortezza viene presentata come “Monumento simbolo della Provincia di Torino” (con tanto di foto in notturna per decantarne implicitamente la bellezza), mentre sul sito ufficiale del Forte, si invita alla devoluzione del 5 per mille! Sempre sul sito De Amicis scrive: “Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa, innalzata per arrestare un’invasione di popoli, o per contener col terrore milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di Finestrelle”. Si chiude con “Guardiano immobile e supremo della nostra indipendenza e del nostro onore”. E’ la pura esaltazione dell’inferno! Ora immaginate se invece di Fenestrelle si parlasse di Auschwitz, e con in mente il nome del famoso lager nazista rileggete le parole di De Amicis appena sopra riportate!! Noi popolo meridionale abbiamo l’obbligo morale di dire tutte le verità sulla cieca e razzista politica di aggressione che i Savoia e i Piemontesi hanno fatto nelle nostre meravigliose regioni! Di seguito riporterò la vera storia, quella che non troverete mai nei testi scolastici dei vostri figli, leggetela con attenzione e con una lacrima nel cuore, come quella che avevo io mentre la trascrivevo. Fenestrelle, storia di un lager sconosciuto. “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce” (iscrizione messa in epoca fascista). E’ l’iscrizione che un visitatore legge oggi su un muro, entrando a Fenestrelle, fortezza ubicata sulle montagne piemontesi dove, dal 1860 al 1870, furono deportati i migliaia di meridionali che si opposero all’unità d’Italia e alla colonizzazione piemontese. Gli internati erano soprattutto poveri contadini ed ex soldati borbonici, gli stessi che sarebbero morti di stenti e vessazioni perpetrati da chi si reputava un liberatore! Un insieme di forti protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala di 4000 gradini scavata nella roccia: ecco cos’era a quel tempo Fenestrelle, una gigantesca cortina fortificata resa ancor più spettrale dalla naturale asperità di quei luoghi e dalla rigidità del clima. Assassini, sacerdoti, giovani, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura privi di luce e coperte, senza neanche un pagliericcio lottavano tra la vita e la morte in condizioni disumane; perfino i vetri e gli infissi venivano smontati per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti passavano le giornate standosene appoggiati ai muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi di sole invernali, e chissà che in quei momenti non ricordassero con nostalgia il calore di climi più mediterranei. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: le aspettative di vita in quelle condizioni non superavano i tre mesi e spesso i carcerati venivano uccisi anche solo per aver proferito ingiurie contro i Savoia. Nessuna spiegazione logica dunque alla base della loro misera prigionia, molti non erano nemmeno registrati, da qui la difficoltà di conoscere oggi il numero preciso dei morti, processati e non. E proprio a Fenestrelle furono imprigionati la maggior parte di quei soldati che, subito dopo la resa di Gaeta nel 1861, avrebbero dovuto trovare la libertà. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero, invece, subire un trattamento infame: disarmati, derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi, morirono di stenti. Poi, il 22 agosto del 1861 arriva il tentativo di rivolta: uno sforzo inutile, sventato per tempo dai piemontesi e che ebbe come risultato l’inasprimento delle pene tra cui la costrizione di portare al piede palle da 16 chili, ceppi e catene. L’unica liberazione possibile era dunque la morte, delle più atroci: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Valerio Rizzo.

1970. LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA CONTRO LO STATO STRANIERO. Riportiamo gli scritti del grande maestro Nicola Zitara, scomparso nel 2010, sulla rivolta di Reggio. Leggerla fa scaturire rabbia su rabbia! Ringraziamo Angelo Fusco per aver trascritto la nota l'11 febbraio 2015. Prima che vedessi con i miei stessi occhi, avevo immaginato la Rivolta di Reggio come uno di quei fatti insignificanti che la stampa afferra e gonfia, per attrarre lettori e inserzionisti pubblicitari. Il Sud era morto a ogni forma di risentimento. Le offese che la patria italiana ci aveva inferto e ci infliggeva colavano lungo le nostre facce di bronzo lasciandole completamente impassibili. Sempre servili, sempre attenti a non deludere l’Italia, potevamo piegarci a qualunque soperchieria. Chiusa la caotica parentesi postbellica, che ci aveva permesso qualche larghezza, ad esempio le lotte contadine per la terra, una ribellione sudica contro il venerato stato unitario era assolutamente inimmaginabile. Certo, a quel tempo la contestazione giovanile attraversava tutto l’Occidente, scatenando dovunque -oltre al resto- consistenti forme di iconoclastia statuale. Ma che in Calabria, dove anche i mafiosi più spavaldi cercavano l’amicizia dei reali carabinieri, qualcuno alzasse la mano contro lo Stato, era una cosa che stravolgeva ogni coordinata sociologica. Dopo l’annessione sabauda, il paese napoletano e la Sicilia erano scomparsi progressivamente come realtà, degradando, prima, a Questione meridionale - qualcosa che stava tra lo storiografico e l’antropologico - approdando, poi, a mera espressione geografica: territori popolati da uomini che assumevano rilevanza demografica se e quando utili alla patria italiana. Caso eclatante, la guerra all’Impero austriaco, che i fanti padani e le brigate alpine non se l’erano sentita d’affrontare da soli. In tale circostanza i contadini meridionali erano stati proclamati italiani a tutti gli effetti militari e invocati a difesa della lontana, sconosciuta e oppressiva Valle Padana. Casi meno eclatanti, ma non meno importanti: il ripianamento della bilancia estera italiana con lo spudorato uso delle rimesse dei terroni emigranti, e l’impiego della corrispondente valuta per convertire l’immane debito pubblico (padano) e per dotare di impianti moderni la nascente industria (sempre gloriosamente padana); ciò nello stesso momento in cui il Sud invocava spasmodicamente lavoro (in sostanza nuovi investimenti). In verità, l’opera di assoggettamento del Sud era stata condotta con spregiudicata eleganza; quasi senza lasciare tracce. Intonando patriottici inni, facendo squillare vibranti ottoni, sventolando tricolori, labari, gagliardetti e medaglieri, producendo una legislazione apparentemente appoggiata su una sola gamba, ma in effetti articolata su due, come la gru di Chichibio, l’Italia aveva piegato il Sud alle sue necessità di aspirante potenza militare ed economica. Ovviamente la soggezione presupponeva la negazione dell’identità storica meridionale. Ma la cosa funzionava soltanto con le classi istruite, che sin dalla prima elementare -anzi sin dall’asilo- potevano essere rieducate al disprezzo della propria terra e all’esaltazione dell’ethos venale e del verbiloquente epos guerresco dei toscopadani. Non aveva invece senso presso i contadini e il proletariato urbano. Volendo riparare, italianamente e pretescamente si escogitò un darwinismo terronico, contemplante l’inferiorità razziale dell’homo sudico, non sempre erectus, meno che mai sapiens, immancabilmente deficitario di scatola cranica e di materia grigia, di pubblica e privata moralità (su detta linea c’è ancora tanti, per esempio l’americano Putnam e persino il sudico Arlacchi, presidente, o quasi, dell’ONU). Arretratezza storica, malgoverno borbonico, crocianesimo, lombrosismo contribuirono a comporre l’alibi vincente con cui la nazione una poté ribaltare le responsabilità del colonialismo interno addossandole tutte sugli stessi meridionali, quelli vivi e quelli morti. Certo, anche il Sud era Italia, una parte della patria, ma solo come Questione meridionale. Per il suo bene supremo, era necessario che si emendasse, che si riscattasse dalle sue storiche ed etnografiche colpe, ovviamente, servilmente imitando l’Italia restante. Commossi, straziati, i meridionalisti avevano condotto defatiganti inchieste, le quali avevano stabilito che tutto il Sud era uno sfasciume pendulo fra due mari. Senza, però, ricordare né a sé né agli altri che lo sfasciato sfasciume manteneva il paese e pagava, con le sue esportazioni agricole, il debito estero padano. Pur assolvendo a tale nazionale e patriottico ruolo, i contadini sudici rimanevano poveri. Essendo poveri erano anche denutriti. Bisognava quindi che italianamente mangiassero qualche pagnotta di più. Per farlo, erano necessari dei soldi. Ma i soldi non c’erano. A qualcuno venne anche in testa che i soldi non c’erano, perché se li pappava lo stato, cioè il Nord. Ma evidentemente non era una cosa seria, degna dell’Italia una (neanche Arlacchi l’avrebbe ben giudicata). Inoltre i contadini erano analfabeti. Lo erano perché non andavano a scuola. Ma non andavano a scuola perché le scuole non c’erano. E se le scuole non c’erano, la colpa era tutta dei borboni, che non avevano provveduto ad elevare il popolo. Dopo tanto ben architettato trattamento, alla data del 1970, il Sud era ridotto a meno di un morto che parla. In effetti non parlava. Era ammutolito, esterrefatto, inebetito, non possedeva più le idee e le risorse per comunicare umanamente con il mondo. Di esso si sapeva soltanto quel che raccontava Amleto: che c’era del marcio in Danimarca. Un cratere che vomitava clientelismo, malaffare politico e malavita organizzata. La discriminazione nazionale era stata introiettata e aveva messo radici. Il Sud era alla vergogna di sé, alla prostrazione economica e politica. Svisato del passato e del presente, negato a se stesso, aveva sopportato tutto: offese, spoliazioni, sopraffazioni d’ogni genere. Sempre applaudendo i proconsoli di turno; ieri Ferdinando Nunziante e Giovanni Nicotera, all’atto, il colto Misasi e l’intraprendente Mancini. Ciò spiega la sorpresa dell’opinione pubblica nazionale per la Rivolta di Reggio -benché preceduta dal moto di Battipaglia - e contemporaneamente la finta indignazione dei giornali. Battipaglia e Reggio sono due casi esemplari di città che fino agli anni Cinquanta avevano in qualche modo resistito all’oltraggio italiano e al regresso meridionale, giungendo alla resa dei conti con il colonialismo interno e l’ilotismo nazionale solo dopo il miracolo economico italiano. Della Rivolta di Reggio la stampa neosabauda e la televisione governativa furono forse la causa scatenante, comunque delle protagoniste facinorose. Infatti, alla rivendicazione sicuramente legittima del capoluogo regionale, che alla città reggina veniva scippato attraverso una delle congiure di cui è costellata, in Italia, la vicenda politica postbellica, con la faziosità in alto richiesta, esse appiccicarono l’etichetta della gretta rivendicazione municipalistica, il pennacchio. Sarebbe stato divertente leggere cosa avrebbero scritto codesti liberi operatori della penna se Modena avesse rapito la secchia di prima città emiliana, e Bologna fosse insorta. Transeat. Il giornalismo farcito al gusto di anticamera di Palazzo romano è consentito solo quando è di scena il Sud. La politica cosiddetta di corridoio - in effetti le congiure di palazzo - sono state (e sono ancora) un tratto tipico, caratteriale, dei cosiddetti partiti costituzionali. Si autodefinirono in tal modo gli ex Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), poiché toccò ai loro massimi leader dettare, in sede d’Assemblea Costituente, la legge primaria; una costituzione indubbiamente moderna e civile, ma altrettanto sicuramente velleitaria e impotente di fronte alla realtà sociale italiana, organizzata e diretta da un sistema capitalistico parassitario, intrallazzista e geograficamente minoritario. Ovviamente al Sud fu consentito di partecipare solo di nome -e mai di fatto- alla riorganizzazione postbellica, sia a quella costituzionale sia a quella materiale. I suoi interessi non erano in linea -insignificanti, stranieri, retrivi, qualunquisti, anzi beduini- con gli interessi emergenti, con le progressive sorti del capitalismo padano e gli allori della Confindustria. Pur non costituendo niente, il Sud ebbe egualmente i suoi partiti costituzionali, anzi le loro filiali suburbane e sudiche: in pratica gli stessi comitati massonici e papalini dell’epoca notabiliare prefascista, che, l’8 settembre 1943, gli angloamericani avevano restaurati in trono. I quali, forti del vuoto politico creato dalla fellonia del re Savoia -e dovendo essi avvolgerla di nuovi allori e legittimare lo stato quale patria istituzione- ebbero mano libera per reimpiantare nel paese meridionale il malaffare con cui il sistema padano teneva aggiogato il paese sudico durante l’età giolittiana e le precedenti, sicuramente non meno gloriose e meritevoli. Dovettero, però, prima legittimare se stessi, e per far questo si impancarono a CLN (il quale era composto dai partiti democristiano, socialista, comunista, liberale, d’azione, del lavoro), praticamente a governo del paese meridionale. Ovviamente la lotta di liberazione, i loro leader, se l’erano fatta a casa, o magari al mare, e ciò per il semplice motivo che i fascisti erano stati tolti di mezzo dagli angloamericani, i quali ci avevano liberati prima che ci dessimo da fare per liberarci da noi. Eccezion fatta relativamente a singole persone e determinati luoghi, sin dal principio il legame tra i partiti del CLN e le popolazioni meridionali ebbe un carattere deteriore: sostanzialmente clientelare, nei casi migliori paternalistico. In prosieguo, capito che il vento spirava dal Nord, i suddetti impararono il vangelo resistenziale e lo predicarono ai paesani, continuando ad operare impunemente da ladroni pubblici, come al glorioso tempo del glorioso Giolitti. Solo il PCI ebbe un’origine popolare (e naturale), quale espressione delle masse contadine scese in campo contro i proprietari. Ma il legame ebbe presto una poco gloriosa fine. Infatti avendo anch’esso optato per la Ricostruzione solo del Nord, non ebbe altro modo per beccarsi i voti dei cafoni che continuare a vaneggiare di spartizione di latifondi e di continuare a maneggiare, con un ardore degno di miglior causa, l’archeologia economica. Ma ai contadini non ci volle molto per capire l’antifona. A quel punto preferirono la nuova America e presero i treni che Valletta spediva da Torino. Ovviamente pagandosi il biglietto di tasca loro. Resta solo il dubbio se il PCI non abbia saputo o non abbia voluto - poco marxisticamente - capire che il generale processo di modernizzazione in Europa aveva archiviato per sempre Caio e Tiberio Gracco, nonché la millenaria lotta per la proprietà contadina, ponendo in primo piano la lotta contro il sottosviluppo. La Rivolta scoppiò in questo clima di generale estraneazione nordista, con una borghesia che si sentiva nazionale se e quando riceveva i resti dell’italico banchetto e con il proletariato che s’era fatto finalmente nazionale dormendo nelle soffitte di Torino e ungendo di sudore e d’amare lacrime le catene produttive del trionfante Valletta. Alla popolazione di Reggio, che si poneva apertamente contro l’assetto nazionale, i giornali e la TV, dominati funzionalmente e idealmente dai partiti ex CLN, dedicarono malcelati giudizi di primitività, di faziosità, di becerismo. Sull’evento esiste un consistente numero di libri (da ultimo, Francesco Scarpino, La rivolta di Reggio Calabria tra cronaca e mass-media). Non ho argomenti per aggiungerne un altro. Vorrei solo notare qualcosa che mi pare generalmente sfuggita: per la prima volta, in tutti gli ottant’anni della sua storia, la sinistra italiana si pose a fianco della repressione governativa e poliziesca e contro il popolo. Ove occorresse, si tratta di un’ulteriore riprova che, dopo venticinque anni di democrazia, il proletariato meridionale stava nel cuore della sinistra nazionale soltanto per i voti che poteva dare. Il sentimento (o meglio, la sua mancanza) venne in luce proprio in tale circostanza e ad opera delle frange (non storiche) della stessa sinistra italiana. Nel 1970 si era ben lontani dal tetro conformismo attuale, dal plumbeo panorama ideale che esclude ogni forma di critica al sistema imperante, attruppa le idee nella tomistica del capitale, dio e taumaturgo, e piega gli intellettuali a inchinarsi al trono (anche se di cartapesta), chiunque vi sieda: Berlusconi, Agnelli, Veltroni. Fuori del Sud, la contestazione traboccava persino dentro i compatti, impermeabili territori della sinistra comunista e sindacale. Quando gli inviati della stampa di ultrasinistra raggiunsero la provincia marginalizzata del profondo Sud (era questa l’ultima invenzione linguistica che ci toccava subire dagli italiani civili) per cercare di capire come mai il proletariato reggino si facesse strumentalizzare dai boia chi molla, non trovarono sul campo altra spiegazione, se non quella delle cause remote: i moventi di ordine occupazionale di cui parlavano i Quaderni calabresi, una pubblicazione fuori del giro della dorata intellighenzia capitolina, ambrosiana e taurina; i quali Quaderni appartenevano, però, più all’extraitalianità che all’extraparlamentarità. Infatti contestavano proprio alla sinistra nazionale, quella parlamentare e quella non, d’avere un DNA nordista; d’essere appiattita e ligia alla più volgare ipocrisia votocratica; di arrogarsi il diritto di parlare in nome del popolo meridionale per confonderlo e sfigurare la rappresentazione dei suoi veri interessi (di classe). In un’epoca in cui Gramsci era ancora in auge e il proletariato era inteso come classe nazionale, i Quaderni calabresi non si erano peritati d’affermare che nell’ambito della classe nazionale si dava -oggi come al tempo di Gramsci- peso zero ai proletari meridionali e si usava la forza che essi esprimevano sulla bilancia dei rapporti sociali nell’Italia restante. La stessa visione gramsciana di un Sud prettamente contadino era viziata da una debole conoscenza del paese meridionale e costituiva un regalo ideologico al capitalismo padano. In termini non metaforici dicevano che, sul tema della strutturale inoccupazione meridionale, i partiti di sinistra e i sindacati ipocritamente facevano solo parole, e le facevano per acchiappare voti. Aggiungevano che un popolo costretto a non produrre (dalla dominazione coloniale padana) non doveva rassegnarsi a essere guidato dall’esterno, da forze sostanzialmente nordiste. In verità i Quaderni non erano stati i primi a sostenere che la disoccupazione meridionale era a tutti gli effetti popolazione in più, sovrappopolazione; né erano gli unici ad affermare che l’acclamato e reclamizzato miracolo economico italiano era tutt’altro che un fatto nazionale, ma solo regionale, circoscritto a poche regioni, al Triangolo industriale Genova-Torino-Milano; né erano i soli a dire che tutto quel che aveva innalzato il Triangolo in cent’anni, e stava ancora innalzandolo sulle altre regioni, veniva pagato in contanti dal Sud. Però si ritrovavano isolati e malvisti quando ponevano un’alternativa: o (uno) l’uscita della sinistra nazionale dal terreno sindacale e retributivo, per portare lo scontro su un terreno veramente meridionalista, per la classe l’unico veramente nazionale e internazionalista; o (due) la permanenza sul terreno riformista anche del proletariato meridionale, ma con un proprio partito politico. La polemica salveminiana di sessant’anni prima contro il riformismo di Turati e dei socialisti padani, sulla quale erano attestate (peraltro solo a parole) le formazioni storiche di sinistra, risultava sottodimensionata rispetto alla consistenza reale del rapporto Sud/Nord. Questo non andava visto come il prodotto dell’imperialismo straccione italiano, ma come un caso inedito di accumulazione primitiva che si prolungava da oltre un secolo ricevendo la benedizione della sinistra, tanto prima del fascismo, quando era diretta dal riformista Turati, quanto dopo, sotto la direzione del stalinista Togliatti. Bisognava risalire necessariamente alla formazione dello stato nazionale italiano per trovare non solo l’origine del sottosviluppo meridionale, ma anche la causa che lo riproduceva a ogni passaggio della storia. Difatti la questione meridionale si spiegava soltanto con il modo singolare con cui l’Italia s’era avviata al capitalismo. Al momento dell’annessione al Nord, gli esponenti politici e militari del Sud, corrotti con il danaro e le promesse, resi ciechi -i residenti- dalla paura dei contadini, i fuoriusciti dalla voglia di rivalsa, cedettero il paese con le mani legate all’ingordigia e all’arroganza di Cavour, che raddoppiavano a ogni fortunato regalo della storia. Forte di tanti gratuiti e insperati successi, il mellifluo/tracotante Ministro ottenne il diritto-potere di lucrare sullo stato a favore di alcuni suoi compari di briscola. Si trattava di un gruppetto di concussori e malversatori di estrazione genovese, ai quali le circostanze dettero il destro di mettere le mani nel piatto. Però il carattere parlamentare del governo sabaudo (possiamo dire) li costrinse ad allargare la base dei loro intrallazzi. Dalle successive relazioni malavitose scaturì (o se più vi piace, fiorì) il gruppo affaristico che, nonostante gli eventi secolari e la mobilità degli individui, tuttora dirige l’Italia. Questi eupatridi, che fiutavano la preda come un levriero dal pedigree perfetto, s’accorsero subito (o forse lo sapevano da prima) che in seguito all’annessione delle Due Sicilie, la vera greppia era l’uso spregiudicato (potremmo anche dire il saccheggio, senza travisare niente) dei napoletani, dei siciliani e dei territori su cui erano insediati storicamente. Arma dell’azione: il fisco. Anzi l’erario, che contempla oltre alle entrate, anche le uscite. Difatti, il punto in questione sono proprio queste. Se tutta la borghesia italiana avesse potuto approfittare della generosità statale -come sempre accade negli stati a carattere borghese- il profitto non sarebbe stato grande, in quanto le sostanze statali erano alquanto scarse. Così (con buona pace per Tommasi di Lampedusa e per il suo Gattopardo), gli eupatridi decisero di escludere i borghesi napoletani e i borghesi siculi dal bottino. Cosa che, avendo essi la sciabola in mano, non fu difficile. Da allora la guida effettiva dello stato (i vari Crispi, Moro, Colombo, sono solo dei direttori generali che eseguono decisioni d’un superiore consiglio d’amministrazione e non possono firmare assegni se le cifre sono grosse) appartenne esclusivamente alla borghesia tosco-padana. La quale usò e usa spregiudicatamente il potere, in funzione dei suoi profitti. Alla borghesia meridionale furono assegnati i resti del banchetto -quelli che di solito vanno alla gatta di casa- e il ruolo ascaro e servile di mediatore con il popolo sudico degli interessi nordisti; in sostanza una posizione ancillare. Nei fatti essa poté esplicarsi come classe promotrice della produzione capitalistica soltanto in quei settori che non toccavano gli interessi della consorella settentrionale. È superfluo aggiungere che in un paese a economia e legislazione capitalistica, se la borghesia è limitata, anzi impotente, si arriva presto all’improduzione, al sottosviluppo, alla disoccupazione generale, alla sovrappopolazione. Proprio all’avvio degli anni Settanta, Paolo Cinanni (Emigrazione e imperialismo) spiegava, sulla scia di Marx, che le masse disoccupate meridionali si configuravano come un esercito industriale di riserva a favore di altre realtà sociali; una cosa peraltro storicamente sperimentata tra il 1880 e il 1914, quando i cafoni erano andati a stendere rotaie sul continente americano, e replicatasi nel corso del ventennio postbellico, con i lavoratori del Sud chiamati a fare da rincalzo dell’esercito operaio, nelle catene di montaggio tedesche e del Triangolo industriale italiano. Se la borghesia sudica era stata una serva fedele, arrivato finalmente, grazie al miracolo economico (dei salari più bassi, fra i paesi industriali europei), l’arrosto sulla tavola nazione una, anche la morale più gretta avrebbe voluto che i commensali lasciassero alla gatta un po’ di carne sull’osso. Invece, la borghesia settentrionale restò sorda a ogni forma di civismo, di gratitudine, e orba della lungimiranza che qualunque collettività normale avrebbe avuto in simili condizioni. Tra Sud e Nord non ci doveva essere uno spazio comune. Sempre tutto al Nord, secondo il migliore stile del redditiere. Come abbiamo già notato, il carattere parassitario della borghesia padana sta scritto a lettere cubitali nelle procedure intrallazzisti che contrassegnarono la sua assurzione a capitalismo nazionale. Un qualunque sistema capitalistico non nasce con i soldi dell’industria (che ancora non c’è) ma con quelli di altri settori. Marx chiamò questa fase accumulazione primitiva (originaria). Quella compiuta dal capitalismo italiano appartiene a una tipologia unica nella storia mondiale. Non è venuta dal capitale agrario, e neppure da quello marittimo, o commerciale, o manifatturiero; è nata invece da quell’intrallazzo statale e fiscale di cui si è accennato. Infatti la spregiudicatezza di Cavour in materia di danaro pubblico divenne una specie di patrimonio immorale, che passò quale bene ereditario prima alla Destra e poi alla Sinistra, entrambe storiche (tali sicuramente in materia di malaffare). Demani svenduti; concessioni di monopoli statali, in cui lo stato dava la concessione e anche il capitale, pagando per sovrappiù gli interessi sul mutuo che esso aveva concesso; ferrovie private pagate con i soldi dei contribuenti, le stesse in appresso nazionalizzate e pagate ai privati, poi ri-regalate ai privati e alla fine ri-nazionalizzate e pagate nuovamente; baroni che fondevano acciaio con rottami di ferro ricchi solo di impurità; corazzate e incrociatori costati sedici volte il loro effettivo valore; cartelle del Debito Pubblico acquistate da istituti di credito inclini a falsificare i biglietti di banca e da finti risparmiatori al prezzo di svendita di lire 23,00, e alla scadenza ripagate dal Tesoro 100,00 lire-oro: queste cose -e purtroppo non solo queste, ma anche la vergogna di una quadreria di generali e ammiragli non s’è mai ben capito se più incompetenti che arroganti, o viceversa- fecero da humus alla fioritura della nuova borghesia nazionale, quella che dette e dà i quadri dell’industria e formò e forma gli indirizzi di governo. A questo disastro morale originario e risorgimentale si aggiunse trenta anni dopo il parassitismo industriale. L’industria nazionale si avviò intorno al 1895, per mano di quelle famiglie della nuova borghesia parassitaria che Cavour e i suoi epigoni avevano tenuto a battesimo con l’acqua santa della corruttela e il sale sapientiae della speculazione sul debito pubblico. Era gente che non somigliava in nulla al capitano d’industria ambizioso di vincere costruendo, come lo immaginiamo leggendo i romanzi inglesi, francesi e tedeschi. I nostri - piaccia o non piaccia, è storia patria - avviavano industrie non per affermarsi nella competizione produttiva, ma per prolungare la precedente speculazione erariale. E in verità ci riuscirono ampiamente. Naturalmente il risultato produttivo fu così incongruo, meschinello, inefficiente, rachitico, che le loro imprese private costarono ai contribuenti e ai consumatori nazionali cifre iperboliche, perfino difficili da immaginare (Emilio Sereni, Capitalismo e mercato nazionale; un’opera fondamentale sull’accumulazione primitiva in Italia, dotata anche di un apparato bibliografico importante perché i riferimenti più scottanti sono di regola ignorati dagli storiografi accademici). Di certo c’è solo che il prezzo di tale immane e invereconda inefficienza fu messo in conto all’agricoltura, specialmente a quella meridionale. Al tempo dei cosiddetti fatti di Reggio, la tematica dell’industria parassitaria era tutt’altro che nuova in Italia. Un filone del meridionalismo pre e post fascista -non amato a destra e trangugiato malvolentieri a sinistra, tanto che gli illustri compilatori di antologie meridionaliste, di regola, hanno preferito ignorarlo- l’aveva avviata già prima della guerra del 1914-18 e l’aveva ripresa dopo la caduta del fascismo. I pescicani, i padroni del vapore erano stati infatti oggetto dell’informata denunzia di Ernesto Rossi, seguito da qualche meno dignitoso e retto discepolo, che ha preferito farsi foraggiare dal nemico e sterzare la mira sulla sola industria di Stato. La nostrana tipologia di accumulazione primitiva -l’accumulazione parassitaria- non compare nella vivace esemplificazione di Marx sul famoso XXIV capitolo del primo libro de Il capitale, né in quella ancor più efficace che costituisce la parte descrittiva del Manifesto del partito comunista. Senza offendere il padre dell’analisi classista, che non avendo potuto conoscere i padri del capitalismo italiano, pare avesse qualche apprezzamento per i pionieri dell’industria, potremmo definirla accumulazione parassitaria secolare; che poi rappresenta la più solida delle istituzioni nazionali. Nonostante gli alti profitti provenienti dal doppio stadio di intrallazzo realizzato (uno) mettendo le mani direttamente nel cassetto e (due) imponendo per oltre mezzo secolo una politica protezionistica controproducente ai fini della stessa crescita industriale ma grandemente profittevole per i padroni, il capitalismo nazionale italiano non era penetrato tuttavia in alcune situazioni produttive. Mi riferisco all’agricoltura di piantagione e alle produzioni mediterranee. Un settore in cui la borghesia attiva del Sud mostrò d’essere ben più moderna della consorella padana; così moderna ed efficiente da competere sul libero mercato internazionale, senza la copertura di dazi e benefici; da risultare, anzi, vincente nonostante l’inimicizia del suo stesso stato nazionale; e così capace di sorgere e risorgere, che allo stato nemico ci vollero ben cent’anni per abbatterla definitivamente. È questo il punto dove il castello di bugie rivolto a sorreggere l’alibi padano, il falso storico dei mali antichi di cui il Sud sarebbe afflitto, mostra la sua faccia sporca. Come il volpino Cavour aveva intuito fin da giovane, l’abbassamento delle tariffe doganali e la liberalizzazione degli scambi internazionali che, nel 1860, a Italia non ancora ufficialmente nata, egli, divenuto primo ministro nazionale, volle imporre, fece esplodere il potenziale di cui erano gravide le produzioni del Sud: l’olio, il vino, gli agrumi. Solo poche cifre. Secondo la stima di Correnti e Maestri, autori di una celebre ricerca statistica che fu non solo la prima che si faceva in Italia, ma anche l’ultima ispirata a onestà intellettuale, nel Regno borbonico venivano prodotti circa 900mila quintali di olio, il 60% dell’intera produzione italiana. L’esportazione annuale toccava mediamente i 450mila q.li, cioè la metà del prodotto. In realtà il Sud italiano, parecchio più che la Spagna, ebbe per l’intero secolo XIX un quasi-monopolio per la produzione di olio, che esportava in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia, America del Nord e del Sud, nonché nell’Italia restante. Oltre che un alimento, l’olio veniva impiegato nelle lucerne, per l’illuminazione, come lubrificante industriale e nella lavorazione dei filati di cotone.   Sotto la spinta della domanda internazionale e nazionale, nel 1909 la produzione olearia meridionale aveva superato i due milioni di quintali. Con ben 588mila q.li, la produzione calabrese aveva fatto un tal balzo in avanti da porsi al secondo posto, subito dietro la Puglia, regione madre della produzione olearia mondiale, che ne produceva 617mila q.li (Chino Valenti, L’agricoltura dal 1861 al 1911, in cinquant’anni di storia italiana). Diversamente da quello che la gente immagina, l’ulivo non cresce e l’olio non si produce per grazia divina. Certo la natura ama l’albero sacro a Minerva, e forse anche Dio lo ama, però bisogna investirci dentro lavoro e danari. Dove gli uliveti assumono il carattere della piantagione a filari squadrati, come nella Piana di Gioia e su tutta la collina jonica e tirrenica, sicuramente molti soldi. Quanti? Gli impianti calabresi che coprivano 84mila ettari, nel 1880, erano passati a 151mila ettari nel 1951 (dati Istat, riportati da Ferdinando Milone, L’Italia nell’economia delle sue regioni): 67mila ettari in settant’anni, quasi 1.000 ettari di nuove piantagioni l’anno. Nei nostri uliveti ci sono risparmi di notevolissima consistenza, nonché la fatica di dieci e più generazioni; c’è, soprattutto, uno stringere la cinghia per decenni, perché una pianta d’ulivo impiega quindici o vent’anni per arrivare a pieno frutto. L’ulivo non dava molta occupazione ai contadini d’un tempo. Soltanto la raccolta era l’occasione per un corale coinvolgimento di donne e di uomini, che durava qualche mese ogni due anni. Prima che arrivassero i moderni mezzi di aratura e di raccolta, la scadenza dava lavoro a circa mezzo milione di persone, per un totale di un milione/un milione e mezzo di giornate lavorative, nel biennio. Ed è completamente sbagliato considerare un progresso il sopravvenire di macchine, perché si tratta di lavoro nostro che si sposta in altre regioni, senza che ci sia - come sarebbe naturale - un aumento della domanda in altro settore della produzione. A ottenere cospicue entrate era invece il padronato, i cui maggiori esponenti, in questa parte ultima della Calabria, vivevano signorilmente a Reggio. Il Corso Garibaldi e il Lungomare, che nel 1939 erano considerati fra le più belle e lussuose vie d’Italia, potevano dare l’idea di quanto quelle entrate fossero consistenti. I palazzi che li fronteggiavano erano ricchi e belli. Non solo, ma ricostruiti già una volta dopo il terremoto del 1783, il padronato reggino li aveva dovuti ricostruire per ben due volte, una dopo il terremoto del 1908 e una seconda dopo i bombardamenti americani. I soldi per edificare e riedificare tre volte la città in appena centocinquant’anni non arrivarono da Napoli o da Roma, e neppure da Milano, ma vennero dall’olio e dagli agrumi. Veniva dall’agricoltura anche la spesa vistosa della gente che trascorreva oziose mattinate e indolenti pomeriggi dinanzi al Comunale, indossando fresche camicie di lino e cravatte di seta pura. Perché l’agricoltura di Reggio, per la sua produttività, era quasi un’industria. Anzi nel caso del bergamotto era persino più produttiva dell’industria. Bisogna aggiungere che se, attraverso il fisco e il drenaggio bancario, la quota più consistente del surplus viaggiava verso i padani, la parte che i ricchi consumavano andava per una quota consistente ai lavoratori della città (abbiamo qui una buona esemplificazione del Tableau économique di Quesnay): ai muratori, ai fabbri, ai falegnami, ai camerieri, agli addetti al commercio, a quell’esercito di persone civili e dignitose nonostante la povertà, qual era il popolo di Reggio intorno al 1936. Certo, a tutti i cronisti meridionali piacerebbe poter scrivere che i signori elegantemente accomodati nella sala più riservata del Caffè Pontorieri erano degli intraprendenti cavalieri d’industria, invece che dei redditieri. Ma, a parte il fatto che nel bergamotto e nel gelsomino costoro, come già annotato, erano dei veri industriali, l’organizzazione dello Stato, scaturita dal processo risorgimentale, aveva tolto i capitali necessari e lo spazio tecnico per scalare l’erta parete dell’industria. Gli storici della destra sabauda e della sinistra sedicente gramsciana fanno finta di non sapere che il fatto che ciascuno di loro fosse sufficientemente ricco per costruirsi (o ricostruirsi) un lussuoso palazzo significava poco ai fini imprenditoriali. Infatti non il ricco privato ma solo la volontà bancaria trasforma il capitale in investimento (Joseph A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica). Ho fatto l’inciso perché la pigrizia spagnolesca della borghesia meridionale è soltanto una favola. In effetti, la modernizzazione produttiva era stata avviata in Calabria con piede più sicuro e più europeità che negli altri ex-Stati regionali (basti pensare al setificio di Villa San Giovanni); un passaggio che gli storici dell’economia identificano con la fase della pre-industrializzazione, come dire la manifattura senza ancora il motore e i combustibili fossili, cioè la prima fase del capitalismo, allorché gran parte degli artigiani lavorava (non più su commissione nella propria bottega, ma) in un opificio dove si produceva direttamente per il mercato. Dico di più. Al tempo di Ferdinando II, la Calabria Ultra era la parte più industrializzata (nel senso di cui sopra) del Regno, dopo Napoli. La quale Napoli, poi, era sicuramente l’area d’Italia dove la preindustrializzazione era più avanzata e più integrata che altrove. E a detta del gruppo di urbanisti giapponesi che ultimamente l’hanno studiata con serietà, come è costume di quel popolo, l’area meglio preparata a un successivo passo avanti in tutto il Mediterraneo, non esclusa Marsiglia. Patriotticamente, italianamente, l’arretratezza sudica corrisponde a uno scippo delle sue manifatture. La borghesia attiva del Sud era una cosa ben diversa dalle classi baronali che Cavour prima, Giolitti in appresso, legarono a sé per dividere e dominare il paese napoletano e la Sicilia. Cosicché i massacri e parecchi fra gli stessi baroni non accettarono l’annichilimento italiano e reagirono come poterono concentrando i loro interessi sull’agricoltura di piantagione. La storia economica e sociale della Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, nell’infelice prima fase del saccheggio padano, ha del miracoloso. Gli agricoltori fecero qualcosa di più che produrre. “Le esportazioni meridionali salvarono l’Italia” (oggi diremmo hanno salvato l’Italia), sottinteso dalla bancarotta internazionale, si esclamò in Senato al tempo del (finto) pareggio del bilancio, nel 1876 (si badi, siamo al secondo salvataggio in soli dodici anni). I libri di storia patria non amano il Sud, meno che mai ammettono che la questione meridionale l’hanno inventata proprio gli storici di parte sabauda, come alibi dell’assassinio di un popolo che la stessa Italia proclamava italiano. E non amano parlare della rivoluzione agricola che salvò l’Italia. Eppure l’imponenza dello sforzo produttivo e la consistenza dei suoi risultati non sono un’opinione generica, ma fatti. Al tempo dell’inchiesta agraria Jacini, che si svolse a partire dal 1880, gli ettari destinati ad agrumeto erano nelle tre province calabresi non più di 4mila. Nel 1970, il professor De Nardo rilevava ben 24.800 ettari. La progressione, nel settantennio, è di 354 ettari l’anno, che potrebbero sembrare persino pochi, ma trasformare una brughiera, un arido pascolo, adatto solo alle capre, in un lussureggiante giardino di bergamotti o di aranci costa parecchio. La spesa principale è l’irrigazione. Si tratta d’un investimento capitalistico nel significato più completo. Le canalizzazioni spesso sono lunghe chilometri. Captate a monte le acque di una fiumara, esse le derivano verso i fondi posti a valle, non sempre vicini. Altre volte l’acqua si ottiene mediante lo sbarramento delle falde subalvee, in tal caso le opere murarie sono ancor più consistenti; in pratica debbono essere sufficientemente profonde e sufficientemente alte da sollevare l’acqua di una decina di metri, in modo che possa scivolare per caduta verso i quadri a valle. Ancora maggiori sono i costi quando, in mancanza di opere consortili, è il singolo proprietario che scava un pozzo. Difficilmente l’acqua che esso dà è sufficiente a più di un fondo. In questo caso i costi crescono perché è necessario addurre la corrente elettrica; garbatamente la SME caricava l’intera spesa sul portafoglio del produttore privato, anche se poi si appropriava della condotta elettrica, in base alla legge della giungla. Non minore era il costo delle opere di piantagione. Infatti un agrumeto non si pianta col tempo e in tutta comodità, diluendo la spesa negli anni. Esso è come una fabbrica: deve dare un prodotto commerciabile, una merce uniforme per varietà e momento di maturazione. E ciò si ottiene soltanto con un impianto coevo. Ferdinando Milone, un grande e corretto maestro di geografia economica, scrive: “Anche qui le piante di agrumi appaiono un po’ dovunque, nei campi coltivati; risalgono le pendici e i terrazzi dell’Aspromonte; si insinuano nelle valli più apriche; proseguono lungo la costa jonica, dove la loro coltivazione si fa di nuovo più intensa… tra Sant’Ilario e Caulonia… L’agrumicoltura, e specie la coltivazione del bergamotto, ha trasformato il deserto in lussureggianti giardini… (cosicché) dobbiamo pur riconoscere il grande sforzo compiuto da questa gente e sfatare, se possibile, le accuse che a essa si facevano, scambiando per infingardaggine l’inattività che, il più delle volte, derivava dalla mancanza di capitali per l’adatto sfruttamento di una terra dal clima dolcissimo, ma quanto mai avara. Alla rilevata trasformazione, infatti, hanno contribuito in massima parte i capitali derivanti dall’emigrazione e il lavoro assiduo”. Ora, chi investe danaro in proprio, o magari accende un mutuo al fine d’investire, lo fa se e quando si rappresenta la prospettiva di un profitto. È facile concludere, quindi, che, se a Reggio si era arrivati ad alti livelli di spesa in impianti fissi, i profitti sicuramente non mancavano, anche se poi le patrie statistiche ci dicono poco su tale argomento. C’è stato (e c’è tuttora) uno strano atteggiamento intorno all’olio e agli agrumi: valevano moltissimo quando si trattava di classificare i terreni a fini fiscali; era come se non esistessero quando si trattava di glorificare la patria agricoltura. Negli scritti ufficiali -principalmente le statistiche agrarie, ma anche gli scritti di storici accademici, come quelli del tanto lodato (sarò pure fazioso, ma credo lodato solo per i suoi ammanigliamenti bancari) Gino Luzzatto- si ricava il sospetto che affermare, o appena ricordare, che per oltre quarant’anni il valore delle produzioni meridionali fu di gran lunga superiore a quello dell’agricoltura settentrionale sembra un delitto di lesa maestà. Il citato Luzzatto, in un libro che fa testo in materia di storia economica dell’Italia unita, si sofferma sull’esportazione d’olio una sola volta, dedicando alla cosa un solo rigo, mentre la parte dedicata alla seta padana deborda da tutte le parti, zampilla a ogni parola. Peraltro l’Illustre non perde il suo tempo per informare che dopo la caduta del prezzo da 10 lire a 2,50 (a causa dell’arrivo in Europa della seta giapponese) il settore era ormai finito; che la gloria economica del Piemonte e del Lombardo-Veneto non contribuiva granché alla bilancia commerciale, sicuramente non nella misura intravista dall’occhio avido dell’indebitato Cavour. L’avversione a ricordare le esportazioni meridionali ha portato alla pratica scomparsa delle statistiche sull’olio. Oggi possiamo facilmente sapere, per esempio, quanti asini circolavano in Calabria nell’anno 1876 e quanti chili di seta si filavano a Como nel luglio del 1877. Ma a trovare una serie storica sull’olio, il vino e gli agrumi, ci vuole uno Sherlock Holmes in servizio attivo. Fra tante glorie nordiste e tante omissioni sudiche, sappiamo comunque che tra il 1905 e il 1958, le superfici irrigue, in Calabria, passarono da 48mila ettari a 91.247 ettari. In cinquantatré anni sono stati riportati a coltura irrigua 43mila ettari, per una spesa che si può calcolare intorno ai quattro/cinquemila miliardi. Logicamente sborsati dai calabresi. Più espliciti sono gli agronomi, e non solo quelli che avevano cattedra all’università di Portici. In effetti, l’idea di un’agricoltura calabrese sconfitta e impotente non apparteneva a chi giudicava da competente, ma soltanto al giornalismo prezzolato dagli industriali milanesi e in appresso al cinema fintamente realistico. Basti ricordare l’informato saggio di De Marco posto in appendice al volume su Calabria e Lucania dell’Inchiesta Jacini (volume fortemente sgradito al riscrittore, prof. Nicola Caracciolo, non so se piemontese di nascita, sicuramente sabaudo per atti di pensiero). De Marco attribuisce agli aranceti e ai limoneti un valore della produzione di quasi 900 lire (del 1880) l’ettaro e al bergamotto un valore di 1.800 l’ettaro, tre volte le 600 lire della granicoltura lombarda. Credo il valore più alto in Europa. Forse anche nei bergamotti c’era la mano di Dio, ma i bergamotteti li piantano comunque gli uomini, che nel caso non erano lombardi e non erano andati a scuola dal professor Luzzatto. I libri degli agronomi suggeriscono l’idea di un’agricoltura reggina meno povera di quel che ci vogliono far credere, e tuttavia pur sempre un’economia subalterna, in cui la spinta e la controspinta produzione-investimento funzionava nell’ambito di un solo settore. Che, comunque, almeno Reggio fosse meno povera di quel che si ama sostenere a proposito del Sud lo dimostra una precisa circostanza. Negli anni Trenta, allorché il bergamotto e le arance tiravano a tutto vapore -e gli agrumi rappresentavano la prima posta della bilancia commerciale italiana con l’estero- su sette banche nazionali presenti in Calabria, sette avevano la loro filiale a Reggio e due soltanto avevano aperto un’agenzia fuori Reggio. A quel tempo non era un mistero che detti istituti erano scesi da Milano e da Roma - inseguendosi l’un l’altro e gareggiavano fra loro onde accaparrarsi una buona posizione sul Corso Garibaldi - per incettare i cospicui incassi degli agricoltori, che in parte rimettevano al Nord e in parte lavoravano sulla stessa piazza di Reggio. La funzione negativa di una banca forestiera operante su una nostra piazza non sta tanto nel fatto che funziona da pompa per drenare altrove il nostro risparmio, quanto nell’altro che non compie operazioni rischiose, quali sono quelle industriali. In pratica finanzia il commercio. Ed è proprio attraverso il commercio che passa e si rafforza la subalternità coloniale, in quanto il commercio (oggi detto distribuzione: gli alimentari, i tessuti, l’edilizia, il legno, ecc.) si approvvigiona presso gli industriali. In sostanza, con il risparmio locale le banche hanno sempre prefinanziato lo sbocco meridionale dell’industria padana. Solo il Banco di Napoli, che nei decenni precedenti il fascismo aveva convogliato quasi tutto il risparmio in valuta degli emigrati italiani (prima della guerra del 1915-18 la cifra ufficiale era di 25 miliardi dell’epoca, pari a 123mila miliardi in lire attuali), effettuava, attraverso la sezione speciale del credito agrario, operazioni a lungo termine. L’importanza e la proficuità (per l’istituto napoletano; il costo, se si guarda da parte di chi pagava pesanti interessi e subiva troppo facili esecuzioni immobiliari) di tale attività è comprovata dal palazzo che sorge all’angolo tra la Prefettura e la Provincia, al centro del centro di Reggio; un edificio imponente per essere solo la filiale di una banca, e che gareggia in grandezza con la sede barese e con la stessa direzione centrale, a Napoli. Prima della guerra, dunque, Reggio non era povera quanto Catanzaro o Campobasso. Anche se non prosperava, almeno campava. La sua agricoltura era fra le più moderne d’Italia, e la danarosità della classe padronale teneva in vita un consistente artigianato urbano di servizio al palazzo. Certo il settore industriale era poca cosa. Se la memoria non mi tradisce, esso non andava oltre il molino Costantino; praticamente zero, se consideriamo i bisogni occupazionali di una città che contava 200mila abitanti. Anche i servizi culturali, che la benevolenza sabauda le riservava, erano bloccati a livello delle scuole medie superiori, mentre quello stesso Stato -al Sud tanto micragnoso- faceva lo scjalone tra l’Emilia e la Toscana, dove aveva insediato ben sette università -cinque più del necessario e dell’equo (Siena, Pisa, Modena, Ferrara e Parma, oltre a Bologna e Firenze), in quanto rivolte al servizio di cittadine di modesta popolazione. Ciascuna di esse, infatti, non arriva a un quarto della popolazione reggina e tutte assieme ne facevano appena il totale. La crisi reggina va connessa con la crescita demografica che si verifica negli anni a cavallo tra guerra e dopoguerra. Le nuove generazioni non trovano una sistemazione, in quanto proprio nel dopoguerra il Sud perde la battaglia che passa sotto il nome di Ricostruzione Nazionale, ma che tale nome non merita (e neppure le lettere maiuscole) trattandosi della ferma scelta da parte del CLN - quasi una congiura - di concentrare tutte le risorse nazionali e l’apporto degli aiuti americani sullo sviluppo del solito Triangolo padano, come chiedevano Valletta (FIAT) e altri ceffi di pari statura. A contrappeso e come palliativo si procede all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Si proclama che il Sud ha bisogno di infrastrutture (parola allora nuova per dire le strade e gli acquedotti, quelli che né la Destra Storica, né Sinistra egualmente Storica, né il Ministro della malavita, Giovanni Giolitti, e neppure Benito Mussolini, Duce vittorioso e Fondatore dell’Impero, s’erano degnati di fare, né sono venute dopo, nonostante la Cassa, ancorché Bossi e compagnoni padani piangano calde lacrime su una fattura che non è stata mai pagata dai soli paludosi (padani). Il nuovo ente è sotto il comando strategico di politici dotati di grande talento geografico, i quali s’impegnano a ridisegnare l’aspetto del paese meridionale secondo le misure del loro sarto di famiglia. Tanto per fare un esempio Napoli, la vecchia capitale del Regno meridionale, italianamente degradata a capoluogo di provincia, si comincia a trasferirla ad Avellino. Così anche Reggio. La quale è città fastidiosa in quanto elegge un senatore e un deputato fascisti. Non avendo provveduto un terremoto, la briga di accorciarla se la prendono i nostri. In effetti il municipalismo cosentino incide in modo tutt’altro che lieve sulla geografia economica, sociale e umana della vecchia Calabria. La consistenza urbana e il peso politico di Cosenza crescono visibilmente, sospinti dalla mano adunca del notabilato politico clientelista e dall’abile unilateralità politica della Cassa di Risparmio di Calabria (il figlio del capo era asceso a deputato con i voti cosentini e a sottosegretario italiano di stato con la benedizione di frate Colombo). Sebbene strategata dal meno che mediocre Ernesto Pucci, Catanzaro riesce ad arraffare il peculio che di solito va a chi regge il sacco. Reggio paga il fio d’essere incostituzionale, di dare voti ai fascisti, anzi di non darli agli ex CLN, e lentamente decàde. Il diffondersi della coltura e dell’industria del gelsomino, i successi del Caffè Mauro non riescono a nascondere l’involuzione. Decàde, ma non protesta. Il ceto politico che la dirige è perdente a livello romano e cosentino. Il senatore Barbaro poteva ben essere un galantuomo, e anche devoto alla sua città, ma non aveva entrature a Roma, tanto sulla destra quanto sulla sinistra del Tevere. Al tempo della Rivolta operavano in Calabria 37 istituti di credito, con 215 sportelli, i quali totalizzavano una raccolta di risparmio vicina ai 500 miliardi. Reggio, benché alla guida della provincia con il minor numero di comuni e di abitanti, era ancora in testa, sia sul lato dei depositi sia sul lato degli impieghi (cfr. Unione Regionale delle Camere di Commercio I.A.A., Relazione sulla situazione economica della Calabria nel 1970, a cura di Vincenzo De Nardo). Ma si trattava, evidentemente, dell’ultima resistenza. Alcuni successi imprenditoriali, del tipo armatore Matacena, allignavano nel vuoto. Come è ampiamente noto, a partire dai primi anni Cinquanta e poi per tutto il ventennio successivo, l’assetto sociale europeo viene squassato da un sommovimento di portata epocale. L’innesco è di carattere tecnologico e produttivo. L’Italia (dizione generica ed equivoca) segue lo slancio dei tre forti paesi che la precedono: Inghilterra, Francia e Germania. Al contrario il Sud, mancando uno stato suo, si avvia in caduta libera verso il precipizio. La sua precedente posizione di periferia del Settentrione si converte in estraneazione. Il blocco cavourrista e padano del suo sviluppo diventa in tale passaggio sottosviluppo; un fenomeno non economico ma politico, superabile soltanto per via politica (forse è più onesto e corretto dire: militare). A monte della nuova situazione stanno due fenomeni contrapposti e simmetrici: la caduta dei prezzi relativi per le produzioni mediterranee e l’aumento dei salari agricoli. Non v’è dubbio che il dissesto dell’agricoltura meridionale sia stato consapevolmente accettato quale offa nazionale della crescita industriale nordista. L’operazione viene condotta dai governi nazionali con un’aggressività barbarica a tutti evidente. Il Sud viene trattato come un nemico da annientare. La buffonata dell’uguaglianza legale, istituzionale ed elettorale non può e non deve ingannare nessuno. Nonostante sia ferma ogni forma d’investimento e l’occupazione agricola e manifatturiera cada, il livello dei salari sale. La diaspora della manodopera contadina e artigianale verso l’industria padana spopola le campagne e appiattisce la domanda di lavoro. Contemporaneamente (o forse anticipatamente, come sostengono Ferrari-Bravo e Serafini, Stato e sottosviluppo) i cantieri aperti dalla Cassa incettano i non molti rimasti. A partire da questa svolta, i contadini superstiti non sono più costretti a scappellarsi profondamente per ottenere un’affittanza. Anche l’iniqua gara fra braccianti per una giornata di zappa finisce per sempre. In una situazione di libertà economica ciò dovrebbe essere segnato come un grande progresso sociale. Ma, in effetti, il progresso non c’è. A trarne vantaggio sono soltanto gli industriali e i padroni di casa padani. Infatti i primi si trovano di fronte a una curva salariale che non cresce in misura diretta con la loro domanda di manodopera, i secondi decuplicano la rendita di posizione. Invece gli agrumi - l’ultima ricchezza residua - diventano una bolla d’aria. Buona parte delle province siciliane e la provincia reggina vedono andare in malora l’unico loro capitale, i dimenticati slanci (ovviamente in rapporto alle sue forze) della borghesia sudica per crearsi basi nuove di profitto attraverso la piccola -o è più esatto dire, l’atomistica- impresa industriale. Ciò era già avvenuto negli anni dell’immediato dopoguerra, sotto la spinta dei buoni affari realizzati con il mercato nero. Si ripete tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, adesso sull’eco del successo padano. Ma, se la crescita della ricchezza nazionale ha elevato le possibilità di spesa dei consumatori, il mercato meridionale è già da tempo una colonia dell’industria padana. Senza una disciplina politica del mercato -come a quel tempo auspica, solitario, il reggino Demetrio Di Stefano (Il Risorgimento e la questione meridionale) nella cui parabola politica e umana è descritta la sofferenza del vero rivoluzionario meridionale- la spinta in avanti si risolve in un cimitero d’industrie. E il riferimento funebre non va alla Liquichimica di Saline e a tutto l’intrallazzo nordista degli anni Sessanta; va invece alle croci piantate su piccole iniziative locali, fallite al primo incontro con il mercato nazionale. Patrimoni e speranze private vengono distrutti -cosa che è il meno- ma quei facili fallimenti ingenerano un clima diffuso di scoraggiamento che, sommandosi all’annientamento agricolo, fanno tabula rasa d’ogni spirito d’impresa. Uno stato che non fosse il nostro storico nemico avrebbe tentato almeno d’impedire tanta distruzione. Nello stesso tempo, la schiavitù degli agricoltori verso il monopolio chimico (concimi Montecatini) e verso il monopolio elettrico (Bastogi) si estende alla FIAT. Ancora una volta mediano le uguali leggi statali. Altro che rottamazione delle auto. Il ministero dell’agricoltura assume dipendenti e li dissemina per le campagne perché spieghino agli agricoltori che la meccanizzazione dell’agricoltura può tamponare la crescita dei salari. Intanto, o lo stesso ministero o quello degli esteri manovra e briga a Bruxelles per non estendere il protezionismo agricolo comunitario alle produzioni mediterranee. Agnelli deve ben vendere le sue macchine in Spagna. Gli agricoltori vengono presi al laccio con l’esca delle comode rate, spavaldamente fornita dai Consorzi agrari. Ovviamente si trattava di una spesa governativa a esclusivo favore delle industrie meccaniche produttrici di attrezzature e macchine agricole, che abilmente viene fatta passare per un aiuto all’agricoltura meridionale. In tal modo il monopolio ottiene ciò che gli serve e il capitale finanziario nascosto nei Consorzi (padani) può confiscare con largo anticipo le future, presunte entrate degli ex padroni dei terroni emigrati. Ovviamente, trattori e motocoltivatori vennero pagati non certo con le rendite, ma o stringendo la cinghia o vendendo un pezzo di terra. I cambiamenti correlati alla grande trasformazione del Nord italiano coinvolgono il Sud, in quanto oggetto della storia padana sin dal 1860, imponendogli un ulteriore regresso, ma questa volta relativo. È bene chiarire in cosa consista questo concetto, e non perché esso sia ambiguo, ma perché ambivalenti sono i fatti. Fra questi, i più rilevanti sono: Uno. Come è a tutti noto, la concentrazione geografica (la centralizzazione capitalistica) della tecnologia -al tempo della Rivolta- abbatteva immancabilmente il lavoro nelle aree sottosviluppate che venivano raggiunte dalle nuove merci (oggi la politica capitalistica del labour saving danneggia anche le aree elevate a centro). Tra il 1953 e il 1970, oltre agli emigrati, il Sud perde più di tre milioni di occupazioni. Due. Con l’aumento della ricchezza nazionale, la quota incassata e ridistribuita dallo stato cresce in termini assoluti e anche in rapporto alla porzione che rimane ai privati. Ciò permette che i pubblici servizi possano essere dilatati. Il Sud ottiene un primo vantaggio dal fatto che il numero degli impiegati cresce in assoluto in percentuale. La remunerazione che questa quota di popolazione ottiene è a un livello italiano, cioè più alto rispetto a quello che la produttività media del paese meridionale consentirebbe. Il Sud ricava un secondo vantaggio dal fatto che ottiene servizi in precedenza riservati solo al Centronord (le università, la sanità pubblica, ecc.). Tre. Lo sviluppo industriale porta con sé una crescita del livello medio delle aziende. Ciò danneggia il quadro concorrenziale, ma fa salire il livello medio dei profitti industriali; consente così alle industrie di cedere alla distribuzione -quindi anche alla sua frazione meridionale- una parte più larga del plusvalore estorto. Quanto sub Due e Tre permette al Sud di non perdere la posizione che aveva nelle statistiche nazionali in termini di reddito medio pro-capite, storicamente oscillante intorno al 65%. C’è però una significativa novità: detto percento, un tempo, era legato alla produttività complessiva del paese meridionale, mentre adesso viene insufflato dall’esterno. Tutte cose che, se arricchiscono il Sud, ne scombussolano, però, l’armonia sociale. Per essere passabilmente chiaro, esemplifico. Un insegnante meridionale lavorerebbe per metà dello stipendio vigente. L’aggiunta è un regalo italiano. Così un medico, un giudice, un poliziotto, un bancario, l’operaio di un’azienda nazionale tipo ENEL, Telecom, ecc. Anche un commerciante-distributore meridionale lavorerebbe per un ricarico pari alla metà di quel che ottiene. Pure in questo caso l’aggiunta è collegata a una nazionalizzazione, precisamente a quella burocratica vigente nelle grandi aziende, in forza della quale vengono sottoposti a disciplina coattiva fenomeni che di per sé sarebbero economici e di mercato. Ovviamente, il vantaggio che arriva nelle tasche di una parte dei meridionali è pagato dagli stessi meridionali, che sono costretti a dare di più allo stato e di più ai monopolisti padani. C’è, tuttavia, subito da osservare che, se gli stipendi e i ricarichi fossero dimezzati, al Sud non verrebbe alcun vantaggio contabile. Infatti la differenza in più non sarebbe risparmiata dai contribuenti e dai consumatori, ma andrebbe ai professori, ai medici, ecc. settentrionali sotto forma di un maggiore stipendio e alle aziende industriali sotto forma di più lauti profitti (Bossi è meno scemo di quel che sembra). Ma come sopra segnalato, nel quadro economico meridionale i vantaggi non pagati costano carissimi. Infatti nel Sud, mancante di un suo Stato e di economie esterne tali da consentire una migliore produttività del lavoro, la nazionalizzazione del livello dei salari e degli stipendi ha come contropartita il tragico declino, la caduta, senza possibilità alcuna di ritorno, dell’agricoltura, non essendo questa protetta da sbarramenti comunitari. Aggiornando il tema alla data attuale, si può aggiungere che la caduta ha toccato ogni produzione lecita a carattere arretrato e ha portato alla crescita di quella illecita, alla fioritura del lavoro in nero, tanto fra i cittadini italiani quanto fra gli extracomunitari, nonché alla dilatazione della sovrappopolazione, che adesso potrebbe essere considerata non più un esercito industriale di riserva, ma umanità superflua, come nel Terzo Mondo, e da qui a non molto soltanto zoologia antropica. I partiti stanno tornando sui propri passi. Ma si tratta di un ripensamento vano e contraddittorio se non accompagnato da un forte vincolo valutario (o se più vi piace, bancario) a finanziare con risparmio sudico l’importazione di merci forestiere. Infatti i sindacati, consapevoli dell’inefficacia di una unilaterale decurtazione dei salari, sono fermamente decisi a combattere le gabbie salariali senza la contropartita di un investimento che bilanci la sottrazione di valuta. Naturalmente neanche questo basta, ma anche i sindacati sono italiani. L’approdo alla disarmonia sopra accennata precede la Rivolta, ma, a quel momento, la gente -che pure ne soffre il disagio- non ne ha ancora concettualizzato le cause. Avvertite sono invece le ripercussioni di carattere sociologico della trasformazione italiana. Quando il morso della fame durava da un anno all’altro, e segnava, uno dopo l’altro, tutti i giorni della vita, la comune povertà legava il proletariato. Nella nuova fase, la fame vera è scomparsa, ma il modo di produrre (il lavoro) si riorganizza a raggi, il cui sole è spesso lontano. Ciò frantuma la dimensione umana della città, il senso del vicolo e del rione. Chi lavora diventa la macchina di un dio cieco, chi non lavora è la vittima di un demone irraggiungibile. L’umanesimo antico evapora, un nuovo umanesimo (un sindacato, un partito aderente ai problemi periferici) non spunta. Per usare il linguaggio del sindacalista, la grande trasformazione si allarga al Sud senza ammortizzatori sociali. La durezza della transizione (per esempio, il riverbero locale dell’emigrazione) lascia insensibili i politici e i sindacalisti. In effetti ciò che non cambia, o cambia in peggio, è l’organizzazione clientelare delle filiali sudiche di tutti i partiti costituzionali. L’Italia ricca è scesa al Sud con altre sue merci, e per i fortunati anche con i suoi stipendi e salari, ma senza farsi accompagnare dalle regole di una libera democrazia. Perché? Credo si debba dare una risposta veritiera anche a rischio d’apparire faziosi: perché, al Sud, il primo atto di vera democrazia sarebbe la liberazione. Una cosa che va oltre le manette e arriva ai carri armati. I maggiori benefici dell’allargamento al Sud delle condizioni sociali raggiunte nell’Italia restante, li ricavano i ceti medi scolarizzati. Legioni di redditieri ormai senza più rendita, e perciò promessi alla misurazione dei marciapiedi cittadini, hanno trovato facilmente un posto. Altri posti si lasciano sperare e si sperano. Legioni di figli del proletariato, in salita sociale per via degli studi, s’infilano anche loro da qualche parte. Ragionieri, medici, ingegneri, avvocati si sistemano in un modo o nell’altro. Altri s’infileranno, almeno si spera. Alla fine del mese lo stato paga. Sarebbe inopportuno mettersi a fare della sociologia senza possederne gli strumenti, ma una cosa è chiara a chiunque: questa nuova quadreria che, attraverso la politica e l’invasione politica della società civile, diventa la parte sub-dirigente del Sud, manca di virtù. In fondo non è che l’erede statuale di quella borghesia padronale e redditiera che si concesse a Cavour per mancanza di decoro, d’onore e d’amor di patria. D’altra parte non è una classe, e neppure una classe in formazione. Manca il punto di riferimento sociale e quello autenticamente politico. Certo, un punto di riferimento non manca, ed è il civismo rovesciato in disvalore. Esso aggrega le persone, ma non può essere dichiarato all’esterno. Soltanto ristagna nel sottobosco familiare e municipale come necessaria arte del campare. A questo punto, se sommiamo la crisi produttiva, il non possedere altro che braccia per pagare le merci forestiere, e ancora il sommovimento sociale, lo scardinamento dei vecchi valori classisti, la disperazione occupazionale, abbiamo il Sud degli anni Sessanta. Un Sud impoverito che dovrebbe solamente e puramente liberarsi d’ogni torchiatura esterna e farsi (al suo interno) finalmente quei conti sociali che i bersaglieri piemontesi impedirono, facendo colare sulla sollevazione contadina un fiume di sangue. Comunque, la Rivolta reggina non ebbe tale idealità, né prima né poi. La rabbia contro lo stato straniero, o quantomeno estraneo, fu scioccamente vanificata da un personale politico che non seppe far altro che prendere il tram elettorale. Allora cosa fu questa Rivolta? Perché Reggio? Intanto l’occasione. Poi la singolarità va cercata nella sua splendida agricoltura. Quella stessa classe di redditieri fondiari che aveva invocato i bersaglieri piemontesi e che s’era pappato con poca spesa il demanio ecclesiastico e gratis quello statale e comunale, s’era lentamente ricostruita moralmente. Sicuramente spremendo sangue dalle ossa dei coloni, aveva piantato milioni di ulivi e decine di milioni di aranci, limoni, bergamotti. Li aveva lavorati, commerciati, imposti sui mercati stranieri (il Nord era ancora troppo povero per presentare una domanda effettiva). Spesso s’era indebitata fino alle mutande, in attesa che arrivasse il momento della fruttificazione. Anni, decenni di attesa, durante i quali il Banco di Napoli li aveva vessati con i suoi avvocati e gli ufficiali giudiziari. Poi un limitato benessere privato e anche un surplus provinciale consistente. Allo scadere del luglio 1970, l’agraria reggina non era del tutto appassita; era ancora detentrice di qualche quattrino e s’era fatta un certo orgoglio di classe. Una cosa che nei tempi prosperi appariva solo sussiego, ma che oggi dobbiamo storicamente rivalutare, poiché era in effetti frutto della fiducia in sé, la stessa che mostrava il cavaliere d’industria. O forse -e più giustamente- quella di Esiodo, di Virgilio, di Plinio, di Columella, del cremonese Stefano Jacini: l’agricoltura come esplicazione del sapere umano, del vichiano conoscere la storia, in quanto produttori delle cose e di sé. Insomma Reggio era stata una città effettivamente capace di partecipare alla produzione nazionale in una posizione d’avanguardia; una città autentica. Nei decenni precedenti, l’insolita identità reggina si era espressa mediante l’uso di un partito non costituzionale come podio, come palco per la rappresentazione scenica: il MSI. Ma senza per questo essere fascista. C’era solo una circostanza casuale a determinarla. Il podio era preso a prestito, quel che contava era l’uomo, forse il simbolo della sua rifiutata decadenza. Il senatore Francesco Barbaro è descritto come un aristocratico d’altri tempi, democraticamente alla mano; come un vir dotato di severo spirito di servizio. Barbaro morì qualche anno prima della Rivolta, ma l’idea che la gente di Reggio ne aveva, faceva del suo ricordo un punto di riferimento, e non solo per l’agraria in decomposizione, ma per tutte le famiglie oneste: per quelle dei lavoratori, gli antichi e i nuovi, per quelle della nuova burocrazia, dove crescevano giovani destinati alla nuova guerra dell’uomo contro l’uomo, per quelle dei bottegai e prestatori di servizi, per cui la decadenza decisa per decreto rappresentava un atto ostile, persino per operatori economici di respiro nazionale come Mauro e Matacena, nonché per una larga parte dei colti, ai quali la conoscenza del passato dava conto della misura del declino. Volendo concludere, l’input impresso dalle idee di Cavour al quadro sociopolitico italiano ha diviso un paese che aveva avuto parecchi stati, ma strutture produttive di uguale livello. Al Centronord l’intrallazzo finanziario e il parassitismo industriale alimentarono la formazione di un esercito del lavoro agricolo e industriale di tipo metropolitano, che è stato ed è rappresentato da formazioni politiche e sindacati coerenti con la sua condizione; al Sud, il saccheggio del capitale storico, dei surplus normali e dei surplus popolari da astinenza, la centralizzazione padana del capitale bancario di rischio, la mancanza di un proprio stato organizzatore, l’espropriazione del credito internazionale derivante dal massiccio afflusso della valuta rimessa dagli emigrati, non lasciarono altro spazio alla crescita capitalistica che una modesta nicchia in agricoltura; una situazione ben lontana dalla richiesta popolare di dar lavoro alle masse che la penetrazione di merci capitalistiche forestiere proletarizzava. Le forze politiche e i sindacati italiani, coerenti con l’assetto occupazionale settentrionale, forse avrebbero voluto, ma oggettivamente non potevano e storicamente non poterono rappresentare gli interessi di un proletariato in larghissima parte esterno ai rapporti capitalistici di produzione. Quando questa versione del proletariato contemporaneo recepisce la lezione marxista, nega la negazione imperialistica e si afferma come il protagonista storico della liberazione nazionale dal sottosviluppo produttivo. Insomma la Rivolta, per la partecipazione popolare che ebbe, poteva ben essere il principio della rivoluzione meridionale, se il proletariato non fosse stato da sempre solo. Invece, rimasta in mano al nazionalismo dannunziano di Ciccio Franco, si tramutò nel parto di una vecchia, in un aborto politico, nella contorta contrimmagine dell’impresa fiumana. Nicola Zitara

Cefalonia 1943, non tutti eroi. I militari della divisione Acqui si opposero ai tedeschi e molti vennero fucilati dopo la resa. Un libro di Elena Aga Rossi (il Mulino) ricostruisce la vicenda della strage, scrive Paolo Mieli il 4 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il 3 gennaio 1945, mentre la Seconda guerra mondiale non si era ancora conclusa, erano trascorsi appena sette mesi da quando gli Alleati avevano liberato Roma e l’Italia rimaneva divisa in due (al Nord Benito Mussolini con la Repubblica di Salò, al Centrosud gli alleati e il governo antifascista presieduto da Ivanoe Bonomi), un ufficiale dell’esercito, Renzo Apollonio, diede appuntamento a don Romualdo Formato per le otto e mezza del mattino, in un bar della capitale, a Porta Pia. Tema del colloquio una versione comune di quel che era accaduto a Cefalonia dove erano stati entrambi quindici mesi prima, tra il 15 e il 22 settembre del 1943. Nell’isola, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, i militari italiani appartenenti alla divisione Acqui, dopo qualche esitazione e una sorta di referendum tra i soldati, avevano rifiutato di arrendersi, si erano scontrati con i tedeschi e in molti erano stati uccisi. A cominciare dal loro comandante, il generale Antonio Gandin. Ma torniamo al bar di Porta Pia. Apollonio e don Formato sono entrambi reduci da quell’esperienza di fine settembre 1943 e il primo, che ha da farsi perdonare d’aver successivamente collaborato con i nazisti, vorrebbe che il sacerdote avallasse la sua versione dei fatti e cioè che era stato lui a spingere alla ribellione contro i tedeschi un recalcitrante Gandin. Don Formato annota sul proprio diario che, di fronte alle sue puntualizzazioni in difesa di Gandin, «Apollonio va su tutte le furie» e «per fortuna ci ha raggiunto un mio amico, professore d’archeologia» perché il colloquio «aveva preso una brutta piega». Anche tra gli storici quello che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi celebrò nel 2001 come «il primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo», prese fin dall’inizio «una brutta piega». Nel senso che, come ricostruisce Elena Aga Rossi in uno straordinario libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, qualcosa non funzionò (e ancora non funziona del tutto) nel racconto di quegli accadimenti di oltre settant’anni fa. A partire dal numero di morti italiani, novemila secondo un comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio emesso nel settembre 1945 (ai tempi era capo del governo Ferruccio Parri) destinato a restare nei libri di storia. «Un dato totalmente fuori dalla realtà», lo definisce la Aga Rossi, che riduce i caduti della divisione Acqui a un numero tra i 1.600 e i 2.500. Il che, precisa la storica, «lungi dallo sminuire il significato della tragedia», attribuisce «al di fuori di mitologie ed esagerazioni, proprio nella sua aderenza al vero, maggior valore al caso di Cefalonia, al sacrificio di quanti — e sono sempre circa duemila italiani — morirono combattendo o fucilati dai tedeschi dopo la resa». In quello che peraltro resta «il più grande massacro commesso dai militari tedeschi nei confronti degli italiani». Come andarono davvero le cose nell’isola greca del Mar Ionio, in quella fine di settembre del 1943? A seguito dell’armistizio, i nazisti intimarono agli italiani di arrendersi e di consegnare le armi; il generale Gandin, dopo aver attentamente valutato le opzioni di cui disponeva, decise di trattare la resa per avere il tempo di ricevere aiuti dagli angloamericani; alcuni dei soldati reagirono però con episodi di insubordinazione a questa tattica temporeggiatrice; qualcuno tra gli ufficiali suggerì di indire un referendum che si tenne e diede luce verde alla ribellione. Che condusse all’ecatombe di cui si è detto. Il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi nel novembre del 1945 tenne a sottolineare come l’eccidio di Cefalonia andasse tenuto nel conto di un esempio di «resistenza partigiana». Ma il generale Gandin, che precedentemente era stato definito dal giornale dei comunisti, «l’Unità», un «eroe antifascista», nonostante avesse pagato con la vita il suo eroismo, da qualche mese veniva criticato dallo stesso quotidiano, che contrapponeva la sua presunta «esitazione» alla «determinazione di buona parte dei soldati e dei marinai guidati da alcuni sottufficiali». Padre Formato incontrò il Papa Pio XII, che «assunse un atteggiamento molto prudente, quasi filotedesco» sulla vicenda. E poi il principe Umberto, all’epoca luogotenente del Regno, che espresse una profonda «riconoscenza» verso il generale Gandin e gli uomini della divisione Acqui. Già allora, dunque, i giudizi si divisero. Ma perché a Cefalonia i soldati si ribellarono? Secondo un’indagine militare condotta all’inizio degli anni Sessanta, ciò accadde in seguito a «gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali», mentre il generale Gandin era «impegnato nelle trattative con il locale comando tedesco». L’accaduto era riconducibile anche ad «arbitrarie intese segrete con elementi partigiani greci ai quali furono perfino cedute da qualche reparto armi e munizioni». Il rapporto rimproverava, neanche tanto velatamente, a Gandin una «certa debolezza», non già verso i tedeschi, bensì nei confronti di alcuni suoi ufficiali e soldati che in quei giorni avevano fomentato la rivolta. Una debolezza manifestatasi, secondo il rapporto, «con la mancata adozione di severe misure contro i principali responsabili di attività sediziosa e di intemperanze disciplinari». In effetti, ancorché eroica, quella ribellione — sottolinea Aga Rossi — non si configurò come un episodio della Resistenza. Quei soldati consideravano il loro non come «un gesto di eroismo resistenziale», bensì come «la via più diretta per tornare a casa». La vicinanza dell’Italia e la speranza dell’arrivo di aiuti da parte degli anglo-americani ebbero un ruolo fondamentale nel convincere una parte della divisione che, combattendo i tedeschi, sarebbero tornati a casa «prima». Prima di quello che sarebbe stato il loro destino «se avessero accettato di arrendersi». È difficile, prosegue la storica, individuare «nell’azione della truppa la motivazione antifascista presente soltanto in pochi militari che provenivano da famiglie contrarie al regime». Allo stesso modo «sarebbe sbagliato vedere nel cosiddetto referendum una dimostrazione di democrazia». Studiate con attenzione carte edite e inedite, Aga Rossi conclude che «molti reparti non furono interpellati e quelli che lo furono risposero in base al modo in cui era stata posta la domanda e all’autorità del comandante». In che senso? I documenti parlano chiaro: «Anche chi avrebbe voluto cedere le armi o passare dalla parte dei tedeschi accettò e seguì le posizioni dei propri comandanti e della maggioranza dei commilitoni». Quanto poi ai partigiani dell’Elas, la storiografia resistenziale ha proposto «una mitica fratellanza antifascista italo-greca» che nella documentazione non trova riscontro. Anzi. Una volta ricevute le armi dai soldati italiani, i resistenti dell’Elas «non parteciparono ai combattimenti» e nelle relazioni sugli scontri «non si parla di azioni di partigiani se non per il giorno 13 settembre». È vero invece che la propaganda dell’Elas contribuì a diffondere tra gli italiani «l’illusione» che, combattendo, anche con l’ausilio della resistenza greca, si sarebbe «dato tempo alle forze anglo-americane di intervenire e si sarebbe così aperta la strada per il ritorno a casa». Sono a questo punto individuabili responsabilità del governo italiano (in quel momento presieduto da Pietro Badoglio) e degli Alleati in merito a quel che accadde a Cefalonia. Poiché «gli anglo-americani all’inizio non si erano nemmeno posti il problema di fornire aiuti alle isole Ionie», scrive Aga Rossi, «la decisione del governo di ordinare di resistere senza essere in grado di assicurare l’aiuto militare promesso equivalse a una condanna a morte dei resistenti». Gli anglo-americani, «prima impegnati totalmente e con scarse forze nello sbarco a Salerno e poi nel consolidamento dell’occupazione nell’Italia meridionale, si resero conto solo gradualmente della situazione». Quando «presero finalmente in considerazione la possibilità di intervenire e di cogliere l’occasione loro offerta dalla resistenza italiana, era troppo tardi». Lo stesso accadde per la vicina isola di Corfù, dove «la decisione alleata di intervenire arrivò undici giorni dopo l’inizio dei bombardamenti e quando i tedeschi, sbarcati indisturbati, stavano ormai annientando le truppe italiane». Come per altre vicende, scrive Aga Rossi, «anche in questo caso l’uso politico della storia ha favorito l’affermazione di una versione piuttosto che di un’altra a prescindere dal dibattito storiografico su fatti e protagonisti di quegli avvenimenti». Nel clima del secondo dopoguerra c’era «poca disponibilità a valutare caso per caso» l’operato dei comandanti che si consegnarono ai soldati di Hitler. Quelli che si arresero furono ritenuti comunque «corresponsabili della guerra fascista», mentre quelli che si schierarono contro i tedeschi vennero celebrati come eroi. Con qualche eccezione, come quella di Apollonio. Antonio Gandin — il cui operato è in questo libro giudicato sostanzialmente saggio e che pagò con la vita — fu tenuto nel conto di un ufficiale che aveva avuto «un comportamento indeciso e ambiguo al limite della collusione con i tedeschi». Il suo principale oppositore, il tenente Renzo Apollonio, riuscì invece a farsi considerare l’eroe di Cefalonia, nonostante avesse in seguito collaborato con i militari nazisti. Ottenne questo riconoscimento presentandosi come il fomentatore della «rivolta dal basso» dei soldati, cosa che gli valse un importante riconoscimento nel libro Un popolo alla macchia (Res Gestae) del leader comunista Luigi Longo e nella Storia della Resistenza italiana (Einaudi) di Roberto Battaglia. Reso forte da questi giudizi, Apollonio «divenne nel dopoguerra il principale accusatore di Gandin, su cui raccolse un serie di dichiarazioni», e rivendicò il proprio comportamento a Cefalonia come «fondato sull’eroismo e sulla fedeltà ai valori militari, nel quale patria e onore erano incompatibili con la resa». Eppure sono sempre più numerosi gli storici che, ricorda Aga Rossi, evidenziano nella sua successiva collaborazione con i tedeschi e in molti altri episodi «un atteggiamento ambiguo e opportunista». Ma come fu possibile questo pasticcio? Nelle relazioni italiane redatte a guerra finita, spiega la studiosa, vi sono pesanti reticenze. Gli episodi di insubordinazione e di violenza della truppa, che poi emergeranno negli studi successivi, «vengono in genere minimizzati e a volte negati». Le stesse memorie dei protagonisti «appaiono lacunose e ingannevoli». Il costo della rimozione e della connessa volontà di mantenere un mito di Cefalonia — fondato per alcuni aspetti sull’occultamento della verità — «è stato altissimo», scrive Elena Aga Rossi; «fino ad oggi su Cefalonia c’è una memoria divisa, che è passata dai superstiti alle loro famiglie, ha provocato polemiche e il proliferare di versioni contrastanti». Mentre soprattutto per quelli che non sono tornati, «che sono morti facendo fino alla fine il loro dovere e combattendo contro i tedeschi», è ormai tempo «di por termine alle polemiche e di recuperare una memoria per quanto possibile unitaria di una delle prime iniziative della Resistenza, e di certo di quella che ebbe l’esito più drammatico». Come? Forse è più semplice di quanto possa apparire, sostiene Elena Aga Rossi: basta rifarsi alle «due leggi della storia» contenute nel De oratore di Cicerone. La prima è di «non asserire il falso». La seconda «che non si taccia il vero». Bibliografia. Esce il 22 settembre in libreria il saggio di Elena Aga Rossi Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito (il Mulino, pagine 272, e 22). A quella controversa vicenda della Seconda guerra mondiale sono stati dedicati molti volumi. Tra i più rilevanti: Gian Enrico Rusconi, Cefalonia. Quando gli italiani si battono (Einaudi, 2004); Giorgio Rochat e Marcello Venturi, La divisione Acqui a Cefalonia (Mursia, 2002). Sul versante tedesco: Hermann F. Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca (Gaspari, 2013). Da segnalare anche la raccolta di saggi Né eroi né martiri, soltanto soldati, a cura di Camillo Brezzi (il Mulino, 2014). Sul numero dei morti: Massimo Filippini, I caduti di Cefalonia: fine di un mito (Ibn, 2006). Assai critico verso il generale Gandin: Paolo Paoletti, Cefalonia 1943: una verità inimmaginabile (Franco Angeli, 2007).

La politica usa la storia tra feste nazionali e memoria "di Stato". La proliferazione di ricorrenze e leggi chiude la porta a letture differenti dei fatti. E lo dice un uomo che ha subito il peso della Shoah..., scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". Alcuni anni or sono Pierre Nora, il grande storico accademico di Francia e capostipite di un filone storiografico basato sui «luoghi della memoria», fu l'animatore insieme a René Rémond di un'associazione chiamata «Liberté pour l'histoire» che promosse un appello contro i rischi della «moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale». Quel documento, firmato da un gruppo di studiosi di formazione diversa da Pierre Milza a Mona Ozouf, da Marc Ferro a Paul Veyne , sosteneva che «la storia non deve essere schiava dell'attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti» e si rivolgeva ai politici di ogni schieramento perché comprendessero che «se hanno l'obbligo di custodire la memoria collettiva, con devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria» avrebbe potuto avere «gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale». Il documento suscitò molte polemiche ma riscosse anche molti consensi, ed era un autorevole atto d'accusa contro ogni forma di «storia ufficiale» o ideologica, contro la gestione politica della memoria collettiva. Nora è uno studioso di origine ebraica che ha saputo coniugare l'attività di ricerca accademica con il lavoro di direttore editoriale di una importante casa editrice francese. La sua preoccupazione principale è sempre stata quella di contribuire al recupero del senso di appartenenza nazionale da parte dei francesi, troppo a lungo indottrinati dalla versione resistenziale della guerra imposta alla memoria collettiva e nazionale dal generale Charles de Gaulle in un famoso discorso in cui aveva sostenuto che, con l'eccezione di poche pecorelle smarrite, tutta la Francia era entrata nella Resistenza. Per Nora ciò non era vero perché un tale approccio metteva in ombra o sottovalutava tradizioni storiche diverse. Il punto fondamentale, tuttavia, era che l'imposizione di questa vulgata implicava una «politicizzazione della storia» sotto «il peso della contemporaneità» e con una «chiusura nel presente»: si consumava un «allontanamento dal passato» e si realizzava «il consumo generalizzato di una storia senza nessun possibile ricorso alla minima forma di discriminazione critica». In un piccolo ma succoso libro, introdotto da Antoine Arjakosky, dal titolo Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (La Scuola, pagg. 96, euro 8,50), Nora sottolinea, con riferimento alla Francia (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi), come fossero apparsi nell'ultimo ventennio due fenomeni, paralleli e in certa misura collegati, rivelatori della tendenza mistificatrice a leggere e considerare il passato con gli occhi della contemporaneità e della visione politica dominante. I due fenomeni sono la proliferazione delle ricorrenze nazionali e le leggi sulla memoria storica. Nora ricorda come, fra il 1880 e il 1990, fossero state istituite soltanto sei festività a carattere nazionale (tra le quali quella del 14 luglio e quella dedicata a Giovanna d'Arco), mentre nel solo periodo 1990-2005 ne fossero state create altre sei (come quelle che ricordano le persecuzioni antisemite o la fine della guerra d'Algeria). La differenza tra le prime e le seconde è, a parere dello studioso, netta e sostanziale: «le sei grandi manifestazioni nazionali del XIX e XX secolo costituivano grandi momenti collettivi di tregua nazionale; le sei più recenti non mobilitano che gruppi ristretti ed esprimono soltanto la pressione sul potere da parte dei militanti e il successo delle rivendicazioni sostenute dalle loro associazioni». Il discorso potrebbe essere traslato nella realtà italiana con riferimento a date si pensi, per esempio, al 25 aprile o al 2 giugno che per molti potrebbero apparire più divisive che unificanti. Il secondo fenomeno denunciato da Nora è quello delle cosiddette «leggi sulla memoria» volute o dalla sinistra o dalla destra, gli interventi legislativi cioè che puniscono la negazione del genocidio degli ebrei o condannano lo schiavismo e la tratta degli schiavi e via dicendo. Si tratterebbe, secondo Nora, di una deriva legislativa inquietante e pericolosa, sia perché rischia di «paralizzare la ricerca» e di «ricordare in modo spiacevole le logiche totalitarie», sia perché appare contraria a ogni forma di approccio storiografico. Scrive Nora che questa deriva legislativa esprime «la tendenza a leggere e a riscrivere l'intera storia dal punto di vista esclusivo delle vittime e una propensione, inaccettabile, a proiettare sul passato dei giudizi morali che non appartengono che al presente, senza tenere nella minima considerazione quella differenza tra periodi storici che è lo stesso oggetto della storia, la ragione del suo apprendimento e del suo insegnamento». Naturalmente Nora, la cui esistenza è stata marcata profondamente dalla Shoah, pur diffidando della legislazione francese contro il negazionismo, non propone una messa in discussione di tale normativa, perché questa ipotesi potrebbe essere vista come un incoraggiamento per chi nega il genocidio. Avverte però che il rapporto fra storia e politica è molto delicato. I politici, a suo parere, hanno il dovere di interessarsi del passato per comporre la memoria collettiva riparando i torti subiti dalle vittime e onorandone la memoria, ma «non attraverso leggi che definiscano i fatti e ne scrivano la storia». Il compito di stabilire i fatti e di cercare la verità è essenzialmente dello storico. Quella di Nora è una riflessione sofferta da parte di uno studioso di grande e riconosciuto spessore il quale, partito dalla storiografia delle Annales, è approdato, attraverso la critica alla storiografia positivistica e a quella marxista, ai lidi di una Nouvelle Histoire dai confini più ampi che recupera l'insegnamento di Marc Bloch. È una riflessione che, rifiutando le vulgate storiografiche di ogni colore e volendo liberare la ricerca dai condizionamenti del potere politico, nasce da profondo di uno spirito autenticamente libero e liberale.

Il plebiscito del Veneto fu una truffa ma la sinistra non vuole dirlo. Un saggio diffuso dalla Regione Veneto dice la verità sul plebiscito di annessione del 1866. Ed è subito polemica, scrive Carlo Lottieri, Venerdì 02/09/2016, su "Il Giornale". È polemica: ed è bene che sia così. La diffusione di un volume di Ettore Beggiato (1866: la grande truffa. Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editrice Veneta) sul modo in cui il Veneto 150 anni fa è stato «italianizzato» dopo la terza guerra d'indipendenza, a seguito di un referendum truffaldino, disturba gli intellettuali progressisti. Sul quotidiano veronese L'Arena ieri si riportavano alcune prese di posizione negative nei riguardi del libro. Secondo Carlo Saletti saremmo di fronte a «un uso distorto della storia», piegata a ragioni politiche. Una tesi condivisa da Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese della storia della Resistenza, per il quale con questo volume «si vuole dare un messaggio politico partendo dal plebiscito per lanciare una critica all'Italia di oggi». Il tono è di contestazione, ma con ogni probabilità l'autore sarebbe in parte d'accordo. Già assessore regionale e appassionato cultore della storia della Serenissima, Beggiato si propone di smontare la lettura tradizionale di una popolazione veneta ben felice di lasciare l'Impero asburgico per unirsi alle popolazioni italiche. Il volume è tutt'altro che paludato: vuole interessare e farsi leggere. Chi l'ha scritto, per giunta, non cela in alcun modo la propria speranza che Venezia e gli altri territori possano presto decidere del proprio futuro (con un referendum democratico), tornando indipendenti come furono per secoli. Beggiato ha insomma esaminato il passaggio storico del 21 e 22 ottobre 1866 per illuminare l'attualità: per far comprendere ai veneti di oggi per quale motivo devono pagare le tasse a Roma, e non a Vienna. Guarda il passato per criticare il presente, senza dubbio. Ma dove sarebbe il problema? Non è forse utile leggere la storia per capire il nostro tempo? I due studiosi evocano controverse questioni di metodologia, ma le loro parole lasciano perplessi: specie pensando che per Benedetto Croce ogni storiografia è contemporanea, dato che il passato ci interessa in quanto esso ha di tuttora vivo. Una cosa non viene detta da Saletti, né da Melotti: che Beggiato racconti falsità. Il libro, in effetti, è inattaccabile e il plebiscito fu un inganno da ogni punto di vista. Non fu garantito l'anonimato, votarono soggetti che non ne avevano titolo (i soldati italiani di stanza in Veneto, ad esempio) e, soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai voti reali. È significativo che gli storici «accademici» nulla contestino, sul piano dei fatti, a quanto Beggiato afferma, né difendano la regolarità del referendum: anche perché si renderebbero ridicoli. Di fronte a risultati ufficiali che parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita su un imbroglio. Un argomento è usato dai due storici contro il volume di Beggiato: ed è la decisione della Regione di regalarlo alle biblioteche del Veneto, anche scolastiche. La critica potrebbe avere una sua plausibilità (può un ente pubblico sostenere un'iniziativa culturale di parte?) se solo non sapessimo che le scuole pubbliche sono «apparati ideologici di Stato», per usare la formula del marxista Louis Althusser: sono da sempre realtà schierate a difesa del potere vigente e delle sue retoriche (dal Risorgimento alla Resistenza, dall'ecologia all'Europa, dalla solidarietà alla legalità). È allora soltanto positivo che una pecora nera come Beggiato trovi spazio tra tante pecore bianche, che belano tutte nello stesso modo. È poi interessante rilevare come per Melotto il referendum fosse sì ridicolo, ma perché tale doveva essere: «L'annessione fu decisa dal punto di vista diplomatico», dato che «il plebiscito serviva a sancire una situazione di fatto». Fu insomma una truffa, come dice Beggiato, ma «non può essere definito scandaloso questo modo di procedere perché nell'800 era la diplomazia a prendere le decisioni, non il popolo». Per Melotto non ci si deve proprio scandalizzare se nell'Ottocento la gente non contava e neppure a questo punto se in varie parti del mondo c'era ancora la schiavitù. Se però i veneti conoscessero meglio la loro storia, forse anche certa retorica nazionalista avrebbe assai meno presa. E questo sarebbe solo positivo.

Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.

La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)

Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.

Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica

Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.

La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.

LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.  

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Magistrati & storie di corna non accadono solo a Taranto: a Roma un membro del Csm simula il furto dell’Iphone! Dopo il “gossip” di un magistrato tarantino che sarebbe diventato l’amante dell’ex-moglie del suo avvocato che lo assisteva, questa volta i tradimenti arrivano al Csm a Roma, scrive il 28 giugno 2016 Frank Cimini e Manuela D’ Alessandro su “Giustiziami”. Aveva scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie che s’infuriava e chiedeva spiegazioni e lui replicava che l’apparecchio gli era stato rubato. Il nostro nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava una denuncia formale alla polizia affermando di aver subito un furto. Protagonista della vicenda un componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura che ora è nei guai, indagato dalla procura di Roma per simulazione di reato e sotto procedimento disciplinare. Perché la denuncia si è rivelata priva di riscontri con la realtà. I controlli e gli accertamenti in un caso del genere sono molto più accurati e soprattutto più veloci rispetto a quando una denuncia del genere viene presentata da un comune mortale. Per cui emergeva immediatamente che l’apparecchio, peraltro intestato al Csm, era sempre stato nella disponibilità del consigliere e mai oggetto di un furto. Il nostro magistrato è indagato dalla procura di Roma per aver simulato un reato e sotto inchiesta disciplinare da parte del Csm. Tutto è accaduto perché il consigliere non ha avuto la forza di far fronte alla rabbia di sua moglie per quel messaggio all’amante dal contenuto diciamo “inequivocabile” e ha finito per imboccare una strada senza ritorno. La vicenda è clamorosa, considerando l’importante incarico ricoperto dall’interessato che è tuttora al suo posto a giudicare i colleghi in attesa dello sviluppo delle indagini. L’episodio avvenuto alcuni mesi fa è coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non certo piccolo di persone. Con tutti i problemi che ha il Csm mancava solo una storia di corna gestita molto male (peggio non si poteva insomma) dal protagonista principale. Adesso si tratta di stare a vedere come sarà gestita dai colleghi del nostro, a Perugia e a Roma. Mettere tutto a tacere appare francamente difficile anche se recentemente in più occasioni il cosiddetto organo di autogoverno dei giudici ha dimostrato di avere l’omertà nel suo dna. Giovanni Legnini prova a smentire la vicenda del magistrato fedifrago svelata da giustiziami.it inviando una nota ai consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura: “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Csm”. Nessuno sembra però credergli e anzi molti deridono i toni ambigui del comunicato. Legnini ha dovuto emergere dal silenzio pressato dalle centinaia di magistrati che chiedono da giorni chiarezza nelle mailing list di corrente. “Se davvero è andata così, questo signore non può continuare a sedere nel Csm”, scrivono in molti. Altri manifestano livore contro la stampa: “Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista (è un termine improprio) e si dà origine alla notizia”.  Nei bar attorno al Tribunale di Milano all’ora di pranzo capannelli di toghe si confrontano sul nome (lo sanno tutti) e sui risvolti della vicenda.  E lo stesso accade a Roma, da dove stamattina il vicepresidente del Csm Legnini si è sentito in dovere di riportare “un clima sereno e proficuo” tra i magistrati. Ma la sua difesa non ha convinto stando alla mailing list di Anm. “E’ uno scialbo comunicato parasovietico del tipo in Urss non ci sono furti”, azzarda uno. “Legnini scrive ‘non è pendente alcun procedimento’ – osservano altri – parlando al presente. Questo significa che in passato lo era e magari è stato definito con un patteggiamento?”. E ancora: “Se non fosse per lo sputtanamento, ci sarebbe da ridere”; “Chiediamo a Signorini come sono andate le cose”. Chissà se il giornalista re del gossip sa se il Csm ha mai aperto un’inchiesta sul magistrato fedifrago, esercitando quell’azione penale che dovrebbe essere il pane della magistratura, oppure se ora sta insabbiando un’indagine conclusa con un patteggiamento o in altro modo che avrebbe dovuto portare alla rimozione dall’incarico, peraltro importante, rivestito dal magistrato.

Csm: Legnini, nessuna indagine su componente Consiglio. (Agenzia Italia – AGI) “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Cosi” il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, in una lettera inviata oggi a tutti i consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura, fornisce chiarimenti in merito alla vicenda, riportata da alcuni organi di stampa, che riguarderebbe un componente del Consiglio.  “Gentili consiglieri – scrive Legnini – a seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa oggi e nei giorni scorsi che ha destato in noi apprensione. Secondo ipotesi formulate da alcuni quotidiani e da talune testate giornalistiche in rete, penderebbero un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio Superiore; tali procedimenti asseritamente discenderebbero da una sua denuncia concernente l’impiego abusivo di un telefono cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi. Secondo quanto riportato sui siti e sui quotidiani, tale denuncia avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di responsabilità” per simulazione di reato. All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli aggiunge quindi che “alla luce di tali rilievi, non può” nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche, le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti basati su elementi privi di conferma in atti giudiziari”. Legnini, infine, auspica il “mantenimento di un clima sereno e proficuo in vista dell'impegnativo lavoro” delle prossime settimane.

Un sms agita il Csm, Legnini smonta il caso. Cimini conferma: «Storia vera». L’ex cronista giudiziario del “Mattino” a Milano: “il vicepresidente smentisce l’indagine sul consigliere? Ma la finta denuncia di furto del cellulare c’è stata, i pm hanno paura di indagare così in alto”. A proposito….ma la Legge non è uguale per tutti ?, scrive il 29 giugno 2016 Giovanni M. Jacobazzi su "Il Dubbio". Frank Cimini è uno dei cronisti che nel giornalismo italiano degli ultimi quarant’anni hanno fatto la storia della “giudiziaria”. Ex ferroviere, poi praticante al Manifesto, è stato per oltre un quarto di secolo l’inviato del Mattino al Palazzo di Giustizia di Milano. Ha vissuto gli anni ruggenti di “Tangentopoli”, gli anni del trionfo delle manette e della rivoluzione togata. In pensione dalla fine del 2013, cura un seguitissimo blog, Giustiziami.it, pieno di retroscena su quanto accade nelle austere stanze del Tribunale milanese. La testata rende bene l’essenza del Cimini pensiero, maturato dopo aver vissuto per decenni a contatto con i magistrati: “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato”. È stato lui lo scorso fine settimana a scatenare il panico nella magistratura italiana con un articolo dal titolo eloquente: “Storia di corna, membro del Csm simula furto dell’iPhone”. In questi giorni Cimini è a Ginostra. Lo raggiungiamo telefonicamente per un’intervista dopo che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha inviato a tutti i membri dell’organo di autogoverno una nota che smentisce le rivelazioni di Giustiziami.it: “A seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, Vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa”, si legge nella comunicazione di Legnini. Il quale ricorda come, secondo “alcuni quotidiani” e “talune testate giornalistiche in rete”, penderebbero “un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio superiore“. Procedimenti che “discenderebbero da una sua denuncia” sull’“impiego abusivo di un cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi”. Si tratterebbe di un messaggio WhatsApp inviato per errore alla moglie del consigliere del Csm ed evidentissimamente destinato a un’altra donna, che avrebbe spinto il membro del Consiglio a denunciare l’uso abusivo del telefonino, rimasto in realtà sempre in suo possesso. Legnini scrive ai consiglieri che “non risulta pendente alcun procedimento”.

Cimini, hai visto che caos hai scatenato? Il tuo pezzo ripreso anche da Dagospia è stato tra i più letti del weekend. Ma la storia è vera?

«Confermo pienamente il fatto storico. Un magistrato membro del Csm, con il cellulare di servizio, ha scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie. Per tentare di placare la furia della moglie tradita si è inventato la storia che gli era stato rubato il telefonino. E, nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava pure una denuncia affermando di aver subito un furto. Gli accertamenti svolti, però, hanno appurato che il cellulare era sempre rimasto nella disponibilità del consigliere togato e mai oggetto di un furto».

Quando sarebbe avvenuto l’episodio?

«Alcuni mesi fa. È coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non piccolo di persone».

Che provvedimenti hanno preso i colleghi dell’incauto consigliere?

«Questo non so dirlo. Non so quali siano le decisioni della Procura di Roma. Ma dubito seriamente che possano e vogliano procedere contro di lui».

E perché?

«Le carriere dei magistrati dipendono totalmente dal Csm. Il consigliere in questione è un potentissimo presidente di Commissione. Mi spieghi quale pm ha il coraggio di indagarlo a costo di vedere la sua carriera stroncata per sempre».

Legnini scrive che “non risulta pendente alcun procedimento penale”.

«Appunto, non risulta “pendente”. La smentita si limita a escludere attuali procedimenti penali. Non dice se il fatto è successo o meno. Se è stato archiviato oppure se è stato già definito».

Legnini ricorda anche che questa vicenda ha suscitato “apprensione” e “disagio” in tutto il Csm.

«Sarò prevenuto, ma questo Csm fu quello che, al culmine dello scontro che andava avanti da mesi fra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, annunciò il procedimento disciplinare solo quattro giorni dopo il comunicato con cui l’allora procuratore disse che di lì a poco sarebbe andato in pensione. I magistrati la devono smettere con la favola dell’indipendenza e dell’autonomia. E basta anche con questa farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale».

Su una cosa si può convenire, Cimini: se fosse stato un politico a mandare messaggi all’amante col telefonino di servizio e poi a simularne il furto, sarebbe stato crocifisso a testa in giù.

«Sì, sarebbe stato colpito e affondato a colpi di legalità».

IL PM, LE CORNA E IL FINTO FURTO. STORIA DEL GRANDE INTRIGO CHE SCUOTE IL CSM. Di Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016. Il Grande Intrigo del Csm. Come in un giallo di Raymond Chandler, si mescolano il presunto colpevole, il corpo del reato, l’amante e il poliziotto, in un’ondata di sospetti, pettegolezzi e veleni che infestano i corridoi di Palazzo dei Marescialli. Nelle mailing list dei magistrati non si parla d’altro (“chiediamo a Signorini come sono andate le cose”, suggerisce qualcuno), i giornalisti si consultano tra loro, nessuno sa come uscirne, siamo tutti in fibrillazione, dateci il fedifrago, qui e ora. Tuttavia la trama piccante di amori penalmente rilevanti s’infrange contro lo scoglio abruzzese, lui, Giovanni Legnini. Dopo giorni di tam tam ambiguo, di detti e non detti, di nomi sussurrati e frasi mozzate, il vicepresidente del Csm spedisce una lettera ai consiglieri. “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”, chiarisce la nota. Quali sarebbero codesti fatti? Lo scorso 24 giugno Frank Cimini, storico cronista giudiziario, innesca la miccia con un post sul sito Giustiziami.it: “Storia di corna, membro del Csm simula furto iPhone”. Il racconto ha dell’incredibile: un consigliere togato avrebbe indirizzato un messaggio via WhatsApp, “dal contenuto inequivocabile”, all’amante. La moglie non la prende bene, anzi s’infuria, pretende spiegazioni e il magistrato replica che l’apparecchio gli sarebbe stato rubato. Per dare consistenza all’autodifesa sporge denuncia sostenendo che il telefono, per giunta intestato al Csm, gli sarebbe stato sottratto da un ladro. La polizia avvia le indagini e scopre che, colpo di scena, lo smartphone è sempre rimasto nelle disponibilità del consigliere. Preso atto del furto immaginario, i funzionari sono costretti a presentare un esposto alla procura di Roma per simulazione di reato con il risultato che, racconta Cimini, lo stesso si ritroverebbe sotto una duplice inchiesta, penale e disciplinare. Il racconto supera la più fervida fantasia. Dagospia lo rilancia, e la storia di corna, vere o presunte, infiamma le linee telefoniche di cronisti e magistrati. Tra togati e laici non si chiacchiera d’altro, il weekend precede la settimana “bianca” in cui i consiglieri non si riuniscono. E’ tutto un vortice di telefonate, il nome che circola è sempre lo stesso, ma nessuno capisce che cosa ci sia di vero e d’inventato, eppure qualcosa c’è. Il Tempo pubblica un pezzo garbato, senza far nomi; il Giornale non è da meno, e per l’occasione rispolvera il nom de plume Diana Alfieri, già “autrice” della patacca del caso Boffo. Il 28 giugno Legnini spedisce la nota chiarificatrice: “All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento a carico di componenti del Consiglio”, inoltre “alla luce di tali rilievi non può nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti privi di conferma in atti giudiziari”.

Dura quattro giorni l’attesa per una presa di posizione ufficiale, in quel lasso di tempo l’ombra del fedifrago si allunga minacciosa su ciascun componente maschio del Csm. “Per fortuna Legnini ha smentito – commenta il consigliere Pierantonio Zanettin al Foglio – Io sono fuori con la famiglia, mi chiamano decine di suoi colleghi ma io non so nulla di questa storia. Si figuri quanta voglia ho di disquisire di corna altrui”. Ma le corna in questa storia tengono banco. E’ possibile che la trama boccaccesca sia stata inventata di sana pianta? Cimini non ha la reputazione del pataccaro, la sua è la carriera di un uomo di trincea, per venticinque anni al Mattino, inviato al Palazzo di giustizia di Milano; nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolano dietro Antonio di Pietro, è tra i pochi a tenersi fuori dal coro. “La notizia – dichiara Cimini al Foglio – proviene da ambienti giudiziari, non è una patacca e si regge a dispetto della smentita burocratica di Legnini. La nota riferisce che non è pendente alcun procedimento, al tempo presente. La vicenda risale ad alcuni mesi fa, nulla esclude che il togato sia stato iscritto e poi archiviato, o che sia tuttora indagato riservatamente o che possa esserlo in futuro”. M’è dolce naufragar nell’incertezza. “Quella nota è un modo per tamponare e prendere tempo – prosegue Cimini – Che il magistrato abbia mandato per errore alla moglie il messaggio indirizzato all’amica del cuore è un fatto storicamente accaduto. La moglie ha deciso tuttavia di restare al suo fianco”. Il rapporto di coppia è faccenda privata, il punto è se un togato del Csm abbia simulato un furto. “I contorni della vicenda giudiziaria si chiariranno solo tra qualche tempo. Il fatto che la smentita giunga al termine di quattro giorni in cui i magistrati d’Italia hanno sproloquiato di corna e telefoni rubati la dice lunga”. Il vicepresidente Legnini è maestro di prudenza, difficilmente si sarebbe esposto senza un’accurata valutazione dei rischi. “Se tra qualche mese venisse fuori che il tal magistrato era effettivamente sotto indagine, basterebbe spiegare che all’epoca della smentita l’indagine era secretata”, chiosa Cimini. Intanto i pettegolezzi si rincorrono, il nome che circola è sempre lo stesso ma nessun giornale lo riporta. Le notizie sono centellinate perché a bruciarsi le fonti s’impiega un attimo. Ieri la Stampa riporta la smentita del numero due del Csm condita, per la prima volta, dal nome che tutti sanno ma nessuno pronuncia. L’Innominabile si chiama Lucio Aschettino, è lui il protagonista, suo malgrado, del Grande Intrigo. E’ lui a sperimentare sulla propria pelle i guasti di un processo mediatico. Su Facebook, della serie “colleghi serpenti”, il giudice Clementina Forleo traccia l’identikit: “La commissione che presiede è quella che decide gli incarichi direttivi”, la quinta. Nelle mailing list togate c’è chi lo difende (“Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista – termine improprio – e si dà origine alla notizia”) e c’è pure chi lo attacca (“Getta discredito su tutto il consiglio”, “è fonte d’imbarazzo per l’intera magistratura”). Aschettino non è un quisque de populo. Già presidente della Sezione penale del Tribunale di Nola, presiede la quinta commissione del Csm, quella che presenta relazioni e proposte per il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi. Non c’è nomina che non passi da lui. Dopo una carriera di provincia alle prese con la criminalità mafiosa e in perenne sottorganico, Aschettino viene eletto al Csm, due anni or sono, insieme al compagno di corrente Piergiorgio Morosini, entrambi in quota Md, confluiti in Area (il cartello elettorale nato dalla fusione con il Movimento per la giustizia). Lo spiffero di un suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni foschi desta non pochi malumori tra gli avversari interni. Non manca chi solleva una questione di opportunità: può un alto magistrato, con un ruolo di responsabilità e prestigio, restare saldamente dov’è? Chi sa far di conto evidenzia che, se Aschettino si dimettesse, subentrerebbe al suo posto Francesco D’Alessandro, Unicost, presidente di sezione della Corte d’appello di Catania, che alle ultime elezioni del Csm raccolse 454 suffragi (contro i 467 di Nicola Clivio, Area, ultimo degli eletti). D’Alessandro, già presidente della sezione catanese dell’Anm, rappresenta la fazione interna di Unicost che osteggia il gruppo dirigente nazionale. Per questo il suo arrivo a Roma non sarebbe gradito all’area che fa riferimento al consigliere togato Luca Palamara. Inoltre, la fuoriuscita di Aschettino – ragione per cui qualche suo avversario interno potrebbe aver amplificato la portata del piccolo giallo – muterebbe gli equilibri interni alla componente togata del Csm dove attualmente la sinistra giudiziaria detiene la maggioranza. In seguito a un suo eventuale passo indietro i membri di Area passerebbero dagli attuali sette a sei e quelli di Unicost da cinque a sei, siglando un sostanziale pareggio tra le correnti. Com’è noto, i rapporti di forza contano. Che le nomine seguano una meccanica spartitoria e non un principio meritocratico è un fatto assodato. Al di là dei buoni propositi, il nuovo testo unico sulla dirigenza non ha neutralizzato il potere correntizio. La riprova si è avuta attorno alla nomina del procuratore capo di Milano: dopo essersi sapientemente astenuta in occasione della votazione in quinta commissione lo scorso 14 aprile, Unicost è divenuta l’ago della bilancia e in plenum ha votato per Greco soltanto dopo aver ottenuto la nomina di un proprio capocorrente, Giuseppe Amato, al vertice della procura di Bologna. Scambio di toghe e favori, di ciò sembra consapevole pure il numero uno dell’Anm, Piercamillo Davigo, che recentemente ha definito “prassi orribile” quella delle “nomine a pacchetto: uno a me, uno a te, uno a lui”. La questione della spartizione correntizia emerge periodicamente, ogni volta che qualcuno rilascia dichiarazioni choc (vedi Raffaele Cantone) o scoppia il caso eclatante (nel 2012 l’allora consigliere del Csm Francesco Vigorito, Md, rese pubblica, per errore, una email indirizzata ai colleghi in cui lamentava “qualche pressione interna” che li aveva indotti a convergere sulla “giovane candidata napoletana di Area” ai danni del candidato concorrente). Adesso il “caso Aschettino” precipita su piazza dell’Indipendenza. Il magistrato, con una nota interna, ieri ha dichiarato: “non sono stato mai indagato né archiviato, dalla Autorità giudiziaria competente, per simulazione di reato o per ogni altra ipotesi delittuosa o contravvenzionale che anche la più fervida delle fantasie possa immaginare. Rilevo invece, che su di un mio esposto riguardante un accesso abusivo al mio cellulare, mirante a tutelare la funzione che svolgo, si è innestato un totale rovesciamento della realtà con l’effetto di rappresentarmi come l’accusato di un grave reato”. La storia andrà avanti. Per Legnini è l’ennesima matassa da sbrogliare. Per i cittadini, patacca o non patacca che sia, è l’ennesima riprova che qualcosa, nel sistema di autogoverno della magistratura, forse non va. Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016.

E poi ancora. Magistrati: papponi ed evasori?

“Un’alcova nei pressi di Piazza Mazzini a Lecce mascherata per un Bed end Breakfast e trasformata in una casa per appuntamenti. Uno scandalo a luci rosse travolge una coppia di insospettabili professionisti leccesi: lui, Giuseppe Caracciolo, 59 anni, magistrato originario di Lecce e in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione Civile; la compagna, una poliziotta in pensione, in servizio per anni fuori dal Salento”. Così riporta il sito de “Il Corriere Salentino” dell’1 luglio 2016. Unico giornale ad aver avuto il coraggio di dare il nome del magistrato. I colleghi pavidi se fosse stato un povero cristo l’avrebbero messo immediatamente alla gogna.

«Bed & breakfast» di un magistrato trasformato in casa d’appuntamento. Il titolare dell’immobile sapeva e pubblicizzava l’abitazione anche come «casa vacanze» dopo le segnalazioni dei vicini è scattata la trappola dei poliziotti che si sono finti clienti, scrive Antonio Della Rocca l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato ordinario di origini leccesi, ma in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione, e la sua compagna sono indagati dalla Procura della Repubblica di Lecce per favoreggiamento della prostituzione. L’uomo, secondo gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo salentino, coordinati dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco, avrebbe affittato un’abitazione di sua proprietà situata nella zona di piazza Mazzini, nel pieno centro di Lecce, a giovani donne rumene che lì si prostituivano. Lo stesso proprietario avrebbe preteso un canone di locazione ben superiore a quello di mercato, del quale richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilascio di alcuna ricevuta e senza inoltrare le comunicazioni previste all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle scorse ore i poliziotti della Squadra mobile hanno eseguito il sequestro preventivo dell’abitazione, come disposto dal gip Vincenzo Brancato, su richiesta del pm Vallefuoco. Nel corso degli ultimi mesi erano pervenute alla Squadra mobile numerose segnalazioni riguardanti il presunto esercizio della prostituzione all’interno di uno stabile del centro cittadino pubblicizzato su numerosi siti internet come casa vacanze. Gli autori delle denunce lamentavano un continuo viavai di persone di sesso maschile che, a tutte le ore del giorno, dopo avere sostato dinanzi all’immobile e avere fatto alcune telefonate, vi entravano per uscirne dopo poche decine di minuti. La polizia, durante una serie di appostamenti, ha appurato la veridicità delle segnalazioni, rilevando un continuo avvicendarsi di visitatori. Due di questi, bloccati in tempi diversi e sentiti per sommarie informazioni, hanno detto di avere ottenuto una prestazione sessuale a pagamento da una ragazza contattata dopo averne visto la foto e rilevato il numero di telefono sul sito internet «bakekaincontri». Fingendosi clienti, i poliziotti sono riusciti ad entrare nell’appartamento situato al primo piano dell’edificio, dove hanno trovato una ragazza che indossava solo reggiseno e tanga, la quale li ha invitati a seguirla all’interno, dove gli agenti si sono qualificati come ufficiali di polizia giudiziaria. Nell’appartamento sono state identificate tre giovani di nazionalità rumena, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. Quest’ultimo ha riferito di avere contattato la donna attraverso lo stesso sito internet indicato dai clienti sentiti in precedenza. L’appartamento era composto, oltre che da una zona soggiorno, da due camere all’interno delle quali sono stati rinvenuti numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. L’appartamento era, peraltro, collegato attraverso una porta interna all’abitazione del proprietario indagato. Secondo quanto riferito dalle ragazze straniere, il proprietario e la compagna erano soliti accedere liberamente nell’alloggio confinante nel quale veniva esercitata la prostituzione, per raggiungere la terrazza comune dove stendevano i panni. All’interno di una stanza adibita a lavanderia, anche questa comune ai due appartamenti, era presente la collaboratrice domestica del proprietario e della sua convivente. Ciò, secondo la polizia, fa presumere che i due non potessero non essere informati dell’attività di prostituzione. Tale convincimento degli inquirenti sarebbe peraltro corroborato dalle dichiarazioni rese a verbale dalle ragazze ascoltate. Queste ultime, nonostante avessero pagato l’affitto nelle mani del proprietario, non possedevano alcuna ricevuta. L’unico documento in loro possesso era una piantina della città di Lecce che riportava la zona nella quale si trova l’immobile, con l’annotazione a penna dei numeri telefonici del proprietario, della sua convivente e della collaboratrice domestica. Non solo. Sempre secondo gli investigatori, anche il prezzo pagato da ciascuna delle ragazze sarebbe sintomatico della consapevolezza da parte del proprietario dell’attività di prostituzione che veniva svolta. Per una sola stanza, ciascuna di esse pagava dai 300 ai 350 euro. Inoltre, la stanza spesso veniva contemporaneamente affittata a più persone che non si conoscevano e che dormivano nello stesso letto. Grazie alle dichiarazioni rese dalle ragazze straniere, la polizia, ha anche appreso che il proprietario, il giorno precedente a quello della perquisizione, si era recato nell’appartamento per consegnare loro i prodotti per le pulizie, annunciando, nella stessa occasione, che nei giorni successivi avrebbero dovuto condividere la stanza con altre ragazze appena giunte. Una delle ragazze ha riferito ancora che, contattato il proprietario dopo avere trovato su internet il suo numero di telefono quale titolare di un bed and breakfast, e lamentatasi per il prezzo di affitto elevato, l’interlocutore avrebbe risposto alla giovane che «non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra». L’indagato, dopo avere diviso in due l’appartamento di sua proprietà, ricavandone quello poi concesso in locazione, aveva piazzato solo all’esterno di questo, e senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera che ne vigilava l’ingresso. Gli inquilini dell’immobile hanno riferito di avere più volte notato l’indagato accompagnare ragazze in ascensore all’appartamento, portando loro le valigie. Infine, nonostante l’appartamento fosse pubblicizzato sul web come casa vacanze o bed and breakfast, nessuna insegna era stata posta all’esterno dello stabile.

Pagano le intercettazioni coi soldi dei detenuti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Venne stabilito un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione inumane, ma dei 20 milioni stanziati solo 500mila sono stati utilizzati. Sono passati oltre tre anni da quando, nel 2013, l’Italia venne condannata dalla CEDU con l’ormai storica sentenza “Torreggiani” per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, cioè il divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti. La condanna, come si ricorderà, nasceva dal ricorso di alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere stati costretti a vivere in meno di tre metri quadrati a testa, di non aver potuto regolarmente usufruire delle docce e di non aver avuto sufficiente illuminazione nella cella. I giudici di Strasburgo, con quella sentenza, aprirono di fatto una nuova emergenza carceri nel Paese, affermando che il sovraffollamento carcerario rappresentava ormai un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano”. Il governo italiano, costretto a misure d’emergenza per evitare ulteriori conseguenze a livello europeo e, soprattutto, altre condanne, varò una seria di provvedimenti legislativi. Il più celebre fu senza dubbio il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 che, recependo le prescrizioni della Corte di Strasburgo, stabiliva un “risarcimento” per i detenuti reclusi in condizione di sovraffollamento. Tale risarcimento, su domanda dell’interessato, sarebbe consistito in uno sconto di pena di un giorno ogni 10 giorni di carcerazione subita in condizione inumane. I magistrati di sorveglianza vennero incaricati di provvedere al riguardo, valutando le istanze presentate dai detenuti. Per i detenuti già scarcerati, invece, venne stabilito un risarcimento pari ad 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione di sovraffollamento. Sempre a domanda dell’interessato da presentarsi, questa volta, al tribunale civile che avrebbe deciso in composizione collegiale. La norma prevedeva, infine, che questi rimedi risarcitori fossero soggetti a decadenza se non richiesti entro sei mesi dalla data della scarcerazione. Leggendo i dati sui risarcimenti erogati, aggiornati al primo semestre del 2016, sembra che in Italia non ci sia però mai stata alcuna “emergenza carceri”, e che tutto sia stato il frutto di una strumentalizzazione mediatica orchestrata dai radicali, da sempre particolarmente sensibili su questo tema, o dalle associazioni che si occupano dei problemi dei detenuti. In questi anni, degli oltre 20 milioni di euro che il governo aveva stanziato nel 2014 temendo una valanga di ricorsi, ne sono stati erogati per i risarcimenti appena 500 mila. I motivi? Molteplici. In primo luogo le varie sentenze della Cassazione che si sono succedute nel tempo e che hanno ingenerato confusione sul concetto di “attualità” del trattamento inumano e degradante. Nel senso che se al momento della presentazione del ricorso il detenuto non era più ristretto in un loculo, essendo venuta meno l’attualità della domanda, questo veniva dichiarato inammissibile. Poi la difficoltà intrinseca nel ricostruire la “storia” carceraria del detenuto. Nei casi di lunghe carcerazioni, ad esempio, con frequenti spostamenti di cella o, addirittura, di carcere, non è affatto facile risalire al momento preciso della condizione di recluso in un contesto sovraffollato. Ma, ed è questo l’aspetto principale su cui bisogna soffermarsi, e che i più maliziosi dicono sia stato fatto apposta per scoraggiare la presentazione dei ricorsi, la procedura prevista dalla legge per l’ottenere il risarcimento. Cioè la causa civile da predisporre davanti al giudice. Causa che di per se comporta un costo per il detenuto fra contributo unificato da versare direttamente ed onorario dell’avvocato che deve curare il procedimento davanti al tribunale. Il detenuto, infatti, oltre al normale avvocato penalista, in molti casi deve affiancarlo anche da un civilista per la trattazione di questo genere di ricorso. Senza considerare, poi, che molti di questi sono detenuti sono soggetti estremamente fragili. Con problemi di tossicodipendenza o di clandestinità. E quindi portati a rinunciare ad affrontare un nuovo contenzioso. Per far fronte alla complessità della procedura risarcitoria, in questo periodo, si è sopperito con l’aiuto di associazioni di volontariato o con la meritoria attività di avvocati che, senza compenso alcuno, hanno seguito il procedimento civile. Al danno per i mancati risarcimenti, però, a breve potrebbe aggiungersi la beffa. Come ventilato da molti, il governo sarebbe intenzionato a “stornare” dal capitolo di bilancio questi milioni di euro che non sono stati spesi. Soldi che, pare, dovrebbero essere destinati per i pagamenti delle attività di intercettazione telefonica. Da sempre un pozzo senza fondo per il bilancio del ministero della Giustizia. Ci auguriamo di essere smentiti.

Caso Cucchi, un'insostenibile mancanza di giustizia, scrive Giuseppe Anzani il 20 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare «tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente», il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché «caduto dalle scale» piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?

Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. ​Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps. Gli accertamenti riguardano anche la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, con sede in Campania, e le idoneità fisiche ottenute dai candidati, scrive Damiano Aliprandi il 22 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. “Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Allo stesso tempo – continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità”. Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione “Militari in congedo”. In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta – la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari – che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva.

Partigiano trucidò 54 innocenti e il governo gli dà una medaglia. La Difesa ha decretato "eroe" della Resistenza Valentino Bortoloso, che partecipò all'eccidio partigiano di Schio, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 17/06/2016, su "Il Giornale". Se da partigiano hai ucciso 54 persone, se sei entrato nelle carceri e hai scaricato l'intero caricatore di mitra su quelle persone inermi, lo Stato italiano ti premia. Ti dà una medaglia. Ti inserisce nel novero degli eroi. Anche se alle spalle hai una condanna a morte a certificare che quella azione "eroica" fu in realtà un eccidio. Non è uno scherzo. Uno dei protagonisti dell'eccidio di Schio del 6-7 luglio del 1945 (la guerra era già finita) è stato insignito della lodevole "medaglia della Liberazione". Il ministero della Difesa, infatti, in onore dei 70 anni della Repubblica italiana ha pensato fosse necessario istituire una nuova onorificenza per chi prese parte alla Resistenza partigiana. E così nel vicentino, il prefetto Eugenio Soldà non ha potuto che eseguire gli ordini ricevuti dal ministro Pinotti e consegnare la medaglia a 84 partigiani vicentini. Peccato che, non si sa se per errore oppure per dolo, tra i premiati ci sia finito anche Valentino Bortoloso. Teppa, questo il suo nome di battaglia, nel curriculum vanta la partecipazione all'eccidio di Schio. Era uno dei componenti del commando della brigata garibaldina "Martiri Valleogra" che penetrò nelle carceri della guerra civile e colpì a suon di mitra 54 persone. Delle quali, ricorda il Gazzettino, 15 erano donne e 7 dei bambini. Bortoloso venne riconosciuto responsabile e condannato a morte dagli alleati. Anche se poi la pena decadde successivamente in altri processi. La consegna della medaglia ha scatenato una nuvola di proteste a Schio, e anche il sindaco della città ha cercato di prendere le distanze da quanto deciso dalla Difesa. "Se l'ex partigiano fosse realmente pentito per quanto fatto nel luglio del '45, avrebbe dovuto, quanto meno, rifiutare il riconoscimento come vero e concreto gesto di riappacificazione - dice Alex Cioni, responsabile del comitato Prima Noi - Invece, accogliendo questa onorificenza, il partigiano Teppa ha premuto nuovamente il grilletto scaricando idealmente una nuova mitragliata di pallottole su uomini e donne inermi".

Fu condannato a morte per l’Eccidio, ora premiato il partigiano Teppa, scrive Venerdì 17 Giugno 2016 Vittorino Bernardi su “Il Gazzettino”. Un protagonista dell’Eccidio di Schio del 6-7 luglio 1945 ha ricevuto dallo Stato l’onorificenza “Medaglia della Liberazione”. Per il 70° della fine della seconda guerra mondiale il ministero della Difesa ha istituito una nuova onorificenza dedicata agli eroi della Resistenza: la “Medaglia della Liberazione”. A palazzo Leoni Montanari il prefetto Eugenio Soldà ha convocato per premiarli 84 vicentini. Tra loro a spiccare è stato Valentino Bortoloso, legato a uno dei fatti più drammatici della storia di Schio: l’eccidio partigiano della notte tra il 6 e 7 luglio 1945 (a guerra finita) nelle allora carceri mandamentali e ora biblioteca civica Renato Bortoli. Quella notte un commando partigiano penetrò arbitrariamente nelle carceri ammazzando con sventagliate di mitra 54 persone (14 donne e 7 minorenni) ree di essere fasciste o collegare al regime. Uno dei protagonisti del commando partigiano, ora unico vivente, è stato Valentino Bortoloso, 93 anni: Teppa il suo nome da partigiano, componente della brigata garibaldina “Martiri Valleogra”. È stata una figura discussa Valentino Bortoloso, condannato a morte dagli alleati per la partecipazione all’Eccidio, pena successivamente decaduta in successivi processi. Valentino Bortoloso ha ricevuto l’onorificenza dalle mani del prefetto Eugenio Soldà e di Anna Donà, assessore allo sviluppo del Comune di Schio in rappresentanza del sindaco Valter Orsi.

2 giugno 1946: monarchia o repubblica? Nord e Sud sempre divisi su tutto. Gli italiani al voto, scrive Giancarlo Restelli. Per decidere se l’Italia sarebbe stata una repubblica o ancora una monarchia gli italiani andarono alle urne il 2 giugno del ’46 con un referendum. Il risultato fu la vittoria della repubblica ma con uno scarto poco ampio di voti: 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia a cui dobbiamo aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. La repubblica ottiene quindi poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi nel referendum è un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Il Nord vota a maggioranza repubblicana mentre il Sud è compattamente monarchico. Vediamo qualche percentuale. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottiene il 57 per cento, in Lombardia il 64 per cento, in Toscana il 71; percentuali simili l’Umbria e le Marche. La regione dove il consenso alla repubblica è più alto è il Trentino con l’85 per cento. Per la monarchia la percentuale più elevata è nella circoscrizione Napoli-Caserta con il 79.9 per cento. I partiti di sinistra (Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione) si espressero decisamente per la repubblica mentre la Dc non diede indicazioni di voto perché nel partito c’era una forte spaccatura sulla questione istituzionale. La chiesa dà indicazioni di voto a favore della monarchia. Gli americani cautamente si esprimono per la repubblica. Churchill per la monarchia, ma Churchill non è più al potere in Gran Bretagna. Perché questa spaccatura tra Nord e Sud? A parte le storiche differenze tra le due parti d’Italia contarono molto le diverse esperienze delle due aree durante la guerra: il Nord conobbe la Resistenza (il “vento del Nord”) e una presa di coscienza politica che invece il Sud non ebbe perché l’avanzata anglo-americana fu relativamente rapida almeno fino a Montecassino e quindi non ebbe tempo di formarsi la resistenza ai nazifascisti. Ma dietro il voto monarchico si celava il timore che le forze di sinistra mutassero l’Italia sulla base dei propri obiettivi. Spaventava molto il legame fortissimo tra il Pci e l’Unione Sovietica e nello stesso tempo il forte radicamento del partito di Togliatti tra gli operai del Nord e i contadini del Centro-Sud. La monarchia era vista quindi come baluardo conservatore di fronte alle incognite del dopoguerra. Dopo aver appoggiato il fascismo per i propri interessi, ora masse di borghesia piccola e media votavano a favore della conservazione politica identificandosi con i Savoia. Vittorio Emanuele III tentò un colpo a sorpresa per “lavare” l’immagine fosca della monarchia in Italia: abdicò a favore del figlio Umberto (molto meno compromesso con il fascismo rispetto al padre), che così divenne Umberto II. Il passaggio di potere avvenne alla vigilia del referendum nel maggio ’46, così Umberto II divenne il “re di maggio”. Nonostante l’estremo e tardivo tentativo di salvare il trono, la monarchia è sconfitta perché ha dato il potere al fascismo al tempo della Marcia su Roma, non ha agito contro Mussolini quando Matteotti fu assassinato, ha accolto con soddisfazione la nascita dell’“Impero”, ha firmato senza battere ciglio le Leggi Razziali, ha voluto la guerra al pari di Mussolini e si è dissociata da Mussolini e dal fascismo solo quando la guerra era compromessa (25 luglio ’43) per conservare il trono. Con l’8 settembre del ‘43 il re, fuggendo vergognosamente da Roma, condannava il Paese al caos dell’armistizio. È una delle tante leggende che continuano a circolare nel nostro Paese: la presenza di brogli che avrebbero favorito la vittoria della repubblica. Oggi non c’è storico serio che dia credito a questa tesi. Furono i monarchici a sostenere l’idea di una vittoria ottenuta manipolando i voti perché in quei giorni ci fu, dopo il voto, una imbarazzante confusione agli alti livelli dello Stato. Basta pensare che i risultati definitivi furono proclamati dalla Cassazione solo il 18 giugno (!), sedici giorni dopo il voto. Altro fatto sconcertante, dopo la conta le schede furono subito bruciate in tutta Italia, quindi fu impossibile il riconteggio. Mentre la Cassazione tardava a fornire i risultati definitivi corsero voci di golpe da parte delle forze monarchiche che cercarono di coinvolgere Umberto II nel rovesciamento del governo retto in quel momento da De Gasperi. Non ci fu nessun tentativo significativo di colpo di Stato probabilmente perché Umberto II si rese conto che l’eventuale azione militare non avrebbe riscosso molto successo nell’esercito e nel mondo economico; anche gli americani non volevano che l’Italia precipitasse di nuovo nella guerra civile. Fu così che il “re di maggio” lasciò l’Italia il 13 giugno per il Portogallo non attendendo neppure il risultato definitivo del referendum. L’entusiamo per la nascita della Repubblica durò pochi giorni perché sempre nel giugno ’46 Togliatti (leader e figura storica del Pci), in quel momento ministro di Grazia e Giustizia, emanò la famosa amnistia grazie alla quale migliaia di fascisti furono scarcerati e tornarono a occupare posti di potere. La reazione di molti partigiani fu prima di incredulità e poi di aperta protesta ma le cose non cambiarono. Fu così che Togliatti diventò “ministro della Grazia ma non della Giustizia”. Altra delusione di quei giorni fu l’elezione a Capo provvisorio dello Stato dell’avvocato Enrico De Nicola, notorio monarchico così come per la monarchia si era espresso il suo partito, il Partito liberale italiano. De Nicola, esponente di quella classe dirigente liberale che con troppa facilità aveva ceduto al fascismo al tempo della Marcia su Roma, è colui che aveva spedito a Benito Mussolini un telegramma di auguri per il Congresso di Napoli dei Fasci che preparò gli avvenimenti del 28 ottobre 1922. Ma De Nicola fu anche colui che elogiò il re Vittorio Emanuele III quando conferì a Mussolini l’incarico di formare il primo governo di fascisti e liberali nei giorni convulsi della Marcia. Insomma un monarchico a capo della repubblica! Contemporaneamente il 2 giugno del ’46 si votò a favore della Costituente, ossia di quella assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta costituzionale (1 gennaio ’48). I risultati sono a favore della Dc che ottiene il 35 per cento mentre il Pci è fermo al 19 e il Psi al 20. Scompare il Pd’A di Parri, Valiani, Bauer, Calamandrei, ossia un partito che nella Resistenza espresse quadri politici e militari di notevole livello e fu a capo di numerose organizzazioni partigiane. Ormai il sistema politico ruota attorno ai tre partiti di massa mentre monarchici, repubblicani, liberali sono ridotti a percentuali irrisorie. L’anno dopo, il 1947, le sinistre sarebbero state escluse dal governo (maggio ’47, quarto governo De Gasperi) e la prima repubblica italiana si preparava a una lunga egemonia democristiana.

“La costituzione più brutta del mondo” di Federico Cartelli. Libro pubblicato nella collana “Fuori dal Coro" de “Il Giornale” il 19 maggio 2016. La Costituzione «nata dalla Resistenza», concepita settant’anni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire qualcosa di sacro e intoccabile. Mettere in discussione la più bella del mondo è un’eresia. Ma una Costituzione non dev’essere bella: dev’essere efficiente. La nostra invece è la radice di ogni male italiano, dal debito pubblico al fisco, dai giochi di palazzo agli eccessi sindacali. La Carta è la pietra angolare del conservatorismo che protegge quello status quo politico ed economico che tutti, a parole, vorrebbero cambiare. 

“Costituzione, Stato e crisi”, intervista a Federico Cartelli di Riccardo Ghezzi del 31 agosto 2015 su "Quelsi”. La Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? Non secondo Federico Cartelli, direttore del sito The Fielder, che nel suo libro “Costituzione, Stato e crisi – Eresie di libertà per un paese di sudditi”, disponibile su Amazon, mette sotto processo uno dei miti della nostra società: la Costituzione “nata dalla Resistenza”. Un libro con la prefazione del filosofo liberale Carlo Lottieri. In questa intervista con l’autore ne approfondiamo le tematiche.

Federico, innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro?

«Stavo preparando un articolo sui difetti della nostra Costituzione e stavo ricercando del materiale. Dopo un po’ mi sono accorto che trovare libri o paper critici nei confronti della Carta era pressoché impossibile. Praticamente tutte le fonti che stavo consultando non osavano metterne in dubbio la sacralità, né muovevano dei rilievi su quelle parti che sono palesemente superate dalla Storia. A quel punto, con un po’ di sana incoscienza e senza prendermi troppo sul serio, ho deciso che mi sarei impegnato personalmente per colmare questa lacuna. Avevo sempre pensato di scrivere un libro, e questa è stata l’occasione giusta».

Non ti sembra azzardato che una persona “qualunque” possa scrivere un libro di critica nei confronti di quella che è pur sempre la nostra Costituzione?

«Senz’altro. È molto azzardato. Però credo che in questo libro, più che altro un manifesto, si possano cogliere sia lo spirito polemico delle mie osservazioni, sia l’intenzione di discostarmi da certi modelli populisti in salsa grillina che non sanno andare oltre il pensiero breve. In verità, “Costituzione, Stato e crisi” è proprio un manifesto contro il pensiero breve, più precisamente quel pensiero breve sessantottino e progressista che da decenni blocca l’Italia e le impedisce di diventare un Paese moderno. È un manifesto contro la retorica collettivista, contro il benecomunismo che si respira in ogni articolo della nostra Carta e che ogni giorno ci viene propinato da certi giornali e da certi politici. Bisogna dirlo forte è chiaro: no, non è la Costituzione più bella del mondo. Anzi, è una delle peggio riuscite».

Credi che i lettori abbiano apprezzato questo messaggio?

«Per adesso, direi proprio di sì. Sono rimasto sorpreso dai molti messaggi ricevuti e dalle valutazioni lasciate su Amazon. Alcuni mi hanno scritto in privato per complimentarsi e hanno apprezzato il fatto di poter leggere, finalmente, una critica alla “più bella del mondo”. Posso già ritenermi soddisfatto, e spero che le mie “eresie” si diffondano in più possibile».

Ma secondo te, perché c’è sempre questa ossessiva retorica adulatoria nei confronti della Costituzione?

«Perché la Costituzione è di fatto il lucchetto che mantiene tutto com’è. È la suprema garanzia dello status quo. In nessun altro Paese europeo c’è questa ossessione nei confronti della Costituzione sacra e intoccabile. Perché sì, è vero che è stata cambiata nel corso degli anni: ma non sono mai state toccate né la parte riguardanti i rapporti economici, né i principi fondamentali (che in ogni caso non posso essere soggetti a modifiche). Non è mai stato toccato quel nucleo che rappresenta, di fatto, l’Italia dell’immediato dopoguerra che vedeva nello Stato un padre-padrone. La parte riguardante i rapporti economici è, di fatto, un imbarazzante manifesto socialista. Servirebbe un’assemblea costituente, perché questa Carta è davvero tutta da rifare».

C’è un capitolo del libro al quale sei più legato?

«Il quinto, senza dubbio, “Il lavoro non è un diritto”. Ed è anche il capitolo che più ha suscitato la curiosità nei lettori. Molti, lasciandosi ingannare dal titolo – evidentemente provocatorio – si sono detti: questo è matto, perché mai il lavoro non dovrebbe essere un diritto? In realtà poi, una volta letto il capitolo, si sono ricreduti».

Nel capitolo 8 fai una lunga critica al cosiddetto “federalismo all’italiana”. Ha ancora senso parlare di federalismo in Italia?

«Sì, e aggiungo che in Italia si deve parlare di federalismo. Ma di vero federalismo, non di quel pasticcio compiuto dal centrosinistra nel 2001 e poi degenerato definitivamente con Monti. Il federalismo all’italiana non è vero federalismo, è solo un altro salasso fiscale ai danni dei contribuenti, che si sono visti aumentare le tasse e moltiplicare i centri di spesa, mentre certe regioni e certi comuni in completo dissesto finanziario continuano a battere cassa a Roma. È per questo che ho dedicato un capitolo al federalismo: perché ho voluto mettere un po’ d’ordine e far capire ai lettori che una rivoluzione federalista è l’unica vera possibilità di cambiare il Paese. Credo che anche in futuro tornerò su questo argomento».

Come vedi l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia?

«Faccio parte di quelli che il nostro magnifico presidente del Consiglio definisce “gufi”. Purtroppo sono affetto da una malattia molto grave: il realismo. E non riesco davvero ad emozionarmi per i tweet del nostro Matteo, che pensa di coprire i fallimenti di questo governo con un modus operandi da bulletto di periferia. I numeri dicono il tanto decantato Jobs Act è in realtà un Flop Act, e nonostante tutti i fattori esterni favorevoli – politiche accomodanti dalla Banca Centrale Europea, costo delle materie prime ai minimi storici solo per citarne alcuni – non c’è stata alcuna reale ripresa, ma solo qualche “zero virgola” che in termine concreti non vuol dire nulla. Dall’altra parte, non c’è alcune reale opposizione. Il cosiddetto “centrodestra” è solo un cumulo di macerie, senza alcun piano maggioritario per governare il Paese a lungo termine. Insomma, di questo passo tra qualche anno l’Italia diventerà l’Argentina dell’Europa».

A proposito di Europa, cosa pensi dell’attuale Unione Europea?

«Dieci anni fa, ai tempi dell’università, ero un convinto sostenitore dell’Unione Europea e della moneta unica. Ma davanti ai fatti – sempre a causa di quella malattia, il realismo – mi sono dovuto ricredere. Quest’Unione non funziona più, è una caricatura di se stessa, persa tra vertici infiniti dagli esiti mai chiari, divisa in politica estera, sempre più lontana dai cittadini. Basta vedere come, in questi giorni, viene gestito il problema dell’immigrazione: ognuno per sé, con l’Italia che rischia – come spesso accade – di pagare il prezzo più alto. Poi è inutile piangersi addosso perché aumenta il consenso ai cosiddetti partiti populisti. Per ciò che concerne l’euro, è evidente che sono necessari aggiustamenti, perché le calende greche dell’estate appena conclusa sono destinate a ripetersi».

La Costituzione italiana: la più brutta del mondo, si legge su “Risveglio nazionale” il 09/05/2015. La costituzione che garantisce l’impunità e la protezione all’eletto che tradisce i suoi elettori!… Ovvero: la costituzione più antipopolare, più immorale, più demagogica, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!…La nostra “sacra costituzione” voluta da Rothschild è davvero la più brutta del mondo. Una costituzione a sovranità limitatissima, che il popolo non può cambiare. I nostri “padri costituzionalisti”, seguendo alla lettera le direttive di Rothschild, ci hanno fatto credere di averci dato in eredità qualcosa di sacro, che se viene cambiato ci farà solo del male. Oggi la Costituzione, oltre ai più che ambigui “principi fondamentali”, presuppone un sistema decisionale lento, se non completamente bloccato e un gioco di pesi e contrappesi a tutti i livelli che non dà una chiara definizione di chi debba decidere cosa e praticamente permette tutto ed il contrario di tutto al soggetto socialmente più forte: Rothschild. E’ ora di riflettere, guardarci in faccia e di ammettere una volta per tutte che l’assetto istituzionale italiano, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, comprese quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese, poiché i tempi sono evidentemente cambiati. Infatti, non dobbiamo più leccarci le ferite morali e materiali aperte dai bombardamenti e incancrenite per la fame e la miseria e avvelenate dalla umiliazione della sconfitta e dalla paura di fronte ai vincitori e per la brutale invasione e la feroce occupazione “alleata”, quindi l’assemblearismo estremo non è mai stato e meno che mai è adesso un valore aggiunto. L’Italia non ha affatto bisogno di superpartiti “assopigliatutto”, con annessi supersindacati, supertraditori e superassociazioni varie che intrallazzano in tutti i modi, che sono sempre in disaccordo fra loro per spartirsi qualche osso. Persone docili e ubbidienti col loro signore e padrone Rothschild per fare le “riforme” contro il popolo più povero per fargli buttare sangue a pagare l’usuraio, enorme, crescente ed eterno “debito pubblico”. E’ necessario avere governi che governino realmente a favore del popolo e non per finta, e di un legislatore controllato veramente dal popolo, e che sia costretto dal popolo a fare leggi giuste per il bene del popolo e non per il bene dei “mercati” di Rothschild. Siamo arrivati al punto da capire sulla nostra pelle e di dire, e di urlare, che la “nostra” costituzione non è affatto “nostra” e non è affatto la “costituzione più bella del mondo”, perché non si salva neanche… uno… dei malignamente ambigui e contraddittori articoli fondamentali, e che quella che gli scagnozzi di Rothschild ci hanno appioppato è “la Costituzione più brutta del mondo”.

Questo volere difendere ad ogni costo questa loro demagogica e truffaldina costituzione serve proprio, e solo, alle alte sfere del potere antipopolare per potere preparare un ritorno forzato all’autoritarismo più biecamente capitalista e schiavista assoluto. E’ bene ricordare che la restaurazione “democratica” rothschildiana, seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale, regalò al povero popolo tedesco la corrotta, tirannica, terribile e mostruosa “Repubblica di Weimar” con il popolo minuto che faceva la fame molto, molto, molto peggio che in seguito gli ebrei ad Auschwitz e con gli avidi, viziosi e debosciati capitalistoni ebraici, vassalli al seguito del satanico Rothschild che debordavano a vista d’occhio in tutto e per tutto, dappertutto nella società come porci da ingrasso scatenati e lasciati liberi in un campo di grano!… Voglio solo ricordare: Art. 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tralasciando il “non sense” del primo comma, fondata sul lavoro, che non vuol dire assolutamente nulla, faccio solo notare che nel secondo con la mano destra dà ciò che con la mano sinistra toglie (nello spazio di una virgola). Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi, la religione cattolica può avere teoricamente norme in contrasto con l’ordinamento italiano. Ergo, non tutte le confessioni sono egualmente libere (vedi a questo proposito anche l’art. 7). Ultimamente abbiamo assistito a polemiche sulle croci e sui presepi e ad attacchi contro la religione cattolica e contro la religione islamica, che vengono spesso vilipese volgarmente, oscenamente e pesantemente in pubblico anche dai mass media. Malgrado questo, si vede chiaramente che la magistratura massonica ebraica rothschildiana, di questo regime coloniale vigente in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, è estremamente tollerante. Una magistratura che non dice nulla, chiude tutti e due gli occhi, non interviene o, se lo fa, interviene addirittura a favore di chi le vilipende, creando le premesse tra le masse popolari di forti contraddizioni ideologiche e religiose, di profondo scontento e di gravi ed anche gravissimi e tragici incidenti. Invece, ecco che dall’altra parte c’è tutto un fiorire di iniziative mediatiche e legislative per conferire uno status privilegiato alla religione ebraica, alla etnia ebraica, al sionismo, allo stato di Israele, a tutta la questione dell’olocausto, della “shoah”, etc. Guai se ci si permette anche solo di dire, di sussurrare o di pensare qualcosa anche solo di costruttivamente critico nei confronti di questi argomenti, perché scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, e sono cavoli amari, condanne pesantissime, discriminazioni addirittura odiosamente razziste e comunque seccature di ogni genere!… Ma da tutto questo movimento di legiferazione e di attività giudiziarie scandalosamente improntate al criterio dei due pesi e delle due misure, anche i più ignoranti, i più ottusi ed i più ipocriti, capiscono e son costretti ad ammettere che a quanto pare, anche se costituzionalmente si afferma formalmente che “tutte le confessioni sono egualmente libere”, invece, gli ordini di scuderia del vigente regime massonico, ebraico, rothschildiano sono prioritariamente orientati a tenere un atteggiamento di estremo riguardo per i soggetti e gli argomenti talmudici sopra accennati. Sembra quindi che questo articolo della costituzione non valga un fico. Art. 13 comma V: la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Il mio diritto alla libertà personale, il mio diritto a non essere privato di essa prima di un regolare processo e di una condanna definitiva è nelle mani di deputati e senatori (la parte migliore del paese, vero?), anziché essere fissati almeno nelle linee guida. Art. 68. I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questo articolo, tanto breve quanto apparentemente “innocente”, è in realtà il nocciolo della truffa rothschildiana sedicente “democratica” e quindi della profonda ed anzi essenziale rothschildianità di questa costituzione truffaldina ed antipopolare. Infatti è ovvio anche per uno sprovveduto che il parlamentare, pur eletto a seguito di suoi solenni giuramenti e grandi promesse ai suoi elettori che farà gli interessi, i loro interessi,… invece, il neo eletto, strafregandosene altamente di giuramenti e promesse ha già voltato gabbana e peggio di Giuda Iscariota si è già venduto al miglior offerente anche per meno di trenta denari d’argento. Ovvero, trattandosi di soldi, chi più di Rothschild, l’uomo più ricco e potente del mondo, potrà comprare chi vuole a qualsiasi prezzo e dominare qualsiasi parlamento corrompendolo come gli pare? In effetti succede sistematicamente ormai dal 1861, cioè da quando, più di un secolo e mezzo fa, Rothschild impose a mano armata, e poi reimpose sempre “manu militari” nel 1943 la sua truffaldina e farsesca “democrazia” massonica, ebraica, antipopolare, proprio congegnata per fregare il popolo, appunto in nome della “libertà di coscienza” di poter tradire impunemente il popolo, ovvero i più poveri; e per poterlo fare a cuor leggero, sancì, beffa delle beffe, che il tradimento potesse essere fatto proprio protetti dalla “sacra ed inviolabile” costituzione e dalle “democraticissime” leggi conseguenti, invocate ed applicate zelantemente da giudici, forze dell’ordine , massmedia, etc. In Italia, ormai, tutti massonicamente condizionati e opportunamente assoggettati con le buone o con le cattive agli ordini del più ricco, ovvero del solito Rothschild, ovvero del più pericoloso associato a delinquere: il capo supremo di tutte le massonerie del mondo!… e cioè sempre e comunque Rothschild. Tutto questo è tanto vero che è famosissima la frase appunto: “datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi”- Mayer Amschel Rothschild 1815. Art.75 comma II: Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio (quelle appunto che riguardano i… soldi… e sono proprio quelle che interessano più di tutte a Rothschild), di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Decisamente il mio articolo preferito. La Costituzione spiega come, per quanto riguarda le cose davvero importanti (proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano sia troppo stupido per esprimere serenamente la propria opinione. Meglio negargli la possibilità solo a chiacchiere e per modo di dire (ma non era una repubblica democratica secondo l’art. 1?). La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale della Repubblica italiana, ovvero il vertice nella gerarchia delle fonti di diritto dello Stato italiano. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio1948.

I Rothschild sono una famiglia europea di origini tedesco-giudaiche. Cinque linee del ramo austriaco della famiglia sono stati elevati alla nobiltà austriaca, avendo ricevuto baronie ereditarie dell'Impero asburgico dall'Imperatore Francesco II nel 1816. Un'altra linea, del ramo inglese della famiglia, fu elevata alla nobiltà britannica su richiesta della regina Vittoria. Nel corso dell'Ottocento, quando era al suo apice, la famiglia si ritiene abbia posseduto di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo. Oggi, i business dei Rothschild sono su scala più ridotta anche se comprendono una vasta gamma di settori, tra cui: gestione dei patrimoni privati, consulenza finanziaria, policoltura.

La Costituzione italiana: ambigua, immorale, demagogica, antipopolare. La costituzione che garantisce l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori!... Ovvero: la costituzione più immorale, più demagogica, più antipopolare, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!...La “sacra” costituzione dell’attuale classe dominante, al di là della messa in scena retorica di facciata, è a limitatissima sovranità popolare, anche se i suoi “padri costituzionalisti” hanno cercato di farci credere, con la complicità del monopolio mediatico del loro regime, di aver scritto la costituzione più bella del mondo. Anche i principi fondamentali in essa contenuti sono talmente ambigui, contraddittori ed indeterminati che la classe dominante può permettersi tutto ed il contrario di tutto a tutti i livelli, con le buone o con le cattive, in modo tale da detenere sempre e comunque la stragrande parte del potere possibile nelle sue mani. Infatti, perfino quando le sue leggi elettorali truffa, i suoi brogli ed imbrogli senza fine, non permettessero ai suoi politicanti di avere la maggioranza in parlamento e senato, le permetterebbero comunque senza particolari difficoltà di ricorrere, di nuovo come in passato, alle maniere forti di un regime apertamente militare con tanto di coprifuoco e di leggi marziali per salvare il suo Stato, ovvero per salvaguardare il primato del suo potere egemone sul popolo e contro il popolo. La nostra costituzione è stata scritta nel 1947, ed è andata in vigore nel 1948. Già l'art. 1 della Costituzione è una vera e propria presa in giro.

Art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tralasciando il primo comma, che è una formula ambigua che si fonda su una idea astratta e indeterminata di lavoro, invece che sulle precise e concrete persone fisiche dei lavoratori o dei cittadini. Nel secondo comma, a proposito della sovranità popolare, si dà con una frase quello che, subito dopo una virgola, si toglie con una frase sostanzialmente opposta.

Art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.” Anche su questo articolo potremmo discutere a lungo. Oltre alle polemiche, alle prevaricazioni e alle ingiustizie che specie in questi ultimi tempi si fanno contro i cristiani e contro gli islamici, avallate dai mass media e dalla magistratura del regime, si assiste anche a tutto un fiorire di leggi e controleggi, che privilegiano, contro la stessa costituzione e contro lo stesso diritto di libertà di pensiero e di parola, la religione ebraica, l'etnia ebraica, la shoah, l'olocausto, ecc... 

Art. 59: “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. In parlamento, in senato ed a capo dello Stato, in rappresentanza del popolo sovrano, dovrebbero stare solo i rappresentanti eletti direttamente dal popolo, e nessun altro.

Art. 67. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Art. 68. ”I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni”. Questi due articoli 67 e 68, tanto brevi quanto apparentemente "innocenti", sono in realtà il nocciolo centrale della truffa e della sedicente "democrazia" rothschildiana. Questi articoli garantiscono l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori, svuotando la vera rappresentatività popolare e democratica di qualsiasi eletto ed annullando il reale e sovrano potere del popolo in qualsiasi e sedicente democrazia.

Art.75 comma II: “Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio.” Ecco un altro articolo truffaldino nei confronti del popolo, a cui viene sottratta la possibilità di esercitare un controllo diretto su questioni economiche, che lo riguardano direttamente e che spesso sono vitali. La Costituzione infatti afferma con detto art. 75 come, per quanto riguarda le questioni economiche concrete e davvero importanti (appunto proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano debba essere di proposito e maliziosamente trattato come se fosse troppo stupido per essere in grado di esprimere saggiamente una giusta opinione. Meglio quindi dargli, solo a chiacchiere e per modo di dire, la possibilità di esprimersi, ma poi, perfidamente, negargliela nei fatti!...(ma non era una repubblica "Democratica"?... che, all’art. 1, spiega che il Popolo è Sovrano?).

Non lasciamoci ingannare dalle parole dolci, suadenti, sentimentali dei lupi travestiti da pecore...e se l'Italia ha la Costituzione più bella del mondo come mai ha generato la classe politica e dirigente più ladra, più corrotta, più criminale, più infame, più delinquente, più mafiosa? La risposta si trova in un passo evangelico: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere». Mt 7, 15-20. Sarebbe il caso di ammettere una volta per sempre che l'assetto costituzionale, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, in particolare quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese. (s. brosal - d. mallamaci).

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E’ il dio denaro e le ricchezze che da sempre fanno muovere il mondo e le montagne religiose ed ideologico.

Le masse si smuovono dalla loro apatia solo se indotti dai loro bisogni primari, non conoscendo altri virtù.

Già i romani indicavano in “Panem et Circenses” le aspirazioni della plebe. Gli illuminati, pochi ricchi e potenti, sin dall’antichità usano i bisogni della plebe per disegnare il loro Ordine Mondiale. Gli strumenti per attuare le loro mire di destabilizzazione: religioni ed ideologie, prime tra tutte il comunismo.

Marxismo e immigrazione proletaria (da «il comunista»; N° 113; Luglio 2009). Il fenomeno dell'immigrazione dei proletari non ha nulla di nuovo e i marxisti hanno spessissimo trattato questo tema, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su «La situazione della classe operaia in Inghilterra». Marx ne parla nel Capitale, fra gli altri nel passaggio seguente: «Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in un parola per fabbricare una sovrapopolazione. «L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25). Riassumendo, la borghesia utilizza l'importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l'esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza, questa «guerra di tutti contro tutti», fra proletari. Marx dettaglia questo fenomeno della concorrenza fra operai «nazionali» e immigrati con i casi degli operai irlandesi in Inghilterra e le sue osservazioni sono estremamente ricche di insegnamento: «A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. «E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di luiè molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870). Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. Anche nel caso in cui, come succede ora in Italia col governo Berlusconi, in cui ha una certo peso la Lega Nord, il governo borghese si prenda il gusto di tormentare la popolazione proletaria immigrata con leggi vessatorie sulle loro condizioni di esistenza. Mai era successo che la situazione fisica di esistenza, come sbarcare in territorio italiano alla ricerca di una sopravvivenza meno precaria, fosse trasformata in reato penale (mentre sono stati depennati dal penale i falsi in bilancio, bancarotta ecc.!). Un altro punto, il ruolo potenzialmente molto importante per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo che gioca l'immigrazione, è sottolineato da Lenin: «Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. «Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali. «Non c'è dubbio che solo l'estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall'oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l'arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell'America, della Germania, ecc.» E vi aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un'altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l'inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati» (Lenin, Il capitalismo e l'immigrazione operaia, 1913). Ecco quale deve essere l'attitudine costante dei proletari e delle loro organizzazioni di classe, ecco qual è la nostra prospettiva!

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.

La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?

Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.

"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.

Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»

Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.

Ed i precedenti italiani di destabilizzazione?

Per scaricare Renzi i poteri forti rispolverano la massoneria, scrive il 20 febbraio 2016 Stefano Sansonetti su “La Notizia Giornale”. Ormai non c’è giorno senza che arrivi un pessimo segnale per la tenuta del Governo guidato da Matteo Renzi. Se poi questi segnali arrivano direttamente dall’estero, o sono comunque veicolati da profili legati a centri di potere internazionali, per il premier l’effetto non può che essere allarmante. Soprattutto quando tra le accuse viene ritirata in ballo la “massoneria”. Tra quelli che stanno lanciando missili c’è senza dubbio Mario Monti, ex commissario europeo, molto stimato da alcune cancellerie nonché membro dei comitati esecutivi delle più influenti e chiacchierate lobby mondiali, dalla Trilateral all’Aspen. Ebbene, qualche giorno fa Monti aveva dato un antipasto a Montecitorio criticando il presidente del consiglio per la strategia assunta in Europa. “Presidente Renzi, lei non manca occasione per denigrare le modalità concrete di esistenza della Unione Europea, con la distruzione sistematica a colpi di clava e scalpello di tutto quello che la Ue ha significato finora”, aveva detto Monti in quell’occasione, aggiungendo che “questo sta introducendo negli italiani, soprattutto in quelli che la seguono, una pericolosissima alienazione nei confronti della Ue. Con il rischio di un benaltrismo su scala continentale molto pericoloso”. Ieri, in un colloquio con il Corriere della sera, Monti è stato ancora più affilato, evocando addirittura la massoneria. Senza mai citare direttamente Renzi, l’ex premier ha spiegato che “molti politici nazionali, che sovente si professano europeisti – e magari perfino credono di esserlo – sono diventati maestri muratori della decostruzione europea”. E’ appena il caso di far notare che in termini storici la massoneria viene fatta risalire proprio alle corporazioni dei muratori del Medioevo. Lo stesso termine “massoneria” deriva dal francese “maçon”, che significa appunto muratore. Senza contare che in genere il “gran maestro” rappresenta il ruolo di vertice all’interno della gerarchia massonica. Insomma, ci sono sin troppi indizi che fanno capire come non sia stato certo casuale il riferimento di Monti ai “maestri muratori”. Questa durissima insinuazione, seppur indiretta, ha peraltro trovato spazio sulle colonne del Corriere della sera, non nuovo a lanciare accuse di questo tipo. Nel settembre del 2014, in un editoriale dell’allora direttore Ferruccio de Bortoli, il patto del Nazareno tra Renzi e gli emissari di Silvio Berlusconi venne accostato allo “stantio odore della massoneria”. Ma non è finita qui. Se nei giorni scorsi il Financial Times aveva scritto che “la fortuna di Renzi si sta esaurendo”, ieri in un’intervista a Qn è stato il politologo americano neocon, Edward Luttwak, a dare al premier italiano l’avviso di sfratto: “Renzi ha fallito perché doveva fare riforme importanti e non le ha fatte. Non ha fatto la spending review e non ha messo mano alla burocrazia della pubblica amministrazione”. Quanto al possibile complotto Ue contro Renzi, per Luttwak “non esiste, c’è stato sicuramente per Berlusconi, ma non nei confronti di Renzi”. Infine la superstoccata finale, quella che può aiutare a capire cosa si agiti nella mente di alcuni osservatori internazionali. Basti leggere il modo in cui, secondo Luttwak, Renzi dovrebbe andare avanti: “Innanzitutto lasciando a casa le ragazzine e i dilettanti e circondandosi di personaggi qualificati”. Riferimento neanche troppo velato a Maria Elena Boschi e a Marianna Madia. E chi dovrebbe essere recuperato da Renzi? “Pierluigi Bersani per le liberalizzazioni, poi Romano Prodi ed Enrico Letta. E anche Giorgio Napolitano, che potrebbe avere un ruolo nella riforma della giustizia italiana”. Ora, da che pulpito vengano queste richieste è domanda più che legittima. Ma è il contesto generale di pressione a dover far riflettere. Una spia di come certi poteri stiano scaricando il premier può essere ravvisata anche dal trattamento riservatogli da alcuni giornali. Per carità, il presidente del consiglio può ancora “consolarsi” con il sostegno mediatico fornitogli da La Repubblica del gruppo De Benedetti, da La Stampa della famiglia Agnelli, e da Il Messaggero dell’immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Ma certo un bel po’ di preoccupazione sarà indotta nel premier dagli strali lanciati dal Corriere della sera nelle ultime 48 ore. E non è solo per via di Mario Monti. Due giorni fa un editoriale di Antonio Polito era eloquentemente titolato “la spinta smarrita di Renzi”. Ieri un commento economico del vicedirettore, Federico Fubini, ha accusato Renzi si sbagliare completamente strategia quando minaccia di opporsi alla proposta tedesca di mettere un tetto al possesso dei titoli di Stato da parte delle banche. L’assunto è che Berlino “non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari”, a cui l’Italia dice di tenere molto, “finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi”. La sintesi, allora, è che “quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con urgenza”. Per carità, da tutto questo dedurre un avviso si fratto al premier sarà esagerato. Ma siamo molto vicini a una messa in mora.

L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?

Napolitano e tutto il PD hanno approvato un piano massonico sequestrato nel 1981. Il senatore del Movimento 5 Stelle Sergio Puglia, con un video pubblicato su “Libero Quotidiano Tv” il 13 ottobre 2015, accusa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di aver portato avanti il programma della P2. Il senatore del Movimento registra un video nel transatlantico di Palazzo Madama, dopo che il suo gruppo è uscito dall’aula, quando l’ex presidente della Repubblica ha preso la parola. Puglia dice: “Napolitano ha preso il programma della loggia massonica P2 e lo ha imposto ai presidenti del Consiglio. Lui è l’autore di tutto questo macello istituzionale”.

La sinistra massone lo sa che con i suoi apparati politici, mediatici e culturali, influenza le masse ignoranti. E la massa vota con la pancia, non con la testa.

Ed allora parliamo del Gruppo Bilderberg.

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani, tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri “conducator”- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello “esteriore”, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

LE 13 FAMIGLIE CHE COMANDANO IL MONDO, scrive “Informare per resistere” l'8 agosto 2012. “Illuminati” o “portatori di luce”. Appartengono a tredici delle più ricche famiglie del mondo e sono i personaggi che veramente controllano e comandano il mondo da dietro le quinte. Vengono, da molti, anche definiti la “Nobiltà Nera”. La loro caratteristica principale è quella di essere nascosti agli occhi della popolazione mondiale. Il loro albero genealogico va indietro migliaia di anni, alcuni dicono che risale alla civiltà sumera/babilonese o addirittura che siano ibridi, figli di una razza extraterrestre, i rettiliani. Sono molto attenti a mantenere il loro legame di sangue di generazione in generazione senza interromperla. Il loro potere risiede nel controllo specie quello economico (gruppo Bilderberg ecc…), “il denaro crea potere” è la loro filosofia. Il loro controllo punta a possedere tutte le banche internazionali, il settore petrolifero e tutti i più potenti settori industriali e commerciali. Sono infiltrati nella politica e nella maggior parte dei governi e degli organi statali e parastatali. Inoltre negli organi internazionali primo fra tutti l’ONU e poi il Fondo Monetario Internazionale. Ma qual è l’obiettivo degli Illuminati? Creare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) con un governo mondiale, una banca centrale mondiale, un esercito globale e tutta una rete di controllo totale sulle masse. A capo ovviamente loro stessi, per sottomettere il mondo ad una nuova schiavitù, non fisica, ma “spirituale” ed affermare il loro credo, quello di Lucifero. Questo progetto va avanti, secondo alcuni, da millenni ma ebbe un incremento nella prima metà del 1700 con l’incontro tra il “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale. L’incontro portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli dei Savi di Sion”. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l’aiuto del sistema economico. Rothschild successivamente aiutò e finanziò l’ebreo Adam Weishaupt, un ex prete gesuita, che a Francoforte creò il famigerato gruppo segreto dal nome “Gli Illuminati di Baviera”. Weishaupt prendendo spunto dai “Protocolli dei Savi di Sion” elaborò verso il 1770 “Il Nuovo Testamento di Satana” un piano che porterà una piccola minoranza di persone al controllo globale. La sua strategia si basava sulla soppressione dei governi nazionali e alla concentrazione di tutti i poteri sotto unici organi da loro controllati. Loro hanno un piano ben preciso che portano avanti a piccoli passi, proprio per non destare alcun sospetto. Creare la divisione delle masse, è un passo fondamentale, in politica, nell’economia, negli aspetti sociali, con la religione, l’invenzione di razze ed etnie ecc… Scatenare conflitti tra stati, così da destabilizzare l’opinione pubblica sui governi, l’economia e incutere timore e mancanza di sicurezza nella popolazione.  Corrompere con denaro facile, vantaggi e sesso, quindi rendere ricattabili i politici o chi ha una posizione di spicco all’interno di uno stato o di un organo statale. Scegliere il futuro capo di stato tra quelli che sono servili e sottomessi incondizionatamente. Avere il controllo delle scuole: dalla scuola infantile all’Università per fare in modo che i giovani talenti siano indirizzati ad una cultura internazionale e diventino inconsciamente parte del complotto. Indottrinando la popolazione su come si può o non può vivere, su quali sono le regole da rispettare, gli usi e i costumi ecc… Infiltrarsi in ogni decisione importante (meglio a lungo termine) dei governi degli stati più potenti del mondo. Facendo coincidere queste decisioni con il progetto finale. Controllare la stampa e l’informazione in generale, creando false notizie, false emozioni, paura ed instabilità. Abituare le masse a vivere sulle apparenze ed a soddisfare solo il loro piacere ed il materialismo così da portare la società alla depravazione, stadio in cui l’uomo non ha più fede in nulla. Arrivare a creare un tale stato di degrado, di confusione e quindi di spossatezza, che le masse avrebbero dovuto reagire cercando un protettore o un benefattore al quale sottomettersi spontaneamente. Uno dei loro obbiettivi è scippare la popolazione così da manipolare il loro pensiero ed il loro comportamento, oltre che rendere molto facile la loro identificazione e localizzazione. Tutto questo con la scusante della sicurezza personale. Nel 1871 il piano di Weishaupt viene ulteriormente confermato e completato da un suo seguace americano, il gran maestro, Albert Pike che elaborò un documento per l’istituzione di un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) attraverso tre Guerre Mondiali. Lui sosteneva che attraverso questi tre conflitti la popolazione mondiale, stanca della violenza e della sofferenza, avrebbe richiesto spontaneamente protezione e pace e la creazione di organi mondiali che controllassero ciò. Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne fatto il primo passo in questa direzione con la formazione dell’ONU. Per Pike, la Prima Guerra Mondiale doveva portare gli Illuminati, che già avevano il controllo di alcuni Stati Europei e stavano conquistando attraverso le loro trame gli Stati Uniti di America, ad avere anche la guida della Russia. Quest’ultima sarebbe poi servita alla divisione del mondo in due blocchi. La Seconda Guerra Mondiale sarebbe dovuta partire dalla Germania (cosa che accadde), manipolando le diverse opinioni tra i nazionalisti tedeschi e i sionisti politicamente impegnati. Inoltre avrebbe portato la Russia ad estendere la sua zona di influenza e reso possibile la costituzione dello Stato di Israele in Palestina. La Terza Guerra Mondiale sarà basata sulle divergenze di opinioni che gli Illuminati avranno creato tra i Sionisti e gli Arabi (occidente cristiano contro l’Islam cosa che si sta avverando e anche velocemente), programmando l’estensione del conflitto a livello mondiale. Ovviamente non potevano pensare di conseguire i loro obiettivi da soli, avevano ed hanno bisogno di una “struttura operativa”, composta da organizzazioni o persone che esercitando del potere ed operino più o meno consapevolmente nella stessa direzione. La loro strategia ha fatto leva su 2 capisaldi: la forza del denaro, loro hanno costituito e controllano il sistema bancario internazionale; la disponibilità di persone fidate, ottenuta attraverso il controllo delle società segrete (logge massoniche). Gli Illuminati e chi con loro controlla queste società, sono pressoché Satanisti e praticano la magia nera e sacrifici umani. Il loro Dio è Lucifero e attraverso pratiche e riti occulti manipolano e influenzano le masse. Molti asseriscono che è anche da questa scienza di tipo occulto che gli Illuminati hanno sviluppato la teoria sul controllo mentale delle masse. Poco tempo fa sono emersi anche i nomi delle suddette famiglie: ASTOR, BUNDY, COLLINS, DUPONT, FREEMAN, KENNEDY, LI, ONASSIS, ROCKFELLER, ROTHSCHILD, RUSSELL, VAN DUYN, MEROVINGI.

Famoso discorso, fatto da John Fritzgerald Kennedy, il 27 aprile 1961, sulla reale minaccia, che le società segrete, costituiscono per tutto il mondo, e per la libertà, di ogni essere umano. Kennedy denunciò apertamente i poteri occulti che nell’ombra governano il mondo, poi quando decise di stampare una banconota di stato svincolata dalla FED fu fatto fuori. Casualità???

L’INGHILTERRA E’ CONTROLLATA DAI ROTHSCHILD, scrive “I Complottisti” il 30/06/2016. L’Inghilterra è un’oligarchia finanziaria gestita dalla corona che si riferisce alla City of London e non alla Regina. La City of London è gestita dalla Banca d’Inghilterra, una società privata. La City è uno stato sovrano, come il Vaticano del mondo finanziario, e non è soggetta alla legge britannica, al contrario i banchieri danno gli ordini al Parlamento Britannico. Nel 1886 Andrew Carnegie scrisse che "6 o 7 uomini possono spingere il paese in una guerra senza consultare il Parlamento”. Vincenzo Vickers direttore della Banca d’Inghilterra dal 1910 al 1919 ha accusato la City per le guerre nel mondo. L’impero britannico era un’estensione degli interessi finanziari dei banchieri. In effetti, tutte le colonie non bianche (India, Hong Komg, Gibilterra) erano corone colonie. Appartenevano alla City e non erano soggetti alla legge inglese. La Banca d’Inghilterra ha assunto il controllo degli USA durante l’amministrazione Roosevelt (1901-1909) quando il suo agente J.P. Morgan acquisì oltre il 25% del business americano. Secondo l’American Almanac i banchieri fanno parte di una rete chiamata club of Isles che è un’associazione informale di famiglie reali prevalentemente europee tra cui la Regina. Il club of Isles gestisce una cifra stimata di 10 miliardi di dollari in assets come la Royal Dutch Shell, Imperial Chemical Industries, Lloyds of London, Unilever, Lonrho, Rio Tinto Zinc, e anglo americana De Beers. Domina la fornitura mondiale di petrolio, oro, diamanti, e molte altre materie prime vitali ed impiega questi assets a disposizione della propria agenda geopolitica. Il loro obiettivo è ridurre la popolazione mondiale ad 1 miliardo di persone entro le prossime 2/3 generazioni, per mantenere il proprio potere globale e feudale. La storia Jeffrey Steinberg scrisse: “Inghilterra, Scozia, Galles ed in particolare l’Irlanda del Nord sono oggi poco più di piantagioni di schiavi e laboratori di ingegneria sociale per soddisfare le esigenze della City of London”. Queste famiglie costituiscono un’oligarchia finanziaria e sono il potere dietro il trono Windsor. Considerano se stessi come eredi dell’oligarchia veneziana che si sono infiltrati ed hanno sovvertito l’Inghilterra dal periodo 1509-1715 ed ha stabilito un nuovo più virulento ceppo anglo-olandese svizzero del sistema oligarchico dell’impero di Babilonia, Persia, Roma e Bisanzio…La City of London domina i mercati speculativi del mondo. Un gruppo strettamente interdipendente di imprese, materie prime coinvolte nell’estrazione, finanza, assicurazioni, trasporti e produzioni di cibo, fa la parte del leone nel controllo del mercato mondiale. Sembra che molti membri di questa oligarchia erano ebrei. Cecil Roth scrisse “il commercio di Venezia è stato il nodo schiacciante concentrato nelle mano degli ebrei, i più ricchi della classe mercantile (La storia degli ebrei a Venezia 1930). William Guy Carr nel libro Pawns in the game spiega che sia Oliver Cromwell che Gugliemo d’Orange sono stati finanziati da banchieri ebrei. La Rivoluzione Inglese (1649) è stata la prima di una serie di rivoluzioni progettate per dare loro egemonia mondiale. L’Inghilterra è stato uno stato ebraico per oltre 300 anni.

I 25 PUNTI SCRITTI DAI ROTHSCHILD PER LA CONQUISTA DEL MONDO, scrive “I Complottisti” il 22/03/2016. PREMESSA: I ROTHSCHILD, SONO UNA DELLE POCHE FAMIGLIE A CONTROLLARE SIN DAGLI ALBORI LE BANCHE, QUINDI LE ECONOMIE E QUINDI I GOVERNI MONDIALI. Anno 1773. Poco prima di presentare il suo piano, in 25 punti, per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, Amschel Mayer Rothschild, ai suoi dodici ascoltatori, svelò «come la Rivoluzione Inglese (1640-60) fosse stata organizzata e mise in risalto gli errori che erano stati commessi: il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari non era stata eseguita con sufficiente rapidità e spietatezza e il programmato “regno del terrore”, col quale si doveva ottenere la rapida sottomissione delle masse, non era stato messo in pratica in modo efficace. Malgrado questi errori, i banchieri, che avevano istigato la rivoluzione, avevano stabilito il loro controllo sull’economia e sul debito pubblico inglese». Rothschild mostrò che questi risultati finanziari non erano da paragonare a quelli che si potevano ottenere con la Rivoluzione francese, a condizione che i presenti si unissero per mettere in pratica il Piano rivoluzionario che egli aveva studiato e aggiornato con grande cura. Questi 25 punti sono:

1. Usare la violenza e il terrorismo, piuttosto che le discussioni accademiche.

2. Predicare il “Liberalismo” per usurpare il potere politico.

3. Avviare la lotta di classe.

4. I politici devono essere astuti e ingannevoli – qualsiasi codice morale lascia un politico vulnerabile.

5. Smantellare “le esistenti forze dell’ordine e i regolamenti. Ricostruzione di tutte le istituzioni esistenti.”

6. Rimanere invisibili fino al momento in cui si è acquisita una forza tale che nessun’altra forza o astuzia può più minarla.

7. Usare la Psicologia di massa per controllare le folle. “Senza il dispotismo assoluto non si può governare in modo efficiente.”

8. Sostenere l’uso di liquori, droga, corruzione morale e ogni forma di vizio, utilizzati sistematicamente da “agenti” per corrompere la gioventù.

9. Impadronirsi delle proprietà con ogni mezzo per assicurarsi sottomissione e sovranità.

10. Fomentare le guerre e controllare le conferenze di pace in modo che nessuno dei combattenti guadagni territorio, mettendo loro in uno stato di debito ulteriore e quindi in nostro potere.

11. Scegliere i candidati alle cariche pubbliche tra chi sarà “servile e obbediente ai nostri comandi, in modo da poter essere facilmente utilizzabile come pedina nel nostro gioco”.

12. Utilizzare la stampa per la propaganda al fine di controllare tutti i punti di uscita d’ informazioni al pubblico, pur rimanendo nell’ombra, liberi da colpa.

13. Far sì che le masse credano di essere state preda di criminali. Quindi ripristinare l’ordine e apparire come salvatori.

14. Creare panico finanziario. La fame viene usata per controllare e soggiogare le masse.

15. Infiltrare la massoneria per sfruttare le logge del Grande Oriente come mantello alla vera natura del loro lavoro nella filantropia. Diffondere la loro ideologia ateo-materialista tra i “goyim” (gentili).

16. Quando batte l’ora dell’incoronamento per il nostro signore sovrano del Mondo intero, la loro influenza bandirà tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua strada.

17. Uso sistematico di inganno, frasi altisonanti e slogan popolari. “Il contrario di quanto è stato promesso si può fare sempre dopo. Questo è senza conseguenze”.

18. Un Regno del Terrore è il modo più economico per portare rapidamente sottomissione.

19. Mascherarsi da politici, consulenti finanziari ed economici per svolgere il nostro mandato con la diplomazia e senza timore di esporre “il potere segreto dietro gli affari nazionali e internazionali.”

20. L’obiettivo è il supremo governo mondiale. Sarà necessario stabilire grandi monopoli, quindi, anche la più grande fortuna dei Goyim dipenderà da noi a tal punto che essi andranno a fondo insieme al credito dei dei loro governi il giorno dopo la grande bancarotta politica.

21. Usa la guerra economica. Deruba i “Goyim” delle loro proprietà terriere e delle industrie con una combinazione di alte tasse e concorrenza sleale.

22. Fai si che il “Goyim” distrugga ognuno degli altri; così nel mondo sarà lasciato solo il proletariato, con pochi milionari devoti alla nostra causa e polizia e soldati sufficienti per proteggere i loro interessi.

23. Chiamatelo il Nuovo Ordine. Nominate un Dittatore.

24. Istupidire, confondere e corrompere e membri più giovani della società, insegnando loro teorie e principi che sappiamo essere falsi.

25. Piegare le leggi nazionali e internazionali all’interno di una contraddizione che innanzi tutto maschera la legge e dopo la nasconde del tutto. Sostituire l’arbitrato alla legge.

 “COME (NON) FUNZIONA LA DEMOCRAZIA DELL’UNIONE EUROPEA. INDAGINE SUI TRATTATI EUROPEI” – SPECIALE COMPLETO in TRE PARTI (a cura dell’avvocato Giuseppe PALMA del 3 luglio 2016).

PREMESSA. Dopo il voto britannico sulla Brexit (cioè sulla volontà del popolo del Regno Unito di restare o meno all’interno dell’Unione Europea), giornalai di regime e professoroni universitari, visto l’esito, hanno scatenato il putiferio! Il referendum in Gran Bretagna di giovedì 23 giugno si è concluso con una inequivocabile vittoria del LEAVE (fatta eccezione per Londra, il resto dell’Inghilterra e del Galles hanno votato per uscire dall’UE, mentre Scozia e Irlanda del Nord per rimanere). Ciò ha determinato, come ci si aspettava, un terremoto sui mercati. Ed ecco che il “vero potere” ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la democrazia. C’è addirittura chi, dall’alto del proprio ruolo di docente universitario ordinario, ha follemente ipotizzato la necessità di sostituire il voto eguale (cioè una testa un voto) con il voto ponderato (cioè che alcuni voti valgano più di altri a seconda dell’età e/o del titolo di studio). A questo punto, c’è da chiedersi: ma se è vero (e non lo è) che l’Unione Europea si fonda sui principi di democrazia, pace e benessere, per quale motivo una semplice consultazione elettorale (per di più di natura consultiva e non vincolante) ha determinato il crollo dei mercati e la reazione scomposta dell’establishment? Sarà mica l’Unione Europea ad essere INCOMPATIBILE con la democrazia? Giudicate Voi.

PARTE PRIMA. PERCHE’ LE NORME GIURIDICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREVALGONO SU QUELLE NAZIONALI?

Il rapporto gerarchico nel sistema delle Fonti del diritto: gravi problematiche. Fatta salva – nei termini che si esporranno di seguito – la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte Prima della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte Seconda della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni). Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un vero e proprio voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo? In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. I Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Ma entriamo nello specifico. Ferma restando la palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost. La nostra Corte Costituzionale, già nel 1964, affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 sempre la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione (del diritto interno – nda) deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (La forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello – come stabilito anche dalla Consulta – del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti (cosiddetti CONTROLIMITI), inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte Prima della Costituzione che rappresentano la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali. Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei Padri Costituenti, il calabrese Costantino Mortati, tra i più importanti giuristi italiani del XX Secolo: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”; il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona. Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte Prima della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte Seconda. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte Seconda della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[5]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

PARTE SECONDA: L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI DELL’UNIONE.

La FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione Europea. Secondo quanto previsto dai Trattati dell’Unione Europea (TUE e TFUE) la FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio esclusivo della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti). Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti –l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni di Commissione e Consiglio! Ma non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, nella sostanza, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (in merito all’argomento fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione, leggasi l’approfondimento tecnico a seguire). Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: nel suo complesso, il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e/o il PPE a farla da padrona!

APPROFONDIMENTO TECNICO. I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia.  Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la cosiddetta MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza. E in democrazia, si sa, la forma è elemento fondamentale e irrinunciabile. E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:

Iª FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;

IIª FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;

IIIª FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;

IVª FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:

La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;

La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio.

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per le opposizioni parlamentari trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei membri del Parlamento) per respingere una posizione espressa dal Consiglio. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)! Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del Trattato di Lisbona con un voto all’unanimità nel luglio 2008, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né mediatico. Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!

TERZA ed ULTIMA PARTE: MONETA UNICA E PAREGGIO DI BILANCIO: LA MORTE DELL’UE.

I principali aspetti di criticità della moneta unica. Rapporto €uro/lavoro. Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1861 al 1865, ebbe modo di affermare che: “Il Governo non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi ed imprese pubbliche. Il Governo deve creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del Governo ed il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del Governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del Governo stesso. La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi”. Era il 1865. Quello stesso anno Lincoln venne assassinato. Tra i maggiori aspetti di criticità di questo euro, oltre a quello che trattasi di moneta da prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (es. banche private) ai quali va restituita con gli interessi (costringendo i Governi ad aumentare le tasse, inasprire gli strumenti di accertamento fiscale, porre limiti troppo bassi all’utilizzo del denaro contante e tagliare selvaggiamente lo stato sociale), v’è quello che è un accordo di cambi fissi, per cui, nei periodi di crisi economica, gli Stati sono costretti – non potendo far leva sulla svalutazione monetaria – a SVALUTARE IL LAVORO, quindi a contrarre le garanzie contrattuali e di legge, a ridurre i salari e a rendere eccessivamente flessibile il rapporto di lavoro (vedesi Riforma Fornero e  Jobs Act). Il tutto a scapito dei diritti fondamentali e del principio supremo del lavoro sul quale la Costituzione stessa fonda la Repubblica. L’euro è una moneta costruita non per la realizzazione concreta dei principi supremi sanciti dalla Costituzione (uno su tutti il lavoro), bensì per la tutela del capitale internazionale, e ciò comporta la necessità – addirittura ammessa esplicitamente – di mantenere tendenzialmente alto il tasso di disoccupazione (o comunque di non ridurlo sotto una certa soglia), ovvero di conseguire un più alto livello occupazionale ma mantenendo salari bassi e comprimendo le garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore: se non si comprende questo concetto è impossibile rendersi conto di quanto è accaduto. L’UE nasce, come espressamente scritto nei Trattati, su principi del tutto in contrasto con quelli sui quali trovano fondamento le Costituzioni degli Stati membri: l’art. 3, comma 3, del TUE stabilisce infatti – tra gli obiettivi dell’Unione –la stabilità dei prezzi in un’economia di mercato fortemente competitiva, e ciò lede palesemente l’obiettivo della piena occupazione sul quale la Repubblica italiana trova fondamento (art. 1 co. I e art. 4 Cost.) e verso il quale tendono (ipocritamente) addirittura anche gli stessi Trattati europei, i quali prevedono il perseguimento della piena occupazione e del progresso sociale ma all’interno della cornice (davvero assurdo!) della stabilità dei prezzi e della competitività selvaggia: in pratica, per dirla con parole povere, l’UE persegue principalmente due obiettivi: da un lato la piena occupazione e il progresso sociale, dall’altro la stabilità dei prezzi e l’economia di mercato competitiva, i quali non possono coesistere senza che l’uno non divori l’altro! Inoltre, a completamento dell’orribile quadro sin qui delineato, va sottolineato che la BCE (Banca Centrale Europea) – come previsto dal suo stesso Statuto (quindi chi ha costruito l’UE e l’euro sapeva benissimo cosa stava facendo) – NON FUNGE DA PRESTATRICE DI ULTIMA ISTANZA, cioè non può garantire – come invece hanno sempre fatto tutte le Banche Centrali prima dell’introduzione dell’euro – i debiti pubblici di ciascuno degli Stati dell’Eurozona, i quali, trovandosi espropriati di una delle funzioni fondamentali di politica monetaria ed economica, sono continuamente assoggettati al terrore del famigerato debito pubblico! Negli Stati che invece conservano la sovranità monetaria, il debito pubblico non costituisce affatto un problema perché, potendo la Banca Centrale (o il Tesoro) fungere da prestatrice di ultima istanza, essa sarà sempre in grado di “acquistare” (e quindi di garantire) l’intero ammontare del debito pubblico senza che il Governo scarichi il relativo peso su cittadini, imprese e stato sociale. Ed è proprio da questa argomentazione che nasce l’esigenza di spiegare, seppur brevemente, la funzione delle “tasse”: se negli Stati privi di sovranità monetaria l’imposizione fiscale serve principalmente per far fronte alla spesa pubblica (le cui voci più sensibili quali la sanità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni sono ovviamente soggetti a tagli selvaggi) e per “ripagare” – con gli interessi – i mercati dei capitali privati che hanno dato in prestito la moneta, negli Stati che godono di sovranità monetaria le tasse servono invece per non creare altro debito pubblico (ovvero per tenerlo “sotto controllo”) e a controllare la massa monetaria in circolazione, quindi il Governo può benissimo evitare di scaricare il peso del debito su popolo e welfare. Ciò premesso, la domanda sorge spontanea: chi svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza negli Stati che hanno adottato l’euro? Ovviamente il popolo, attraverso l’aumento della tassazione, l’inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale, l’abbassamento della soglia massima per l’utilizzo del denaro contate e soprattutto i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più delicate (istruzione, pensioni, stipendi, sicurezza, sanità, giustizia etc…). Tutto ciò premesso, i 19 Stati dell’Eurozona – non potendo più creare moneta dal nulla – devono pertanto andarsi a cercare la moneta. In che modo? Prendendola in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) e/o andando a prenderla da cittadini e imprese attraverso le tasse, la lotta selvaggia all’evasione fiscale di sopravvivenza e i tagli allo stato sociale. Inoltre, tanto per intenderci, l’euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla BCE (nello specifico da ciascuna Banca Centrale dei Paesi dell’Eurozona ma su decisione della BCE), quindi il crimine è doppio, infatti ciascuno Stato è costretto – nonostante l’euro sia creato dal nulla – a farsi prestare la moneta dalle banche private che, prima di prestarla, valutano con la lente di ingrandimento la capacità finanziaria dello Stato richiedente a poterla restituire. Ecco perché c’è il terrore della spesa e del debito pubblico; ecco perché l’evasione fiscale costituisce un problema… tutto questo perché si è deciso di adottare l’euro, una moneta completamente sbagliata! Ma torniamo al rapporto euro/lavoro/diritti fondamentali. Ecco un esempio pratico di come questa moneta unica – per sopravvivere – imponga ai Paesi che l’hanno adottata la SVALUTAZIONE DEL LAVORO: se la Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) – in merito ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – rendeva il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato un’ipotesi residuale circoscritta a sole tre circostanze (licenziamenti orali, discriminatori e nei casi di carente motivazione o manifesta infondatezza del motivo addotto), il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi del 2015) cancella del tutto la tutela del reintegro (sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), fatte salve le ipotesi meramente residuali dei licenziamenti orali, discriminatori e – solo per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, lasciando fuori dal perimetro della tutela reale (reintegro) la sproporzionalità tra fatto contestato al lavoratore e provvedimento di licenziamento. Il Jobs Act riduce anche la forbice della tutela obbligatoria (economica), infatti, per entrambe le tipologie di licenziamento sopra indicate, la predetta tutela passa dalle 12-24 mensilità previste dalla Fornero alle 4-24 mensilità del Jobs Act! Per dirla con parole più semplici, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato quasi interamente smantellato in risposta alle criminali esigenze di sopravvivenza di questa moneta unica sbagliata. E a farlo è stata una politica di centro-sinistra che ha trovato asilo in un Parlamento di nominati, “eletto” con meccanismi elettorali dichiarati incostituzionali (Corte Costituzionale, Sent. n. 1/2014), oltre che per volontà di un Governo presieduto dal terzo Presidente del Consiglio dei ministri consecutivo privo di qualsivoglia legittimazione democratica. La folle costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio. Possibili rimedi giuridici. In ordine a tutto quanto predetto nel precedente paragrafo, si precisa altresì che se i “principi supremi” sui quali trova fondamento il nostro ordinamento costituzionale (in parte coincidenti con i Principi Fondamentali rubricati dall’art. 1 all’art. 12 della Costituzione) non possono essere soggetti a procedura di revisione costituzionale(limite implicito al quale va aggiunto quello esplicito della forma repubblicana di cui all’art. 139 Cost.), la Parte Prima della Costituzione – rappresentando la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali – è anch’essa sottratta da eventuale procedura di revisione, se non in melius! A tal riguardo mi preme portare all’attenzione del lettore quanto accaduto con la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), attraverso la quale il Parlamento italiano (pur rispettando la procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost., quindi Parte Seconda della Costituzione e pertanto soggetta a revisione), ledendo – se non addirittura esautorando – uno dei “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale che è il lavoro (artt. 1 co. I, 4 e 35 e seguenti della Costituzione). In pratica, pur rispettando la forma (COSTITUZIONE FORMALE), il Legislatore ha palesemente violato e tradito la sostanza (COSTITUZIONE MATERIALE). Partiamo da un presupposto inconfutabile: l’art. 1, primo comma, della Carta costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) rappresenta la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere sia nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro (avrebbero potuto fondarla benissimo, ad esempio, sulla democrazia rappresentativa o sulla lotta ai totalitarismi) vuol dire che ammettevano senz’ombra di dubbio che lo Stato possa spendere a deficit al fine di creare piena occupazione e tutelare il diritto al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Se così non fosse, per quale motivo i Padri Costituenti avrebbero fondato la Repubblica “sul lavoro”? Per quale motivo avrebbero scritto la parola “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione dell’Assemblea Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma la Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro, della libertà sindacale e del diritto di sciopero). Il “principio supremo” del lavoro, rubricato sia nei Principi Fondamentali (artt. 1 co. I e 4 Cost.) che nella Parte Prima della Costituzione (artt. 35-40 Cost.), e quindi non soggetto a revisione costituzionale (se non in melius per quel che concerne la rubricazione che va dall’art. 35 all’art. 40 Cost.), di fronte alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (avvenuta – come si è già evidenziato – nel rispetto formale della procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) perde di efficacia sostanziale! Ciò detto, il nostro Parlamento ha volutamente calpestato i principi inderogabili della Costituzione (Costituzione primigenia) rendendo la Repubblica non più fondata sul lavoro bensì sulla stabilità (si fa per dire!) dei conti pubblici, mutandone completamente – con un atto di forza formalmente corretto ma sostanzialmente illegittimo – sia l’anima che l’impianto! Ciò premesso, la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio è del tutto incompatibile con i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. L’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto in Costituzione nel 2012, sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dal 2014, tuttavia il Governo Renzi – in cambio delle cosiddette riforme strutturali [soprattutto della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e dell’avvio a ritmi serrati della revisione della Parte Seconda della Costituzione] – ha ottenuto da Bruxelles prima un rinvio al 2018, poi al 2019. In pratica lo “schiavo”, dopo essersi flagellato da solo convincendosi che flagellarsi fa bene, e dopo aver spontaneamente rinunciato alla libertà che gli è stata donata dai suo Padri, attende consapevole e felice la data della sua “morte” ch’egli già conosce. Tutto ciò premesso, i rimedi che offre il nostro ordinamento giuridico al fine di risolvere le gravi problematiche sinora esposte sono due: a) che il Parlamento, attraverso la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost., provveda all’abrogazione dell’art. 81 della Costituzione con la quale esso stesso ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio; b)che la Corte costituzionale, chiamata secondo le norme vigenti ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della Legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dichiari l’incostituzionalità della nuova formulazione dell’art. 81 Cost. per palese violazione dei principi inderogabili della Costituzione primigenia. Alla luce di tutto quanto sinora argomentato, appare quindi sufficientemente dimostrato come la moneta unica e il pareggio di bilancio incidano negativamente (se non di peggio!) non solo nei confronti del principio fondamentale del lavoro, ma anche nei confronti della DEMOCRAZIA di tutti gli Stati dell’Eurozona. Provi uno Stato che ha adottato l’euro ad indire un referendum (anche solo consultivo) sull’abbandono della moneta unica: la democrazia sarebbe soggetta ad un attacco spietato sia da parte dei mercati e della finanza, sia da parte dell’establishment eurocratico (Istituzioni europee, media, giornalisti, politici e professoroni… quelli a libro paga del sistema). Avvocato Giuseppe PALMA

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?

Il quaderno di Giorgio da Batiorco su Veja del 5 aprile 2013…Vivi libero…e fai le domande che non hanno risposta. Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria. Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni? Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, Papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un passo indietro e vediamo come. Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”. Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto. E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296. Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali. A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni. Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust. Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione. Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO. La lettura di questo articolo è impegnativa ma ha un’importanza vitale nella comprensione del mondo occidentale moderno e dei fatti storici che lo hanno portato allo status quo. Parla di come la legge universale del Libero Arbitrio nel corso della storia sia stata sfruttata e distorta dalla forze del Male per imprigionare ed asservire gli esseri umani. Se oggi le cose non vanno come vorremmo, è perchè noi abbiamo dato il nostro consenso affinchè accadessero, anche se non ne siamo consapevoli perchè questo ci è stato estorto in malafede con l’inganno. Tutto ha avuto inizio il 18 novembre del 1302, la data della pubblicazione della Bolla Papale di Papa Bonifacio VIII intitolata “Unam Sanctam Ecclesiam” le cui ripercussioni storiche fanno ancora oggi in modo che noi alla nascita diamo il nostro consenso per essere di fatto sfruttati come schiavi per tutta la vita. Armatevi di pazienza e scoprirete come…Perché stiamo diventando sempre più poveri? Perché siamo governati da un individuo non eletto o nominato da altri (non eletti di nuovo), per tassarci e versare il nostro denaro o valore equivalente direttamente nelle casse dei banchieri internazionali privati? Perché anche l’Italia ha ceduto ogni sovranità nazionale ad un gruppo di potere europeo privato? Perché questa bancarotta di tutte le economie occidentali pianificata a tavolino dai primissimi anni ’30, viene fatta col nostro consenso, di cui apparentemente non sappiamo nulla? La prima cosa da fare è capire come ottengono o come hanno ottenuto il nostro consenso e perciò, una volta compreso, saremo in grado di attuare una strategia per ritirarlo e per spezzare definitivamente questo gioco al massacro. Cos’è questo consenso? Se non partiamo da qui, prima di parlare di recupero della sovranità monetaria, di elezioni democratiche e di riforme, siamo disarmati e non ne usciremo mai. Qualsiasi cosa vorremmo o potremmo fare sarà inutile, inefficace, avremo già perso in partenza. Perciò la seconda cosa su cui ragionare è: perché per il potere mondiale chiamato anche Cabala nera è fondamentale il nostro consenso? Perché costoro sanno benissimo che esiste una legge universale, una legge suprema, che regola e domina tutto l’Universo, che va al di sopra di tutte le possibili leggi umane, che è la legge del Libero Arbitrio.

LA STORIA DEL CONSENSO E LA LEGGE UNIVERSALE DEL LIBERO ARBITRIO. Prima di parlare della storia dell’applicazione della legge del Libero Arbitrio, facciamo qualche esempio di applicazione di questa legge Universale, partendo da casi semplici, per arrivare a quelli che riguardano più da vicino ognuno di noi quotidianamente. Se tu hai firmato un contratto di mutuo con la banca, che poi ti porta via la casa in caso d’insolvenza, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quel contratto. Nessuno ti ha mai costretto. Se poi ti rechi in tribunale per la causa di pignoramento e riconosci quegli organi legislativi e quindi quei tribunali e così facendo li legittimi, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quelle legittimazioni.  Quindi, in parole povere, siamo noi a rinnovare il contratto con questo “sistema” ogni giorno, utilizzando quei mezzi “impropri e fraudolenti” che loro ci hanno fatto credere, con un ingegnoso mezzo-inganno, indispensabili. La prima reazione spontanea a queste affermazioni è la seguente: tutta la nostra società funziona così e nessuno di noi per vivere, lavorare, comprarsi la casa, la macchina, andare in vacanza, sposarsi, fare dei figli, educarli e farli studiare potrebbe fare altrimenti. Ma dunque è giusto, immediatamente dopo, chiedersi: “Perché funziona così?” (Domanda che ci facciamo troppo poco, quando invece è la DOMANDA fondamentale da farsi, ma siamo programmati per benino proprio per non farcela mai). Per rispondere torniamo indietro di parecchi anni, secoli, millenni…Vi esorto a leggere i libri e a guardare i video di Mauro Biglino, che ha tradotto letteralmente dall’ebraico antico, con tanto di testo originale a fronte, tutto l’Antico Testamento della Bibbia. Le sue traduzioni sono convalidate dagli anziani delle comunità ebraiche e sono divenute incontrovertibili, perché letterali e non interpretate.  Con rivelazioni davvero, davvero, davvero, davvero per menti… “aperte”.  Nel nostro caso lo studio di ciò che viene rivelato nella vera Bibbia, ci serve per capire l’importanza del “libero arbitro” nei giochi di potere e del legame indissolubile che esiste tra diritto, denaro, RELIGIONE E POLITICA. Questa incredibile scoperta, con la traduzione letterale del testi, rivela la vera natura della Bibbia, che in realtà è un Codice di Diritto Mercantile Marittimo, VALIDO, APPLICATO ANCORA OGGI, pressoché inoppugnabile in qualsiasi tribunale del mondo. Si racconta, nelle “cronache” dell’Antico testamento che il “dio” Jahvè (che si trova riportato in altri testi come Jahwe, Yahweh, Yahveh… poi vedremo chi sia questo “dio” perché non lo è affatto, ma nella traduzione “manipolata” diffusa dalla Chiesa è stato tradotto come Dio) non può obbligare Mosè a seguirlo nel cammino per la Terra Promessa (una conquista quindi, con la necessità di un piccolo esercito?). Jahvé infatti non è “Dio”, ma è precisamente descritto come un ALTO E POTENTE “Eloah” (da cui poi deriva il termine Allah).  È quindi UNO DEI TANTI Elohìm (plurale di Eloah), la stirpe che governava quei territori, forse discendente da un altro pianeta (molto probabile, da verificare, ma non è essenziale per noi adesso…). Una civiltà rappresentata da una gerarchia di individui di cui la Bibbia ci dà conto quando distingue Elohìm, Malachìm, Nefilìm, Anakìm, Refaìm, Emìm, Zamzummìm… Individui che si sono divisi il controllo del pianeta, come ci narrano il Libro della Genesi ed il Deuteronomio, combattendo tra di loro per affermare ed incrementare il loro potere utilizzando i popoli sottomessi. Sta di fatto che di questi Elohìm ce n’erano tantissimi, appunto, sparpagliati sulla Terra e organizzati in accampamenti (formati da due settori in genere, uno per l’autorità, l’Eloah, e l’altro per le “truppe”…angeli fiammeggianti e dotati di spada?). N.d.r – Conferma esatta di queste cronache si trovano anche nei testi sumerici antecedenti alla Bibbia stessa. Questo Jahvè, anche se dotato di un arma potentissima, che dalla dettagliatissima descrizione biblica sembrerebbe un’arma al plasma (Arca dell’Alleanza?), capace d’incenerire ogni cosa, non poteva comunque obbligare Mosè a seguirlo. Fu costretto perciò a stipulare “un’alleanza” con il popolo ebraico, con delle regole e delle clausole precise reciproche (io ti dò tanto, tu mi ridai tanto), tra le quali il sacrificio del primogenito di ogni coppia ecc… di cui ormai sappiamo bene la “versione” che è arrivata fino ai nostri giorni. Sempre nella Bibbia si racconta che quando decisero quindi di seguire Jahvè e furono condotti alle porte della Terra Promessa, si riunirono in assemblea per decidere se continuare a seguirlo o meno, o se ritornare sotto i vecchi Elohìm, o se affidarsi ai nuovi Elohìm che comandavano in questa nuova terra in cui erano arrivati. Questo era l’o.d.g dell’assemblea. Così, ancora una volta col loro libero arbitrio decidono di seguire Jahvè, che con la sua potentissima arma scatena la carneficina e distrugge tutte le città che incontrano nel loro cammino, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini (tra le quali Sodoma e Gomorra… e ci sono aneddoti significativi sulla “scelta dei giusti” da salvare dalla distruzione da parte di Jahvè e l’origine della circoncisione, oltre al mito negativo della sodomizzazione praticata in quelle regioni). Tutta questa lunga premessa, apparentemente divagatoria, oltre a segnalare una lettura diversa della Bibbia e quindi delle nostre origini e della storia dell’Umanità, serve per definire meglio la necessità del Potere di avere il consenso, perché possa perdurare e agire. Ma serve soprattutto per porre le basi del primo legame indissolubile, come dicevo, tra la legge del Libero Arbitrio, la religione, la politica, il Codice di Diritto Mercantile Marittimo, il denaro e quel che viviamo oggi. Ovviamente, come ogni regola e legge ha le proprie eccezioni, che in questo caso sono i massimi livelli di “disonore” che l’umanità ha raggiunto nel disattendere la legge del Libero Arbitrio:

– la riduzione in schiavitù degli africani, in secoli abbastanza recenti, perché non hanno ricevuto il beneficio di essere avvisati e quindi di scegliere che reazione avere (che è alla base di questa legge, come abbiamo detto);

– senza andare troppo lontano, la strategia della tensione, qui in Italia, negli anni di piombo, perché le stragi sono state fatte in modo totalmente disonorevole.

Ma questo è il comportamento più autodistruttivo e meno sostenibile che il potere possa compiere e l’élite lo sa benissimo. Perché perfino il peggiore dei satanisti massoni, che si appresta ad effettuare un sacrificio umano – la cosa più aberrante a cui noi umani comuni possiamo pensare – è obbligato a seguire queste regole e quindi a scegliere la prima vittima che si offre volontariamente, spinta da un’inspiegabile attrazione. Oppure, un esercito che sta per invadere una nazione straniera è obbligato a dare un avvertimento allo Stato che sta per mettere a ferro e fuoco, spiegando tutte le proprie richieste. Il governo dello Stato assediato ha il libero arbitrio di rispondere sì o no. Orribile o meno, c’è stato comunque un preavviso, quindi l’onore è stato mantenuto. Abbiate pazienza, non stiamo divagando, tutto serve per arrivare al punto focale, perché comprendere l’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita. Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché Jahvè aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare. Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli? Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”; se non mi rispondi vuol dire che sei d’accordo e quindi peggio per te. Facciamo un esempio banale che capita a tutti noi: quando la banca cambia le condizioni e lo fa spessissimo, è obbligata a mandarti un documento di trasparenza bancaria – avvertimento – che credo pochissimi di noi leggano (purtroppo!). Se tu non rispondi è silenzio assenso. Tutta la storia del nostro mondo da millenni funziona secondo questo principio.

LE LEGGI CANONICHE E LE BOLLE PAPALI. Per capire come funziona questo principio, che regola la nostra intera vita abbiamo bisogno di fare ulteriori premesse. Cosa sono le leggi? Tutte le leggi derivano da Canoni, ovvero dal Diritto Canonico, perché tutte le leggi, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la Legge Divina ed Ecclesiastica. Ma i Canoni in particolare sono norme o principi che traggono valore dal fatto di non essere mai stati contestati (tacito assenso). Ecco alcuni canoni, norme o principi, universalmente riconosciuti, perché nessuno ha mai detto che non lo debbano essere (molti sono per altro condivisibili perché sono alla base della civile convivenza).

1) tutti debiti devono essere pagati;

2) tutti i contratti devono essere onorati;

3) tutte le controversie portate di fronte alla legge, devono essere risolte di fronte alla legge (ovvero, se tu ricevi un’accusa, per quanto infondata, per quanto ingiusta, per quanto immorale, per quanto illegale non puoi ignorarla. E tuo l’onere di dimostrare l’infondatezza di quella accusa davanti alla legge di fronte alla quale è stata portata);

4) qualsiasi affermazione, se non viene contestata diventa valida. (Importantissimo punto! Ricevi una multa, una sanzione ingiusta, viene fissata un’udienza e tu non ti presenti, cavoli tuoi, sarà chi di dovere a decidere per te e senza di te).

• Nota al punto 4): il 99% delle procedure giudiziarie si basa sulla presupposizione di qualcosa, ma il 99% degli esseri umani non si preoccupa di comprendere quali siano queste presupposizioni, o non si preoccupa di rifiutarle. In altre parole il Sistema è ancora adesso basato sul sacramento della confessione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione, cioè è indispensabile che tu accusi te stesso. In mancanza di questo atto di auto accusa non si può procedere. Il Diritto è gerarchico, discende sempre e comunque dal Diritto Divino: sopra a tutto c’è il Diritto Divino che, come tale, discende dal Divino Creatore, poi c’è il Diritto Naturale e poi il Diritto Positivo (leggi nazionali, internazionali, amministrative, private ecc…), il Diritto Positivo appartiene al gradino più basso nella scala gerarchica.

• Nota al punto 5): ogni proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, cioè ad un sistema fiduciario. I potenti, l’élite mondiale, sanno da sempre che la proprietà è un concetto fittizio. Infatti come puoi possedere un pezzo di terra?

La terra, i fiumi, i laghi, i mari appartengono al Pianeta. Ma anche una casa; come puoi fisicamente possedere una casa o un’automobile? Sono tutte cose per cui esistono “titoli di proprietà” e sono titoli fittizi, costituiscono cioè diritto d’uso della casa, dell’automobile e della terra finché sei vivo. Quando sarai morto, cosa succederà a quella casa, a quell’automobile o a quel pezzo di terra, se non esistono disposizioni testamentarie, non dipende più da te. Così la casa, intesa come muri, mattoni e intonaco e la casa intesa come titolo e cioè come trust, o come sistema fiduciario, sono quindi DUE COSE BEN DIVERSE. Il sistema fiduciario, il titolo, prevede tre parti in gioco: un esecutore, un amministratore e un beneficiario. L’esecutore è sempre quello che “concede il titolo” e in questo caso è sempre lo Stato, l’amministratore è quello che amministra il titolo (catasto o Comune), il beneficiario, in questo caso sei tu, cioè il cosiddetto “proprietario” di quel bene. Fin qui tutto più o meno normale, è tutto chiaro e non c’è nulla di strano; rimane da capire se e come, questo sistema, venga usato contro di noi. Facciamo un enorme passo indietro nel tempo. L’attuale sistema, che è basato sul concetto di proprietà, è stato creato dagli antichi romani, i quali hanno disseminato il loro “diritto” in giro per il mondo e sappiamo come (è un karma pesantissimo che noi “italici” dobbiamo espiare nei confronti di tutto il mondo). Ogni terra conquistata e distrutta veniva iscritta in un “registro” conservato a Roma e ogni nuova terra dell’Impero poteva essere di proprietà solo di un cittadino romano.  Ancora oggi quindi noi viviamo in un sistema che si tramanda dall’esistenza dell’Impero Romano che di fatto, non è mai finito.  Con le invasioni longobarde, Papa Leone III, incorona Pipino il Breve come Re dei Franchi e poi Carlo Magno come Imperatore del Sacro Romano Impero. Quindi il sistema che abbiamo oggi nell’organizzazione della proprietà e del diritto e quindi del denaro e quindi della politica, nasce nel 1302 (il 18 novembre), che è la data della pubblicazione della Bolla Papale scritta da Papa Bonifacio VIII, che aveva come titolo “UNAM SANCTAM ECCLESIAM”. Bonifacio VIII è considerato uno degli uomini più corrotti, malvagi e potenti della storia della Chiesa e del mondo, tanto che lo stesso Dante lo mette nei gironi più bassi dell’Inferno. Questa Bolla Papale determina il primo sistema fiduciario ancora valido oggi. Bonifacio VIII, in questa Bolla, afferma che Dio aveva affidato tutti i titoli e le proprietà della Terra al Vaticano. Questa affermazione non venne mai contestata e quindi, in base al punto 4) del Canone di Diritto (vedi sopra) divenne valida. Il Vaticano perciò, nomina l’esecutore, l’amministratore e il beneficiario di questo sistema fiduciario. L’Esecutore è l’Ordine Minore dei Francescani unito con L’Ordine dei Gesuiti (braccio armato?) ed è ben visibile nello stemma sulla pubblicazione dell’enciclica. L’amministratore è il Papa e i beneficiari di questo trust sono tutti gli uomini del mondo. In pratica e tradotto in altri termini, la Bolla Papale del 1302 usa la metafora del Diritto Marittimo e dell’Ammiragliato (Bibbia) affermando che l’Unam Sanctam Ecclesiam e quindi la Prima e Unica Santa Chiesa è l’Arca di Noè, perché mentre tutto il mondo era sommerso dalle acque, l’unica cosa che si elevava al di sopra era l’Arca. Quindi tutti gli esseri umani, a partire da quel giorno, certificato dalla Bibbia come Codice di Diritto Nautico, sono dispersi in mare. E il Papa dunque reclama tutta l’autorità, tutta la proprietà, sia spirituale che temporale, fino a quando i “dispersi” torneranno a reclamare i loro diritti. Cosa che finora, dal 1302, non è mai avvenuta, perché tutte le Nazioni si basano su quel sistema giuridico. Questo Diritto proclamato da Papa Bonifacio VIII si basa per Diritto Divino, ecco perché non possiamo parlare di politica senza parlare di religione o di economia e finanza senza parlare di religione. Il secondo trust, creato sempre in Vaticano, risale al 1455, cioè circa 150 dopo la Bolla di Bonifacio VIII (quindi ancora mai contestata dopo 150 anni). Questa seconda Bolla è di natura testamentaria, cioè il Papa dispone, al momento della sua morte e della morte dei futuri Papi, come deve funzionare il diritto d’uso di tutti i privilegi e di tutte le proprietà derivanti dalla Bolla precedente di Bonifacio VIII. Testamento di cui l’esecutore è la Curia Romana, l’amministratore è il Collegio dei Cardinali e il Beneficiario, questa volta è il Re, sulla terra di proprietà del Papa. Quindi in due parole Dio ha dato tutto il mondo al Papa e il Papa concede pezzi di questo mondo ai Re. Per cui da quel momento i Re del mondo hanno un mandato divino. Questa enciclica del 1455 (l’8 gennaio) si chiama “ROMANUS PONTIFEX” e fu emanata da Papa Niccolò V. Cito un breve estratto significativo: “Poiché abbiamo concesso precedentemente, con altre lettere nostre, fra le altre cose, piena e completa facoltà al Re Alfonso V di invadere, ricercare, catturare, conquistare, soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni e ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile e immobile, che sia di loro proprietà e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione, il Re Alfonso V (di Portogallo n.d.r), o il detto infante a suo nome, hanno legittimamente e legalmente occupato isole, terre, porti , acque e le hanno possedute e le posseggono e ad essi appartengono e sono di proprietà “de jure” del medesimo Re Alfonso V e dei suoi successori, possono compiere e compiano questa pia e bellissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi essendo da essa favoriti per la salvezza delle anime e il diffondersi della fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito che concerne Dio stesso, la sua fede, la Chiesa Universale, con tanta maggiore perfezione, in quanto rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di essere fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica.” Appena 30 anni dopo circa, nel 1481 (il 21 giugno), viene emanata la terza Bolla, il terzo trust, o diritto fiduciario da Papa Sisto IV, chiamata “AETERNIS REGIS CLEMENTIA”, che si diversifica dalla Bolla precedente di poco, in quanto il “bene” concesso ai Re non è più la terra, ma sono gli esseri umani che abitano quella terra, che da quel momento vengono considerati incompetenti, incapaci e dunque soggetti ad amministrazione coatta. In realtà questa Bolla di Sisto IV realizza la visione illuminata di Bonifacio VIII per cui gli esseri umani sono dispersi in mare e quindi nulla ci appartiene, siamo in bancarotta, perché non siamo mai tornati a reclamare i nostri averi e diritti e quindi è lo Stato che si deve prendere cura di noi per il nostro bene. Questo è il sistema in vigore ancora oggi. [piccola postilla: gli originali delle Bolle del 1302, del 1455 e del 1481, non sono visibili, questo perché fino al XVIII secolo, il Vaticano scriveva le proprie Bolle non su carta, considerata un mezzo privo di vita e quindi privo di valore: a quei tempi (solo due secoli fa!) un documento per essere valido doveva essere scritto su un materiale vivente. Era perciò firmato con il sangue ed era scritto su una pergamena di pelle umana. Parentesi nella parentesi: la recentissima firma della Regina Elisabetta del – criminale! – trattato di Lisbona, è stata fatto su una pergamena di capretto, poiché la Regina, come beneficiaria di un diritto divino, non può firmare un documento “morto”. Non è tutto, la storia notifica, che le Bolle Papali erano scritte su pergamene di pelle di bambini, questo spiegherebbe perché sarebbe imbarazzante per il Vaticano mostrare gli originali.] Approfitto di questa piccola interruzione del racconto per sottolineare che non c’è nessun riferimento negativo a tutte le persone di Buon Cuore (con la B e C maiuscole!) che seguono e vivono secondo l’etica giusta e generosa della Chiesa Cattolica. Il riferimento semmai è solo rivolto a quella “setta” che gestisce il mondo all’interno della Città del Vaticano. E sarebbe importante invitare i Veri Cristiani che si riconoscono in un Dio giusto e misericordioso, a pretendere, indagare e far luce su quello che avviene all’interno di quelle mura. Altrimenti, davvero, non ne usciremo mai!

COSA SIAMO NOI E COSA È LA REPUBBLICA ITALIANA. Nel  1933 c’è stata la peggiore bancarotta concordata, ormai famigerata: furono azzerati i debiti e fu anche proibito il possesso dell’oro da parte dei privati (vi ricordate “l’oro alla patria”?) e gli Stati hanno conferito tutto il proprio oro, insieme a quello confiscato e raccolto, in un unico fondo globale, per custodire il quale è stata fondata la BIS, Bank for International Settlements (Banca per le Transazioni Internazionali) — che darà il via ad un’altra sconcertante storia, come il Sukarno Trust e le denunce attualissime tuttora in corso alla Federal Reserve, (ma ora non è il caso di parlarne, altrimenti rischiamo di mettere troppa carne al fuoco) — che ha sede a Basilea, in Svizzera e fu fondata e controllata dai Gesuiti e dai Cavalieri di Malta. Come per tutto il resto, è facilmente verificabile e certificato, sempre per la legge del Libero Arbitrio. Vi esorto a fare tutte le verifiche possibili e se vi va anche a fare ricerche su quel che sta succedendo con il fondo di oro globale e le richieste di risarcimento alla Federal Reserve. Ma, sempre nel 1933 (udite, udite!) le Nazioni diventano Società di Diritto Privato, registrate presso la SEC (Security Exchange Commission) con sede a Washington D.C., che è l’equivalente della nostra CONSOB (organismo che controlla la Borsa). Queste Società di Diritto Privato chiamate Nazioni, apparentemente pubbliche e repubbliche, ma in realtà privatissime, in base alle tre Bolle Papali, possiedono oggi il DIRITTO DI PROPRIETÁ sulle persone nate in quello stato. La prima istintiva reazione è: non l’Italia! Che è una Repubblica fondata sul lavoro e che ha la sua meravigliosa Costituzione! Purtroppo invece è vero. Andate a controllare voi stessi (cliccate qui → www.sec.gov): c’è la registrazione e il numero di registrazione di “ITALY REPUBLIC OF” – Company Registration Number 0000052782, con tanto di documenti di quotazioni di borsa, cessioni di quote ecc…Il “Business Address è: “Ministero dell’Economia e delle Finanze – Via XX Settembre, 97 – Roma” e il mailing Address è: “C/O Studio Legale Bisconti, Via A. Salandra, 18 – Roma”. Quindi l’Italia NON è una Repubblica libera e pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone (noi tutti) nate sul suo territorio. Ma abbiamo detto che la proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, un atto fiduciario. Perché i potenti sanno che la proprietà è un concetto fittizio e quindi anche le persone puoi possederle solo con un titolo di proprietà che conferisca il diritto d’uso. Al momento della tua nascita, senza avvisarti, è stato creato un trust, cioè un sistema fiduciario, che ha per oggetto la tua esistenza in vita. E i tuoi genitori hanno avvallato e firmato questo trust (io ho tre figli e mi sento morire per averlo fatto tre volte!) senza essere stati avvisati. Infatti è proprio negli anni ’30 che diventa obbligatorio, guarda caso, registrare le nascite, appropriandosi così del consenso, anche se in questo caso senza essere stati doverosamente “avvisati”. Ecco perché questo sistema è, in parte, fraudolento. In realtà il Certificato di Nascita è un avvertimento, perché è la costituzione di una personalità fittizia, che non appartiene a te, ma a loro. Infatti se erroneamente si potesse pensare che il Certificato di Nascita appartenga a noi, basterebbe provare ad andare in una qualsiasi anagrafe di competenza a chiederne l’originale: possiamo averne una copia, un estratto, ma MAI l’originale. Come a dire che dal momento della creazione del Certificato di Nascita esistono due entità (ricordate la casa di mattoni e il titolo di proprietà su quella casa che ha bisogno di un esecutore, di un amministratore e di un beneficiario?), che sono l’essere umano in carne ed ossa e la persona, cioè un intermediario fittizio o una finzione giuridica, quindi un trust. Questo trust è creato secondo le Leggi Marittime e dell’Ammiragliato (Bibbia) che trascendono sempre le leggi delle varie nazioni e che è la giurisprudenza segreta dei potenti e dell’élite. Di questo trust che viene creato al momento della nascita, sulla tua esistenza in vita, l’esecutore è sempre un organo dello Stato, ma chi è il beneficiario di questo certificato di nascita?  È la Società di Diritto Privato chiamata Repubblica Italiana (un’azienda quindi). Ma beneficiario di cosa? È beneficiario di un bond, di un titolo di possesso, o di una quota societaria che attualmente viene stimato approssimativamente intorno ai 2 milioni di dollari. In pratica lo Stato Italiano crea alla tua nascita due milioni di dollari a mezzo di un bond o titolo e il collaterale di questo bond è la tua esistenza in vita, che significa: produttività, forza lavoro (sempre meno pagata e tutelata così ci guadagnano di più), valore reale! L’equivalenza perversa è: nascita = creazione di un bond e di denaro fittizio = collaterale la tua esistenza in vita e quindi il tuo futuro lavoro (pagato pochissimo se possibile e come stanno evidentemente facendo) = schiavitù! Il “tuo bond” è depositato alla S.E.C, come security, o titolo fiduciario ed entra a far parte del patrimonio di quella Private Company registrata in modo ingannevole come Repubblica Italiana. Per favore verificate tutto ciò che vi è stato detto, bastano pochi secondi su Google. Ma manca ancora la terza parte per dar vita a questa finzione giuridica: l’amministratore, quello che per contratto (trust o certificato di nascita in questo caso) si accolla l’obbligo di prendersi cura del “bene”. Chi è che ha questo ruolo? Ogni qual volta, qualsiasi autorità (dal vigile urbano, al giudice della Corte Costituzionale) ti domanda “è lei Pinco Pallino?” e tu rispondi “sì”, in quel preciso momento ti sei autonominato amministratore di quel trust.  Sei quindi caduto nel tranello in cui ti hanno messo fin dalla nascita, perché nella finzione hanno bisogno che tu ti creda l’amministratore di quella “esistenza in vita”, nella realtà invece, tu e quel trust che porta il tuo nome siete due entità completamente distinte e separate.  L’essere umano in carne ed ossa si scrive con le iniziali maiuscole e le altre lettere minuscole (come ci hanno sempre insegnato anche a scuola), la persona giuridica invece, fittizia, si scrive con tutte le LETTERE MAIUSCOLE. Controllate tutti i vostri documenti d’identità, le comunicazioni bancarie, le notifiche erariali, il tesserino sanitario ecc…Se provaste ad andare per esempio in banca e chiedeste all’impiegato di scrivere il vostro nome con le iniziali maiuscole e il resto minuscolo, se è un ignorantone ci proverà, ma sarà costretto a rispondervi che è impossibile perché il “sistema” non lo permette.  Quindi, ricapitolando: se il 99% del diritto è basato sulla presupposizione, si presuppone che qualcosa sia vero e nessuno mette in discussione quella presupposizione perché il sistema è ancora basato sul meccanismo della “confessione”, esattamente come ai tempi dell’Inquisizione; per funzionare il sistema ha bisogno che tu accusi te stesso e quindi tutto è basato sul tuo consenso, sul tuo libero arbitrio! È necessario infatti che tu accusi te stesso, ma di cosa? Del “peccato originale”. E che cos’è? La frode! L’utilizzo del nome che non ti appartiene, quel nome che da quando sei nato è stato scritto a lettere maiuscole e che è una proprietà intellettuale dello Stato, che ti ha messo in condizioni di usare fraudolentemente. Nel momento in cui lo usi dichiari: che sei nato privo di diritti, che sei in bancarotta, perché la tua vita, il tuo nome e la tua esistenza sono gestiti da altri che non sei tu; sei, perciò, da quando sei nato, in un regime di amministrazione controllata, dove il tuo nome non appartiene a te ma ad altri. Ma è ancora peggio di così! Secondo il Codice dell’Ammiragliato, o Codice Marittimo (Bibbia), sei nato disperso in mare, perché questo dicono le Bolle Papali, sulle quali si basa tutto il sistema; tu, al momento della nascita e attraverso il canale uterino, sei caduto in acqua e sei disperso in mare e non sei mai riuscito a raggiungere la terra ferma, in modo da poterti alzare in piedi e affermare “io sono un essere umano libero davanti a Dio”. Poiché le Bolle Papali si giustificano secondo mandato divino. Perché sono loro che usano la parola Dio, sono loro che hanno chiamato in causa Dio, sono loro che hanno tradotto la Bibbia con il termine Dio, che originariamente non viene mai citato (a proposito la Bibbia diventa Codice di Diritto Nautico sostituendo la parola “peccato” con “debito” n.d.r).  Il diritto quindi è sempre di provenienza divina, noi siamo perciò creature “divine” (vedi. vera traduzione della Bibbia) e loro lo sanno benissimo; non possono quindi creare un diritto fittizio, hanno assoluto bisogno di far discendere il loro diritto da Dio. Quindi loro usano questo Dio (diritto) e se tu usi il loro stesso Dio, ti sei autodefinito incapace, disperso, senza diritti. Pensate la perversione, se tu utilizzi quello che loro ti hanno detto, imposto di utilizzare, dichiari e confermi di essere incapace di prenderti cura di te stesso. Quindi, ricapitoliamo: usano una Società di Diritto Privato, quotata, fingono che sia uno Stato, un ente pubblico, in realtà è privatissimo, e lo usano per fare business (quattrini, denaro, profitto! E ci chiedono anche di pagare le tasse per mantenere una Società di Diritto Privato che non è nostra!) attraverso la tua esistenza, oggetto di quell’entità fittizia scritta tutta a lettere maiuscole, quotata alla S.E.C. di Washington D.C. Il concetto è, quindi, che se tu accetti questo presupposto, ti autodefinisci incapace, bisognoso di essere amministrato in modo coatto, perché oltre ad essere disperso in mare, quindi senza diritti e in bancarotta (non hai mai reclamato ciò che è tuo), non sai neanche chi sei! Per assurdo, ogni autorità, infatti, deve chiederti chi sei, altrimenti non ti può toccare nemmeno con un dito. Non avrebbe la giurisdizione per farlo (si parla di diritto amministrativo, tributario, civile ecc… se uccidi qualcuno, quindi codice penale, è un po’ diverso, ma non troppo…). I nostri tribunali infatti sono tribunali di diritto privato, quindi tribunali aziendali! Stessa cosa vale per il denaro, le banconote “euro”: siamo stati avvertiti, sopra c’è scritto “proprietà della Banca Centrale Europea”, non è nostro è della BCE, ma se noi accettiamo di usarlo, come per il nome fittizio, ci autoproclamiamo incapaci e incompetenti ai loro occhi (disperso in mare, ecc…). Hanno creato quindi un sistema di governo chiamato Cosa Pubblica, che invece è privatissima, che include partiti, Parlamento, Governo, elezioni e se tu accetti di partecipare a questo gioco ti autodefinisci di nuovo incapace e incompetente (disperso in mare, ecc…), bisognoso di amministrazione coatta.  A fronte di questo lungo e, immagino sconvolgente racconto per molti di voi, la prima riflessione è: Come facciamo a cambiare in meglio una cosa che non ci appartiene affatto? Ma del resto il nostro inconscio ce lo dice, nelle ultime amministrative ha votato il 50% degli aventi diritto; una persona su due considera offensivo per la propria intelligenza andare a votare. Quindi a questo punto, se è tutto chiaro, gli interrogativi sono solo due:

1. Cosa possiamo fare per sottrarre il nostro consenso a questa frode che ci vede protagonisti “involontari” fin da quando siamo nati? “Cosa possiamo fare” comprende il salvare il salvabile, dai pignoramenti per esempio, da Equitalia, perché non siamo noi, persona fisica in carne ed ossa a dover pagare le tasse, ma è l’entità fittizia che noi legittimiamo nel momento che la usiamo fraudolentemente (lettere maiuscole). Quindi, in modo individuale possiamo utilizzare noi le loro stesse leggi, Codice Nautico e dell’Ammiragliato (Bibbia) in maniera tale che siano loro a cadere in disonore? Conoscendo la legge possiamo fare qualcosa?

2. Cosa possiamo fare invece collettivamente per creare un’alternativa a questo sistema marcio, fraudolento che è stato creato a loro favore a nostro totale sfavore? Come possiamo modificarlo se non ci appartiene? Intanto, mentre ci pensiamo, possiamo soltanto smettere di partecipare. Concludendo, i nodi cruciali sono due: il denaro e come si prendono le decisioni, che è sinonimo di politica. Ma c’è un punto in più che è diventato chiarissimo: non si possono trattare separatamente denaro (economia, finanza, crisi ecc…), la politica, cioè il modo in cui si prendono le decisioni, la religione e il diritto, perché per i potenti, l’élite, sono la stessa identica cosa.

INDIANI D’AMERICA: “NOI NON DERIVIAMO DALLE SCIMMIE, MA DALLE PLEIADI…” Articolo di Bisonte Che Corre (Enzo Braschi) su “Il Mondo alla rovescia” del 31 maggio, 2016. Gli Indiani e la Conoscenza perduta sulle origini dell’uomo a causa dei colonizzatori criminali europei. I Cherokee (Ani Yonwiyah) ovvero “Il popolo capo” è antico come le pietre. “Ne ho conosciuti alcuni – biondi e con gli occhi azzurri – durante la "Danza del Sole" del 1998, nella Riserva dei Lakota Sicangu di Rosebud, in Sud Dakota. Erano un padre e due figli”. “Sembrate inglesi, scozzesi, non so… ” dissi, “ma non Cherokee”. I tre risero: “Veniamo da Atlantide, e prima ancora dalle Pleiadi.” “Raccontami” dissi. Il ragazzo spiegò: “La nostra lingua, la sua radice originaria, oggi parlata da un’esigua minoranza di ultra ottantenni, si chiama Elati. Io non la so parlare, qualcuno ancora la ricorda, ma contiamo quel qualcuno sulla punta delle dita. Si tratta di suoni crescenti e decrescenti che vengono pronunciati senza quasi muovere la bocca. Ciò che ne scaturisce possiede una bellezza e una musicalità del tutto particolari, considerato che si tratta di una lingua gutturale”. “Più che di parole si deve parlare di suoni di potere che racchiudono una forte energia spirituale. Per i Cherokee parlare significa infatti essere più che comunicare. Questa lingua, Elati, è detto "il linguaggio degli Antenati" o "il linguaggio delle Stelle", un modo di esprimersi che i vecchi uomini sacri della nostra gente consideravano provenire da lassù, dall’alto. La tradizione orale della tribù puntualizza infatti che i Cherokee arrivarono sulla Terra 250.000 anni fa dalle Pleiadi, che nella nostra antica lingua vuole dire per l’appunto Antenati.” “A tal proposito vorrei precisare che l’uomo non discende affatto dalla scimmia ma dal Popolo delle Stelle. Nella cosmologia cherokee, la Terra è detta il Pianeta dei Bambini, ovvero il Pianeta dei Figli delle Stelle.” “Il sapere della nostra antica Società dei Capelli Intrecciati ha inizio al tempo in cui esistevano dodici pianeti abitati da esseri umani, i cui progenitori si riunivano su un pianeta chiamato Osiriaconwiya, vale a dire il quarto pianeta della costellazione del Cane Maggiore, cioè Sirio. Su quel pianeta grandi sapienti si trovarono un giorno a discutere delle sorti dell’Ava Terra, la nostra terra, detta in lingua cherokee Eheytoma, il pianeta dei figli, ovvero il tredicesimo pianeta”. “Poiché il nostro mondo era il meno evoluto rispetto agli altri, quei dotti stabilirono di trasferire tutta la loro conoscenza all’interno di dodici teschi di cristallo, che chiamarono Arca di Osiriaconwiya, che portarono sulla nostra Terra, affinché un giorno potessimo consultarli e sapere tutto delle nostre vere origini”. “I nostri avi fecero di più: aiutarono infatti i loro figli a fondare quattro civiltà: Lemuria, Mu, Mieyhun e Atlantide, servendosi della conoscenza dei teschi, per dare avvio alle grandi scuole del mistero, veri centri di sapienza arcana, e alle segrete società di medicina.” “Queste informazioni giunsero circa 750.000 anni fa e cominciarono a diffondersi sul nostro pianeta tra i 250 e i 300.000 anni fa. I dodici teschi corrispondenti ai dodici pianeti, venivano sistemati in cerchio attorno a un tredicesimo teschio di ametista di dimensioni più grandi, che raccoglieva la consapevolezza collettiva di tutti quei mondi”. Ma poi…arrivarono Cortès e i suoi assassini (i nostri antenati europei) che interruppero lo sviluppo della conoscenza. “Coloro che furono incaricati di compiere il viaggio sulla Terra per farci dono dei teschi di cristallo furono detti Olmechi. Questi passarono quella conoscenza ai Maya, quindi agli Aztechi e infine ai Cheorkee e a tutti gli altri indiani del Nord America. Pare che l’Arca si trovasse ancora a Teotihuacan, allorché arrivarono Cortès e i suoi assassini che interruppero lo sviluppo della conoscenza” concluse il Cherokee. La cosa non sembra essere priva di fondamento: risulta infatti che Cortès venne a conoscenza di qualcosa di potentemente misterioso e che arrivò quasi a impossessarsi dell’Arca, grazie all’aiuto di un traditore; ma i sacerdoti giaguaro e i guerrieri aquila riuscirono a trarla in salvo. Alcuni teschi di cristallo vennero nascosti in America Meridionale, altri andarono dispersi nel mondo. La Terra attenderebbe che la conoscenza sia finalmente svelata al genere umano attraverso la riunione dei tredici teschi di cristallo. Secondo i Lakota Sioux, la Prima Sacra Pipa fu portata loro in tempo remoto da Ptesan Win, “Donna Bisonte Bianco”, una donna proveniente dal cielo, probabilmente dalle Pleaidi. Tayamni è il nome che i Lakota danno a una costellazione che equivale a un bisonte bianco nel cielo. Tayamni è infatti formato dalle Pleiadi come testa, le tre stelle della cintura di Orione come spina dorsale, le stelle Betelgeuse e Rigel come costole, e Sirio come coda. Unendo tutti questi punti, in cielo si forma l’immagine di un bianco bisonte…Miti, favole. Miti e favole come sempre, vero? Ma certo. A proposito di “fantascienza”… perché non vi riguardate l’ultimo film di Indiana Jones relativo ai tredici teschi di cristallo? Fantasia, miti e favole come sempre. Ma la NASA e il potere occulto amano la fantascienza, vi pare?

Un Mondo Impossibile ..."“Contra factum non valet argumentum”. Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. In questo blog si vuole commentare ed analizzare l'attualità e la storia ma sopratutto scoprire ed evidenziare le ipocrisie, le falsità ed i soprusi di questo mondo appunto ormai impossibile da vivere, scrive martedì 19 gennaio 2016 Arturo Navone su  “Un Mondo Impossibile”. “La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi”. Honorè de Balzac. Propaganda, Stereotipi e Lavaggio del Cervello, l'Allontanamento dalla Soluzione e come Ritrovarla. Carl Gustav Jung e gli Indiani d'america ... Il delirante percorso della civiltà occidentale e dell'uomo bianco come è noto ha causato danni incalcolabili, dove sempre per interessi reconditi ma sempre più chiari ci viene raccontato che siamo vicini al punto di non ritorno che nulla si può fare. E' un chiaro esempio di propaganda e lavaggio del cervello, che ho già evidenziato in altri articoli, studiato a tavolino che aggiunto a degli stereotipi fa il gioco di chi ora lasciamo comandare. Un esempio ne sono proprio i pellerossa che ci han voluto far credere essere dei demoni quando invece lo eravamo noi, è il nostro mondo, quello che è nero lo dipingono per bianco e viceversa, con l'uso poi dei vari sistemi ormai fin troppo conosciuti, cinema, televisione, media, opinionisti, influencer, pubblicità e messaggi subliminali ti incatenano la menzogna alla coscienza, ne viene poi difficile venirne fuori, ci sono degli esempi incredibili, filmati dove le vittime sono poi finite ad essere i carnefici, le montagne di morti non hanno la targa di circolazione, poi l'ha detto "la televisione", le immagini dei cadaveri del popolo X uccisi da Y li han rappresentati come morti di Z et voilà X erano i criminali e Y e Z santi e martiri, poi un X si vede in un documentario rieducativo in un posto che nemmeno sapeva esistesse perchè in effetti così come era stato rappresentato non esisteva, non stò nemmeno a dire i protagonisti è fin troppo evidente per chi ha occhi, orecchie e soprattutto cervello .... pochi ma così è la vita. Questo scritto era iniziato con un altro intento poi cammin facendo si è evoluto, andremo a vedere come quelli che crediamo "barbari" non lo siano affatto e che la soluzione l'hanno sempre culturalmente avuta, abbiamo cercato di distruggerli ma ora gioco forza cerchiamo di recuperare ciò che è l'unica salvezza ...Il noto psicologo Carl Gustav Jung, nel suo scritto Ricordi, sogni, riflessioni racconta di un suo incontro con un capo pellerossa Taos Pueblos mentre era alla ricerca della propria ombra. La conversazione che ne seguì è significativa per comprendere i nostri condizionamenti culturali. «Vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi». Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che l’uomo bianco fosse pazzo. E l’indiano gli rispose, mostrando tutta la sua meraviglia: «Dicono di pensare con la testa!». «Ma certamente pensano con la testa! – disse Jung - E tu, con cosa pensi?». E lui: «Noi pensiamo qui!», disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: «Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi»."il mondo dell'Uomo bianco è Koyaanisqatsi, un Mondo Disarmonico, privo di equilibrio, un Mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d'America può arrecare giovamento, affinchè l'Uomo Bianco possa vivere le stagioni.....nel cuore della vita...in armonia con sè stesso e la Natura!!!!!" Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda. Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza. Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande oceano d’erba, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tepee), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. I Cherokee praticavano l’agricoltura. Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi. Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. Noi le apparteniamo. Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale. Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza. La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo. L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia. Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore: «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla. Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore». Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. Hanno parlato con il cuore, di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta. Anche con queste parole: Accanto alla montagna, spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci. Noi, per seguirne il ritmo, dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.

I DIECI COMANDAMENTI INDIANI:

La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora (rispetta) tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Trovo delle straordinarie similitudini con la fisica quantistica e le filosofie orientali, se una cosa la trovi in più culture e studi è inequivocabilmente segno che è la strada giusta, personalmente credo che la grandezza di Jung sia anche provata dalla capacità di aprirsi allo studio delle altre culture, prova ne è che la coscienza collettiva, la sincronicità quindi, è trattata anche nella Bhagavad gītā, testo millenario, sacro indù. L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.

Incontro Occidente-Oriente di Mario Thanavaro. Tratto da “Spiritualità Olistica” (Venexia Editore). “E’ giunto il momento in cui dobbiamo lasciar cadere questa divisione tra esterno e interno, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, tra la mano destra e la mano sinistra. Dobbiamo lasciar perdere questa divisione fra l’uomo e la donna, fra l’Oriente e l’Occidente. Dobbiamo creare un essere umano integro, abile in entrambe le dimensioni”. Osho Rajneesh. Il principio dei vasi comunicanti afferma che quando in un’area si crea il vuoto e in un’altra c’è il pieno, il travaso dal pieno verso il vuoto si produce inevitabilmente. Viviamo oggi in un’epoca straordinaria, il grande progresso tecnologico ci ha dato i mezzi e gli strumenti per spostarci da una parte all’altra del pianeta, permettendoci di entrare in contatto con altre etnie, tradizioni e culture. Tutto il mondo ci entra in casa via satellite grazie al piccolo e al grande schermo e questo ci consente di analizzare la grande diversità tra le varie culture, la diversità della loro organizzazione socio-politica ed economica. Con la scienza e la tecnologia abbiamo assistito al prevalere della secolarizzazione e del modernismo sulle antiche istituzioni religiose, ma lo sviluppo tecnologico ha preso la direzione di uno sconsiderato utilitarismo senza riguardo ai valori e ai diritti umani, accentuando la disparità tra nazioni, popoli e culture. Per quanto la tecnologia ci dia l’impressione di essere vicini l’uno, le leggi di mercato ci impongono il Super Dollaro come sola unità di misura valida nel quantificare il valore di un individuo o di un popolo. La grande famiglia umana è stata inesorabilmente divisa in ricchi e poveri, e i grandi flussi migratori, oggi come in passato, sono la risposta spontanea della natura che tende al riequilibrio. Il problema demografico ed economico spinge i Paesi più poveri verso l’Occidente, il quale, da sempre in contatto con altre civiltà, prima con i grandi viaggi e scoperte poi con il colonialismo, ha fatto delle fortune degli altri Paesi la sua fonte di ricchezza. Il primo contatto con l’Oriente risale al principio dell’800 e avviene sul piano ideologico dell’intellettualismo filosofico e religioso. A quel periodo risalgono le prime traduzioni degli antichi testi sacri dell’India, i Veda, le Upanishad e il canone buddhista. Già da quei primi approcci risultò evidente la grandezza del messaggio spirituale dell’Oriente, per molti versi incomprensibile agli occidentali, tanto che gli Inglesi, dopo un secolo di dominazione coloniale, dovettero ammettere di non aver capito il modo di pensare degli indiani. L’Inghilterra spinse le sue colonizzazioni fino in Cina, in Birmania e nel lontano Tibet. Il Museo Britannico di Londra conserva molti dei tesori letterari e artistici presi durante quella dominazione. Gli studiosi autentici di quei cimeli ci hanno insegnato a guardare all’Oriente con rispetto e forse in modo un po’ onirico. Il fascino che ancora oggi l’Oriente esercita sulla mente degli occidentali risponde forse a un’esigenza di libertà, sempre più difficile da esperire per l’uomo del XXI secolo, chiuso in una società tecno-virtuale, afflitto da un senso di solitudine e alienazione senza pari. L’avvicinamento delle varie culture presenta degli aspetti molto positivi, ci può indirizzare verso un’apertura di mente e cuore, un dialogo e una comunicazione veramente nuovi se vissuti come scelta consapevole, fino a un cambiamento radicale delle secolari impalcature e strutture concettuali, fino allo movimento di pensieri coscienti e non coscienti secondo il principio dei vasi comunicanti. Tutti possono beneficiare dell’apporto di altre culture e tradizioni. Ci può arricchire in tutti i sensi e contribuire al risveglio di una Nuova Civiltà. Il messaggio dei saggi del Medio ed Estremo Oriente così pure delle antichissime tradizioni sciamaniche (le origini dello sciamanesimo si possono far risalire a circa 30.000 anni fa) può offrire una nuova visione, permettendo di riprendere contatto con le radici spirituali e finalmente uscire dal vicolo cieco. Il riemergere oggi della cultura e filosofia degli indiani d’America sotto la spinta dell’Occidente è indicativo dell’estremo tentativo da parte dell’uomo bianco di ritrovare un collegamento diretto con la Natura. È proprio a causa della separazione dell’uomo bianco dal principio del rispetto della Terra e di ogni essere vivente che ci troviamo di fronte a problemi ecologici enormi, effetto del suo agire sconsiderato. Secondo diversi ricercatori e scienziati, a causa della pressione ambientale, nel 2050 le condizioni di vita sul pianeta saranno pessime. È per questo motivo che in diverse culture spirituali è stata profetizzata una grande Purificazione Planetaria. In un antico testo del buddhismo tibetano, le preghiere rivolte a una divinità protettrice sono precedute dal seguente testo: «In quest’epoca degenerata la contraddizione tra le intenzioni e gli atti degli esseri e le perturbazioni degli elementi esterni e interni provocano epidemie e malattie finora sconosciute che colpiscono uomini e animali, sofferenze causate da pianeti, naga (una categoria di esseri intelligenti con volto umano e lunga coda di serpente, n.d.t.),demoni ed esseri elementari cattivi. I raccolti sono colpiti da malattie, gelo e grandine, sono annate dure nelle quali scoppiano dispute, lotte e guerre. Le piogge sono irregolari, la neve cade troppo abbondante e appaiono calamità causate dai roditori. Vi sono terremoti, incendi e disastri dovuti ai quattro elementi». Oggi come in passato la confusione e la sofferenza che proviamo è imputabile prima di tutto a una situazione di disequilibrio. Mentre la saggezza millenaria dell’Oriente ci insegna a guardare dentro per le risposte ai problemi dell’uomo, l’Occidente guarda fuori. In cerca di soluzioni e risposte, l’uomo moderno occidentale ha cercato la verità assoluta nella razionalità. È convinto di garantirsi una vita comoda, sul piano sociale e politico semplicemente rafforzando l’economia e, sicuro del suo modello di sviluppo, lo ha promosso e molto spesso imposto in tutti i Paesi del mondo. Dominato dal delirio della scienza, pensa di occultare ancora per molto la sua paura della morte affidando le sue speranze di immortalità all’ingegneria genetica. Il suo agire imprudente sull’ambiente non lo ha messo al riparo dagli elementi, anzi ha accentuato la precarietà della sua esistenza, esponendolo a disastri naturali di ogni tipo che lo colgono fragile e psicologicamente impreparato ad affrontare il dolore della tragedia. Nel campo religioso, la ferrea convinzione di essere il detentore dell’unica verità assoluta, ha accentuato la sua distanza dal prossimo e da Dio al quale si affida in modo fideistico per allontanarsene ogni qualvolta non trova risposta ai suoi mille ‘perché’. Il suo smarrimento è grande e ha bisogno dell’aiuto dell’intuito della antica saggezza dell’Oriente per tornare alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione della bellezza del creato, per ritrovare pace e armonia con se stesso, i suoi simili, la terra e il cosmo. Ho scritto questo articolo per evidenziare come con dei mezzi banali, se vogliamo, si può far credere tutto ed il contrario di tutto e che la soluzione ai "nostri problemi" non sia poi chissà cosa, è semplicemente dentro di noi, quello è il difficile, è ovviamente più facile dare la colpa ad altri e far finta di nulla. Parecchi anni fa, tanti, dopo la lettura di quanto segue avevo intuito che quella era la soluzione ed ora me la ritrovo confermata anche da Jung tra gli altri, chiaramente c'era arrivato prima ma non ne ero a conoscenza ... "Non vi potrà mai essere una rivoluzione socio-politica, finché non avrà luogo una rivoluzione individuale, perché la rivoluzione deve nascere dall’interno di ciascun singolo essere umano perché poi può diventare collettiva, del resto, si può privare l’essere umano della libertà politica, senza fargli alcun male, ma se lo si priva della sua libertà di essere o sentire, lo si distrugge. La nostra cultura occidentale disprezza le culture primitive ma quei popoli vivono in armonia con la terra, le foreste e gli animali. Occorre una rivoluzione interiore radicale, occorre varcare le proprie porte interiori, per poter essere davvero liberi, liberi di essere e sentire, occorre spazzare via dal proprio intimo tutta l’immondizia che ci è stata inserita dentro nel corso degli anni, fin dal momento in cui siamo nati. Ma la stragrande maggioranza della gente, questo non lo vuole fare, non è disposta a cambiare nulla". !!!!!!!!!! Jim Morrison.

La Storia Segreta Dell’Unione Europea: Il Piano Kalergi, scrive “No Censura” il 7 novembre 2013. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo steso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea. Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale”, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”. Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”. Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo. Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.

Ecco la condanna a morte che ci attende. Pubblicato il testo del TPP. Pubblicato il 6 novembre 2015 da Claudio Messora su “Byo Blu”. “Peggiore di qualunque cosa avessimo mai immaginato”. “Un atto di guerra al clima”. “Un omaggio all’agricoltura intensiva”. “Una condanna a morte per la libertà della rete”. “Il peggior incubo”. “Un disastro”. Questo è il tenore dei commenti di chi ha letto e studiato il testo del TPP, il fratello gemello del TTIP, l’accordo di libero scambio commerciale tra Usa e Ue, negoziato in segreto, di cui vi ho parlato mercoledì sera a La Gabbia. Il TTIP fa parte di una gigantesca strategia globale degli Usa, le cosiddette “Tre T”, che comprendono anche il TTP e il TISA. Il TTIP è l’accordo di liberalizzazione commerciale che stanno negoziando (in segreto) Usa e UE. Il Tisa (Trade in Services Agreement) è l’accordo, anche peggiore, sulla liberalizzazione dei servizi e il TPP (Trans Pacific Partnership), è l’omologo del TTIP sul fronte pacifico, che includerà 12 paesi, tra cui Singapore, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti, l’Australia, il Messico, il Giappone e il Canada. Caso vuole che in nessuno dei tre accordi siano presenti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Caso vuole? No, in effetti non è un caso, ma esattamente lo scopo per cui le Tre T sono state create: aggirare il peso che i paesi emergenti hanno assunto nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), isolare la Cina (con la strategia militare e commerciale definita “Pivot to Asia”) e assicurare il dominio delle grandi corporation USA nell’economia mondiale. Questi trattati sono negoziati in segreto (perché se no non glieli lasceremmo fare): per la UE ci pensa quella simpaticona indefessa adoratrice dei più stringenti principi democratici che si chiama Cecilia Malmström (la signora io-non-rispondo-ai-cittadini). Solo le lobby hanno libero accesso al testo del negoziato. Se gli europarlamentari vogliono visionarlo, devono chiamare l’ambasciata americana, farsi dare un appuntamento che è disponibile solo due volte a settimana, in una fascia oraria di sole due ore, solo due alla volta, all’ingresso devono consegnare ogni dispositivo elettronico, firmare un impegno di riservatezza e finalmente possono avere davanti agli occhi intere sezioni di codici e codicilli legali, per due ore, senza poter prendere appunti e guardati a vista da due guardie americane. Se questo lo chiamate democrazia, fatevi visitare da uno bravo! Lato Usa invece usano la Fast Track Negotiating Authority for Trade Agreement, che è uno strumento che consente al Presidente degli Stati Uniti d’America di negoziare trattati commerciali per i fatti suoi, e poi presentare un pacchetto fatto e finito al Congresso, che può solo approvarlo o respingerlo in toto, a maggioranza semplice, (un po’ come la nostra fiducia): i deputati USA non possono in alcun modo proporre emendamenti o fare ostruzionismo. E’ nato per consentire l’approvazione di trattati commerciali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, e per consentire ai deputati di votare a favore senza perdere la poltrona (negli Usa c’è il recall), dato che chi li ha eletti ne sarebbe probabilmente scontento. Figuratevi quanta democrazia ci sia anche da quelle parti: hanno creato uno strumento per fare in modo di poter votare quello che democraticamente non potrebbero! Chapeau! (E questa è la più grande democrazia del pianeta, figuriamoci le altre!). Dunque cosa succede? Succede che il testo del TPP finalmente è stato rilasciato, dopo essere stato finalizzato dalle ultime negoziazioni di Atlanta, in Georgia. La pubblicazione dei contenuti del trattato ha così avviato il periodo di tre mesi che precede il suo atterraggio al Congresso, chiamato ad approvarlo. Ecco il testo ufficiale: TPP FINAL TABLE OF CONTENTS. La reazione di chi ha avuto lo stomaco di leggerselo è stata questa: “Dai leaks, avevamo saputo qualcosa sull’accordo, ma capitolo dopo capitolo la lettura del testo finale è peggiore di quello che ci aspettavamo: le richieste di 500 lobbisti che rappresentano gli interessi delle corporation sono state soddisfatte a svantaggio dell’interesse pubblico. Questo accade quando le lobby possono negoziare in privato, nell’oscurità, e i cittadini vengono tagliati fuori”. “Il TTP è un disastro per il lavoro, per l’ambiente e per la democrazia. E’ l’ultimo passo verso la resa della nostra società alle corporation. L’enorme accordo tra 12 nazioni sulle coste del Pacifico ha meno a che fare con la vendita delle merci di quanto, piuttosto, abbia a che fare con la riscrittura delle regole dell’economia globale in favore del grande business. Esattamente come il North American Free Trade Agreement (il NAFTA), 20 anni fa, sarà una cosa ottima per i più ricchi e un disastro per chiunque altro. Il NAFTA ha radicato le disuguaglianze e causato la perdita di un milione di posti di lavoro negli USA. E il TPP non è altro che una versione del NAFTA iperpotenziata”. “Ora che abbiamo visto il testo definitivo, viene fuori che il TTP, vero e proprio assassino dell’occupazione, è peggiore di qualunque altra cosa che sia mai stata immaginata. Questo accordo abbatterà i salari, inonderà il nostro Paese di alimenti importati e non sicuri, innalzerà i prezzi delle medicine salva-vita, e tutto questo mentre si faranno affari con paesi dove gli omosessuali e le mamme single possono essere lapidate”. “Il testo è pieno di sussidi per le società che fanno affari sui combustibili fossili e di incredibili possibilità per queste compagnie di fare causa ai singoli governi che cercano di diminuire l’uso dei combustibili fossili. Se una provincia mette una moratoria sul fracking, le corporation possono perseguirla legalmente; se una comunità cerca di fermare una miniera di carbone, le corporation possono prevalere in punta di diritto. In breve, queste leggi minano la capacità dei singoli stati di attuare quello che gli scienziati dicono che sia la sola cosa più importante da fare per combattere la crisi climatica: abbattere i consumi di carburanti fossili”. “E’ un accordo disegnato per proteggere il commercio libero di prodotti energeticamente sporchi come i depositi non convenzionali di catrame e bitume, depositi di carbone e gas naturale liquefatto spedito dai porti della costa occidentale. Il risultato sarà un’accelerazione dei cambiamenti climatici derivante delle emissioni di CO2 in tutto il Pacifico. Il presidente Obama ha venduto agli americani false promesse: il TTP tradisce la promessa di Obama di fare dell’accordo un trattato amico dell’ambiente”. “Il capitolo ambientale conferma molti dei peggiori incubi dei gruppi ambientalisti e degli attivisti contro il cambiamento climatico”. “Con le sue disposizioni che tagliano le mani agli ispettori alimentari sulle frontiere e danno più potere alle compagnie che operano nella biotecnologia, il TPP è un regalo alle grandi multinazionali del settore dell’agricoltura intensiva e del cibo biotech. Questo genere di società useranno gli accordi come il TPP per attaccare le misure di sicurezza sugli alimenti sensibili, per indebolire le possibilità di ispezionare il cibo importato e per bloccare ogni sforzo di rafforzare gli standard di sicurezza alimentare degli Stati Uniti. Innanzitutto quelli per etichettare correttamente gli alimenti OGM. Inoltre, qualunque criterio di sicurezza alimentare sull’etichettatura dei pesticidi o degli additivi che sia più elevato rispetto agli standard internazionali, potrà essere additato come una barriera commerciale illegittima. Sotto al regime del TTP, il business dell’agricoltura intensiva e le multinazionali biotech delle sementi hanno adesso un modo più semplice per sfidare a quei paesi che vietano l’importazione di alimenti geneticamente modificati, che controllano la contaminazione OGM, che non approvano prontamente nuovi prodotti OGM o anche solo richiedono un’etichettatura adeguata”. “Se il Congresso degli Stati Uniti firmerà questo accordo malgrado la sua sfacciata pericolosità, firmerà la condanna a morte per la rete internet aperta e metterà il futuro della libertà di opinione a repentaglio. Tra le molte sezioni del documento che destano gravi preoccupazioni, ci sono quelli relative ai marchi commerciali, ai brevetti delle case farmaceutiche, alla protezione del copyright e ai segreti commerciali. La sezione J, che riguarda gli internet service providers, è una delle sezioni peggiori che impatta sulla libertà della rete. Richiede ai fornitori di servizi internet di comportarsi come poliziotti della rete e collaborare con le richieste di oscuramento, ma non obbliga i paesi a dotarsi di un sistema di contestazione. Così, una società potrebbe ordinare a un sito web di essere oscurato in un altro paese e non ci sarebbe nessuno strumento per il proprietario del sito di confutare la legittimità della richiesta nel caso, per esempio, dei blog di critica politica che usano materiale protetto da copyright sotto il regime del fair use. La sezione J è scritta in maniera tale che gli internet service provider non saranno perseguibili per nessuno degli errori che dovessero commettere sull’oscuramento dei contenuti, incentivandoli così a “sbagliare” a favore dei detentori di copyright invece che a favore di chi esercita la libertà di opinione”. “Anche una parte dell’opinione pubblica canadese è molto preoccupata sulle conseguenze dell’accordo commerciale sui diritti umani, sulla salute, sull’occupazione e sulla democrazia. Il Consiglio dei canadesi, un’organizzazione alla testa di un largo network impegnata nella difesa dell’equità sociale, ha chiesto formalmente al nuovo primo ministro Trudeau di organizzare una consultazione pubblica che includa un ampia analisi indipendente del testo, dal punto di vista dei diritti umani, delle conseguenze economiche e di quelle ambientali, prima di procedere oltre nella ratifica. Trudeau è sottoposto a enormi pressioni per adottare l’accordo il più presto possibile, con numerose insistenti telefonate da Barack Obama e dal presidente giapponese Shinto Abe, ma una approfondita revisione pubblica dell’accordo è necessaria prima di poter stabilire se il TPP è nell’interesse del Canada”.

State molto attenti, perché quello che c’è nel TPP è con grandissima probabilità quello che troveremo nel TTIP, quando la nostra Malmströmavrà finito di farsi i cazzi suoi in privato con le lobby e deciderà finalmente di pubblicare un testo che poi il Parlamento Europeo sarà chiamato ad approvare. Per quella data, dobbiamo essere pronti a fargli un culo così.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono, scrive Claudio Messora il 9 gennaio 2016 su "Byo Blu". Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato. Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come la Libia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa volta Scenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti. “Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici. La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese. Li sintetizziamo qui. La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia. Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti: Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR); Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa; Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy; Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale; Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona. Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca. La motivazione principale dell’attacco militare francese fu il progetto di Gheddafi di soppiantare il Franco francese africano (CFA) con una nuova valuta pan africana. In sintesi Blumenthal dice: Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana. L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA. La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana. L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Libia, le carte di Hillary Clinton: "La Francia distrusse l'Italia". La guerra che portò il caos in Libia venne scatenata dai francesi con l'avallo degli americani. L'obiettivo era uno solo: affermare la potenza transalpina ed eliminare ogni influenza italiana nel Maghreb, scrive Ivan Francese, Mercoledì 03/08/2016, su "Il Giornale". La guerra di Libia - un'altra - cent'anni dopo. Correva l'anno 2011, i dodici mesi che cambiarono il mondo ma soprattutto la storia d'Italia. Eravamo ormai abituati a ricordarlo come l'anno della caduta del governo Berlusconi IV e dell'arrivo dell'ultra-europeista Mario Monti a Palazzo Chigi dopo mesi di attacchi politici e finanziari (non senza speculazioni assai poco trasparenti). Tutti ricordiamo gli insopportabili risolini di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. Ebbene, ora su quei giorni cruciali potremmo apprendere qualcos'altro. Se possibile, qualcosa di ancora più inquietante. Come ha rilevato Scenarieconomici, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato UsaHillary Clinton si scopre che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi e all'uccisione del Colonnello venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. A tutto detrimento degli interessi italiani. Certo, sapevamo già che la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma vederlo scritto nero su bianco resta comunque impressionante. E allora vediamo cosa contengono, quelle mail famigerate. Il 2 aprile del 2011 l'attuale candidata democratica alla Casa Bianca riceveva un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente Sidney Bluementhal dai toni assai espliciti. Da quelle righe emerge infatti che il presidente francese dell'epoca, Sarkozy, ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Di più. A motivare definitivamente la decisione dell'Eliseo di entrare nel conflitto sarebbe stato il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a sè un'alleanza regionale di Stati. Sostituendo così proprio la Francia, a suon di oro e di argento (Gheddafi ne avrebbe conservate poco meno di trecento tonnellate). Le conseguenze dell'intervento sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, l'Isis che spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo e un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste. All'epoca l'Italia, all'oscuro di tutto, prese addirittura parte alla guerra contro Gheddafi, sia pure a malincuore. Ora però è chiaro che quella manovra, insieme all'attacco speculativo portatoci dalla Germania, aveva un solo obiettivo: l'Italia. Che ancora oggi ne sconta le terribili conseguenze.

Le mail segrete di Hillary smascherano Sarkò: da Gheddafi per un furto all'Italia, scrive Marco Gorra su "Libero Quotidiano” il 18 Gennaio 2016. Il sospetto che la storia della Francia che muove guerra a Gheddafi perché unicamente interessata ad «assumere il proprio ruolo di fronte alla storia» ed a «difendere i libici che vogliono liberarsi dalla schiavitù» (parola dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) fosse una solenne presa in giro era venuto.  Adesso arrivano le conferme. E viene fuori che no, dietro la decisione di Parigi di rovesciare con le cattive il Colonnello di idealismo ce n' era ben poco. In compenso, c' erano altre considerazioni di carattere assai più venale: petrolio e quattrini. Due fondamentali interessi francesi in nome dei quali ci si è armati e si è partiti. E non solo chi, come i transalpini, aveva da guadagnarci. Ma anche chi, come l'Italia, dell'operazione ostile ordita a Parigi era la prima vittima designata.  A fare luce su quegli eventi del 2011 soccorrono oggi le famose mail di Hillary Clinton, recentemente desecretate in seguito alle polemiche divampate intorno ai famigerati server privati dell'ex Segretario di Stato. Nella mole di documenti declassificati, spiccano i messaggi inviati alla Clinton da Sidney Blumenthal, consigliere privato della signora e suo principale esperto sul campo di questioni libiche. Dal carteggio emergono le reali preoccupazioni dei francesi in ordine alla crisi libica. La prima è quella relativa al petrolio, business faraonico da cui le aziende transalpine erano tagliate fuori ad opera - anche - di quelle italiane (prima dell'inizio della guerra due terzi della concessioni erano dell'Eni). Tramite il riconoscimento preventivo del Cnt e la di esso successiva installazione al potere, Parigi contava di riequilibrare la situazione a proprio vantaggio: l'accordo coi ribelli era di trasferire in mano ai francesi, a titolo di ringraziamento per il supporto fornito, il 35% del crude oil del Paese. A questo scopo, elementi dell'intelligence francese avevano iniziato fin dalla primavera del 2011 a fornire supporto di ogni tipo agli anti-Gheddafi. La seconda preoccupazione dei francesi era di ordine monetario. Si trattava di impedire che il Colonnello desse seguito al proprio vecchio pallino di creare una valuta panafricana. All' uopo, Gheddafi era pronto ad impiegare le proprie riserve (143 tonnellate d' oro e quasi altrettante d' argento, per un valore complessivo di circa sette miliardi di dollari). Scenario da incubo per la Francia, dacché la nuova moneta avrebbe pensionato il franco Cfa, valuta creata nel '45 ed utilizzata da 14 ex colonie con svariati e benefici ricaschi per il Tesoro francese.  A completare il quadro dei veri motivi dietro all' attacco, secondo il carteggio, ci sono poi due grandi classici di queste situazioni: i sondaggi, con l'esigenza per Sarkozy di riguadagnare popolarità in vista delle incombenti elezioni presidenziali, e i militari, cui premeva avere un'occasione per riaffermare la propria posizione di potenza di livello mondiale. Come è andata a finire è cosa nota: l'azzardo di francesi e britannici funziona, Casa Bianca e Palazzo di Vetro danno l'ok e la guerra a Gheddafi si fa. Guerra in cui, pur avendo intuito che non sarebbe stato esattamente un affarone, partecipa anche l'Italia. Questione di qualche mese e il gioco è fatto: Gheddafi è rovesciato e al suo posto ci sono gli ormai ex ribelli del Cnt. I risultati non tardano ad arrivare: la moneta panafricana finisce in archivio prima ancora di essere nata e si procede alla grande redistribuzione del petrolio (in cui, ironia della sorte, i francesi porteranno a casa meno di quanto sperato a vantaggio di russi e cinesi). Soprattutto, l'influenza italiana nell' area si riduce drasticamente. Proprio come auspicato dall' inquilino dell'Eliseo. Marco Gorra 

I megaprogetti nei Balcani spianano la via alla Grande Eurasia. Hillary Clinton e l'orientamento del potere: è lei la vera candidata guerrafondaia alla Casa Bianca, scrive Andrea Spinelli Barrile su “ibtimes” l'1.03.2016 . Hillary Rodham Clinton è il candidato democratico che in questo momento sembra avere più chance non solo per la vittoria del Super Tuesday e delle primarie dell'asinello a stelle e strisce ma soprattutto per tornare ad essere inquilina alla Casa Bianca, dove ha già trascorso 8 anni come first lady. La candidata democratica, non è un mistero, piace ai colletti bianchi di Wall Street, piace ai neoconservatori - un editoriale di Robert Kagan sul Washington Post del 25 febbraio è qualcosa di più di un endorsement – e alla medio-alta borghesia americana, mentre meno gradita sembra essere sia alla base del partito democratico che ai “poorly educated” (questi ultimi vanno pazzi per Donald Trump). Questo fa di Hillary Clinton una sorta di Matteo Renzi, con qualche anno e diversi chilometri in più sul curriculum, dell'era post-ideologica americana? Non esattamente. In realtà la signora Clinton è quanto di più vicino ci sia all'establishment americano e alle lobby, almeno tra i vari candidati alla Casa Bianca. Compreso Donald Trump. Un interessante profilo della signora Clinton lo ha pubblicato l'Huffington Post americano. Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute presso la Columbia University, descrive così il background della candidata democratica: “Gli stretti rapporti di Hillary e Bill Clinton con Wall Street contribuirono ad alimentare due bolle finanziarie (1999-2000 e 2005-2008) e la Grande Recessione che seguì il tracollo di Lehman. […] Anche i legami di Hillary con il complesso militare-industriale sono inquietanti”. Nel nostro immaginario i democratici sono quelli che cercano di fare da contrappeso alla sete guerrafondaia repubblicana nel Congresso ma anche in questo Hillary si dimostra essere una democratica piuttosto atipica. È stato evidente nel dibattito televisivo di sabato sera tra i candidati dem: la Clinton ha sempre difeso la scelta della missione NATO in Libia nel 2011, che ha eliminato Gheddafi e fatto sprofondare il Paese nordafricano nel caos assoluto, ma nell'ultimo dibattito è andata leggermente oltre. Alla domanda su quali fossero le responsabilità dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton sulla realtà libica di oggi ha risposto così: “Non mi arrendo sulla Libia, penso che nessuno debba farlo. […] C'è sempre una retrospettiva, uno spazio per dire 'quali errori sono stati fatti' ma io so che abbiamo offerto molto aiuto e so che è stato difficile per i libici accettarlo”. In quella frase c'è tutta l'esperienza in politica estera della signora Clinton: da first lady, da senatrice e da Segretario di Stato Hillary Clinton ha appoggiato sempre e incondizionatamente qualsiasi guerra gli Stati Uniti abbiano intrapreso da quando lei è sulla scena politica. Secondo Sachs tutto ebbe inizio il 31 ottobre 1998: l'allora Presidente Bill Clinton firmava il Decreto per la Liberazione dell'Iraq rendendo ufficiale la strategia atta al “cambiamento di regime” nel paese mediorientale, la base legislativa sulla quale è stato costruito l'intervento armato dal suo successore George W. Bush. Nel 2003, quando il Congresso fu chiamato a decidere se bombardare o meno l'Iraq sulla base delle prove - risultate fasulle - fornite dalla CIA Hillary Clinton, allora senatrice, non esitò a sostenere quell'intervento armato, costato uno sproposito in termini economici per gli USA e geopolitici per la stabilità del Medio Oriente. L'anno successivo al decreto sull'Iraq ci fu la guerra in Kosovo. Il 24 marzo 1999 la signora Clinton si trovava in viaggio in Africa quando telefonò al marito: “Lo esortai a bombardare” disse alla giornalista Lucinda Franks qualche anno dopo. Quel frangente e la schiena dritta tenuta durante lo scandalo sexgate alla fine del secondo mandato del marito connotano il carattere di Hillary Clinton, determinato e power-oriented: la ragion di Stato (o di famiglia) su tutto. Dopo 8 anni di Bush jr un Premio Nobel per la Pace, il democratico Barack Obama, diventò il primo presidente nero degli Stati Uniti. E con lui Hillary Clinton divenne la prima ex-first lady a diventare Segretario di Stato, che in America è il vero numero due del Presidente: nel periodo in cui la signora Clinton è stata Segretario di Stato gli Stati Uniti hanno inanellato una serie di insuccessi e di scelte militariste sbagliate che non hanno precedenti nella storia moderna americana. Il 21 aprile 2009 Hillary Clinton riceveva alla Segreteria di Stato Mutassim Gheddafi, figlio del Colonnello, all'epoca a capo della sicurezza nazionale libica: “Sono onorata di dare il benvenuto al ministro Gheddafi […] apprezziamo il valore profondo delle nostre relazioni e avremo molte occasioni di approfondire e ampliare la nostra collaborazione”. Mutassim, tra i figli di Gheddafi quello più simile al padre, sfoggiò un sorriso magnetico mentre stringeva la mano alla Clinton. Il 20 ottobre 2011 la stessa Hillary Clinton, preparandosi a un'intervista con la CBS, riceveva durante un fuori onda – ripreso ugualmente dall'operatore - l'inattesa notizia della cattura di Gheddafi sul BlackBerry di una sua collaboratrice: “Wow” esclamò con l'aria sinceramente sorpresa “ci sono notizie non confermate sulla cattura di Gheddafi”. Pochi minuti dopo, prima di cominciare a girare, sistemandosi la giacca e con un sorriso estatico sul volto, rivolgendosi alla giornalista, la signora Clinton declinò addirittura Giulio Cesare: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto!”. Era il periodo nel quale gli Stati Uniti, e la signora Clinton, si esprimevano con dichiarazioni infuocate anche verso il Presidente siriano Bashar al-Assad: nel mese di agosto la Clinton suggeriva ad Assad di “togliersi di torno”, sposando in toto la teoria della CIA e dell'Arabia Saudita che la rimozione del dittatore siriano sarebbe stata rapida, priva di costi e sicuramente un successo. Il risultato di quelle scelte lo osserviamo oggi, ma ci serve un mappamondo per guardarlo tutto: la crisi è diffusa in un'area che va dal Mali fino all'Afghanistan – e si allarga verso est – e nel cuore di questo grande spazio ci sono due scenari apocalittici: Libia e Siria. Durante il periodo da Segretario di Stato Hillary Clinton ha avuto un'influenza enorme sul Presidente Barack Obama, determinante per alcune scelte determinanti in politica estera, e spesso è stato proprio il parere della signora Clinton a far prendere a Obama una decisione piuttosto che un'altra. Nella vita reale, le scelte dell'amministrazione americana durante il periodo di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato possono essere rappresentate tramite un numero: 10 milioni di profughi siriani, che quando non muoiono sotto le bombe, di fame durante il viaggio, di malattie nei campi profughi o annegati nel Mediterraneo, si ritrovano in Europa alimentando una crisi politica senza precedenti, indebolendo paesi già in difficoltà come Grecia e Italia e creando una realtà che sta minando alla base i valori fondanti della stessa Unione Europea. Ma l'operato della signora Clinton non riguarda soltanto il Medio Oriente e il nord Africa: da senatrice Hillary ha approvato, votandola, la Risoluzione 439 del Senato che permise l'inclusione di Ucraina e Georgia nella NATO, un atto che fu l'embrione di quella che oggi la Russia definisce “nuova Guerra Fredda”. Gli americani negano, ma le operazioni di rafforzamento dei contingenti americani in Europa sono un dato di fatto che racconta una storia diversa da quella ufficiale. Il suo successore come Segretario di Stato John Kerry è ancora al lavoro per riparare i buchi immensi provocati dalla sete di bombe della signora Clinton: lo scenario libico, raccontato in questo articolo di grande giornalismo del New York Times, è oggi la conseguenza di numerose scelte scellerate fatte da Hillary Clinton ed oggi un Paese con una popolazione inferiore a quella dello stato del Tennessee preoccupa due colossi mondiali come gli Stati Uniti e l'Unione Europea: “Abbiamo avuto un'occasione d'oro per ridare vita a questo paese. Purtroppo quel sogno si è infranto” ha detto Mahmoud Jibril, che fu primo ministro ad interim del governo provvisorio nato durante la rivoluzione libica. Era stato il principale interlocutore di Hillary Clinton prima che morisse Gheddafi. 

Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba, scrive F. William Engdahl, New Eastern Outlook il 17 marzo 2016. Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo. Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment. Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell' “opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi. Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia. Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo. Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi”. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze”. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami. Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro. F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”. Traduzione del 12 luglio 2016 di Alessandro Lattanzio – SitoAurora.

Modesto contributo alla chiacchiera su guerra di religione. In forma di catechismo, scrive Maurizio Blondet il 29 luglio 2016. Un caro lettore, travolto come tutti dallo stato d’animo collettivo indotto, mi ha scritto: “Stamani tutti i media riportano queste parole di Bergoglio che quella in essere non è una guerra di religione. Ovviamente il senso della gente comune sa che questa è una menzogna. Non riesco a capire la logica di questo messaggio subito ripreso, ad esempio, dal presidente della repubblica. Spero possa accennare una risposta in un suo prossimo articolo. La ringrazio. Prego per Lei e la sua famiglia.” Mi sono quindi risolto a riportare qualche argomento di cui il nostro amico - e chiunque vorrà interloquire nella chiacchiera frenetica sulla guerra di religione in corso -  potrà fare riferimento.   Sul terrorismo islamico, riporto fatti incontrovertibili. Sotto forma di catechismo, così spero sia più semplice. Il terrorismo islamico non esisteva “prima”. Esisteva il terrorismo islamico, “prima”? Ossia quando l’Afghanistan era sotto un governo comunista, l’Irak sotto Saddam Hussein, l’Egitto governato da Mubarak, la Siria dalla famiglia Assad e la Libia da Gheddafi? No. Quelli erano regimi laici, modernizzanti, nazionalisti –   ossia promotori attivi dell’unità nazionale, al disopra delle plurime entità etniche e religiose che governavano. Per questo erano ostili ad ogni islamismo settario.  Lo tenevano a freno, se si manifestava nel loro stati.   In Irak e in Siria, le minoranze cristiane erano rispettate e spesso, anzi, erano la spina dorsale di quei regimi. Chi ha fatto cadere quei regimi con forze militari imponenti, destabilizzandone i paesi, gettandoli nel caos e nella guerra intestina? Gli Stati Uniti: alla testa di coalizioni occidentali, a cui hanno partecipato Gran Bretagna, Francia, stati membri della NATO oppure no, come Australia o Polonia (nella prima guerra del Golfo); la NATO ha preso il controllo dell’Afghanistan (missione ISAF). Per quale motivo l’Occidente a guida americana ha messo a ferro e fuoco quei paesi, massacrato i loro governanti anti-islamisti, e li ha gettati nel caos in mano a forze settarie? In esecuzione del piano israeliano (detto Piano Kivunim) che dal 1982 propugnava   la spaccatura di questi Stati “secondo le loro linee di   frattura etniche e religiose”. Nella rivista ebraica Kivunim, si leggeva al proposito: “l’Iraq, ricco di petrolio e lacerato internamente, è sicuramente un candidato degli obiettivi d’Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. … Ogni confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada all’obiettivo più importante, spezzare l’Iraq in domini come Siria e Libano. In Iraq, la divisione in province lungo linee etno-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano, è possibile. Così esisteranno almeno tre Stati attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo. … L’intera penisola arabica è un candidato naturale della dissoluzione su pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita”.   Israele non poteva sentirsi sicura senza creare il caos attorno a sé. Ma perché il governo Usa avrebbe aderito a questo piano? Perché vi conversero gli interessi petroliferi (esemplificati da Dick Cheney, presidente della Halliburton) e il sistema militare-industriale.    Si aggiunga il regno dei Saud, che vide il proprio interesse in questo progetto per ragioni settarie: portatore della versione più reetriva del Sunnismo (il wahabismo) voleva distruggere gli Sciit, e segnatamente l’Iran.  Quando Bush figlio prese la presidenza, attorno a lui tutto era pronto per questo progetto. Quando si è sentito parlare per la prima volta di “terrorismo islamico”? L’11 Settembre 2001, quando gli Stati Uniti sono stati proditoriamente aggrediti da un gruppo di terroristi islamici che hanno dirottato dei Boeing e li hanno lanciati contro le Twin Tower e il Pentagono, facendo oltre 3 mila morti.  I terroristi erano guidati da Osama Bin Laden. Chi era Osama Bin Laden? Era un   miliardario saudita la cui famiglia è amica, e socia in affari, della famiglia Bush. Aiutò gli americani a rovesciare il regime comunista in Afghanistan negli anni ’80; per loro arruolò migliaia di combattenti in tutto il Medio Oriente per mandarli a debellare i sovietici: con armamenti americani, e instaurare un regime religioso’, composto dai Talebani (studenti islamici preparati in Pakistan).  Questa organizzazione agli ordini americani si chiamava Al Qaeda (database – l’elenco degli arruolati). Quando Bin Laden è diventato nemico degli Usa? Improvvisamente. Ancora il 9 settembre 2001, due sue uomini (fingendosi giornalisti) uccisero il generale Massoud, il Leone del Panshir, inviso agli americani perché sarebbe stato in grado – come eroe nazionale – di unificare e stabilizzare l’Afghanistan.   L’intelligence francese sostenne che il capostazione della Cia andò a far visita a Bin Laden all’ospedale americano di Dubai a luglio, dove era ricoverato per dialisi. Lo scrisse il Figaro, senza essere smentito.  Dunque il 9 settembre era ancora amico, e il 21 era divenuto nemico degli Usa. Ma queste   sono ipotesi complottiste, che non si possono dimostrare! Lo disse il generale Wesley Clark, che era stato capo della NATO durante l’intervento in Kossovo: il giorno dopo l’11 Settembre, andò al Pentagono e un ufficiale suo amico, che aveva appena parlato col ministro (Donald Rumsfeld), lo chiamò nell’ufficio, chiuse la porta e gli sussurrò, incredulo: “Andiamo ad attaccare 7 paesi in 5 anni.  Adesso cominciamo con l’Irak, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e per finire, Iran”.  D’accordo, però nella religione islamica è insita la violenza, il jihad, la conversione forzata. Sì, certo.  Però era un aspetto dormiente, e tenuto a freno dai governi laici di Irak, Siria, Libia.  Quell’aspetto atroce dell’Islam fu risvegliato e istigato volontariamente. Gruppi fanatici furono armati ed addestrati apposta. Anche questa è una teoria complottista senza alcuna prova! Sempre il generale Wesley Clark – ricordo, l’ex comandante supremo NATO in Europa – disse alla CNN kil 21 febbraio 2015: “Abbiamo reclutato Zeloti e estremisti takfiri”, creato “un Frankenstein”; in quell’intervista spiegò anche: “L’ISIS è stato creato dai nostri alleati per battere fino alla morte Hezbollah”. Intendeva: creato dalla monarchia Saudita per debellare la componente sciita che vive in Libano, Hezbollah. Dunque gli Usa avrebbero creato, o lasciato creare, i movimenti   terroristico-jihadisti, per poi combatterli? Ma è assurdo! A che scopo? Secondo Samuel Huntington, che è il principale scienziato politico americano, la cosa è utile al potere americano. Egli scrisse nel 1996 un saggio, “Scontro di Civiltà e Nuovo Ordine Mondiale”, in cui profetizzò che “la principale fonte di conflitti nel mondo post-Guerra fredda diverranno le identità culturali e religiose”; non ci saranno più guerre fra Stati fra “civiltà”.  Di fatto, ragionava Huntington, dopo la caduta dell’Urss dove trovare un nemico comune che tenga unito l’Occidente sotto la guida americana? Lo scontro di civiltà era la risposta; e la lotta all’Islam, una   popolosa cultura “aliena” e poco solubile nel nuovo ordine mondiale, era la soluzione. Che piaceva anche a Israele e alla lobby giudaica a Washington. E questa strategia ha avuto successo? Sì, il piano Kivunim ha avuto successo. Tutti i paesi islamici circostanti Israele, e quasi tutti quelli più lontani, sono sconvolti da lotte intestine etnico-religiose: sciiti contro sunniti, curdi contro turchi, cirenaici contro tripolitani, alawiti contro sunniti….   Nessuno di questo tornerà più ad essere uno Stato ordinato, quindi che possa rappresentare un pericolo politico o militare per Israele.   Il progetto però è incompiuto in due casi: l’Iran non è stato ancora destabilizzato (troppo grosso e lontano), e i tentativi di Israele di indurre Washington a bombardarne le centrali nucleari è andato finora a vuoto; e la Siria. Qui la caduta del regime laico di Assad è stata sventata dalla Russia, che l’aiuta militarmente; ed anche dal fatto che le minoranze siriane non si battono contro il regime in numero sufficiente, né aderiscono al jihadismo di ISI e Al Qaeda, preferendo di fuggire come profughi. Al punto che oggi a combattere in Siria contro Assad non sono le opposizioni siriane, ma jihadisti ceceni, azeri, europei reclutati in Francia, Belgio Gran Bretagna, e spesso   attratti dalle paghe: reclutati come mercenari coi soldi Sauditi e l’addestramento della Cia. Però adesso l’ISIS manda i suoi terroristi in Europa. L’ISIS? Abbiamo visto che si tratta di una creazione americano-saudita. Gli israeliani li sostengono nella lotta in Siria, silenziosamente, curano i feriti del Califfato nei loro ospedali (esiste ampia documentazione). Gli americani stanno ostacolando le azioni militari russe; hanno intimato a Putin di non colpire Al Nusra (nome nuovo di Al Qaeda) perché quelli sono “l’opposizione democratica” che intendono mettere al potere in Siria, dopo detronizzato Assad.   Comunque l’ISIS ha il suo daffare a difendersi, altro che spedire jihadisti in Europa. Però rivendica tutti gli attentati islamici che avvengono sempre più spesso in Europa. Le rivendicazioni sono opportuniste. E   lei è proprio sicuro che sia l’ISIS a farle? Dopotutto, le rivendicazioni dell’ISI vengono diffuse dal SITE, un’azienda della israeliano-americana Rita Katz. Sono tutte probabilmente false, create dalla propaganda israeliana. Ma   i jihadisti ammazzano davvero! A Nizza, a Rouen hanno ammazzato il prete! Non è questa guerra di religione? E’ scontro di civiltà come voleva Huntington.  È strategia della tensione: qualcuno vuole tenere gli europei nella paura. Diversi esponenti israeliani   hanno detto: “è bene che gli europei provino quello che proviamo noi, che quando andiamo al ristorante non siamo sicuri di tornare a casa”, perché un palestinese può accoltellarli.  Anche certi governi europei possono trovare conveniente tenere i loro cittadini nella tensione e nella paura, nel clima della lotta perpetua al Nemico Islamico, che è fra noi e colpisce quando vuole. Il Piano Kivunim, tradotto in inglese dall’ebraico dal compianto amico Israel Shahak. Come scrisse Orwell nel suo “1984”, dove immagina uno stato totalitario futuro: “C’erano   attentati continui e ingiustificati. Fatti a caso.  Servivano allo Stato per limitare le libertà dei cittadini.   Ad ogni attentato, si facevano leggi restrittive della libertà!” Ma qui siamo in democrazia! Sì, certo. Hollande però ha approfittato degli attentati per prolungare lo stato di emergenza, ossia leggi restrittive della libertà dei cittadini. Ma non dirà che   sono gli stessi governi a indurre due diciannovenni islamici a sgozzare il povero prete a Rouen. Quelli hanno agito spontaneamente, a nome dell’ISIS. Certamente. E’ un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. Negli anni di piombo, di strategia della tensione, le Brigate Rosse commettevano omicidi; ebbene, più ne commettevano, più trovavano favore nelle fabbriche e nelle scuole, fra frange notevoli di studenti e di operai “di sinistra”. E anche molti intellettuali simpatizzavano: “Né con lo stato né con le BR”, scrissero in molti. I più giovani e suggestionabili, sognavano di arruolarsi nelle Brigate Rosse, cercavano contatti, volevano andare in clandestinità – era uno stato d’animo collettivo, ed era anche una moda travolgente.  Oggi sappiamo che strategia della tensione e BR erano “gestite” da servizi esteri e da Gladio, organizzazione clandestina della NATO. Ma i giovani di allora erano sedotti da quello stato d’animo, sparavano “spontaneamente”. Come i marginali di oggi in Europa, col nome e cognome islamico, sono sedotti da un ISIS – che è una creazione americana. Non mi ha convinto…Lo so. So che lei è sotto influsso psico-emotivo dello stato d’animo collettivo che ci vuole spaventati: l’Islam ci attacca! E’ una guerra di religione! Sì, è una guerra di religione. Indotta, però, da centrali che hanno fatto di tutto per provocarla.  Le centrali di cui sopra vogliono che la civiltà europea venga devastata – come hanno voluto la devastazione di Palmyra in Siria – e scompaia. Ma perché? Perché la cultura e civiltà europea, greco-romana e cristiana, formava uomini liberi, e il potere globale non vuole liberi, ma consumatori. Perché odiano Cristo e la sua civiltà.  Perché quelle centrali – diciamo, gli usurai (per usare un termine poundiano) mai hanno avuto la capacità di edificare un Partenone, un Pantheon; mai hanno prodotto nulla che ricordi anche lontanamente Fidia o Caravaggio, né tra di loro è mai nato un Dostojewski, o uno Shakespeare o un Dante. I loro scrittori sono dei pornografi.  La loro “arte” è quella del MOMA di New York, una bruttezza che si vendono e comprano tra loro a prezzi stratosferici; bruttezza che si accompagna necessariamente alla menzogna e all’odio per il Vero: Vero e Bello sono la stessa cosa, diceva Tommaso d’Aquino. Vogliono renderci come loro. Spaventati e pieni d’odio e d’invidia per il genere umano.

Perché DAESH vuole Killary presidente. Proprio come tutti i Katz, scrive Maurizio Blondet il 2 agosto 2016. Come si diceva, Daesh minaccia Putin il giorno dopo che Hillary ha accusato Putin, coi suoi hackers, di aver diffuso le mail più discutibili su di lei e il suo partito democratico.  “Daesh per Hillary!”, era il nostro titolo.  Meno paradossale di quel che sembra: per forza Daesh aiuta la Clinton   a   entrare nella Casa Bianca – dopo tutto quello che lei ha fatto per lui. La cosa è saltata fuori, ma subito sepolta, dopo l’11 settembre 2012, il giorno in cui l’ambasciatore americano Chris Stevens fu trucidato a Bengasi insieme ai Marines che gli facevano da guardie del corpo, in un oscuro combattimento.  Reso più oscuro dal fatto che i commandos pronti a partire da Sigonella per soccorrere l’ambasciatore – sarebbero arrivati in meno di mezz’ora – ricevettero da Obama l’ordine di stand-down, ossia di non muoversi: dal che si sospetta che Stevens sia stato deliberatamente sacrificato, per seppellire con lui una storia sporca   i cui liquami   sarebbero schizzati fino alla Clinton. Hillary, Panetta a desta e Dempsey mentono durante l’audizione al senato nel 2013. Questa vicenda sporca consisteva nel fatto che Stevens era stato mandato a Bengazi per comprare armamenti dai ribelli islamisti che avevano svuotato gli arsenali di Gheddafi, onde inviarli ai jihadisti che combattevano contro il regime di Assad: lo   Stato Islamico, guarda caso, che per i media nasce proprio nel 2012, distaccandosi da Al Qaeda con tanto di comunicato ufficiale. In una udienza al Senato del maggio 2012, Hillary Clinton – affiancata da Leon Panetta allora segretario alla Difesa, e all’ammiraglio Dempsey (capo degli stati maggiori) – negarono l’esistenza del piano per armare occultamente i terroristi in Siria. O meglio: raccontarono che sì, avevano avuto l’idea, ne parlarono ad Obama, ma lui la bocciò – sicché non se ne fece nulla.   Lo stesso Bill Clinton ha raccontato in un’intervista alla CNN che il piano esisteva e che lui l’aveva raccomandato, ma niente. Menzogne su menzogne. Come ha dimostrato una approfondita ed esplosiva inchiesta condotta da Aaron Klein.  Il quale non è solo ebreo, ma è anche un noto columnist del New York Times, ed oggi è capo della redazione di Gerusalemme per il Breitbart News Network.   E il suo libro-accusa, “The REAL Benghazi story: what the White House and Hillary don’t want you to know” è stato un best seller nel 2014, quando è uscito. Che cosa ha scoperto Klein? Che contrariamente alla versione ufficiale, Obama aveva autorizzato l’operazione segreta (e illegale) di acquistare dai tagliagole libici le armi per mandarle ai tagliagole siriani. Come l’ha scoperto?   Nel modo più facile: un lancio della Reuters che ai primi del 2012 rendeva noto quanto segue: il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo “che permette alla Cia ed altre agenzie di fornire sostegno ai ribelli per cacciare Assad”: mandato “broadly”, ossia ampio e generico. Da attuarsi, aggiungeva l’agenzia, attraverso un “centro di comando segreto operato dalla Turchia e i suoi alleati” (sic).  Sempre la Reuters, citando una “fonte Usa”, avvertiva però che la Casa Bianca non aveva autorizzato l’invio di armi letali, “anche se certi alleati Usa lo fanno” (sic). Che Chris Stevens fu mandato in Libia senza lo status di ambasciatore, “a bordo di un cargo battente bandiera greca che portava forniture e automezzi”, già durante la rivoluzione che eliminò Gheddafi. Il suo compito?  Diventare “il primo interlocutore fra l’amministrazione Obama e i ribelli basati a Bengasi” – e fare il mercante d’armi.   Era affiancato in questo compito da un professionista: come rivelò lo steso New York Times nel dicembre 2012, da un tale Marc Turi, definito dallo stesso medium mainstream “un mercante d’armi americano che voleva fornire armamenti in Libia”, e per il quale Stevens chiese al Dipartimento di Stato una autorizzazione – che è agli atti.  Anche dopo essere stato nominato ambasciatore, Stevens continuò – dice Klein – a trattare armi coi tagliagole. Che membri armati della “Brigata Martiri 17 Febbraio” (tagliagole libici collegati alla Ansar al Sharia, definita organizzazione terroristica dagli Usa) furono assunti dal Dipartimento di Stato – ossia da Hillary – per fornire la “security interna a una missione speciale” –   ossia par di capire a far da guardie del corpo a Stevens, visto che non essendo ancora ambasciatore non gli si potevano assegnare del Marines. Secondo Klein, i capi della Brigata Martiri 17 Febbraio furono anche usati   come agevolatori, diciamo, della compravendita ai arsenali da mandare ai tagliagole siriani. Nell’autorizzazione concessa ufficialmente dal Dipartimento di Stato a Marc Turi, e risalente al maggio 2011, si legge che il Turi aveva “il progetto di spedire armamenti del valore di 200 milioni di dollari al Katar” – uno dei massimi nemici di Assad. Facile capire   in che mani sarebbero finite quelle armi. Una “grossa spedizione di armi da Bengasi ai ribelli siriani partì nell’agosto 2012 (poche settimane prima la tragica fine di Stevens, 11 settembre) su una nave, e arrivò al porto turco di Iskenderum, a 35 chilometri dalla frontiera con la Siria.  Ufficialmente, portava aiuti umanitari.  Altri trasporti avvennero per via aerea in quel periodo. Il New York Times stesso raccontò in uno dei suoi articoli che “da uffici in località segrete”, membri dell’intelligence Usa “aiutavano i governi arabi a comprare armi – e “hanno selezionato accuratamente (sic) i   comandanti e i gruppi ribelli per determinare chi di loro avrebbe ricevuto le armi all’arrivo”. La Reuters ha intervistato il 18 giungo 2013 Abdul Basit Haroun, un ex capo della Brigata Martiri 17 Febbraio, che ammise di essere il facilitatore di uno dei più grossi invii di materiale bellico da Bengazi ai ribelli siriani; precisando che le armi erano spedite in Turchia, da cui venivano contrabbandate ai terroristi siriani. Secondo la testimonianza di un altro capo della Brigata, Ismail Salabi, questo Haroun s’era messo in proprio costituendo una sua milizia, poco dopo.   Aveva i mezzi, visti i milioni di dollari che entrarono nell’affare, per mezzo di Marc Turi. Naturalmente, quando poi Stevens fu attaccato e morì, si raccontò che era a Bengasi per recuperare i MANPaD (missili anti-aerei a spalla) che si sapeva erano negli arsenali saccheggiati da Gheddafi, e che i ribelli non volevano dare. Un’operazione. Ma se era meritoria, perché Chris Stevens fu lasciato trucidare e non salvato dalle Forze Speciali, che ascoltarono in diretta le disperate richieste di aiuto che gli rivolgevano, mentre sparavano assediati nella “casa sicura della Cia”, i Marines a Bengasi, quell’11 settembre 2012? Perché ricevettero l’ordine di stand down? Se non per coprire il porcilaio condotto dagli americani e dai loro terroristi preferiti? Probabilmente Stevens fu ucciso, diciamo, nel corso di un litigio per soldi fra i “ribelli” e l’americano; forse persino da elementi della Brigata che lo “proteggeva”. Si doveva proteggere Hillary. La candidata che l’intero Establishment ha scelto, e che sta cercando di imporre con tutti i mezzi contro il candidato Trump, l’inaffidabile, o l’oggetto degli odii più frenetici, “il complice di Putin” (come ha detto Leon Panetta alla convention democratica), la cui moglie “ha posato nuda”, quello che sputa sui soldati medaglie d’oro solo perché islamici.  Ho paura che le elezioni saranno truccate, ha detto Trump. E perché tutto questo? Perché, ha detto la stessa Hillary in una mail spifferata da Wikileaks, “il modo migliore di aiutare Israele contro l’Iran e la sua crescente capacità nucleare è aiutare il popolo di Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad”. Obama non ha mai ricevuto il capo della DIA. Eppure ci sono notizie succose. Il generale Michael Flynn, già capo della DIA, ha fatto   una rivelazione più significativa delle nudità dell’ex modella moglie di Trump. Ha raccontato che Obama, pur avendo nominato lui – generale Flynn –   due volte come responsabile dell’intelligence militare, non l’ha mai voluto incontrare di persona. Mai l’ha convocato, in quattro anni.  Come ha avuto modo di spiegare   in un’altra esplosiva intervista a Seymour Hersh, Flynn avrebbe messo in guardia dalle losche operazioni che il Dipartimento di Stato, con la Cia, stava conducendo per armare i tagliagole dell’IS.  I quella stessa intervista, Flynn ha raccontato come e qualmente lui, e l’ammiraglio Dempsey allora capo degli SM Riuniti, mandarono a monte spedizioni di armi della Cia, collaborando con Putin e con Assad. Roba da corte marziale.   Se, s’intende, Obama avesse mai convocato Flynn e chiesto spiegazioni. Non l’ha mai fatto.  Non voleva sapere cosa facevano le erinni del Dipartimento di Stato, armando e finanziando i terroristi islamici che fingeva di combattere? O lo sapeva fin troppo bene? In ogni caso, giriamo la notizia alla valorosa corrispondente RAI da New York, che per 200 mila euro annui – da noi contribuenti pagati – copre quella sede prestigiosa e adora Obama, e ovviamente sostiene la Clinton contro Trump. Magari un servizietto sul generale Flynn e su come mai Obama non l’abbia mai voluto ascoltare né abbia mai letto un suo rapporto in quattro anni?  Gli diamo anche la fonte, pubblica. E gli diamo lo scoop gratis, non deve spendere nessuno dei 200 mila euro annui che riceve da noi. (Una lettura che farebbe bene anche ai giornalisti, commentatori, cattoliconi che strillano sugli “islamisti che ci sgozzano in chiesa”. Sì, quegli islamisti sono una creatura   di queste operazioni sopra descritte.   Perché non lo dite mai?). Mentre finisco di scrivere, i giornali e tg italiani sono tutti eccitati perché Obama “ha dato direttamente ordine” di bombardare “i terroristi islamici dell’IS in Libia”. Certo, bisogna ripulire i segni, gli indizi e i testimoni scomodi   di quel che fece Hillary coi ribelli, oggi IS, prima Al Qaeda, sempre un asset americano.

Ed altra condanna a morte ci attende. 

Mario Giordano su Libero Quotidiano del 1 agosto 2016 vs islamici: "Andate pure a messa, ma la verità su Maometto è questa qua" (devastante). Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla della differenza tra Gesù e Maometto.

Caro Giordano, nella sua “posta prioritaria” lei, oltre ad apprezzare giustamente quanto scritto dalla lettrice Marina Pacini, le risponde evidenziando due differenze fondamentali tra cristianesimo e islam: il cristianesimo ha avuto un Nuovo Testamento che ha superato il Vecchio Testamento e ha un Papa che ne dà l’interpretazione valida per tutti i cristiani. È quello che tutte le persone colte sostengono ma, a parer mio, sono due cose ineludibili per i teologi ma superflue per i fedeli. Il Cristianesimo è nato quando Cristo è sceso in terra e ha detto «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te»: con queste semplici ed inequivocabili parole ha cancellato, emarginato tutta la violenza contenuta nei precedenti testi sacri indicando, da quel momento in poi, la strada per separare il bene dal male. Tutto il resto è teologia, importantissima, ma teologia: quello che conta è Cristo con la sua parola che non può essere fraintesa. Confrontare cristianesimo e islam sulla base di disquisizioni interpretative è deviante e può divenire, grazie alla cultura dei “contendenti”, tanto cavilloso da perdere di vista la realtà: Cristo ha predicato la pace, Maometto no. Punto. Nessuno può uccidere in nome di Cristo (anche se è stato fatto, bestemmiando le sue parole), chiunque può uccidere in nome di Maometto citando le sue parole. Punto. Roberto Bellia, Vermezzo.

Grazie Roberto per la sua precisazione. È davvero chiara, molto più chiara di come sono stato io in quelle poche righe che mi erano rimaste alla fine dell'elenco delle sure improntate alla violenza del Corano. Lei ha ragione da vendere, in effetti: è vero che in passato sono stati commessi crimini orrendi in nome del cristianesimo, ma il cristianesimo è e resta una religione di pace, così come è una religione di pace il buddismo. Ci potrà pur essere qualche svitato nel mondo che uccide proclamandosi buddista, ma la religione buddista resta in ogni modo una religione di pace. Allo stesso modo ci sono stati troppi cristiani che hanno ucciso in nome di Cristo, ma il messaggio di Cristo è «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quello di Maometto no. Quello di Maometto è un messaggio di violenza e di morte. E non rendersene conto, o illudersi soltanto perché un gruppetto di musulmani fa finta di andare a messa alla domenica, non è soltanto molto sbagliato. È soprattutto, come ripetiamo da tempo, temo inutilmente, molto pericoloso...Mario Giordano.

"Corano, leggetevi questa roba...": Mario Giordano il 30 luglio 2016, furia contro il libro sacro. Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla di islam e delle più agghiaccianti sure del Corano, dove si predica morte e conquista.

Caro Giordano, il Papa dicendo che le vere religioni sono di pace, ha dimostrato di non conoscere il Corano e neppure il Vecchio Testamento che è pieno di violenza. O forse lo sa ma continua a tenerci calmi come quelli che suonavano sul Titanic. Continuiamo dunque a inneggiare i nostri valori, che sono quelli che ci fanno accogliere amorosamente questi invasati. Le mando qualche sura del Corano...Marina Pacini, Lucca.

La ringrazio, cara Marina, e riporto una parte del suo agghiacciante elenco.

* Circa gli infedeli (coloro che non si sottomettono all'Islam), costoro sono «gli inveterati nemici» dei musulmani [Sura 4:101]. I musulmani devono «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» [Sura 9:95]. I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell'Islam senza sosta» [Sura 4:90]. «Combatteteli finché l'Islam non regni sovrano» [Sura 2:193].

«Tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» [Sura 8:12]

* Se un musulmano non si unisce alla guerra, Allah lo ucciderà [Sura 9:93]. 

* I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]

* I musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» [Sura 48:29]

* Un musulmano può uccidere ogni persona che desidera se è per «giusta causa» [Sura 6:152]

* Allah ama coloro che «combattono per la Sua causa» [Sura 6:13]. Chiunque combatta contro Allah o rinunci all'Islam per abbracciare un'altra religione deve essere «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» [Sura 5:34]

* «Chiunque abiuri la sua religione islamica, uccidetelo». [Sahih Al-Bukhari 9:57]

* «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» [Sura 9:5]

* «Prendetelo (l'infedele n.d.t.) ed incatenatelo ed esponetelo al fuoco dell'inferno» [Sura 69:30]

* «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» [Sura 8:12]

* «Essi (gli infedeli ndr) devono essere uccisi o crocefissi e le loro mani ed i loro piedi tagliati dalla parte opposta» [Sura 5:33]

(Qualcuno osa ancora dire che l’Islam è una religione di pace? Aggiungo solo un dettaglio non irrilevante: anche nell’Antico Testamento ci sono frasi ispirate alla violenza. Ma poi c’è il Nuovo Testamento che lo reinterpreta e la Chiesa cattolica che ne dà la lettura ufficiale, valida per ogni cristiano. Nell’Islam, come è noto, invece…)

"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano su “Libero Quotidiano del 28 luglio 2016. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano 

L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.

La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola

La massoneria cattiva che minaccia il mondo, scrive Claudio Messora il 9 dicembre 2015. Gioele Magaldi vi racconta i disegni della massoneria neo-aristrocratica e la battaglia in corso con quella progressista per il dominio sul mondo (la prima) e per il ripristino delle libertà fondamentali dell’uomo (la seconda), mostrando le connessioni con gli ultimi avvenimenti del contesto geopolitico.

Ho letto alcune tue interviste, in cui analizzi i fatti di Parigi, e li leghi all’intreccio massonico. Confermi?

Fatti come quelli del 7 gennaio e del 13 novembre sono già adombrati nel libro, specialmente nell’ultimo capitolo di “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere. L’ISIS è una creatura non “occidentale”, così come spesso si dice in una banalizzazione delle dinamiche del potere: è semmai una creazione sovranazionale, apolide. Ci sono forze sovranazionali che operano. E lo fanno con uno spirito cosmopolita. C’era per esempio, nell’Ottocento, una internazionale massonica progressista che andava a fare le rivoluzioni ovunque vi fosse una tirannide. La patria era ogni luogo ove si trattasse di aiutare delle persone ad auto-determinarsi, a darsi Costituzioni, liberali e democratiche. Garibaldi è uno che ha combattuto ovunque, insieme ai patrioti ungheresi, statunitensi, francesi. Sono venuti a fare il Risorgimento in Italia e sono andati a farlo in Ungheria, e sono andati in Francia, sono andati negli Stati Uniti. Ecco, invece oggi, da settant’anni a questa parte, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, per la prima volta nella storia nell’ambito della Massoneria sono arrivati all’egemonia dei gruppi massonici, non più progressisti, ma io li definisco neo-aristocratici e reazionari, con un’idea non più cosmopolita del loro potere e delle loro battaglie, ma apolide, cioè indifferente, cinicamente indifferente al benessere dei singoli popoli, e anche sopraelevati rispetto a qualunque controllo di tipo territoriale, con la capacità di incidere, quindi, globali. Ecco! Nell’ambito di questi circuiti c’è una super-loggia, la Hathor Pentalpha, che è a monte anche degli eventi tragici dell’11 settembre. A un certo punto prorompe in un ambito di altre super-logge neo-aristocratiche e, quasi come una super-loggia eretica in negativo, immagina un mondo dove anche il terrorismo, su scala globale, abbia un ruolo politico importante.

Un ruolo destabilizzatore?

Sì. Noi abbiamo già questa esperienza, per averla vissuta in Italia ma anche in singole altre nazioni. L’esperienza di un terrorismo degli anni Settanta e Ottanta che, molto spesso, è stato ambiguo ed opaco, nel senso che è un terrorismo dove ci sono state infiltrazioni di manine varie, cioè non c’era soltanto l’istanza, come dire, spontanea, autonoma e autentica ancorché terribile, di gruppi coerenti con quell’aberrante idea di trasformazione della società in modo violento, armato. No! C’era chi ha accompagnato, infiltrato, eterodiretto. Immaginiamo allora che a un certo punto qualcuno decide, in un mondo più globalizzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta (ricordiamoci che la globalizzazione in senso stretto arriva dopo l’unificazione europea, la caduta del muro di Berlino e la caduta dell’Unione Sovietica), in un nuovo contesto che è quello che si va a configurare all’inizio del XXI° Secolo, che il terrorismo globale possa avere un ruolo importante per ridefinire i rapporti sociali e politici. Non ci scordiamo che, dopo il 2001, negli Stati Uniti e quindi nella prima democrazia al mondo, tutte le norme legislative del Papework Act sono all’insegna di una violazione patente di quei principi di democrazia e libertà su cui gli Stati Uniti e tutte le democrazie moderne sono stati edificati. E oggi, in Italia, in Francia, in Europa, dopo gli eventi francesi si inizia a pensare a misure legislative illiberali come il Papework Actamericano.

Quando tu dici che c’è una super-loggia che avrebbe interesse ad immaginare un ruolo politico per il terrorismo”, nella sostanza, a chi ti riferisci?

La caratteristica delle super-logge massoniche è quella di inglobare personaggi che provengono dall’establishment politico, finanziario, militare, diplomatico, dall’intelligence… Cioè: la trasversalità delle presenze è funzionale, perché c’è bisogno di una copertura mediatica. C’è bisogno di omissioni mediatiche. C’è bisogno di connivenza industriale, connivenza militare, connivenza politica.  I personaggi sono i protagonisti negativi dei primi anni duemila. Anche lì, attenzione! Certamente c’è dentro il clan Bush, ma il clan Bush è soltanto la punta di un iceberg. Il Governo degli Stati Uniti, gestito malamente nei due mandati di George W. Bush, in realtà è stato uno strumento. Quando alimentiamo polemiche antiamericane, non ci rendiamo conto che non esiste l’America in quanto tale. Gli Stati Uniti, come ogni grande paese, sono attraversati da gruppi di potere che spesso sono in feroce lotta tra di loro. Questi poteri apolidi di cui parlavo prima si servono anche del governo degli Stati Uniti, quando possono, perché è un governo importante, che muove risorse militari ed economiche importanti. Ma si tratta di un utilizzo fatto dall’esterno, attraverso persone che, contingentemente, occupano dei posti. Mi chiedono se no ho paura di morire. Intanto ci tengo a precisare che non sto “sputtanando” la Massoneria: io sono un massone fiero di essere tale, e lo rivendico con orgoglio. L’opinione pubblica italiana è paurosamente ignorante su questo tema, a partire dai libri di scuola dove l’argomento massoneria viene omesso. Nessuno ne parla, né nel bene né nel male. La massoneria è stata centrale, a partire dal settecento e fino agli anni sessanta con la New Frontiers, che è stata l’ultima istanza veramente progressista del novecento. Kennedy non era massone, ma il suo ideologo di riferimento, Artur Meier Schelesinger, era massone ed era anche Maestro Venerabile di una loggia progressista molto importante: la Thomas Paine, alla quale ho avuto il privilegio di essere iniziato. E poi va ricordato l’evento epocale che ha mandato, per la prima volta, il primo Presidente cattolico alla guida degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e il primo Papa massone al Soglio Pontificio, che fece il Concilio Vaticano II° e riconciliò la Chiesa con la modernità. Una sorta di connubio, quindi, grazie a un’operazione voluta da alcune logge di ambiente cattolicheggiante e non. Da questo partì anche, grazie ad una serie di reti massoniche, la risoluzione della crisi missilistica di Cuba. C’è questo tentativo che vedrà poi degli epigoni anche in una serie di persone che verranno uccise, da Robert Kennedy a Martin Luther King. Robert Kennedy stava per essere iniziato: non fece a tempo. Martin Luther King invece era massone. E c’è un laboratorio, in quel momento, che tenta di proporre un ampliamento dei diritti sociali ed economici: era la New Frontiers kennedyana, che venne bloccato attraverso degli omicidi. Questi omicidi segnano anche l’arrivo di una nuova egemonia, non più della massoneria progressista, che appunto io rivendico con orgoglio e che dal settecento in avanti ha trasformato il mondo portando la sovranità del popolo, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto, i diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini – e questa cosa avrebbe potuto proseguire, e forse oggi ci troveremmo in un mondo diversamente globalizzato -, ma di una massoneria neo-aristocratica, che immagina un’involuzione oligarchica e tecnocratica nella governance mondiale.

E ci riesce, fino ad adesso!

E ci riesce fino ad adesso! Naturalmente con delle accelerazioni pericolose da apprendisti stregoni, che offrono il fianco ad una reazione. Io, insieme ad altre persone in Italia e nel mondo, stiamo cercando di “riavviare”, la forza comunque silente, intatta, dei circuiti massonici progressisti che hanno sonnecchiato.

Per tornare alla domanda precedente, come influiscono queste super logge nei fatti, nei flussi degli avvenimenti terroristici?

Facciamo un esempio: il famoso Califfo al-Baghdadi. Siamo al limite del paradosso: coloro che lo detengono come pericoloso terrorista si vedono recapitare un ordine di scarceramento! Questo signore è stato iniziato massone, è un uomo del tutto integrato nel sistema di vita occidentale il quale, insieme agli altri suoi compari, da mesi fa una sceneggiata hollywoodiana, perché tutte le decapitazioni in mondovisione, tutto il sistema comunicativo dell’ISIS, è un sistema ben studiato.

Compresa Rita Katz che è l’unica…

Tutto quanto è ben studiato. Ci sono alcuni che sono iniziati a queste logge “controiniziatiche”, che io definirei una “massoneria maligna“, una pianta maligna che è fiorita dentro un corpo non solo sano, ma benemerito. E poi ci sono naturalmente gli ignari. L’ISIS fa un salto di qualità. Prima avevamo il terrorismo di al-Qaeda che era un terrorismo a macchia di leopardo: non c’era uno Stato: c’era una base in Afganistan. Qui invece c’è un catalizzatore potente anche ideologico, cioè l’ISIS, che è un punto di richiamo per cellule sparse ovunque, ma ha che ha anche una sua forza finanziaria, una capacità di espansione e di attrazione, antitetica anche alla modernità. Diciamo la verità: sono state introdotte leggi liberticide con il Patriot Actnegli Stati Uniti e anche altrove in Occidente, ma poi si era spenta l’emergenza al terrorismo, perché era un’emergenza fasulla, farlocca, così come è farlocco il pericolo dell’ISIS. Proseguendo nella direzione che stiamo prendendo, ad un certo momento ci sarà un intervento militare del solito tipo, cioè di tipo distruttivo. Ci andranno di mezzo popolazioni inermi, civili, senza nessuna costruzione di infrastrutture materiali e immateriali della democrazia e della libertà. A questo si arriverà titillando la paura, l’orrore. Invece, diciamoci la verità, quello che bisognerebbe fare oggi è sì raderli al suolo (io sono per l’intervento di terra, di aria, di tutto), ma la potenza delle democrazie è talmente spropositata che, se volessero intervenire, in poco tempo l’ISIS verrebbe raso al suolo. Ma poi occorrerebbe fare una cosa che non è stata fatta in tutti questi decenni: cioè invece di proporre forme diverse e sempre uguali di neocolonialismo, di sfruttamento del caos altrui per i propri interessi, si tratterebbe di costruire, in quei Paesi, infrastrutture materiali e immateriali di democrazia. Questo è lo spirito della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che noi abbiamo approvato all’ONU, ma che è lettera morta! Cioè pensare che fatte salve le specificità culturali, però ci voglia il rispetto delle donne, il rispetto dei diversi, il rispetto dei dissenzienti, il rispetto del fatto che gli esseri umani sono cittadini e non sudditi. Tutte cose che io rivendico come portate dalla massoneria, la massoneria ha inventato il concetto di esseri umani latori pro quota di sovranità e non sudditi. Guardate che la consuetudine dei millenni di storia umana è quella di avere avuto oligarchie, aristocrazie religiose o profane a governare su masse di straccioni tenuti nell’ignoranza e nell’abbrutimento. La massoneria, gli avanguardisti massoni, dal settecento in avanti hanno cambiato questo stato di cose. Adesso, degli avanguardisti in negativo stanno cercando di introdurre un governo mondiale di aristocratici dello spirito, sedicenti “illuminati”. Illuminati è un aggettivo, non un sostantivo come alimenta un certo fiume carsico complottista. Non esiste nessuna continuità storica tra illuminati di Baviera e presunti illuminati che governerebbero il mondo, cosa che non significa nulla. ‘Illuminati’ è un aggettivo che può attribuirsi ad alcuni massoni aristocratici. Ecco, costoro immaginano un mondo neo-feudale, (ndr: cfr. “Diego Fusaro: il medioevo era meglio”) dove la democrazia – attenzione! -, non è affrontata in termini perentori, come invce accadde in certi esperimenti liberticidi e tirannici negli anni settanta. Cioè non si la si sostituisce con un regime tirannico, in occidente. Pensiamo a quello che accadde in Grecia, con la dittatura dei Colonnelli, a quello che accadde in Portogallo, a quello che accadde in America Latina con l’operazione Condor, al Cile, all’Argentina, a quello chesi tentò di fare in Italia con la P2 che doveva essere la base per gestire in modo autoritario, stile Argentina, un paese nel cuore dell’occidente. Oggi non si pensa più a questo perché il cittadino ormai è abituato ai riti della democrazia, alla retorica della democrazia. Oggi piuttosto si pensa di svuotarla di sostanza. Si abitua il cittadino a non eleggere più il Senato o le province (ad esempio, per parlare dell’Italia). In Europa ci si è abituati a una costruzione economicistica e tecnocratica: il Parlamento Europeo non è il luogo della sovranità del popolo: non ha il potere di sfiduciare un esecutivo europeo. Non abbiamo un dipartimento economico, quindi un primato della politica, sovra-ordinato alla Banca Centrale. Il più grosso potere è un potere non elettivo, tecnocratico. La Banca Centrale? Sì, c’è un diritto pubblico che la regola, ma la proprietà e l’indirizzo sono di natura privatistica. Ecco: questa Europa è figlia delle idee del comitato disposto da Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet, ex massone progressista (ndr: cfr. “Il piano Kalergi” e “La verità su Kalergi e il suo piano”), passato poi ai circuiti neo-aristocratici. Sento spesso dire: “Bisogna tornare allo spirito del discorso di Schuman dei padri fondatori”, ma proprio quello spirito ha costruito questa Europa! Il discorso di Robert Schuman del 1950 fu scritto da Jean Monnet!

La UE è una creatura massonica?

È una creatura massonica! io ne parlo nel secondo capitolo nel libro “Massoni”. Io davvero rinvio il tuo pubblico alla lettura di quel libro, perché gli ultimi settant’anni di storia vengono passati ai raggi-x con nomi, cognomi e circostanze in termini estremamente minuziosi.

Cosa vuole dire UR-lodges?

La massoneria storicamente si articola in Grandi Orienti o Gran Logge, cioè federazioni di logge su base nazionale, con una certa difformità di rituali. La massoneria è un network internazionale, tanto che c’è perfino unpassaporto massonico che consente di avere – diciamo – rapporti diplomatici. Tuttavia, questa articolazione viene superata, nella seconda metà dell’ottocento, dalla costruzione di super-logge sovra-nazionali, che bypassano gli insediamenti nazionali e quindi la sovranità territoriale di una giunta, di un Grande Oriente o di una Gran Loggia e si pongono in termini globalizzanti. Spesso cooptano tra le proprie file sia profani, cioè persone mai passate per iniziazione massonica ma eccellenti in vari ambiti, sia eminenze della massoneria tradizionale. Quindi può capitare che un personaggio importante, della United Lodges of England o della Gran loggia dello stato di New York o del grande Oriente di Francia o del Grande Oriente d’Italia, poi stia con un piede lì e un piede in una super-loggia, beneficiando di una maggiore capacità di movimento. Le UR-Lodegesdanno anche vita a quei soggetti che spesso sono immaginati illusoriamente come i protagonisti di certi eventi contemporanei. Parlo del Bildelberg Group, della Trilateral Commission, del Council on Foreign Relation, del Royal Institute of International Affairs, del Bohemian Club. Tutta questa pletora di entità, che non hanno alcuna vera soggettività importante o capacità di incidere, sono associazioni paramassoniche, dove si incontrano massoni e non massoni ma dove di solito sono in pochi quelli appartenenti alle UR-Lodges, le super logge che le hanno generate, ad avere il controllo. Per esempio Enrico Letta, che pure ha fatto e fa parte di varie entità paramassoniche, non è mai stato iniziato in una qualche UR-Lodges.

Mario Monti sì, però?

Mario Monti sì! E io ne ho parlato: sono stato forse il primo a spiegare qual era il background di Mario Monti.

Monti, Napolitano, Draghi… non c’è bisogno che te lo chieda. Ma la domanda era questa: le UR-Lodges hanno questo obiettivo di neo-feudalizzare la società globale. Ma se è vero che ogni cosa che si fa deve avere un obiettivo, un tornaconto, un interesse, qual è lo scopo finale? Forse pensano che il mondo sarebbe meglio organizzato in un altro modo, oppure hanno interessi economico-finanziari da difendere, o magari pensano di poter amministrare meglio la loro attività. Cosa vorrebbero?

“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.

D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…

R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015.  Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.

Cosa sono le superlogge massoniche?

Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.

Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?

Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi. 

Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese. 

Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.

Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?

Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche.  Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.  A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere. 

Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?

Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.

Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia? 

La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.

Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?

Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.

Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?

Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica. 

Casta per sempre, così i politici si sono tenuti tutti i loro privilegi. Indennità nascoste. Massaggi e viaggi gratis. Infermieri a disposizione anche per i genitori. Abusi di portaborse. E al lavoro solo tre giorni alla settimana. La bufera mediatica è passata, ma poco o nulla è cambiato, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 giugno 2016 su "L'Espresso". I senatori e i loro familiari non hanno mai paura di sedersi sulla sedia del dentista. Non perché più coraggiosi degli altri mortali, ma perché il conto, loro, non lo pagano mai. Ci pensano gli italiani: grazie all’assistenza sanitaria integrativa ogni parlamentare può avere rimborsi fino a 25 mila euro nell’arco di un quinquennio. Un plafond che comprende anche «lo sbiancamento di denti non vitali (250 euro per dente)» e «corone in oro e porcellana» a 1.150 euro l’una. Se il Censis segnala che 11 milioni di concittadini rinunciano alle cure a causa della crisi economica, e l’Ufficio di bilancio del Parlamento ha spiegato che il 7,1 per cento evita di farsi visitare perché i costi delle prestazioni sono troppo alti, lo stesso Parlamento regala a ogni senatore della Repubblica un plafond supplementare da 1.500 euro l’anno per farsi «una depressoterapia intermittente». Una somma che può essere spesa anche per «un’idrochinesiterapia» (si fa in piscine termali) e pure - se si tiene alla linea, l’estate ormai è alle porte - per «drenaggio linfatico manuale». In passato i Radicali avevano raccontato che ai deputati vengono rimborsati persino sedute di agopuntura e trattamenti shiatsu. Ebbene, se le proteste a nulla sono servite e i rimborsi per i massaggi sono ancora lì, nessuno sapeva che il tariffario di Palazzo Madama prevede anche «sedute individuali di training per dislessici», e che prevede risarcimenti di quasi mille euro al mese per pagare un infermiere in caso di bisogno (il servizio si può estendere anche ai genitori del senatore). Il senatore può presentare anche fattura per un paio di scarpe ortopediche da 600 euro (qualcuno giura che ce ne sono di molto eleganti in pelle), e se colto da attacchi d’ansia può spendere 5 mila euro l’anno per sedute dallo strizza-cervelli. Ecco. Il tariffario dedicato ai senatori, datato maggio 2015, è solo una delle evidenze che dimostrano come, nonostante gli scandali infiniti, le proteste dell’opinione pubblica, il ludibrio internazionale e le batoste elettorali, i privilegi della "casta"sono stati appena scalfiti. È vero: le province e i costi per gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri sono stati cancellati, i vitalizi per gli attuali parlamentari finalmente aboliti, ma per il resto prebende e vantaggi assortiti non sono stati toccati. «Il cash a disposizione dei parlamentari è rimasto praticamente identico», spiega la grillina Laura Bottici, questore al Senato che da tre anni sta ancora tentando di districarsi nella bolgia di sconti e stratagemmi (tutti leciti) con cui gli eletti possono gonfiare busta paga e aumentare le loro franchigie. Andiamo con ordine. La busta paga della Bottici è identica a quella dei suoi colleghi: l’indennità parlamentare è di 5.246 euro netti al mese. Se l’eletto fa anche un altro lavoro, scende un po’, a 4.750 euro. Se i grillini si sono decurtati lo stipendio, sono decine i deputati che mantengono la doppia professione. Nessuno stress: a Montecitorio e Palazzo Madama ci si va pochissimo, e il tempo libero non manca. «In questa legislatura in Senato si lavora da martedì pomeriggio, quando partono le convocazioni in aula e commissione, fino a giovedì mattina. Per interrogazioni o question time si arriva a dopopranzo: ma il senatore non ci va quasi mai, e il giovedì alle 14 parte e torna a casa» ragiona la Bottici. «Pure le commissioni sono sempre deserte: solo quando si vota l’affluenza aumenta, perché la maggioranza non vuol rischiare di andare sotto. Anche noi andiamo poco in aula, lo ammetto: le discussioni sono del tutto inutili, è la regolamentazione che va cambiata al più presto». È probabilmente d’accordo con lei Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, almeno a spulciare le statistiche Openpolis: in tre anni deputato-fantasma di Forza Italia ha votato 86 volte su 16.365, con un tasso di assenza pari al 99,51 per cento. A Montecitorio tra i meno presenti ci sono l’altro forzista Rocco Crimi (che ha l’8 per cento di presenze), l’ex Pd Francantonio Genovese (assenze forzate le sue, visto che è stato arrestato nel maggio del 2014), l’alfaniano Filippo Picone (che ha un invidiabile 82 per cento di assenze), seguito a ruota da Giorgia Meloni, oberata leader dei Fratelli d’Italia che vanta un tasso di assenteismo del 76,4 per cento. Recordmen in Senato sono invece l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e il capo di Ala Denis Verdini: il primo s’è presentato in aula lo 0,91 per cento delle volte, il secondo è stato assente l’88 per cento delle sedute. L’assenteismo è spesso giustificato dall’inutilità della presenza fisica. In effetti, dai tempi dei governi Berlusconi l’interventismo governativo ha trasformato i parlamentari in meri pigiatori di bottoni, obbligati a un ozio strapagato e a una noia dorata. È un fatto che le leggi, principale attività per la quale vengono eletti i Nostri, sono ormai appannaggio quasi esclusivo dell’esecutivo: dal 2013 Camera e Senato hanno approvato in tutto solo 36 leggi di iniziativa parlamentare, mentre ne hanno approvate 176 di iniziativa del governo. In media meno di un dispositivo al mese, contando anche norme sull’equilibrio di donne e uomini nei consigli regionali, l’istituzione del "Premio Biennale Giuseppe Di Vagno" e la nascita del "Giorno del Dono" fortemente voluta dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Un po’ poco, forse, per chi all’indennità aggiunge una diaria forfettaria da 3.503 euro nette al mese, che serve ai deputati per sostenere le spese di soggiorno a Roma (viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza, ma un eletto, anche se partecipa al 30 per cento delle votazioni nell’arco di una giornata, è considerato presente). Al gruzzolo vanno aggiunti altri 3.690 euro, sempre netti, come rimborso necessario a garantire il rapporto tra eletto e il suo collegio. Di quest’ultima somma il 50 per cento viene girata direttamente in busta paga, l’altra metà a piè di lista. Può essere usata per pagare collaboratori e consulenze, organizzare convegni e qualsiasi altro «sostegno alle attività politiche». Al Senato il sistema è diverso: «Oltre l’indennità abbiamo rimborsi pari a 9.330 euro al mese, tra diaria, spese generali e quelle per l’esercizio del mandato. Una delle cose più assurde è che la parte che bisogna rendicontare (solo 2.090 euro, ndr) se non si riesce a spenderla per intero entro la fine del mese, può essere "recuperata" prima della fine dell’anno», commenta il questore. «Tutti soldi, si badi bene, non tassati». Matteo Renzi sa bene che il tema degli stipendi-monstre dei parlamentari è uno dei leitmotiv dei movimenti anti-sistema, e non manca occasione di ricordare che la riforma costituzionale prevede un taglio drastico dei senatori (oggi sono 315, ne sopravviveranno 100) e l’eliminazione dell’indennità per chi siederà sugli scranni di Palazzo Madama. Già: il nuovo Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci che prenderanno solo lo stipendio dall’ente di appartenenza, ma godranno dell’immunità parlamentare. Se ad ottobre vincessero i Sì e la riforma firmata da Maria Elena Boschi entrasse in vigore, i costi generali della struttura secondo uno studio della Ragioneria Generale si ridurrebbero però di appena 9 punti percentuali. Complessivamente il Senato, novello ente inutile, continuerà a costare poco meno di mezzo miliardo di euro l’anno. La metà di quanto costa Montecitorio (nonostante tagli e sforbiciate la Camera pesa ancora un miliardo di euro l’anno sull’erario) e il doppio dei costi del Quirinale, casa del capo dello Stato Sergio Mattarella e altro palazzo che gli italiani continuano a pagare a carissimo prezzo. Per il 2016 la spesa complessiva effettiva sarà pari, si legge nel bilancio di previsione», a 236 milioni di euro, «in diminuzione del 2,15 per cento sul 2015», e di un solo milione sul 2014. Dal 2007, anno in cui il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella evidenziò come la corte presidenziale abitata da centinaia di corazzieri, poliziotti, funzionari e burocrati costasse quattro volte la reggia di Buckingham Palace, è stata tagliata - in termini assoluti - di appena quattro milioni di euro. Nonostante la riduzione del numero del personale, l’aumento costante del costo delle pensioni fa si che il Quirinale costi il doppio dell’Eliseo, e quasi dieci volte la presidenza tedesca. Nulla sembra possa modificare neppure il destino dei portaborse. I deputati possono usare il 50 per cento della diaria per pagare lo stipendio ai propri collaboratori, ma in molti continuano a farne a meno per intascare tutto il cucuzzaro, preferendo rendicontare altre spese. Altri assumono segretari con stipendi da fame. Se la Bottici ricorda che è uso comune girare soldi al partito in cambio di un collaboratore di fiducia (in questo modo gli uffici di Palazzo Madama non sanno nemmeno che tipo di contratto ha), Valentina Tonti, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari chiarisce subito che anche in questa legislatura per i portaborse «la situazione non è affatto cambiata». Non esistono infatti regole chiare per l’assunzione, né contratti regolamentati come avviene nel resto d’Europa. «Esistono ancora stagisti che fanno i portaborse senza essere pagati neanche un euro, ragazzi che sono contrattualizzati da un solo deputato ma che lavorano per più parlamentari, altri pagati - almeno in parte - al nero. Nessuno denuncia gli abusi, nemmeno a noi dell’associazione: tutti hanno paura di perdere il posto e di non trovarlo più», dice la Tonti. Com’è possibile che il ricatto occupazionale sia messo in atto nei palazzi del potere nonostante inchieste e scandali a catena? «Non lo so. So solo che qualche mese fa siamo riusciti a far approvare alla Camera un ordine del giorno trasversale, che impegnava il palazzo a studiare nuove norme. Finora non abbiamo avuto riscontri, nonostante a parole sia il presidente Laura Boldrini sia i vari partiti siano totalmente d’accordo». A parole. Nei fatti ad oggi è segreto perfino il numero complessivo delle assunzioni, e che le tipologie contrattuali siano avvolte nel mistero più fitto. L’unica certezza è che il sistema incentiva il parlamentare a risparmiare più possibile sul collaboratore, in modo da intascarsi più denaro possibile. Lo stipendio medio di chi è riuscito a strappare un contratto "normale" si aggirava fino a pochi mesi fa sui 1.100 euro al mese, ma adesso, a causa del Job’s Act, il tempo determinato è diventata un’assunzione più onerosa, «e il netto» conclude la Tonti «si è abbassato». Torniamo a chi, dell’Irpef, se ne frega. La mole di integrazioni economiche per i parlamentari, nell’anno di grazia 2016, sembra infinita. I deputati e i senatori più fortunati continuano ad arrotondare lo stipendio con le indennità di carica: i membri del consiglio di presidenza e i presidenti di commissione sono quelli che le hanno più alte. A Montecitorio tutti godono di un plafond supplementare di 1.200 euro l’anno per il rimborso delle spese telefoniche (fino al primo aprile 2014 era addirittura di 3.980 euro), mentre altri 1.500 euro l’anno sono destinati all’acquisto di un computer o un tablet. Al Senato c’è una voce simile: 2.500 euro per ogni legislatura, «ma io ci ho rinunciato, il pc me lo sono comprato da sola. Così come rifiuto di prendere i soldi che mi spetterebbero per l’esercizio del mandato», chiosa la Bottici, che eliminerebbe con un tratto di penna le norme che permettono di dare somme forfettizzate, in modo da obbligare chi chiede rimborsi spesa a mostrare fatture e pezze d’appoggio. Come dalla nascita della Repubblica, anche nella XVI legislatura i parlamentari hanno privilegi eccezionali sui trasporti: un must della casta. La tessera che gli permette di viaggiare gratuitamente, e in prima classe, su treni, autostrade e aerei in tutto il territorio nazionale non è stata abolita. «Viaggiamo gratis anche se dobbiamo andare al compleanno di nostra nonna», spiegò Carlo Monai a "l’Espresso" qualche anno fa, un ex democrat che chiedeva al Parlamento di mettere controlli affinché fossero pagate solo le trasferte legate all’incarico pubblico. Carlo Fraccaro, deputato del M5S, aggiunge oggi un altro dettaglio: «Per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra Fiumicino e Montecitorio, è previsto un rimborso spese trimestrale di 3.323 euro per coloro che vivono entro 100 chilometri dall’aeroporto più vicino alla residenza, e di quasi 4 mila euro se la distanza da percorrere supera i 100 chilometri». Ci sono anche altri vantaggi che la legislatura non è riuscita (?) ad eliminare: come la moda di collezionare, a spese del contribuente, miglia Alitalia da utilizzare per viaggi all’estero o quelli di amici e parenti. Senato e Camera fanno riferimento all’agenzia americana Carlson Wagonlit, con sede in Minnesota, e quasi tutti i parlamentari sono frequent flyer Alitalia. Nessuno vieta loro di scegliere altre compagnie, ma i politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devono anticipare di tasca propria (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall’altro perderebbero i punti fedeltà da accumulare sulla carta "Millemiglia". Punti che sono personali, e che vengono usate dal deputato come meglio crede. Nel 2014 i deputati grillini in un ordine del giorno hanno proposto che Montecitorio valutasse «l’opportunità di avviare una trattativa per riformulare i termini dell’accordo della Camera con Alitalia», in modo da attribuire non al singolo parlamentare ma all’amministrazione i punti maturati con i biglietti aerei pagati con fondi pubblici. Finora, la proposta è rimasta lettera morta. La vita a scrocco è un must indistruttibile. Non c’è scandalo che tenga: se Monai raccontò che parcheggiare al parking di Fiumicino, al silos "E", costa agli italiani 293 euro al mese e al parlamentare solo 50, se i mitici barbieri sono ancora lì (passati da 7 a 4, insieme ai quasi mille dipendenti vedranno una riduzione del loro stipendio a partire dal 2018: a fine carriera potranno comunque arrivare a guadagnare 99 mila euro l’anno), i deputati possono beneficiare - se vogliono comprarsi un’auto nuova - di sconti proposti dalle case automobilistiche, riservati esclusivamente a loro. Sarebbe ipocrita, però, non sottolineare che qualche passo verso la sobrietà è stato comunque fatto. Le auto blu sono calate drasticamente: il Senato - al netto della scorta del presidente Piero Grasso - ha solo sette Audi A6 più quattro auto elettriche, tutte a noleggio; mentre la Camera gestisce nove auto di cilindrata media, più due van monovolume per le delegazioni. «Un parco macchine ridicolo per un’istituzione così importante», protesta un deputato del Nuovo Centro Destra, che ricorda con nostalgia la trentina di berlina 2.4 di due legislature fa. Passasse il referendum sul disegno di legge costituzionale della Boschi, oltre gli stipendi dei senatori verrebbero tagliati con l’accetta le indennità dei consiglieri regionali, in qualche caso più che dimezzate. Il governo Monti, con un decreto, fissò un tetto massimo di 8.500 euro al mese. Netti. Un limite che, vista la crisi economica, resta comunque altissimo: con la vittoria del Sì i consiglieri prenderebbero automaticamente quanto il sindaco del capoluogo della regione di appartenenza: per fare un esempio, in Calabria i consiglieri passeranno da oltre 7 mila euro netti ai 2.500 euro appannaggio del sindaco di Catanzaro. Una mazzata, secondo Renzi. «Spiccioli», per chi considera la riforma un immondo papocchio che non vale «lo stravolgimento della Carta e della nostra democrazia».

Deputati, basta accettare regali costosi. Ora c'è il codice etico. Ma non prevede sanzioni. La Camera si prepara a varare un documento che chiede agli onorevoli di rifiutare doni dal valore superiore ai 250 euro. Ma chi non lo rispetta riceverà solo una segnalazione sul sito internet di Montecitorio, scrive Susanna Turco il 25 marzo 2016 su "L'Espresso". I deputati facciano la cara grazia di non accettare più regali costosi, almeno "nell’esercizio delle loro funzioni". Non che sia una rivoluzione: più che altro è un argine, un appello alla responsabilità dei parlamentari. E’ questa la novità principale del Codice etico che la Camera si appresta a varare, introducendo – sul modello del Parlamento europeo - un limite di 250 euro a "doni e benefici analoghi", oltre il quale il deputato "si astiene dall’accettare", c’è scritto proprio così. Un consiglio, un'indicazione, più che un obbligo: anche perché, allo stato, non sono previste vere e proprie sanzioni per chi continuasse a fare come prima. D’altra parte è un Codice etico, mica una legge. Il testo, appena approvato dalla Giunta del Regolamento, può essere ancora modificato (il termine per gli emendamenti è l’8 aprile), ma dovrebbe venir approvato come "protocollo sperimentale" entro il mese prossimo. Oltre alla preghiera dei regali low cost, ma si prevede una serie di comunicazioni obbligatorie, come quella relativa a tutte le cariche e uffici che si ricoprono e ricoprivano all’epoca della candidatura, le dichiarazioni di spesa per la campagna elettorale, quelle sugli eventuali finanziamenti, la situazione patrimoniale, i redditi. Sarà un "Comitato consultivo sulla condotta dei deputati" a vigilare su eventuali violazioni, ma qui appunto è il bello: per chi non rispetterà il codice non c’è una sanzione, c’è l’esposizione alla pubblica gogna del web. Una punizione politico-mediatica, meglio che niente: gli inadempienti e le violazioni saranno resi pubblici sul sito internet della Camera. "Così si finisce per indebolire la portata dell’intero testo", si è lamentato l’altro giorno in Giunta il grillino Danilo Toninelli. I Cinque stelle, come pure Forza Italia, vorrebbero che almeno si applicassero le stesse sanzioni previste per chi provoca disordini in Aula, come la sospensione del deputato dai due ai quindici giorni. Ma non è così semplice. O meglio non tutti ritengono si possa fare. Secondo l’orientamento emerso sia dall’autore della norma Pino Pisicchio, che dalla presidente della Camera Laura Boldrini, se si inseriscono delle sanzioni, bisogna modificare il Regolamento della Camera. Non si può semplicemente estendere l’applicazione delle norme che già ci sono. Questo, però, significherebbe far passare il Codice etico per l’approvazione dell’Aula di Montecitorio: "E il rischio andare in Aula è finir per non fare più niente", confida lo stesso Pisicchio. Si sa come vanno queste cose: già se la norma diviene efficace così come è, si può chiamarla una vittoria. E allora meglio comunque fare qualcosa, è la logica. Anche perché c’è poco tempo: giusto ad aprile un organismo della Corte Europea (l’acronimo è "Greco"), verrà a verificare i livelli di corruzione in Italia, e uno dei requisiti richiesti riguarda appunto le norme di comportamento dei deputati. Sarebbe spiacevole incorrere in una procedura di infrazione. L’altro requisito richiesto dal Greco, che in verità è ancora più complesso da attuarsi, riguarda la regolamentazione dell’accesso a Montecitorio dei lobbisti. Una questione strettamente connessa con il Codice etico dei parlamentari, come si può intuire. E’ il secondo testo all’esame della Giunta del regolamento, e dovrebbe essere approvato in tandem con il primo. Anche se taluni fanno resistenze, argomentando che servirebbe una vera e propria legge di regolamentazione delle lobbies (che peraltro è in discussione al Senato). L’ambizione ultima, per quel che riguarda la Camera, sarebbe quella di chiudere l’era degli assalti ai corridoi di Montecitorio – tipo mercato delle vacche – quando si discute di legge di stabilità e altri provvedimenti delicati e complessi. E’ sempre stato così, a conseguenza di un regime che di fatto, nei decenni, si è rivelato odiosamente irriformabile. Ma a quali luoghi i lobbisti potranno accedere o meno, lo stabilirà l’Ufficio di presidenza in un secondo momento. Per ora, la Giunta per il Regolamento punta ad approvare un protocollo di regolamentazione: i lobbisti dovranno registrarsi (non è ammesso chi ha sentenze definitive per alcuni reati), dichiarare quali interessi sponsorizzano e, due volte l’anno, pena la cancellazione dal registro, fare una relazione su quali parlamentari abbiano incontrato, quali obiettivi raggiunto, con che "mezzi", e quali spese abbiano sostenuto. La norma al momento riguarda anche gli ex parlamentari che svolgano attività di lobbing. Difficile immaginare un controllo serrato: ma del resto anche una innovazione come quella progettata in questi giorni alla Camera sarebbe un debutto assoluto, nel Parlamento italiano.

ESIBIZIONISMO. LA SINDROME DELL'APPARIRE. QUESTI POLITICI: COMMEDIANTI NATI?

Viene prima il volto televisivo o il politico? Conta più la telegenia e la sfrontatezza o la competenza e la capacità? La notorietà deriva dal piccolo schermo o dalle aule parlamentari?

Ne parla il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Gli esordi televisivi di molti politici è la manifestazione del loro esibizionismo. Molte persone amano mettersi al centro dell’attenzione, cercano in tutti i modi di farsi notare dagli altri, sentono, cioè, un profondo bisogno di farsi vedere da tante persone, affinchè l’attenzione delle persone sia rivolta solo a loro, perchè si parli di loro.

La politica come strumento dell’esibizionismo. Sono sempre di più, infatti, i volti televisivi che decidono di impegnarsi in politica. 

Dal 1948 a oggi, quanti hanno intrapreso la carriera politica tra attori, attrici, showgirl, cantanti, presentatori, presentatrici, comici, barzellettieri, ecc.? 

Syusy Blady, nota per il programma Turisti per caso: ha aderito alla causa dei Verdi e correrà per loro alle europee 2014.

Alessandro Cecchi Paone, dopo dieci anni il conduttore torna a schierarsi con Forza Italia. “Non potevo dire di no”, ha dichiarato Paone, “sono prontissimo” e correrà per loro alle europee 2014.

Elisabetta Gardini, primo volto di Uno Mattina Rai. Ci aveva provato già nel 1994 ad entrare in parlamento, candidata nel Patto Segni. Ma Elisabetta Gardini viene eletta, alle Europee, solo dieci anni dopo nelle liste del Pdl. Conquistando 34mila preferenze, in sole tre settimane di campagna elettorale. Una carriera, quella di Gardini, cominciata come attrice teatrale e continuata con l'esperienza in tv a Domenica In.

Fabrizio Bracconieri, un ex “ragazzo della III C”, noto anche per il programma Forum, correrà per le europee 2014.

Enzo Tortora al parlamento europeo nel 1984 per il Partito Radicale.

Iva Zanicchi. Da "La zingara" che conquistò Sanremo nel 1969, alla trasmissione "Ok, il prezzo è giusto". Non solo cantante e presentatrice televisiva, Iva Zanicchi ha fatto carriera anche in politica: prima è stata candidata per Forza Italia alle elezioni europee del 1999 e del 2008, senza essere eletta. Poi è subentrata al dimissionario Mario Mantovani ed è stata rieletta europarlamentare nel 2009. La candidata più votata al parlamento europeo nel 2009, battuta solo da Silvio Berlusconi. 

Enrico Montesano e Michele Santoro sempre al parlamento europeo a sinistra.

Vladimir Luxuria, dall’organizzazione del Muccassassina, una delle feste più famose di Roma, fino a diventare la prima parlamentare transgender di un parlamento europeo. Eletta come indipendente nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, Vladimir Luxuria si è battuta alla Camera per i diritti della comunità Lgbt.

Lilli Gruber sempre al parlamento europeo, lo schieramento quello dell'Ulivo.

Barbara Matera, dopo aver conquistato la notorietà diventando “signorina buonasera” in Rai, prima rinuncia alla candidatura alla Camera nel 2008, così da finire gli studi, poi un anno dopo accetta l’offerta del Pdl per le Elezioni europee.

Come si arriva all’elezione della velina Barbara Matera al Parlamento europeo? Quando l’uso strumentale del corpo si impone al punto da diventare esso stesso messaggio politico? 

Per raccontare questa storia è necessario fare un passo indietro al settembre 2004: Flavia Vento. "Nasce il mio nuovo movimento Figli dei fiori". Così Flavia Vento, la soubrette nota al grande pubblico grazie a Libero, il programma di Teo Mammucari, aveva annunciato su twitter il suo ingresso in politica.  

Ylenia Citino, candidata nelle liste di Forza Italia alle Europee e laureata alla LUISS. L'ex tronista, per un paio di mesi, della nota trasmissione di Maria De Filippi “Uomini e donne”.

Ilona Staller, in arte Cicciolina, una delle più note pornodive, fa il suo ingresso in Parlamento nel 1987, eletta alla Camera dei deputati nelle liste del Partito Radicale, con 20mila preferenze, seconda solo a Marco Pannella.

Gabriella Carlucci, della sua carriera televisiva si ricorda soprattutto l’edizione di Buona Domenica condotta insieme a Gerry Scotti nel 1994. Lo stesso anno in cui si iscrive alla neonata Forza Italia. Due lauree, una in letterature straniere, l’altra in Storia dell’Arte, Carlucci è stata deputata dal 2001 al 2013 nei gruppi parlamentari di Forza Italia, poi Pdl, fino all’Udc di Pier Ferdinando Casini.

Debora Caprioglio. Il ruolo da protagonista in Paprika, il film di Tinto Brass del 1991, l’ha portata al successo. E’ stato Francesco Pionati, leader dell’Alleanza di Centro, a offrirle il ruolo di madrina della seconda Assemblea nazionale dell’Adc e poi responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nello stesso partito.

Alessandra Mussolini, nipote d'arte di Sophia Loren, prova a intraprendere la stessa carriera della zia come attrice. Ma invece viene candidata giovanissima alla Camera nel 1992 nelle liste del Movimento Sociale Italiano. Poi, un percorso all'interno di Alleanza Nazionale per poi approdare nel Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi.

Ombretta Colli, cantante e attrice, dopo aver condiviso col marito Giorgio Gaber ideali di sinistra, comincia la sua carriera politica in Forza Italia, diventando prima deputata nel 1995, poi senatrice, fino ad essere eletta come Presidente della Provincia di Milano e poi nominata Sottosegretaria alle Pari Opportunità, Moda e Design della Regione Lombardia nella giunta di Roberto Formigoni.  

Anna Kanakis Miss Italia nel 1977, ha avuto anche una breve carriera politica come responsabile nazionale di Cultura e Spettacolo nell’Unione Democratica per la Repubblica, fondato da Francesco Cossiga nel 1998 e di cui Clemente Mastella è stato segretario.

Carlo Calenda, Ministro del Governo Renzi, ed il passato da attore. Oltre ad essere figlio, come detto, dell’economista Fabio Calenda, Carlo è anche figlio della regista Cristina Comencini. E forse non è un caso che nel suo pedigree ci sia anche un brevissimo passato di attore. Infatti, nell’estate del 1983, quando aveva solo dieci anni, ha interpretato il piccolo scolaro Enrico Bottini nello sceneggiato televisivo «Cuore», ispirato all'omonimo romanzo di Edmondo de Amicis. Il film è stato diretto dal nonno Luigi Comencini.

Daniela Santanché, quando aveva ventidue anni, nel 1983, fu intervistata da una trasmissione tv che si chiamava “Viva le donne”, condotta da Amanda Lear. Le chiesero a quale programma televisivo avrebbe voluto partecipare e lei rispose: al telegiornale. Poi le chiesero cosa volesse fare da grande e lei rispose: "il ministro del Tesoro".

Michela Brambilla. Finisce tra i più visti di YouTube il video, scovato dalla Gialappa's, che documenta i suoi primi passi in tv. La rossa del Pdl era inviata di "I misteri della notte" nel 1991: occhiali scuri e guanti di pizzo, visitava i locali notturni di Barcellona, tra topless e balli sadomaso. Per la sua entrata in politica la motivazione l’ha data Silvio Berlusconi: “E’ un’ira di Dio, una che non molla l’osso”, ha detto scherzando, ma non troppo, perché Michela è sempre stata così, una “rompiballe che non si arrende mai”, come dice lei stessa, e che quando vuole qualcosa non demorde finché non l’ha ottenuto, scrive “Affari italiani”. Lo sa anche Giorgio Medail, che tenne a battesimo la ventenne Michela nel mondo del giornalismo televisivo. Michela l’aveva incontrato a Salsomaggiore, dove, con la fascia di Miss Romagna, partecipava alle finali di Miss Italia: non vinse, ma cominciò a tempestare di telefonate Medail, finché non la prese a lavorare con lui a Canale5. Su Youtube è ancora cliccatissimo uno dei suoi servizi tv del 1991 per “I misteri della notte”, programma “esoterico” di Medail, dove Michela gira per le discoteche di Barcellona in abbigliamento dark e succinto.

Mara Carfagna. La valletta della tv. Tra i video più datati, quello del suo esordio a TeleSalerno: Mara aveva 21 anni ed era una studentessa. Presentando Carfagna, il conduttore spiega che «i suoi hobby sono il piano e il canto», «non sopporta la falsità e l’ipocrisia» e che il suo sogno nel cassetto è «danzare all’American Ballet Theatre». Di lei, Silvio Berlusconi disse: "Se non fossi già sposato, la sposerei immediatamente". Mara Carfagna, dopo la carriera televisiva, si affaccia alla politica diventando coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania. Poi viene eletta alla Camera nel 2006 e nominata nel 2008 Ministro per le pari opportunità.

E poi ci sono loro: l’aspirante Premier ed il Premier.

Matteo Salvini. «Striscia la notizia» ha scovato un video di Matteo Salvini, attuale leader del Carroccio, quando partecipò alla trasmissione «Il pranzo è servito» condotta da Davide Mengacci. Era il 1993. Capelli lunghi, pizzetto e basettoni, giacca e cravatta fantasia e qualche chilo in meno di adesso, il giovane Matteo si presentò così al conduttore che gli chiedeva la sua professione: «Sono nullafacente, iscritto all’università in attesa di fare esami».

Matteo Renzi. Da tempo circola il filmato di Matteo Renzi, quando partecipò nel 1994 alla trasmissione «La ruota della fortuna con Mike Bongiorno. Il giovane Matteo arrivato «da un piccolo paese in provincia di Firenze, Rignano sull’Arno», come dice lui stesso nel video, racconta il suo hobby: «Faccio l’arbitro di calcio a livello dilettantistico, in seconda categoria».

Sicuramente in quest’elenco molti nomi mancano. Mi scuso per loro non averli ricordati.

Il moralismo dei tifosi. Troppe volte chi fa politica, in Italia, si comporta come gli ultrà del calcio, che hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo, scrive Giorgio Mulè il 29 aprile 2016 su "Panorama". Che poi, in cuor loro, manco i tifosi della Juventus credono fino in fondo alla filastrocca che canticchiano dopo ogni vittoria: "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi. Perché va bene il quinto scudetto consecutivo e il sano sfottò ai rosiconi, però loro per primi sanno che Calciopoli non si cancella, che gli "aiutini" e le "sviste" degli arbitri hanno influito sul corso dell'ultimo campionato. Però sono tifosi, appunto. E per loro stessa natura i tifosi sono fanatici, spesso hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo e sanno ben nascondere la realtà che non gli piace. Ma chi fa politica può essere tifoso? Chi ha l'onere di amministrare un Comune, una Regione o il Paese può davvero essere credibile se ripete in modo stucchevole "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi"? E se mentre lo ripete l'ipocrisia lo seppellisce? E se i comportamenti che lui rimprovera all'avversario sono esattamente gli stessi che lui perdona o fa finta di non vedere tra chi "gioca" nella sua squadra? Non parlo di falli di reazione, di sfoghi improvvisi. Ma di unaincultura politica purtroppo radicata. A Roma il Pd si è scatenato contro la candidata a sindaco dei 5 stelle. Lasciamo perdere il video farlocco dell' Unità che la voleva tra i sostenitori di Berlusconi ("Non è informazione, ma una vergogna" ha correttamente detto il presidente nazionale dell'Ordine dei giornalisti, anche a fronte delle mancate scuse del quotidiano) e dedichiamoci agli attacchi recenti del partito di Renzi: prima hanno accusato la Raggi di aver "nascosto" il suo praticantato legale presso lo studio Previti, poi di essere stata, sempre in veste professionale, cooptata nel cda di una società legata al braccio destro dell'ex sindaco Gianni Alemanno. Senatori e deputati del Pd hanno scatenato una tempesta di critiche ferocissime al grido di #omertàomertà o #raggiri, con dichiarazioni di fuoco su giornali e televisioni. Spostiamoci di 600 chilometri a nord. A Milano il candidato del Pd Beppe Sala è stato finora inchiodato a una serie di omissioni ben più gravi rispetto a quelle della Raggi per non parlare delle spericolate arrampicature sui conti Expo: ha dichiarato "sul mio onore" di non avere una casa in Svizzera e ha pure dimenticato di specificare di non aver solo un "terreno sito nel Comune di Zoagli" ma anche una bella villa. Avete per caso letto non dico un tweet al vetriolo, ma un felpato rimbrotto dei compagni di partito? Ovviamente no. La doppiezza del tifoso vale anche per gli indagati: si pretendono e ottengono le dimissioni del ministro Maurizio Lupi non indagato e si tiene al suo posto il sottosegretario Vito De Filippo che, a parte essere indagato nell'inchiesta Tempa rossa, è politicamente indifendibile al pari di un nugolo di amministratori lucani neppure sfiorati da un provvedimento di sospensione temporaneo dal partito. Vedremo adesso l'atteggiamento di lorsignori dopo l'inchiesta che vede il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, sotto inchiesta per concorso esterno in associazione camorristica. Vedremo come sarà declinata stavolta l'arte dei "migliori", l'antica supponenza che accomuna Renzi oggi, D'Alema ieri e Prodi l'altro ieri: cambia la specie nei secoli, ma la trasmissione del Dna è identica. Eccoli lì tutti e tre a riempirsi la bocca, quando conviene loro, di presunzione di innocenza. La presunzione abbonda, quanto all'innocenza meglio lasciar perdere.

Il Partito Democratico peggio della mafia? A contar gli indagati e gli arrestati sembra di sì!

Brescello sciolto per mafia, la dinastia di sinistra dei Coffrini e il condizionamento del clan delle “persone perbene”. Il paese di Peppone e Don Camillo è stato amministrato dal 1985 da Ermes (Pci) e poi dal figlio Marcello (prima assessore all'Urbanistica e poi primo cittadino). Negli anni tanti gli episodi controversi che hanno caratterizzato la cittadina emiliana: nel 1992 uno dei rari omicidi di 'ndrangheta, nel 2003 l'intervista del sindaco "padre" che difende Grande Aracri ("Qui si è comportato bene") e nel 2014 quella del sindaco "figlio" che dice il boss "è educato". Il Pd ne ha chiesto le dimissioni solo nel 2016, scrive David Marceddu il 20 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Hanno amministrato Brescello per 30 anni i Coffrini. Ma ora lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del loro comune chiama in causa le loro scelte amministrative: in attesa di capire che cosa dice la relazione segretata che ha portato alla scelta del consiglio dei ministri, il governo parla in un comunicato di “accertate forme di condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità organizzata”. “Ho la coscienza a posto, sono sicuro del mio operato e di quello di mio padre Ermes”, spiega Marcello Coffrini, sindaco fino a pochi mesi fa. I due ex primi cittadini non risulta che siano mai stati indagati in inchieste penali, eppure, già da tempo, erano finiti al centro di polemiche politiche per i loro giudizi espressi pubblicamente su Francesco Grande Aracri di Cutro. Per intendersi, Nicolino, il più famoso dei fratelli Grande Aracri, è considerato punto di riferimento della ‘ndrina reggiana sgominata dall’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Ma torniamo a Brescello, paese di 5mila anime in cui nel 1992 si verifica uno dei rari omicidi di ‘ndrangheta in terra emiliana: quello di Giuseppe Ruggiero, freddato in una guerra tra cosche. Era invece il 1985 quando Ermes, avvocato amministrativista di fama, diventa primo cittadino per il Partito comunista italiano: in pratica un erede ideale del Peppone di Guareschi che da queste parti si scontrava con Don Camillo. Cade il muro di Berlino, sparisce la falce e il martello, inizia la seconda repubblica, ma Ermes rimane al suo posto sino al 2004, quando lascia il testimone a Giuseppe Vezzani, sempre in quota Pd. Ma la dinastia non è conclusa: Marcello, figlio di Ermes, anche lui avvocato, diventa assessore all’urbanistica, posto chiave in qualunque giunta. E rimane lì per 10 anni durante i quali, secondo quanto trapela dalla relazione che ha portato allo scioglimento, alcune scelte urbanistiche avrebbero in qualche modo favorito uomini vicini proprio ai Grande Aracri. Nel 2014 infine diventa sindaco lui stesso, 10 anni dopo suo padre: ma per Marcello sarà una esperienza breve. A settembre dello stesso anno arriva la vicenda dell’intervista su Francesco Grande Aracri, anche lui condannato per mafia e da tempo residente a Brescello, e i riflettori della stampa si accendono sul paese. E il destino politico di Marcello è segnato. La figura di Francesco Grande Aracri torna alla ribalta diverse volte nei 30 anni della dinastia Coffrini. In una intervista del 2003 il sindaco Ermes parla di Grande Aracri, che allora era già stato arrestato, ma ancora non era stato condannato per mafia: “A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia e si è visto assegnare dei lavori dal Comune”. In quello stesso anno, un barista brescellese racconta di essere stato minacciato da persone che gli chiedevano il pizzo. Immediatamente appende un cartello con scritto “Chiuso per mafia” e abbassa le serrande. Ermes reagisce preannunciando cause legali per tutelare il nome di Brescello e la revoca della licenza al barista. Poi assicura: di organizzazioni criminali “non risulta il radicamento nei nostri territori”. Ma c’è di più. Pochi giorni prima della notizia dello scioglimento, era venuto anche a galla che nel lontano 2002 (e sino al 2006) Francesco Grande Aracri e diversi suoi fratelli (ma non Nicolino) erano stati difesi davanti al Tar di Catanzaro proprio da Ermes Coffrini. “Se viene un signore e ha bisogno non gli chiedo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?”, ha spiegato Ermes Coffrini alla Gazzetta di Reggio. E il Partito democratico dov’era? A settembre 2014, come detto, scoppia la bufera su Marcello Coffrini che durante una intervista alla web tv Cortocircuito aveva definito Francesco Grande Aracri uno “molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”. Il Pd non ne chiede le dimissioni. Convoca Marcello Coffrini a un incontro di sindaci, lo sgrida, ma lo lascia al suo posto. Motivo? Coffrini non risultava, a detta dell’assemblea dei sindaci, un iscritto al partito. Un anno e mezzo dopo ci vorrà Beppe Grillo per ritirare fuori il caso: stretto dalle polemiche sulla vicenda della sindaca di Quarto, il fondatore dei 5 stelle ricorda al Pd la vicenda di Brescello. Solo allora, e siamo a gennaio 2016, il Partito democratico – che non aveva messo in discussione Coffrini neanche al momento in cui il prefetto aveva mandato una commissione d’accesso per valutare lo scioglimento – decide di darsi una mossa e impone ai consiglieri comunali iscritti di togliere la fiducia al sindaco. Non tutti obbediranno, ma a quel punto Coffrini alza bandiera bianca autonomamente e si dimette. “Non ho timori, le mie dimissioni sono tutto tranne una fuga. Non ho nessuna responsabilità di tipo penale”, spiegherà l’ormai ex sindaco.

Tutti gli indagati del Partito Democratico. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica..., scrive Lu. Ro. Il 28 aprile 2016 su “Il Tempo”. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica a carico di Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, è solo l’ultimo esempio. Prima di lui la Dda di Napoli ha messo sotto inchiesta per il medesimo reato anche uno dei simboli dell’antimafia di sinistra, l’ex parlamentare Lorenzo Diana che secondo Roberto Saviano era l’unico politico temuto dai clan. Gli stessi inquirenti ipotizzano che a Casavatore (Napoli) il clan Ferone avrebbe appoggiato alle ultime elezioni comunali anche il candidato sindaco del Pd, poi sconfitto, Salvatore Silvestri. È del gennaio scorso, invece, la notizia (smentita dal diretto interessato) del coinvolgimento dell’europarlamentare del Pd Nicola Caputo in un’inchiesta dell’antimafia sul voto di scambio. Nel luglio scorso, poi, il prefetto di Caserta Arturo De Felice ha sospeso il consiglio comunale di Villa di Briano (Caserta) dopo le dimissioni di sette consiglieri, conseguenza diretta dell'inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche al Comune che aveva portato all’arresto del dirigente comunale Nicola Magliulo, fratello del sindaco Pd Dionigi, a sua volta indagato per peculato e abuso d'ufficio perché, secondo la Dda, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi del Municipio per pulire un mobilificio a cui gli stessi camorristi avevano messo fuoco allo scopo di truffare l'assicurazione. Nel giugno del 2015, inoltre, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l'ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi. Anche lui del Pd. Corruzione aggravata dal metodo camorristico è, poi, l’accusa che pesa sul capo dell’ex sindaco di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio, mentre dello stesso reato deve rispondere l'ex primo cittadino Pd di Gricignano d'Aversa (Caserta) Andrea Lettieri.

L’esercito degli indagati del Partito Democratico. Più di 100 esponenti sott’inchiesta per vari reati, scrive Silvia Mancinelli il 27 aprile su “Il Tempo”. L’elenco degli indagati del Pd in Italia si fa sempre più lungo. Con Graziano arriviamo a quota 125. I reati sono vari, gravi e meno gravi, a seconda dei casi. Fra i più noti c’è Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd nei guai per i soldi della Margherita, fino ai «coinvolti» in Mafia Capitale: Daniele Ozzimo, ex assessore, Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina. Sempre nel Lazio troviamo Maurizio Venafro, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Andrea Tassone, non più presidente del X municipio, Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd. Nel tritacarne dell’inchiesta sulle spese pazze in regione spuntano, Esterino Montino, oggi sindaco di Fiumicino, e poi i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano, nei guai anche per altro. Ovviamente c’è Ignazio Marino, per le vicende degli scontrini e della nota onlus. Passando in Lombardia come non citare Tiziano Butturini che ha patteggiato la pena in un’inchiesta dove spunta la ’ndrangheta. E ancora, indagati a vario titolo per altre storie giudiziarie i sindaci Maria Rosa Belotti (Pero) Gianpietro Ballardin (Brenta), Mario Lucini (Como). Particolare il caso di Filippo Penati che si è avvalso della prescrizione per uscire dal processo. Altro filone sulle spese pazze vede tirati in ballo Luca Gaffuri, Carlo Spreafico, Angelo Costanzo. Scomoda inchiesta quella che vede protagonista Luigi Addisi. In Piemonte la lista degli indagati su più inchieste si apre con Maura Forte, sindaco di Vercelli, Giovanni Corgnati, Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria). A Verbania spicca il caso dell’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. A Torino figura invece il consigliere regionale Daniele Valle, Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione, la deputata Paola Bragantini e il suo compagno Andrea Stara. In Liguria, tra l’inchiesta Mensopoli del 2007, la centrale a carbone e le alluvioni poi emergono i nomi diAntonino Miceli, dell’allora sindaco di Genova Marta Vincenzi, Raffaella Paita, ex assessore alla Protezione civile, e Franco Bonanini (poi passato al centrodestra). E che dire del Veneto con l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni e il tesoriere Giampietro Marchese, entrambi nei guai per finanziamento illecito ai partiti. In Emilia Romagna i pm, a proposito delle spese pazze in Regione, hanno puntato Marco Monari, Damiano Zoffoli, Andrea Gnassi, Virginio Merola e Vasco Errani. La Toscana miete «vittime» eccellenti in diversi filoni investigativi, come gli ex assessori fiorentini Gianni Biagi e Graziano Cioni. Segue l’ex capogruppo Pd in consiglio comunale Alberto Formigli, l’ex sindaco di Firenze Leonardo Dominici, il sindaco di Siena Bruno Valentini, l’ex sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e gli assessori della stessa città Bruno Picchi e Walter Nebbiai. Le regioni rosse come le Marche e l’Umbria contano invece Gianmario Spacca, Vittoriano Solazzi e Angelo Sciapichetti, Leopoldo Di Girolamo e Fabio Paparelli. Un salto in Abruzzo con Roberto Riga, ex vicesindaco de L’Aquila. Ancora più giù, in Basilicata, dove il Partito Democratico deve fare i conti con le indagini sul governatore Marcello Pittella, oltre a Vincenzo Folino, Giuseppe Ginefra, Federico Pace, il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia. La lista è lunga assai. In Sardegna c’ha pensato Renato Soru, segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, a farsi «attenzionare» dai magistrati. Mentre in Sicilia i riflettori delle procure si sono accesi su Elio Galvagno, Mirello Crisafulli , Vito Daniele Cimiotta , l’ex senatore Nino Papania e Gaspare Vitrano . Associazione a delinquere e tentata concussione sono invece le accuse che vedono imputato il governatore Vincenzo De Luca in Campania. Indagati anche tre suoi collaboratori: Nello Mastursi, Enrico Coscioni e Franco Alfieri. C’è pure Antonio Bassolino, uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti ma ancora in bilico per uno che lo vede imputato di peculato. Poi, Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, e i sindaci Giosy Ferrandino e Giorgio Zinno al centro di inchieste su presunti appalti pilotati.

In coda, ma solo geograficamente, la Puglia e la Calabria con il senatore Alberto Tedesco, l’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales, l’ex presidente della provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva, Donato Pentassuglia, assessore della Giunta Vendola, Michele Mazzarano, consigliere regionale sotto processo per finanziamento illecito ai partiti, e «colleghi» come Fabiano Amati, Gerardo De Gennaro ed Ernesto Abaterusso. Voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan le ombre costate i domiciliari all’ex sottosegretario Sandro Principe. Non un caso unico se si guardano gli altri nomi snocciolati nelle inchieste calabresi: Orlandino Greco, il consigliere regionale indagato per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso, Nino De Gaetano, Nicola Adamo, Antonio Scalzo, Carlo Guccione, Vincenzo Ciconte e Michelangelo Mirabello. I favori ai Casalesi per gli appalti, che oggi vedono indagato per concorso esterno in associazione mafiosa Stefano Graziano, sembrano dunque essere solo l’ennesima puntata di una saga horror che sta mietendo vittime illustri in ogni ambito istituzionale. Dai presidenti dei municipi ai consiglieri regionali, dai sindaci ai parlamentari. «Democraticamente» appunto, come si conviene - visto il nome - nel Partito.

"Ecco la verità su Pd, soldi e mafia". L'anticipazione del libro scritto da Gianni Alemanno. Documenti, inchieste e ricostruzioni dimostrano le responsabilità della Sinistra, scrive Alberto Di Majo il 30 marzo su “Il Tempo”. Un viaggio lungo cinque anni, in cui si sono intrecciati progetti, ambizioni e fallimenti. Farà discutere «Verità Capitale - Caste e segreti di Roma» (edito da Koinè) di Gianni Alemanno. Non è un’operazione di «riabilitazione», tutt’altro. L’ex sindaco ricostruisce la sua esperienza alla guida della città eterna senza usare alibi e scuse: «Ci siamo lanciati verso obiettivi difficili e impervi, con una macchina con le ruote sgonfie e il volante rotto. Non potevamo non romperci l’osso del collo, anzi fin troppo è stato realizzato in queste condizioni». Alemanno riconosce anche «la debolezza e l’impreparazione della mia squadra di governo, che deriva da miei personali errori di valutazione e dalla fragilità del movimento politico che mi ha portato a governare il Campidoglio». Ma, altrettanto onestamente, nota che «le molto più esperte e organizzate compagini delle amministrazioni di sinistra fino ad allora erano riuscite solo a nascondere "la polvere sotto il tappeto", a vendere bene l’immagine di Roma, non certo a modificarne in meglio la realtà profonda». Presenta dati e analisi, l’ex sindaco, per mostrare che la Capitale che lui ha «ereditato» nel 2008, era già tecnicamente fallita. Come quando il segretario generale entrò nel suo studio il primo giorno: «"Che cosa succede?" Chiesi un po’ intimorito. "Succede che non abbiamo i soldi neppure per pagare gli stipendi" rispose asciutto il superburocrate che aveva regnato sul Campidoglio per tutta l’epoca di Rutelli e Veltroni». Alemanno arriva anche a chiedere scusa ai romani e «a chi mi ha seguito nella mia avventura in Campidoglio». Ma ammettere i propri errori non significa assolvere gli altri. Per questo, ribadisce più volte nelle pagine del suo libro, che il vero responsabile dello sfascio Capitale è il centrosinistra. Ecco perché è arrivata come una doccia fredda la «visita» dei carabinieri quel 2 dicembre 2014. Erano le 8,40. «Una squadra del Ros si presenta sotto casa suonando al citofono. Alle loro spalle le telecamere di una troupe di Report, opportunamente allertate, per documentare "l’evento storico". Attimi di panico familiare, confusione, poi degli imbarazzati sottufficiali dei Carabinieri, ricevuti nel mio studio, mi presentano un avviso di garanzia e un ordine di perquisizione per il reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale. "416 bis, 416 bis...questo articolo mi dice qualcosa, ma non riesco a ricordare quale reato indichi..." domando agli ancora più imbarazzati militi. Il più alto in grado, dopo essersi schiarito la voce, mi risponde: "Sindaco, è associazione per delinquere di stampo mafioso". Ci guardiamo negli occhi, da un lato all’altro della mia scrivania, in una reciproca espressione di stupore e di imbarazzo. "Ma...è previsto l’arresto?" domando. Non si preoccupi, per carità... solo l’accusa di essere mafioso"». Da qui ha prevalso quello che Alemanno definisce il «teorema fascio-mafioso», tutto incentrato sulla sua amministrazione, benché lui stesso avesse più volte denunciato il salto di qualità delle mafie a Roma, che «avevano superato il livello dei semplici investimenti economici e del riciclaggio di denaro sporco, per cominciare a diventare presenza organizzata nel territorio». Non è un caso, precisa, che nell’inchiesta su Mafia Capitale «la percentuale delle persone coinvolte collocate politicamente sarà più o meno la seguente: 70% di sinistra 30% di destra». I ricordi di Alemanno tornano amari. L’ex sindaco richiama l’attuale presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, allora numero uno della Provincia di Roma, soprannominato «er saponetta», dice, per la sua abilità nello schivare problemi e difficoltà. Fu lui, sostiene Alemanno, a «salvare» Luca Odevaine (uno dei protagonisti dell’inchiesta della Procura di Roma, ndr), già vicino all’ex primo cittadino Veltroni, nominandolo capo della Polizia provinciale. «Con questo non voglio dire che Walter Veltroni e Nicola Zingaretti fossero consapevoli dei traffici di Odevaine, ma non posso non rilevare la profonda differenza di trattamento tra me e loro. Mentre io ricevevo l’avviso di garanzia e venivo sbattuto sulle prime pagine di tutti i giornali, Veltroni era considerato uno dei "quirinabili" fino alla vigilia dell’elezione del Presidente Mattarella. Zingaretti, dal canto suo, ha continuato fino ad oggi a governare indisturbato la Regione Lazio, nonostante un altro uomo del suo entourage, il capo di Gabinetto Maurizio Venafro, sia stato rinviato a giudizio per un ulteriore filone dell’indagine su Mafia Capitale». Alemanno non nasconde la delusione per il trattamento ricevuto dai suoi colleghi di partito. Con Giorgia Meloni l’ha unito lo stesso movimento, «Fratelli d’Italia», e diviso più di un anno di silenzio dopo una breve telefonata, quella in cui Alemanno preannunciava la volontà di auto-sospendersi dalle cariche di partito. «Ancora più deludente fu l’atteggiamento di due persone con cui faccio politica dagli anni ’70 e che sono stati i miei più stretti collaboratori e alleati in tantissime occasioni. Sto parlando di Andrea Augello e di Fabio Rampelli (...)». L’ex primo cittadino non risparmia Giancarlo Cremonesi e Massimo Tabacchiera. Il primo, eletto alla presidenza della Camera di Commercio di Roma, il secondo all’Atac e all’Agenzia della Mobilità. Entrambi scomparsi, si lamenta Alemanno. Aveva ragione Andreotti: in politica la gratitudine è il sentimento della vigilia. L’ex sindaco parla anche, ma con termini diversi, degli imprenditori Caltagirone e Cerroni, mai avvantaggiati, rivendica. A differenza della gestione del centrosinistra («con Veltroni la raccolta differenziata era ferma al 17%, con me è arrivata al 30»). Nel libro ci sono aneddoti e curiosità. Come quando Gheddafi arrivò nella Capitale e volle tenere un discorso rivolto al popolo romano. Di fronte a impiegati comunali e dipendenti delle società partecipate, il raìs parlò della necessità di liberarsi dei partiti. Prima, sotto la lupa che allatta i gemelli all’ingresso del Campidoglio, Gheddafi aveva chiesto ad Alemanno: «Ma sarà vera questa storia?».

"Rovinato dai pm per proteggere Delrio e il Pd". Prosciolto l'ex assessore Pdl di Parma Bernini, accusato di avere chiesto voti alla 'ndrangheta: "Coperte le responsabilità dei democratici", scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". Quella che Renzi, qualche giorno fa, ha definito «barbarie giustizialista» lui, Giovanni Paolo Bernini, 53 anni, ex consigliere del ministro Pietro Lunardi, ex presidente del Consiglio comunale ed ex assessore Pdl a Parma nella giunta Vignali, la conosce bene. Prima, nel 2011, 21 giorni di carcere e due mesi di domiciliari per accuse poi smontate. A gennaio del 2015 la nuova richiesta d'arresto nell'inchiesta sulla ndrangheta in Emilia Romagna, sfociata nel processo Aemilia. Un anno e mezzo di calvario, con l'accusa di voto di scambio politico mafioso. Adesso il proscioglimento, col rito abbreviato: l'aggravante di aver preso i voti dei boss, già bocciata da due giudici e sulla quale il pm insisteva, per il Gup di Bologna non sussiste, e l'eventuale corruzione elettorale è ormai prescritta. «Ma la mia battaglia vera dice Bernini comincia adesso. Mi rivolgo al presidente della Repubblica e al Csm, con un esposto. Ci sono troppi dubbi e lacune in questa vicenda. Io voglio sapere perché, nonostante le intercettazioni che coinvolgono esponenti del Pd locali e nazionali come il ministro Delrio, questi non sono stati toccati neppure da un avviso di garanzia, mentre io e il collega consigliere di Forza Italia Pagliani (anche lui assolto, ndr) siamo stati arrestati». È un fiume in piena, Bernini. Al sollievo per la fine di una vicenda giudiziaria che ha stroncato la sua carriera politica in ascesa, si accompagna la rabbia, tanta, per quello che definisce «accanimento giudiziario». «E cosa è - spiega - se non accanimento giudiziario un pm che nonostante la sonora bocciatura di due giudici insiste sull'aggravante mafiosa? Se poi aggiungiamo il fatto che il pm Marco Mescolini, era nel 2006 nell'ufficio di un viceministro del governo Prodi, ecco, credo che questo la dica lunga sull'andazzo di questa inchiesta. In un Paese civile un magistrato che ha avuto incarichi politici non dovrebbe svolgere indagini su politici della parte avversa e arrestarli, si dovrebbe astenere. La scelta del pm di non indagare amministratori locali o esponenti nazionali del Pd in questa inchiesta fa a pugni con le carte giudiziarie agli atti del processo. E il Csm deve dirmi perché è accaduto». Non ci sta, Bernini. «Ho l'impressione - dice - che in questa vicenda si siano volute coprire responsabilità gravi degli amministratori Pd dell'Emilia. Ed è stato fatto con un teorema assurdo: se sono politici di Berlusconi a cercare voti tra i residenti di origine meridionale allora è mafia, mentre se sono del Pd è legittima ricerca del consenso. Non lo dico io, sono i fatti a parlare: Brescello sciolto adesso per mafia, la casa del sindaco di Reggio Emilia acquistata da uno poi coinvolto nell'inchiesta, le intercettazioni su Delrio. Ma è normale che, in questo quadro, contro il Pd non ci sia stato nemmeno un avviso di garanzia mentre noi di Forza Italia siamo stati arrestati?». Non un attacco all'inchiesta: «Andava fatta - continua Bernini - i mafiosi vanno arrestati. Il mio non è un attacco alla magistratura. Avevo fiducia nei giudici e la sentenza mi dà ragione. La giustizia in Italia trionfa, nonostante la presenza di certi pm che preferiscono interviste e conferenze stampa, l'apparire invece della ricerca della verità e il rispetto delle persone. Sa che le dico? Renzi ha ragione. Sia pure in notevole ritardo e probabilmente perché si sente un possibile bersaglio, il premier si è accorto che i magistrati troppo spesso parlano prima delle sentenze». Oltre che l'esposto al Csm, Bernini prepara anche una querela a «Libera»: «Li denuncio per diffamazione, e chiedo i danni anche alla Regione Emilia che ha dato un contributo al loro dossier - quindi ha speso soldi dei contribuenti - che continua a circolare pur contenendo notizie gravi e false nei miei confronti». Voglia di tornare alla politica attiva? «La politica - conclude Bernini - è come un virus, è difficile guarire. Per ora comunque mi dedicherò alla battaglia civile contro la malagiustizia».

"Io, mafioso a mia insaputa. Ho rischiato 12 anni di carcere". Pagliani, consigliere di Forza Italia a Reggio Emilia ora assolto: "Colpito perché mi opponevo alle coop rosse", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 28/04/2016, su "Il Giornale". Arrestato come un boss, nel cuore della notte. Detenuto per 22 giorni nel carcere di Parma, lo stesso di Totò Riina. «Mi sono piombati in casa alle 3 e mezza, mi sono ritrovato da un minuto all'altro mafioso a mia insaputa, accusato di concorso esterno e con una richiesta di condanna a 12 anni, anzi in realtà a 18, 12 con lo sconto per il rito abbreviato. Io, che mi sono sempre battuto per la legalità e che, vengo dal Fronte della gioventù, avevo come eroe Paolo Borsellino. Si rende conto?». Giuseppe Pagliani, 42 anni, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia e capogruppo azzurro in Provincia, è stato appena assolto «per non aver commesso il fatto» nel processo Aemilia, il maxi processo che in Emilia Romagna ha portato alla sbarra decine di affiliati alla ndrangheta e qualche politico. Solo del centrodestra. Come l'ex assessore a Parma Giovanni Bernini, ora prosciolto. Una vicenda che definire kafkiana è un eufemismo, quella di Pagliani. Lui, avvocato, arrestato il 28 gennaio del 2015 e scarcerato il 19 febbraio, ce l'ha fatta a tirarsi fuori: «Perché sono avvocato - dice - e ho una formazione penalistica, perché mi hanno difeso principi del foro come gli avvocati Alessandro Silveri e Romano Corsi. Ma il cittadino x riconosce rimane stritolato, schiacciato dalla mole di carte, disorientato da accuse assurde. Io stesso mi rendo conto solo adesso di quanto sia facile restare vittime della malagiustizia. E in futuro sono pronto a difendere gratis innocenti che dovessero trovarsi in simili vicende». Cosa ha fatto mai Pagliani per ritrovarsi in questo caso giudiziario? «In un lampo improvviso di follia - ironizza - qualcuno si è convinto che a Reggio Emilia il concorso potesse essere rappresentato da esponenti dell'opposizione lontani dagli appalti, come me». La sua «colpa», se così si può chiamare, consiste in due incontri con alcuni personaggi di origine calabrese poi finiti inquisiti nel caso Aemilia. «Ma queste persone - sottolinea Pagliani - io nemmeno le conoscevo». E invece per il pm nel primo incontro, il 2 marzo del 2012, viene stipulato il patto mafioso. Nel secondo, una cena in un locale pubblico a cui erano presenti decine di persone, il patto si sarebbe consolidato. «Una follia - dice Pagliani - io a quella cena, di fatto uno sfogatoio di questi che ce l'avevano con le coop rosse, conoscevo solo alcune persone delle quali non avevo motivo di dubitare. E quando qualche giorno dopo un amico avvocato mi disse che c'era qualche personaggio equivoco troncai ogni contatto». Vero, tanto vero che nelle intercettazioni uno degli indagati non ricorda neppure il nome dell'avvocato Pagliani. «Le benedico ogni giorno le intercettazioni - continua - è grazie ai brogliacci che siamo riusciti a ricostruire tutto e a smontare la teoria del pm». Non è stato il solo, Pagliani, a incontrare i calabresi in odor di 'ndrangheta. L'allora sindaco di Reggio Emilia, ora ministro, Graziano Delrio, è andato anche in visita istituzionale in Calabria, a Cutro. «E li ha pure - aggiunge Pagliani - portati dal prefetto. Io no». Eppure Delrio non è stato nemmeno indagato, è stato solo sentito come testimone. Pagliani invece «non poteva non sapere»: quindi è finito in galera. «Eppure - dice il politico azzurro - la decisione del tribunale del Riesame (non appellata dai pm, ndr) che mi ha scarcerato era granitica. A quel punto una procura di media o bassa intelligenza avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione. E invece hanno insistito. Nella requisitoria il pm è arrivato a sostenere che io avevo incontrato uno dei coimputati, Brescia. Meno male che ho potuto dimostrare che quell'appuntamento, segnato in agenda, in realtà era un incontro professionale a Brescia, con un avvocato». Perché è accaduto tutto questo? «Me lo sono chiesto - dice Pagliani - mi sono domandato perché io?». E la risposta? «Da consigliere d'opposizione avevo avuto per le mani vicende delicate come Global service. Come oppositore strenuo al sistema locale delle coop rosse davo fastidio». Accanimento contro Forza Italia? «Sì, c'è stato, il Pd invece è stato difeso». Ha temuto di essere schiacciato da una condanna? «Mai, nemmeno per un secondo. Sapevo di essere innocente, c'è stato il sostegno di tanti amici e non, tutti hanno capito che non c'entravo nulla. Tutti tranne il pm».

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

L’illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare, scrive Ernesto Galli della Loggia il 25 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta – assai più spesso di quanto si creda – ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato. Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare. Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente. Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario. A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione. Da quanto tempo è in questo modo — attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche — che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta «buona borghesia») apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi. Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi.

Editoriale. Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e proprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

SOCIETÀ INCIVILE E RINCOGLIONITA. Scrive Mario Vito Torosantucci su “L’Oservatore d’Italia” il 23/12/2015. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. A volte, sembra di sognare, e poi, quando ti svegli, sei invaso da una strana sensazione di disagio psicofisico che ti fa star male. Ti guardi intorno, e non riesci bene a realizzare se stai veramente nel tuo mondo, in quel mondo dove sei cresciuto, dove hai vissuto momenti indelebili, dove hai imparato dei valori sani della vita, dove si parlava con il prossimo, si discuteva anche animatamente, ci si divertiva e avevamo lo stimolo per ridere, essere ottimisti e credere nel futuro. Giri lo sguardo, sperando di vivere soltanto un brutto sogno, immerso nei pensieri più deprimenti e pessimisti, cercando di convincerti, che quello che vedi non è la tua realtà, e che si dissolverà nell’aria come una nuvola passeggera, dileguandosi, spinta da una folata di vento piena di positività. Quante illusioni! Basta uscire da casa, e ti accorgi subito, che la realtà è un’altra, rievocando la torre di Babele, ti immergi istantaneamente in un caos totale, di ignoranza, maleducazione, cattiveria, inciviltà, aggravata dall’invasione di popoli non per loro colpa, retrogradi, nel quale si ha l’impressione, non di iniziare un nuovo giorno con un certo ottimismo, bensì, con la consapevolezza di andare in guerra, usando un eufemismo appropriato. Salutare il prossimo, è un’opzione remota, del passato, non più di moda, anche se si abita nello stesso palazzo, o occupanti dello stesso parcheggio, però, in compenso ci si guarda in cagnesco, pronti a far esplodere la propria ira al primo indizio negativo. Il menefreghismo, che regna nella maggioranza della gente, oltre naturalmente, una forte dose di maleducazione, induce ad aggravare lo stato di degrado generale che notiamo per le strade. L’ impegno gravoso, per esempio, di pigiare con il piede il cassonetto, per gettare i rifiuti, spinge il cittadino comune, a lasciare il sacchetto per terra, oppure bisognerebbe allargare i fori per la plastica, perché, sempre il cittadino comune, non può perdere tempo a gettare le bottiglie singolarmente, cosicchè è costretto ad incastrare l’intero involucro delle sue bottiglie, lasciando il suo lavoro al prossimo imbecille, che se non vuole accollarsi il lavoro superfluo altrui, lascia il tutto tranquillamente per terra. Camminare sui marciapiedi, è diventato difficile, e per una mamma che spinge il carrozzino, l’impresa è ancora più ardua, perché non c’è lo spazio necessario. Infatti fra escrementi di cani, foglie cadute dagli alberi, particolarmente abbondanti in questo periodo, cespugli che crescono a vista d’occhio, e, dulcis in fundo, le auto parcheggiate con le ruote sui marciapiedi, la gimcana con il complementare pericolo, è d’obbligo per i poveri pedoni. Guai a reclamare con qualcuno, perché il minimo che può capitare è di finire in ospedale, e spesso si è offesi ed umiliati e si è costretti ad andare via, covando dentro di sé quella rabbia, che pian piano ci mangerà il fegato. Osservare le regole nel nostro amabile paese, è diventato un rischio, infatti se per esempio, in auto rispetti i limiti di velocità, fra l’altro, non si sa con quale criteri siano stati stabiliti, puoi essere tamponato e susseguentemente malmenato da chi ti è venuto addosso, per intralcio nel traffico, oppure decidi di accelerare, e così ti prendi una bella multa, per avere superato il limite di velocità. E’ soltanto una questione di scelte soggettive. Discutere con il prossimo, specialmente se è un extracomunitario, è pericolosissimo, perché le armi da taglio abbondano, se non si tira fuori anche qualche pistola, ma le forze dell’ordine, da capire, per una questione di privacy, non possono fermarli e perquisirli, perché li offenderebbero. Gloria ai giudici, che per spirito di giustizia, puniscono i cittadini onesti, che vogliono per forza difendersi, quando capita di essere aggrediti in casa propria, malmenati, e derubati dei propri sacrifici. Onore ai politici, che invece di cambiare un’innumerevole quantità di leggi sbagliate, cosa che potrebbero fare in pochi minuti, si dedicano costantemente ai propri ed esclusivi interessi. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. Una cosa è vera, e bisogna ammetterla; che noi cittadini, abbiamo un fisico veramente bestiale, come diceva una famosa canzone, perché sopravvivere in un mondo inquinato nei generi alimentari, prodotti in campagne che spesso custodiscono scorie chimiche altamente pericolose, medicinali, che dopo tanto tempo usati, si scopre che sono fortemente tossici, è la prova che siamo fatti di ferro. Certo! Qualche volta il ferro si fonde, e, molti sene vanno, ma che importa, il problema si risolve con migliaia di nuovi profughi che continuamente arrivano. In questo caos, la società moderna ha trovato il rimedio. Meglio fare come le tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo, così ci si racchiude in noi stessi, ed il mezzo per farlo è il telefonino. Grandissima invenzione, che ci consente di telefonare, ma ci regala altre cose molto più importanti, quella di estraniarci da tutto ciò che ci circonda, ci fa messaggiare, ci fa fare centinaia di giochini, rendendoci la vita più piacevole, anche se qualche volta, distrattamente si va a sbattere contro qualche palo della luce, oppure addosso alle persone, che non riescono a sparire all’istante. Sui mezzi pubblici il novanta per cento dei passeggeri è assorto nel mondo del proprio cellulare, per la gioia degli scippatori, che al contrario sono molto attenti al prossimo. Conclusione, chi ha una certa età in Italia, oggigiorno, si sente un pesce fuor d’acqua, grazie a questa società incivile e rincoglionita.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.

“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26

La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.

Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti.  In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”,  non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare,  era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e  quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse,  ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD,  è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

"Troppi dipietrini tra i magistrati. Era meglio la Prima Repubblica". Lo sfogo off the record in treno dell'ex pm di Mani Pulite: "Non so se ne valeva la pena", scrive Augusto Minzolini, Sabato 20/02/2016, su “Il Giornale”. «Ciao, come va?»: l'esordio è quello che contraddistingue gli incontri casuali di persone che si conoscono, ma non si frequentano. Antonio Di Pietro, con indosso la tradizionale giacca color cammello e pantaloni di flanella grigia, armeggia nella carrozza numero 4 del diretto Roma-Milano delle 15 di giovedì scorso, per trasformarla in una postazione di lavoro. Si inginocchia e con un po' di fiatone attacca le spine di telefonino e computer. In fondo non si aspettava quel saluto, visto che il sottoscritto ha passato i suoi guai per un esposto dell'allora politico Di Pietro sulle vicende Rai. Ma visto che il ghiaccio è rotto, risponde con un mezzo sorriso e parole di circostanza: «Come va?... Bene. Vedo che questa (...)(...) settimana vanno tutti a Milano». Poi sfodera la frase di rito con cui si presenta da quando è rientrato nella società civile: «...io ormai faccio parte dell'associazione dei reduci, che debbo dire?». Già, questa è una conversazione tra reduci di tanti anni di storia italiana. Un colloquio informale all'ombra dei ricordi, dei rimpianti, delle illusioni, delle delusioni in cui a volte si cullano e altre volte si disperano i veterani di tante battaglie quando tornano a casa. Un dialogo che si apre con questo saluto alla stazione Termini e diventa confidenziale in piedi, mentre si attende, insieme ad altri passeggeri, nel corridoio della carrozza, l'arrivo alla stazione Centrale di Milano. Prima dei saluti di commiato è Di Pietro che si sbilancia con parole da cui trapela una tormentata amarezza. «A volte mi chiedo - osserva - se ne valeva la pena... Se forse non si stava meglio quando si stava peggio nella prima Repubblica. La verità è che oggi tutto è avvolto nell'ipocrisia. Ancor più di ieri. Restano a galla i più ipocriti. Non le persone che si scontrano a viso aperto, dicendo con lealtà quello che pensano». Il sottoscritto acconsente. Come si può negare che l'insidioso male che avvelena la politica, le istituzioni, l'intera società italiana, sia l'ipocrisia? Di Pietro è un fiume in piena anche se il tono è quello ironico, distaccato dell'osservatore esterno: «Non si capisce più niente - dice -. Fanno tutti mille parti in commedia. Dentro il Parlamento ci sono personaggi a cui non frega niente di niente. Gli interessa solo arrivare al 2018. Vedo che pure i grillini che sono arrivati in Parlamento quasi senza sapere come, ora si dividono, litigano tra loro». Gli chiedo se ha nostalgia della politica. «Francamente no - risponde -. Non c'è più passione... Eppoi con tutto quello che ho passato... A volte mi dicono di fare questa iniziativa politica, di partecipare ad un'altra, ma io sono diventato allergico. E, comunque, in Parlamento ti senti impotente. Ho la sensazione che stiamo assistendo al declino di questo Paese in tutti i settori...». Appunto, la politica, ma anche quello che succede nella giustizia italiana, che lui conosce bene. «Io ho fatto quello che ho fatto - racconta - e ora faccio l'avvocato, ma ho capito che il problema sono i tanti dipietrini che ci sono in giro... Ad esempio, questo reato dell'abuso di ufficio che va di moda io non l'ho mai perseguito. Uno può essere accusato di abuso quando ha un tornaconto... ma non così. Basta pensare a com'è finita la vicenda del presidente della Regione campana, De Luca». Non dice di più, ma il tono di voce a volte vale più delle parole: c'è l'enfasi di chi pensa che una volta c'era più attenzione. Detto da lui. L'altro reduce, il sottoscritto, gli racconta della sua esperienza, dell'essersi trovato di fronte e di essere stato condannato da un giudice tornato in magistratura dopo 20 anni di politica, in cui ha fatto il sindaco, il deputato, il senatore, l'esponente di governo. Una volta - ricordo - queste cose non avvenivano: un magistrato, che era stato senatore democristiano, Lucio Toth, che faceva parte di un collegio che doveva giudicare l'ex segretario Dc Forlani, si astenne da quell'incarico per via dell'amicizia con l'imputato. «Io penso - risponde lui - che un magistrato che è stato in politica non possa tornare a fare il magistrato. Io non ho mai pensato di farlo. Come penso che non abbiano mai pensato di farlo personaggi come Violante. Io che faccio l'avvocato addirittura ho deciso di non esercitare a Milano. Lì conosco un po' tutti, con tutti gli anni che ho lavorato in quel Palazzo. E penso che sia più corretto, per mantenere una correttezza di ruoli, non avere come interlocutori nelle aule giudiziarie persone che si conoscono». Siamo alle ultime battute. Gli dico che, comunque, l'esperienza in Parlamento, quella che ha avuto lui e quella che sto facendo io, arricchisce. Lui, invece, appare del tutto disincantato. E abbassando un pochino la voce, sibila: «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza... La politica porta guai. Ne so qualcosa». «Ciao» mi saluta. «Ciao» rispondo.

LA DEMOCRAZIA A MODO MIO.

Nelle elezioni, nel valutare correttamente i risultati effettivi della singola lista, bisogna tener conto:

del numero degli aventi diritto al voto,

meno il numero di chi non ha votato,

meno il numero delle schede bianche,

meno il numero delle schede nulle, che spesso contengono imprecazioni,

meno il voto di protesta dato al Movimento Cinque Stelle o altri movimenti di protesta.

Il numero così ottenuto è la base su cui calcolare la percentuale di voti ottenuta, che è molto diversa da quella che ci propinano i media e certo, tale cifra, non è indicativa di rappresentanza democratica.

Nelle elezioni, nel valutare correttamente i risultati effettivi del singolo/a candidato/a, bisogna tener conto del voto di preferenza:

ad ogni candidato/a, in virtù della doppia preferenza di genere e del voto disgiunto, gli verranno assegnati voti effettivamente non ricevuti personalmente, ma frutto di accordi tra candidati di sesso diverso (spesso con più candidati, tradendone la reciprocità). In questo caso un candidato inetto e malvisto, in virtù dell’italica furbizia, può essere plebiscitariamente votato, ma con voti non suoi. Questo in sfregio alla democrazia.   

Amministrative di Avetrana: 5 giugno 2016. Un bravo a tutti i candidati da parte di un incompetente ed inesperto.

Un bravo ai candidati della lista Minò (centrodestra), che pur apprezzati e votati, per quello che sono e per quello che fanno, da soli 1601 avetranesi su 8279, sono riusciti a vincere ed a festeggiare, a dispetto dei loro 2656 elettori del 2011. Essi continueranno imperterriti a dimostrare la loro competenza e la loro esperienza a vantaggio del loro paese che non li stima.

Un bravo ai candidati della lista Micelli e della lista Petracca (centrosinistra), che pur con il favore di 2810 avetranesi su 8279 (1418+1392), in più rispetto ai 2438 del 2011, sono riusciti a perdere divisi…ma da “liberi”. Senza alcun rimorso. Giustificati con la solita tracotanza, essi continueranno, imperterriti, a non riconoscere i loro errori ed a non dimostrare la loro capacità a vantaggio del loro paese che li ha voluti più dell’altra lista. Bravi per aver fatto continuare ad amministrare Avetrana con la competenza e l’esperienza della precedente amministrazione.

Un bravo al 32,6 % dell’elettorato avetranese che non è andato a votare, incrementato rispetto al 25,42 del 2011. Primi della provincia di Taranto. Questi, in aggiunta a chi si reca per consegnare scheda bianca o scarabocchiata da imprecazioni, sono la maggioranza degli avetranesi, di cui a nessuno gliene frega niente. Maggioranza che disprezza questa classe politica basata sull’odio e l’ideologia e che si fa eleggere non sui programmi reali, ma sugli attacchi personali agli avversari.  Penso che questi avetranesi che non votano, darebbero prova di saggezza e coraggio, se venissero fuori con una loro lista per formattare la politica avetranese. Solo allora, per loro, sarebbe un bravo sincero.

Una considerazione sociologica a margine di quanto già rendicontato dal punto di vista politico in riferimento alle amministrative del 5 giugno 2016. La maggioranza della gente di Avetrana, (così come del resto dell'Italia) se da una parte è disposta a vendere il suo voto, più che in cambio di denaro, in termini di favori, al contrario si dimostra essere alquanto irriconoscente, una volta che è stata soddisfatta. Prendiamo per esempio dei casi limite ad Avetrana dove, sicuramente, da parte dei candidati si è ottenuto molto meno di quanto elettoralmente si valesse, senza nulla togliere agli altri candidati di pari valore intellettuale e politico.

Antonio Minò. La sua lista ha preso 1601 voti di lista rispetto ai 2656 voti di lista del suo predecessore, Mario De Marco. Rispetto al De Marco, però, il Minò esercita nel sociale (presidente di Avetrana Soccorso) ed a rendere un favore chiesto, anche al di là della sua sfera professionale, non si tira mai indietro. Probabilmente ha ricevuto molta irriconoscenza.

Daniele Fedele Saracino. 143 voti, il penultimo dei votati della lista Minò. Il fatto che sia un imprenditore, non è indicativo di consenso, ma essere il presidente della locale squadra di calcio che ha appena ottenuto con i suoi sacrifici un risultato insperato per un piccolo paese, quale l’approdo in Eccellenza, e non essere ricambiato in termini di consenso, almeno da parte dei tifosi che numerosi calcavano gli spalti, ciò è significativo di estrema irriconoscenza.

Anna Maria Katia Maggiore. 165 voti con la lista Petracca. Il fatto che sia imprenditrice non é indicativo di consenso. Essere la figlia di Giovanni, il più facoltoso imprenditore di Avetrana, non si tramuta in termini di voti. Però, il fatto che ad ogni manifestazione pubblica che si tiene ad Avetrana od ad ogni altro evento sociale in cui la comunità è coinvolta, si chieda il suo appoggio e Giovanni non faccia mai mancare il suo sostegno economico in termini di contributi o di sponsor, questo dovrebbe significare un po' di consenso. E quando questo manca, come è mancato per sua figlia Anna Maria, questo denota somma irriconoscenza.

Come si dice "a fani beni...". E con questo ho detto tutto.

Elezioni comunali, Carapelle Calvisio: il paese in Abruzzo con 67 elettori e 62 candidati. Elezioni Amministrative 2016. Sette le liste in corsa, quattro delle quali composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri, membri della polizia penitenziaria che risiedono fuori Regione. “Gli appartenenti alle forze di polizia hanno diritto a 30 giorni di aspettativa retribuita perché la legge vieta loro di prestare servizio durante la campagna elettorale - denuncia il sindaco uscente Domenico Di Cesare - è una vergogna, in lista c’è chi è di Barletta e lavora a Milano. E intanto si fanno un mese di ferie", scrive Maurizio Di Fazio, il 14 maggio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Carapelle Calvisio è un minuscolo centro abruzzese a trenta chilometri dall’Aquila, con 85 abitanti effettivi e 67 elettori. Un paese da record: alle elezioni amministrative di giugno corrono, infatti, ben 7 liste, per un totale di 62 candidati. In pratica un candidato per elettore. Ma le stranezze non finiscono qui: quattro di queste sette liste sono composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri, membri della polizia penitenziaria che risiedono fuori Abruzzo. I candidati consiglieri vengono da Napoli, Barletta, Catania, persino dalla Sardegna profonda. Un fatto singolare denunciato dal sindaco uscente (ricandidatosi all’ultimo momento), Domenico Di Cesare: “Gli appartenenti alle forze di polizia hanno diritto a trenta giorni di aspettativa retribuita perché la legge vieta loro di prestare servizio durante la campagna elettorale. Nulla da ridire, se le candidature fossero state presentate nei rispettivi Comuni di nascita o di residenza. Molti di loro, però, a Carapelle non ci sono mai stati, e forse ne ignoravano addirittura l’esistenza. È una vergogna, perché tra i candidati c’è chi è di Barletta e lavora a Milano. E intanto si fanno un mese di ferie. Scriverò al prefetto, al ministro Alfano, a tutti i comandi delle forze dell’ordine perché si ponga fine a questa storia”. Gli fa eco uno dei candidati sindaci locali (anche se pure lui lavora fuori), Fabrizio Iannessa, leader della lista “Carapelle Vola”: “Il sindaco ha ragione. Purtroppo è la legge che prevede questa possibilità – racconta a IlFattoQuotidiano.it – ma la mia lista è formata per lo più da giovani residenti a Carapelle”. Intanto la vicenda approda in Parlamento con un’interrogazione di Gianni Melilla, deputato di Sel: “Anche in occasione di queste elezioni comunali sono tanti i rappresentanti delle forze di polizia che candidandosi usufruiscono di un periodo di trenta giorni di aspettativa retribuita. Si tratta di un evidente privilegio anacronistico e utilizzato strumentalmente. Giace alla Camera una mia proposta di legge di modifica dell’articolo 81 della legge 121 del 1981, che prevede la cancellazione di questo indegno e intollerabile privilegio”. Alla base del pasticciaccio c’è infatti il nuovo Ordinamento dell’amministrazione della Pubblica sicurezza del 1981, che recita: “Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale”. Tra i candidati sindaci a Carapelle Calvisio c’è Roberto Di Pietrantonio. Lui è uno degli appartenenti alla Polizia di Stato additati dal primo cittadino Di Cesare. “La mia “Lista Civica” è composta da nove candidati, di cui soltanto due delle Forze dell’ordine: io e un aspirante consigliere” spiega Di Pietrantonio al IlFattoQuotidiano.it. Ma risiedete a Carapelle? “Nessuno dei miei candidati risiede a Carapelle Calvisio, ma non trovo la questione rilevante perché non prevista dalla legge. E il movimento civico che guido è composto da giovani”, ci dice ancora. Perché candidarsi in questo paesino sconosciuto? “Abbiamo voluto rispondere all’appello lanciato dal sindaco uscente, che a febbraio invitò i giovani a candidarsi. Inoltre ci interessava fare un’esperienza politica partendo da un Comune di piccole dimensioni”. E a proposito dei trenta giorni di aspettativa retribuita? “Avremmo tranquillamente rinunciato all’aspettativa, ma questa avviene d’ufficio. Proprio al fine di garantire la più onesta e trasparente attività di campagna elettorale senza eventuali ripercussioni o tentativi di distrarre il voto dei cittadini”. Un anno fa lo stesso Di Pietrantonio si presentò come aspirante sindaco anche a Castelvecchio Calvisio, borgo attaccato e gemello di Carapelle. Corse a capo dell’unica lista candidatasi (la “Tricolore”). Votarono solo in cinque. Lui prese un voto: due schede furono nulle e due bianche, e le elezioni vennero annullate.

Melilla (SI). I furbetti poliziotti, 11 Maggio 2016, Interrogazione a risposta scritta: Al ministro Affari Interni.

Per sapere-premesso che: Anche in occasione di queste elezioni comunali sono tanti i rappresentanti delle forze di polizia che candidandosi alle suddette elezioni usufruiscono di un periodo di 30 giorni di aspettativa retribuita; Ciò provoca abusi intollerabili con un danno per lo Stato e l'efficacia dei servizi di sicurezza con ricorso a straordinari a carico di chi deve sostituire chi si mette in aspettativa; Al proposito vorrei citare il caso limite di Castelvecchio Calvisio in provincia dell'Aquila, un piccolo comune di soli 67 elettori ed elettrici in cui sono state presentate 7 liste con 65 candidati di cui ben 17 appartenenti a forze di polizia che non vivono in quel paese; Si tratta di un evidente privilegio anacronistico e utilizzato strumentalmente per prendersi un mese di aspettativa retribuita, con una spregiudicatezza che non dovrebbe appartenere a chi tutela l'ordine pubblico; Giace alla Camera una mia proposta di legge di modifica dell'articolo 81 della legge 121 del 1981 che prevede la cancellazione di questo indegni e intollerabile privilegio

-: Se non intenda assumere una urgente iniziativa per stroncare questo malcostume e cambiare, anche con un decreto legge, la normativa che lo consente. Roma maggio 2016. Gianni Melilla.

Cani da guardia o servitori della "legalità"? Scrive “Info Out”. Sempre pronti a versare lacrime di coccodrillo, le F.O. rimangono una categoria delle più difese e protette a livello contrattuale. Così come magistrati e prefetti, anche poliziotti, carabinieri, finanzieri, polizia penitenziaria, ecc. godono delle più incredibili agevolazioni e tutele invidiabili alla maggioranza dei contratti di lavoro. Molto spesso vengono rappresentati dalla stampa nazionale e da alcuni politici interessati ai loro voti e favori, come gli ultimi degli ultimi, mal pagati e senza mezzi, addirittura c’è chi crede che le F.O. siano senza tutele. Senza tenere conto del lamentario dei vari sindacati sempre pronti a richiedere maggiori poteri d’ingaggio e forme di accondiscendenza da parte della politica e dell’opinione pubblica. Se si osserva con attenzione, si può intendere con facilità che la scelta di entrare nelle F.O. è vista, nella stragrande maggioranza dei casi, come un’importante occasione piena di possibilità, una sorta di scorciatoia per non affrontare quello che sarebbe altrimenti il resto del mondo del lavoro e delle sue opportunità di ieri, oggi e domani. Chi sostiene di essere entrato in polizia, c.c., polizia penitenziaria, finanza, esercito, ecc. perché crede nella legalità e vuole difendere lo Stato, mente sapendo di mentire. Le elezioni amministrative sono l’esempio dell’ennesimo caso di privilegi cui godono questi signori e signore, di cui i diritti contrattuali sono sconosciuti alla maggioranza del mondo del lavoro. Nella fattispecie l’articolo 81 della legge 121 del 1981, che recita: "Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale". Scusante che più volte viene utilizzata per garantirsi un bel mesetto di campagna elettorale, a spese di tutta la collettività. Se prendiamo le elezioni della primavera del 2014, in tutto l’Abruzzo la partecipazione nelle liste elettorali da parte della Polizia Penitenziaria era stata di 121 agenti candidati. Il caso più clamoroso è quello di Carapelle Calvisio, paese con 85 abitanti effettivi e 67 elettori. Alle prossime elezioni amministrative di Giugno sono ben 7 le liste che corrono per eleggere il sindaco, per un totale di 62 candidati, nella pratica un candidato per elettore. Di queste liste, quattro sono composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri e polizia penitenziaria che risiedono addirittura fuori dall’Abruzzo: Catania, Barletta, Napoli e Sardegna. Oltre al permettere a questi individui di poter disporre di un’aspettativa retribuita (stipendio garantito) durante la candidatura, la legge gli dà diritto di candidarsi anche fuori dalla propria Regione, Provincia o Comune: un’occasione che permette una stupenda vacanza fuori porta. Pazienza se poi, come successo in qualche piccolo comune della penisola, le elezioni siano annullate o come molto spesso accade (per fortuna) non si viene eletti, il privilegio è comunque servito o garantito. Questa incredibile voglia di partecipare alla cosa pubblica non è sfuggita a un’interrogazione parlamentare da parte dell’onorevole Gianni Melilla (Sel) al Ministro Alfano, nel suo documento ispettivo denuncia come questa candidatura di massa provochi “abusi intollerabili, con un danno per lo Stato e l'efficacia dei servizi di sicurezza con ricorso a straordinari a carico di chi deve sostituire chi si mette in aspettativa.” Questa legge tuttavia evidenzia solo in minima parte quelli che sono i privilegi di vestire la divisa. Oltre a essere un lavoro che non conosce crisi, le F.O. dispongono di: promozioni di comodo, pensionamenti vantaggiosi, doppi impieghi, giro di favori, tutele legali a spese dello stato se coinvolti in processi penali o civili (insabbiamenti a parte) e non ultima, la possibilità di trovare sempre un impiego all’interno dello stato una volta rientrati da un eventuale sospensione, ecc. Una scelta lavorativa che non richiede una particolare dote, se non quella di essere capaci a genuflettersi a ogni ordine ricevuto, sempre pronti a lamentarsi per via dell’insufficiente organico e degli stipendi troppo miseri a loro dire. Ma il solita solfa che il lavoro dell’ufficiale va difeso e tutelato perché per scelta rischia quotidianamente la vita per garantire la sicurezza dei cittadini e dello Stato, sta sempre più svanendo. La storia, quella delle Forze dell’Ordine, parla di una categoria da sempre “casta” all’interno della Repubblica, dove i favoritismi tra questi e la politica sono sempre andati a braccetto di un interesse condiviso, al fine di mantenere il proprio status quo a qualunque prezzo, che saranno sempre i soliti a pagare.

Elettorato passivo e appartenenti alle Forze di Polizia, scrive Carmelo Cataldi il 5 novembre 2013. Partendo dall’assunto che la Costituzione garantisce gli stessi diritti a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, razza, religione e status, (art. 2 e 3) diamo per scontato che anche i cittadini in uniforme abbiano garantiti quelli politici alla stessa stregua di ogni cittadino italiano. L’art. 49 della Costituzione afferma che: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”, mentre l’art. 98 chiarisce che: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero.” Questa ipotesi di riserva di legge non è stata mai attuata, almeno per gli appartenenti al comparto sicurezza e difesa, anche se vi fu un progetto di legge che naufragò nel 1991 per mancata riproposizione parlamentare del decreto legge. Oggi i diritti politici del cittadino in uniforme, ovvero l’esercizio dei diritti politici del cittadino in uniforme, si dividono su due grandi direttrici, quella riguardante le Forze di Polizia e quella riguardante le Forze Armate. Veramente vi sarebbe una terza, quella dovuta alla duplice natura giuridica delle Forze di Polizia ad ordinamento militare, cioè l’Arma dei Carabinieri e il Corpo della Guardia di Finanza, i quali però ormai, secondo consolidata giurisprudenza e prassi, vedono i loro appartenenti soggetti, per l’elettorato passivo, alle stesse regole delle Forze di Polizia (Polizia di Stato, Polizia Penitenziaria, Corpo Forestale, etc.) e per l’elettorato attivo invece al C.O.M. (Codice dell’ordinamento militare) ed al T.U.R.O.M.(Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare); insomma le solite cose alla così detta ”amatriciana”. In questo caso ci si occupa solo di un aspetto della questione e cioè quella relativa al diritto politico passivo degli appartenenti alle Forze di Polizia, comprese quelle a ordinamento militare. Questi sono soggetti, come altri appartenenti alla P.A., a diritti e doveri, ovvero a diritti e obblighi connaturati agli effetti giuridici scaturenti da una eventuale candidatura ad una qualsiasi tornata elettorale. Proprio perché la campagna elettorale è propedeutica all’eventuale elezione politica o politica amministrativa in caso di elezioni locali, ai sensi dell’articolo 81 c. 2 della legge 1 aprile 1981 n. 121 (per intenderci quella sulla riforma della Polizia) la legge ammette un periodo di Aspettativa per campagna elettorale. Questo speciale riconoscimento prevede che gli appartenenti alle Forze di Polizia, candidati ad una qualsiasi tornata elettorale, siano posti giuridicamente in una situazione di congelamento della propria posizione lavorativa, con mantenimento però degli assegni per tutta la durata della candidatura, potendo liberamente svolgere attività politica e di propaganda, con limitazioni solo di natura ambientale, nel senso che è da escludere che questa attività politica possa essere svolta nell’ambito del servizio e quindi  possibile solo al di fuori degli uffici e in abito civile. Una volta eletto si prospettano al personale delle FF PP delle situazioni giuridiche di favore, e ovviamente di distinzione rispetto alla propria professione, per evitare un conflitto d’interesse dovuto al doppio incarico di natura pubblicistica e amministrativa. Per tale motivo, a richiesta dell’interessato, è possibile all’Amministrazione dell’appartenente alle FF PP eletto, e per esempio a quello appartenente alla Polizia di Stato, di concedere, ai sensi dell’articolo 53 c. 3 del D.P.R. 24.4.1982, n. 335, un'aspettativa per mandato amministrativo per tutta la durata del mandato. Questo tipo di aspettativa, rivista sotto il profilo economico a seguito dell’abrogazione dell’articolo 3 della legge 12 dicembre 1966 nr. 1078, richiamato dall’art. 53 del DPR 335/1982, ad opera dell’articolo 28 della legge 27 dicembre 1985 n. 816, afferente la nuova disciplina in tema di aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali, prevede, per tutti i lavoratori del comparto sicurezza, che il suddetto beneficio, ottenuto a domanda, è da intendersi a titolo non retributivo, con il solo rimborso e attribuzione di indennità previste dalla legge cui sopra, considerando i periodi di aspettativa come servizio effettivamente prestato. Dunque occorre che l’appartenente alle FF PP, in occasione di richiesta di aspettativa politico – amministrativa, prima di optare per tale forma di beneficio faccia due calcoli di natura economica, perché nella maggior parte dei casi le indennità per i mandati elettorali incominciano ad essere perequativi delle enormi disparità tra queste e lo stipendio percepito per il proprio servizio, solo con un’elezione alle amministrative regionali. Nel qual caso il soggetto appena eletto non si avvalesse dell’aspettativa senza retribuzione, perché la ritiene non congrua economicamente per la sua sussistenza, la legge gli permette di avvalersi invece dell’istituto dei Permessi per l’espletamento del mandato che gli consentono di assentarsi, qui invece, con la copertura stipendiale totale per il tempo necessario all’espletamento del mandato, con l’attribuzione degli assegni, indennità di carattere speciale, ma soprattutto, e di notevole interesse, con la retribuzione degli emolumenti straordinari. Un’ultima disciplina favorevole all’esercizio del diritto politico dei professionisti del comparto sicurezza è quella molto dibattuta e prevista dall’art. 78 comma 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” ovvero il Diritto all’avvicinamento per il lavoratore dipendente amministratore pubblico. Detto articolo pone due questioni sotto il profilo della tutela giuridica dell’esercizio del diritto all’elettorato passivo che della corretta e buona amministrazione e cioè:

la prima, che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, eletti in un’amministrazione locale, durante l’espletamento del loro mandato amministrativo, non possono essere trasferiti, se non previo consenso degli stessi, norma che configge con il contenuto di quella prevista dall’art. 81 secondo comma legge n. 121/1981 e  specificatamente per gli appartenenti alla Polizia di Stato anche dall’articolo 53, primo comma del D.P.R. 24.4.1982 n. 335, come meglio si indicherà da qui a breve;

la seconda, che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, eletti in un’amministrazione locale distante dalla sede di servizio, possano richiedere l’avvicinamento alla sede amministrativa dove sono stati eletti e per cui hanno attribuito il mandato amministrativo.

Questo secondo diritto presenta caratteristiche di priorità a cui il datore di lavoro non può sottrarsi, seppur è bene qui precisare però che la giurisprudenza, anche di recente (Consiglio di Stato, Sez, IV, n. 03865/2012 del 2 luglio 2012) ha riconosciuto una natura non proprio di diritto soggettivo al trasferimento per l’esercizio del mandato politico, evidenziando al contempo che, seppur la legge non lo prevede, il trasferimento a domanda dell’interessato deve avvenire nel rispetto generale del bilanciamento degli interessi anche del datore di lavoro, soprattutto di quelli di natura economici e organizzativi e dunque a maggior ragione se emerge un interesse pubblico connesso ad attività soggettive di espletamento di funzioni pubbliche ( Consiglio Stato , sez. III, 11 gennaio 2011, n. 1638). Per finire, oltre a queste note altamente positive, rispetto all’esercizio passivo del proprio diritto in materia politica per gli appartenenti alle FF PP, vi è una nota dolente, prima solamente accennata, che, contraddittoriamente a quanto espresso in linea di principio e di dritto ai sensi dell’art. 78 comma 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” e prevista ai sensi dell’art. 81 c. 2° della legge n. 121/1981, obbliga gli appartenenti alle FF PP alla fine a non poter prestare servizio nella giurisdizione della circoscrizione in cui sono stati eletti. Paradossalmente il medesimo articolo prevede, ed è bene che tutti gli operatori del comparto sicurezza ne siano a conoscenza, che, anche in caso di esito negativo della tornata elettorale, non potranno espletare servizio per tre anni nella giurisdizione del collegio ove si sono presentati come candidati! Peraltro il provvedimento è ormai del tutto automatico e avviene d’ufficio senza possibilità alcuna di dubbio, tenuto anche conto della consolidata pronuncia giurisprudenziale in materia, tanto che il provvedimento di trasferimento ad altra sede (pensate a colui che si candida alle regionali a quali conseguenze si espone) è avviato automaticamente dallo stesso momento in cui si notifica alla propria amministrazione la candidatura alla tornata elettorale.

Gianluca Buonanno. Una morte annunciata o una teoria complottistica?

"Buonanno ucciso come Haider per le sue idee": ecco i complottisti. Secondo Rosario Marcianò c'è qualcosa che non torna nell'incidente che ha provocato la morte dell'onorevole della Lega Nord, scomparso ieri pomeriggio, scrive Ivan Francese, Lunedì 06/06/2016, su "Il Giornale". Sulla morte di Gianluca Buonanno - come ogni volta che si verifica un evento tragico all'improvviso - non potevano mancare le teorie complottiste di Rosario Marcianò. Che in un post su Facebook ha provato a ricostruire la dinamica che ieri pomeriggio ha portato all'incidente stradale in cui ha perso la vita l'europarlamentare leghista. "Buonanno è morto investito da un'auto della quale, sul luogo dell'incidente - spiega Marcianò - non vi è traccia. Eliminato? Viste le sue dure e decise posizioni anti-europeiste ed anti immigrazione selvaggia, è lecito sospettare che non si tratti di un incidente ma di omicidio." E traccia un parallelo inquietante: quello con la morte del politico di destra austriaco Jorge Haider, scomparso in un incidente stradale nel 2008. Allora, in molti parlarono di un complotto, con relativa manomissione della vettura di Haider, forse sabotata da un'anonima mano assassina. "Nel report fotografico - prosegue Marcianò - notiamo due auto. Una delle due è il maggiolino di Buonanno, che avrebbe tamponato la vettura a tre volumi. Sull'asfalto si nota una traccia curvilinea lasciata da una terza vettura che pare entrare "intenzionalmente" sulla corsia di emergenza. Questo terzo autoveicolo non appare nel reportage di Varese News." Le insinuazioni di Marcianò, come di consueto, hanno scatenato una ridda di ipotesi fra i commentatori, che già hanno iniziato a chiedere come mai non siano ancora state mostrate immagini del corpo del povero Buonanno. Domande che è lecito porsi ma che necessitano - questo è un punto irrinunciabile - di risposte quanto mai fondate. Solo le indagini potranno restituire la verità alla famiglia e ai tanti simpatizzanti. Per ora non si può fare altro che lasciare spazio alla pietà.

"La morte di Buonanno annunciata: lo hanno ucciso": la teoria del complotto. Secondo Armando Manocchia, molte cose non tornano nella "versione ufficiale" della morte di Gianluca Buonanno: "Era stato minacciato di morte", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 07/06/2016, su "Il Giornale". "Non ricordo di essermi mai imbattuto in un incidente come quello occorso a Gianluca Buonanno e alla sua compagna". Inizia così l'analisi del complotto sulla morte di Gianluca Buonanno da parte di Armando Manocchia, che ha scritto un lungo articolo sul perché secondo lui non è un incidente ad aver ucciso il leghista. "In un periodo in cui i media scavano come bulldozer in ogni fatto di cronaca, andando spesso anche oltre il lecito, la narrazione di questo incidente è arronzata, lacunosa, a tratti misteriosa e vi sono versioni molto diverse fra loro. C’è infatti chi dice - scrive Manocchia - che l’europarlamentare Buonanno sia morto in seguito ad un tamponamento, dopo esserci schiantato contro una vettura in sosta nella quale si trovavano due o tre inglesi. L’incidente è avvenuto sulla pedemontana, strada a doppia corsia per senso di marcia, fornita di regolamentare corsia di emergenza. Un’altra versione dice invece che è stato travolto da un automezzo mentre era a fianco della sua vettura, dalla quale era sceso per verificare i danni dopo un tamponamento. Il violento impatto con l’auto che lo ha travolto lo avrebbe ucciso sul colpo". Una notizia mai verificata, ma che è stata pubblicata e poi è misteriosamente scomparsa dal sito locale varesenews.it. Nella versione odierna, continua Mannocchia "sono spariti sia gli inglesi che l’investimento, resta solo il tamponamento. Possibile che, a distanza ormai di 24 ore, manchi ancora una ricostruzione precisa sulla dinamica dei fatti, una comunicazione ufficiale? E’ morto un rappresentante dell’Istituzione europea e ancora non si conoscono i dettagli? Possibile che nessun giornalista locale o nazionale, si sia recato in ospedale per raccogliere la versione dei fantomatici inglesi feriti? Qualcuno della Lega Nord, qualche dirigente del Movimento, si è recato sul luogo, immediatamente dopo l”incidente’?". Infine, il dubbio che Buonanno sia stato ucciso. "Buonanno era stato minacciato di morte pubblicamente, più di una volta. Ovviamente nessuno ha ritenuto di assegnargli una scorta perché quella è riservata alla Kyenge e alla Finocchiaro per lo shopping. Sorgono domande lecite e anche illecite a cui la Magistratura – e non solo – dovrà dare quanto prima una risposta…". Un'altra, non l'unica teoria sulla morte di Buonanno.

"Buonanno ucciso per la missione in Libia": l'ipotesi del complotto. Non si fermano le ricostruzioni sulla morte dell'europarlamentare della Lega Nord, Gianluca Buonanno. Sarebbe stato ucciso la sua missione in Libia, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Non si fermano le ricostruzioni sulla morte dell'europarlamentare della Lega Nord, Gianluca Buonanno. Ora spunta la pista libica e islamica. "Sulla Pedemontana, tra Mozzate a Solbiate, il 5 giugno moriva in un incidente stradale l’europarlamentare della Lega Nord Gianluca Buonanno - scrive l'ennesimo complottista Alessandro Lattanzio - secondo il sito Qui Como, Buonanno era sceso e a fianco della propria auto, ferma sulla corsia di emergenza, quando un’altra vettura l’investiva uccidendolo. In totale furono coinvolte tre auto almeno nell’incidente, con tre persone a bordo, oltre a Buonanno e alla moglie. Due dei passeggeri erano inglesi che avevano subito solo leggere ferite. Di tali inglesi, ovviamente, non si sa altro, se non che in seguito i media mettevano loro di fianco a un’auto ferma in corsia d’emergenza, e non più Buonanno". Secondo Lattanzio, insomma, Buonanno non sarebbe morto nell'incidente. Ma sarebbe stato investito volontariamente. E la spiegazione è da cercare nelle minacce ricevute dal sindaco leghista di Borgosesia e nella cosiddetta "pista libica". "Buonanno - prosegue - oltre ad essere oggetto di minacce anonime ed inchieste eterodirette, potrebbe aver infastidito i tanti sostenitori italiani o in Italia, delle organizzazioni terroristiche islamiste attive in Libia, Siria ed Egitto. Infatti, nel marzo 2015 l’eurodeputato Gianluca Buonanno si recava in Libia, suscitando articoli insultanti e sarcasmo stizzito e minaccioso sui vari media allineati a un PD filo-islamista, chiaramente infastidito dal fatto che un eurodeputato, recandosi presso il generale libico Qalifa Haftar, attribuiva un riconoscimento internazionale e legittimità ad una figura oggi oggetto degli strali delle sette terroristiche islamiste e dei loro mandanti delle intelligence inglesi, statunitensi, turche, qatariote ed infine italiane". "Ho girato per diverse città, non sono stato a Tripoli perché è in mano al terrorismo islamico - aveva detto Buonanno, riportato da Lattanzio - Ma ho incontrato molta gente, tra cui il Capo Supremo delle Forza Armate Qalifa Haftar. E’ stato lui a dirmi di non vedere i politici di queste parti da più di un anno. Adesso casualmente sono stato in Libia una settimana e il parlamento europeo ha messo all’ordine del giorno di parlare di Libia". Poi l'autore di questa nuova teoria sulla morte del politico, continua il racconto di quanto fatto da Buonanno."Ho trovato - scrive Lattanzio - che Buonanno scriveva sulla sua pagina Facebook: 'Dopo 5 giorni che sono qui, il Parlamento Europeo ha casualmente deciso di parlare di Libia e Terroristi… e io giovedì leggerò pubblicamente il messaggio che il Generale Khalifa Haftar mi ha lasciato!!!” Quali fossero queste rivelazioni, non ci è stato dato di sapere". La morte di Regeni e Buonanno sono collegate? Infine un collegamente, non mneglio precisato alla vicenda della morte di Giulio Regeni. "Collegato alle vicende libiche - scrive Lattanzio - va notato che professori e tutor di Giulio Regeni, l’esperto di sindacalismo inviato in Egitto dall’università di Cambridge, fulcro dell’intellighentsija colonial-imperialista anglosassone, si avvalevano della facoltà di non rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Sergio Colaiocco, dei funzionari dello SCO e degli ufficiali del ROS dei carabinieri, giunti nel Regno Unito per indagare sulle e-mail scambiate da Giulio con i suoi docenti riguardo alla ‘ricerca’ che svolgeva a Cairo, e le personalità che aveva contattato e frequentato in relazione a tale ‘ricerca’. ‘Ricerca’ che tra l’altro risulta “confidenziale”. In particolare, Regeni aveva promesso a Muhamad Abdallah, capo di uno di quei sindacati, di devolvergli 10000 euro ricevuti dalla Fondazione Antipode del Regno Unito. Abdallah, che avrebbe litigato con Regeni per quei 10000 euro promessi ma non concessi, il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni, dichiarò “mi ha offerto soldi per avere informazioni sui sindacati”.

"Hanno ucciso Buonanno: le prove": il video dei dubbi sull'incidente. Un video complottista sulla morte di Gianluca Buonanno. Il video che spiega: "Così hanno ucciso Buonanno". Il video mette insieme tutti i dubbi e "quello che non torna" sull'incidente mortale, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 09/06/2016, su "Il Giornale". Un video, costruito con attenzione, per "smontare l'informazione fasulla" sulla morte di Gianluca Buonanno. Il video, comparso sul canale DailyMotion, mette insieme tutti i dubbi, le versioni contrastanti, "quello che non torna" sull'incidente mortale di Buonanno. Secondo gli autori di questo video, il parlamentare leghista sarebbe stato ucciso. E mostrano quelle che, secondo loro, sono le prove di questo omicidio (guarda il video). Non si fermano, quindi, le teorie complottiste. "Le prime fonti di informazione - si sente nel video - che sono le più attendibili, poi sono stranamente scomparse". E questo spiegherebbe, secondo gli autori, che la versione della morte sarebbe stata modificata e cambiata in un secondo momento. Secondo gli autori, ad essere coinvolta - secondo quanto si evince dalle prime immagini pubblicate - sarebbe tre e non solo due. "Perché non si cerca la terza auto coinvolta? - dicono - Perché si è cambiata la versione dicendo che Buonanno sarebbe morto nell'abitacolo a seguito del tamponamento? E' una versione credibile? Oppure è lecito sospettare che chi può gestire i media, i servizi e le indagini abbia lavorato alla costruzione e ricostruzione dell'accaduto". Poi portano delle "prove" complottiste alle loro tesi complottiste. "Poniamo il caso che Buonanno non abbia allacciato le cinture di sicurezza, allora di chi è il corpo a fianco dell'auto ricoperto e fotografato vicino al maggiolino? Nel report fotografico ci sono due auto, di cui una quella di Buonanno. Ma dalle immagini notiamo che i danni del Maggiolino corrispondono, secondo i crash test, ad una velocità di impatto appena 65 km/h e a conseguenze che non sono compatibili con una morte sul colpo". Nel video mostrano allora i crash test del Maggiolino che, secondo loro, non porterebbe alla morte del conducente. "La cella di sicurezza dell'abitacolo è rimasta intatta - dicono - tanto che i pompieri hanno potuto aprire manualmente lo sportello. Se la versione è quella della morte all'istante nella sua auto, questa versione non regge. A quella velocità non si muore. Un impatto a tale velocità non giustifica la posizione dell'altra auto, tamponata e scaraventata a circa 50 metri di distanza. La Mercedes pesa molto più del maggiolino. Nella sua traiettoria, infine, si trova un paletto di ferro oltrepassato ma rimasto miracolosamente intatto". Poi continuano. "Le due auto accasciate a lato della carreggiata sembrano sistemate successivamente. Sull'asfalto, accanto al maggiolino, si nota una traccia curvilinea lasciata da una terza vettura che pare entrare intenzionalmente sulla corsia di emergenza." Infine l'attacco ai presunti colpevoli di questo presunto omicidio. "Nessuno, però, ne parla. Quello che è certo è che Buonanno era inviso alla burocrazia europea. Ed era stato anche minacciato di morte. Devono aver coinvolto Buonanno in un incidente di lieve entità, Buonanno è sceso per constatare i danni e lo hanno investito. Poi hanno spostato i veicoli, simulando un incidente più grave e inquinando la scena dell'incidente".

Gianluca Buonanno è stato ucciso? Gianluca Buonanno, parlamentare europeo, muore lungo la Pedemontana in Provincia di Varese, investito da un'auto, dopo essere sceso dalla propria vettura Volkswagen, a seguito di un tamponamento con una Mercedes. Sono circa le 10:00 del mattino del 5 giugno 2016. E' quanto riferiscono le prime fonti di informazione che, come accade in casi simili, sono le più attendibili e le prime a scomparire. Su Newsbiella.it la notizia dell'incidente, occorso a Gianluca Buonanno, viene pubblicata alle 10:50 del mattino. Successivamente l'articolo viene modificato, spostando l'orario al pomeriggio ed eliminando il dettaglio dell'investimento ad opera di altro veicolo. Ma resta l'orario di prima pubblicazione! Doti di preveggenza o manipolazione della cronaca? Ritenendo dunque queste prime notizie le uniche vere, secondo il reportage fotografico di Varese News, dell'auto pirata non vi sarebbe traccia. Ciò indurrebbe a farsi delle domande, senza che i "guardiani del cancello" della cosiddetta "informazione contro" abbiano a stracciarsi le vesti. Perché non si cerca la terza auto coinvolta? Perché si è successivamente cambiata versione, affermando che Buonanno sarebbe morto sul colpo nell'abitacolo della sua vettura a seguito del tamponamento, addirittura spostando l'orario dell'"incidente" alle 16:00del pomeriggio? E' questa una versione credibile? Oppure è lecito sospettare che qualcuno, capace di gestire il mainstream, i servizi e le indagini, abbia lavorato alla costruzione e ricostruzione dell'accaduto, comprese le testimonianze apparse nelle ultime ore? Poniamo il caso che Buonanno non abbia allacciato le cinture di sicurezza. Bisognerebbe chiedersi allora di chi sia il corpo ricoperto da un drappo sull'asfalto, fotografato alcuni metri prima della VW Beetle, subito dopo il sinistro. Nel dossier fotografico vediamo due auto. Una delle due è il veicolo di Buonanno, mezzo che avrebbe tamponato la vettura tre volumi. Dalle immagini a disposizione notiamo come i danni causati alla parte anteriore del Maggiolino corrispondono, secondo i crash test dello stesso modello di automobile, ad una velocità di impatto di circa 65 Km/h contro barriera fissa ed a conseguenze che, come emerge chiaramente dai fotogrammi, non sono assolutamente compatibili con una morte sul colpo, tanto meno per chi è alla guida! Infatti la cella di sicurezza dell'abitacolo è intatta. Così pure la portiera, che ha ancora le cerniere perfettamente integre e che quindi può essere regolarmente aperta senza difficoltà (Lo si vede anche dagli scatti di Varese News). Quindi, se la versione definitiva è quella della morte all'istante del parlamentare nella sua auto, questa ricostruzione, in tutta evidenza, non regge. I danni da impatto a 65 Km/h non sono conformi con il punto in cui la Mercedes sarebbe stata scaraventata (secondo la versione ufficiale) ad oltre cinquanta metri di distanza, anche perché la tre volumi tedesca ha un peso notevolmente superiore rispetto alla VW Beetle del parlamentare leghista e la sua forza di inerzia le avrebbe impedito di compiere un volo del genere. A questo proposito si visioni questo link, tanto per avere un'idea chiara. Osservate poi questa immagine: sulla traiettoria ipoteticamente seguita dalla Mercedes c'è un paletto, che però non è stato piegato. E' miracolosamente uscito integro, nonostante il violento impatto. Solitamente a subire ferite più gravi sono i passeggeri seduti a fianco del guidatore o sui sedili posteriori, ma in questo caso sappiamo, stando alle cronache, che la compagna del parlamentare europeo stava addirittura dormendo (alle dieci del mattino?). Eppure la donna ha riportato soltanto lievi lesioni e sembra che non possa descrivere la dinamica dei fatti. Riepilogando: se i danni riportati dalla VolksWagen di Buonanno sono quelli di un veicolo che impatta contro barriera fissa a 65 Km/h, si deve concludere che la vettura di Gianluca Buonanno non ha tamponato un veicolo fermo, ma che piuttosto era in forte decelerazione (una frenata improvvisa), supponendo quindi una velocità iniziale dei due veicoli di circa 110 Km/h. La Volkswagen ha quindi tamponato un'altra vettura (non necessariamente la Mercedes), mentre la sua velocità diminuiva repentinamente per una brusca frenata. La versione secondo cui la Mercedes in panne, ferma sulla corsia di emergenza, è violentemente urtata dal Maggiolino, vacilla miseramente e si apre un altro scenario più consono con i dati disponibili: Buonanno, con la compagna, stava percorrendo la statale Pedemontana in provincia di Varese quando, in prossimità di un punto senza guardrail, è stato costretto ad inchiodare per la rapida decelerazione di un veicolo che lo precedeva. L'impatto è stato inevitabile, ma Buonanno non ha subito lesioni apprezzabili ed anzi è sceso con le sue gambe dalla vettura per costatare i danni, mentre l'auto che ha bruscamente frenato ha fatto perdere le sue tracce. Di lì a pochi istanti l'Onorevole è stato investito mortalmente da un terzo mezzo che si è subito dileguato. Stava piovendo e la visibilità era scarsa. I primi soccorritori hanno ripreso la scena: con Buonanno a terra, qualche metro davanti alla sua auto. Anche questo è un elemento strano. Non si notano segni di frenata, visto l'asfalto reso viscido dalla pioggia. Buonanno viene è stato coperto con un drappo, come si vede in questo fotogramma estratto dal filmato di Prealpina.it. Poi, come sempre accade in questi casi, il teatro dell'"incidente" è stato inquinato, spostando l'orario della tragedia al pomeriggio. Infatti i reportage successivi presentano uno scenario differente: non si vede alcuna traccia del corpo mostrato sull'asfalto nei notiziari del mattino. Il resto è "cronaca". Una cronaca artefatta e tesa ad allontanare il sospetto che si sia trattato di un omicidio volontario e ad avvalorare la tesi dell'incidente fortuito, con buona pace dei giornalisti d'accatto che non si pongono mai domande, ma preferiscono seguire la direttiva dei loro padroni: insabbiare. Sempre!

E come volevasi dimostrare…

“Buonanno è morto per una distrazione”. Dalle immagini delle telecamere stradali si vede il sindaco di Borgosesia che si china per raccogliere il cellulare, scrive Maria Cuscela il 10 giugno 2016 su "La Stampa". Una semplice distrazione: è questo il motivo della tragica morte di Gianluca Buonanno. Ormai sembrano non esserci più dubbi: a raccontare quanto accaduto domenica pomeriggio sul tratto di strada lombardo sono le tante telecamere posizionate sulla Pedemontana, che essendo senza pagamento diretto ai caselli ha un monitoraggio video molto accurato per registrare i passaggi. Fonti vicine agli inquirenti riferiscono che dai filmati della società Autostrada Pedemontana Lombarda visionati dalla Polstrada si vedrebbe abbastanza chiaramente che l’europarlamentare, alla guida, si china verso il lato destro del sedile armeggiando con la mano destra, si presume per raccogliere il telefono cellulare caduto nell’abitacolo, mentre la donna che gli siede a fianco è assopita. Una distrazione che per pochi secondi gli deve aver fatto perdere il controllo del New Beetle di colore blu, trovando poi sulla traiettoria, per fatalità, sulla corsia di emergenza l’auto, parcheggiata, guidata da un albergatore, che stava facendo da autista a due turisti inglesi, e contro cui, a causa dell’impatto, Buonanno ha trovato la morte. I risultati dell’autopsia, fissata per oggi alle 14, serviranno a chiarire se alla base di tutto ci possa essere stato un malore di Buonanno, anche se pare essere un’ipotesi ormai lontana. Terminato l’esame autoptico il pubblico ministero Luca Pisciotta della procura di Varese darà il nulla osta per i funerali. E a Borgosesia, Varallo e Serravalle sono comparse le epigrafi. Gianluca Buonanno lascia il figlio Nicola, 13 anni, la mamma Lina Mazzone, il fratello Fabio e la sorella Emanuela, Daniela, gli zii. La camera ardente verrà allestita nel municipio di Borgosesia lunedì dalle 16 alle 19 e martedì dalle 10 alle 14. Martedì alle 15,30 ci sarà il funerale nella chiesa parrocchiale di Bornate, frazione di Serravalle. Il rosario sarà recitato in tre luoghi lunedì: alle 20 a Bornate e nella parrocchiale di Borgosesia, alle 20,30 nella chiesa della Madonna delle Grazie a Varallo.   

Quando tutti si leghistizzano. Muore il leghista Buonanno. E i centri sociali lo insultano. Scrive Antonio Angeli su "Il Tempo" il 5 giugno 2016. Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di...Un incidente stradale si è portato via ieri sera Gianluca Buonanno, politico appassionato e fuori le righe, aveva cinquant’anni. Nipote della «spalla» di Petrolini, a sedici anni si iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante dove militò per anni, per confluire negli anni Duemila nella Lega Nord. Al coro addolorato di amici e politici sconcertati dalla morte improvvisa, si sono aggiunti attacchi e insulti via web da parte degli immancabili cialtroni. Gianluca Buonanno, europarlamentare e sindaco di Borgosesia (Novara), ha perso la vita ieri pomeriggio, in auto sulla Pedemontana a Gorla Maggiore (Varese). Il leder del Carroccio, Matteo Salvini, lo ha salutato così: «Non ho parole. Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, concreta, onesta, generosa, sempre fra la sua gente da Sindaco e parlamentare. Un pensiero ai suoi famigliari e alla gente della sua valle. Un impegno: non molleremo mai, anche per Te. Ciao Gianluca, mancherai». Cordoglio da tutti i principali esponenti leghisti a cominciare da Calderoli. Il premier Renzi ha telefonato a Salvini esprimendo il suo dolore. Politici di tutti gli schieramenti, da Giorgia Meloni a Toti di Forza Italia, ma anche dal MoVimento 5 Stelle alla presidente della Camera Boldrini hanno espresso il loro cordoglio. Buonanno cantò senza troppi complimenti la sua contrarietà a omosessuali e rom, una volta, in Parlamento, portò provocatoriamente un finocchio. Ieri, dopo la sua scomparsa il web è impazzito: un tal Marco scrive: «L’Italia è quel posto in cui dei morti se ne deve sempre parlare bene, anche se in vita sono stati degli emeriti imbecilli #Buonanno». E ancora: «Signor Bossi, è morto Buonanno! Grazie, anche a voi». Da Pirata 21: «È morto Gianluca #Buonanno della Lega. Mi dispiace era proprio una brava... vabbè mi dispiace». E molti altri che definire di cattivo gusto è un complimento: «Lega Nord: è morto #Buonanno in un incidente stradale. Molti di voi lo ricorderanno per avergli augurato un incidente stradale». «È morto #Buonanno, in cielo uno appena arrivato voleva uno sparring partner». «Ad Alì serviva un sacco da boxe che gli ispirasse violenza... e così #Buonanno». «È morto #Buonanno. Il proprietario dell’altra auto ora invoca la legittima difesa». Da Luca Maccioni: «Tutti felici per la morte di #Buonanno. Che ci crediate o no, ne è felice pure la famiglia che ora si becca un bel vitalizio». Una doppia imbecillità: nel 2011 Buonanno ha formalmente rinunciato al vitalizio.

Morto Gianluca Buonanno: la festa della vergogna dei "cretini" di Twitter. Diversi utenti su Twitter dopo la notizia della morte hanno "festeggiato" a colpi di tweet ignobili: il rispetto non c'è nemmeno davanti alla morte, scrive Claudio Torre, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale". Una morte improvvisa. Gianluca Buonanno è morto in un incidente stradale tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Due auto si sono scontrate, forse complice anche il maltempo: uno scontro terribile che ha causato la morte di Buonanno, deceduto praticamente sul colpo nonostante i tentativi di soccorso da parte dell’équipe dell’automedica del 118. Subito dopo la notizia della morte il mondo politico si è stretto alla famiglia e soprattutto alla moglie che anche lei a bordo dell'auto e attualmente ricoverata con ferite ha visto il marito che li moriva accanto. Un dramma che ga colpito la Lega Nord e tutto il mondo politico. Ma sui social network chi non condivideva le idee di Buonanno si lascia andare ad uno sciacalaggio vergognoso. Soprattutto diversi twittaroli hanno fatto "festa" subito dopo la notizia. Gli insulti non si fermano nemmeno davanti alla morte. "Per cosa verrà ricordato un uomo di merda come Buonanno?", scrive un utente su Twitter. Qualcuno aggiunge: "R.i.p. Buonanno" aggiungendo alla scritta anche una foto con i botti d'artificio. A questo si aggiunge la creazione dell'hashtag "buonanno" in senso di festa usando il cognome del povero europarlamentare della Lega Nord. C'è chi prova a dire che "non si fa festa su chi muore", ma qualcuno che appartiene a quella parte feroce popolo di Twitter risponde così: "Quindi bisognerebbe portare rispetto a #buonanno?ma rispetto de che?". E ancora: "Muore un razzista, ignorante e ignobile "uomo". Di che dispiacersi?". Ma la realtà della bassezza e della pochezza di alcuni commenti è riassunta in questo tweet che critica aspramente questa festa ignobile a colpi di cinguettii: "Le reazioni alla morte di #buonanno dimostrano che la madre degli imbecilli non fa in tempo ad essere incinta ma sforna pargoli dopo pargoli".

Il Tg1 ignora Buonanno: morte cancellata dai titoli. Nell'apertura del Tg1 non è stato dedicato nemmeno un titolo alla morte dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 05/06/2016, su "Il Giornale".  Nessun titolo per la morte di Gianluca Buonanno. Il Tg1 ha ignorato la tragica scomparsa dell'europarlamentare leghista. C'è tutto, nei lanci del telegiornale della prima rete Rai. Ci sono le affluenze al voto, la tragedia degli immigrati nel mare della Libia, l'offensiva contro l'Isis in Iraq, la musica, il reddito di cittadinanza, il motomondiale e anche la morte di Muhammad Alì. Ma non Buonanno. Eppure la notizia della morte del sindaco della Lega Nord è stata battuta dalle agenzie di stampa alle 18.43. E i quotidiani locali avevano dato l'annuncio ancora prima. Come è possibile che nella redazione del telegiornale di Rai1 non abbiano trovato il tempo di confezionare, se non un servizio, almeno un titolo di due righe sulla tragica scomparsa dell'esponente del Carroccio? Che per quanto possa essere "poco apprezzato", ha comunque un certo peso politico. La mancanza del Tg1 non è passata inosservata alla rete. Che appena finiti i titoli del telegiornale hanno iniziato a bombardare il profilo Twitter del Tg1. "Che scandalo - scrive Serenella - è morto l'europarlamentare della Lega, di incidente stradale e il tg1 non dice niente". "Mentana sempre avanti - ribatte Luca - Buonanno subito dopo le elezioni. Il tg1 manco considerato nei titoli, in compenso ancora Muhammad Alì". Di tweet in tweet, l'indignazione corre sul web. "È vergognoso che il tg1 non parli della morte del leghista", aggiunge Antonio. Alcuni avanzano anche l'accusa di pilotaggio da parte del governo, che avrebbe "imposto al tg1 di coprire la notizia su Buonanno per non dare spazio alla Lega". Complice anche il maltempo, il leghista ha perso il controllo dell'auto e ha colpito un'auto sulla Pedemontana, tra Mozzate e Solbiate in direzione Varese. Il leghista è morto sul colpo. Ferita anche la moglie dell'europarlamentare, poi trasportata all'ospedale di Busto Arsizio. Le sue condizioni sono gravi. Nell'incidente sono state ferite anche altre tre persone.

"L'ultima provocazione di Buonanno": il commovente ricordo di chi lo conosceva bene, scrive di Matteo Pandini il 6 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Pensavamo non potesse lasciarci senza parole, Gianluca Buonanno da Borgosesia, sindaco ed europarlamentare della Lega, famoso per provocazioni e battutacce ma amatissimo nella sua Valsesia, Vercelli, e non solo. Eppure, ieri, ci ha spiazzato. Nel tardo pomeriggio. Quando è morto a 50 anni in un incidente stradale sulla Pedemontana lombarda all’altezza di Gorla Maggiore, Varese. È andato a sbattere contro un’auto, ferma per un guasto. Lascia due figli piccoli. La moglie, che era con lui, è ricoverata in ospedale a Busto Arsizio in codice rosso. Altre tre persone sono rimaste ferite. Di solito, sentivi il nome Buonanno e immaginavi subito qualche sceneggiata, una dichiarazione scorretta, uno dei tanti show che l’avevano fatto diventare un personaggio. Sapeva indignare, a turno, tutto l’arco costituzionale. Ma dietro le quinte, anche molti dei suoi critici lo trovavano simpatico. A Roma, Laura Boldrini aveva cercato inutilmente di contenerlo. A Bruxelles, Martin Schulz aveva intimato al personale di marcarlo stretto dopo che aveva indossato una maschera di Angela Merkel e aveva esibito rotoli di carta igienica. Per dribblare i divieti, il leghista si era presentato vestito e truccato da Hitler, con tanto di capelli impomatati e baffetti: era il suo modo di provocare i fan della Cancelliera. «Mica possono obbligarmi a non pettinarmi…» ridacchiò. Schulz decise di multarlo. Poi varò una norma, ribattezzata anti-Buonanno, per impedire cartelli e magliette in Aula. Insuperabile - Perfino nel Carroccio molti non reggevano le sue trovate. Anche perché riusciva ad alzare sempre l’asticella. Alla Camera, portò un enorme forcone (finto) per pungolare la maggioranza. Cosa poteva fare di più? Be’, utilizzò le bolle di sapone soffiandole nell’emiciclo. Eccolo con le manette, sventolate per criticare lo svuota-carceri. Una volta, spuntò improvvisamente davanti allo scranno della presidente Boldrini. Cacciando un urlo. Lei trasalì. Lui rise di gusto. Quindi si superò sventolando un pesce, per l’esattezza una spigola, che la terza carica gli fece sequestrare dai commessi. «Dove è finita la mia spigola?» domandò il giorno dopo. Si era perfino dipinto la faccia di nero, per denunciare il governo «che discrimina gli italiani». Davanti alle telecamere, Buonanno realizzò un video in cui si spogliava, boxer esclusi: «Renzi ci lascia in mutande!» urlava dandosi manate sulle chiappe. Poi, in un’intervista su Sky, mostrò una pistola per parlare di legittima difesa. Matteo Salvini, in privato, gli chiese di smorzare i toni. Lui rilanciò: bonus di 200 euro per chi vuole una rivoltella per difendersi. La carriera politica da amministratore ruspante, Buonanno la comincia nella destra. Figlio di padre artigiano e nonno pugliese che faceva l’attore girovago (era spalla di Ettore Petrolini), l’effervescente Gianluca prende la tessera dell’Msi a 16 anni, per poi passare ad An che rappresenta anche nel consiglio provinciale di Vercelli. Fa il sindaco di Serravalle Sesia per due mandati, al timone di una lista civica, e quando scatta l’ineleggibilità scende in campo alle Politiche del 2001 con una formazione che porta il suo nome. Incassa più del 22%. Un successone. Poco dopo, passa alla Lega. Nel 2002 viene eletto sindaco di Varallo. Un drago: riconfermato nel 2007. La fama - Si guadagna la ribalta nazionale: decide di battezzare alcune rotonde e strade a personaggi famosi ancora in vita e trasmissioni tv, ma soprattutto piazza delle sagome di cartone con la divisa da vigile (e la sua foto al posto della faccia) sul ciglio della strada. Obiettivo: far rallentare le macchine, senza tartassarle con gli autovelox. All’imbocco della sua Valsesia, fa piazzare cartelli con scritte anche in arabo per vietare veli e burqa vari, oltre ai vu cumprà. Quindi annuncia di voler distribuire profilattici agli extracomunitari, per aiutarli a «non fare figli che poi non riescono a mantenere». Promette premi ai concittadini sovrappeso che dimagriscono, pensa di regalare galline ai residenti in difficoltà, ipotizza di recintare con filo spinato il suo Comune, sostiene che il grana padano «è la prova che la Padania esiste». Per incrementare la produttività dei dipendenti del municipio, fa spostare la macchinetta del caffè dal corridoio al suo ufficio. Tra il 2008 e il 2014 fa il deputato. Record di presenze. Nel 2010 diventa consigliere in Piemonte. Nel 2014, eccolo sindaco di Borgosesia. Uno dei suoi fiori all’occhiello è il festival dell’Alpàa di Varallo: grazie ad alcuni sponsor, richiama artisti di fama per concerti gratuiti. In piazza. Nell’elenco di chi fa capolino nella sua roccaforte, negli anni, spuntano pure Fedez e J-Ax. Buonanno punta Bruxelles nel 2014: becca quasi 27mila voti, tra i leghisti fa meglio solo Salvini. A Bruxelles non cambia registro. Esempi. Per «dare la sveglia» suona la tromba alla fine di un intervento in Aula. Poi, si presenta in divisa militare. E col burqa. Diventa un protagonista di alcune trasmissioni, a partire dalla Zanzara di Radio 24. Ne dice di cotte e di crude. Il conduttore, Giuseppe Cruciani, sghignazza. L’altro giornalista, David Parenzo, impersonificazione del politicamente corretto, s’indigna. Memorabili corpo a corpo. Parenzo: «Vai al circo!!». Buonanno: «Pidocchio!! Comunista!!».  Pure sui gay, Buonanno non si tira indietro. A un dibattito mostra un finocchio. E quando un omosessuale lo incrocia e gli dice di smetterla, lui va a Radio 24 per cospargersi il capo di cenere: «Scusami, non lo faccio più-più-più» detta con vocina esageratamente effemminata (sì, certo, voleva sfottere). Propone chip per controllare i profughi, suggerisce di espropriarli dei cellulari, dopo gli attentati a Bruxelles acquista paginate di giornali belgi per arrivare a Molenbeek: «Lotterò per difendere i valori cristiani». Quando scoppiano le bombe nell’aeroporto di Zaventem, lui le schiva per un improvviso impegno in Municipio. Spiega l’episodio a Canale 5 e si commuove. Proprio in tv, su La7, attacca i rom e li definisce «feccia della società». Buonanno ha dato dei piangina ai napoletani e accusato Garibaldi «di aver unito l’Italia ma diviso l’Africa». Ha fatto inferocire chiunque. Da Gad Lerner, a cui ha dato del tirchio, fino alla comunità ebraica per non parlare di Cécile Kyenge e Sel, il partito di Vendola ribattezzato «Sodomia e libertà». Ha accusato gli islamici di essere «bestie» per le morti durante il pellegrinaggio alla Mecca: «Dai, non si può morire così». In piazza, godeva nell’andare in bocca ai contestatori. L’aveva fatto anche a Bologna, pochi mesi fa, beccandosi gli urlacci di qualche leghista. Ieri, sui social, è esondata la fogna di chi festeggia per la sua morte. Ma da Renzi a Fi fino al Pd, al M5S e ad Alfano, sono piovute le condoglianze. Anche della Boldrini, della Kyenge, di Fassina, di Schulz, della Le Pen, della Meloni, di Maroni e Zaia. Un elenco sterminato. Scioccato Salvini: «Buon viaggio a una persona leale, coraggiosa, onesta». Addolorati, tra gli altri, Barbara d’Urso e Parenzo. Disperato Cota, che da leader della Lega piemontese l’aveva lanciato. Buonanno chiamava spesso Libero: «Hai visto cos’ho fatto?». E ridacchiava. Gianluca, non avremmo mai pensato di avere tue notizie e restare senza parole. Ci sbagliavamo.

Funerale laico per Marco Pannella: la veglia, la camera ardente e il ricordo di chi gli era vicino, scrive “Libero Quotidiano” il 21 maggio 2016. Funerale laico e musica jazz per Marco Pannella in Piazza Navona, proprio dove si tennero le grandi manifestazioni delle lotte dei radicali. Ci sono gli amici di una vita e i militanti di lungo corso: Emma Bonino, Sergio D'Elia, Rita Bernardini e la compagna Mirella Parachini. Il Requiem di Mozart ha segnato l'inizio del funerale laico. La piazza è gremita di persone e bandiere: quella del Radical Party, del Tibet, dei Radicali Italiani e di Israele. Sul palco per alcuni minuti è salita anche una delegazione dei detenuti di Rebibbia, che ha esposto uno striscione di ringraziamento a Marco Pannella. La polemica - Quando prende la parola Emma Bonino non si trattiene e le sue parole feriscono come lame: “Pannella nel corso della sua vita è stato soprattutto irriso e deriso, quando non vilipeso, e penso che alcuni omaggi postumi puzzano di ipocrisia lontano un miglio". Parole accolte dal lungo applauso delle centinaia di persone in piazza. Eppure l’ex ministro degli Esteri non aveva più visto nè parlato con il leader dei Radicali dopo un brutto litigio. “Non è mai andata a trovarlo, negli ultimi tre mesi. Ma non si sentivano da molto. Nemmeno una telefonata. Ogni tanto glielo chiedevo: “Emma ha telefonato?”. Lui scuoteva la testa. Un giorno gli ho chiesto: “Ma tu vuoi bene a Emma?”. Lui ha risposto: “Certo, che domanda stupida” – ha raccontato Rita Bernardini, l’ex segretaria dei Radicali Italiani, in un’intervista al Corriere della Sera - È un peccato, soprattutto per lei: penso che ci starà molto male, proverà rimorso”. La veglia – Il feretro di Pannella è arrivato in via Torre Argentina accolto da un lungo applauso. E lì è rimasto fino alle 13 di oggi, nella sala grande della sede dei Radicali, coperto da una bandiera del Tibet e diverse rose. Un flusso continuo di persone è andato a porgere l’ultimo commosso saluto: gente comune e vecchi militanti e amici. "Ho parlato con Marco un mese e mezzo fa e mi diceva che, per mantenere il partito ha venduto tutti gli immobili della famiglia – si è sfogato Luigi, uno dei tantissimi cittadini in attesa del proprio turno per salire alla sede dei Radicali - Non ha mai preso lira da nessuno e manco senatore a vita lo hanno fatto". Camera ardente – La camera ardente allestita nella sala Aldo Moro a Montecitorio per Marco Pannella è stata visitata da migliaia di persone, politici, militanti radicali, ex esponenti del partito. Ad accogliere gli ospiti, accanto alla bara, c'è un'Emma Bonino silente che, a chi l'abbraccia, accenna un educato sorriso. Anche Rita Bernardini, Sergio D'Elia, il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi e Francesco Rutelli sono nella sala Aldo Moro sin dall'apertura della camera ardente e accanto alla salma di Pannella c'è una Laura Harth che non riesce a trattenere le lacrime per la morte del leader che ha assistito fino agli ultimi istanti della sua vita. Chi c'era - Nella sala, tra i tanti arrivati, anche Achille Occhetto e diversi ex militanti radicali come Elio Vito e Daniele Capezzone. "Marco era un istrione, un immortale e certamente i nostri politici avrebbero potuto fare qualcosa di più per lui. Noi due siamo stati dei trasgressivi – è il commento di Cicciolina, l’ex pornostar arrivata in Parlamento proprio con i Radicali - Secondo me ora ci sta guardando divertito e sta dicendo 'vedi che vi ho fregato'". Nella camera ardente sono arrivati anche due monaci tibetani che si sono avvicinati alla salma del leader radicale ponendogli sopra delle pashmine bianche tradizionali della cultura tibetana, poi uno dei due monaci ha intonato una preghiera inducendo tutti gli altri presenti ad alzarsi.

«L’eredità di Marco Pannella? Le sue lotte e un debito da un milione». Maurizio Turco, dieci anni da tesoriere del Partito radicale: «Purtroppo ho visto tanto sciacallaggio attorno a Marco», scrive Monica Guerzoni il 23 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il patrimonio di Pannella? Le sue battaglie e un debito da un milione di euro. Maurizio Turco, dieci anni da tesoriere del Partito radicale, non ha voluto parlare davanti alla salma del leader per non gettare altro sale su ferite profonde. Ma ora rompe il silenzio: «Questa camera ardente è stata aperta due anni e mezzo fa, quando si è concluso il congresso dei Radicali italiani. Da allora Pannella ha subito umiliazioni e insulti gratuiti. Purtroppo ho visto tanto sciacallaggio attorno a Marco».

È una scissione?

«Più che scissione, uno scisma. Noi abbiamo offerto un disarmo unilaterale. Loro hanno deciso di fare altro».

Ce l’ha con i giovani che guidano i Radicali italiani? Con Riccardo Magi, con Marco Cappato? Anche con Emma Bonino?

«Con quelli che dicono di aver vinto il congresso. Ci sono due linee politiche contrapposte. C’è un gruppo che si è coagulato attorno a Magi, Cappato e a Valerio Federico. Ora parlano di unità, ma su cosa? Dovremmo mettere in piedi il partito che loro volevano fare e Marco non ha mai voluto? Come può essere ricomponibile, dopo due anni e mezzo?».

Rottura insanabile.

«Hanno negato a Marco il confronto e il dibattito politico. In due anni, per 365 volte a mezzogiorno ci siamo riuniti nella nostra sede. E loro non partecipavano alle riunioni e, se attraversavano il salone, lo facevano per andare al bagno o a prendere un caffé. Senza salutare Marco. Per due anni e mezzo non li abbiamo quasi mai visti. In una delle ultime riunioni Marco disse “Voi ci accusate di voler distruggere il partito perché noi vogliamo continuare a fare lotte radicali”. Sono loro che stanno personalizzando».

E il j’accuse della Bonino? 

«Non mi interessa, a me interessa quel che si è detto nelle riunioni del partito. Per me stare con Marco non era visitare i malati, era impegno politico e umano. C’è un limite di decenza politica che non si può superare».

Perché non c’è mai stato il chiarimento con la Bonino? 

«Dopo la rottura politica lui ha sempre cercato il chiarimento. La chiamava e lei lasciava squillare. Mandava messaggi ed Emma non rispondeva. A Radio Radicale lo disse anche, “vediamoci, Emma!”. Ma lei no, non voleva chiarirsi».

Pannella ci ha sofferto? 

«Sicuramente, sì».

A chi andrà l’eredità?

«L’eredità di Marco sono le sue lotte politiche, dunque andrà a chi le porterà avanti».

E il patrimonio? 

«Marco non aveva più niente. Si è venduto tutto per il partito, per finanziare la politica. Nella cassa del partito c’è un milione di euro, in debiti. Non c’è una guerra attorno alle spoglie di Pannella, c’è un dissesto manifesto».

Ha lasciato testamento? 

«Anche se ci fosse riguarderebbe Marco Pannella, i suoi pacchetti di sigarette, le sue cravatte e due buchetti a Riccione che non ha fatto a tempo a vendere e che andranno ai parenti. E così è finito il patrimonio di Pannella».

E la radio, la sede, i simboli? Pannella ha lasciato scritto come gestire il suo lascito, materiale e immateriale?

«La “roba” è intestata a una associazione, che si riunirà e deciderà. Siccome gestivo con lui e sui miei atti c’è la sua firma, Marco non mi ha lasciato detto niente. Ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente».

Cosa ha provato nelle ore del lutto? 

«Lo dico con la frase di Marco ai funerali di Luca Coscioni, quando vide che lo osannavano come un leader. “I radicali sono buoni solo da morti”. Sa perché la gente quando Pannella è morto si è emozionata? Perché la tv di regime ha tirato fuori i fatti e l’Italia, per la prima volta, ha saputo chi era e si è riconosciuta».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2016 attacco micidiale alla Bonino: "La verità su Emma e la frase di Pannella". Sarà anche vero che «alcuni omaggi puzzano di ipocrisia», ma forse Emma Bonino poteva lasciare che a dirlo fosse qualcun altro. Un solo uomo al mondo poteva giudicare il tasso di radicalità altrui: era lui, Pannella, e con la Bonino la condanna sembrava in giudicato. Quando alla notizia del tumore di Emma lui rispose «io ne ho due», come dire: la partita era chiusa, e non si dica che Pannella era così, che le parole volano e gli umori passano, che il rapporto era da inquadrare in una prospettiva quarantennale. Negli ultimi mesi lei non aveva più telefonato né era andata a trovarlo: qualcosa vorrà dire. Poi insomma, lui sarà anche stato un fumantino, ma le parole erano le sue: «Non ci consultiamo, non ci sentiamo mai, con me non parla, che cazzo faccia davvero lo sappiamo solo dalle indiscrezioni... Sono intervenuto io con Napolitano per fare inserire Emma nel governo Letta, in tutte le sue nomine c' entravo sempre io. Lei invece lavora molto, ma mai con noi». Del tumore abbiamo detto, ma lui aggiunse anche questo: «Ho parlato coi medici e posso dire che non ha motivo per essere allarmata. Poi, se si parla di psichiatria...». A sentire qualche militante, anche autorevole, la cesura definitiva fu la battaglia pannelliana per il «diritto umano alla conoscenza», che la Bonino non condivideva manco per niente. Secondo altri, ciò che a Pannella bruciava di più era invece che lei volasse per conto suo e con obiettivi personali che di radicale avevano poco: «Il suo problema è quello di far parte del jet set internazionale». Sono sempre parole di Pannella. «Io vado in giro a piedi o in taxi, non ho auto nera o blu». Negli ultimi anni, tutte nero su bianco, non erano mancate neppure battute su stipendi e pensioni di lei. «Battaglie comuni? Le mie, semmai... Tutti pensano che debba tutto a me. E questo, per Emma, dev'essere diventato insopportabile». Poi c'è un episodio che per qualche radicale è uno spartiacque: vedere Emma Bonino festeggiare l'anniversario del Concordato a Palazzo Borromeo, questo dopo che aveva combattuto il Concordato per tutta la vita, da anticlericale militante. Parliamo di tre anni fa, e sino a poco tempo prima, ogni 20 settembre, Emma festeggiava la Breccia di Porta Pia coi compagni anticlericali. Poi eccola, un martedì, presenziare all' anniversario della firma dei Patti Lateranensi all' ambasciata italiana presso la Santa Sede: c' erano le più alte cariche ecclesiastiche e naturalmente il segretario di Stato Vaticano. Una scelta obbligata e responsabile, da ministro degli Esteri che lei era? Nemmeno per idea, a quanto pare: e in ogni caso avrebbe potuto mandare uno dei suoi tanti viceministri o capi di gabinetto. Anche perché non era una cerimonia qualsiasi, una scartoffia burocratica, una fisiologica apertura tipo quelle che Pannella stava riservando a un papa sensibile verso il problema dei carcerati: si parla dei Patti Lateranensi e cioè del Concordato, forse il nemico numero uno dei Radicali dalla fondazione a oggi, quel Concordato contro il quale i Radicali promossero un referendum abrogativo poi bocciato dalla Corte Costituzionale. Ancora oggi, se andate sul sito dei Radicali, trovate tutto l'architrave della campagna storica contro i Patti Lateranensi: i costi e finanziamenti enormi, i condizionamenti vaticani sulle libertà civili, le scuole cattoliche, i privilegi fiscali, soprattutto i presidi che i radicali organizzano annualmente «per smascherare una celebrazione vuota e antidemocratica» a cui però la Bonino partecipò un martedì sera, omaggiandola. I Radicali del resto erano stati quelli che avevano portato al Parlamento Europeo il problema dell'Imu non pagata dal Vaticano. La Bonino era senz' altro complementare a Pannella, più istituzionale, va bene, più votata alla ragion di Stato, certo. Ma sino a che punto? La Bonino, nel 1979, manifestò davanti all' ambasciata dell'Iran contro l'imposizione del chador alle donne iraniane: e il 21 dicembre 2012 eccola in Iran che indossava il velo per incontrare le massime autorità iraniane. Ragion di Stato? Ragion di Stato, come pure accadde nel 1997 durante il viaggio da commissario europeo nell' Afghanistan dei talebani. Si può capire. Già è più difficile capire il suo silenzio sulla legge che in Russia reintroduce il divieto di parlare dei «comportamenti sessuali non tradizionali». Ragion di Stato anche qui, forse. La stessa che potrebbe spiegare il silenzio di Emma Bonino quando il governo Prodi di cui faceva parte, nel 2006, rifiutò di incontrare il Dalai Lama per non contrariare gli amici cinesi, noti sostenitori dei diritti umani. Si può capire tutto, ma occorre anche decidere da che punto in poi non si abbia più voglia di capire. Forse Pannella non ne ebbe più voglia. Figurarsi noi. Filippo Facci. 

Marco Pannella, ultimo profeta dell'antipolitica. La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta. Odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile. Tra digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo. Storia di un uomo che con le sue battaglie ha cambiato l'Italia più di tanti partiti, scrive Marco Damilano il 19 maggio 2016 su “L’Espresso”. «Un gigionesco mattatore capace di rubare il posto a un morto nella bara pur di mettersi al centro del funerale», scriveva Indro Montanelli di Marco Pannella negli anni Settanta, in un ritratto pur affettuoso: «È figlio nostro, un figlio discolo e protervo, un gianburrasca devastatore, un brancaleone, uno sparafucile, un saccheggiatore di pollai». Ma sempre figlio nostro: di un'Italia laica, liberale, anarchica. Ora che non c'è più, in molti spereranno di vederlo prendere la parola al suo funerale, per non abbandonarla. Alzandosi in piedi, come aveva fatto una volta citando il Calvero di Chaplin in “Luci della ribalta”, Marco Pannella dirà: «Non vi preoccupate, sono già morto tante volte». La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta politica: il corpo delle donne, la libertà dell'utero contro il potere delle mammane, il corpo costretto in cella dei detenuti, il corpo prigioniero della malattia come quello di Luca Coscioni, ma anche il corpo di Ilona Staller nell'aula della Camera, con il seno nudo in piazza Montecitorio, a scandalizzare i benpensanti. E, più di tutto, il corpo del Marco, offerto a riscatto dei non rappresentati, quasi cristologico ma più di ogni cosa pannellacentrico, brandito come un oggetto contundente, gettato nella mischia, slentato, deformato. Carne, sangue, guance infossate, labbra screpolate, occhi vitrei. E la voce che non si fermava mai. Il primo digiuno pannelliano risale al 10 novembre 1969, un mese prima della strage di piazza Fontana, serve ad accelerare il voto della Camera sulla legge Fortuna-Baslini sul divorzio, sarà approvata diciotto giorni dopo. Il secondo, nel 1972, è per l'approvazione della legge sull'obiezione di coscienza. Il più drammatico (e tra i più lunghi: durerà 78 giorni) è quello che comincia il 3 maggio 1974, nove giorni prima del referendum sul divorzio. La sala Cavour dell'hotel Minerva è «la sala del digiuno», la chiama Camilla Cederna, nella stanza 167, costo seimila lire al giorno, Pannella è steso su un lettino, i medici diffondono comunicati: all'inizio il digiunante pesa novantanove chili e trecento grammi, alla fine scenderà a settantadue chili, le pulsazioni del cuore passano da ottantaquattro a quaranta, l'alimentazione è garantita da quattro tazze di latte macchiato, due cucchiaini di zucchero, sette litri di acqua. Interviene Pier Paolo Pasolini sul “Corriere”: «Marco Pannella è giunto allo stremo. La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il mondo del potere ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita, un assassinio». Pannella digiuna per un quarto d'ora di televisione della Lid, la lega italiana divorzista, e un quarto d'ora per l'abate Franzoni, capofila dei cattolici del dissenso. Il 19 luglio il leader dei radicali appare sul piccolo schermo, la Rai democristiana vacilla, poi ecumenicamente apre le porte. E per la prima volta le due dimensioni del pannellismo si toccano: digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo, il brivido del funambolo che cammina sul filo. «Può darsi che si esibisca, ma senza rete di protezione», scrive Enzo Biagi. Pannella vestito da Babbo Natale. Pannella che distribuisce a ferragosto le banconote del finanziamento pubblico. Pannella che fuma gli spinelli e brinda con la sua pipì e la beve davanti alle telecamere. Pannella sotto il lenzuolo che fa il fantasma. Pannella con il numero degli iscritti al partito radicale dipinti sulla fronte. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile nei suoi fili diretti con gli ascoltatori nella notti di “Teleroma 56” e di Radioradicale, affiancato da Massimo Bordin. Ma l'intervento più riuscito resta quello di giovedì 18 maggio 1978, alla tribuna autogestita sul referendum, in prima serata su Raiuno. Via la sigletta, appaiono seduti uno accanto all'altro Pannella e Mauro Mellini. Imbavagliati, con lo sguardo fisso e un cartello al collo, identici alle foto polaroid di Aldo Moro nel covo delle Br che hanno appena sconvolto gli italiani. Silenzio assoluto, cambiano i cartelli («Cittadini, difendete subito i vostri diritti!»), cambiano i compagni di Pannella (entrano Gianfranco Spadaccia e Emma Bonino), per ventiquattro interminabili minuti. Il più fragoroso silenzio della storia della tv italiana. Pannella odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. La sera della vittoria più bella, il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, i radicali festeggiano in piazza Navona. Si affacciano Maurizio Ferrara (il papà di Giuliano) e Paolo Bufalini, comunisti togliattiani e romani veraci. E Ferrara riassume pesantemente lo spettacolo in un sonetto: «'na manica de gente assai lasciva/finocchi e vacche ignude alla Godiva./Ar vedelli smanià come bonzi/sor Paolo ciancicò: “Bell'allegria,/ce tocca vince pure pe' sti stronzi"». Quando due anni dopo Pannella si avvicina al portone di Botteghe Oscure il compagno di vigilanza lo abbatte con un pugno. E Ferrara racconta la scena: «'Sto marpione fa l'offeso, me punta, fa 'no strillo/ e m'è toccato a daje 'no sgrugnone». A ripensarci i radicali nudi sul palcoscenico, l'onorevole Cicciolina e le parolacce lanciate al telefono nel microfono aperto di Radio radicale già a metà degli anni Ottanta, antenato della volgarità on line e degli insulti contro gli avversari sulla Rete, la campagna per le astensioni e le schede bianche e nulle nel 1983 e le grida contro «il Parlamento-squillo» che accompagnano l'ingresso in aula del deputato Toni Negri (che poi scapperà), si capisce adesso quel che allora sfuggiva a tutti, tranne che a Pannella. Che la politica italiana era entrata in crisi, già negli anni Settanta, che le forme tradizionali della politica non rappresentavano più la società, in crescita vertiginosa, civile e economica, ma anche disorientata e confusa. Di questa trasformazione epocale Pannella è stato l'interprete più geniale. Ha anticipato tutto: la politica-spettacolo, la trasversalità, la personalizzazione (nel 1992 fu il primo a candidare in Italia una lista con il suo nome: lista Pannella). La disaffezione: nel 1983 fece una doppia campagna elettorale, per il suo partito e per le schede bianche-nulle e astensioni. E la partecipazione, con i referendum, in fondo la sua invenzione che resterà. La bio-politica: l'onda lunga che è arrivata fino ad oggi, alle unioni civili, alla paternità di Nichi Vendola. Politico di professione, come forse nessuno, totus politicus, avvezzo a tutte le manovre e le furbizie, fin dagli anni dell'Unuri, del partito liberale, del “Mondo”, del partito radicale nato nel 1955, della tribù di Torre Argentina, unita nel segno di Marco e divisa nella diaspora a destra e a sinistra, da Francesco Rutelli a Daniele Capezzone, da Benedetto Della Vedova a Peppino Calderisi, Marco Taradash, Roberto Giachetti e, più di tutti, Emma Bonino. Difensore delle istituzioni repubblicane, dunque, ma anche profeta dell'antipolitica, modernamente intesa, anticipatore di processi di distruzione, spericolatamente a cavallo tra la ridicolizzazione dell'esistente, il libertinismo politico, il buffone che dichiara la nudità del Re e del potere. «Sì, sono un guitto», diceva di sé ben prima che Beppe Grillo immaginasse di fare un giorno politica. E Federico Fellini, in “Ginger e Fred” (1986), piazza il politico digiunante e lamentoso nel caravanserraglio dell'anticamera di un talk show, insieme a Moana Pozzi, immagine profetica della politica attuale. La battaglia più importante resta quella sui diritti civili, la più generosa quella sulla fame nel mondo che gli valse l'apprezzamento di papa Wojtyla, la più bella quella su Enzo Tortora e la giustizia giusta. Quando insieme salirono sul palco di piazza Navona, una sera, indimenticabile il viso scavato del giornalista ingiustamente processato, la sua dignità, Pannella che si regge i pantaloni mentre la sua passione oratoria travolge e commuove la folla. Gli ultimi anni ci consegnano l'immagine di un Marco in lotta contro la pena di morte, con il Dalai Lama, per i Montagnards vietnamiti, forse contro se stesso. Tollerato nel Palazzo, considerato un monumento nazionale, un padre della patria, ciclicamente candidato allo scranno di senatore a vita, di casa al Quirinale, da Sandro Pertini a Giorgio Napolitano, fino a Sergio Mattarella che un anno fa lo ha ricevuto per primo dopo l'elezione al Colle (e ne venne fuori un video strepitoso), dopo aver contribuito a sloggiare un altro inquilino, Giovanni Leone. Tutti gli altri leader si sono prima o poi impannellati, come ha scritto Filippo Ceccarelli. E nelle ultime settimane tutti si sono fatti vedere nella sua mansarda vicino alla Fontana di Trevi, fotografati accanto al leader, ripresi al citofono del portone, fino al giorno del suo ottantaseiesismo compleanno, il 2 maggio. Una lunga cerimonia degli addii, con Matteo Renzi e Silvio Berlusconi che nel 2013, appena condannato dalla Cassazione, si mise seduto al banchetto dei radicali in piazza di Torre Argentina per firmare i nuovi referendum, gli ennesimi quesiti. Quella mattina di fine estate Marco si allontanò sotto il sole ancora estivo con la busta di plastica della spesa, il sigaro tra le dita, i piedi scalzi alle scarpe, la buffa cravatta sul maglione blu, il codino da capo indiano. Così lo abbiamo incontrato ancora fino a pochi mesi fa, sotto la sede del Partito radicale in via di Torre Argentina, la sua vera casa. Era ormai trasfigurato, fino ad assomigliare al Pannella più puro, il laico e il cristiano, l'uomo delle verità impazzite, come può essere pazza e dolce e tagliente la verità. Il Pannella che nel 1973 di sé aveva scritto ad Andrea Valcarenghi nel testo che Pasolini considerò «il manifesto del radicalismo moderno»: «Io amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche: ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici. Non credo al potere e ripudio perfino la fantasia se minaccia di occuparlo. Sogno una società senza violenza e aggressività. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie...». Pannella non c'è più. Resteranno il fumo, le parole, i silenzi. E chissà poi se è morto per davvero.

Lo scandalo e la bestemmia, scriveva già il 22 marzo 2016, prima della morte di Pannella, Alessandro Gilioli su “L’Espresso”. A volte succede agli eterodossi, ai fuori-dal-branco, agli underdog: finire la propria parabola celebrati e coccolati proprio dall'establishment, dalle istituzioni, dal mainstream. Un paradosso, forse, ma paradossale è la vita. È quello che è successo nelle sue ultime settimane a Marco Pannella: che pure è stato, per decenni, «lo scandalo e la bestemmia» della politica italiana, come diceva di lui Pier Paolo Pasolini. Lo è stato per le battaglie che proponeva, così spaventose per la Dc e così urticanti per il Pci: il divorzio, l'aborto, l'obiezione di coscienza al militare, la legalizzazione delle droghe leggere, la condizione carceraria, l'eutanasia - per dirne solo alcune. Ma lo è stato soprattutto per il modo in cui lottava, per le pratiche che metteva in atto: anticonformiste, irridenti, provocatorie. Aliene da calcoli di partito, da strategie di corridoio. Frontali, aperte, imprudenti. Arroganti, talvolta: ma di quell'arroganza a cui le minoranze ricorrono per farsi sentire, avendo minor voce. Ha ottenuto molto così per l'Italia, si sa. Il divorzio, l'aborto e la legge sull'obiezione di coscienza alla naia, tra le altre cose. Ma direi anche, in tempi più recenti, l'abolizione de facto della legge medievale sulla fecondazione in vitro, fatta fuori pezzo a pezzo dai ricorsi dell'Associazione Luca Coscioni, una delle declinazioni tuttora migliori della galassia radicale. Ma è oltre i risultati politici che in questi giorni mi piace pensare a Pannella, a ciò che di buono ci ha dato e quindi ci lascerà. È cioè nel modo di ragionare, tipicamente radicale appunto: non sedersi mai dentro un'ideologia e nemmeno dentro un pensiero sistematico, dato che la complessità del mondo non permette alcuna onesta sistematicità; e la sistematicità alla lunga diventa una prigione per se stessi e una menzogna per gli altri, una grande ipocrisia individuale e collettiva. E poi: mescolare sempre il pubblico e il privato, il proprio corpo con le proprie idee, le proprie parole con le proprie azioni. Rovesciando ogni giorno il modo di pensare e di reagire più immediato e comune, quello che a chiunque viene in mente per primo: per stordire e stupire gli interlocutori con una mossa a sorpresa, con una scelta controintuitiva, insomma facendo il contrario di quello che gli altri si sarebbero aspettati. Disturbando, sempre, perché Pannella è stato fondamentalmente un disturbatore: delle certezze, delle coscienze, delle zone erronee incrostate di ciascuno e soprattutto di quelle della maggioranza. Ecco, a proposito: se c'è una paura che Pannella non ha mai avuto, è quella di essere minoranza. Ed è stato senza alcuna vergogna che con dieci o quindici compagni ha marciato per anni a Capodanno o a Ferragosto, tra i passanti che lo guardavano con sufficienza. Che lezione per i berlusconiani di ieri e molti renziani di oggi, cioè per tutti quelli che quando li contrasti nel merito ti rispondono che invece la maggioranza la pensa come loro, quindi hanno ragione. Già: Pannella è stato il più grande avversario immaginabile dell'argumentum ad populum, ma quella battaglia culturale proprio non l'ha vinta, in questo Paese. Poi ne ha cannate tante, Pannella, certo. Specie negli ultimi dieci-quindici anni. Fino a diventare, a tratti, quasi la negazione di se stesso, di quel se stesso che combatteva senza paure contro ogni conformismo, ogni conventicola, ogni istituzione, ogni potere, ogni polvere nascosta sotto il tappeto. Di qui forse anche il pellegrinaggio dell'establishment al suo capezzale, in questi giorni. È andata così e i primi a saperlo sono i Radicali stessi - quei pochi rimasti, quei pochi che lui non ha divorato come Crono: che pure da Pannella hanno imparato tutto, anche a detestarne la superbia e l'autocrazia, anche a contestarne le follie un po' solipsistiche, anche a criticarne la riluttanza nel preparare qualsiasi successione, come se lui volesse far morire con sé il partito che aveva creato. Questo è stato anche, per decenni, Pannella. Crogiolo di contraddizioni che però ci ha insegnato, appunto, a considerare le contraddizioni meno truffaldine di qualsiasi ideologia. Perché le contraddizioni palesano, mentre l'ideologia nasconde. Personalmente, poi, gli sono grato per le pubbliche urla di nonviolenza - sì,urla di nonviolenza - che negli anni Settanta hanno contribuito a tenermi lontano dalle peggiori derive dei movimenti. Mi sembrava più contemporaneo e antisistema lui, alla fine, di quelli dell'Autonomia operaia. È grazie a un banchetto in cui raccoglievamo firme per i referendum radicali, nella piazza Santo Stefano di Milano, che in un sabato di marzo del 1977 non sono andato in via De Amicis. E chissà che piega avrebbe preso la mia vita, se in quel giorno incerto avessi fatto la scelta contraria. Roba vecchissima, e i più giovani se non cliccano il link non sanno neanche di cosa sto parlando. Ma è proprio per loro, per quelli che hanno meno di 35-40 anni, che ho vinto l'imbarazzo di scrivere queste righe, di star dentro anch'io nel coro di elogi con cui oggi i potenti lo abbracciano - per riverginarsi e autoassolversi. Perché sappiano anche loro, i ragazzi, che Pannella non è stato solo l'uomo che hanno visto in questi ultimi tempi: autocentrato, narcisista, innocuo - e tutto sommato omologabile. Ma una persona la cui vita di scandalo e bestemmia è valsa la pena di essere vissuta.

Paolo Guzzanti su “Libero Quotidiano” del 21 maggio 2016 demolisce Pannella: "Tiranno, egocentrico e... La mia verità sul leader Radicale". Adesso che Marco Pannella è morto tutti lo incensano, ma, scrive Paolo Guzzanti sul Giornale, non tutti lo amavano. Per esempio Eugenio Scalfari "detestava, detestato a sua volta, Marco Pannella fin dai tempi in cui fondarono il partito radicale da sponde lontane". L'operazione Rutelli sindaco di Roma, continua, "non mi piacque e abbandonai il buen retiro lasciando una nota di spiegazione. Da allora non mi volle più parlare. Ci siamo però incontrati altre volte e lo trovavo sempre più incattivito, vanitoso oltre la soglia del sopportabile e gelosissimo di chiunque potesse dargli ombra". Come Saturno, spiega Guzzanti, "mangiava i suoi figli politici. Il suoprotagonismo lo spinse a compiere la restaurazione che portò Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale dopo Cossiga. Anche allora tutti applaudirono. Pannella adorava essere adorato e non metteva freni ai suoi umori. Da Radio Radicale aggrediva chi gli stava sullo stomaco in quel momento con una facondia straripante e irosa come quella di Fidel Castro". Insomma, conclude, "a rabbia e l'asimmetria nei giudizi erano il suo motore". Ma era anche "un amabile e insopportabile tiranno per chi gli stava accanto".

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 21 maggio 2016: Essi vivono. Marco, era perfetto, era il momento giusto. Cioè: in un pugno di ore capita di passare dal contorcimento interiore per l'epilogo di Marco Pannella (scorrendo in rassegna sessantanni di battaglie fondamentali che non sempre hanno avuto lo spazio che meritavano) al dovere professionale di riportare e commentare un'altra notizia che evidentemente di spazio ne ha trovato eccome, cioè questa: durante un ricevimento in Vaticano, Mario Balotelli e Philippe Mexes (Milan) si sono scattati un selfie irriguardoso con il Papa sullo sfondo. In uno scatto si vede Mexes che fa la bocca da papero, nell' altro si vede Balotelli che - peggio - fa la faccia normale. Papa Francesco è dietro di loro, sul filo del fuorigioco. Come da tradizione giornalistica, si segnala un precedente: circa un mese fa, nel giorno del funerale di Cesare Maldini, i due geni del Milan si erano fatti un altro selfie con la lingua fuori e un'oggettiva espressione da idioti. Fine della notizia. Nostro commento? Nessuno, tranne questo, appunto: ottima scelta, Marco, momento perfetto. Te la ricordi la rubrica di Umberto Eco su L' Espresso del 12 giugno 1997: "L' unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Da giovani bisogna pensare che tutti siano migliori di noi, dalla mezz' età bisogna avere i primi dubbi, del crepuscolo dev'essere la progressiva certezza che niente da fare: sono proprio tutti dei coglioni. Capirlo con tempismo è un'arte sottile". Dacci tempo, Marco, siamo sulla buona strada.

Pannella e la sinistra, strade parallele. Il leader radicale era visto con diffidenza dal Pci di Berlinguer, perché il suo scandalo non era integrabile: eppure la sua parabola umana e politica si è intrecciata più volte con i sentimenti e i destini dei protagonisti del comunismo (e del socialismo), scrive “Il Corriere della Sera” il 21 maggio 2016. Sul portone di Botteghe Oscure, per dire, prese uno schiaffone da un compagno della «vigilanza», indifferente alla rosa che gli veniva offerta: era il maggio del 1976, i radicali si apprestavano a fare opposizione in Parlamento (e la fecero, eccome, anche se erano solo in quattro) ai governi di solidarietà nazionale, e l’Unità parlava sprezzantemente di lui come di Pannella Giacinto, detto Marco. Ma, meno di vent’anni prima, quel portone Pannella lo aveva varcato per parlare a quattr’occhi con Palmiro Togliatti, lo stesso Togliatti che, piegando le ritrosie di Enrico e Giovanni Berlinguer, aveva sponsorizzato lo scioglimento del Cudi, l’associazione degli universitari socialcomunisti, e la loro confluenza nell’Unione goliardica italiana, di cui Pannella era stato ed era tuttora magna pars. «Sa, onorevole, noi radicali siamo forse gli ultimi illuministi», azzardò Marco. «Se è per questo non si preoccupi, è un peccato veniale», replicò il Migliore. E tredici anni dopo, quando venne giù fragorosamente il Muro di Berlino, e Achille Occhetto si provò, senza successo, a dar forma alla Cosa chiamata a subentrare al Pci, Pannella fu, all’inizio, prepotentemente della partita. Provocando parecchie reazioni, tra il preoccupato e l’indignato, all’idea che stesse nascendo un improbabile «partito radicale di massa». Tutto questo per dire che certo, allo «scandalo inintegrabile» Marco Pannella la sinistra reale di questo Paese, e forse lo stesso concetto di sinistra, andavano stretti, strettissimi: ma pure, come ha ricordato Pierluigi Battista, che nella sinistra, contro la quale pure quotidianamente lanciava i suoi strali, il liberale, libertario, libertino Pannella era ancorato. Nel suo irripetibile modo, naturalmente: e cioè come vivente (e ostentato fino all’insopportabilità) segno di contraddizione. Fu così, naturalmente, negli anni Settanta, che nella vulgata si ricordano pressoché solo come anni di piombo ma furono, grazie in primo luogo a lui, anche anni di diritti e di libertà. O, più precisamente, di una secolarizzazione della società italiana e di un nuovo individualismo di massa che misero in crisi vistosa la Dc fanfaniana, certo, ma incrinarono pure, e quanto in profondità lo si sarebbe visto nel volgere di pochi anni, il radicamento politico, sociale e culturale di un Pci che pure, in termini elettorali, ne traeva il massimo giovamento. Lo colse, e lo visse come un pericolo mortale, Enrico Berlinguer, che detestava Pannella e ancor più la «società radicale» di cui scriveva Gianni Baget Bozzo. E lo colse pure, ma nello spirito opposto di chi su questa grande trasformazione faceva affidamento per il proprio futuro politico, Bettino Craxi: Pannella lo conosceva benissimo sin dai tempi delle battaglie universitarie, e lo considerava un interlocutore da ascoltare, sì, ma da prendere con le molle (per evitare, diceva lui, di farsi «impannellare»), e per un lungo tratto anche, e soprattutto, un concorrente. Nessuno o quasi lo ricorda più, ma molto si scrisse e si discusse, tra i Settanta e gli Ottanta, su chi dei due avrebbe potuto essere il Mitterrand italiano; e, a corsa ormai finita, fu a Pannella che Craxi provò in extremis a intestare, senza successo, quel che restava del Psi. Storie di ieri, anzi, dell’altro ieri. Storie di quando c’era la sinistra, e Pannella, il liberale di strada abilissimo nel praticare i piani alti come i sottoscala della politica, poteva immaginare di influenzarne le sorti, o addirittura di prenderne, direttamente o indirettamente, la guida. Ma chi in queste ore lo presenta come una specie di precursore di Beppe Grillo e del grillismo dovrebbe tenerne conto. E ricordare pure che qualcosa (nel caso di Pannella: moltissimo) contano anche i valori, o se volete i sogni, almeno nella misura in cui si riesce a tradurli in realtà. Altro che giustizialismo, altro che tintinnar di manette. Non so se tra i sogni di Marco, il garantista inesausto e inesauribile combattente contro la partitocrazia e i «ladri di legalità», ci sia stato quello (anarchico) di un mondo senza galere. Di sicuro c’è stato, sino alla fine, un impegno fortissimo e vissuto dolorosamente per gli ultimi in carne e ossa, i carcerati. Non ha ottenuto molto, e ha trovato pochi compagni di strada. Tra questi, mi piace ricordarlo, Giorgio Napolitano. Che, salutandolo per l’ultima volta sull’Unità, ha scritto: «Abbiamo per decenni camminato per sentieri paralleli, attraverso consensi e dissensi, separandoci e ritrovandoci, sempre rispettandoci a vicenda e restando legati da sentimenti comuni e da solidarietà di fondo». Non è vero per tutta la sinistra, ma per la parte migliore della sinistra, sì.

Perché sono ipocriti da sinistra gli elogi a Marco Pannella, scrive Umberto Minopoli su Formiche il 21 maggio 2016. Trovo un po’ ipocrite e reticenti le celebrazioni da sinistra di Pannella. Del suo pensiero si vuole ricordare solo il lato laicista e anticlericale. Tutti dimenticano, invece, il Pannella strenuo liberista, l’evocatore delle battaglie liberali di Ernesto Rossi, il sostenitore in Italia della traduzione in politica del liberalismo sociale di Gobetti, il teorizzatore dell’incontro – la rosa nel pugno – tra liberismo e socialismo riformista, il nemico dello statalismo, del collettivismo socialista, del corporativismo sindacale, il censore dei ritardi italiani in economia dovuti al compromesso storico quarantennale tra tradizione comunista e conservatorismo cattolico-statalista. Questo Pannella io lo ritengo assai più coraggioso, importante e utile del laicista anticlericale o del Pannella antiproibizionista estremo. So che un uomo politico non si può prendere in parte. Ma questa terza parte di Pannella, liberale e liberista, è quella che a me piace di più. E che mi ha fatto cambiare delle idee. E questo Pannella liberale e liberista, ha rappresentato, per me, la presenza coraggiosa in un’Italia egemonizzata dal pensiero unico, statalista.

La sinistra di oggi più figlia sua che di Berlinguer e Moro, scrive Fabrizio Rondolino il 20 maggio 2016 su “L’Unità”. La grande bellezza di Marco Pannella è il fuoco della libertà – la sua libertà, cioè la libertà di ciascuno di noi. Ognuno di noi ha un’immagine di Marco Pannella nella memoria –non soltanto delle sue grandi, impossibili, necessarie battaglie, ma anche del suo corpo ora rinsecchito dal digiuno e ora invece monumentale, del suo grande, enorme naso, della sua criniera di capelli argentati. Fra le tante cose che Pannella ci ha insegnato, c’è anche la fisicità della leadership, la centralità del corpo nella comunicazione politica moderna, l’esemplarità del gesto che s’invera nella carne di chi lo compie. E ora che il corpo di Pannella ci ha lasciati, l’irripetibilità della sua avventura umana e politica –verrebbe da dire: politica perché umana – ci lascia soli e sconsolati. La centralità assoluta del corpo in Pannella non è stata però soltanto la prima manifestazione di quella personalizzazione della politica (e dei partiti) che ha progressivamente sostituito la struttura burocratica e impersonale degli apparati e dei gruppi dirigenti: il corpo, in Pannella, significa prima di tutto il corpo di Pannella: inconfondibile, e per questo libero. Perché la libertà –e questa è senz’altro la grande, fondamentale lezione che il leader radicale ha tentato non sempre con successo di impartire ad una sinistra profondamente, strutturalmente collettivista – è soltanto libertà dell’individuo, libertà di ogni soggetto irriducibile per legge naturale a qualunque schema, legge o imperativo che ne invada la sfera personale, libertà di ciascuno come condizione unica e irrinunciabile della libertà di tutti. Pannella, da questo punto di vista, è l’erede e il frutto politico più autentico del Sessantotto, che ovunque tranne che in Italia e in Francia – dove prevalse invece un neomarxismo desolatamente provinciale – aveva un profondo segno libertario e individualista. La modernità “anglosassone” del leader radicale – tutti i liberali, del resto, sono culturalmente anglosassoni – è stata la prima vera grande sfida al Pci del compromesso storico e del centralismo democratico. Un giorno Pannella rivelò di aver ricevuto da Bettino Craxi, negli anni bui di Tangentopoli, una sorta di investitura ufficiale per raccoglierne lo scettro. Il leader radicale rifiutò, Craxi prese la strada di Hammamet e il Psi, dopo molti sussulti e tre segretari cambiati in pochi mesi, letteralmente si dissolse. Ciò non significa, naturalmente, che Pannella avrebbe salvato il Psi, e che poi avrebbe conquistato la leadership della sinistra, e che infine avrebbe sconfitto Berlusconi nel ’94 – o magari avrebbe sconfitto Occhetto al posto di Berlusconi, rimasto felicemente ad Arcore, chissà. Quel che è certo è che la sinistra come la conosciamo oggi in Italia è figlia più di Pannella (e di Craxi) che di Berlinguer o di Moro, sebbene – e questo è uno dei tanti paradossi italiani – i radicali e i socialisti nel Pd siano pochissimi. E’ nell’Ugi degli anni ’50, vera e propria scuola-quadri della classe dirigente laico-socialista, che si mescolano e s’intrecciano le componenti riformiste e laiche della giovane sinistra anticomunista che voleva l’alternativa alla Dc. Ad un Pci impegnato nel cambiare la società ma sostanzialmente sordo al destino degli individui, socialisti autonomisti, radicali e laici opponevano un’idea di sinistra liberale e “individualista” che diventerà poi il manifesto di Bill Clinton e di Tony Blair. Negli anni in cui Craxi conquista la segreteria del Psi e consolida il suo potere nel partito, il rapporto con Pannella si fa sempre più intenso, anche in virtù della comune, profonda avversione per il compromesso storico, che troverà poi espressione simbolica (e politica) nelle polemiche sulla “fermezza” seguite al rapimento Moro. La modernizzazione della sinistra cui si dedicò con tenacia Craxi (dalla polemica ideologica su Lenin e Proudhon alla Conferenza programmatica di Rimini fino allo scontro sulla scala mobile) incontrava oggettivamente la cultura del Partito radicale, e ne celebrava le origini comuni nel nome di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli, di Gaetano Salvemini. Politicamente, Pannella esaurisce la sua funzione con il crollo della Prima repubblica: il bipolarismo – per quanto coatto e improbabile sia stato il nostro – non prevede la trasversalità, il nomadismo, l’impollinazione creativa ma, al contrario, impone un’alleanza che tuttavia, nel caso del Partito radicale, equivale alla rinuncia ad un modo di fare politica negli interstizi del sistema (oltreché nelle piazze e con i referendum) che funziona alla perfezione soltanto in un sistema consociativo e sostanzialmente bloccato. Ciò nondimeno, il Pannella della Seconda repubblica non è stato meno iconico: semmai, è stato meno urticante. La sua progressiva ascesa nel pantheon della Nazione, sebbene non sia mai stata coronata dalla doverosa nomina a senatore a vita, ne ha fatto una figura amata e rispettata, paradossalmente al di sopra della mischia pur essendo, lui, incapace di non immischiarsi, impegnato nel dialogo con Papi e presidenti e, per dir così, istituzionalizzato persino nella protesta estrema dello sciopero della fame, che di tanto in tanto lo riproponeva nei telegiornali di prima serata. Ma questi sono dettagli, particolari secondari. La grande bellezza di Marco Pannella è il fuoco della libertà – la sua libertà, cioè la libertà di ciascuno di noi.

La sinistra di oggi è più figlia di Pannella e Craxi o di Berlinguer e Moro? Si chiede Francesco Damato su Formiche il 21 maggio 2016. Fra i tantissimi articoli letti in memoria di Marco Pannella, mi ha colpito di più per il contenuto e per il giornale che l’ha diffuso – l’Unità - quello di Fabrizio Rondolino, già collaboratore di Massimo D’Alema e oggi fra i più vicini, se non il più vicino in assoluto a Matteo Renzi. “Quel che è certo è che la sinistra come la conosciamo oggi in Italia – ha scritto testualmente Rondolino – è figlia più di Pannella (e di Craxi) che di Berlinguer e di Moro, sebbene i radicali e i socialisti nel Pd siano pochissimi”. “E questo – ha aggiunto in un inciso – è uno dei tanti paradossi italiani”. Il coraggio di Rondolino è stato solo parzialmente riversato nel titolo, si presume dal direttore uscente del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “La sinistra di oggi, più sua che di Berlinguer e Moro”. Dove per sua s’intende naturalmente Pannella, ma manca il riferimento di Rondolino anche a Bettino Craxi. Che evidentemente è ritenuto da Erasmo D’Angelis, il direttore appunto dell’Unità di cui è stata annunciata un’imminente sostituzione, un personaggio ancora troppo scomodo, diciamo pure indigesto ad una certa nomenclatura e militanza del Pd già sofferente per la svolta riformista impressa al partito da Renzi. Si può ben considerare tanto galeotta quanto clamorosa quella parentesi dedicata da Rondolino allo scomparso leader socialista, che in effetti con Pannella condusse tante battaglie, pur dissentendo da altre. Egli condivise, per esempio, le cause del divorzio, dell’aborto, della responsabilità civile dei magistrati. Dissentì invece dalla liberalizzazione della droga e dalla rinuncia al Concordato con la Chiesa, che Craxi preferì rinegoziare, riuscendo in una trattativa tentata inutilmente dai suoi predecessori. E raccontò poi scherzosamente di essersene scusato con un busto del suo amatissimo Giuseppe Garibaldi, cui Pannella s’ispirava invece nella sua posizione anticoncordataria. Che tuttavia non gli impediva di tenere eccellenti rapporti personali con Pontefici ed altre gerarchie ecclesiastiche, in una miscela di felici contraddizioni di cui solo lui era capace, come dimostra la sua ultima, struggente lettera a Papa Francesco, con quel finale “ti voglio bene davvero”. La sacralità della figura di Enrico Berlinguer, un leader forse ancora più popolare del mitico ma ormai lontanissimo Palmiro Togliatti nella memoria dei comunisti italiani, è già stata messa in discussione sull’Unità di conio, diciamo così, renziano con un ampio, approfondito e non monocorde dibattito. Al quale peraltro, a torto o a ragione, molti nel Pd hanno attribuito buona parte della perdita di copie, e dei conseguenti problemi economici della tormentata testata, già scomparsa due volte dalle edicole negli ultimi anni. Figuriamoci che cosa accadrebbe – si deve essere chiesto il direttore titolando l’articolo di Rondolino – se adesso si apre un dibattito anche su quello che viene ancora considerato da parecchi nel Pd il nemico storico Craxi. Del quale, in verità, ha potuto scrivere di recente sull’Unità l’ex dirigente socialista Fabrizio Cicchitto, poi capogruppo di Forza Italia alla Camera e ora fra gli esponenti del partito di Angelino Alfano più convinti dell’utilità, anzi della necessità dell’alleanza col Pd di Renzi. Ma lo ha fatto con un articolo di rivendicazione dei meriti di Craxi e, insieme, di riconoscimento dei suoi errori. Che sono poi quelli rimproveratigli in vita ai loro tempi dai dirigenti del Pci, a cominciare da un presunto appiattimento finale sulle posizioni degli alleati democristiani Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti, tuttavia, che i comunisti negli anni della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, fra il 1976 e la fine del 1978, avevano appoggiato a Palazzo Chigi, preferendolo ad altri democristiani. Quanto poi alla sacralità della figura di Aldo Moro, essa non impedì ai dirigenti del Pci, quando il presidente dello scudo crociato fu sequestrato dalle brigate rosse, di respingerne i tragici appelli dalla prigione delle Brigate rosse a trattarne in qualche modo il rilascio, come reclamavano insieme anche Pannella e Craxi procurandosi l’accusa d’irresponsabile cedimento al terrorismo. Eppure tre anni dopo il sequestro e la morte di Moro, nel 1981, la Dc avrebbe trattato addirittura con la mediazione della camorra il rilascio dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, anche lui sequestrato dalle Brigate rosse. Per fortuna Renzi in quei tempi era soltanto un bambino, essendo nato nel 1975. E del Pci e della Dc non si poteva francamente immaginare la fine che avrebbero fatto. L’aveva forse intuita il povero Moro subendo gli effetti delle loro convergenze, un po’ meno parallele di quelle che egli aveva immaginato e teorizzato negli anni Sessanta per preparare l’alleanza di centrosinistra con i socialisti di Pietro Nenni. Alla cui scuola stava peraltro crescendo l’allora giovanissimo Craxi. Non so se Renzi, giustamente prodigo di elogi con Pannella, prima ancora di onorarne la morte, avendo fatto in tempo a fargli visita a casa col candidato a sindaco di Roma e vice presidente della Camera Roberto Giachetti, ha letto l’articolo di Fabrizio Rondolino. Che con quella parentesi lo ha invitato praticamente a riconoscersi anche nell’eredità riformista di Craxi, smettendo di parlarne come di una figura “non pedagogica”, per via delle sue disavventure giudiziarie, che gli fecero pagare con una durezza “senza pari”, come riconobbe dieci anni dopo la sua morte Giorgio Napolitano al Quirinale scrivendo una nobile lettera alla moglie Anna, il fenomeno largamente diffuso del finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. Un’altra cosa che Renzi dovrebbe smettere di fare è di contrapporne il presunto “opportunismo” di Craxi alla diversità comunista rivendicata da Berlinguer e fatta più di parole che di fatti, come le cronache giudiziarie si sarebbero poi incaricate impietosamente di dimostrare, senza lo scatto generazionale che gli avversari cercano sbrigativamente di addebitare all’attuale segretario del Pd, e presidente del Consiglio.

Pannella, un vecchio vizio. Dalla sinistra radicale all’alleanza con l’estrema destra, scrive Antonio Moscato venerdì 20 maggio 2016 su “Agoravox”. L'articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2013 dal prof. Antonio Moscato sul blog Movimento Operaio e ieri riproposto sulla pagina Facebook a seguito della scomparsa di Marco Pannella. Non sono tra quelli che si sono stupiti per la scelta di Pannella di allearsi con il superfascista Francesco Storace designato da Berlusconi per guidare la riconquista della Regione Lazio. Conosco Pannella dal 1956, quando nelle elezioni per il comune di Roma era apparsa una lista radicale. A me, giovane comunista non ancora diciottenne, era parso interessante che dal vecchio troncone del partito liberale si fosse staccata una sinistra antifascista guidata da Bruno Villabruna, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Leo Valiani. Pannella non era ancora una figura di primo piano, e faceva come me (che tra l’altro non potevo far altro, data l’età) il giro dei seggi per controllare l’andamento dello spoglio delle schede. Ma non era destinato a un ruolo subalterno: in poco tempo i fondatori del partito se ne andarono o furono emarginati, e Pannella emerse come leader unico. Ma il suo partito, ancorché spregiudicato, appariva ai più come di sinistra, anche se cominciavano le dichiarazioni del genere “non siamo né di destra né di sinistra”. Per giunta, ad accrescere la confusione, Pannella usava con larghezza come un insulto la parola “fascista”, anche se la usava di preferenza nei confronti del PCI. Nel 1964 c’era stata una nuova verifica: Pannella aveva rilasciato un’intervista ambigua al giornaletto di Randolfo Pacciardi, ex repubblicano e combattente della guerra di Spagna, ma ultra reazionario e precursore di Licio Gelli con un progetto di “Nuova Repubblica” che anticipava largamente quello della P2. Non molti glielo avevano rinfacciato, e Pannella continuava a pescare militanti nelle sezioni del PCI con il suo apparente radicalismo verbale. Ma non era che l’inizio. Pannella frequentava la sede di “Primula goliardica”, che doveva essere la formazione giovanile di Nuova Repubblica, ed era stata costituita con una campagna acquisti tra i picchiatori del MSI, di AN e di altri gruppuscoli fascistissimi, che per penetrare in ambiente studentesco assumevano spesso vesti nazimaoiste, gridando slogan contro “i due imperialismi”, quello USA e quello sovietico. L’orrore fu vedere insieme a quei fascisti, affacciato al balcone della loro sede, Marco Pannella, mentre la polizia caricava chi come me manifestava contro la “visita privata” di Moisés Ciombé, l’assassino di Lumumba, venuto a Roma per essere ricevuto dal papa. [Il filmato fascistoide del 12 dicembre 1964 della “Settimana Luce” che esaltava la visita di quel mostruoso servo dell’imperialismo, e demonizzava chi protestava]. Nel 1966 questi picchiatori erano ancora operanti come squadracce, e il 29 aprile aggredirono dentro l’università di Roma lo studente socialista Paolo Rossi, uccidendolo. Rischiai di fare uguale fine la stessa sera, dopo la manifestazione per Paolo Rossi, perché finii insieme a Celeste Ingrao e un paio di compagni in un imboscata accanto all’università, organizzata da un “fronte unico” tra picchiatori di “Primula goliardica” e quelli rimasti nel MSI. Me la cavai “solo” con una prognosi di venti giorni…Pannella ancora flirtava con loro, ma poco dopo – vista la crescita di un imponente movimento studentesco - riprendeva accenti di sinistra. I fascisti, dopo aver tentato qualche operazione di penetrazione nel movimento (a Valle Giulia ad esempio furono decisivi per l’esito della battaglia con la polizia, data la loro professionalità come picchiatori), si ritirarono in più sicure - per loro - azioni terroristiche. Molti di quelli che erano stati identificati come gli assassini di Paolo Rossi e miei aggressori, come i fratelli Di Luia, Stefano Delle Chiaie, Flavio Campo, ecc., furono incriminati per le stragi del 1969, ma regolarmente protetti dai servizi segreti, passarono a far danni altrove, ad esempio nella Bolivia di Banzer, sia come guardie del corpo, sia come narcotrafficanti. E Pannella? Riprese il suo posto nella sinistra, riservando però sempre qualche sorpresa. Sempre in vendita al migliore offerente, quindi a volte disponibile per Berlusconi (a cui andava benissimo!), a volte per il PDS-PD, che assurdamente se lo riprendeva nelle truppe ausiliarie, senza turarsi il naso. Va detto che il mito dei radicali come formazione di sinistra è così forte che mentre Pannella trattava con Storace, Ingroia o qualcuno dei suoi cattivi consiglieri proponeva un collegio alla Bonino, vecchia complice di Pannella, e beneficiaria delle sue campagne che la presentano come un’eroina da candidare come Presidente della Repubblica o altro incarico simile. Può essere che la Bonino oggi si dissoci davvero da questa ennesima giravolta, ma ha condiviso per anni le peggiori scelte di Pannella. Se la “rivoluzione civile” avesse un minimo di attenzione alle questioni internazionali, dovrebbe considerare la Bonino una nemica, per la sua costante esaltazione di ogni crimine israeliano (come il bombardamento di Tunisi) e la sua difesa di tante imprese imperialiste. Postilla: Ma pare che a queste cose i consiglieri di Ingroia non pensino molto. e si è visto il risultato in occasione del penoso esordio nella trasmissione di Lucia Annunziata di ieri, con il povero Ingroia attaccato su tutti piani: sembrava sbranato da una muta di cani rabbiosi, da Salustri ai galoppini di Marchionne fatti venire da Pomigliano, ai tanti beceri vocianti a cui non sapeva come rispondere. Ma non ha avuto neppure l’onestà di spiegare che i problemi nelle candidature con in testa di lista a volte fascisti incalliti come Luigi Li Gotti, a volte riformisti inconsistenti come Franco La Torre (con tessera del PD e nostalgia del medesimo), calabresi in toscana e toscani in puglia, non sono conseguenza fatale del solo Porcellum, ma sono dovute alla delega totale della selezione ai segretari di partito, alla faccia della democrazia e della trasparenza. Per giunta i due candidati a cui Ingroia aveva affidato la sua difesa, l’inconsistente Flavio Lotti e il dotto Vladimiro Giacché, studioso accademico di Marx ed esperto economista (ma incapace di reggere allo scontro diretto), non sono stati all’altezza. Ingroia è stato salvato solo da due persone semplici e coraggiose, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldovrandi, che hanno saputo tener testa efficacemente alla canea scatenata. Su Pannella consiglio un bell’articolo di Giuseppe Paolo Samonà, Mussolini e dintorni, sul numero 3 della rivista “Critica comunista”, giugno luglio 1979, che inserisco qui di seguito. Di Pannella si parla solo verso la fine, ma vale la pena di leggere tutto con calma: Samonà era stato lucido e lungimirante. (a.m.19/1/13)

Rievocazioni e vocazioni. Mussolini e dintorni di Giuseppe Paolo Samonà. Mussolini fascista e Mussolini socialista. Mussolini pacifista, o meglio guerriero contro la guerra e Mussolini interventista. Mussolini direttore dell'«Avanti!» e Mussolini padrone del «Popolo d'Italia». Le antitesi, comprensibilmente forse, più vituperate che analizzate; o magari, dall'enorme mole di lavoro di De Felice, descritte. Entro questo quadro si può registrare di recente una novità positiva: la ricerca di Gerardo Bozzetti su Mussolini direttore dell'«Avanti!» pubblicata di recente da Feltrinelli e della quale ben si può dire che tenta di entrare nel cuore. di una di queste antitesi (e quindi anche delle altre, dato il loro evidente collegamento). A dire il vero, c'era stato in passato qualche tentativo in questo senso, ma si era trattato di tentativi più o meno celatamente propagandistici, di parte riformista moderata, per mostrare la continuità stilistica, e non solo, fra il Mussolini massimalista e quello nazionalista e poi fascista; il che avrebbe dovuto insinuare il sospetto di una più sostanziale continuità politica, spia di una intrinseca intercambiabilità fra opposti estremismi. Il libro di Bozzetti, pure di matrice visibilmente socialista di destra e pieno di simpatia (critica, peraltro) verso i Turati e i Treves, è ben superiore a simili semplificazioni, come è manifesto innanzitutto dalla appropriatezza dei passi mussoliniani riportati per svolgere via via il filo degli avvenimenti e delle argomentazioni. Questa ricerca, cosa rara per tale tipo di temi, è inoltre condotta senza tarpanti tabù ma anche senza quei compiacimenti ostentatori di obiettività che sembrano talvolta servire a De Felice per celare surrettizie velleità di rivalutazione del protagonista dei suoi studi. Indicativa a questo proposito è la narrazione di un piccolo episodio fatto da Ugoberto Alfassio Grimaldi in apertura della sua prefazione: La sera del 26 settembre 1978 Gherardo Bozzetti ed io, mentre davanti al primo canale televisivo vedevamo l'ultima puntata di «Alto tradimento», la trasmissione dedicata a Cesare Battisti, trasalimmo nel cogliere una «perla» madornale. Si diceva che il protagonista nell'agosto del 1914, lasciata Trento per non più ritornarvi che per offrire il collo al cappio del boia, si dirige a Milano per cercarvi il direttore dell'Avanti! Morgari: fattoselo indicare da un cameriere in un bar, lo elogia per il successo del foglio e per il modo con cui lo conduce. Il direttore dell'Avanti!, allora, era Mussolini: Oddino Morgari aveva, si, diretto quella testata, ma nel 1908. Un semplice errore materiale o un ritorno al vecchio tabù? La cultura socialista italiana ha fatto fatica ad ammettere di aver espresso fisiologicamente dal proprio seno Benito Mussolini. Ma vediamo la tesi in cui Bozzetti mostra di riuscire convincente ripercorrendo il biennio di esordio di Mussolini come figura importante della scena politica italiana e come uno dei protagonisti di quella giornalistica: la scintilla che catalizzò quel tanto di energia interiore per l’«arvultaja» (la capriola) fu la prospettiva immediata di diventare padrone assoluto di qualche cosa: il giornale interventista «Il Popolo d'Italia », interamente suo. Mi sembra molto ragionevole; molto più, per esempio, che attribuire a Mussolini chissà quale lungimirante opportunismo. Certo il futuro duce (nome che a dir la verità gli nacque ai primi del secolo, in ambito socialista forlivese) si rendeva conto che il pacifismo andava perdendo terreno e, sfumati i bollori giovanili, che era una barca da abbandonare; ma ciò si rese visibile e palpabile come prospettiva politica e pratica solo con la possibilità di diventare padroncino da autorevolissimo direttore quale era. Una parte della ricerca di Bozzetti è tesa giustamente a dimensionare quella libertà che a Mussolini veniva appunto dall'essere autorevole, non solo all'«Avanti!» ma in tutto il socialismo italiano; perché in effetti il partito era sì in buona misura infatuato di Mussolini, ma non più che di infatuamento si trattava, se è vero che il direttore dell'« Avanti!» andò via praticamente solo, pur se tra i suoi gerarchi di ogni calibro non saranno pochi quelli che avevano cominciato da una milizia PSI. Questo però non vuol dire che Mussolini fosse stato un corpo estraneo nel socialismo italiano, bensì che lo diventò col tradimento (che sia consentito continuare a scrivere fuori di virgolette non in deroga ma in omaggio a quella obiettività che tanto calorosamente viene sempre raccomandata sull'argomento non solo da De Felice ma ormai anche da tanti fautori della necessità di trattare il fascismo alla stregua di una corrente politica come le altre. Di ciò però si dirà più avanti). Si può ben dire che Mussolini direttore dell'«Avanti!» è innanzitutto una esemplificazione dimostrativa di questa fisiologicità di Mussolini al socialismo italiano. Piuttosto che ripercorrere fase per fase l'itinerario di Bozzetti, credo sia il caso di raccomandarne la lettura a chi è interessato, anche in senso lato, all'argomento, che presenta, a mio avviso, aspetti attualissimi. Prima di trattare i quali, però, mi sembra opportuno menzionare una fonte, o meglio un punto di riferimento importantissimo cui Bozzetti – come tutte le ricerche serie sul Mussolini di quel periodo - si rifà più volte: il libro della scrittrice anarchica Leda Rafanelli, intitolato Una donna e Mussolini. Si tratta del carteggio che negli anni '13 e '14 (fino appunto al tradimento) l'autrice ebbe con Mussolini, di lei fortemente invaghitosi. Le lettere sono inserite in una sorta di intelaiatura diaristica della Rafanelli, i cui moduli letterari e sentimentali datati nulla tolgono a una notevole capacità psicologica sostenuta da salde convinzioni rivoluzionarie, pur se di generico indirizzo anarchico. Una finestra, una delle poche dal vivo e fuori dalle ricostruzioni romanzate, sul Mussolini privato, e che costituisce uno strumento prezioso per tutta la ricostruzione di una personalità, ma ancor di più, eventualmente, per la comprensione del periodo cruciale del biennio in cui il carteggio ebbe luogo. Non meno preziosa testimonianza delle lettere è la memoria dell'allora giovane Rafanelli, che fra i suoi miti estetizzanti e una non meno estetizzante infatuazione (duratura, peraltro) per la fede musulmana, poco posto lascia a digressioni autoapologetiche e che sembrino comunque posticce e giustificatorie (tutto il libro è anzi un'ampia ammissione dell'inganno in cui era caduta nel suo periodo di frequentazione mussoliniana pur talora con più di un sospetto premonitore). Notevole per esempio (e crediamo debba averci riflettuto anche Bozzetti) questo squarcio di ricordo su un momento di abbandono da parte del direttore del quotidiano socialista: «Tanti ricordi mi addolorerebbero, se avessi il tempo di pensarci... Ma il tempo incalza, e bisogna correre... Ho il terrore del tempo che incalza invano. Vorrei fare tante cose... Ed ora sono incerto, scontento, irrequieto... Mi sento negato e fuori posto.» «Eppure credevo che, essendo arrivato ad essere direttore del massimo giornale socialista, dovreste essere contento.» «Non sarò mai contento, io! Vi dico, ho bisogno di salire, di fare un balzo in avanti, in alto... Ma ho bisogno di una spinta... di un appoggio. Vorrei che tutti parlassero di me... divenire l'uomo del giorno... l'uomo del destino...»

«Come Napoleone...» dissi leggermente ironica. «Ancora più di Napoleone.» Notevoli anche, fra l'altro, alcune premonizioni (ricostruite con una credibilità che le fa sembrare autentiche) dell'infidezza mussoliniana che l'autrice trae da una capacità straordinaria di concentrarsi sui piccoli episodi; capacità che in lei compensa spesso la cattiva letteratura, tutt'altro che assente dalle sue pagine. L'enigma Mussolini non sta naturalmente nell'«arvultaja», in sé, di cui questi due libri, meglio di tanti altri magari più vasti e organici, ci danno credibili chiavi di interpretazione. Sta piuttosto nel tipo di consenso che il capo del fascismo riuscì a raccogliere. Bisogna guardarsi in proposito dalla vulgata qualunquistica, secondo la quale tutti gli italiani furono fascisti; ma che consenziente o benevolmente indifferente ful'intelligenciia, è difficile negarlo. Come è difficile negare che questa intelligencija fu in gran parte consenziente con ciò che venne dopo la guerra. Desiderio di adattamento certo; ma solo questo? La personalità di Mussolini (o per meglio dire i connotati culturali e antropologici di essa) non è che un solo elemento del fenomeno fascista italiano. Non è però un elemento secondario. Il che è meno ovvio di quanto sembra, perché la sinistra italiana - marchiata durevolmente sul piano culturale dagli aspetti oggettivistici dello stalinismo (da quelli soggettivistici fu influenzata piuttosto sul piano più direttamente politico) - ha sempre provato un'acuta diffidenza verso indagini del fenomeno fascista che in qualche modo tendessero a vedere nel fascismo radici che non fossero da ricercare tutte nella destra post-unitaria.[iii] Stando così le cose, se davvero si dovesse approfondire il discorso sulla organicità del primo Mussolini - che palesemente conteneva tutte le premesse del futuro duce - alla cultura populista italiana, si andrebbe a una notevole svolta in senso autocritico di tutta la nostra cultura di sinistra. E qui vorrei dire, magari brutalmente, perché trovo questa tematica di estrema attualità. La sinistra italiana, sia storica che non, sta esaurendo un suo ciclo, non perché c'è il famoso riflusso ma perché alle «generose illusioni» del '68 studentesco non crede più nessuno, pur se quella spinta non si è esaurita. Per lo spettacolo che gli intellettuali PSI-PCI - e anche di estrema sinistra - stanno in gran parte offrendo non è il caso di trovare aggettivi: l'invettiva non aiuta l'analisi. È d'obbligo inoltre non fare d'ogni erba un fascio, purché però non si giunga alla conclusione che l'erba non esiste o che le sue varietà sono numerose quanto i suoi fili. Nell'ambito di quelle mutazioni di rotta indotte in molti militanti (che in qualche modo vogliono continuare) per la delusione che la storia non ha seguito le bubbole in cui credevano dieci e meno anni fa, mi sembra sensato distinguere tre atteggiamenti culturali fondamentali: il primo, molto buonsensistico piccolo borghese ma anche piuttosto diverso dagli altri due, consiste nel riguardare all'impegno degli anni ruggenti con l'animo con cui un maturo scienziato dalla candida barba ripensa all'acne giovanile; di solito si sceglie per queste elegiache esibizioni il PCI o i suoi immediati paraggi, come ha fatto l'infaticabile viandante di sinistra Corvisieri. Il secondo consiste principalmente nel ritenere che l'unico punto valido di quell'impegno sia l'avversione al PCI, la quale è, beninteso, da incrementare trasformandola in una avversione, non sempre dissimulata, per tutto il movimento operaio e la sua storia: in questo caso la scelta craxiana è molto praticata, anche perché tiene al riparo - tranne le poche soubrettes - da sguardi culturalmente indiscreti e può indurre gli interlocutori a qualche cautela per quel relitto di falce e martello rimasto per ogni evenienza sotto lo straripante garofano a ombrello (per esempio: riesce difficile credere che su questo genere di copertura non abbia contato Giampiero Mughini al momento in cui ha progettato di far pubblicare nientemeno che sull'«Avanti!» il risultato di un suo cordiale incontro con la fascista Gianna Preda, redattore capo del «Borghese»; i retroscena dell'episodio incredibile ed erroneamente sottovalutato in tutta la sinistra, sono stati riassunti dall'«Espresso» del 6 maggio scorso, con accompagnamento di interviste a esponenti dell'area nuovofilosofeggiante italiana favorevoli sostanzialmente al Mughini in nome della «non demonizzazione» dei fascisti). Il terzo atteggiamento, contiguo al precedente non solo numericamente, prevede la scoperta dell'interclassismo e della proprietà privata come novità rivoluzionarie del giorno nonché unico antidoto al gulag, e tante altre cose dello stesso genere; l'area caratterizzata da questi motivi si pone esplicitamente come quella del riciclaggio in senso filocapitalista di trucioli (ma sono miriadi) dell’estrema sinistra e in particolare di Lotta Continua, che vi apportano fra l'altro un odio antisindacale praticamente illimitato; tutto ciò trova il suo punto di coagulo attualmente nel Partito radicale, il quale in sé non è certo portatore di mascherate istanze autoritarie, come troppo spesso mostra di credere il PCI (ma è un'altra variante dei suoi tic stalinisti): certo però è questo entourage del PR - con il suo disprezzo per la cultura e per le idee, con la sua pratica quotidiana di una incontrollata violenta verbosità, con la sua abitudine alla pratica di un domestico culto della personalità - a costituire un terreno di coltura per personalità carismatiche in transito da sinistra verso destra, e che giustamente scelgono Pannella come compagno di spensieratezze anticomuniste. Certo la storia non si ripete mai identica, ma è anche vero che per l'«arvultaja» dalla rivoluzione socialista al punto di vista in un modo o nell'altro capitalistico, le vie non sono infinite. E i motivi ricorrono, con le dovute varianti ma con notevoli analogie: il culto per l'azione di timbro gentiliano, l'ansia di rimanere tagliati fuori da chissà che cosa... tutto ciò nei momenti d'ascesa può diventare il torrente spontaneista, in quelli in qualche misura difensivi può invece assumere il ghigno del Mussolini della crisi 1914. Mi rendo conto sin qui di avere fatto soprattutto delle enunciazioni, sia pure sulla base di ipotesi a lungo personalmente meditate. Passare a esemplificare una volta o l'altra sarà necessario, e allora bisognerà spingere il discorso sino in fondo e con tutte le pezze d'appoggio. Ma non c'è fretta. Perché ne vedremo delle belle. E gli ex uomini di sinistra che vorranno contribuire a mobilitare la piccola borghesia contro la classe operaia - come del resto già incominciano a fare - daranno del loro agire esempi pratici tali che varranno meglio di ogni pur necessaria citazione virgolettata, di ogni bibliografia e di ogni tipo di chiosa. A quel punto - se sarà superata la diffidenza del marxismo rivoluzionario italiano per la speculazione sovrastrutturale; se sarà affermata una accezione più limitata e rigorosa del termine fascismo, che in ogni caso non coincide strettamente con mussolinismo -, a quel punto, davvero, sarà opportuno riprendere il libro di Bozzetti e quello della Rafanelli e ristamparli in economicissima a grande tiratura.

Il culto del Duce Quando Benito era una divinità. Al MuSa di Salò bronzi, statue, ritratti di Mussolini: testimonianze di una «fede popolare» durata vent’anni, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". C’ è Mussolini futurista, c’è Mussolini dalla mascella volitiva e marmorea, c’è Mussolini che si trasfigura nel fascio littorio, ci sono innumerevoli Mussolini equestri, c’è il meraviglioso Mussolini di Renato Bertelli del ’33, una terracotta dipinta di nero con il Profilo continuo del Duce, identico da qualunque parte si guardi, l’occhio dell’Insonne che controlla a 360 gradi, che tutto vede, tutto sa e tutto risolve – quando gli italiani si sussurravano «Se lo sapesse lui...» - e poi c’è, 1937, anno XVI dell’Era Fascista, il Mussolini di Albino Manca, che sguaina la spada dell’islam, e c’è un piccolo esercito bronzeo di Mussolini-mascelloni, c’è un bizzarro «pezzo» di Antonio Ligabue, un bronzetto del 1942-43 che raffigura Mussolini a cavallo, realizzato su commissione, rifatto due volte (evidentemente un po’ malvolentieri): il Capo, come l’artista, ha gli occhi e l’espressione da pazzo...E poi c’è un elegante Mussolini in marsina, un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone, e c’è la fantastica e fantascientifica Espressione immaginativa del Duce di Barbara (all’anagrafe Olga Biglieri), un volto di Mussolini in marmo statuario che è - in bianco - la maschera di Dart Fener, cinquant’anni prima, e chissà se George Lucas l’aveva visto su qualche catalogo... C’è l’intero catalogo della figura e del mito di Mussolini nelle sale del terzo piano (lo stesso della sezione permanente sulla Rsi) del MuSa, il museo di Salò che oggi inaugura la mostra – durerà un anno esatto, fino al 28 maggio 2017 – Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini voluta, pensata e realizzata dallo storico Giordano Bruno Guerri, direttore del museo e presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, poche migliaia di metri da qui. «In gioventù Benito Mussolini era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, lo studioso di psicologia delle folle – ci dice Giordano Bruno Guerri che ci accompagna in una visita in anteprima -, e aveva ben presente il suo famoso aforisma: “Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non può durare”. E così il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un dio». Ed eccola, la religione fascista e il suo dio: la divinizzazione procede in ordine cronologico, attraverso due grandi sale e un centinaio di opere (quasi tutte di collezionisti privati e mai viste prima) di artisti sconosciuti, noti, meno noti e celeberrimi, da Salvatore Monaco a Giacomo Balla, da Fortunato Longo a Ernesto Michaelles in arte Thayath (autore del Dux prettamente futurista), da Enrico Prampolini a Mino Delle Site: in tutto 33 sculture e decine e decine di xilografie, dipinti, incisioni, ceramiche (alcune, colorate, bellissime). Iconografie di vario tipo e materiale. Nessuna celebrazione, ovviamente. Ma, per tagliare la testa alle polemiche che pure da giorni agitano questa sponda del Garda, solo la volontà, dice Giordano Bruno Guerri e gli fa eco il sindaco di Salò Giampiero Cipani, di studiare i vari momenti del fascismo, che proprio qui morì: «La mostra è storico-artistica, non politica». E infatti è la prima di una serie che sotto l’occhiello «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» per citare Ruggero Zangrandi, racconterà prodromi, glorie, tragedie ed epilogo del Ventennio: il prossimo anno sarà la volta di antifascismo e Resistenza. Intanto, mentre in Italia non c’era ancora l’antifascismo ma solo 45 milioni di fascisti, prima dell’entrata in guerra e delle disillusioni, l’illusione era massima, e il consenso montante. Si inizia negli anni Venti con un Mussolini ancora liberale, ritratto in cravattino e collo di camicia inamidato, dall’aria giolittiana (come in Per la battaglia del grano di Romeo Pazzini, del 1927) e, semmai, risorgimentale, un padre della Patria più che il Primo degli italiani. Poi, negli anni Trenta, dopo il Concordato, alla «fede» del littorio si sovrappone il culto del Duce come strumento di affermazione del regime. «Il carisma di Mussolini fu istituzionalizzato, rafforzato, impostato dalla propaganda divenendo il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione», spiega Giordano Bruno Guerri. E il Duce diventa il prodotto mainstream e vendutissimo della fabbrica del consenso. Mussolini è statista, legislatore, filosofo (c’è una meravigliosa xilografia di Mussolini-Machiavelli di Carlo Guarnieri), scrittore, artista, profeta, messia, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, come ha scritto Emilio Gentile. È l’Uomo della Provvidenza. E la Provvidenza ha i suoi corifei. Che raffigurano il Duce sempre più forte, fiero, potente. Mussolini ad un certo punto dismette gli abiti borghesi, si rasa e indossa soltanto divise e camicie nere, oppure la toga romana da Imperatore. E, nella sua apoteosi, è a petto nudo: senza vestiti supera tutte le divisioni di classe. Infatti la seconda parte della mostra – che a dispetto di possibili contestazioni si snoda dentro le sale del museo permanente della Repubblica sociale italiana: alle pareti è appesa la gloria effimera dei Colli fatali, in mezzo si vive la tragedia dell’Italia divisa e sconfitta – si chiude con il gigantesco «dipinto museale» di Alberto Beltrame, una tela 220x117 intitolata Verso la meta che rappresenta Mussolini completamente nudo e vincitore. E che sintetizza la concezione ideologica del pensiero fascista e della sua rivoluzione. Poi sarà il momento dell’Impero e dell’ora fatale, quando il Duce, in fase bellica, è sempre raffigurato con l’elmetto e, metaforicamente, il pugnale in bocca... Quanti volti ha l’Uomo. L’uomo Mussolini ha mille volti, ma è sempre se stesso. Cambia tutto, eppure il piglio marziale resta uguale. C’è un curioso Mussolini su un cavallo imbizzarrito che intima di tacere alle personificazioni di Stati Uniti, Inghilterra e Francia che guardano timorose. C’è un incredibile Mussolini con gli occhi azzurri. C’è un piccolo ritratto stilizzato di Mario Sironi, c’è un ritratto aeropittorico, ci sono alcuni «pezzi» anonimi e di mano «semplice» che testimoniano la fede popolare nel Duce (l’idea della mostra è di portare fuori dalle case le «opere» dell’epoca, quelle realizzate da donne e bambini: ricordate il ritratto del Duce fatto con i bottoni da Sophia Loren in Una giornata particolare? Ce ne sarebbero di storie da raccontare...). E, infine, c’è il manifesto del plebiscito per le elezioni della Camera dei fasci del 1934: un collage di Mussolini e il popolo italiano che sembra anticipare la pop art di Roy Lichtenstein. A proposito. Per la cronaca, e per la propaganda, gli iscritti a votare furono 10 milioni e 526mila 504, i votanti 10 milioni e 61mila 978, i favorevoli il 99,8% e i contrari – perché il regime sa tollerare il dissenso – lo 0,15%, ossia 15.201 italiani. Quando l’Italia, insomma, concedeva il massimo consenso al Duce.

Fratelli coltelli. Come Alessandra e Rachele Mussolini. Storie di fratelli su fronti politici diversi. Il contrasto più clamoroso fu tra Antonio Gramsci, fondatore del Pci, e il fratello Mario, fascista e aderente alla Rsi. Ma i casi di fratelli e sorelle con idee politiche contrarie non sono rari. E i dissapori, anche per le prossime amministrative, rischiano di avere lunghi strascichi familiari, scrive Valeria Palumbo il 6 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

1. Antonio e Mario Gramsci. Uno, Antonio (1891-1937), è il fondatore, nel 1921, del Partito comunista italiano. L’altro, Mario (1893-1945), fondò la sede di Varese del Partito nazionale fascista. Antonio morì il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere stato rimesso in libertà totale e dopo anni di persecuzioni fasciste. Al suo funerale, della sua famiglia, c’era solo il fratello più piccolo, Carlo (1897-1968). Mario Gramsci aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, fu segretario cittadino del Partito fascista a Ghilarza, poi si spostò a Varese. Partì volontario per l’attacco all’Etiopia e nella Seconda guerra mondiale. Aderì alla Rsi, fu catturato dai partigiani, consegnato agli inglesi e spedito in un campo di prigionia in Australia. Lì si ammalò: morì in ospedale al ritorno in Italia. Dopo anni di silenzio con il fratello Antonio, cercò di mitigare la durezza della sua prigionia.

2. Rita e Nando Dalla Chiesa. Figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982, Rita (1947) e Nando (1949) hanno storie professionali e politiche diverse. Nando è professore associato di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano, presidente di Libera e fondatore di Società civile. Nel 1992 è stato capolista della Rete a Milano-Pavia; nel 1993 fu candidato sindaco a Milano; nel 1994 fondò Italia democratica; nel 1996 è entrato in Parlamento con i Verdi e ha fatto parte della direzione nazionale del Pd. Rita è conduttrice televisiva: a inizio 2016 Giorgia Meloni ha lanciato il suo nome come candidata sindaca per il centrodestra a Roma. La candidatura non ha avuto seguito.

3. Giovanni e Maurizio Ferrara. Giovanni (1928-2007) professore di storia antica, senatore repubblicano, di mentalità liberale e firma del Mondo di Pannunzio e poi di Repubblica. Maurizio (1921-2000), comunista ortodosso, togliattiano, ex partigiano, di natura ribelle, padre del giornalista teocon Giuliano. Giovanni e Maurizio: il padre Mario, liberale, crociano, amendoliano, gobettiano, ha pagato amaramente il suo antifascismo. Giovanni lascia un libro inedito alla morte, Il fratello comunista, pubblicato da Garzanti: «Comunista, mio fratello Maurizio fu per quasi tutta la vita. Io non sono mai stato comunista o filocomunista: per tutto il tempo in cui ciò poteva avere un senso concreto, io mi sono sempre considerato anticomunista – una parola che, nelle idee e nella pratica ha molti significati, si va dal peggior fascismo al più puro spirito liberale e democratico.»

4. Mirford sisters. Così celebri per le loro eccentriche diversità da diventare quasi una caricatura: «Diana la fascista, Jessica la comunista, Unity l’amante di Hitler, Nancy la romanziera, Deborah la duchessa e Pamela la discreta esperta di pollame», come le definì il giornalista del Times Ben Macintyre. Di certo le sei figlie dell’inglese David Freeman-Mitford, secondo barone Redesdale, fecero scelte radicali ed ebbero destini singolari. Diana Mitford (1910-2003) è stata la seconda moglie di Oswald Ernald Mosley, fondatore del partito fascista britannico: per la sua adesione alla politica del Terzo Reich finì anche in carcere. Jessica Lucy Freeman-Mitford è stata membro del Partito comunista e ha combattuto nella guerra civile di Spagna con i repubblicani; Unity fu sostenitrice del fascismo e del nazismo e amica intima di Hitler.

5. Mio fratello è figlio unico. Anche il cinema ha affrontato il tema dei fratelli divisi sul fronte politico: Mio fratello è figlio unico di Daniele Lucchetti (2007) si ispira al libro di Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista, e racconta di Accio, che entra nel Msi, e Manrico, comunista. Accio (Elio Germano) abbandona i fascisti e alla fine del film partecipa a un’occupazione di case. Manrico (Riccardo Scamarcio) diventa un terrorista rosso e viene ucciso dalla polizia. Il film prende il titolo da una canzone di Rino Gaetano.

6. Alessandra e Stefano Caldoro. Stefano (1960), presidente della Regione Campania dal 2010 al 2015, è esponente di Forza Italia. Era entrato in Parlamento nel 1992 con il Partito socialista, di cui faceva parte il padre Antonio. Alessandra gli è stata accanto nei cinque anni al vertice della Regione. Poi è stata molto attiva sui social contro il nuovo presidente della Regione, Vincenzo De Luca, per i suoi guai giudiziari. Ha aderito a Italia Unica dell’ex ministro Corrado Passera. Ma giovedì ha denunciato di essere stata estromessa per “volere” di Mara Carfagna dalle prossime elezioni: avrebbe dovuto capeggiare la lista Prima Napoli, con candidato a sindaco Gianni Lettieri, in rappresentanza di Italia Unica: «E la cosa che mi ha fatto più male è stato che mio fratello non si è neanche preoccupato di avvertirmi, da lui nemmeno una telefonata».

7. Alessandra e Rachele Mussolini. Alessandra (1962), figlia di Anna Maria Scicolone e Romano Mussolini (figlio di Benito), ha un lungo curriculum politico: più volte deputata e senatrice, è attualmente eurodeputata. È passata dal Msi ad An, fino ad approdare a Forza Italia. Rachele, 38 anni, figlia di Romano e Carla Maria Puccini, finora era conosciuta per una biografia sull’omonima nonna, Donna Rachele. Alle prossime elezioni amministrative, per Roma, Alessandra è schierata con Alfio Marchini. Rachele, al suo debutto politico, ha scelto Giorgia Meloni che di lei ha detto: «Voglio candidare Rachele come persona, non il suo cognome. ...Una delle tante ragazze in Italia che non hanno un lavoro all’altezza della loro formazione. Penso che il suo cognome non possa essere né un vantaggio, ma neanche uno svantaggio».

Labocetta: "Vi racconto quella telefonata tra Fini e Napolitano per far fuori il Cav". Amedeo Laboccetta, già deputato del Pdl e a lungo amico e stretto collaboratore di Fini si racconta in un libro. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi, scrive Mario Valenza, Domenica 13/12/2015, su "Il Giornale".  “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” traccia la storia degli ultimi anni della storia italiana e apre uno squarcio sulle presunte manovre di palazzo ordite da Fini e Napolitano per estromettere il Cav da palazzo Chigi. Come racconta a Libero, "il culmine della vicenda è il 22 aprile 2010, all’auditorium della Conciliazione (potere dei nomi) a Roma, direzione nazionale del Pdl. Ma sì, il famoso 'Che fai, mi cacci?' scagliato da Fini da sotto il palco a Silvio. Una sceneggiata. Qualche ora dopo, appartamento di Fini a Montecitorio. Laboccetta lo ha raggiunto per farlo ragionare, ricordargli che se il Msi e lui stesso sono usciti dal recinto dei paria, sono arrivati al governo e alle più alte responsabilità, lo devono a Berlusconi. La replica è tranchant. "Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita... Ma lo vuoi capire che il presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. A riprova, Fini chiama il Quirinale e mette in viva voce. E questa è la trascrizione che fa Laboccetta di quanto si dicono, come due vecchi amiconi, "Giorgio" e "Gianfranco". “Caro Presidente, come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale...”. “Più che campale - rispose Napolitano - direi una giornata storica...”. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Amedeo Laboccetta annota: "Avevo assistito - in diretta - all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato...". In realtà il progetto è cominciato prima. "Fini lo stava coltivando forse fin dal post-elezioni del 2008" è la convinzione di Laboccetta: "Della sua ambizione e della sua personalissima sfida contro il Cavaliere, ha approfittato Giorgio Napolitano che ha saputo blandirlo e utilizzarlo per liberarsi dell’ingombrante presenza di Berlusconi, salvo poi abbandonarlo al suo destino a missione fallita".

Libri. “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro” di Laboccetta, scrive il 24 marzo 2016 Luca Gallesi su “Barbadillo”. A chi non fosse di Napoli o non avesse a lungo militato nei ranghi del Msi, il nome di Amedeo Laboccetta risultava familiare per due motivi contrastanti: da un lato, il personaggio si era guadagnato una certa fama come epigono di “Mani Pulite” in salsa partenopea, mentre, dall’altro, risultava invischiato in certi loschi affari legati al mondo del gioco d’azzardo, e a un computer portatile che, durante una perquisizione, rifiutò di consegnare agli inquirenti, avvalendosi dell’immunità parlamentare. Questo, almeno, era ciò che io, meneghino distante dalle beghe politiche, ricordavo del consigliere comunale, poi onorevole, per averlo letto sui giornali. Accettai, quindi, con qualche riserva l’invito del caro amico Angelo Ruggiero a presentare a Milano, assieme all’autore e ad Alfredo Mantica, il libro autobiografico di Laboccetta Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano. La vita è un incontro pubblicato da Controcorrente (pagg.160 €15). Dopo le perplessità iniziali, mi sono ricreduto immediatamente: ho divorato il libro in due sere, trovandolo appassionante e ben scritto da una persona sincera e verace, fugando tutti i dubbi che erano semplicemente dovuti a una lettura distratta delle cronache. Come scrive Marcello Veneziani nella prefazione, oltre che autobiografico in senso stretto, il libro è “l’autobiografia collettiva di una generazione meridionale e di destra in un’epoca a cavallo tra i millenni”. Ci troviamo, infatti, di fronte a una testimonianza personale, politica e anche storica. Personale, perché all’inizio e alla fine Laboccetta ci racconta della sua famiglia, storia avvincente e appassionata, fatta di slanci e casualità, governata dal destino. Il sottotitolo, che definisce la vita come “incontro”, infatti, sottolinea proprio questo, l’inevitabilità, per chi ci crede e vi si abbandona, della “fortuna” in senso latino, che per i pagani era il fato e per i cristiani la Provvidenza. Lasciando al lettore il piacere di scoprire la vita avventurosa dell’autore, penso che il libro debba sollecitare prima delle riflessioni, magari private, e poi una discussione, sicuramente pubblica, su almeno due livelli di lettura: uno politico e uno storico. Quello politico riguarda un mondo che non c’è più, almeno in Occidente: quello delle vite spese in politica. Sebbene non siano passati secoli ma soltanto pochi decenni, sembra lontanissimo il tempo in cui si faceva politica per passione, spendendosi, appunto, in un’attività che, specialmente a destra, non offriva che molti rischi e ben pochi vantaggi. Oggi, più che di una vita “spesa” in politica, dovremmo parlare di una vita “guadagnata”, rappresentando – o avendo rappresentato anche a destra- la politica il modo più rapido di ascesa sociale e soprattutto economica offerto dalla società. La vita di Laboccetta, senza inutili nostalgie o sterili piagnistei ci ricorda un mondo fatto di passione e sacrificio, di militanza e condivisione, di guasconerie e, anche, di divertimento: esperienze ormai bandite dal mondo sordo e grigio della politica odierna. Un altro fattore sottolineato dal politico napoletano è l’importanza della cultura, importanza che non si riduce alle solite chiacchiere preelettorali, ma che ha visto l’autore impegnarsi concretamente ed efficacemente per trovare una cordata imprenditoriale disposta ad avviare l’ultimo esperimento editoriale significativo della destra, quel settimanale “Lo Stato”, che per poco tempo rinnovò i fasti dell’“Italia settimanale” . Fanno davvero sorridere, inoltre, gli aneddoti raccontati nel libro sugli intellettuali considerati “inaffidabili” perché pensano, e quelli che riguardano la politica culturale di Berlusconi, il quale, agli articolati progetti di Marcello Veneziani preferì la musichetta dell’inno di Forza Italia, sicuro che quel jingle avrebbe affascinato il popolo ben più di qualsiasi ardita teoria costituzionale, e purtroppo aveva ragione. Ma le pagine che dovrebbero davvero suscitare un polverone mediatico, con girotondi frenetici dei soliti indignati e paludati giornaloni che si stracciano le vesti per le gravissime violazioni delle regole democratiche, riguardano le rivelazioni del vero e proprio golpe (altro che Borghese, altro che Sogno!) effettuato da Napolitano ai danni di Berlusconi, con la complicità di Fini e di Tremonti. Lasciando al lettore il piacere –e l’irritazione- di scoprire i retroscena della politica italiana degli ultimi anni, raccontati con dovizia di particolari e prove inoppugnabili da Laboccetta, mi limito a sottolineare come questo libro sarebbe dovuto uscire per la Mondadori con il titolo Intrigo Internazionale, con prefazione di Silvio Berlusconi, che, a un certo punto (indovinate quale) ha cambiato parere, invitando l’autore a non pubblicare nulla. Buona lettura.

Dal libro “Almirante, Berlusconi, Fini, Tremonti, Napolitano - La vita è un incontro” (Controcorrente edizioni). […] Alla fine, decisi di andare a incontrare un’ultima volta il Presidente della Camera per rinfacciargli tutto quello che non ero riuscito a mandar giù in direzione nazionale e dirgli, a brutto muso, che la sua strategia era ripugnante. “È una cosa ignobile, Gianfranco. Il tuo non è nemmeno un errore, ma un orrore. Silvio Berlusconi non merita quello che gli stai facendo”. Lui fu spietato: “Berlusconi va politicamente eliminato. E Napolitano è della partita”. Usò proprio questa espressione: essere della partita. Ed io aggiunsi: “Ma che significa essere della partita?”. Replicò dicendo: “Ma lo vuoi capire che il Presidente della Repubblica condivide, sostiene e avalla tutta l’operazione?”. Era la prima volta che si lasciava andare a una considerazione così esplicita. In altre occasioni, mi aveva fatto intuire l’esistenza di quest’alleanza ma mai in maniera così brutale. Sapevo che diceva la verità, ma lui volle regalarsi il coupe-detheatre. Davanti ai miei occhi, chiamò il Quirinale per informarlo degli ultimi sviluppi del golpe. Attivò il vivavoce e parlò con Napolitano delle sue prossime mosse. “Caro Presidente – salutò Fini – come avrai visto abbiamo vissuto una giornata campale”. Il riferimento, chiaro, era alla sceneggiata nell’Auditorium della Conciliazione. “Più che campale – rispose Napolitano – direi una giornata storica”. Era proprio la voce del Presidente della Repubblica. Non riuscivo a crederci. Mi accasciai sulla sedia, come svuotato. “Ovviamente, caro Giorgio, continuo ad andare avanti senza tentennamenti”. “Certamente. Fai bene – lo incitò Re Giorgio – ma fallo sempre con la tua ben nota scaltrezza”. Ascoltai come incantato quella decina di secondi di conversazione in vivavoce, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo assistito – in diretta – all’organizzazione di un golpe bianco orchestrato dalla prima e dalla terza carica dello Stato. Rimasi per qualche istante ammutolito, mentre i due – disattivato il vivavoce – si mettevano d’accordo per l’indomani. Lasciai subito dopo l’ufficio di Fini in preda a una crisi nervosa. Frugai nelle tasche alla ricerca dei miei sigari. Ma nemmeno qualche boccata mi restituì i nervi saldi. Attraversai a grandi falcate i corridoi e le stanze di Montecitorio per guadagnare il prima possibile l’uscita. Dopo averla varcata, feci un bel respiro. E non per colpa del fumo. Era l’aria velenosa e tossica della Camera che mi aveva strozzato la gola. Una telefonata inaspettata mi raggiunse nel mese di giugno 2004. Gianfranco Fini, all’epoca Vice Presidente del Consiglio, mi chiamò per chiedermi se fossi stato in grado di organizzargli una vacanza a Saint Martin per un paio di settimane. Rimasi per qualche istante interdetto. Erano anni che non mi chiamava. “Ma figurati Gianfranco, che problema c’è.” Gli risposi. Quella vacanza caraibica la ricordo molto bene. Alla vigilia di ferragosto del 2004, Fini atterrò all’aeroporto Juliana con quattordici persone al seguito, la comitiva aveva già trascorso una lunga vacanza negli Stati Uniti d’America. C’era anche il suo segretario particolare, l’amico Checchino Proietti con moglie e figli. Provvidi ad ospitare tutti in una delle più prestigiose ville dell’isola. Si trova a nord. Nella zona francese, denominata Ance Marcel. Il proprietario del panoramico complesso è Monsieur Collarò, il Mike Bongiorno della televisione francese. La villa si trova in collina, a strapiombo sul mare. Una zona tranquilla e riservata con vista mozzafiato: erano tutti incantati, d’altronde, quando faccio le cose, in genere, mi piace farle bene. Fini mi aveva sottolineato le sue intenzioni. Ci teneva a fare immersioni tutti i giorni. Fu per questo che reclutai, anche per motivi di sicurezza, un istruttore subacqueo, un californiano con esperienza collaudata ed un fotografo marino di nazionalità francese. Ovviamente mi preoccupai anche di noleggiare una barca. Devo dire che nelle immersioni Fini se la cavava fin troppo bene. Mi fu confermato dai due esperti che lo accompagnarono per quindici giorni alla scoperta di quei fantastici fondali nell’Oceano Atlantico. Dopo la mattinata sportiva, li riaccompagnavo in villa. Ci si rivedeva la sera, con tutto il suo gruppo, per cenare insieme. La sera del 25 Agosto del 2004, onomastico di mia moglie, durante la cena al ristorante di Davide Foini, il vice di Berlusconi, volle omaggiare la mia Patrizia con un dono raccolto in fondo al mare. Una conchiglia bianca. Un ricordo per la bella vacanza trascorsa insieme. Dopo la mezzanotte, si andò tutti a giocare in uno dei casinò di Francesco Corallo. Fini vinse. Nel suo delirio di onnipotenza quel colpo era significativo. Subito incassò e volle andare via. Dopo tre giorni, la comitiva ripartì per l’Italia. Io e Patrizia rimanemmo ancora una settimana. Avevamo bisogno di rilassarci... Sono preciso nell’ospitalità e provo piacere nel vedere gli amici sempre contenti e soddisfatti. Quella bella conchiglia non l’ho portata in Italia. Il giorno dopo la partenza di Fini, con Patrizia decidemmo di restituirla a quel meraviglioso e cristallino mare caraibico. Era quella la sua giusta dimora. Non certo una mensola della nostra casa...

"Napolitano nel 1942 era iscritto al Gruppo universitario fascista". Il vicedirettore del "Fatto Quotidiano" riafferma punto per punto le sue critiche al capo dello Stato sulle telefonate con Mancino, scrive PMI il 19 settembre 2012. Nel replicare al "garbato" attacco mossogli dal professor Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, che lo accusava di "diffamazione" per aver osato denunciare pubblicamente il "sospettoso" comportamento del capo dello Stato sulle telefonate con l'ex ministro degli Interni e ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, imputato per falsa testimonianza nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, il vicedirettore de "Il Fatto Quotidiano" Marco Travaglio a pagina 5 dell'edizione del 22 agosto non solo riafferma punto per punto le sue critiche a Napolitano ma rileva fra l'altro che "Giorgio Napolitano si formò politicamente dal 1942 nel Guf (Gruppo universitario fascista) non appena s'iscrisse all'Università di Napoli, e solo successivamente approdò all'antifascismo". Una verità a dir poco infamante per la più alta carica dello Stato nonché garante della Costituzione. Una verità inconfutabile quanto inconfessabile e vergognosamente nascosta da tutta la stampa di regime che ha steso un clamoroso velo di silenzio su tutta la vicenda evitando accuratamente di parlarne. Insomma Napolitano, prima di salire al Quirinale e vestire i panni del nuovo Vittorio Emanuele III, come tanti altri intellettuali borghesi divenuti poi dirigenti del PCI nel dopoguerra, era un fascista, iscritto al Guf fin dal 1942, ha collaborato attivamente al settimanale dei fascisti universitari di Napoli "IX maggio", dove curava una rubrica di critica teatrale e cinematografica, e ha anche partecipato alla Mostra di Venezia e all'annesso convegno degli universitari fascisti in Laguna. Un'adesione al fascismo che Napolitano compie in piena consapevolezza, maturata all'apice dei vent'anni di dittatura mussoliniana, dopo la promulgazione delle leggi razziali, l'alleanza con Hitler e l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale prima contro la Francia (10 giugno 1940) e poi contro l'Unione Sovietica. Come mai Napolitano non ha mai rinnegato questo suo imbarazzante passato di militanza fascista e non ha mai sentito il bisogno di fare un'autocritica pubblica? Cosa ha da nascondere la massima carica dello Stato che da grande opportunista quale egli è, militava nel Guf mentre i partigiani lottavano e morivano in montagna e si è iscritto al PCI solo nel 1945? Da fascista a revisionista, il suo anticomunismo ha cambiato forma ma non sostanza. Fin da subito Napolitano è diventato il pupillo prediletto dell'ultrarevisionista rinnegato Amendola e poi ha proseguito sulla strada del riformismo divenendo l'esponente storico della destra "migliorista" del PCI-PDS; capogruppo del PCI alla Camera dall'81 all'86; liquidatore del PCI e riabilitatore di Craxi e del PSI; e successivamente presidente della Camera nel '92, senatore a vita nel 2005 e infine presidente della Repubblica che invece di contrapporsi al neoduce Berlusconi e alla seconda repubblica neofascista li ha favoriti, invece di denunciare e contribuire a fare piena luce sui "misteri" d'Italia ha coperto e aiutato chi ha tramato con la mafia, invece di fare chiarezza sul suo passato pieno di ombre e camicie nere, addirittura cerca di autoassolvere e di giustificare la sua militanza fascista nel GUF dichiarando vergognosamente che: "Il GUF era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste". Sic!

Napolitano-Scalfari. I ricordi da ex fascisti. Nel lungo colloquio pubblicato ieri su Repubblica, i due ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 11/06/2013, su "Il Giornale". Ha qualcosa di istruttivo il lungo colloquio fra Giorgio Napolitano e Eugenio Scalfari pubblicato ieri su Repubblica, un'amabile e onesta chiacchierata fra due figure istituzionali, la prima in senso proprio, dal punto di vista del potere politico, l'altra in senso simbolico, dal punto vista del potere dei media. Due personalità, fin dalle foto, ieratiche, apparentemente «al di sopra» delle scelte comuni e dei compromessi quotidiani - una icona del comunismo di ferro l'altra del progressismo intransigente - e che pure rivelano tutta l'accomodante e domestica italianità delle proprie biografie, dei propri dubbi, delle proprie scelte. Classe 1924 Eugenio Scalfari, partito dal settimanale Roma fascista e arrivato a principe del giornalismo italiano; classe 1925 Giorgio Napoletano, partito dal Pci e arrivato al Colle; i due grandi vecchi d'Italia, raccontando loro stessi, hanno raccontato una comunissima e familiare storia italiana, in cui tutti citano Benedetto Croce e solito «non possiamo non dirci liberali», in cui si evoca il padre fascista (e nel caso di quello di Napolitano scopriamo che «sotto il regime visse appartato, esercitando la professione di avvocato fino alla fine degli anni Trenta senza iscriversi al Pnf. Poi finì per prendere la tessera»... anche lui...), in cui si ripercorrono con giustificato distacco i trascorsi fascisti (Napolitano frequentava il Guf, ma perché si poteva studiare meglio e lì del resto «si formarono anche molti antifascisti e comunisti», Scalfari orgoglioso di essere «un giovane fascista» espulso dai Guf da uno dei capi del Pnf e «ciò mi fece venire dei dubbi»...), entrambi protagonisti di viaggi più o meno lunghi «attraverso il fascismo» per approdare sulle sponde dell'Italia democratica e progressista, dove ci si iscrive al Pci «più per impulso morale che per una scelta ideologica», e dove, se ti chiedono di accettare una rielezione (come tante altre cose da noi), anche se sei «profondamente convinto di lasciare», alla fine «non puoi dire di no». Che è una splendida risposta, così comune, tutta italiana.

Eia eia alalà. Controstoria del Fascismo di Giampaolo Pansa. Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano del 8 febbraio 2014: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina?», domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare!». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Le icone comuniste santificate. Saviano contro Pd: "Si vergogni degli alleati di Ala". L'ira dell'autore di Gomorra dopo l'attacco del senatore verdiniano D'Anna che lo ha definito "icona farlocca, inutile che abbia la scorta". Zanda: "Parole inaccettabili e ingiustificabili, Verdini si è scusato". Ma la minoranza dem torna in trincea: "Con certa gente il nostro partito non deve avere nulla a che fare", scrive il 26 maggio 2016 "La Repubblica". "Il Pd si vergogni". Roberto Saviano risponde senza mezzi termini all'attacco del senatore verdiniano Vincenzo D'Anna, che oggi l'autore di Gomorra definisce "dannoso scherano di Verdini, renziano e cosentiniano insieme". E aggiunge, lo scrittore: "Impone a me di rinunciare alla scorta. A me che non vedo l'ora di tornare libero. Cosa debbo pensare: ha forse progetti per il mio futuro? Un "grazie" va anche a Radio Rai e al servizio pubblico che hanno consentito la diffusione delle solite porcherie" scrive su Facebook l'autore di 'Gomorra'. Che aggiunge: "E poi, sarebbe questa la comunicazione del Pd? Sono questi gli alleati di Renzi a Roma e di Valeria Valente a Napoli? Sono queste le nuove risorse campane? Buona fortuna. E Vergogna". D'Anna, senatore di Ala, casertano, una reazione così se la doveva aspettare. Ieri era stato ospite di "Un giorno da pecora" su Radio2 Rai, e si era scagliato violentemente contro Saviano. "E' un'icona farlocca che non ha mai detto nulla che possa infastidire la camorra. Se fosse per me, toglierei la scorta", aveva, tra l'altro, sostenuto il verdiniano. E altre considerazioni su questo stile. Dopo aver riascoltato le sue parole, rimbalzate su tutti gli organi di stampa, il senatore ha poi provato a sfilarsi, parlando di "frasi estrapolate dal contesto, nel corso di una trasmissione votata al paradosso" ma sul via alla scorta a Saviano è rimasto sulle sue posizioni, basate, a suo dire, "su precisi riferimenti di sentenze emesse dalla magistratura allorquando si è interessata delle minacce a carico della senatrice Capacchione e dell'opera dello scrittore Saviano". Gelo e imbarazzo in casa Pd, con la minoranza dem tornata subito all'attacco contro l'alleanza con Verdini e i suoi amici, "dopo aver ascoltato con rabbia e disgusto" le parole di D'Anna. Per Roberto Speranza, ad esempio, "il Pd con questa gente non deve più avere nulla a che fare". Fase delicata, con Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd che prende la parola a nome del partito nell'Aula di Palazzo Madama: "Le parole di Vincenzo D'Anna sono inaccettabili sotto qualsiasi profilo e sono ingiustificabili per qualsiasi ragione politica, elettorale, di 'concorrenza' sul territorio", afferma con nettezza e aggiunge: "Parole rese molto più gravi perché riferite a Saviano e a Capacchione, due persone cui le autorità di sicurezza dello Stato hanno ritenuto, per ragioni serie e confermate da indagini svolte, di dover assegnare la scorta per essere difese in un territorio che pone in pericolo di vita le persone perbene che si oppongono e ribellano a un equivoco, difficilissimo e pericolosissimo ambiente". E, sempre Zanda, fa sapere in Aula che Verdini si è scusato, ha telefonato alla senatrice Rosaria Capacchione, "porgendo le sue scuse e quelle di D'Anna". Da Napoli il pieno sostegno del Pd a Saviano contro le parole del casertano D'Anna: dalla candidata sindaca Valente al segretario regionale Tartaglione, tutti chiedono "scuse subito da D'Anna" e "più impegno reale da parte di tutti alla lotta ai clan".

Se anche Verdini s'inginocchia a Saviano. Le scuse di Denis sono fuori luogo, scrive Massimiliano Parente, Venerdì 27/05/2016, su "Il Giornale". Figuratevi cosa ne ho pensato io, che da anni, e, come si dice, in tempi non sospetti, scrivo quanto Saviano non faccia letteratura, né saggistica, né vero giornalismo d'inchiesta (in altre parole ha avuto una botta di culo con un libro e una scrittura mediocri), quando ho saputo del senatore Vincenzo D'Anna. Il quale ha accusato Saviano di copia e incolla («icona farlocca, si è arricchito con un libro che ha copiato a metà») invocando, alla trasmissione Un giorno da pecora, di togliergli la scorta. Uno scandalo. Quando si parla di togliere la scorta a Saviano si pronuncia un'eresia, lo si vede già morto come Falcone e Borsellino. Questi ultimi, però, erano magistrati. Quindi, in realtà, il ragionamento ci sta: se Saviano è il simbolo della lotta alla mafia, e dunque non può vivere la vita di tutti, un magistrato che combatte la mafia a Napoli quale vita farà? Non mangia gelati? Non mangia pizze? Si lagna appena può da Fabio Fazio? Tutti i pubblici ministeri della Campania e della Sicilia sono in esilio, blindati, protetti e con l'aplomb del martire? Delle due l'una: o i magistrati sono collusi con la mafia (ma il vate Saviano non l'ha mai denunciato, anzi i magistrati sono sempre buoni e giusti e coraggiosi) o Saviano gode di un privilegio spropositato, alle spese del contribuente italiano. E senza neppure essere Céline né Proust né Pasolini: semplicemente gli mancano le opere. Infatti D'Anna ha aggiunto che la camorra viene combattuta dai magistrati, dai carabinieri, dalla polizia, non certo da Saviano, sul cui feuilleton camorristico ci si fa perfino una serie tv di successo, con relativi incassi girati all'autore. In teoria D'Anna avrebbe detto un'ovvietà. Invece il punto è un altro: una volta che un senatore di Verdini ne ha detta una giusta, interviene Verdini stesso per chiedere scusa? Un giorno da pecora, appunto.

D'Anna (Ala) e la scorta (da togliere) a Saviano: «Parlo come voglio e non chiedo il permesso a Denis». Il senatore: «Non polemizzo con Denis. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più», scrive Tommaso Labate il 26 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

«Una cosa deve essere chiara. A Saviano non rispondo».

Senatore D’Anna, conferma però che a Saviano dovrebbe essere tolta la scorta?

«Confermo quello che ho detto. Nella caserma dei carabinieri del mio paese non ci sono i soldi per la carta o la connessione internet. Con i risparmi di scorte come quella di Saviano, di soldi per chi combatte la camorra per davvero ce ne sarebbero di più».

Le sue parole hanno scatenato il caos.

«Mi sono difeso perché avevano raccontato un sacco di falsità sulla lista di Ala a Napoli».

Parla del manifesto di un vostro candidato con dietro il cognato di un boss?

«Falso. Nessun cognato di nessun boss».

Verdini s’è dissociato dalle sue frasi.

«Verdini pensa che sia meglio non parlare con i giornalisti, ignorare le infamità che ci dicono, sognare il quieto vivere? Legittimo, lui ragioni come crede. Per me, invece, decido io. Se mi attaccano, rispondo. Sono una persona onesta e le accuse di collusione le respingo».

In Ala non vi coordinate sulle interviste?

«Se voglio parlare lo decido da solo. Non devo chiedere il permesso a nessuno».

Alcuni suoi colleghi, come Mazzoni e Parisi, hanno preso le distanze da lei…

«Visto che l’intervista è scritta, colleghi me lo scriva tra virgolette... Non so da loro in Toscana, ma da noi in Campania i voti ce li guadagniamo lottando, non stando zitti».

Vale anche per Verdini?

«Deve essere chiaro che io, in un partito dove decide un cervello solo, non ci sto».

In Ala decide Verdini?

«Non polemizzo con Denis, che ha una responsabilità nazionale. Noi operiamo sui territori e a volte abbiamo visioni diverse».

Siete spaccati?

«No. Sugli obiettivi siamo compatti. Si lavora alle riforme, con Renzi, con la Valente».

D'Anna attacca ancora Saviano: "E' diventato milionario con l'antimafia". Il senatore verdiniano torna ad attaccare lo scrittore: "Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco", scrive "La Repubblica" il 28 maggio 2016. "Ho spezzato una lancia a favore di magistrati e forze dell'ordine. Chi compra un appartamento panoramico a Manhattan e rivolge pensosi pensieri sulle sorti del bene in Italia è farlocco. La battaglia antimafia ha procurato a Saviano proventi milionari con cui ha comprato casa a New York, mentre ci sono carabinieri e poliziotti che con 1.300 Euro al mese si fanno un mazzo così e rischiano la vita. Loro sono i veri eroi, le vere icone dell'antimafia". Il senatore verdiniano di Ala, Vincenzo D'Anna a La Zanzara su Radio 24 torna ad attaccare Roberto Saviano dopo le polemiche sulla scorta dei giorni scorsi iniziata ai microfoni della trasmissione di Radio2, Un giorno da pecora. D'Anna attacca Saviano: "Toglierei la scorta, nessuno lo vuole uccidere: è un'icona farlocca". "Non esiste un camorrista in Italia - assicura D'Anna - che vuole ammazzare Saviano. Se ne fregano altamente. I camorristi guardano al vantaggio, al guadagno fraudolento. Saviano non dà fastidio a nessuno. Mario Puzo quando ha scritto 'Il Padrino' girava con la scorta? No. Quali pericoli - insiste - sono venuti alla camorra dal libro di Saviano? Nessuno, tranne forse il pericolo dell'emulazione. Quale la concreta minaccia?". "Le parole di Saviano - dice il senatore di Ala - valgono come il due di briscola, non ha titoli per essere il metro della morale di nessuno. E' stato trasformato in un'icona. Vi rendete conto che ha detto che la Rai non doveva permettere a D'Anna di dire certe cose? Siamo alla megalomania, all'io ipertrofico. La Rai non deve ospitarmi perché non riconosco Saviano. Vi rendete conto? Io sono una persona perbene, più di Saviano. Ho detto che il Re è nudo e sono diventato un farabutto. Mi hanno messo al rogo come Giordano Bruno...". E alla domanda sul perché vuole togliere la scorta a Saviano, il senatore risponde attaccando la giornalista e senatrice del Pd Rosaria Capacchione: "C'è una recente sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - sottolinea - che ha accertato l'infondatezza delle minacce, che erano alla base della scorta assegnata alla senatrice Capacchione e allo scrittore Saviano. Se quelle minacce erano false, la scorta non va più assegnata. Alfano ci deve spiegare quali altre minacce ci sono per tenere impegnati 8 carabinieri e 3 macchine di cui 2 blindate". "La scorta costa 2-3 milioni di euro l'anno - assicura D'Anna - mentre abbiamo carabinieri che non possono mettere la benzina nelle auto e commissariati che non hanno Internet. Abbiamo tanta gente che fa la lotta alla camorra a 1200 euro al mese". D'Anna ribadisce poi che la senatrice: "Ha due carabinieri di scorta e una macchina che la porta avanti e indietro da Caserta a Roma. A spese dei contribuenti. Se non ci sono minacce a cosa serve questa scorta?".

Le icone liberali smerdate. Porro intervistato da Luca Telese su “Libero Quotidiano del 24 maggio 2016: "Io, Santoro, Fazio e quel dramma in famiglia".

Nicola, sei sulla cresta dell’onda!

«(Ride) Non posso rilasciare interviste, Luca». 

Che fai, adesso, te la tiri anche con me? 

«Voglio essere chiaro, soprattutto con un amico: non dico più nemmeno una parola su Rai, Virus o Campo Dall’Orto!». 

Perché ci hai già litigato troppo? 

«(Tono sospettoso) Luca, ti ho detto che non parlo di Rai! Non fregheresti un amico, no? Sono un aziendalista». 

Sì, ma so bene che tu al mio posto lo faresti, quindi…

«(Risata crassa) Sono indignato, ma hai ragione. Possiamo parlare di tutto, tranne che del programma. Quello che dovevo dire l’ho già detto. Ogni altra parola è superflua». 

Per lunghi anni, Nicola Porro e io siamo andati In Onda insieme su La7. Un programma a due è come un fidanzamento: o ti sposi o ti separi (e vuoi gli alimenti). Noi incredibilmente andavamo d’accordo. Avevamo un compito che ci riusciva benissimo: lui raccontava le cose partendo da un punto di vista “di destra”, io da un punto di vista “di sinistra”. Il massimo della differenza e il massimo della sintonia, nel rispetto della diversità. Ho capito allora che Nicola è un liberale vero. La gente ci ferma, ancora oggi: “Come facevate a sostenere sempre due cose opposte? Era tutto scritto?”. Veniva naturale: una volta partiva lui, una volta io - a braccio - e l’altro era obbligato a variare all’impronta. Un ospite lo invitavo io e uno lui, un servizio lo immaginavo io, uno lui. Poi Nicola ha creato Virus su Raidue: per una strana follia, proprio nell’anno dei suoi record, lo chiudono. L’ultima puntata ha superato il 6%. 

Cosa farai? 

«Combatto per portare sempre in scena, spero alla Rai, l’idea più sbagliata e metterla a confronto con quella dominante. Il contagio delle idee è un valore».

Ti offrono, un programma, domenica pomeriggio, accetterai?

«No comment».

L’unico talk "di destra": una condanna o una fortuna?

«In un paese in cui in tutti i salotti definirsi di sinistra sembra un certificato di cittadinanza, pena l’indegnità, sono contento di essere bollato “di destra”».

Tu cosa sei?

«Un liberale. Punto».

Cosa significa, questo, nella tua tv? 

«Raccontare gli invisibili, chi non ha successo».

Ovvero? 

«Le persone inutili per i salotti di oggi, che - per dire - non sono à la page per Fazio, non hanno il faccione».

Quali sono i "salotti di oggi"?

«Un tempo erano Mediobanca e le sorelle Crespi. Oggi, per trovare un simbolo, sono due locali radical chic di Roma, sono Settembrini e il Salotto 42». 

Quartiere Mazzini: produttori, sceneggiatori e del cinema, e in centro.

«Due piccoli templi del pensiero dominante. Ovvero di ciò che le persone fiche, le persone giuste pensano».

Non è da te inveire!

«Giornalisti e i politici, spesso prigionieri nel circuito del potere, hanno un fortissimo rischio di allontanarsi dalla realtà. La confondono con quel che si dice al Settembrini e al Salotto 42».

Avevi un nonno liberale!

«Nicola come me, cognome Melodia, è stato vice-presidente del Senato. Ma non l’ho mai conosciuto. La mia famiglia era di destra, vagamente nostalgica, papà votava Msi».

So che con Vendola avete ricordato le sorelle Porro.

«Agrarie, zitelle e incolpevoli. Ma sorelle e zie di fascistissimi Porro pugliesi».

Vennero trucidate nel 1945, siamo dalle parti di Pansa.

«Furono linciate, stuprate e lasciate nude sulla pubblica piazza di Andria. Io Il sangue dei vinti ce l’ho nelle vene».

Eppure nel dna non hai l’odio.

«Mio padre Maurizio e mia madre Lucilla non mi ha trasmesso nulla di tutto questo: non una parola di rancore. Era come se tutti in famiglia avessero accettato la fatalità brutale della guerra civile».

Come faceva a non odiare?

«Lui fu mandato in Svizzera a studiare: parla il tedesco meglio dell’italiano. Mai avuto una tradizione orale di quel dramma».

Pazzesco.

«Dopo, con i rapimenti degli anni ’70 in casa mia giravano armi. In campagna papà dormiva con la 38 special sopra la sponda del letto. Sapevo, ma non ne parlavamo».

E il Pli?

«Sono del 1969. Rimasi folgorato dalla lettura di un saggio di Antonio Martino che mi aveva prestato il mio amico Antonio De Filippi fratello di Giuseppe».

E i cugini radicali, il fascinoso Pannella?

«Zecche: non potevo proprio tollerare di essere chiamato da qualcuno “compagno”».

E gli odiati cugini repubblicani? Più a sinistra di voi.

«Macché di sinistra! Ho conosciuto Oscar Giannino con i capelli, senza bastone e senza ghette. Ma era più padronale di me. Mi sono convinto a votarlo quando ho scoperto la storia della sua finta laurea: è indecoroso il linciaggio che ha subito».

Politica all’università?

«Capisco cos’è il conflitto perché vengo menato sia dai fascisti che dai comunisti».

Spiegami un motivo di rissa.

«Quando giravo per i corridoi di economia spiegando: “Le tasse universitarie devono essere più alte!”».

Facevano bene a menarti.

«È un principio di equità. I dieci delle classi sociali più ricche che si laureano, hanno un futuro. È giusto che se lo paghino. Chi non ha soldi viene finanziato con una borsa di studio. Chi perde tempo paghi».

E dopo la laurea?

«Mi chiama Ferrara che apre il Foglio, ci incontriamo al Radetzky. E poi la prima, unica e provvidenziale raccomandazione della mia vita: Paolo del Debbio chiama Carlo Maria Lomartire e gli chiede di trovarmi un lavoretto a Rete Quattro».

E che fai?

«Mi devo svegliare alle cinque di mattina per una rassegna stampa. Con una Yahamaha Teneré 600 fichissima. Compravo i giornali e li portavo in redazione».

Ma torni anche sulla carta stampata.

«Ferrara e il grande Sergio Zuncheddu, editore de Il Foglio, mi offrono di fare una pagina finanziaria del quotidiano. Dura un anno. Un giorno Giuliano, quasi serafico mi fa: “Da domani non esci più”. Ho metabolizzato in quel momento la flessibilità. Svengo. Però poco dopo mi assume al Foglio».

Poi torni all’economia.

«Nel 2000 mi chiama Paolo Panerai e con Giuseppe De Filippi fondiamo Class Financial Network. Copiando spudoratamente Cnbc».

E poi? 

«Il buon risultato mi procura la chiamata di Belpietro. Pensa: non l’avevo mai visto. Nel 2003 mi dice: “Vuoi venire a fare il capo dell’economia a Il Giornale?”».

E tu? 

«Mi pare incredibile: la prima volta che mi vede mi assume». 

Il passaggio a La7? 

«Ero in vacanza a Stromboli. Gianni Stella, detto "Er canaro", una leggenda, si presentò in elicottero!».

E tu?

«Andai a prenderlo con l’Ape. Mi disse all’orecchio quando mi volevano dare a puntata. Capii male. Temevo pochissimo. Ero imbronciato. E così lui, davanti a mia moglie: “Sai quante donne rimorchi con la tv!”». 

E Allegra? 

«Donna di classe infinita: “Allora Nicola accetta!”».

Te ne vai a Raidue litigando con Cairo per una sciocchezza. 

«Malamente, insulti. Subito dopo diventiamo amici. Questo ti dice la grandezza dell’uomo».

E il passaggio alla Rai?

«Ho avuto libertà straordinaria. In poche settimane mettiamo su un programma di prima serata partito il 3 luglio. Se si muove la macchina di viale Mazzini non ce n’è per nessuno».

Non hai citato Feltri.

«Solo perché ora è direttore. Per me è un maestro. Ha una dote rara: rendere semplici le cose complesse. Quando inizio a scrivere me lo vedo davanti come Obi Wan Kenobi che me lo ripete. È difficile semplificare senza banalizzare».

Altro maestro?

«Non ci crederai: Santoro. Nei suoi programmi, dove si andava a combattere, sono diventato “il berlusconiano dal volto umano”». 

E il tuo amore-odio con Freccero? 

«Ripete sempre che sono bravissimo nella carta stampata, che vesto bene, e che passo tutti i miei week a Saint Tropez».

La terza cosa è quasi vera.

«Ho conquistato tutto da solo non ho motivo di vergognarmi».

Non sei cool, Nicola.

«A vent’anni andavo al Piper la sera, e il giorno litigavo con i compagni».

E quindi? 

«Per fare il giornalista non devi essere malvestito, ma con la giacca di Armani stropicciata, avere la barba incolta, e una multiproprietà in Puglia. Capisco, però, che aiuta molto».

"Appena metto piede a Napoli vengo travolto dall'affetto. Non esagerate perché alla mia età ci si commuove facilmente". Così Silvio Berlusconi inizia il suo discorso al Politeama. "Accanto a me la nostra favolosa capolista Mara Carfagna e il nostro decisissimo candidato sindaco Gianni Lettieri - dice tra gli applausi - all'Hotel Vesuvio mi hanno dato la stessa camera quando guidai il G7 nel 1994 e quando mi arrivò l'avviso di garanzia, il secondo dei quattro colpi di Stato avvenuti in Italia", scrive Gerardo Ausiello su “Il Mattino” il 27 maggio 2016. È il momento di Berlusconi: "Siamo e siete in buone mani. Dentro di me ho la sicurezza di vedere Gianni far rivivere questa città. Abbiamo avuto da Mara e da Gianni numerosi report sullo stato di Napoli oggi. Dovete allora contattare i tanti indecisi e convincerli. Non bisogna rassegnarsi. Dopo la vittoria alle Amministrative dovremo guardare anche noi alle Politiche e potremo vincere grazie ai tanti moderati, non ideologizzati come quelli di sinistra, per impedire la deriva autoritaria senza fine a cui rischiamo di andare incontro. Siamo già in un momento di democrazia sospesa che dura da anni, con un governo non scelto dai cittadini, con una maggioranza retta da parlamentari eletti nelle fila del centrodestra. Il premier non eletto sta dimostrando una bulimia di potere preoccupante, occupa tutto quello che può, ultimamente persino la Rai. Se passasse la riforma della Costituzione ci sarebbe un solo padrone, cioè lui, Renzi. Sarebbe un regime. Il primo colpo di Stato c'è stato con Tangentopoli e molti di noi allora sentimmo la necessità di scendere in campo. In due mesi portammo i moderati a Palazzo Chigi ma la magistratura di sinistra mandò al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e dopo sette mesi il governo cadde perché l'allora capo dello Stato Scalfaro chiamò Bossi e gli disse di voltarmi le spalle. Ma noi tornammo al governo e ancora nel 2008 quando mi dissero qui "Silvio santo subito" dopo che liberai la città dai rifiuti. Salvammo l'Italia è in Abruzzo dopo il terremoto nessuno dormì all'addiaccio e Berlusconi arrivò nei sondaggi al 75,3 per cento. A quel punto il Pd e i magistrati dissero che dovevano distruggermi. Amedeo Laboccetta lo ha raccontato in un libro. Napolitano provò a farmi cadere con la promessa di nominare Fini premier. Amedeo cercò di dissuadere Fini ma lui prese il telefono e chiamò Napolitano per accordarsi sulla mozione di sfiducia contro di me. Era un colpo di Stato tra la prima e la terza carica dello Stato, che non riuscì. Poi arrivò l'anno orribile del 2011, delle accuse infamanti, della frase inventata contro la signora Merkel. Così partì l'offensiva delle banche tedesche e fui costretto a dimettermi perché mi avevano tolto altri otto deputati, plagiati. Se avessi accettato l'offerta del Fondo monetario internazionale l'Italia sarebbe stata colonizzata. Se non mi fossi dimesso mi avrebbero sfiduciato in Parlamento. Questo fu il terzo colpo di Stato, definito un tranquillo colpo di Stato da un giurista tedesco. Mi allontanai dalla politica ma il partito perse consensi. Alle ultime elezioni tutti vennero a richiamarmi e in 23 giorni il partito guadagnò 10 punti ma la solita grande professionalità della sinistra nei brogli fece vincere loro i voti per poche migliaia di voti. Poi a Letta è subentrato il non eletto Renzi. Io ero ancora pericoloso per loro e fui eliminato per la via giudiziaria da un collegio di sinistra con una velocità record per frode fiscale. Il relatore disse che quello era un plotone di esecuzione contro di me". Berlusconi parla quindi del referendum: "Dobbiamo votare no e difendere la democrazia e la libertà. Le prossime elezioni saranno cruciali e allora con Fulvio Martusciello stiamo mettendo in campo un esercito di 200mila difensori del voto che dovranno convincere anche gli indecisi. Per farlo ho lavorato a un programma approvato dai nostri alleati della Lega e di Fratelli d'Italia. Più garanzie per ciascuno è il punto più importante perché il nostro Paese è ammalato di democrazia a causa del sistema giudiziario. Avevo pronta questa riforma dal 1994. In Consiglio dei ministri mi dissero: non è possibile fare questa riforma altrimenti cade il governo, abbiamo un accordo con l'Anm". Via le tasse sulla casa, via l'imposta di successione, condono fiscale, via l'Irap dalle imprese, basta alle autorizzazioni preventive, chiusura immediata di Equitalia, chi ha tradito il mandato degli elettori non può più candidarsi, almeno mille euro al mese per tutti, la pensione alle nostre mamme e l'istituzione del poliziotto di quartiere: questi alcuni dei punti del programma annunciati dall'ex presidente del Consiglio".

Quando il politico rimette la toga: quelle porte girevoli fra Palazzo e magistratura. Accuse di mancanza di imparzialità. Casi di doppi incarichi. Confini spesso troppo labili. Tutti i casi (e le insidie) di chi è tornato in tribunale. Dove più che le norme contano le ragioni di opportunità, scrive Paolo Fantauzzi il 27 maggio 2016 su "L'Espresso". Fra i tre giudici di Corte d'Appello che hanno condannato a due anni e mezzo per peculato Augusto Minzolini per l'uso illecito della carta di credito della Rai sentenza confermata in Cassazione nei mesi scorsi) c'era Giannicola Sinisi: parlamentare col centrosinistra dal 1996 al 2008, sottosegretario all'Interno con Prodi e D'Alema e candidato governatore in Puglia nel 2000. Circostanza che secondo Forza Italia, che si oppone alla decadenza da senatore di Minzolini prevista dalla legge Severino, avrebbe dovuto indurre il magistrato ad astenersi per ragioni di opportunità: troppo politicizzato, il suo passato, per non prefigurare il rischio di mancanza di imparzialità. Chi invece lo ha fatto, nel processo a Napoli a carico dei coniugi Mastella, è stato un paio d'anni fa Nicola Miraglia Del Giudice: eletto alla Camera con An e transitato nel Ccd di Casini, nel 1998 aveva seguito l'esponente beneventano nell'Udr. Si condivida o no la posizione dei berlusconiani, il problema del rientro in carriera delle toghe che hanno fatto politica si pone. Anche perché una legge non c'è: per chi non è stato eletto vale il divieto di tornare al lavoro nelle circoscrizioni in cui ci si è candidati - come mostra il caso di Antonio Ingroia, spedito al tribunale di Aosta dopo il flop di Rivoluzione civile - ma la norma nulla dice nei riguardi di chi, dopo essere stato in Parlamento, vuole tornare a svolgere il lavoro di prima. Attualmente, ha ricostruito l'Espresso, ci sono 22 magistrati in servizio con un passato in politica: 13 nel centrosinistra, 9 nel centrodestra. Di questi, 10 sono ex parlamentari, equamente ripartiti fra gli schieramenti. Nel vuoto legislativo e in attesa che le Camere si muovano (a Montecitorio giace un ddl approvato dal Senato due anni fa) il Csm si è dato delle regole di proprio iniziativa, ricollocandoli per almeno cinque anni in un distretto diverso da quello dell'elezione e mai con funzioni inquirenti. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno È il caso dell'ex sottosegretario Alfredo Mantovano, parlamentare con An e Pdl per quasi vent'anni: candidato sempre in Puglia, dal 2013 è consigliere di Corte d'Appello a Roma. Il democratico Lanfranco Tenaglia, che fu anche ministro-ombra della Giustizia ai tempi di Veltroni, non rieletto in Abruzzo alle ultime elezioni, dopo otto anni da deputato adesso è giudice al tribunale dei minori di Venezia. Angelo Giorgianni, sottosegretario diniano nel Prodi I, è in Corte d'Appello a Messina, dove a breve arriverà come presidente di sezione un altro ex dai lunghi trascorsi politici: Sebastiani Neri, deputato con An (di cui fu responsabile Giustizia) e l'Mpa di Raffaele Lombardo, che lo portò anche alla Regione Sicilia dopo una mancata elezione con Salvatore Cuffaro. Altri ex più “datati” sono invece arrivati nel frattempo in Cassazione, come Francesco Bonito (per anni responsabile Giustizia dei Ds), Domenico Gallo (con Rifondazione nel '94) e Antonio Oricchio (nel 2001 con Forza Italia). Situazione identica pure per vari ex assessori: Alfonso Sabella dopo la breve esperienza con Ignazio Marino in Campidoglio (e in attesa di tornare nella Capitale come capo di gabinetto del nuovo sindaco, se Roberto Giachetti vincerà le elezioni) è ora giudice a Napoli. Giuseppe Narducci, in squadra per un anno e mezzo col sindaco Luigi De Magistris, è a Perugia. Scelta diversa per Lorenzo Nicastro, eletto con l'Idv e membro dell'ultima giunta Vendola in Puglia, che adesso è pm a Matera. Tutto bene dunque? Non sempre. Non solo per la delicatezza di conciliare un diritto costituzionalmente riconosciuto come la partecipazione alla vita politica con la terzietà richiesta a chi indossa la toga senza sconfinare nelle porte girevoli (non a caso il Csm sta lavorando a una stretta sulle incompatibilità negli enti locali). Ma anche perché, pure quando la legge lo consente, le situazioni-limite non mancano, sempre per questioni di opportunità. Il magistrato Roberto Bufo, ad esempio, ha collezionato negli ultimi anni un gran numero di cariche: consigliere comunale a Lerici per cinque anni e al tempo stesso giudice a Pisa, poi assessore ai rapporti con gli enti istituzionali in un paesino di poche centinaia di abitanti in provincia di Lucca durante l'aspettativa dal tribunale del capoluogo; poi, mentre era a La Spezia, una candidatura al comune di Massa in una lista civica di centrodestra e un'altra per Strasburgo coi montiani di Scelta europea nella circoscrizione Nord-ovest, che comprende anche la Liguria (per l'occasione sulla sua pagina Facebook si definiva "personaggio politico"). Non eletto, è stato spostato a Pisa (che ricade in un altro collegio) e in quegli stessi giorni è stato nominato assessore all'isola d'Elba. Per quanto singolare possa apparire, tutto assolutamente legittimo: nulla allo stato attuale vieta di esercitare un ruolo amministrativo al di fuori del circondario del tribunale in cui si esercita. Come mostra la vicenda del sindaco di Portici Nicola Marrone: eletto da una coalizione formata da Sel, Verdi, Idv e Udc, nei primi mesi dopo l'elezione ha continuato a fare il giudice a Torre Annunziata anziché chiedere subito l'aspettativa. Non era obbligato: le due città, per quanto distanti pochi chilometri, si trovano in distretti giudiziari diversi ma le critiche non sono mancate. Il problema insomma resta, anche se la riforma Castelli del 2006 ha vietato l'iscrizione e la partecipazione alla vita dei partiti con la motivazione che possono "condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato". Ne sa qualcosa Luigi Bobbio, pm antimafia a Napoli e in seguito senatore di An, capo di gabinetto del ministro Giorgia Meloni e sindaco di Castellammare di Stabia (ruolo che nel 2012 lo rese celebre per aver abbandonato una processione che omaggiava un boss della camorra): nel 2010 è stato condannato con l'ammonizione dal Csm per aver assunto la presidenza della federazione napoletana di Alleanza nazionale mentre era fuori ruolo per un incarico di collaborazione con la Camera. Il motivo: i "metodi partitici" per loro natura "non sono compatibili con l'indipendenza del magistrato". Un rilievo avanzato a suo tempo anche nei confronti di Ingroia al termine dell'aspettativa chiesta per candidarsi alle ultime elezioni. Bobbio, che dal 2013 è giudice a Nocera Inferiore, nei mesi scorsi è anche stato condannato a otto mesi (pena sospesa) per aver scritto sul suo profilo Facebook che Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso durante il G8 di Genova, era " una feccia di teppista di strada ". Un caso in parte simile interessa anche il governatore pugliese Michele Emiliano per la sua veste di segretario regionale del Pd: o la politica o la toga, l'aut aut del procuratore generale della Cassazione, che un anno e mezzo fa ha aperto un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Una contestazione che però non risulta essere mai stata mossa verso quei magistrati che sono parlamentari e svolgono vita di partito, come nel caso di Anna Finocchiaro, in aspettativa dal lontano 1987.

Minzolini: «Io condannato da un giudice avversario politico», scrive Paola Sacchi il 15 luglio 2016 su “Il Dubbio”. «Mi condannò un magistrato che fu sindaco di Andria, parlamentare e sottosegretario di Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment...». Parla con Il Dubbio il senatore di Forza Italia Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, giornalista e analista politico, inventore di un genere («Scrivere quello che davvero avviene nella stanza dei bottoni») finito sulla Treccani. Ma Minzolini è anche al centro di una caso politico-giudiziario, che lunedì incomincerà l’iter a Palazzo Madama, per il quale rischia la decadenza da senatore. Una vicenda “persecutoria”, denuncia.

Veniamo alla sua vicenda, che è un caso politico, per la quale rischia la decadenza da senatore, in base alla legge Severino. E’ così?

«Penso di sì, viste le logiche prevalenti secondo le quali questo viene quasi considerato un automatismo. Ma io lo ho già detto e lo ridico con molta franchezza: in ogni caso ho intenzione di dimettermi. Però non sollevo il Senato dalla responsabilità di assumere una posizione su una vicenda giudiziaria che, secondo me, è stata condizionata da un atteggiamento persecutorio nei miei confronti, con una valenza politica non indifferente».

Ci può riassumere la kafkiana vicenda che la riguarda?

«In Rai mi proposero una retribuzione del 6 per cento in meno rispetto a quella del mio predecessore. Accetto, ma dico che, avendo un rapporto di collaborazione con il settimanale Panorama, avrei preferito mantenerlo. Ma l’allora presidente Rai Garimberti disse che non era possibile sia dal punto contrattuale sia etico. Chiesi quindi di riconoscermi almeno quello che avevo da inviato e editorialista della Stampa: una carta di credito per spese riguardanti il mio lavoro».

Poi, che accadde?

«Mi venne concessa la carta di credito che fu data anche agli altri direttori. Per 18 mesi mandai le ricevute. E non eclatanti, non c’erano cravatte, alberghi e menate varie. Si trattava di pranzi di due o tre persone. Nessuno mi disse nulla. Ma nel frattempo aumentava la tensione nei miei confronti per le mie posizioni politiche controcorrente. L’allora direttore generale Masi prima mi difende poi si rimangia tutto e mi dice che non era un benefit compensativo (per la mancata collaborazione con Panorama) ma una facility. E mi chiedono di mettere i nomi insieme con le ricevute. A questo punto ridò esattamente tutti i soldi, 65.000 euro, riservandomi di rivolgermi al giudice. E richiesi di collaborare con Panorama, cioè quello che contrattualmente e eticamente non era stato possibile prima, diventò possibile. Mi sembrò tutto abbastanza assurdo, ma pensai anche che la cosa si chiudesse lì».

Com’è che finisce in una vicenda penale?

«Nel frattempo Antonio Di Pietro aveva fatto un esposto. Nel processo, viene ascoltato anche Clemente Mimun ex direttore del Tg1 il quale dichiarò che era prassi che il direttore del Tg1 non faceva i nomi delle persone con le quali andava a pranzo. Il Pm chiese per me 2 anni, ma venni assolto in primo grado».

Poi dall’assoluzione alla condanna definitiva che accade?

«Innanzitutto che il giudice del lavoro mi dà ragione e obbliga la Rai a ridarmi i soldi. Ma nel frattempo io divento senatore e pongo la questione di un possibile impeachment di Napolitano per la vicenda del 2011, mi esprimo contro le riforme con Renzi, denuncio, infine, il presidente del Senato Pietro Grasso alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la gestione del dibattito sulle riforme costituzionali, strozzandolo con il “canguro”. Arriviamo all’appello, il tribunale capovolge di 180 gradi la sentenza. E invece di darmi due anni come aveva chiesto il Pm in primo e secondo grado mi danno mi danno 2 anni e 6 mesi e con quei 6 mesi proprio per far scattare la legge Severino Quindi viene fatta una sentenza squisitamente politica».

Ma arriva poi la Cassazione. E lì che accade?

«Due giorni prima viene cambiato il presidente del Tribunale che mi doveva giudicare. Era Milo, che aveva assolto Berlusconi sulla vicenda Rubi, e ne arriva un altro di Magistratura Democratica. Mi viene confermata la condanna. Entrato ormai in un incubo, vado a vedere chi fosse nel Tribunale della Corte d’Appello che aveva cambiato la mia sentenza di assoluzione. E scopro che c’era un giudice che per vent’anni aveva fatto politica: da sindaco di Andria a parlamentare a sottosegretario del governo Prodi, al ministero dell’Interno con Napolitano, esattamente l’ex Presidente di cui avevo teorizzato l’impeachment, a sottosegretario anche con D’Alema. Poi fu mandato per nomina politica a fare il consigliere giuridico dell’ambasciata italiana a Washington, rientrando quindi in magistratura nel 2013 appena un anno prima della mia sentenza. Si tratta di Nicola Sinisi. Ma che uno dalla politica possa rientrare così in magistratura a giudicare mi lascia quanto meno perplesso. Forse una cosa del genere avviene, chessò, in Turchia, in Egitto?»

Lei poi ha rincontrato lo stesso Di Pietro. Che le disse?

«Che per lui è un assurdo che un giudice che abbia fatto politica torni a fare il magistrato, che non a caso lui non lo ha fatto. E ora fa l’avvocato, ma neppure a Milano. In un momento poi di sincerità mi disse: tu hai pagato per la politica».

Magistrati di toga e di governo: quando il giudice entra in politica ma non si dimette. Collocamenti in aspettativa che durano decenni. Dimissioni che restano un miraggio. Promozioni assicurate anche senza svolgere attività giudiziaria. Mentre la legge che dovrebbe rivedere il sistema è ferma da mesi. Ma non sembra interessare nessuno, scrive Paolo Fantauzzi il 23 maggio 2016 su "L'Espresso". L’affondo del presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo, sui politici che "non hanno smesso di rubare ma di vergognarsi". I giudizi non proprio lusinghieri sul governo del giudice Piergiorgio Morosini, ora al Csm. Le polemiche sul diritto di schierarsi sul referendum costituzionale. E come risposta, le accuse di invasioni di campo, interventi a gamba tesa, "barbarie giudiziarie". Se i venti di tempesta ricordano i tempi dell'assalto alle presunte toghe politicizzate, già cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi, nessuno pare ricordarsi del caso opposto: i "politici togati", ovvero tutti quegli esponenti di partito che, pur non avendo intenzione di rimettere piede nelle aule di giustizia da dove provengono, sono in aspettativa da tempo immemore. Così da risultare a tutti gli effetti in servizio e maturare pure l'anzianità per la progressione di carriera. Come? In base a una semplice relazione della Camera di appartenenza relativa all'attività parlamentare svolta. E quando l'avventura finisce, nessun problema: tornano nei tribunali senza colpo ferire, e pazienza per l'immagine di obiettività e imparzialità che dovrebbe accompagnarli. Ci vorrebbero dei paletti, ha ammonito a suo tempo Giorgio Napolitano e nei mesi scorsi anche il Csm. Solo che la legge, approvata all'unanimità dal Senato due anni fa, da dicembre è ferma a Montecitorio in commissione Giustizia. Presieduta, nemmeno a farlo apposta, da un magistrato fuori ruolo dal 1999 e in aspettativa dal 2008: Donatella Ferranti (Pd). In Parlamento siedono nove toghe (erano 17 la scorsa legislatura). Sei sono formalmente in attività: oltre alla Ferranti, i senatori democratici Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e il deputato montiano Stefano Dambruoso. Fra gli ex, il presidente del Senato Piero Grasso, che andò in prepensionamento quando si candidò col Pd, e come lui due forzisti: Nitto Palma, che si dimise nel 2011 a seguito della nomina a Guardasigilli (dieci anni dopo l'ingresso in politica) e l'ex sottosegretario Giacomo Caliendo. Caso a parte il verdiniano Ignazio Abrignani, in passato giudice tributario ma di fatto avvocato civilista. Emblematico il caso della Finocchiaro, magistrato per un lustro appena: pretore nell'ennese dal 1982 al 1985 (dove escluse dalle comunali il Psi, che aveva depositato la lista con 20 minuti di ritardo) più un paio d'anni da pm a Catania. Nel 1987, quando la Germania è ancora divisa e Maradona fa sognare Napoli, l'elezione alla Camera col Pci e l'aspettativa. Che dura tuttora: lo scorso 29 aprile, certifica il Csm, dalla prima delibera di autorizzazione erano trascorsi 28 anni, 3 mesi e 20 giorni. Fra le 823 toghe in servizio collocate fuori ruolo almeno una volta, ha ricostruito l'Espresso, nessuno può vantare un tale record. In questi tre decenni la Finocchiaro è stata ministro, capogruppo, candidata governatrice in Sicilia, due volte presidente di commissione, il suo nome è girato per il Quirinale ma di dimissioni nemmeno a parlarne. La lontananza dalle aule di giustizia non le ha comunque impedito di ottenere nel tempo sette valutazioni di professionalità, il massimo, e di veder confermati nel 2011 dal Consiglio giudiziario della Corte di appello di Roma “i giudizi positivi conseguiti nel corso di tutta la sua carriera”. Benché trascorsa in Parlamento anziché in tribunale. In questo modo, coi contributi versati, oltre a un vitalizio superiore a 5mila euro l'esponente Pd riscuoterà anche una cospicua pensione da magistrato. Porte girevoli invece per Doris Lo Moro. Dal 1988 ha esercitato una decina d'anni appena, peraltro a intermittenza: un quinquennio da giudice a Lamezia Terme, qualche mese a Roma alla sezione Lavoro, poi otto anni da sindaco (proprio a Lamezia). A seguire, ancora un po' di qua e un po' di là: di nuovo giudice nella capitale per altri quattro anni e dal 2005 la politica a tempo pieno, come consigliere regionale Ds e parlamentare Pd. Adesso, dopo due legislature, la senatrice è pronta per ricominciare il giro al Consiglio di Stato, dove Matteo Renzi vorrebbe nominarla. Vita a metà per la Ferranti: 17 anni con la toga, altrettanti fuori ruolo. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino (dove diventa segretario generale) e poi, grazie anche a questi sponsor di peso, il salto in politica nel 2008: con una blindatura a capolista nel collegio Lazio 2. Se la Ferranti ha in serbo di tornare in magistratura, magari con l'ambizione di finire in Cassazione (si dice che per questo faccia grandi resistenze sul ddl che disciplina il rientro in carriera), chi non ci pensa affatto è Felice Casson. Il giudice istruttore del processo Gladio dopo un quarto di secolo da inquirente si è dato alla politica nel 2005: da allora due candidature a sindaco di Venezia, senza successo, e tre legislature. Oggi, a 63 anni, nella doppia veste di parlamentare e consigliere comunale, aspetta di poter andare in pensione. Alla prima esperienza è invece Dambruoso (Sc), esperto di terrorismo internazionale. Fra incarichi vari all'estero e ministeri la toga l'ha indossata poco ultimamente (dal 2003 solo per un anno, come pm a Milano) ma pure lui nei mesi scorsi ha ottenuto un avanzamento. L'emblema dei cortocircuiti che possono prodursi è Cosimo Ferri, sottosegretario in quota Alfano e al tempo stesso leader di Magistratura indipendente, di cui sponsorizzò i candidati via sms alle ultime elezioni per il Csm. Talmente "indifendibile", come lo definì, che Renzi dopo l'indignazione d'ufficio l'ha lasciato dov'era. Nemmeno questo figlio d'arte (il padre Enrico, ministro Psdi, è stata una toga prestata a tempo indeterminato alla politica) ha sudato particolarmente in tribunale: in tutto una decina d'anni, inframmezzati peraltro da un mandato al Consiglio superiore. Quando nel 2010 torna a fare il giudice a Massa, ha un seguito tale da risultare il più votato di sempre all'Anm ed è pronto per il salto in politica, che arriva grazie alle larghe intese in quota Forza Italia. Malgrado sia finito in pochi anni nelle intercettazioni di Calciopoli, dell'inchiesta Agcom-Annozero e della P3. Poco male: nel 2014, quando era già sottosegretario, il ministero della Giustizia ne ha certificato “equilibrio, imparzialità, serenità ed autonomia” che a gennaio gli sono valsi un nuovo scatto. Del resto, ministero che vai, sottosegretario-magistrato che trovi: al Viminale c'è Domenico Manzione, un passato da pm a Lucca, Monza e Alba prima di approdare all'esecutivo con Letta su indicazione di Renzi, di cui è intimo. A livello locale la musica non cambia, tanto che il Csm ha allo studio un'apposita delibera per stringere sulle incompatibilità con gli incarichi amministrativi. Nel 2009 Caterina Chinnici (figlia di Rocco, il giudice ucciso dalla mafia) ha accantonato la toga a Palermo per entrare nella giunta di centrodestra guidata da Raffaele Lombardo, poi è passata alla guida del dipartimento Giustizia minorile e nel 2014 è volata in Europa col Pd. Da pm antimafia, senza muoversi da Bari Michele Emiliano è diventato invece sindaco e governatore pugliese. In attesa, vai a sapere, di sfidare il segretario-premier al congresso. La nomina a segretario regionale dem gli è costata però un procedimento disciplinare: fare politica sì, militare a tutti gli effetti in un partito no. Questione di forma. Per quanto impalpabile possa essere il confine.

Compagno magistrato. Da Mani pulite alla lunga guerra contro il Cav. Cinquantadue anni di militanza a fianco della sinistra. Grande inchiesta sul marxismo giudiziario di Magistratura Democratica, scrive Annalisa Chirico il 17 Aprile 2016 su "Il Foglio". Magistratura Democratica nasce il 4 luglio 1964 a Bologna, nell’Aula magna del collegio universitario Irnerio dove si tiene la sua prima assemblea pubblica. Magistratura Democratica. Magistratura di sinistra. Toghe rosse. Contropotere. Lotta di classe. Marxismo giudiziario. Autonomia e indipendenza. Resistenza costituzionale. Costituzione Costituzione Costituzione. Corre l’anno 2016, e per difendere la Costituzione Md combatte al fianco dell’Arcinemico, il Caimano from Brianza, l’attentato alla Costituzione in carne e ossa, che se solo potesse la cambierebbe tutta in un istante. Ma ora lui non può, e l’idea si fa scintilla nella mente del Royal baby, Matteo Renzi, quello che “preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con i comunicati stampa”. Apriti cielo. Il premier vuole superare il bicameralismo paritario, due Camere uguali uguali che si rimpallano ogni testo in un ping pong snervante e interminabile. Addio spola, addio navette. Ma Berlusconi, che ieri era d’accordo, oggi scandisce il “no, giammai”, noi siamo opposizione. Rodotà e Zagrebelsky fissano pensosi l’orizzonte, e quasi trasecolano quando si accorgono che lui, il Caimano from Brianza, con incedere baldanzoso cammina dritto verso di loro. Che cosa vorrà mai? Il nemico è comune, il fronte pure. Tocca farsene una ragione. Sul sito web di Md campeggia il comunicato ufficiale di adesione al comitato per il NO (in stampatello) guidato dalla triade Zagrebelsky-Pace-Rodotà. “Lei è giovane come il direttore del Foglio con il quale sono già entrato in polemica – spiega con modi garbati l’attuale presidente di Md Carlo De Chiara – Dovete rendervi conto che la legge di riforma Renzi-Boschi, in sinergia con quella elettorale nota come Italicum, non ammoderna la macchina dello stato. A nostro avviso ne determina una pericolosa involuzione”. Ma, dottor De Chiara, lei non ravvisa neppure un filo di inopportunità nel fatto che una corrente giudiziaria ingaggi una battaglia politica contro il governo? “Md non è né si sente coinvolta in una lotta contro l’esecutivo. La materia costituzionale però travalica la politica contingente. La Costituzione è destinata a durare ben oltre la vita di un singolo governo”. “Io mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E tra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare”. 30 ottobre 2011, il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, iscritto Md, partecipa al sesto congresso dei Comunisti italiani. Il magistrato, “partigiano della Costituzione”, si sente investito di una missione all’apparenza neutra, in realtà profondamente politica e potenzialmente totalizzante. La “resistenza costituzionale” è l’alibi perfetto per condurre ogni sorta di battaglia extragiudiziaria. Se la Costituzione chiama, il “magistrato democratico” risponde. “Nel 2006 mi schierai contro il tentativo di revisione costituzionale voluto dal governo Berlusconi; partecipai a ben cinquantadue iniziative, le ho contate. Io non mi sono mai tirato indietro, non lo farò neppure questa volta”, Franco Ippolito, iscritto alla corrente della sinistra giudiziaria dal 1972, ha sfiorato l’elezione a primo presidente della Corte di Cassazione lo scorso dicembre. Ippolito era il candidato di bandiera di Md ma alla fine i Verdi – che con Md sono confluiti in Area – hanno optato per Giovanni Canzio, forte dell’appoggio del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ippolito, preso atto dei rapporti di forza, il giorno prima dell’elezione ha spedito una lettera a Palazzo dei Marescialli per ritirare ufficialmente la propria candidatura. “Non vorrei parlare della vicenda, anzi non vorrei parlare affatto perché sono della vecchia scuola, non mi intrattengo con i giornalisti. Da gennaio sono presidente della sesta sezione penale, e il lavoro non mi manca”, cordialità. Si mostra più affabile Piergiorgio Morosini, classe 1964, iscritto Md dal 1997, membro togato del Csm dal 2014, si è astenuto sul nome di Canzio (“nel suo caso la proroga di un anno per il pensionamento non riflette lo spirito della norma”). Nell’estate 2012, da gup di Palermo, Morosini è investito dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia. All’epoca è pure segretario nazionale di Md, carica dalla quale decide di dimettersi. “Dovevo studiare oltre duecento faldoni e maneggiare una materia delicata sia per la natura eterogenea delle fonti di prova che per la complessità dei capi di imputazione. Non avevo il tempo per continuare a occuparmi della vita della corrente”. I beninformati invece sostengono che lei si sarebbe autosospeso per via delle voci interne critiche sul contenuto e sulla solidità dell’inchiesta palermitana, nonché sull’esposizione mediatica di alcuni rappresentanti della pubblica accusa, Ingroia e Nino Di Matteo (presidente della sezione palermitana dell’Anm). “Mi sono autosospeso e-sclu-si-va-men-te per portare a compimento il mio lavoro”. Nel marzo 2013 Morosini rinvia a giudizio dieci imputati per “violenza o minaccia aggravata a un corpo politico dello stato”, e il rito siculo, tra uomini di stato tacciati di mafiosità e uomini di mafia eretti a icone legalitarie, ha inizio. Due anni dopo, da componente togato del Csm Morosini si batte, senza successo, per la nomina dello stesso Di Matteo alla procura nazionale antimafia (“ho sostenuto che avesse meriti e titoli per quel ruolo. Non ho cambiato idea”). Morosini ha conosciuto i “convegni ideologici” soltanto per tradizione orale, negli anni di piombo era un adolescente, eppure di quella stagione non rinnega nulla: “Md ha svolto un ruolo cruciale per aumentare il tasso di civiltà del paese”. Md era una corrente esplicitamente politicizzata, caldeggiava la lotta di classe per via giudiziaria e il superamento della “giustizia borghese”. “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. Pruderie linguistica. “Lei deve calarsi nell’atmosfera di quegli anni. L’obiettivo di Md era la costituzionalizzazione del diritto e la riforma profonda delle istituzioni retaggio dell’epoca fascista. Md voleva contaminare la società, per questo organizzava i cineforum dove la gente, terminata la visione del film, si intratteneva con i magistrati per discutere di politica e attualità. Mi risulta che lei si sia occupata estensivamente di abuso della custodia cautelare in carcere”. Confermo. “Sarà lieta di sapere che ho partecipato a decine di convegni a Sasso Marconi dove i magistrati seniores ci insegnavano che la carcerazione preventiva è una extrema ratio. Il mio patrimonio garantista mi deriva dall’appartenenza a Md”. Proviamo a riannodare il nastro. Md è la corrente del “disgelo” della Costituzione. La sua missione originaria consiste nella codificazione dei principi costituzionali nell’ordinamento. Md si caratterizza come avanguardia garantista, tutto vero. Non potrà negare però, consigliere Morosini, che Md è e rimane un “gruppo associato”, come dice lei, a elevato tasso di politicizzazione. Le “toghe rosse” sono tali per esplicita rivendicazione. In nome di una missione superiore – far vivere la Costituzione nella società – si sentono legittimate a intervenire su ogni questione: dalla Guerra del Golfo all’articolo 18, dalla scala mobile a Guantanamo, dai Pacs alla stepchild adoption. Quelli di Md non-si-tirano-mai-indietro. Md è vocata alla discesa in campo. “E che cosa ci sarebbe di disdicevole? Pensi al referendum sulla riforma del Senato”. Penso esattamente a quello. “La posizione di Md non va strumentalizzata. Il superamento del bicameralismo paritario riguarda la nostra ingegneria costituzionale. Chi cerca di farlo apparire come un plebiscito sul governo persegue obiettivi diversi. Più voci si confrontano meglio è per tutti. E’ un fatto salutare per la democrazia”. Se la magistratura si occupa di legiferare, mandiamo i parlamentari ad amministrare la giustizia? “La separazione dei poteri non è intaccata. La riforma in oggetto riduce le prerogative del Parlamento e dilata quelle del governo. Questo ci va bene?”. Io sogno Charles de Gaulle, si figuri. “Lei non mi dà alcuna soddisfazione, sottovaluta il rischio di una democrazia autoritaria. Quando sento bollare come stupido conservatore chi osa avanzare critiche, mi domando quale sia la vera posta in gioco. Intendo dire: perché si dovrebbe impedire a libere coscienze, peraltro dotate di competenze tecniche, di offrire un contributo pubblico? Ci si scandalizza se un magistrato si schiera su un tema rilevante come la riforma costituzionale e poi si tace se un altro fuori ruolo, con funzioni apicali in autorità di nomina governativa, assume ogni giorno posizioni politicistiche”. Si riferisce per caso a Raffaele Cantone? “Non mi costringa a far nomi”. Le “libere coscienze” togate dunque sarebbero meglio equipaggiate di noi comuni mortali per destreggiarsi tra tecnicalità costituzionali. E’ dello stesso parere Gennaro Marasca, Md dal 1970, scuola giuridica partenopea, in pensione per superato limite d’età. E’ membro del Csm negli anni di Tangentopoli e dello scontro frontale tra l’allora capo dello stato Francesco Cossiga e l’Associazione nazionale magistrati. A marzo dello scorso anno presiede la quinta sezione della Cassazione che assolve in via definitiva Raffaele Sollecito e Amanda Knox. “Il cittadino magistrato, di norma, ne capisce più degli altri. Non mi scandalizza che Md esprima la propria posizione, tanto più su un tema di rilevanza istituzionale. Ciò non toglie che io voterò a favore della riforma perché ritengo un fatto positivo imboccare la direzione del monocameralismo”. Il cittadino può affidarsi al giudice “terzo e imparziale” se costui scende in campo contro il governo? “La politicizzazione e l’imparzialità sono concetti distinti. L’imparzialità in sede di giudizio è un dato tecnico. La neutralità non è richiesta ed è anche pericolosa. Ogni scelta è politica”. Il magistrato, oltre che esserlo, dovrebbe apparire imparziale. “I magistrati sono, in primo luogo, cittadini. Rispetto alle grandi conquiste di civiltà e democrazia, non ci siamo mai tirati indietro. Leggiamo i giornali, viviamo di passioni, coltiviamo sensibilità politiche e culturali. La neutralità è una chimera”. Nel ’94 lei entra a far parte della giunta bassoliniana in qualità di assessore alla Trasparenza del comune di Napoli. Tre anni dopo, torna a esercitare la funzione giurisdizionale. Se domani lei vestisse i panni dell’imputato dinanzi a un giudice che è stato, a sua volta, assessore missino, non temerebbe un pregiudizio ostile nei suoi confronti? “Assolutamente no. La politicizzazione e l’imparzialità viaggiano su binari separati. La mia professione è stata sempre improntata al rigoroso rispetto della legge. Non avrei mai danneggiato un cittadino d’idee politiche opposte alle mie. Da assessore ho prestato un servizio civico in una città che ancora oggi versa in condizioni difficili. E il rischio è che De Magistris vinca per la seconda volta, anche per responsabilità di Bassolino che non ha saputo allevare una nuova classe dirigente. Le confesso, Renzi un po’ di ragione ce l’ha quando parla di rottamazione. Io ho 71 anni e mi sono fatto da parte. Le persone dovrebbero capire quando la loro stagione è conclusa”. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è il disgelo della Costituzione. La stagione, le stagioni. Md ne ha vissute più d’una. Cinquantadue anni in trincea contro il potere costituito, dentro e fuori le aule di giustizia, nelle fabbriche e nelle piazze, a colpi di comunicati stampa e mozioni approvate per alzata di mano. E poi le email, quante email, frenetiche email, in una corrispondenza per ticchettio talvolta violata. Come nel dicembre 2009 quando un tale Tartaglia ferisce al volto il Cavaliere con una statuetta del Duomo meneghino, e una toga rossa erutta in una mailing list privata: “Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce eversivi i magistrati?”. La stagione, le stagioni di Md. All’origine è marxismo giudiziario allo stato puro. Lotta di classe e giustizia proletaria. L’ordinamento risale al regime fascista, la Costituzione repubblicana è perlopiù inattuata. I “magistrati democratici” sono investiti di una missione: conferire linfa vitale alla Carta fondamentale. L’interpretazione evolutiva è preordinata a tale scopo. Segue poi la stagione del sangue, terrorismo fa rima con brigatismo, i magistrati cadono come eroi civili sotto il fuoco dell’ideologia armata. La corrente è spaccata tra movimentisti e gradualisti: i primi, vicini alla sinistra extraparlamentare, vedono nel Pci l’alibi di un sistema impermeabile al cambiamento, il terrorismo sarebbe una macchinazione dello stato borghese. I secondi perseguono un piano di riforma graduale del sistema capitalistico, il Pci è un alleato. Dopo qualche tentennamento e ambiguità di troppo, prevale la linea dell’intransigenza, esattamente come in via delle Botteghe Oscure. La terza stagione è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. A Ginevra Reagan e Gorbaciov s’incontrano, i berlinesi orientali scavalcano frenetici il Muro, le due Germanie si apprestano alla riunificazione. La cortina di ferro si sgretola nel cuore dell’Europa, e gli effetti si propagano fino in Italia. Il Pci teorizza la svolta post ideologica. Md deve cambiare per non morire. La missione originaria è esaurita: il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. In questo frangente Md cambia pelle: da corrente giudiziaria fiancheggiatrice della politica si trasforma in soggetto politico tout court. Tangentopoli segna la crisi della Repubblica dei partiti. Md cavalca l’inchiesta Mani pulite, i suoi esponenti assurgono a paladini della legalità. Nei confronti degli inquisiti per corruzione e tangenti lo zelo garantista, che negli anni Settanta ha suscitato frizioni interne sull’atteggiamento da riservare ai presunti terroristi, scompare: forma e sostanza dell’inchiesta milanese non sono minimamente messe in discussione, nessuna denuncia di “eccessi inquisitori”, di abusi manettari, nulla. Il 1994 è l’anno dell’“imprevisto” che di nome fa Silvio Berlusconi, capo di un partito e leader dell’antipartitismo. Il 21 novembre dello stesso anno, come preannunciato dal Corriere della Sera, il premier, nel bel mezzo di una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire per corruzione. Il Cav. è nemico delle toghe. Le toghe sono nemiche del Cav. Nel corso del cosiddetto Ventennio lo scontro si svolge in un crescendo rossiniano: Md è il “plotone d’esecuzione che vuole realizzare la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese”, l’“associazione a delinquere delle toghe rosse”, il “cancro della democrazia italiana”. Il copyright è di Berlusconi. La stagione dei giorni nostri, la stagione che viviamo, porta con sé tre paroline: crisi di identità. Md è disorientata. Non è più quella che è stata e non sa quel che sarà. Lotta di classe e Costituzione sono le parole d’ordine di un’epoca definitivamente archiviata. Md non è più fucina di elaborazione culturale e politica, non è più avanguardia modernizzatrice. Md sopravvive come corrente tra le correnti, anestetizzata dalle logiche corporative e spartitorie tipiche della magistratura associata. Nelle fabbriche e nelle piazze non ci sta più, resiste invece nei luoghi del potere, nel parlamentino delle toghe, l’Anm, e nel supremo organo di autogoverno, il Csm. Per mantenere influenza e peso elettorale è confluita in Area insieme ai Verdi del Movimento per la giustizia. Una scelta sofferta e contestata al suo interno. Alle ultime elezioni del Csm Area ha eletto sette membri, soltanto due di Md. “Venuta meno la strategia politica, non è rimasta che quella dei posti”, chiosa implacabile Luciano Violante che dei tempi d’oro fu autorevole esponente. Alcuni dei padri fondatori confidano di non riconoscersi nella versione attuale. E’ come se Md, con lo sguardo rivolto a un glorioso passato, non sia in grado di sintonizzarsi con la contemporaneità. Arrancando così nell’impietosa routine di una corrente tra le correnti. C’era una prima volta Magistratura Democratica, anno di nascita 1964, governo Moro di centrosinistra. Md è uno “strano animale”, nelle parole di Pietro Ingrao, “un soggetto politico-culturale: una organizzazione quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica. Organizzazione a forte politicità generale”. L’Anm, sciolta d’imperio dal regime fascista nel 1925, risorge a Roma nel ’44, e negli anni Cinquanta vede germinare al suo interno le prime “correnti” (la più antica si chiama Terzo potere). Nel ’61 una pattuglia di strenui difensori dello status quo abbandona l’Anm: sono perlopiù magistrati di Cassazione che danno vita all’Unione magistrati italiani. Tra i fondatori di Md si annoverano gli scontenti dei risultati alle elezioni del Csm nel ’63. Con il sistema maggioritario uninominale senza liste ufficiali, né Dino Greco né Adolfo Beria d’Argentine, entrambi del cosiddetto “gruppo milanese”, risultano eletti. Giovanni Palombarini è la memoria vivente di Md alla quale aderisce sin dagli albori. Ricopre gli incarichi di segretario nazionale e presidente del gruppo associato, negli anni di piombo è giudice istruttore a Padova dove segue le inchieste di eversione politica, incluso il famigerato “processo 7 aprile”. Agli inizi degli anni Novanta è eletto al Csm. Autore di poderosi volumi sulla parabola storica della corrente, per uno di essi sceglie un titolo che è un attestato di sincerità, “Giudici a sinistra”. Nel 2013, ormai in pensione, si candida alla Camera come capolista nella circoscrizione padovana per Rivoluzione civile fondata dall’ex collega Antonio Ingroia. Secondo Palombarini, la nascita di Md “non è stata il frutto del confluire più o meno spontaneo di soggetti omogenei quanto a cultura istituzionale e sentimenti politici, ma dell’aggregazione di magistrati certamente democratici, capaci di cogliere come sotto il dogma dell’apoliticità dei giudici si nascondesse una storica omogeneità con il ceto politico di governo”. Anche dopo la proclamazione della Repubblica, la Corte di cassazione, al vertice della piramide giudiziaria, si consolida come il moloch della conservazione. La giurisprudenza della Suprema corte mira infatti alla sterilizzazione della Carta costituzionale. Nel libro “La toga rossa”, scritto a quattro mani con il giornalista Carlo Bonini, il compianto Francesco Misiani, tra i fondatori di Md, spiega così l’impulso originario: “La divisione tra noi e quelli che chiamavamo gli ermellini, vale a dire i magistrati di Cassazione, nonché le stesse correnti di destra dell’Anm (Magistratura indipendente e Terzo potere, nda), era profonda. E non solo per un problema di carriere ma anche di interpretazione della legge. Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto. Al contrario, la Cassazione si poneva quale ostacolo di qualunque giurisprudenza di tipo evolutivo”. Nel febbraio ’48 le sezioni unite si schierano contro l’attuazione della legge fondamentale con una sentenza che introduce la distinzione tra norme programmatiche e precettive, statuendo che soltanto le seconde avrebbero immediata efficacia nell’ordinamento. Le norme costituzionali sul diritto allo sciopero, sulla libertà di associazione e di pensiero non rientrerebbero tra queste. A metà degli anni Sessanta una nuova generazione di giuristi progressisti, tra i quali Stefano Rodotà, Pietro Barcellona e Sabino Cassese, mette in discussione il paradigma giuridico dominante. L’obiettivo è la costituzionalizzazione del diritto, vale a dire il disgelo della Costituzione, l’affermazione cioè del suo primato e del suo carattere immediatamente normativo. Si fa largo inoltre una nuova concezione del ruolo interpretativo del giudice che non può ridursi a mero esercizio burocratico secondo il mito della neutralità della legge. Negli stessi anni il giurista Giuseppe Maranini pubblica gli atti di un convegno intitolato, provocatoriamente, “Magistrati o funzionari?”. A suo giudizio, è dovere del giudice valutare la norma alla luce del dettato costituzionale esprimendo così un preciso indirizzo di politica costituzionale. Nel ’92 Giuseppe Borré, già componente del Csm e fondatore della rivista Md Questione giustizia, afferma: “La magistratura è politica nel senso che è indipendente, non falsamente neutrale – alla vecchia maniera – ma indipendente nel senso voluto dalla Costituzione, e qui parlerei di politicità-indipendenza, politicità in quanto indipendenza. La magistratura è politica proprio perché è indipendente dagli altri poteri dello stato. Il suo essere indipendente non la colloca in un altro universo (pretesamente apolitico), ma la fa essere un autonomo e rilevante momento del sistema politico”. A partire dai primi mesi del ’64 i “magistrati democratici”, delusi dall’ordine esistente e smaniosi di una “rinascita costituzionale”, cominciano a incontrarsi in conciliaboli informali presso le abitazioni degli stessi animatori progressisti fin quando Federico Governatori, pretore del lavoro, meglio noto come il “giudice degli operai”, chiede al rettore dell’Università di Bologna un locale che possa ospitare la prima assemblea pubblica. Il 4 luglio 1964, nell’Aula magna del collegio Irnerio in via Zamboni, si compie l’atto di nascita di Magistratura Democratica. Il nome lo propone un giudice di Varese, Vincenzo Rovello. In calce alla mozione costitutiva di Md si leggono le firme di ventisette magistrati. Governatori è il primo segretario nazionale. “Di padroni a cui dobbiamo ubbidienza ce n’è uno solo, la Costituzione”, esordisce così sul primo numero della rivista Qualegiustizia di cui sarà direttore. Nella mozione conclusiva Md si caratterizza come movimento di rottura “contro il gran vuoto ideologico” della magistratura italiana. E’ compito del magistrato farsi promotore del cambiamento, non semplice burocrate addetto all’applicazione asettica delle norme. Il magistrato non è funzionario, non è “bocca della legge”. Si fa strada l’idea di una “giurisprudenza alternativa”, incentrata sul ruolo interpretativo del giudice e formalizzata nel ’71 in un libretto giallo, dal colore della copertina, intitolato “Per una strategia politica di Magistratura Democratica”. Gli autori sono tre nomi di peso: Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese. Nel documento si sostiene che è compito del magistrato formulare una “interpretazione evolutiva del diritto”: i magistrati democratici devono organizzarsi come “componente del movimento di classe” e dar vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i princìpi eversivi dell’apparato normativo borghese”. La formula apparentemente innocua – interpretazione evolutiva del diritto – servirà a giustificare la funzione di “supplenza” del magistrato che in assenza di una legge è in grado di inventarla ex novo, in presenza di essa può interpretarla in modo innovativo, alla luce dei costumi e dei mutamenti sociali in atto, fino a stravolgerne il significato letterale. E’ il caso del giudice che interpreta la legge non già per applicarla ma per cambiarla. “Era una tesi certamente forte e pericolosa – commenta Violante con gli occhi di oggi – Non rispecchiava la mia posizione, e lo stesso Ferrajoli nel tempo ha preso le distanze. Numerosi iscritti alla corrente erano attratti dall’idea che l’attività giurisdizionale servisse non già a consolidare ma a trasformare. Ricordo che Barcellona organizzò un convegno a Catania sul cosiddetto uso alternativo del diritto. Io mi rifiutai di prendervi parte”. La mole di documenti, notiziari e riviste testimonia l’effervescenza culturale di Md. La Costituzione è onnipresente, è il Santo Graal, l’articolo 3 è il dogma infallibile e non negoziabile. “Si trattava di far vivere la Costituzione nell’ordinamento”, replica Violante, iscritto Md dal 1967 fino all’uscita, nove anni dopo, in polemica per una “insopportabile ambiguità sul terrorismo”. Violante diventa l’anello di congiunzione tra la politica (di sinistra) e la magistratura (di sinistra). “Ero giudice istruttore a Torino quando m’iscrissi a Md. Il punto focale era la contestazione della neutralità del diritto e la necessità di porre al centro il sindacato costituzionale delle norme. C’era da smantellare un codice d’impianto autoritario, e noi di Md ci muovevamo nell’ottica dell’articolo 3, per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzioni di razza, sesso, età, ceto sociale”. Una formula che comportava una scelta di vita e di campo. “La tensione tra conservazione e modernità era presente nella società civile e si rifletteva in ogni ambito. In quegli anni nascono organizzazioni ispirate ad analoghe istanze di cambiamento, come Medicina Democratica, animata da Giulio Alfredo Maccacaro, e Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia”. Nel dicembre ’71 a Roma Md approva la seguente mozione: “Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe”, tale da “imporre un processo di riappropriazione popolare”. Anticapitalisti alla riscossa. “Certi toni erano un po’ sopra le righe, d’accordo. Però mi permetta di farle notare che chi era sul fronte conservatore e sosteneva la neutralità del diritto, era considerato al di sopra delle parti. Noi che stavamo dalla parte dei più deboli, dei soggetti sottoprotetti, eravamo tacciati di faziosità. La verità è che abbiamo modernizzato il paese. I primi passi per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e contro la discriminazione di genere provengono dall’attività giudiziaria dei magistrati democratici. A Torino entravamo nelle fabbriche della Fiat, ascoltavamo i lavoratori per conoscere l’organizzazione del lavoro e per sanzionare certe prassi che, al fine di velocizzare la catena di montaggio, mettevano talvolta a repentaglio l’incolumità degli operai". Ecco, le fabbriche e le piazze. Md esce dalle aule giudiziarie per sintonizzarsi con la società, per contaminare il tessuto sociale, per conquistare le casematte di gramsciana memoria. Nelle fabbriche e nelle piazze si salda l’alleanza tra magistrati di sinistra, sindacati e Pci. Il sistema giudiziario non è più visto come apparato fascista, arma delle classi dominanti e sovrastruttura borghese da abbattere. Il magistrato diventa gradualmente alleato. In seno a Md si consuma una spaccatura profonda tra i movimentisti, che guardano alla sinistra extraparlamentare e considerano il partito di Botteghe Oscure come l’alibi perfetto di un sistema che non ha alcuna intenzione di riformarsi; e i gradualisti che vedono nel Pci il riferimento naturale per un percorso che approdi progressivamente alla riforma del sistema capitalistico. Tra questi si annoverano Edmondo Bruti Liberati, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Nuccio Veneziano. Misiani, movimentista del “gruppo romano” (il più esagitato), ricorda così il viaggio in Cina nell’estate del ’76 insieme al collega togato Franco Marrone: ‘Accompagnammo una delegazione dell’allora Partito comunista d’Italia invitata dal Partito comunista cinese. Eravamo subito dopo la Rivoluzione culturale e riuscimmo persino a esaltare il processo popolare in Cina, di cui avevamo avuto un saggio all’interno di uno stadio dove vennero condannati per acclamazione quattro disgraziati. Avemmo la sfacciataggine di esaltare quel tipo di processo sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Al contrario di quanto avveniva nelle nostre aule di giustizia dove i giudici borghesi condannavano i nemici di classe”. A proposito dell’allucinazione ideologica di quegli anni Misiani ammette: “Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano agio quelle di carattere sociale”.

Come nasce la strategia politica dei compagni magistrati. Il terrorismo, le divisioni, la Costituzione come schermo per incalzare i governi. L’attivismo del partito delle procure spiegato con la storia a puntate di Md (e il suo primo processo interno), scrive Annalisa Chirico il 21 Aprile 2016 su "Il Foglio". A partire dalla fine degli anni Settanta, l’alleanza tra magistratura di sinistra e politica di sinistra si trasforma in autentica osmosi con frequenti cambi di ruolo. Il primo riguarda Luciano Violante. Membro della giunta nazionale di Md con Generoso Petrella segretario, nel ’76 Violante abbandona la corrente in segno di protesta contro l’“insopportabile ambiguità” nei confronti del fenomeno terroristico, e comincia a lavorare presso l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Nel ‘79 prende la tessera del Pci ed è eletto alla Camera dei deputati. Petrella, a sua volta, sarà senatore comunista per due legislature. “Md era spaccata al suo interno – commenta Violante – e c’era una componente movimentista, esagitata, che corrispondeva al cosiddetto gruppo romano e considerava il brigatismo rosso come una montatura a opera di apparati dello stato. Questa fazione, anti Pci, faceva capo a Luigi Saraceni, padre di una terrorista. Poi ce n’era invece un’altra che simpatizzava per il partito di Botteghe oscure”. La figlia di Saraceni è Federica, brigatista condannata in via definitiva per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona. Saraceni senior sarà deputato per due legislature nelle file dei Ds e dei Verdi. In un certo senso, per una lunga stagione Md e Pci si muovono lungo un percorso parallelo: da una parte e dall’altra, ci sono “comunisti ortodossi” e quelli affascinati dalle sirene della sinistra extraparlamentare. “Io direi piuttosto che Pci e Md –puntualizza Violante – si muovono lungo la medesima corsia ideale. Almeno all’inizio il giudice è un nemico agli occhi dell’elettorato di base. Il Pci rivendica il monopolio esclusivo della politica. Soltanto in seguito all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970, il rapporto del giudice con la base comincia a mutare”. A quel punto il giudice si trasforma nel supremo vendicatore della classe operaia contro la giustizia borghese. A un convegno di corrente Antonio Bevere, all’epoca sostituto procuratore del tribunale di Milano, detta la linea: “Il capitalismo è il vero nemico della democrazia”. 1969: l’ordine del giorno Tolin provoca una scissione interna. Il 30 ottobre di quell’anno il professore padovano Francesco Tolin, direttore responsabile della rivista Potere operaio, pubblica un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”. Il 24 novembre viene arrestato e processato per direttissima: l’accusa è istigazione continuata a delinquere. Siamo nell’Autunno caldo, a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni sindacali e politiche. L’arresto immediato di Tolin e la condanna a diciassette mesi di carcere senza condizionale suscitano aspre reazioni. Sessanta giornalisti Rai firmano un appello per la sua scarcerazione. Il 30 novembre l’assemblea nazionale di Md, riunita in via Galliera a Bologna, approva un ordine del giorno, frutto di una travagliata discussione interna, in cui si esprime preoccupazione per “un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione”. La scissione è datata 20 dicembre: presso l’albergo Minerva di Roma i moderati, bollati spregiativamente come “socialdemocratici”, esigono una retromarcia rispetto al controverso odg Tolin e accusano i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina”. Ma che cos’è accaduto nella parentesi temporale intercorsa tra l’approvazione dell’odg e la richiesta di dietrofront? 12 dicembre, strage di Piazza Fontana. La madre di tutte le stragi. Diciassette morti e quasi novanta feriti. “Resto convinto che senza quell’evento traumatico la scissione non ci sarebbe stata, o forse sarebbe stata rinviata. La bomba ebbe un effetto lacerante, suscitò reazioni umane impreviste. La posta in gioco era altissima. Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco”. Parla così Giuseppe Pulitanò, iscritto Md sin dal suo ingresso in magistratura nel 1968. Abbandona la toga dodici anni dopo quando ottiene l’agognata cattedra universitaria di diritto penale. Pulitanò, come Violante e Gian Carlo Caselli, è fautore della linea dura contro l’estremismo violento. “L’odg Tolin non era nel mio stile, era nel clima del tempo”. Quando il processo per la strage di Piazza Fontana viene trasferito a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto, la giunta milanese di Md approva un documento critico. Passano pochi giorni e il Csm apre un procedimento disciplinare nei confronti dei promotori Pulitanò, Greco e Guido Galli (che sarà ammazzato nel 1980 da un nucleo di Prima linea). “Nel ’74 fummo completamente assolti – ricorda Pulitanò, esponente della destra Md – Il clima era talmente esasperato che ogni accenno critico era visto con sospetto. E’ innegabile che tra noi ci furono degli eccessi, alcuni colleghi del gruppo romano erano letteralmente innamorati della Rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung. Tuttavia l’ambiguità di chi diceva né con lo stato né con le Brigate rosse non ebbe mai echi nella corrente. La diversità di approccio era piuttosto tra chi protestava le ragioni del garantismo in senso assoluto, e chi invece, come me e Violante, riteneva che la priorità fosse una soltanto, contrastare il terrorismo senza se e senza ma”. Così sul finire del ’69 i moderati guidati da Beria d’Argentine danno vita a una nuova corrente, Giustizia e Costituzione (dopo qualche tempo, questa prenderà il nome di Impegno Costituzionale da cui nascerà poi Unità per la Costituzione). “Andammo a cena in una trattoria dietro il Pantheon. Tre Md; freddo di fuori e freddo di dentro. Mi ricordavo il tempo di guerra, quando intorno a un po’ di brace ci si stringeva serrati per godere di tutto il poco calore che dava”, così Marco Ramat, strenuo difensore dell’odg Tolin, ricorda i minuti successivi alla rottura quando insieme a Petrella e a Luigi De Marco prendono atto della impossibilità di ricomporre la frattura. “Il nostro piccolo Vietnam”, commenta Petrella. In Md rimangono i duri e puri, quelli che non hanno paura di intervenire su un processo in corso perché nessuno deve finire dietro le sbarre per un reato di opinione.

Eppure le contraddizioni interne a Md si manifestano sin dalla metà degli Anni Sessanta con le cosiddette “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario. Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, è l’ispiratore della contromanifestazione a opera di magistrati che contestano la tradizionale e pomposa inaugurazione istituzionale. Pesce è lo stesso che muore d’infarto nel gennaio 1970, e ai funerali è presente il capo della Resistenza Ferruccio Parri. La commemorazione si tiene fuori dal palazzo di giustizia, quando la bara si allontana da piazza Cavour sventolano decine di bandiere rosse e tutti, compresi i magistrati presenti, la salutano con il pugno alzato. L’ultima pagina de L’Unità è invasa dai necrologi in suo onore, uno di essi recita testualmente: “E’ morto Ottorino Pesce, magistrato, militante della classe operaia. Lo ricordano i compagni…”, e via un profluvio di nomi illustri, tutte toghe rosse. “Io non ero d’accordo con le contro inaugurazioni, e non ero il solo”, precisa Violante. Nel ’69 le contro inaugurazioni si tengono a Roma, Milano, Bari e Bologna. Il 9 gennaio 1969 Pietro Nenni appunta sul diario personale: “Cenato da Saragat. Stamattina inaugurando l’anno giudiziario al Palazzaccio s’è trovato coinvolto anche lui in un episodio della contestazione. Avvocati, magistrati che accusano parlamento e governo per disfunzioni giudiziarie e fanno a botte tra loro sui rimedi da apportare”. Vittorio Borraccetti, già segretario di Md e membro del Csm tra il 2010 e il 2014, ha vivida memoria dell’anno 1969. “Ero appena entrato in magistratura e m’iscrissi a Md. La battaglia sul’odg Tolin era una battaglia squisitamente liberale. Volevamo non solo opporci all’arresto di una persona per un reato d’opinione ma contestavamo inoltre una norma che prevedeva l’autorizzazione della questura per la stampa di manifesti. Quel giorno a Bologna non ero presente ma ero ugualmente favorevole”. Era presente invece Violante che difende tuttora lo spirito dell’iniziativa. “Nessuna interferenza col processo in corso. Era un’autonoma presa di posizione del tutto legittima”. A Bologna c’era Libero Mancuso: “Sono tuttora iscritto alla corrente seppure in pensione dal 2006. Con l’odg Tolin rivendicavamo il diritto di critica, e prendevamo le distanze da quei giudici che lo avevano negato in un clima di intimidazione che rappresenta, scrivemmo, un grave sintomo di arretramento della società civile”. In altre parole, Md rivendica in quegli anni il diritto di contestare apertamente l’operato di alcuni magistrati in procedimenti specifici. Si celebra il processo al processo. “Sempre al fine di difendere i valori della Carta costituzionale, beninteso – rincara Mancuso – Senza partigianerie al di fuori di quella militanza”. Eccovi servita la parola chiave: militanza. Di sinistra. “Md delle origini è cosa diversa da quella attuale. Oggi assistiamo a un declino dovuto alla presenza più invasiva del correntismo quale strumento di affermazione carrieristica. Il che è avvenuto a causa della crisi delle idee, della politica e del prevalere delle correnti latrici di derive clientelari”. Mancuso, che da toga eretica di sinistra indaga sugli intrecci tra coop rosse e mafie, voterà al prossimo referendum costituzionale? “La riforma Renzi è persino più aggressiva e pericolosa della vecchia riforma Berlusconi. Non mi tirerò indietro neanche questa volta”. Di parere opposto Pulitanò che come Mancuso ha abbracciato l’attività forense: “Voterò a favore della riforma. E ritengo ragionevole non coinvolgere in questa diatriba un gruppo di magistrati associati, Md dovrebbe starne fuori. Non ne faccio un discorso di legittimità ma di opportunità, un elemento che per un magistrato conta”. O almeno dovrebbe contare. Tirarsi indietro, mai. E’ un motivo ricorrente. Chi lotta non si tira indietro. Chi è investito di una missione non si tira indietro. La svolta, come si diceva, avviene attorno all’odg Tolin: la “scissione socialdemocratica” va di pari passo con la radicalizzazione interna a Md. “Il punto è che noi siamo figli del Sessantotto ma la nostra vita ha avuto un seme radicato nella storia delle lotte del movimento operaio. E se non siamo scomparsi dalla scena politica alla pari di altre espressioni del Sessantotto è perché siamo cresciuti con quelle lotte e a fianco di essere”, scrive Francesco Misiani, storico fondatore di Md. Ma che cosa significa “essere figli del Sessantotto”? Negli stessi mesi del contestato odg Tolin a Roma due giovani del movimento studentesco sono arrestati dalla polizia. Il fascicolo è trasmesso al sostituto di turno, Franco Marrone (lo stesso del viaggio in Cina in compagnia di Misiani). Il giorno dopo il Tempo denuncia l’assegnazione del fascicolo a una toga “maoista”. Prontamente il procuratore capo gli sottrae il fascicolo e lo affida a un più mite collega. Il 12 maggio 1970 durante un convegno a Sarzana Marrone spiega alla platea che secondo un’analisi marxiana del diritto la legge consacra i rapporti di forza esistenti ma non è in grado di modificarli. Perciò, prosegue Marrone, “i magistrati sono servi dei padroni”. L’affermazione ardita gli costa un processo penale per vilipendio all’ordine giudiziario, alla fine ne esce assolto. Negli anni di piombo la corrente, muovendosi lungo la medesima “corsia ideale” del Pci, è chiamata a fare i conti con il terrorismo rosso, non laccato di rosso. Ne sa qualcosa Gian Carlo Caselli, iscritto Md sin dall’ingresso in magistratura nel ’67, tra i primi a comprendere che “non ci trovavamo di fronte a Robin Hood ma a un gruppo di assassini”. L’8 settembre 1974 i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestano a Pinerolo, vicino Torino, i capi delle Br Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le indagini sono coordinate dal pm Bruno Caccia e dal giudice istruttore Caselli. In un’intervista rilasciata a Repubblica nel 2014, Caselli rievoca un successivo incontro con Franceschini a Rebibbia: “Era un arrogante. Si dichiarò rivoluzionario di professione. E mi chiese: dottor Caselli, lei non è di Magistratura democratica? Io risposi: sì, perché? Lui era convinto che essere di Md significasse avere un atteggiamento di condiscendenza verso la violenza”. Ci volle del tempo, evidenzia Caselli, per “rompere il muro di ambiguità dei compagni che sbagliano, i complici silenzi di certi intellettuali”. Si dovette assistere alla “vergognosa campagna contro il commissario Calabresi che pagò con la vita quelle menzogne”, fin quando si ottenne “la fine delle contiguità e degli appoggi che avevano portato molti a non vedere la tempesta che stava addensandosi”. Nel ’76 Violante decide di interrompere l’iscrizione alla corrente per via dell’“insopportabile ambiguità” nei confronti della violenza armata. “Ricordo chi, come Giorgio Bocca su L’Espresso, prendeva in giro noi magistrati che istruivamo i processi contro i terroristi. Ai funerali di Casalegno, davanti alla chiesa del quartiere Crocetta, non c’era quasi nessuno”. Nel ’77 Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino, è il primo giornalista a essere ucciso da un commando delle Br. “Berlinguer parlava di fascisti rossi perché in effetti l’unica violenza che l’Italia aveva conosciuto era quella fascista. Per estirpare il fenomeno fu necessaria l’attività repressiva, e poi servirono decine di assemblee nelle sedi di partito, nelle parrocchie, nelle fabbriche per convincere l’opinione pubblica che eravamo alle prese con la violenza eversiva di sinistra”. “Il fatto terroristico – spiega Borraccetti – aiutò tutti noi a fare chiarezza al nostro interno. Ci volle del tempo, è vero, ma alla fine le zone d’ombra scomparvero e Md si schierò compatta contro il terrorismo. Molti di noi imbastirono i processi contro il terrorismo rosso e nero. Tuttavia, domando, che senso ha soffermarsi su qualche frangia facinorosa di quarant’anni fa quando poi, ai giorni nostri, si accolgono con tutti gli onori esimi intellettuali già militanti di Lotta Continua?”. Ecco, che senso ha. Nel 2013 Caselli abbandona Md in seguito alla pubblicazione di un pezzo di Erri de Luca sull’agenda annuale della corrente. “Euridice alla lettera significa trovare giustizia […]. Ho fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla”, scrive Erri de Luca. A proposito degli anni di Piombo, “si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. […] Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali”. Caselli, procuratore capo di Torino e oggi, dopo un percorso non sempre lineare, simbolo della lotta alla violenza armata in Val di Susa, sfoglia la rivista della “sua” corrente che ha deciso di accogliere il contributo “culturale” dello scrittore pasdaran no-Tav con un passato da responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. L’iniziativa appare come un duplice affronto verso chi, con indosso la toga, ha rischiato la vita per contrastare la violenza brigatista e, in tempi più recenti, ha accusato di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico i responsabili degli assalti ai cantieri di Chiomonte. E’ come se un’intollerabile ambiguità tornasse a solleticare gli istinti profondi della corrente. E non è un mistero che alcuni autorevoli esponenti, in primis Livio Pepino, contestino radicalmente l’imputazione per terrorismo. Pepino, classe 1944, ex presidente Md e membro del Csm, già direttore di Questione giustizia e co-direttore di Narcomafie (“mensile redatto in stretta collaborazione con Libera”), bolla pubblicamente l’imputazione terroristica come un “fatto di inaudita gravità”. Quando la corte d’assise di Torino condanna i quattro militanti no-Tav a tre anni e sei mesi per porto d’armi da guerra, danneggiamento seguìto da incendio e violenza a pubblico ufficiale, Pepino esulta perché i quattro sono assolti dall’accusa di terrorismo: “C’è un giudice a Torino!”. Questa volta la misura è colma. Dopo la pubblicazione dell’articolo deluchiano, Caselli non proferisce verbo, non si ferma a spiegare, non gli interessa più persuadere i colleghi che con la violenza non si scherza. Per lui la stagione Md è definitivamente chiusa. Caselli si dimette. A un anno di distanza rompe il silenzio: “Non mi preoccupa l’eventuale rinascita di un partito catacombale e clandestino come furono le Br. Mi sembra fuori dalla realtà e spero di non sbagliarmi. Mi preoccupa il ripetersi in certi ambienti intellettuali di oggi delle stesse ambiguità di allora di fronte alla violenza delle frange estreme. Mi preoccupa il ritorno, in sedicesimo, della stagione dei compagni che sbagliano. Mi preoccupano le predicazioni di intellettuali miopi e nostalgici che possono far credere a chi ha già pochi filtri critici che stia riproducendosi il clima di allora”. Gli anni di piombo. Le fratture dentro Md. Il no alle leggi emergenziali, al decreto Cossiga, all’allungamento dei termini di carcerazione preventiva. Il ’78 e l’assassinio di Aldo Moro. Il ’79 e il “processo 7 aprile” con decine di imputati per associazione sovversiva e banda armata (tra questi Antonio Negri e Giuseppe Nicotri). Il pm che coordina l’inchiesta padovana, Pietro Calogero, afferma: “Un unico vertice dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega Brigate rosse e gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alle basi dello Stato”. All’interno di Md si fronteggiano due anime: i “garantisti ortodossi” e quanti invece intendono farsi carico delle esigenze della lotta al terrorismo, anche a costo di attenuare lo zelo garantista. Borré, presidente Md dal ‘78 all’‘86 e fondatore della rivista Questione giustizia (di cui resterà direttore per quindici anni), tenta insieme al segretario nazionale Salvatore Senese -– tre legislature targate Ulivo – un delicato esercizio di equilibrio tra le divergenti spinte interne. La destra Md, capitanata da Pulitanò e Greco, aderisce alla linea dell’intransigenza. “La verità – chiosa Violante – è che, una volta che Md fece finalmente chiarezza al suo interno e ruppe ogni contiguità, diversi magistrati iscritti alla corrente diventarono bersaglio dei brigatisti”. Nel libro “Le catene della sinistra” Claudio Cerasa riporta un elenco delle vittime togate del fuoco estremista. Tra il 1976 e il 1990 ben undici pm muoiono assassinati da Br, Prima Linea e Ordine Nuovo. Tra i caduti per mano dei terroristi di estrema sinistra ci sono Emilio Alessandrini, Francesco Coco, Guido Galli e Girolamo Tartaglione. “Ripercorrendo quella sequela di morti – prosegue Violante – capisci come tra noi sopravvissuti sia nata un’amicizia speciale, un legame simile a quello che si salda tra chi combatte in trincea e riesce a tornare a casa sano e salvo. E’ questa la natura del mio rapporto con Gian Carlo”, un nome che fa il paio con Caselli. Anni Ottanta. Craxi e il craxismo. La strategia del “pentapartito”. Tutto ha inizio nel 1981 con il “patto del camper” quando, a margine di un congresso del Partito socialista italiano, il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi siglano un patto di governo, con la benedizione di Giulio Andreotti. Craxi è leader di minoranza estraneo alle due chiese, Dc e Pci, e determinato a conquistare palazzo Chigi. Nel volume “La costituzione e i diritti. Una storia italiana”, scritto a quattro mani con il collega di corrente Gianfranco Viglietta, Palombarini liquida il “decennio da bere” come contraddistinto da “un nuovo modo di gestire la cosa pubblica, disinvolto e spavaldo”. La stagione dei diritti civili degli anni Settanta – statuto dei lavoratori, divorzio, diritto di famiglia, aborto, referendum – ha comportato una mutazione sociale. “Abbiamo modernizzato il paese”, rivendica Violante. “Il paese si è modernizzato da solo – replica Pulitanò – Tra noi di Md alcuni hanno fatto bene, altri no. La storia non dovrebbero scriverla mai i protagonisti”. Quel che è certo è che l’Italia degli anni Ottanta è molto diversa da quella in cui Md ha visto la luce nel ‘64. Il disgelo della Costituzione è ormai compiuto. 14 ottobre 1980, la “marcia dei quarantamila”: a Torino impiegati e quadri Fiat sfilano a sostegno dell’azienda contro i picchettaggi che da oltre un mese impediscono l’accesso in fabbrica. La retorica del capitale contro il lavoro subisce un duro smacco. Nel 1981 dinanzi al comitato centrale del partito Craxi espone un programma “riformista” (bestemmia) che comprende, accanto al rafforzamento dell’esecutivo (seconda bestemmia), la “politicizzazione” della magistratura (e allora ditelo). Nel 1984 il governo Craxi taglia di quattro punti percentuali la scala mobile contro l’aumento galoppante dei prezzi. Berlinguer lancia il referendum abrogativo, numerosi esponenti di Md si schierano pubblicamente per il sì. Si desume che l’adeguamento dei salari all’inflazione e il potere d’acquisto dei consumatori rientrino nella missione di un vero “magistrato democratico”. I cittadini votano e la maggioranza dice no, il taglio rimane. Per giunta, Craxi è amico del “diabolico imprenditore televisivo”, Silvio Berlusconi. I pretori di Torino, Pescara e Roma ordinano la sospensione dei programmi delle tre reti Fininvest – mediante il famigerato sistema delle videocassette – perché in violazione del monopolio pubblico Rai su scala nazionale. Il governo Craxi interviene per decreto. Md protesta con toni accesi. Si materializza, per la prima volta in assoluto, la triangolazione Md-Craxi-Berlusconi. Siamo ai prodromi della guerra. Nel frattempo la vita interna della corrente è tutt’altro che tranquilla. I punti di disaccordo si moltiplicano. Alle elezioni del Csm nel 1981 il candidato Md Marrone, esponente dell’esagitato gruppo romano (“magistrati servi dei padroni”, ricordate?), è apertamente osteggiato dalla destra interna al punto da non essere eletto. Sul Manifesto le toghe Romano Canosa e Amedeo Santosuosso affermano che Md non deve più difendersi dalle accuse di politicizzazione ma da un “serpentello” interno: “Proprio gli iscritti di Md con maggiore furore e entusiasmo si sono buttati a costruire processi di terrorismo fondati prevalentemente sulla parola dei pentiti”. L’accusa per niente velata nei confronti dei colleghi inquirenti è di aver condotto trattative sottobanco con gli indagati; i due fanno esplicito riferimento al processo a carico di Marco Barbone, assassino di Walter Tobagi, e del gruppo denominato “Brigata XXVIII marzo”. Il giudice istruttore dell’inchiesta è Elena Paciotti, storica toga Md, in magistratura dal 1967, prima donna a ricoprire l’incarico di componente del Csm. Paciotti è per due volte presidente dell’Anm, nel ’99 è eletta eurodeputata nelle liste dei Democratici di sinistra. Canosa e Santosuosso subiscono un procedimento disciplinare che si conclude con un ammonimento per entrambi. Al congresso di Sorrento nel 1984 Caselli contesta pubblicamente il segretario nazionale Palombarini che nella sua relazione mette in evidenza le “smagliature sostanzialiste” ravvisabili, a suo dire, nei processi a carico dei presunti terroristi. Per Caselli invece non c’è stato alcun “coinvolgimento emergenziale”: i magistrati hanno svolto soltanto il proprio dovere. Ora che il disgelo della Costituzione è compiuto, ogni tentativo di modificare la legge fondamentale va scongiurato. I princìpi costituzionali finalmente vivono nell’ordinamento, la missione del magistrato democratico consiste adesso nella salvaguardia del carattere immutabile della Costituzione. Il magistrato democratico è il guardiano della sua impermeabilità a qualunque cambiamento. Che il premier si chiami Craxi, Berlusconi o Renzi, la parola d’ordine è una soltanto, anzi due, “resistenza costituzionale”, vale a dire strenua difesa del progetto del costituente repubblicano. “Un progetto che implica il conflitto verso l’esistente e nel quale l’uguaglianza sostanziale è presupposto di una reale democrazia politica”, recita così la mozione conclusiva del congresso di Palermo, ottobre 1988. Già nel 1982, anno di nascita della rivista Questione giustizia, il neodirettore Borré mette in guardia da “emergenti prospettive di riforma istituzionale”, e nel primissimo editoriale elenca i tre punti caratterizzanti la “scelta di fondo” della corrente: in primis vi è l’affermazione dell’articolo 3, emancipazione ed eguaglianza, come “parametro di riferimento per gli orientamenti legislativi e giurisprudenziali”; segue l’affermazione dell’indipendenza della magistratura come “insostituibile strumento di controllo diffuso della legalità”; in ultimo, l’esigenza di un processo garantito che assicuri il rispetto dei valori della persona. Dunque l’articolo 3 deve servire da bussola non soltanto per il magistrato ma anche per il legislatore. Quanto al controllo di legalità Claudio Martelli, già ministro della Giustizia e artefice della nomina di Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali, osserva: “Siamo sicuri che al magistrato spetti il cosiddetto controllo di legalità? O forse compito della magistratura è piuttosto quello di esercitare la repressione dell’illegalità? Non è soltanto un banale equivoco semantico in cui molti continuamente incorrono. Arrogandosi il compito non di reprimere le violazioni di legge di chi delinque ma di controllare la legalità dei comportamenti di tutti, questa parte della magistratura non solo dilata abusivamente le proprie competenze e il proprio potere, ma finisce con il sindacare e minacciare le libertà di tutti e l’equilibrio dei poteri costituzionali”. A metà degli anni Ottanta Md ricerca nuove frontiere. La vocazione alla lotta politica trova sfogo solo se c’è un nemico da fronteggiare. Il vecchio apparato fascista è ormai un arnese della storia. Nel 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale ispirato a una riforma in senso liberale: si passa dal rito inquisitorio – d’impronta fascista, con l’istruttoria segreta dominata dalle figure del giudice istruttore e del pubblico ministero, con scarsa o quasi nulla presenza della difesa – al rito accusatorio incentrato sulla formazione della prova in dibattimento attraverso il contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo. “Nel mondo che cambia Md deve individuare nuovi terreni di lotta. Li identifica in Tangentopoli e nell’antimafia’, Violante la mette così, difficile dargli torto. Che cos’è d’altronde la mafia se non uno dei volti demoniaci del potere costituito? Che cos’è la corruzione politica se non la prova regina di un sistema di potere da abbattere? Legalitarismo e antimafia sono la bussola ideologica che traghetta Md negli anni Novanta. Su ciascuno di questi fronti la corrente si scontra con un implacabile picconatore, il capo dello stato (e supremo vertice del Csm) Francesco Cossiga. Facciamo un passetto indietro. 1987, referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “referendum Tortora”. L’opinione pubblica è scossa dal caso nazionale di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo ingiustamente accusato, detenuto in carcere, processato e infine assolto. “Dunque, dove eravamo rimasti?”, con queste parole il 20 febbraio 1987 Tortora torna a condurre il suo Portobello, accolto dal pubblico con una lunga e commossa standing ovation. In vista del referendum radical-socialista nel novembre dello stesso anno, che cosa fa Md? Decide di condurre una battaglia solitaria e corporativa contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. L’appello della corrente è pubblicato dapprima in sordina, con cautela, su quotidiani minori; il giorno dopo, Franco Ippolito, all’epoca segretario nazionale, riceve una telefonata del venerato maestro Norberto Bobbio che gli chiede di poter apporre la propria firma in calce al manifesto. Come prevedibile, l’adesione di Bobbio suscita una pioggia di consensi: si uniscono intellettuali doc come Massimo Cacciari, Natalia Ginzburg, Pietro Scoppola. La tesi, ben nota anche ai lettori contemporanei perché puntualmente riproposta a ogni cenno di riforma, è che il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una seria minaccia all’indipendenza e un inaccettabile strumento di delegittimazione della funzione giudiziaria. I cittadini italiani però la pensano diversamente: l’ottanta percento dei votanti si esprime per il sì. Il comitato del no, da Bobbio in giù, esce sconfitto. L’anno seguente il Parlamento approva la legge Vassalli, modesto tentativo di introdurre un meccanismo che consenta alla persona danneggiata di rivalersi, seppur indirettamente e attraverso numerosi filtri di ammissibilità, nei confronti del magistrato reo di aver agito con dolo o colpa grave. Le cinque condanne emesse dal 1989 al 2012 valgono più di mille parole. Al congresso di Sorrento, 1984, Md approva una mozione che istituisce un gruppo di studio con l’incarico di occuparsi, sentite bene, di pace e relazioni internazionali. S’inaugura il cosiddetto “fronte straniero”. Per Md è venuto il tempo di affermare make peace not war. La svolta irenista sopravvive fino ai giorni nostri come una vena pulsante nel corpaccione invecchiato di Md. Nel 1985 una truppa di magistrati multinazionali fonda a Strasburgo l’Associazione dei magistrati europei per la libertà e la democrazia, sigla Medel. Md ne è la costola italiana. La missione internazionalista-pacifista-terzomondista non conosce tregua: si rincorrono gli appelli e le manifestazioni contro gli Stati Uniti complici delle dittature sudamericane e contro i missili F16 – pure questi a stelle e strisce – sul suolo italiano. E se certe pattuglie di magistrati conducono “spedizioni esplorative” in Cile per verificare “lo stato delle garanzie” nei processi agli ex ministri del governo Allende, altre volano a Gerusalemme per una ‘ricognizione delle violenze e dei rastrellamenti’ nei territori arabi occupati. A Roma nell’89 la corrente organizza un convegno per perorare la causa del riconoscimento della Palestina. Non è Amnesty International, è Md. L’acme si raggiunge nel gennaio ’91 quando la corrente approva un documento che condanna aspramente da una parte l’annessione irachena del Kuwait, dall’altra la guerra del Golfo in quanto “rottura sia dell’ordine internazionale sia dell’assetto costituzionale italiano”. Peccato che l’Italia, con un atto formale del suo Parlamento, abbia aderito allo schieramento guidato dagli Stati Uniti, la flotta nazionale è schierata nel golfo persico, il paese partecipa ai bombardamenti. La reprimenda più indignata contro l’intollerabile invasione di campo proviene del capo dello stato che invia al vicepresidente del Csm Giovanni Galloni una lettera sferzante: oltre alla viva preoccupazione “al pensiero che a siffatti pubblici dipendenti è commessa la funzione di promuovere l’azione penale e di giudicare”, Cossiga comunica di aver prontamente segnalato la vicenda ai titolari della funzione disciplinare. L’invito presidenziale non ha alcun séguito. 11 settembre 2001, l’attacco alle Torri gemelle. L’una implode, inghiotte se stessa. L’altra si fonde come un panetto di burro sul fuoco. Si levano venti di guerra, il governo Berlusconi non farà mancare il suo apporto alla coalition of the willing guidata da Bush jr. Nel gennaio 2003 a Roma Md approva una mozione congressuale tematica: “Gli incombenti pericoli di guerra e l’inconciliabilità dell’uso brutale della forza con la legalità e la democrazia, nella sua dimensione sostanziale di garanzia e promozione dei diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla pace, impongono ai giuristi e ai giudici di ricordare che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Toh, l’articolo 11 della Costituzione viene in soccorso. L’inchiostro Md percorre decine di articoli e appelli contro la guerra preventiva, la prigione di Guantanamo, le pratiche di waterboarding e alimentazione forzata…Pace e diritti umani. Ai girotondi degli indignados nostrani fanno capolino noti esponenti della corrente, mischiati nella folla, qualche volta sul palco ad aizzare le folle. Del pool di Mani pulite fanno parte due pesi massimi della corrente, Gherardo Colombo e Gerardo D’Ambrosio. A distanza di cinque mesi dall’arresto di Mario Chiesa, il primo confida: "Prima arriviamo a voltare pagina, a dichiarare defunto questo sistema e a instaurarne un altro, e meglio è". Ma cosa direbbe il Picconatore della magistratura di oggi? Un’intervista onirica Tra moralismo e intercettazioni, non sappiamo più che cosa vogliamo dai politici Viva Napolitano (soprattutto quando picchia) Sotto il palazzo di giustizia si levano le grida: “Borrelli, facci sognare’. Come riporta Mattia Feltri nel libro ‘Novantatré L’anno del terrore di Mani pulite’”, il 3 giugno 1993 a Saint Vincent nel corso del convegno “Il pubblico ministero oggi” Francesco Saverio Borrelli spiega alla platea: “Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”. Borrelli, mai iscritto a Md, dirige il pool di Milano. Dopo l’uscita del libro di Feltri jr. lo scorso gennaio, il magistrato smentisce di aver mai pronunciato la frase incriminata che l’Ansa e il Giornale riportano testualmente il 4 giugno successivo. Tangentopoli fa emergere un singolare paradosso tutto interno a Md. La corrente che è super garantista verso i brigatisti negli anni di piombo tace sugli eccessi processuali e giustizialisti nei confronti degli inquisiti di Tangentopoli. Le cautele agitate da autorevoli esponenti contro la “deriva sostanzialista” negli anni della lotta al terrorismo, anche a costo di emarginare i colleghi personalmente esposti nell’attività repressiva, scompaiono. Verso i politici e gli imprenditori accusati a vario titolo di mazzette e corruzione, l’ortodossia garantista non emette un fiato. Sembra che anche per Md il richiamo alle garanzie, tanto in voga nei confronti dei terroristi, vent’anni dopo sia diventato di colpo obsoleto, per niente in sintonia con lo spirito del tempo. Eccessi investigativi, manette preventive, confessioni estorte, suicidi eccellenti, interrogatori senza avvocato, circo mediatico-giudiziario: il tutto rientrerebbe in un rito encomiabile per i nuovi canoni Md. Il rito ambrosiano. Il 3 agosto 1993 sulle colonne de L’Unità Violante, nelle vesti di deputato e presidente della Commissione antimafia, evidenzia l’esigenza di ristabilire l’equilibrio tra i poteri: è doveroso “vietare ai magistrati, con adeguate sanzioni disciplinari, di dare interviste o rilasciare dichiarazioni sui procedimenti che essi stanno conducendo; il magistrato ha gli stessi diritti di qualsiasi cittadino tranne che in relazione agli specifici processi che sta conducendo: in quella materia deve parlare soltanto con i propri atti, non attraverso i telegiornali”. “Il magistrato – prosegue l’ex Md – non persegue finalità politiche come l’abbattimento del sistema politico. Questo può diventare un effetto della sua azione ma non può costituirne il motivo ispiratore”. Il monito di Violante sembra confermato nella sua funesta previsione a distanza di nove anni, nel 2002, dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che per Violante conia il soprannome di “piccolo Vishinsky”, il grande accusatore staliniano (pur intrattenendosi spesso con lui a colazione alle sei e trenta del mattino). In un’intervista al Giornale Cossiga dichiara: “Se Tangentopoli fosse una ordinaria storia di ladri comuni sarebbe grave ma non gravissima. Tangentopoli invece è gravissima perché è stata costitutiva di un regime politico”. L’inchiesta, secondo il ruvido picconatore, ha agito come una “valanga che ha sconvolto gli equilibri politici trasformando tra l’altro gli sconfitti della storia in vincitori e spingendo nel girone infernale dei criminali coloro che come Craxi avevano visto giusto e si erano collocati da tempo dalla parte della ragione”. Agli occhi di Md Cossiga è il diavolo, l’anti-Pertini, l’alleato di Craxi nel progetto di smantellamento delle prerogative giurisdizionali. Con Cossiga capo dello Stato e vertice del Csm, dal 1985 al 1992, il conflitto istituzionale raggiunge l’apice. Le avvisaglie di un’incompatibilità insanabile sono chiare sin dal principio. Pochi mesi dopo l’elezione quirinalizia, i membri del Csm chiedono di incardinare in plenum un dibattito sulle dichiarazioni di Craxi reo di aver difeso gli esponenti dello Psi e il direttore de L’Avanti Ugo Intini condannati per diffamazione a mezzo stampa ai danni del sostituto milanese Armando Spataro. “E’ stato scritto un capitolo oscuro della vita della democrazia italiana. Noi confermiamo, uno per uno, i giudizi che i nostri compagni condannati hanno espresso nei confronti dell’operato della magistratura”, asserisce il premier Craxi riferendosi alle critiche mosse a Spataro e alla procura per la condotta processuale nel caso dell’omicidio di Walter Tobagi. I magistrati non gradiscono, i componenti del Csm vogliono intavolare un dibattito sulle ardite affermazioni del presidente del Consiglio. Cossiga si oppone e, senza giri di parole, lo vieta. “Decido e dispongo”, è la formula che usa in questo e in molti altri frangenti. E’ il suo stile. Md denuncia immediatamente la lesione dell’onore giudiziario e la deriva autoritaria del Capo dello stato. 1990, il giudice istruttore di Venezia Felice Casson bussa alla porta del Quirinale perché, nell’ambito dell’inchiesta Gladio, tra eversione nera e servizi deviati, desidera interrogare il presidente della Repubblica in qualità di testimone. La richiesta perviene alla segreteria della presidenza. L’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani ha rivelato al giudice che sarebbe stato proprio Cossiga, nella veste di sottosegretario alla Difesa, a disporre nel 1969 gli omissis sul piano Solo e sulla rete Stay behind. Come riporta Gianni Barbacetto nel libro “Il Grande Vecchio”, Cossiga è furibondo: “Quel giovane ha in mente più le fumoserie del ’68 che la Costituzione e i codici”. “Nel ‘68 avevo 14 anni ed ero in collegio dai salesiani”, replica a distanza Casson. Dopo il rifiuto di Cossiga, il magistrato intervistato da Repubblica commenta: “Non so cosa farò in futuro”. Intende dire che dopo aver sondato la disponibilità del capo dello Stato potrebbe convocarlo formalmente?, incalza il cronista. “Non ho affatto detto questo – precisa lui – Ho voluto dire soltanto che, siccome la mia inchiesta va avanti, non posso anticipare i passi che farò”. In realtà la tensione con Cossiga cova da lungo tempo. Nel giugno dello stesso anno sulla Nuova Venezia Casson scrive: “Mi chiedo come mai l’onorevole Cossiga non abbia mai risposto nulla a coloro che, pubblicamente, hanno parlato dei suoi rapporti con Licio Gelli”, tanto basta per chiedere al ministro Vassalli un procedimento disciplinare per vilipendio del Capo dello stato. Intanto la bufera politica divampa, da più parti si denuncia l’inopportunità dell’iniziativa. Il ministro della giustizia Vassalli, ravvisando diverse anomalie processuali, avvia accertamenti preliminari nei confronti del magistrato che ha preteso il coinvolgimento della più alta carica dello stato. Md prende le difese del giudice (che pure non è un suo iscritto). L’Anm si schiera compatta con lui. Dopo il trambusto mediatico e istituzionale, il filone Gladio passa ai giudici romani e Casson torna a occuparsi di tangenti. Nel 2005 si candida sindaco di Venezia ma è sconfitto da Cacciari. Dal 2006 siede ininterrottamente in Parlamento nelle file del Partito democratico. Torniamo all’interrogatorio del capo dello stato. Cossiga rispedisce l’invito al mittente (“E’ una vergogna per lo stato di diritto che Casson rimanga ancora giudice. E’ un ragazzaccio al quale bisognerebbe togliere la marmellata”). Anno 2014, l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, anima dell’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia con un passato in Md, plaude al “momento di democrazia” celebratosi con la deposizione di Giorgio Napolitano al cospetto degli inquirenti palermitani. Che democrazia coi fiocchi. L’udienza, in una sala del Quirinale, dura oltre tre ore. “Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?”, Napolitano sdrammatizza e risponde a ogni domanda, anche a quelle poste dall’avvocato di Totò Riina e giudicate inammissibili dalla Corte. Il braccio di ferro con la procura palermitana è cominciato oltre due anni prima quando la procura, nell’ambito della stessa inchiesta, ha intercettato alcune conversazioni telefoniche intercorse tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il Quirinale chiede la distruzione dei nastri. La procura si oppone. Ne scaturisce un conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta che nel dicembre 2012, accogliendo il principio dell’assoluta inviolabilità della riservatezza quirinalizia, ordina la distruzione delle conversazioni illegalmente captate. 28 luglio 2012. Napolitano al funerale del suo consigliere Loris D’Ambrosio. Due giorni fa, l’ex capo dello stato ha ricordato le particolari circostanze che portarono a quella morte. “Spesso vengono pubblicate intercettazioni manipolate, pezzi di conversazioni estrapolate dal contesto. Com’è successo al mio consigliere D’Ambrosio che ci ha rimesso la pelle con un attacco cardiaco. E io certe cose non le dimentico”. “Siamo cornuti e mazziati, le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto”, reagisce così Ingroia in spedizione guatemalteca per conto dell’Onu, di lì a poco scenderà in campo (alle politiche dell’anno seguente si candida premier con Rivoluzione civile). In una recente intervista a Libero, novembre 2015, lo stesso Ingroia, ora dedito all’attività forense, a proposito del misterioso contenuto di quelle telefonate fa un mezzo annuncio: “Probabilmente un giorno lo racconterò: credo che tutte le verità di uno stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’intervista. Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione”. Ha in mente un titolo?, gli domanda il cronista. “Potrebbe essere: Caro Giorgio, come stai?”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ordina un’ispezione presso la procura palermitana per la verifica della “effettiva documentazione e corretta custodia delle intercettazioni”. Ingroia è costretto a ridimensionare: ‘Al romanzo ci sto lavorando. Il libro parlerà della storia di una trattativa tra la mafia e lo stato di un paese immaginario e recherà la classica dicitura ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale. Io non ho mai detto e non volevo dire che avrei tirato fuori copia delle intercettazioni”.

Perché i magistrati vogliono fermare Renzi. “C’è il rischio di una democrazia autoritaria”. Il magistrato Morosini, consigliere del Csm, Md, vuota il sacco con il Foglio e spiega da dove nasce lo scontro tra il presidente del Consiglio e le procure, scrive Annalisa Chirico il 5 Maggio 2016 su "Il Foglio". Roma. “Dottoressa, mi scusi, il dottor Morosini l’ha vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla”. Ah, il dottor Morosini, che piacere. Roma, piazza dell’Indipendenza, sede del Consiglio superiore della magistratura. La cronista si dirige verso l’uscita, il portone di Palazzo dei marescialli è già alle sue spalle quando un giovane assistente la invita a raggiungere Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm in quota Magistratura democratica. Morosini è uomo affabile e garbato, da gip a Palermo ha rinviato a giudizio gli imputati nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia. “Buongiorno, dottore”, la cronista si accomoda sul divanetto del suo ufficio. Innanzitutto, come sta? “Che vuole che le dica, non vedo l’ora di tornare in trincea. Qui è tutto politica. La politica entra da tutte le parti: le correnti, i membri laici (quelli eletti dal Parlamento, dovrebbe vedere come sono compatti in tempi nazareni…), dall’esterno, da tutte le parti”.  Così avete concluso una bella infornata di nomine, immagino le pressioni. “Da tutte le parti. Persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Perché sulla Costituzione bisogna fermare Renzi. La linea ufficiale di Magistratura democratica sul referendum Pm pronti ad arrestare il governo Un dubbio: chi c'è dietro Legnini? Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”. Dottore, lei dovrebbe ribellarsi. “Io, a fine mandato, me ne torno in Sicilia a fare il gip. Adoro il mare e la qualità della vita in Sicilia”. Sì, bella la Trinacria, ma diciamolo: il processo sulla presunta trattativa non sta andando a gonfie vele. “Va a rilento, è vero, la sentenza di primo grado è prevista per la fine del prossimo anno. I pm non hanno osato abbastanza”. Ah, dovevano osare di più? “Certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi a sufficienza. Io resto del parere che la trattativa c’è stata”. Torniamo al Csm: l’ex procuratore capo di Bolzano, Cuno Tarfusser, oggi giudice a L’Aja, ha lamentato di essere stato “dimenticato”: lui si è candidato ma nessuno l’ha audito. “Tarfusser non ci voleva venire in Italia, ha ancora da fare in Olanda. Si è trattato di sua negligenza: lo hanno convocato per un giorno ma non poteva. E comunque vi scandalizzate per questa storia che è nulla rispetto a quello che accade qui dentro”. Il colloquio sta assumendo i contorni di una seduta psicoterapeutica, Morosini ha le maniche della camicia arrotolate, chi scrive apre il taccuino e comincia ad appuntare. Eccoci, la ascolto. “La prossima settimana si dovrebbe risolvere la partita di Milano. Lì si rischia di designare al vertice della procura il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, si rende conto? Non sarebbe un bel segnale per l’indipendenza della magistratura. Il dottor Melillo lavora a stretto contatto con il ministro Orlando. L’alternativa è Francesco Greco, magistrato simbolo di competenza indiscussa”. Ecco, un’altra figura simbolo di Tangentopoli insieme al neopresidente dell’Anm Piercamillo Davigo: non sarà troppo? “Condivido ogni parola di Davigo, c’è solo una parte mancante nel suo discorso: anche noi magistrati dobbiamo fare autocritica. Pensi allo scandalo Saguto a Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. C’è una questione morale anche dentro la magistratura”. All’interno del Csm ve ne state occupando? “Qui si parla solo di nomine. E’ tutto politica, gliel’ho detto. Ora io sto lavorando a un parere che il Csm presenterà al Parlamento contro l’emendamento Ferranti che intende sopprimere il tribunale dei minori. Sono contrario perché è un settore delicato che necessita di una formazione specialistica”. Beh, si sta occupando di una questione concreta, è contento? “Il parere sarà ignorato. Decide il Parlamento, mica noi”. Di solito in democrazia decide chi è eletto. “Bisogna guardarsi bene dal rischio di una democrazia autoritaria. Un rapporto equilibrato tra Parlamento e organi di garanzia va preservato. Per questo al referendum costituzionale il prossimo ottobre bisogna votare no”. Md, la sua corrente, ha aderito ufficialmente al comitato di Pace e Rodotà. “Ho appena comunicato alla segreteria centrale le mie prime disponibilità”. Siete organizzati militarmente. “Ognuno trasmette le proprie date, certo. Io copro tre regioni: Lazio, Sicilia ed Emilia Romagna”. Complimenti. “Gireremo il paese in lungo e in largo. Ma alla fine vincerà Renzi. Vince sempre lui”. Vince chi convince, dottore, ma lei non si abbatta, magari alla fine vincete voi. “Se passa la riforma costituzionale, abbinata all’Italicum, il partito di maggioranza potrà decidere da solo i membri della Consulta e del Csm di nomina parlamentare. Renzi farà come Ronald Reagan, una bella infornata autoritaria di giudici della Suprema Corte allineati con il pensiero repubblicano su diritti civili, economia… Uno scenario preoccupante”. Lei è un irriducibile antiliberista. “Io sono per una sinistra sociale che pensi alle persone svantaggiate, ai pensionati, agli immigrati…”. Il Movimento per la giustizia, che con Md è confluito in Area, non ha aderito al comitato per il no. Continuate a vivere da separati in casa? “C’è freddezza ma Armando Spataro ha già detto sì, lui non si tira mai indietro”. Tornando al governo, al di là delle parole e dei toni del premier, qual è la riforma del governo che, a suo giudizio, ha inciso sulla professione? Morosini esita, volge lo sguardo al soffitto, si risistema sulla poltrona e poi prende fiato: “In realtà nessuna”. Sulla responsabilità civile dei magistrati Davigo ha detto: “L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza”. “In effetti – prosegue Morosini – anche io pago un po’ di più, bazzecole. Per il resto non mi pare che ci siano effetti rilevanti”. E se le dico “taglio delle ferie”? “Avevamo 45 giorni di pausa, che vuole che sia. Poi noi lavoriamo spesso pure da casa. In un periodo di sacrifici per tutti l’ho trovato, tutto sommato, uno sforzo accettabile”. Più che i fatti, vi disturbano le parole del governo. “E’ la forma che proprio non va. Le misure su responsabilità civile e ferie sono state presentate come una rivincita della politica nei confronti della magistratura, una logica retaggio del ventennio berlusconiano”. Questi fiorentini peccano di arroganza? “Eh, no, il problema è che sono dei mestieranti, buoni a gestire il potere. Che discorso di prospettiva può fare uno come Luca Lotti? E vogliamo parlare della Boschi? Se uno la accosta ad altre personalità impegnate sul fronte delle riforme costituzionali, ad Augusto Barbera o a Giuliano Amato, vengono i brividi”. Eppure il governo rivendica di aver aumentato le pene per i corrotti e ha nominato un magistrato al vertice dell’Anticorruzione. “Lasci perdere. Per noi questo genere di commistioni inquina l’immagine di indipendenza della magistratura”. Raffaele Cantone si è attirato un po’ di umane invidie, non trova? “Lui, come Gratteri, è un uomo Mondadori. Non so se mi spiego”. Si spieghi si spieghi. “Quando firmi libri Mondadori, l’azienda ha interesse a trasformarti in un personaggio per vendere più copie. Ti invitano in tv, diventi un volto noto e poi la politica ti chiama”. Secondo lei, Cantone ce lo ritroviamo candidato? “E’ l’anti-Renzi perfetto, c’è da capire se avrà la stoffa del politico. Renzi, gli va riconosciuto, si è gettato senza rete contro l’apparato del suo partito, ha perso le primarie al primo tentativo, è un animale politico”. Lei era un elettore dei Ds, è un po’ nostalgico, lo ammetta. “Mi sento un esule in patria. Renzi ha i suoi voti, c’è poco da fare. Chi vuole che voti per Matteo Orfini o per Stefano Fassina?”. Non lo chieda a me. “Un tempo la politica ruotava attorno a personalità come Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Massimo D’Alema non spicca per simpatia ma rimane un fuoriclasse. Oggi nel Pd c’è un’enorme questione morale. Ha visto che è successo a Lodi?”. Un sindaco si ritrova dietro le sbarre per una gara da 5mila euro: non sarebbe meglio aspettare le condanne? “Mi conosce, sa come la penso. La carcerazione preventiva dovrebbe essere extrema ratio”. Eppure, quando il giorno successivo al nostro incontro il Pd porta il caso al Csm giudicando l’arresto una misura abnorme, Morosini, insieme agli altri eletti di Area, insorge in una nota: “Parole inaccettabili. Un’indebita interferenza sull’autonomia e la serenità dei magistrati”. Tornando alla nostra conversazione, Morosini rincara: “Il principale partito di governo è investito dalle inchieste, pure in Campania. Io vengo dall’Emilia Romagna dove le reti corruttive tra burocrazia amministrava e imprenditori sono state occupate da ‘ndranghetisti e camorristi”. La moralità può essere monopolio di un partito o di una categoria professionale? “Non dico questo. Io ci metto dentro tutta la classe dirigente italiana, inclusi i magistrati”. La sensazione, dottor Morosini, al termine della nostra “seduta”, è che una parte della magistratura, certi magistrati, siano fortemente politicizzati. Anche questo è un pericolo per la democrazia. “Gliel’ho detto: qui tutto è politica. Io volevo questo incarico perché per uno come me, che ha sempre fatto politica associativa, è un coronamento. Ma non vedo l’ora di tornare a fare il giudice”. Intanto, nell’attesa, Morosini scalda i motori per il tour referendario. Lei, antiberlusconiano com’è, condurrà una battaglia fianco a fianco con Berlusconi. “Io lotto non con Berlusconi, ma per la Costituzione”.

 “Fanno meno danno cento delinquenti che un cattivo giudice.” (Francisco de Quevedo, scrittore e poeta spagnolo del XVII sec.).

Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo, scrive Michele Ainis il 3 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «E tu, che lavoro fai?». «Il tuo». Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti. Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare. E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso.

"In Italia il partito dei giudici fa e disfa le leggi da decenni". L'ex senatore: «Le continue invasioni di campo non nascono per caso I magistrati si sentono depositari della volontà popolare, un'anomalia», scrive Stefano Zurlo, Sabato 23/04/2016, su "Il Giornale". Prende una sentenza del 2009. E legge il passo decisivo in cui la Cassazione rivendica, testualmente, «la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cosiddetta giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto». «Ecco - riprende Giuseppe Valditara, ex senatore di Fli e professore ordinario di Diritto romano all'università di Torino - la Suprema corte ci dice che il giudice è una fonte autonoma di diritto. È sconvolgente, capisce? Perché solo in Italia la magistratura arriva a concepirsi come soggetto normativo che affianca e sostituisce il legislatore. Le leggi, per capirci, le fa il Parlamento, ma la Cassazione si mette sullo stesso piano. Succede solo nel nostro Paese, ma la nostra storia è un susseguirsi di anomalie, una più inaccettabile dell'altra. Tutto si tiene». Tutto si spiega. Anche le feroci polemiche di queste ore. Piercamillo Davigo, neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati, parla al Corriere della Sera e liquida la nostra classe dirigente: «I politici rubano più di prima, ma adesso non si vergognano». Scintille e ancora scintille sullo sfondo di un conflitto fra poteri che va avanti da troppi anni. Valditara ha appena scritto il libro Giudici e legge che vorrebbe essere una meditazione scientifica e tecnica sulla magistratura tricolore, ma basta sfogliare quelle trecento pagine dense di citazioni per incrociare l'attualità bruciante, le polemiche chi si ripetono sempre uguali, le esternazioni del partito dei giudici e di tutto l'armamentario del giustizialismo italiano.

Professor Valditara, perché parla di anomalie italiane?

«Perché le continue invasioni di campo delle toghe non nascono per caso».

Più d'uno a sinistra ci aveva spiegato che i giudici alzavano la voce per rispondere alle provocazioni e agli sconfinamenti di Berlusconi.

«Ma no. Quella è una battaglia dentro una guerra molto più lunga e complessa. Bisogna tornare indietro agli anni '50».

No, un attimo, partiamo dalla diagnosi: qual è la malattia?

«Gliel'ho detto: i giudici italiani si considerano in qualche modo i depositari della volontà popolare e di fatto scrivono e riscrivono le leggi, le interpretano, le disapplicano, fanno un po' quello che gli pare».

Non le pare di esagerare?

«Ma no. Sono loro a parlare di tutte queste cose. Prendiamo il testo della norma sulla legittima difesa, modificato nel 2006».

D'accordo, ma che c'entra?

«C'entra perché la modifica è stata di fatto annullata dai giudici che, interpretando le parole, spesso finiscono per rimettere il padrone di casa che si ribella ai ladri sul banco degli imputati. L'esatto opposto di quel che voleva il legislatore».

Ma come è possibile?

«Non solo è possibile, questo è solo un episodio dentro una strategia molto più aggressiva».

Addirittura?

«La sentenza che riguarda il rapporto fra la Renault e le concessionarie arriva ad un punto estremo: il giudice è autorizzato a modificare il contratto fra le parti. Non so se ci rendiamo conto della portata di questa considerazione: c'è un contratto e la toga lo modifica in base a sue valutazioni. Altro che equilibrio fra i poteri. Qua il partito dei giudici fa e disfa a suo piacimento. E d'altra parte, la sentenza numero uno della Corte costituzionale, nel 1956...»

Si fermi, non possiamo tornare all'ormai lontano 1956.

«E invece dobbiamo. Perché già quel lontanissimo verdetto dice che le norme della Costituzione non hanno un valore solo programmatico. E dunque in questo modo si scardina un'altra porta e si apre un varco enorme: gli articoli della Carta, che hanno un indirizzo politico, vengono applicati al caso concreto dal giudice che quindi esce dal recinto tecnico e fa politica, saltando la legge ordinaria. Siamo all'interpretazione costituzionalmente orientata».

In concreto?

«Per fare un esempio paradossale il giudice potrebbe arrivare ad annullare un contratto di affitto».

E perché?

«Perché potrebbe giudicare troppo alto il canone in relazione all'articolo 2 della Costituzione e dunque al dovere di solidarietà politica, economica, sociale».

Dunque, con la sentenza del 1956 i giudici cominciano a fare politica?

«Certo. Si avvia quel percorso perverso che arriva fino al verdetto che ricordavo del 2009. Con tutte le conseguenze che conosciamo».

Sia più esplicito.

«Solo in Italia la magistratura è organizzata per correnti che sembrano clonare i meccanismi e le divisioni del Parlamento».

Siamo a Magistratura democratica, alle toghe rosse...

«In proposito c'è un testo esemplare del 1970 di Franco Marrone. Marx ha affermato - nota Marrone - che il diritto non dà niente, ma sanziona solo ciò che esiste. Che cosa esiste attualmente nella nostra società? Esiste il dominio di una classe, quella borghese, sulle altre. Chiaro? Il resto è solo uno sviluppo coerente di quel programma: un'oligarchia al posto della democrazia».

Imprese, fisco, pubblico impiego: un Paese governato dai giudici. Le toghe stravolgono la volontà del Parlamento interpretando le leggi. Dai casi Ilva e Fincantieri alle tasse per le scuole cattoliche, gli ultimi pasticci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 28/07/2015, su "Il Giornale". Complici le troppe vigliaccherie del Parlamento i giudici ormai dettano legge. L'incapacità politica di regolare certi fenomeni porta a norme frutto di compromesso che lasciano ampi spazi d'interpretazione alla magistratura. E le toghe, sempre più spesso, ne approfittano per sconfinare dai loro compiti e arrivare anche a sovvertire la volontà del legislatore. Dà una mano il quadro europeo, che fornisce a volte la direttiva giusta per piegare la norma in un senso o nell'altro. È storia di tutti i giorni. Da Corti e Tribunali arriva una lettura delle leggi che determina conseguenze, talvolta contraddittorie, nella vita dei cittadini. Al giudice tocca la parola «finale» sulla legge Severino e il caso De Luca come sull'Ilva di Taranto, sul cambiamento di sesso e sulle pensioni, sulle tasse per le scuole cattoliche e sull'immigrazione, sulla fecondazione artificiale e sui contratti dei calciatori. Indicano la strada della legge Corte costituzionale, Cassazione, Tar. Anche la singola toga di Canicattì sa di poter conquistare la prima pagina con una sentenza «innovatrice», un'interpretazione «evolutiva» che legge la norma fuori dal contesto in cui è nata, in progress. Presto, perfino un giudice di pace si metterà a legiferare. Molto dipende da come sono scritte le leggi, dall'ambiguità che passa a chi deve interpretarle la palla dell'applicazione alla vita concreta. Sui temi più delicati e dov'è difficile trovare l'accordo politico, spesso in parlamento si arriva a compromessi-papocchio. E quando non è chiara la volontà del legislatore è facile per il giudice sottrargli il privilegio e riscrivere soggettivamente o, peggio, ideologicamente: manipolare, sovvertire, strumentalizzare. Succede soprattutto sui «nuovi diritti», quelli che i giuristi chiamano «di quarta generazione» e riguardano manipolazioni genetiche, eutanasia, internet. Per il magistrato rampante c'è ampio spazio quando si tratta di coppie gay, fecondazione artificiale, trans, regole del web. Ieri la Cassazione ha deciso che i siti internet non possono pubblicare, senza consenso dell'interessato, foto osè. Su coppie e famiglia spesso i giudici danno il meglio, entrano in camera da letto e discettano di corna, obbligano i genitori a mantenere figli attempati, a mandarli a messa e al catechismo se sono battezzati. Ricordiamo la sentenza della Cassazione che entrava nell'uso dei jeans in caso di stupro. Basta pensare alla legge 40 sull'inseminazione eterologa: non c'è parte che non sia stata corretta, colpita, reinterpretata da Cassazione, Corte europea dei diritti umani o singoli magistrati, spesso ribaltando pronunce precedenti e arrivando a conclusioni imprevedibili. E poi c'è l'esempio del reato di immigrazione clandestina, di fatto depenalizzato prima che intervenisse il Parlamento, dal momento in cui la Consulta ha dichiarato illegittima l'aggravante, la Corte europea di giustizia ha bocciato la legge, la Cassazione l'ha circoscritta e i giudici hanno iniziato a firmare sentenze non solo sui processi in corso ma anche su quelli già chiusi. L'altro grande campo d'intervento giudiziario è quello del lavoro. Ieri la Cassazione ha detto che la perdita del lavoro non è un «grave danno alla persona». Anche qui le norme Ue forniscono materia prima per scardinare leggi italiane in nome del principio della «prevalenza» di quelle sovranazionali. Spesso i Tar sono i più oltranzisti, pretendendo di decidere loro prima della Consulta quando e come disapplicarle. Adesso, i giudici del lavoro già si fregano le mani pensando al contenzioso in arrivo per il Jobs act. Che la tendenza nella magistratura ad utilizzare principi costituzionali o europei per creare nuove leggi si stia diffondendo sempre più lo denuncia da tempo uno schieramento trasversale di giuristi, da quelli conservatori a quelli più progressisti. E si riconosce l'unicità del caso italiano: negli altri Paesi, di fronte ad una sentenza di Strasburgo, i poteri dello Stato cercano una risposta unitaria, da noi si scatena la corsa dei giudici a dire ognuno la sua. Qualcuno parla di «diritto libero», che esalta nel giudice la funzione di creatore più che di interprete della norma. Ma se salta il sistema dei contrappesi tra poteri dello Stato, se la legge diventa Una, Nessuna e Centomila, perde ogni certezza.

Una corporazione "fuori mercato". La pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita, scrive Carlo Lottieri, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". L'intervista rilasciata dal presidente dell'associazione nazionale dei magistrati, Piercamillo Davigo, ha suscitato più che giustificate polemiche, né poteva essere diversamente. Chi voglia riflettere, andando al di là delle polemiche di superficie, sul presente degrado della giustizia deve comunque muovere da una constatazione elementare: che il nostro sistema giudiziario è in una crisi profonda. Si ha spesso la sensazione che in ambito penale siamo tutti po' tutti criminali fino a prova contraria, mentre quando chiediamo giustizia nel settore civile siamo obbligati a fare i conti con ritardi e inefficienze abnormi, che pesano come un macigno sull'intera economia. Alla radice di tutto c'è il fatto che, in definitiva, abbiamo una magistratura «fuori mercato». Questo è sostanzialmente vero in tutto l'Occidente, ma lo è in modo particolare in Italia, dove ogni forma alternativa di risoluzione delle controversie (dall'arbitrato alla mediazione) sembra ostacolata di proposito dall'ottusità dei legislatori e dalla strenua difesa delle proprie posizioni che la magistratura sa esercitare con successo. Per giunta, la pessima condizione in cui versa il nostro ordine giudiziario è conseguente al fatto che si diventa magistrati un po' come si entra alle Poste: grazie a un concorso e per la tutta vita. Se sapessero rinunciare a un po' della loro boria, quanti fanno parte della corporazione di Stato incaricata di emettere sentenze e moralizzare gli italiani trarrebbero beneficio dalla lettura di quelle pagine della Ricchezza delle nazioni in cui il padre dell'economia moderna, Adam Smith, nel 1776 spiegava al lettore per quale ragione i giudici inglesi del tempo fossero ovunque tanto apprezzati. Nel capitolo primo del quinto libro egli sottolineava come, al tempo, spesso fosse facile evitare il giudice «naturale» (scegliendo insomma da chi farsi giudicare) e come ogni tribunale vivesse grazie alle spese processuali. C'era, insomma, un libero mercato che premiava e puniva, spingendo ogni magistrato a operare nel migliore dei modi. Fedeli a un'antica tradizione, nella società inglese «tutti i giudici si sforzavano di dare, nel proprio tribunale, il rimedio più veloce e più efficace che il diritto ammettesse per ogni genere d'ingiustizia». Solo i tribunali che funzionavano, d'altra parte, chiamavano a sé una clientela disposta a finanziarli. Tornare a Smith aiuta a capire come questa magistratura che a parole attacca con tanta veemenza i politici, nei fatti sia legata a doppio filo alle logiche più ottuse della sovranità e del monopolio statale della forza. Quando si parla di liberalizzazioni, in Italia, solitamente di tirano in causa i tassisti e i notai; e qualche volta ci si spinge pure a parlare di farmacie, aziende municipalizzate o banche. Ma è ora giunto il momento di far scendere dal piedistallo una delle corporazioni più potenti e arroganti, facendo sì che ogni magistrato debba costruirsi un'immagine: com'è costretto a fare chiunque sia in concorrenza con altri.

Magistrati corrotti Nazione infetta. Su questo Davigo e l’ANM hanno la memoria corta...scrive “Il Corriere del Giorno” il 23 aprile 2016. Si diceva che se la capitale è corrotta, la nazione è infetta, come sintetizzò nel 1955 in un celebre titolo il settimanale L’Espresso. L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in molte città italiane. Compresa Taranto. Si diceva che “se la capitale è corrotta, la nazione è infetta”, come sintetizzò in un celebre titolo nel 1955 il settimanale L’Espresso.  L’equazione ha senso ancora oggi a giudicare da quello che accade in tutt’ Italia. Ma sarebbe ingiusto fermarsi soltanto alla sfera politica. La percentuale di onestà, dignità e trasparenza della classe politica è sicuramente uno degli indicatori dello stato di salute del paese, quello che più appassiona l’informazione e l’opinione pubblica, in particolar modo il popolino grillino, ma non è sicuramente il più pericoloso per la democrazia. La politica non arresta e manda in carcere gli innocenti. Nell’ultima “crociata” dell’ANM contro la politica il premier Renzi intende lasciare Piercamillo Davigo da solo sul ring senza volergli concedere il rango di istituzione all’Anm che non ha. “È un leader sindacale, per giunta pure a tempo. Non vedo perché si debba dare enfasi a dichiarazioni che non piacciono neppure ai suoi associati”, ha dichiarato un sottosegretario del governo al giornalista Marco Conti del quotidiano Il Messaggero, che scrive “Meglio, quindi, lasciare al Csm il compito di riprendere un suo magistrato. Il vicepresidente Giovanni Legnini lo fa con un lungo comunicato ovviamente vistato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che del Csm ne è il presidente. A quelle che definisce in privato «vere e proprie provocazioni», Renzi non intende replicare ufficialmente come invece avrebbe fatto un suo predecessore a Palazzo Chigi”. Una democrazia efficiente si basa su pesi e contrappesi, controllati e controllori nei poteri dello Stato. E se è ben noto ed accertato che il ruolo della “politica” è malato, sfugge a molti lettori e commentatori che il contrappeso “giustizia” non è immune, non è assolutamente messo meglio ed in condizione di dare lezioni di moralismo. Alcuni mesi fa, e cioè nello scorso mese di novembre il CSM, il Consiglio superiore della magistratura ha sospeso dalle funzioni Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo. La signora è soltanto…. indagata per corruzione e secondo l’accusa ne ha fatte veramente di tutti i colori, a partire dall’aver comprato una laurea al figlio. Questo caso, portato ad esempio insegna che la “casta dei magistrati” si sente “intoccabile” mentre in realtà non è esente da responsabilità, come qualcuno vorrebbe fare credere, da infezioni e collusioni, da corruzioni in alcuni casi palesi, altrimenti abilmente occultate. Ma è “infezione” anche se la giustizia è applicata in modo diverso in base all’appartenenza a una casta o all’altra. Anche noi siamo contrari alla carcerazione preventiva in mancanza di un’accertata pericolosità sociale, ma è più che lecito chiedersi chiedo: in base a quale principio si mette in carcere un politico sospettato di aver ottenuto uno sconto sospetto sulla ristrutturazione di casa, mentre un’alta magistrata come la Saguto, accusata di corruzione è tranquillamente a casa sua? Perché, come ha scritto tempo fa Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano milanese Il Giornale, ad un imprenditore indagato i magistrati spesso bloccano beni e conti correnti mentre alla dottoressa Saguto, sia pur sospesa per infamia, il Csm ha riconosciuto l’erogazione di un assegno di mantenimento pari ai due terzi dell’ultimo stipendio? Su queste cose l’ANM, l’Associazione Nazionale dei Magistrati taceva e continua a tacere. Com’è possibile che la Saguto abbia combinato per anni tante porcate senza che colleghi e superiori abbiano mai sospettato nulla? Incapacità, complicità, soggezione? Qualunque sia la risposta a queste domande, la conclusione è che siamo di fronte spesso ad una magistratura infetta. E questo causa una sospensione della democrazia ben più grave dei danni che il sindaco Alemanno, il suo successore Marino e soci hanno provocato a Roma, come l’inchiesta del ROS dei Carabinieri su “Mafia Capitale” ha molto bene documentato. Il bravo collega Emiliano Fittipaldi sull’ Espresso dell’aprile 2014 raccontava che “A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò…», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount”. Il compianto Presidente della repubblica Francesco Cossiga, appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: «La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”». Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile e ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno del Csm, di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di Magistratura Democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla!”” Quello cosa pensava e disse il compianto Presidente Cossiga in televisione su Sky Tg24, intervistato dalla giornalista Maria Latella, rivolgendosi al magistrato Maurizio Palamara, predecessore di Maurizio Carbone, alla segreteria dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, lo potete vedere ed ascoltare dalla sua voce. Ma quello campano non è un caso isolato. A Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, anche in Calabria sono stati tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci della ndrangheta. Alla Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi indisturbati per anni facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Nella Procura di Taranto si è visto di tutto e di più. A partire dalla vicenda sul pm Matteo Di Giorgio, che era in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto, e com’è noto, venne arrestato l’11 novembre 2010 con l’accusa di concussione al termine di una inchiesta avviata dopo le denunce presentate da alcuni cittadini di Castellaneta che si ritenevano danneggiati dal magistrato.  Il pm potentino inquirente, Laura Triassi (attualmente impegnata nell'”inchiesta Petrolio” a Potenza che sta facendo tremare il Governo)   avallata dal gip Gerardina Romaniello, scrisse che “evidenziano come l’esercizio della funzione di magistrato da parte del dottor Di Giorgio – pubblico ministero in servizio alla Procura della Repubblica di Taranto – sia stato asservito al conseguimento di utilità personali, in gran parte di natura politica, in danno del suo nemico storico, il senatore Rocco Loreto”. Di Giorgio secondo i giudici potentini nella sentenza che il nostro quotidiano ha pubblicato integralmente ha “approfittato della sua funzione pubblica, del prestigio connesso alla sua attività per perseguire interessi privati o politici attraverso l’uso strumentale della sua qualità e dei suoi poteri”. In quella triste vicenda per la magistratura e soprattutto per la giustizia in generale, vi sono stati anche dei magistrati come Aldo Petrucci (procuratore capo a Taranto all’epoca dei fatti) e Pietro Argentino (attuale procuratore aggiunto) che hanno detto il falso come hanno scritto nella loro sentenza i giudici di Potenza, che ne hanno chiesto conseguentemente il rinvio a giudizio, sulla base di valutazioni successivamente confermate dalla Procura, e persino dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Potenza che ha prosciolto Argentino senza però assolverlo dalle sue false dichiarazioni, confermando di fatto le accuse a suo carico, ed infatti la posizione del magistrato di Torricella (che viene dato in partenza dalla Procura di Taranto), è attualmente al vaglio della commissione disciplinare del Csm. E le sue ambizioni a diventare procuratore capo, sono ormai naufragate, dovendo peraltro a breve lasciare anche l’attuale incarico di procuratore aggiunto. Negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, nelle Commissioni Tributarie dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. Ma su tutto questo il nuovo “leader” dei magistrati Piercamillo Davigo ed i suoi predecessori Rodolfo Maria Sabelli ex presidente nazionale dell’ANM e Maurizio Carbone ex-segretario nazionale dell’associazione dei magistrati, quest’ultimo in servizio da non pochi anni proprio presso la Procura di Taranto, non parlano. Hanno la memoria corta. Noi no.

E la chiamano democrazia…E’ solo una contrapposizione tra Comunisti di destra e di sinistra (ceppo comune del socialismo) ed i liberali. O meglio dire, dato l’atteggiamento violento adottato per l’imposizione della loro religione, Fascisti di destra e di sinistra contro i liberali. I fascisti comunisti per le loro nefandezze si nascondono dietro l’impunità della massa, pretendendo che tutto gli sia dovuto. I Liberali sono perseguitati perché isolati dal loro soggettivismo ignavo.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

Classe Balilla, ecco gli allievi del Ventennio. A Segrate (Milano) in mostra circolari diari e quaderni dei bambini della scuola primaria, scrive Antonio Ruzzo, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Tutti in piedi entra la maestra... Quando salutare era un imperativo come credere, obbedire, combattere. Quando ai professori non si dava del «tu» e note e bocciature non erano materia per i giudici del Tar. Quando gli insegnanti erano definiti «apostoli» e «sacerdoti» e avevano la missione di educare la gioventù italiana a «comprendere e rinnovarsi nel Fascismo». Quando di libertà e diritti non si discuteva. Quando a scuola c'era lui insomma. Anni fa. Tanti anni fa che rivivono nella mostra «A scuola col Duce. L'istruzione primaria durante il Ventennio fascista», ideata e realizzata già nel 2003 dall'Istituto di Storia Contemporanea «Pier Antonio Perretta» di Como. Da ieri, e fino alla fine del mese, è allestita a Segrate (Milano) nel Centro Giuseppe Verdi proprio nella piazza dove l'architetto Aldo Rossi realizzò il monumento al partigiano. Nessuna nostalgia. Anzi. A volerla è stata la sezione cittadina dell'Anpi e a ospitarla è una giunta di centrosinistra. «L'idea ci è venuta per celebrare il 25 aprile - spiega Gianluca Poldi, assessore alla cultura di Segrate - e per approfondire un periodo della storia che deve essere affrontato come tale, senza preconcetti. E mi ha fatto piacere che a proporci questa mostra sia stata proprio l'associazione dei partigiani. Poi alla base di tutto c'è lo straordinario lavoro storico dell'Istituto di Storia Contemporanea Pier Antonio Perretta che è un garanzia». In esposizione oltre sessanta pannelli che riproducono per la maggior parte illustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai manuali scolastici, dai quaderni degli scolari di allora e che, insieme a una serie di quadri riassuntivi, ripercorrono le tappe e i momenti più significativi della scuola di regime. L'Istituto comasco possiede una cospicua raccolta denominata Fondo scuola che comprende anche pagelle, certificati di studio, saggi pedagogici, periodici, libri di narrativa, fotografie. «La maggior parte della nostra raccolta - spiegano i responsabili - proviene dai mercatini dell'antiquariato e da donazioni di privati, ma una ricchissima documentazione la si può trovare negli archivi di molte scuole, soprattutto per quanto riguarda i registri scolastici e i giornali di classe stilati dall'insegnante. Chi ha ideato e fortemente voluto questa mostra è stato Ricciotti Lazzero, giornalista e storico di fama, presidente dell'Istituto Perretta, purtroppo scomparso nel dicembre del 2002, un mese prima dell'inaugurazione della mostra». La scelta di proporre la mostra in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, non è casuale. «Assolutamente no - spiega l'assessore Poldi -. La speranza è che diventi un momento di riflessione per tutti. Mi aspetto che a vistarla vengano i nonni con i loro nipoti, mi aspetto che vengano anche molti studenti, anche se devo ammettere che vedo un po' di pigrizia negli insegnanti. Ma soprattutto mi aspetto che venga visitata e apprezzata senza pregiudizi. Anche perché il materiale raccolto è importante. La grafica di allora a esempio era straordinaria e aveva una grande capacità di sintesi. Si prenda la locandina che apre la mostra, quella dello studente col pennino che ha nella sua ombra la proiezione dell'uomo soldato. C'è tutto il regime, in quell'immagine...». Quella sotto il duce fu una scuola in cui il bambino era un adulto in miniatura, da istruire e mantenere sano nella mente e nel corpo, un potenziale militare. E centrale fu il ruolo dell'Opera Nazionale Balilla, ben presente nelle istituzioni scolastiche: presidi e insegnanti erano tenuti ad aprire le porte alle sue iniziative, a essa era affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi. Conoscere «l'istruzione primaria durante il ventennio fascista», come recita il sottotitolo della mostra, significa capirne non solo la struttura e l'evoluzione, ma anche le motivazioni e le finalità: «Voi siete l'aurora della vita, voi siete la speranza della Patria, voi siete soprattutto l'esercito di domani...» diceva Mussolini ai ragazzi. «La mostra commenta la curatrice Elena D'Ambrosio - vuole contribuire a esaltare quella libertà dell'uomo che comincia difendendo i diritti del fanciullo in formazione. Poiché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine, aperto all'ottimismo, chiaro, semplice». Un messaggio che passa dalla storia e arriva ai giorni nostri: «Sì un po' è così - conclude l'assessore Poldi -. Uno sguardo nel passato per capire che l'educazione dei bambini alla libertà è un valore da cui non si deve mai prescindere».

Olocausto provocato dai Nazisti e dai fascisti? Una menzogna a metà. Si censura la parte riguardante i comunisti. Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti". Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag, scrive Eleonora Barbieri, Sabato 12/03/2016, su "Il Giornale". «Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo... Sì, sono ebreo». Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento. Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà». Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

"Questa è la democrazia dei rossi, non ci fate ridere ma pena". A scriverlo su Twitter l’1 marzo 2016 è Matteo Salvini dopo la contestazione a Bologna da parte dei soliti "rossi" che hanno appeso il manichino che lo ritrae con tanto di maglietta verde padano a testa all'ingiù come Mussolini.

Si dice che i comunisti una volta mangiassero i bambini…ora li comprano!

“E’ stato un bel regalo all’Italia avere impedito che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio. Abbiamo impedito una rivoluzione contronatura e antropologica”. Angelino Alfano, parlando delle unioni civili a margine del consiglio Ue Interni a Bruxelles il 23 febbraio 2016, esulta così all’indomani della vittoria sul braccio di ferro all’interno della maggioranza che ha portato alla riscrittura del ddl Cirinnà, sul quale il governo ha posto il voto di fiducia. “Sulle unioni civili ha vinto il buonsenso – ha proseguito il ministro dell’Interno – Abbiamo bloccato ciò che non è permesso in natura”. 

Invece...Nasce il figlio di Vendola, Salvini sbotta: "Disgustoso", scrive “Libero Quotidiano” il 28 febbraio 2016. Dopo lo scoop di Libero sulla nascita di Tobia Antonio, figlio di Nichi Vendola e del suo compagno Eddy Testa grazie a una madre surrogata, scoppia il caso politico. Il primo a commentare è il leader della Lega Matteo Salvini, che su Twitter scrive: "Vendola e compagno sono diventati papà, affittando utero di una donna californiana. Questo per me non è futuro, questo è disgustoso egoismo". Sulla stessa lunghezza d'onda il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: "Questa è la sinistra italiana. A parole sono contro l'utero in affitto. Ma poi usano questo turpe metodo per inventarsi genitori dei figli di altri". La sinistra stessa si spacca: Adriano Zaccagnini, di Sinistra italiana: "Congratulazioni a Vendola e Testa, ma non condivido la tecnica della maternità surrogata, soprattutto se fatta dietro pagamento di denaro". "In questo mondo ci sono tanti bambini senza genitori da aiutare, sostenere o adottare. Non abbiamo bisogno di dare legittimità ad una pratica del genere". A tutti risponde lo stesso Vendola: "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", assicura. "Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione utero in affitto": "Questo bambino è figlio di una bellissima storia d'amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita".

Vendola diventa papà, Salvini: "Questo è disgustoso egoismo". Il figlio avuto da Vendola con l'utero in affitto scatena una polemica accesissima. Il mercato dei figli è già realtà. Piovono accuse contro l'ex governatore: "È sfruttamento proletario". Critiche anche da sinistra, scrive Sergio Rame, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Al piccolo è stato dato il nome di Tobia Antonio. La notizia è stata confermata da persone vicine all'ex presidente della Regione Puglia e ha scatenato una pioggia infinita di critiche. "Questo per me non è futuro - tuona Matteo Salvini - questo è disgustoso egoismo". Al leader del Carroccio l'ex governatore della Regione Puglia ha replicato duramente assicurando che non si farà "turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca" da "insulti squadristi". Chi condanna, chi esulta e chi ci scherza su ("Ma Tobia che nome è?"). La notizia della paternità di Vendola sta dividendo il web. Testa, che è il padre biologico del bimbo, è canadese e in quel Paese è possibile avere figli con la tecnica dell'utero in affitto. Grande gioia, si è saputo, è stata manifestata dai diretti interessati e da famigliari e amici della coppia. La notizia della nascita del bimbo era stata anticipata oggi da alcuni quotidiani e da tempo si era a conoscenza che Vendola e Testa avevano compiuto tutti i passaggi, anche burocratici, per avere un figlio. Tanto che c'è chi, come il deputato Gian Luigi Gigli, parla di "sfruttamento proletario". Per Salvini, invece, "affittare l'utero" è uno "schifoso egoismo". Eugenia Roccella, parlamentare di Idea, riconosce amaramente che "il mercato dei figli è già realtà". Anche tra le fila della Sinistra italiana c'è chi storce il naso. Adriano Zaccagnini invita a "non dare legittimità" all'utero in affitto. "È una transazione come altre - tuona - e il figlio un oggetto di un desiderio di chi se lo può permettere". Vendola non ha apprezzato le critiche e dal Canada ha replica duramente. "Non c'è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca", ha replicato sottolineando di aver condiviso con il suo compagno "una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dalla espressione 'utero in affitto'". Dagli studi di Fuori Onda su La7, però, Salvini è tornato ad attaccare l'ex governatore. Pur facendo gli auguri al piccolo appena nato, il leader della Lega Nord ha ribadito che la scelta presa da Vendola e Testa è "un'aberrazione" dal momento che si tratta di "un atto di egoismo di due adulti". "Al centro commerciale - ha quindi concluso - si comprano i dvd, le lavastoviglie, ma non i bambini". Durissima anche la replica di Maurizio Gasparri che fa notare a Vendola che "squadrista è chi strappa figlio a madre". Su Twitter l'hastag #Vendola è di tendenza da ore. E i commenti sono i più disparati. C'è chi scrive: "Ciao, sono Vendola, volevo un regalo e ho comprato un bambino". E chi aggiunge: “Ma una volta i comunisti non li mangiavano bambini? Ora li comprano". E ancora: "Ma ci rendiamo conto? Generare con i soldi un bambino da una sconosciuta solo per dire sono papà. Egoismo assoluto". Ci sono anche tanti che fanno gli auguri all'ex governatore: "Tanti auguri ai neo genitori ed al piccolo". "Moralisti da social smettetela- fa eco un altro - Nichi sarà un padre dolcissimo". E ancora: "Le bestialità che scrivete su Vendola mi fanno capire perché questo Paese è in rovina, basta!". Infine, non mancano gli ironici. Come chi, prendendo di mira l'eloquio vendoliano, scrive: "L'unico problema per il figlio di Vendola è che la ninna nanna durerà tre ore". E infine chi proprio non si fa una ragione per il nome scelto: "Nessuno ha inquadrato il vero problema della questione: ma perchè lo ha chiamato Tobiaaaa?".

Vendola, la nascita di Tobia è un caso politico, scrive il 29 febbraio 2016 “Avvenire”. ​Nichi Vendola e il suo compagno Eddy Testa hanno avuto un bambino tramite la pratica della maternità surrogata. Sabato pomeriggio in una clinica in California, dopo una gestazione portata avanti da una madre in affitto, è nato il piccolo Tobia Antonio. All'indomani del voto sulle unioni civili che ha però escluso le adozioni del figlio del compagno nel caso di coppie gay, saranno i giudici italiani a dover decidere sul riconoscimento della paternità di Vendola (il padre biologico del bimbo è il compagno Eddy). La nascita del piccolo è stata in queste ore al centro di un duro scontro politico e ha riacceso la polemica sulle conseguenze che l'introduzione della stepchild adopotion (stralciata dal ddl sulle unioni civili ma in agguato nel ddl sulla riforma delle adozioni che dovrebbe venire discusso nei prossimi mesi) potrebbe portare. Vale a dire il ricorso alla maternità surrogata in maniera sempre più consistente da parte delle coppie omosessuali. "Il figlio del compagno di Vendola, nato grazie a un contratto di utero in affitto, per cui la madre ha dovuto abbandonare il suo bambino appena nato, potrà essere rapidamente riconosciuto in Italia dal leader di Sel grazie alla nuova legge sulle unioni civili", afferma Eugenia Roccella, parlamentare di Idea. "Se la coppia ricorrerà alla nuova legge, infatti, - spiega - il tribunale consentirà l'adozione a Nichi Vendola senza problemi e senza neppure aspettare la nuova legge sulle adozioni. È chiaro a tutti così - conclude - che la stepchild adoption è già una realtà, e che lo scopo della legge è la legittimazione dell'utero in affitto e della nuova filiazione di mercato". La deputata di Area Popolare Paola Binetti mette in guardia il Pd: "non voteremo una legge sulle adozioni che comprenda la stepchild". "Sappiamo dalla cronaca che un bambino può costare 120mila euro; l'onorevole Rossi ci ha detto che il suo è costato quasi 100mila euro, pensiamo che questa cosa sia una forma di schiavismo", ha detto ancora Binetti. Di "sfruttamento proletario dello stato di bisogno economico di due donne, quella che ha donato gli ovuli e quella che ha affittato l'utero", parla il deputato Gian Luigi Gigli di Democrazia solidale. "La sinistra da paladina dei diritti umani si è trasformata in promotrice di desideri individuali". Di "nuovo modello antropologico" e di "donne ridotte a schiave" parla anche Alessandro Pagano, coordinatore del Comitato Parlamentari per la famiglia chiedendosi come mai le femministe e il presidente Boldrini non hanno nulla da dire. Rocco Buttiglione, vicepresidente dei deputati di Ap, mette l'accento sul dolore di quella donna di cui nessuno parla. "Una mamma senza il suo bambino" che lo ha sentito scalciare e crescere per nove mesi sapendo già che però non sarebbe stato suo visto che "era stato venduto già prima del concepimento". Dal Pd arriva la voce fuori dal coro di Beppe Fioroni che invita il suo partito a non insistere sulle adozioni per le coppie gay concentrandosi invece sui problemi reali del Paese come le tasse e il lavoro. "Il figlio di Vendola? È nato un bambino orfano di madre". Non usa mezzi termini Massimo Gandolfini, portavoce del comitato 'Difendiamo i nostri figli e tra gli organizzatori del Family Day al Circo Massimo. La vicenda del figlio di Nichi Vendola "ci lascia attoniti". Marco Griffini, presidente dell'Aibi, (Amici dei Bambini), esprime un giudizio "totalmente negativo", sottolineando che "l'utero in affitto è una forma di schiavitù nella forma più aberrante". "Dovrebbero restituire il bambino alla mamma, così che possa crescerlo. Mi meraviglio -aggiunge - che una persona che ha fatto della politica una scelta di vita possa fare una cosa simile. Come movimento di famiglie adottive - sottolinea - siamo attoniti". Si congratula per la nascita di un bambino ma resta perplessa sull'utero in affitto Laura Boldrini, presidente della Camera, che da Londra confessa di aver difficoltà ad accettare questa pratica, soprattutto "quando queste maternità avvengono in Paesi in via di sviluppo, quando ragazze povere si prestano". Resta da vedere ora quale sarà il destino del piccolo Tobia Antonio: dovrebbe risultare cittadino canadese, Paese di origine del padre biologico, e di una madre che non desidera essere identificata. Vendola potrebbe adottarlo in Canada e allora potrebbe chiedere in Italia il riconoscimento dell'atto canadese. Oppure potrebbe presentare richiesta di adozione in Italia, che andrebbe di fronte ai giudici sotto la fattispecie di adozione in casi speciali.

Caso Vendola: altro che «diritti», siamo al mercato dell'umano, scrive Marco Tarquinio l'1 marzo 2016 su “Avvenire”. "E venne un tempo…Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore". Karl Marx, Miseria della Filosofia.

"​Gentile direttore, Nichi Vendola, fondatore di Sel, fautore assoluto del ddl Cirinnà sin dalle primissime versioni, ha “avuto” ieri un bambino. Da un ovulo di donna californiana, impiantato in una donna di origine indonesiana, con un seme del suo compagno italo-canadese, il tutto a pagamento, negli Usa. L’avevamo sentito dire: «Ogni volta che leggo di un neonato abbandonato in un cassonetto dell’immondizia, vorrei correre a prendermi cura di quella creatura». Ma è la stessa menzogna evocata (in ordine alfabetico) da Boschi, Cirinnà e Renzi: i bambini orfani non li “prendono in cura” (anche perché ci sarebbero già tante coppie uomo-donna in lista d’attesa), li producono. Sfruttando le donne. Ecco che cosa fanno quelli come Vendola e il senatore del Pd Sergio Lo Giudice. La legge Cirinnà, tra le altre cose, è una legge ad personam per miliardari e comunque per ricchi e potenti". Filippo Sassudelli - Trento.

"Caro direttore, Tg1 Rai di domenica 28 febbraio, ore 13.30. Il conduttore annuncia, testuale: «Paternità per Niki Vendola. In California è nato il figlio biologico del compagno Eddi». A seguire, servizio sulla riforma della legge sulle adozioni, estese a tutti con intervento compiaciuto di Debora Serracchiani alla scuola di formazione del Pd. Quasi tutti i quotidiani on line e i vari siti titolano e riferiscono in termini simili. Per riassumere: utero di donna di origini indonesiane più ovulo di donna californiana (madre biologica) più apporto di uno dei maschi. Se la madre è un «concetto antropologico» – ce lo insegna la coppia costituita dal senatore Lo Giudice (Pd) e compagno – lo è anche il padre… Ma da un paio di anni – “Avvenire” ne ha dato puntualmente conto – circolano le indicazioni Unar anche per i giornalisti, sui termini di genere da usare e da evitare. Le “veline” del ventennio fascista forse erano meno ridicole. Ebbene, in tre giorni: prima il Senato che approva le Unioni civili senza più stepchild adoption (adozione del figliastro), poi l’annuncio di Monica Cirinnà e colleghi di una prossima riforma ad hoc della legge sulle adozioni che apra alle persone omosessuali, poi la notizia su Vendola “padre”. È la «dittatura del pensiero unico», con la complice adesione di molti giornalisti. Papa Francesco ne ha parlato spesso, ed ecco ci siamo. Rimangono pochi uomini politici, pochi mezzi di informazione, ma moltissimi cittadini comuni (inclusi quelli del Family Day) che non tacciono e non si piegano. Il premier Renzi vuole «andare nelle parrocchie» a spiegare le unioni civili. Clericalismo a parte – può incontrare cittadini cattolici in tanti altri luoghi –, venga a spiegarci anche questo, gliene chiederemo volentieri ragione. Nel seggio elettorale, per le amministrative e per il referendum confermativo, decideremo noi". Gianluca Segre - Torino.

Il fatto di cronaca al centro di queste due lettere (e di altre che stanno piovendo in redazione) è già oggetto oggi degli ampi e approfonditi commenti che ho affidato a Marina Corradi e a Francesco Ognibene e questo mi consente di limitarmi, qui, a un paio di sottolineature in risposta ad altrettante specifiche questioni poste dai lettori. La prima annotazione riguarda la natura di «legge per ricchi e potenti» della normativa sulle unioni civili approvata in prima lettura al Senato nonché – arguisco – di altri progetti che, secondo le dichiarazioni di Monica Cirinnà, dovrebbero portare alla cosiddetta “adozione gay”. Se, come intendo, il principale motivo di questa affermazione del lettore Sassudelli è legato al ricorso all’utero in affitto da parte di chi richiede l’adozione del figlio del compagno in un’unione gay, direi che si tratta di una mezza verità. La verità tutta intera è che non tutte le persone omosessuali sono ricche e potenti, ma tutte le madri surrogate “acquistate” da coppie eterosessuali od omosessuali sono povere e senza potere. La seconda sottolineatura è per il linguaggio “politicamente corretto” usato in particolar modo dai notiziari del servizio pubblico radiotelevisivo. Un fenomeno impressionante di camuffamento della dura realtà della cosificazione di una madre senza nome, senza volto e ridotta a pura esecutrice di un contratto padronale. Siglato da un politico di sinistra che ha contribuito a “comprare” gli ovociti di una donna e il corpo di una madre per far “fare” un figlio biologico del proprio compagno e intestarsene a sua volta la paternità legale (all’estero) e politica (in Italia) in violazione di una legge anti–schiavista del proprio Paese. Stavo per ricorrere a un’immagine di papa Francesco o di Benedetto XVI, ma poi ho pensato che a Nichi Vendola era meglio dedicare una citazione di Karl Marx, quella che pubblichiamo qui accanto. Il triste mercato dell’umano cresce, e ha ingressi di destra e di sinistra. Si smetta di chiamarli «diritti».

Per soddisfare un suo desiderio il paladino dei poveri e degli oppressi è andato all'estero come un facoltoso signore, ha reso orfano della madre un bambino e ha eluso la Costituzione e le leggi della Repubblica. Ma non era un uomo di sinistra?": se lo chiede Famiglia Cristiana, parlando del caso del figlio di Nichi Vendola in apertura del sito in un commento di Francesco Anfossi.

Sulla nascita del figlio di Nichi Vendola, dice la sua Vittorio Sgarbi, e lo fa con un post, pubblicato da “Libero Quotidiano” l’1 marzo 2016, di rara violenza su Facebook, nel quale, tra le altre, spiega che "dal culo non esce niente". Di seguito, il post di Sgarbi: “Non può essere, quello appena nato, il figlio di Vendola. Dal culo non esce niente. Vendola ha un marito ed è contemporaneamente padre. Due persone dello stesso sesso non generano. Ma di cosa stiamo parlando? I bambini devono essere concepiti, educati e evoluti sulla base di ciò che la natura consente. Di bambini bisognosi è pieno il mondo, e si possono aiutare in tanti modi. Quel bambino è una persona che si sono costruiti a tavolino, come un peluche. E' insopportabile”.

Qualche ora prima, sulla pagina Facebook del critico era apparso un altro post, che sintetizzava così il pensiero di Sgarbi: “I neonati si attaccano alle tette, non ai coglioni”.

Utero in affitto, Beppe Grillo: perché mi spaventa l’idea di un sentimento low cost. L’intervento del leader dei Cinque Stelle: «Nulla a che fare con l’omosessualità o l’eterosessualità, ma è la logica del “lo facciamo perché è possibile”». La lettera di Beppe Grillo dell’1 Marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”. “Le questioni etiche nel periodo del low cost possono assumere degli aspetti paradossali, al limite del ridicolo... scusate: del tragico. Il fenomeno del low cost avvicina molti esseri umani a stati transitori di benessere immaginario quando, nella migliore delle ipotesi, quelle stesse persone stanno facendo da tristi tappabuchi, nelle sempre più disperse, e tante, basse stagioni di ogni cosa: il prezzo dell’albergo di lusso, quello di una vacanza romantica, quello della felicità, e quello dei diritti rende le idee delle persone sempre più confuse! Ed è curioso come il prezzo delle creature viventi possa diventare così basso, e trattabile, proprio quando è altissimo il pericolo di sconvolgimenti irreparabili dello stato sociale e morale di un popolo. Proprio le creature viventi, e tutto ciò che le garantisce in vita, mi sembra non abbiano più un valore percepito. Peggio vanno le cose e più sono le nullità che scorrono sugli schermi utilizzando le parole amore, felicità, dignità umana...come se anche queste stessero subendo una sorta di inflazione. Mentre confondiamo l’economia con la finanza ancora peggio ci comportiamo, anche nel nostro intimo, quando confondiamo quelli che adesso mi permetto di chiamare diritti intimi! Come la paternità, la maternità e l’amore. Sento utilizzare la parola amore in modo talmente pressappochista da provare un dolore, intenso, che nessuna forma di ironia può risolvere. È veramente possibile che si blateri di amore e diritti intimi pensando a Vendola proprio mentre stiamo dimenticando chi ha messo al mondo noi? Mi riferisco a quelli che chiamiamo anziani, quelli che stiamo dichiarando inutili senza neppure più arrossire! E allora: chi sono io per dire alle persone di rinunciare a delle opportunità che appaiono stupefacenti? E se è così: chi sarei io per rivendicare, al semplice scopo di salvarli, i diritti della persona a cominciare dalla sua dignità, per finire con il fatto che si tratta di una certa persona, di una tal coppia oppure di un operaio, di un poliziotto, un pensionato, un bambino in Siria dove ti uccidono i videogiochi dal cielo, insieme a tutti gli individui che compongono il tessuto interstiziale della società. Forse uccidere a distanza degli esseri umani provoca una gioia che io non ho alcun diritto di criticare. Se tutto è possibile, uccidere giocando è diventata una realtà prima che nasca la perversione giusta per gioirne. Quanto è lontano Nichi Vendola da quello che sta succedendo nel mondo reale per permettersi di comportarsi con una majorette che rotea strane mazze colorate guidando un corteo di pareri in svendita. C’è qualcosa del concetto di utero in affitto che mi spaventa. E non ha nulla a che fare con l’omosessualità oppure l’eterosessualità; mi spaventa la logica del «lo facciamo perché è possibile»: un po’ com’è diventato facile attaccare tutto alla bolletta della luce. Così, mi perdo in questi nuovi moti di provare dolore e manifestare gioia, spaventato dalla facilità con cui li modifichiamo. Terrorizzato dal contesto di assoluta disinformazione da cui sentiamo provenire quelle parole. Incredulo e confuso: nessuno vorrà spiegare perché stiamo vivendo nel mondo del precotto low cost delle idee, dei riferimenti morali e della gioia. Scandalizzarsi perché qualcuno trova buffo Vendola ma non dice nulla — oppure dimentica apposta — quello che sta succedendo a chi si suicida per un debito mi spaventa. Insieme a quelle definizioni strane: utero in affitto, soldato, sacrificio, insostenibilità, abbandono... Tutti rinchiusi e allontanati dalla vista mentre si chiacchiera pensando soltanto se ci si è sbiancati a sufficienza i denti da mostrare nell’ennesimo talk show”.

Nichi, vai a vivere in California dove non ci sono squadristi…scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. “Non c’è volgarità degli squadristi della politica che possa turbare la grande felicità che la nascita di un bimbo provoca. Condivido con il mio compagno una scelta e un percorso che sono lontani anni luce dall’espressione “utero in affitto”. Questo bambino è figlio di una bellissima storia d’amore, la donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita. Quelli che insultano e bestemmiano nei bassifondi della politica e dei social network mi ricordano quel verso che dice: “ognuno dal proprio cuor l’altro misura” (anche se capisco che citare Dante non faccia audience)”. Queste le parole con cui Nichi ha ringraziato il suo pubblico. L’oscar come miglior comunista d’Europa, miglior alchimista, come non esempio in un ruolo da non protagonista e più brutta mammo d’Italia goes to Nichi. Ragazzi l’Oscar l’ha vinto lui. Sì, Di Caprio e Morricone, d’accordo. Uno lo sfottevano, l’altro è vecchio. L’Oscar lo ha vinto Nichi. Punto. Pensate sia facile assemblarsi un figlio? Un pezzo qui, un pezzo lì; la gravidanza da seguire, i ruoli di cui tenere conto – soprattutto a vent’anni da oggi -, le ecografie, i selfie su whatsapp con il pigiamino azzurro in mano – ci siamo quasi! -, i dottori da sentire, le mani da incrociare davanti al caminetto, i bagagli da preparare, le telefonate da fare… Uff! Che stress! Quasi, quasi conveniva avere la patatina per farlo in natura un figlio…Già si sente in casa il piccolo Tobia chiamare i genitori: “Mamma Nichi? Papà 135.000?” Un Oscar non facile per un film impossibile. Nichi, che lo ha vinto anche per la peggior interpretazione di un madre. Riassumendo la situazione che ha portato al riconoscimento più ambito per Nichi Vendola. L’ex governatore della Regione Puglia è diventato mammo/a/e/i/o/u di un bambino del quale il vero padre (o padre naturale o padre genetico o santodioaiutacitu) è Eddy Testa, il quasi quarantenne fidanzato di Vendola, la madre vera (o madre naturale o..etc) è una californiana e l’utero in prestito è di un’indonesiana. Uno spaccio folle di ovuli e spermatozoi, un cast incredibile, inscenato da un signore in lotta per la dittatura del proletariato da anni, già PCI, poi Rifondazione, poi capopopolo di SEL, ora in continua evoluzione a pugno chiuso, che per fare il mammo ha speso più di 100.000 Euro.  Un immenso gettito di umanità per un Nichi che rideva al telefono sui tumori dell’ILVA. E noi, poi, saremmo squadristi perché obbrobriosamente schifati da figuri e situazioni del genere? Fà una cosa Nichi, pigliati a Eddy, al (povero) piccolo Tobia, alla foto di Stalin, Lenin, Mao Tse Tung, Carlo Marx, Cip & Ciop, all’indonesiana, alla California, e vai dove più ti aggrada, magari lontano dall’Italia squadrista, bigotta, cafona e cattolica. È facile fare il mammo col vitalizio degli italiani. Ciao Nichi, insegna agli angeli come si governa la Puglia. And the Oscar goes to…

L’outlet dei bambini, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale” il 29 febbraio 2016. Ho provato a farmi un giro nel supermercato dei feti e ne sono uscito inorridito. Da qualche giorno non si parla d’altro: Nichi Vendola e il suo compagno Eddy sono diventati papà. Grazie a un utero in affitto. E detta così sembra una cosa quasi normale. A qualcuno fa senso, ad altri schifo. Ma ormai questa locuzione “utero in affitto” la abbiamo sentita ripetere così tante volte dalla nostra stupida politica che ci pare normale. Sembra uno dei tanti temi su cui si accapigliano in Parlamento per dare un senso alla loro esistenza o alla loro rendita politica. “Utero in affitto”. Beh pure gli appartamenti si prendono in affitto, anche le automobili. I motorini, i quad, persino i libri e gli smoking. Insomma io sentivo parlare di questo utero in affitto ma non pensavo a cosa volesse effettivamente dire. Era un “sovrappensiero”, come nella vecchia canzone dei Bluvertigo. Poi ho letto un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel quale veniva spiegata alla perfezione la dinamica di questa pratica: il costo per i futuri genitori, lo stipendio della proprietaria dell’utero e della donatrice degli ovuli, nel caso ce ne fosse bisogno. E ho letto il nome della più famosa clinica che pratica questo tipo di interventi: Growing Generations. Ho digitato il nome su Google e mi sono fatto un giro di un paio d’ore in questa fabbrica di bambini. Solo così ho capito cosa è l’utero in affitto. Solo sfogliando il catalogo delle “egg donors”, le donatrici di ovuli, mi sono trovato faccia a faccia con quello che non può non sembrare un mercato di esseri umani. Sulla home page del sito scintillano i denti di una famiglia sorridente. Tutti felicissimi e belli. Biondi, mori, lattei, olivastri, con gli occhi chiari o scuri. Tutti i fenotipi. La mercanzia è tutta in vetrina e il magazzino offre tutte le varietà in commercio. Poi si inizia la navigazione: ci sono i menù e le offerte per gli aspiranti genitori, per le aspiranti madri surrogate e per le donatrici di ovuli. Tutto chiaro e preciso, come nelle migliori brochure commerciali. D’altronde qui si paga e si paga pure bene: sborsa tanti soldi chi vuole un nano scintillante e ne riceve altrettanto chi lo ospita durante la gestazione e chi fornisce gli ovuli. Il figlio è un bene di lusso. C’è un calcolatore che in base alle assicurazioni sanitarie e i contratti che stipuli computa immediatamente il costo dell’operazione. Come nei car configurator dei siti delle case automobilistiche: cerchi in lega, sedili in pelle, navigatore. Ma la configurazione del nascituro è appena iniziata. Nella clinica del futuro si può scegliere tutto, basta iscriversi per iniziare lo shopping. Si parte con la scelta del donatore di ovuli: razza (afroamericano, caucasico, asiatico ecc), peso, altezza, colore dei capelli e degli occhi. Si selezionano tutti gli optional. Pura eugenetica. Il sogno di Mengele. Dopo aver smarcato tutte le voci preferite si avvia la ricerca. E, come in un macabro Facebook degli ovuli, compaiono le immagini dei profili delle donatrici. È il social network dei cromosomi. E le donatrici ci tengono a far sfoggio delle loro ottime credenziali genetiche: book fotografico con prole al seguito per dimostrare di avere buoni lombi, video di auto presentazione e curriculum. Più ovuli hanno già dato è più sono affidabili. E più vengono pagate. Una specie di usato sicuro, di certificazione di garanzia. E fa un po’ effetto immaginare il leader di Sel che si mette a selezionare la razza, questa parolaccia che quelli come lui volevano strappare dai dizionari. La stessa filosofia vale per le madri surrogate, cioè le donne che ospiteranno ovuli e partoriranno i bambini. La loro scelta è ancora più complessa, perché durante i mesi di gestazione dovrà interagire con i futuri genitori. Il catalogo è ampio e stilato con minuzia di particolari. Tutta l’operazione (con ovuli e madre surrogata, come nel caso dell’ex governatore, altrimenti si può anche portare un ovulo da impiantare) costa sui 145mila dollari ai futuri genitori. Un servizio per coppie abbienti. Ma non state a preoccuparvi, per chi non ha subito tutta la liquidità il sito ricorda in continuazione che si possono finanziare sino a 100mila dollari con un tasso di interesse del 5 per cento. Un affarone. Alla concessionaria dei figli tutto è possibile. Per ora non fanno leasing ma magari prima o poi fanno anche un buy back, non si sa mai che poi il pargolo rompa i coglioni e i genitori lo vogliano riportare in clinica. Alla madre surrogata, che viene seguita passo dopo passo e stipula un minuzioso contratto legale, vanno almeno 40mila dollari. Alla donatrice 8mila dollari per la prima donazione e dalla seconda in poi 10mila. Tutto calcolato. Tutto stipulato. Tutto perfetto. Tutto normato e tutto incredibilmente anormale. Un meccanismo di ingegneria genetica perfettamente rodato. Ecco, è sfogliando questo catalogo di umanità in vendita che si capisce veramente cosa sono l’utero in affitto e la maternità surrogata, queste locuzioni si staccano dalla strumentalità della politica e assumono la tridimensionalità di una pratica che può cambiare il mondo. Sono le meraviglie della scienza? Ma ne siamo davvero certi? Lasciamo perdere Nichi Vendola e il suo compagno, mettiamo da parte anche il fatto che queste cliniche siano utilizzate principalmente, ma non esclusivamente, da coppie omosessuali. Perché il problema non è quello, non solo quello almeno. Il problema è capire se è giusto costruirsi un figlio “sartoriale” selezionando pure il colore dei capelli e sfruttando – con la consapevolezza altrui, ovviamente – il corpo di un’altra donna. Per soddisfare le proprie voglie, perché si è omosessuali o magari per non portarsi dietro nove mesi di pancia, oppure per non perdere il lavoro a causa della maternità, è giusto far nascere un bimbo perfetto nel ventre di una donna costretta a venderlo per fare soldi? Non è una questione di religione o di fede – che io non ho – è una questione di umanità. Perché è evidente che questo è un mercato e che, in quanto tale, risponde solo alle regole del mercato. Che sono tra le migliori in circolazione. Ma per comprare le scarpe o il ferro, non i bambini. E le donne. Una volta i più poveri erano proletari, che non avevano nulla se non la prole. Ora che i figli sono un bene di lusso si chiameranno uteritari? Ovulitari? Forse stiamo giocando troppo agli apprendisti stregoni, ai piccoli chimici senza accorgerci che siamo solo grandi cinici.

Così Vendola apre la via socialista alla fabbrica di bimbi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Basta dare uno sguardo ai siti che organizzano l’utero in affitto per capire la dimensione politica del neosocialismo. I soggetti coinvolti sono tre. Il donatore di ovuli (egg donator, in inglese fa più impressione), la proprietaria dell’utero e i genitori surrogati. Tutti e tre hanno un prezzo. Nel mercato degli ovuli si va dagli 8mila ai 10mila euro. La donna che dovrà tenerlo in grembo dai 35mila ai 50mila dollari. Per i genitori il costo supera i centomila dollari. Il sito growing generations propone finanziamenti fino a 100mila dollari, con tassi al 5,99%, per una durata massima fino a sette anni. Immaginiamo che, per il momento, non si possano chiedere ipoteche sui bambini. In questo supermercato si concretizza l’orribile sogno di una sinistra che ci vuole tutti «innaturalmente» uguali. C’è qualcosa che (solo) apparentemente non funziona se, a livello ideale, l’uso di questo supermercato viene condiviso dal pensiero di sinistra-egalitario ed è invece bandito dalla destra-mercatista. Verrebbe infatti da pensare che si tratta di una deformazione del modello capitalistico. Libertari, alla Murray Rothbard, hanno sempre pensato e scritto che gli esseri umani possano disporre come meglio credono delle proprie proprietà, compreso il corpo. In questo caso però le parole chiave non sono quelle dei libertari, ma principi di uguaglianza. Anzi ne sono la loro sublimazione. In un mondo, ritenuto a torto sempre più diseguale, la frontiera da abbattere è quella del diritto alla maternità-paternità. Perché due uomini o due donne non possono essere uguali ad una coppia tradizionale? L’alta marea della lotta alle diseguaglianze dunque si alza. Per i liberali resta ancora la parità di opportunità. Il neosocialismo confuta e aggira il concetto. Con l’utilizzo della tecnica (l’utero in affitto) le opportunità si allargano a tutti. Per il momento, e questa è la drammatica contraddizione di oggi, la tecnica è appannaggio solo delle coppie omo ed eterosessuali più ricche. Ma una volta sdoganato il principio e cioè riconosciuto il diritto universale ad avere un figlio, come un tempo si lottò per il diritto allo studio o alla salute, per quale dannato motivo restringerlo al censo? I liberali di ieri e di oggi combattono contro la folle idea di redistribuire il reddito per azzerare le diseguaglianze, quelli di domani dovranno occuparsi di frenare la tecnica affinché non ci renda tutti uguali.

Le unioni INcivili fanno dei brutti scherzi, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale” l’1 marzo 2016. Il ripugnante caso del figlio di Nichi Vendola e Eddy Testa (nella foto) ha scatenato una serie infinita di obbrobri sotto forma di immagini e affermazioni da parte di tutti. Del resto una legge che di per sé è già un abominio non poteva che generare una serie di altri mostri. A cominciare dalla sua promotrice, Monica Cirinnà, moglie del chiacchieratissimo ex senatore dal 2001 al 2008 Esterino Montino, indagato per le spese pazze del Pd in Regione Lazio nello scandalo Fiorito. Quando si candidò a sindaco di Fiumicino e dovette rinunciare, con molta riottosità, al suo stipendio da senatore, nel 2013 garantì una candidatura sicura a Palazzo Madama alla moglie animalista convinta del Pd. Un senatore in famiglia fa sempre comodo. Questa donna (nella foto mentre si sbellica dalle risate e ne ha un gran motivo), rimasta nell’ombra per tre anni, da sempre riconosciuta solo per essere la moglie di Esterino, è venuta alla ribalta per aver legato il suo nome al disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. “Un mostro giuridico, ben lungi dal soddisfare le aspettative di gay e lesbiche”, lo definisce l’esperta di diritto di famiglia Daniela Missaglia. Un’entità giuridica informe che svuota dall’interno quelle poche regole che reggevano il diritto di famiglia fino ad oggi. Una bandiera (arcobaleno) sventolabile da una sola parte minoritaria delle coppie di fatto: quella omosessuale. Per gli etero resta pressappoco tutto come prima. L’unica schifezza che per fortuna è stata bloccata in extremis ovvero l’adozione nella forma della stepchild adoption da parte di una coppia gay, è una vittoria di Pirro perché a colpi di sentenze la giurisprudenza la introdurrà – come sta già facendo – anche senza un dettato normativo e al riguardo la stessa Cirinnà va già dicendo di avere pronto un ddl ad hoc, facendo rientrare dalla finestra ciò che non è entrato dalla porta principale. Poi se uno vuole ed economicamente può, fa come Vendola e si fa fare un figlio da una donna indonesiana in Canada, comprandoselo per 10mila dollari come un cesto di insalata al mercato. Il massimo disgusto che ha fatto rivoltare lo stomaco persino alla vendoliana Laura Boldrini. Qualcuno si chiede per caso questo Tobia Antonio come potrà mai crescere? Di sicuro non se lo chiede Denis Verdini (nella foto ride con Riccardo Mazzoni), al quale dei gay non importa assolutamente nulla, come ha avuto modo lui stesso di dire, ma ha a cuore solo l’unione civile con il suo figlio (politico) prediletto, Matteo Renzi: “Io e lui siamo uniti dalla fiorentinità. Siamo franchi, diretti, un po’ alla Monicelli”, ha detto da Vespa. Sì, sicuramente entrambi dei fuoriclasse della supercazzola. E poi c’è chi come Licia Ronzulli, in tutto questo caos primitivo, mette una toppa che è peggiore del buco. “Si vendono e si affittano gli oggetti. No all’utero in affitto. No alla compravendita dei bambini. No allo sfruttamento delle madri in affitto. No al traffico delle madri in affitto”, scrive l’ex eurodeputata sui social. Il tema è di quelli seri ed è impossibile da non sottoscrivere il convincimento della dirigente di Forza Italia. Sotto la frase però la Ronzulli, forse pensando di dare più forza al suo spot, pubblica una sua foto con reggiseno sportivo da pilates, con le spalline abbassate, i capelli scarruffati, un maglione grigio aperto, le mani sui fianchi, la pancia nuda e addominali ben in vista con su scritto a pennarello “Not for sale. Not for rent” (nella foto) invitando i suoi “seguaci” a fare lo stesso. Un messaggio giusto, ma secondo me comunicato male. Una battaglia contro la mercificazione del corpo, mercificando il proprio non inizia sotto i migliori auspici. La Ronzulli, con questa immagine, esprime certamente un concetto condivisibile, ma con una foto di cattivo gusto rischia di sortire l’effetto opposto. Guai poi ad esprimere un parere contrario su Facebook. Ci ho provato ma la Ronzulli, prima ha risposto stizzita che non ha tempo da perdere con certe conversazioni, e poi ha cancellato i tre commenti che hanno osato criticarla. Si salvano, quindi, solo “Brava Licia!”, oppure “Sei bellissima!” ai quali lei risponde con un cuoricino o un bacino. A questo punto mi associo anch’io, visto che oggi è la giornata mondiale dei complimenti. Così non rischio di essere censurato di nuovo. Di cosa sono capaci queste unioni INcivili.

Ed ancora sulla pretesa che ai comunisti tutto gli sia dovuto...

Gli Usa: l'ex Pci voleva rovinare Berlusconi e tutte le sue aziende. Nel maggio '94 l'ambasciatore avvisò la presidenza Clinton: "Il Pds è deciso a distruggere il nuovo premier". Pochi mesi dopo l'agguato dei pm di Milano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 29/02/2016, su "Il Giornale". La sinistra vuole distruggere Silvio Berlusconi. I postcomunisti non accettano la discesa in campo del Cavaliere e hanno deciso di toglierlo di mezzo. Come un abusivo. Le carte della diplomazia Usa, pubblicate oggi per la prima volta dal Giornale, sono un documento straordinario, un'anticipazione di quel che sarebbe puntualmente successo di lì a pochi mesi: l'uscita di scena del premier, azzoppato dall'avviso di garanzia del Pool Mani pulite. L'ambasciatore Usa Reginald «Reg» Bartholomew aveva capito tutto e aveva avvisato Washington e l'amministrazione Clinton. I documenti trovati a Washington al Dipartimento di Stato da Andrea Spiri, professore della Luiss, confermano la previsione dell'accerchiamento e poi dell'attacco letale. È il 4 maggio 1994 quando Bartholomew invia a Washington un documento profetico, chiamato «Profilo del primo ministro incaricato Silvio Berlusconi». Il 4 maggio il governo deve ancora insediarsi, il Cavaliere entrerà a Palazzo Chigi solo il 10 maggio, ma il film è già scritto: il countdown è partito, il Pds non tollera l'idea che la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sia stata battuta quando pensava di avere campo libero sulle macerie della Prima Repubblica. A dicembre, ben prima delle elezioni, Bartholomew aveva già incontrato Berlusconi e il Cavaliere gli aveva spiegato che «il suo primo obiettivo, quando ha deciso di entrare in politica, era sconfiggere la sinistra». Il problema è che la sinistra, che verrà presa in contropiede dal clamoroso successo di Forza Italia, ha deciso di far fuori la nascente anomalia in grado di scompaginare i piani di D'Alema e Occhetto. Berlusconi l'ha raccontato subito all'ambasciatore che però ha messo insieme altri indizi e non si fa nessuna illusione su quello che avverrà: «Berlusconi ha riferito, e i contatti giornalistici giurano sia vero, che gli uomini del Pds (e D'Alema in particolare) hanno apertamente fatto sapere che se venissero eletti distruggerebbero economicamente Berlusconi. È stato riferito che D'Alema avrebbe detto (e non l'ha mai smentito) che il suo grande desiderio era quello di vedere Berlusconi elemosinare nel parco. È stato anche riferito che altri esponenti Pds avrebbero detto che lo stesso Berlusconi farebbe bene a lasciare l'Italia in caso di loro vittoria perché l'avrebbero distrutto». Storie note, fra voci e suggestioni, rimbalzate per molti anni nell'arena del bipolarismo italiano. Ma certo, in quel fatale maggio di 22 anni fa, Bartholomew, scomparso nel 2012 a 76 anni, mette in fila gli elementi e prefigura il copione che puntualmente si svolgerà nelle settimane successive: il 10 maggio, solo sei giorni dopo, il Cavaliere giura ma la macchina bellica, per niente gioiosa, è già in moto. I postcomunisti troveranno una sponda decisiva nell'azione della magistratura che il 21 novembre uccide di fatto il governo inviando al premier un invito a comparire per corruzione, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della sera. Per di più nelle stesse ore in cui Berlusconi è impegnato in una conferenza internazionale contro la criminalità a Napoli. L'effetto è devastante e si somma alle manovre di Palazzo del presidente Oscar Luigi Scalfaro, lo stesso di cui altri report americani, pubblicati ieri in esclusiva dal Giornale, documentano l'ostilità totale verso il Cavaliere. Un intruso da sloggiare prima possibile, come ha svelato agli americani una fonte autorevolissima: l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. «Cossiga - scriverà Bartholomew il 20 dicembre, quando ormai Berlusconi è sull'orlo delle dimissioni - ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Ma il 4 maggio 1994 la breve avventura del Cavaliere deve ancora cominciare. Eppure, con alcuni distinguo e con la necessaria prudenza, l'amministrazione democratica sembra accogliere senza diffidenza l'uomo cresciuto lontano dal Palazzo: «Berlusconi è un uomo che si assume dei rischi... che si è mosso in maniera rapida per colmare il vuoto politico provocato da Tangentopoli». Del resto con straordinaria preveggenza in un altro report, datato addirittura 15 ottobre '92, l'ambasciatore Peter Secchia, a Roma prima di Bartholomew, già aveva battezzato il Cavaliere «come nuovo leader politico», con la benedizione del declinante Craxi. E aveva evidenziato la sua partecipazione a una cena organizzata dal segretario del Pli Renato Altissimo per creare un soggetto politico in grado di raccogliere l'eredità del pentapartito. «Il governo Berlusconi sembra cadere - scrive a dicembre Bartholomew - E poi? Se cade - nota con un affilato giudizio controcorrente - questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro».

Da Scalfaro a Napolitano: le trame anti Cav del Colle nei rapporti segreti Usa. Ecco le carte choc della diplomazia americana che dimostrano il pressing del Quirinale dietro le cadute dei governi Berlusconi nel 1994 e nel 2011, scrive Stefano Zurlo, Domenica 28/02/2016, su "Il Giornale". Strategie e complotti. Washington e Silvio Berlusconi. Amministrazioni diverse, repubblicana e poi soprattutto democratica, ma grande attenzione ai volteggi del Cavaliere, alle convulsioni della politica italiana dominata da Berlusconi alle cospirazioni di Palazzo. Un monitoraggio fittissimo e a tratti invasivo lungo un ventennio. Alcune carte inedite, oggi pubblicate per la prima volta dal Giornale, documentano rapporti consolidati e preferenziali con alcune personalità, dubbi e oscillazioni dei presidenti a stelle e strisce e dei loro staff. Una mole di carte che Andrea Spiri, professore a contratto alla Luiss, ha scovato al Dipartimento di Stato di Washington, dopo la progressiva desecretazione dei file fra l'ottobre 2012 e il dicembre 2015. Gli americani mostrano di avere antenne molto sensibili nel nostro Paese e individuano subito, addirittura nell'ottobre '92, in piena tempesta Mani pulite, Silvio Berlusconi come possibile leader di un nuovo partito. Siamo molto prima della discesa in campo, a Washington sono gli ultimi mesi della presidenza di Bush padre, ma i riflettori si accendono subito su un futuro che ancora nessuno conosce. L'ambasciatore Peter Secchia invia un documento classificato come confidential: Le incertezze italiane. La soluzione è un nuovo partito politico? L'ambasciatore ha fatto indagini che riassume con concisione e pragmatismo: «Il segretario del Pli Altissimo ha organizzato una cena di lavoro segreta il 12 ottobre per proporre la formazione di un nuovo partito... La cena si è tenuta il 13 ottobre presso il Grand Hotel. Da quanto viene riferito il gruppo, di cui faceva parte il magnate dei media Berlusconi, così come Francesco Cossiga, ha deciso di chiedere allo stesso Cossiga di formare un nuovo partito... La partecipazione di Berlusconi è di speciale significato, per via della vicinanza di Craxi. La sua apparizione come un nuovo leader politico potrebbe avere la benedizione dello stesso Craxi. Comunque è anche la riprova che la potenza di Craxi, duramente colpito dagli scandali, continua a declinare». In ogni caso, «gli italiani - spiega - sono confusi e cercano il cambiamento». Una discontinuità che porterà a Palazzo Chigi nel '94 proprio Berlusconi. Due anni più tardi, a fine '94, il nuovo ambasciatore Reginald Bartholomew scrive a Washington e descrive con una certa preoccupazione l'agonia del primo esecutivo Berlusconi, minato dall'avviso di garanzia e dalla manovre del presidente Oscar Luigi Scalfaro. «Il governo Berlusconi - nota l'ambasciatore - sembra cadere. E poi? Se cade, questo potrebbe rafforzare l'impressione che l'Italia stia scivolando indietro verso la politica screditata che ha visto succedersi dalla fine della Seconda guerra mondiale 52 governi. Potrebbe inoltre consolidare la percezione che la politica operi essenzialmente in maniera indipendente e lontana dalla gente». Bartholomew, insomma, ha più di un dubbio sull'operazione in corso a Roma per sloggiare il Cavaliere. Ma non c'è niente da fare. Il 20 dicembre, due giorni prima delle dimissioni, Bartholomew invia una nota a Washington in cui spiega senza tanti giri di parole che il presidente Scalfaro l'ha giurata a Berlusconi e vuole cacciarlo da Palazzo Chigi. A svelargli gli intrighi è stato un testimone eccellente come Francesco Cossiga. «Cossiga - scrive l'ambasciatore rivolgendosi alo staff di Bill Clinton - ha sottolineato che uno dei fattori che stanno incidendo sulla crisi è la rottura irrecuperabile fra Scalfaro e Berlusconi. Cossiga ha riferito che Scalfaro si sentiva profondamente offeso dalle recenti batoste pubbliche ricevute dai berlusconiani, in particolare dal portavoce del governo Ferrara. Cossiga ha detto di ritenere che Scalfaro farebbe qualunque cosa pur di evitare un ritorno di Berlusconi al governo». Il destino è segnato. Di crisi in crisi si arriva fino all'attualità. E all'ultimo giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. A novembre 2011, con lo spread impazzito e la coppia Merkel-Sarkozy che lo guarda con sorrisetti di scherno, Berlusconi getta la spugna. Il 12 novembre il sottosegretario alla crescita economica Robert Hormats invia una mail a Jacob Sullivan, capo dello staff del segretario di Stato Hillary Clinton. Hormats riprende il report spedito il 9 novembre dall'ambasciatore David Thorne: «Continuano i battibecchi politici, ma la direzione generale è fissata». Segue un misterioso omissis. Quindi Thorne riprende: «Sono anche intervenuti la Merkel e Sarkozy. Lo spread è sotto il picco, ma ancora molto alto. L'Italia sa quello che deve fare. David». «Spero - riprende un per niente galvanizzato Hormats - che Thorne abbia ragione, che l'Italia sappia quello che deve fare. Dovremmo vedere se Monti può farcela con gli insofferenti e se può portare dalla sua parte l'opinione pubblica. Egli è molto brillante, ma le sue capacità politiche e motivazionali andranno verificate». E infatti Monti si rivelerà un disastro.Intanto, Giorgio Napolitano, presunto regista del complotto anti Cav del 2011, annuncia che non risponderà alle domande su quel che successe in quelle settimane. Quel che è accaduto nel 2011 - confida all'Huffington Post - possono ricavarsi da molteplici miei interventi pubblici. Non ritengo ritornarci attraverso mie memorie che al pari dei miei predecessori non scriverò».

Quando De Benedetti voleva creare Forza Italia. Nel '91 l'Ingegnere preparava un partito, ma il Cavaliere gli guastò i piani, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 16/12/2015, su "Il Giornale". La «rivoluzione senza sangue». Fuor di metafora, un nuovo partito pronto a prendere il potere. Nella primavera del '91, dopo il crollo del Muro ma prima dell'incipit di Mani pulite, Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, con la probabile benedizione dell'avvocato Agnelli, tramavano per rifondare lo scricchiolante edificio della politica italiana. E per consegnare alle teste d'uovo della vecchia sinistra azionista le chiavi di Palazzo Chigi. Dove si sarebbe insediato Carlo Azeglio Ciampi con la benedizione di schegge importanti del vecchio Pci e della sinistra democristiana. Non era una fiction ma un progetto avanzato che De Benedetti spiegò senza tanti giri di parole a Paolo Cirino Pomicino in quei mesi preinsurrezionali. E che l'ex ministro democristiano lascia balenare in un passaggio del suo ultimo libro, La repubblica delle giovani marmotte (Utet): «Gli ideologi del nuovo pensiero politico, De Benedetti e Romiti in prima linea, furono cosi umiliati nell'anno del Signore 1994, dalla vittoria di un dilettante - più-dilettante di quelli che avevano promosso la rivoluzione senza sangue, della quale De Benedetti mi aveva anticipato il disegno nella primavera del '91».Sì, è il paradosso che l'Italia visse in quegli anni: De Benedetti & soci avevano inventato una sorta di Forza Italia, naturalmente modellata sulle esigenze della sinistra giacobina e giustizialista, ma la creatura ancora in fasce fu uccisa dall'irruzione di Berlusconi e della sua Forza Italia che nel '94 sconfisse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Dietro Occhetto c'erano De Benedetti e la borghesia dei salotti buoni, con forti agganci nella sinistra Dc e nel nascente Pds. Commenta oggi Cirino Pomicino: «Nella primavera del '91 mi incontrai con De Benedetti che mi disse: Stiamo creando un nuovo partito, vuoi fare il mio ministro? Io la presi sul ridere: Mi hai preceduto, sto lavorando a un nuovo soggetto imprenditoriale, vuoi fare il mio imprenditore? Pensavo sarebbe finita lì e invece venti-trenta giorni dopo ottenni altre informazioni e mi resi conto che il disegno era assai dettagliato». L'idea era quella di dare la leadership del Paese ai tecnici, espressione di quella borghesia. E di utilizzare il vecchio corpo del Partito comunista per dare spessore al progetto e garantirgli i numeri o se si preferisce, le truppe di sfondamento. Insomma, si puntava a mettere insieme democristiani e postcomunisti, impresa oggi realizzata nel Pd, ma la stanza dei bottoni sarebbe stata affidata ai tecnici, ai tecnocrati, agli eredi dell'azionismo. «Ma - prosegue Cirino Pomicino - molti fra gli autorevoli imprenditori responsabili dell'originario disegno per far saltare in aria il sistema dei partiti furono azzannati dalla bestia che avevano aizzato». Mani pulite entrò anche in quei salotti vellutati, lo stesso De Benedetti fu arrestato anche se per poche ore dai magistrati di Roma, il vuoto fu infine riempito con sorprendente tempismo dal più dilettante dei dilettanti, quel Silvio Berlusconi che alla fine sbaragliò la sinistra e bloccò il partito delle élite. La guerra fra l'Ingegnere e il Cavaliere sarebbe invece andata avanti fino ai nostri giorni. 

La lobby degli opinionisti: una falange armata del Pd. La conferma in uno studio: la maggioranza degli esperti di politica è riconducibile al partito. Il centrodestra scompare dai talk show. Uno sbilanciamento tutto italiano, scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale". È il segreto di Pulcinella, ma all'evidenza empirica stavolta si aggiunge una prova scientifica. La stragrande maggioranza degli esperti di politica italiani, tra autorevoli editorialisti con cattedra universitaria e giornalisti opinion maker, è dichiaratamente di sinistra. Di più, si riconosce proprio nel Partito democratico, altro che intellettuali indipendenti. La ricerca l'ha fatta Luigi Curini, professore associato di Scienza Politica all'Università degli Studi di Milano (la presenterà domattina al policy breakfast dell'Istituto Bruno Leoni di Milano, titolo: It's the ideology, stupid! Le preferenze ideologiche degli esperti di politica in Italia). Il metodo si basa sugli «expert surveys» usati a livello mondiale per ricavare la posizione ideologica politica degli esperti, chiedendo direttamente a loro. Il campione, assolutamente segreto nei nominativi, riguarda un centinaio tra docenti di scienze politiche italiani (molti dei quali poi firmano articoli su giornali o sono ospiti di talk show politici) e giornalisti. Il risultato ottenuto da Curini è schiacciante. La curva della distribuzione degli esperti sull'asse sinistra-destra, cioè da Sel a Forza Italia e Lega Nord, vede assiepati la quasi totalità dei nostri autorevoli opinionisti sulla verticale che conduce direttamente al simbolo del Pd, il loro partito di riferimento. Pochissimi, invece, si definiscono vicini all'area politica di centrodestra, da cui conviene stare molto alla larga se si vuol far carriera nelle università ed essere accolti nei giri giusti. Una delle evidenze più marcate, nota il professor Curini, è infatti «la perdurante scarsa popolarità che idee moderate, liberali o conservatrici (ovvero, e in termini se vogliamo più generali, di centrodestra) sembrano esercitare su chi insegna politica nelle aule dell'università o su chi ne scrive e ne discute sui giornali e media. A parte il 2008, e peraltro anche allora solo marginalmente, in tutti gli altri casi le preferenze degli esperti trovano sempre un unico picco collocato a sinistra della scala ideologica». Se in generale negli altri paesi si osserva un diffusa preferenza per la sinistra tra gli esperti di politica (evidente anche negli Usa con una netta prevalenza dell'ala liberal tra i docenti universitari), l'Italia supera tutti per militanza ideologica degli opinionisti supposti super partes. Nessun Paese, passando dal Giappone e Canada fino a Germania, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, può vantare un esercito di esperti di politica così spostati a sinistra. Ma la nuova ricerca, ancora in corso e coperta dal segreto scientifico, del professor Curini su un campione diverso, quello dei giornalisti italiani, promette risultati ancora più clamorosi. Naturalmente sempre con lo stesso segno politico: tutti ammassati nell'area del Pd, il partito renziano che si è sempre dimostrato molto riconoscente con gli amici (vedi l'occupazione della Rai). È interessante esaminare, poi, lo spostamento (si fa per dire) degli intellettuali e politologi italiani nel decennio che ha visto la trasformazione dei vecchi Ds nel nuovo Pd. Mentre infatti il loro partito di riferimento si muove leggermente da sinistra verso il centro-sinistra, casualmente anche loro - nelle rilevazioni compiute nel 2006, 2008 e 2013 - passano dal sentirsi di sinistra al centrosinistra. Per puro caso, quindi, si ritrovano a sostenere un partito - prima Ds, poi Pd - che rispecchia esattamente la loro nuova posizione politica. Che coincidenza miracolosa.

La supremazia rossa dalla politica fino al cimitero. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più, scrive Nicola Porro l’8 febbraio 2016 su “Il Giornale”. C’è poco da fare, passano gli anni, nel Pd arriva un cattolico come Matteo Renzi, eppure la supremazia culturale, intellettuale della sinistra non morirà mai. Rita Fossaceca era un medico molisano che lavorava in un ospedale a Novara. Ogni anno dedicava le sue vacanze a un orfanotrofio in Africa. Alla fine dell’anno scorso è stata barbaramente uccisa, con un machete, a due passi da Malindi. Rita era profondamente cattolica, era il segno della sua attività. Nessuno, o pochissimi, l’hanno ricordata. Un cattolico che muore tragicamente in Africa, interessa poco. Valeria Solesin è morta invece a un concerto, quello del Bataclan. Per lei funerali e media da prima pagina. Per Giulio Regeni, barbaramente torturato al Cairo, inchieste, prime pagine ovviamente, e cordoglio delle massime autorità dello Stato. Ogni morto ha la sua storia e merita il nostro massimo rispetto. Ma per i nostri media c’è qualche morto che vale di più. È orribile pensare che, in un’ipotetica e cinica scala dei valori, un «morto impegnato» valga più di un morto cattolico. Ma così è. E tutti appresso. La supremazia culturale della sinistra si manifesta clamorosamente nelle primarie di Milano. Vedete, si può parlare per ore dell’incredibile partecipazione cinese. Ma il punto è un altro. Tutta la Milano che conta è transitata in queste ore nelle sedi del Pd. Professionisti altrimenti riservati, signore della prima cerchia, banchieri, giornalisti, opinionisti, cantanti in fila per Sala o la Balzani. Gli stessi che si vergognerebbero di essere associati a qualunque altro ambiente politico, si fanno fotografare mentre certificano il fatto di essere non solo di sinistra, ma di aderire al programma del Pd. E, per di più, con un’alzata di spalle liquidano chi ricorda loro la brutta scena di una fila così taroccata. Lo possono fare, anche se in fila stanno con i cinesi: perché quello di sinistra è un marchio che funziona, che non ti sporca, non ti impegna. E ti fornisce quel formidabile passepartout che, se qualcuno la fa grossa, è pur sempre «un compagno che sbaglia». Signori, la sinistra funziona sempre. Prendete Brindisi. Arrestano un sindaco del Pd e tutti si affrettano a dire che si era autosospeso. Embè? Dove sono finiti gli indignati per il presunto scandalo di Quarto, dove il sindaco grillino semmai è stata vittima di un ricatto? Essere di sinistra, purtroppo, oggi in Italia aiuta ancora. È meglio che la «destra torni nelle fogne», come ha recentemente detto Ignazio Marino.

L’ostentazione ideologica in luoghi e tempi inopportuni. I comunisti di sinistra (con albori socialisti), spesso, ed i comunisti di destra (con albori di socialismo), molto meno, antepongono la loro religione anticlericale, ad ogni logica, ragione e norma di buon senso. I poveri liberali, presi dal proprio individualismo, scemano di fronte a tanto strabordante potere. I comunisti ostentano non il loro essere, ma la loro appartenenza ad una religione. Non hanno timore di mostrare il comunismo che è in loro, ignari o strafottendosene del fatto che fanno parte di un gruppo retrogrado e non a passo con il terzo millennio.

Contro l’estinzione dell’italianità. Un fiocco o nastro nero per gli emarginati, diseredati, gli ingiustamente condannati o detenuti, i tartassati e le vittime dei reati impuniti e comunque vittime di ingiustizie. Italiani dimenticati dal politicamente corretto e dalla politica oligarchica che li valuta meno di gay ed immigrati. Basta con il comunismo di destra (fascismo) ed il comunismo di sinistra (stalinismo) e con l’ostentazione fuori luogo della loro religione.

Sanremo 9-13 febbraio 2016, quanti cantanti espongono l'arcobaleno. Sul palco dell'Ariston tanti big e ospiti hanno voluto mostrare il proprio sostegno per i diritti delle coppie omosessuali. Con un nastro arcobaleno al braccio (o sul microfono o sulla chitarra), ecco tutti gli artisti che hanno esposto il simbolo nelle dirette di Rai Uno: Elton John, Pooh, Hozier, Valerio Scanu, Dolcenera, Rocco Hunt, Clementino, Francesca Michelin, Arisa, Michael Leonardi, Mahmood, Patty Pravo, Noemi, Enrico Ruggeri, Irene Fornaciari, Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Bluvertigo. Francesco Gabbani, Benji & Fede, Deborah Iurato e Giovanni Caccamo.

Dai partigiani sono nati i fascisti rossi. L'aggressione ad Angelo Panebianco ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo, scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/02/2016, su “Il Giornale”. L'aggressione da parte di facinorosi di estrema sinistra ad Angelo Panebianco, (il 23 febbraio 2016) impedito dai loro schiamazzi di tenere lezione, ricorda che non c'è stata e ancora non c'è una chiara demarcazione fra i metodi di una certa sinistra e quelli che erano stati del fascismo. Sono venuti al pettine i nodi non risolti nel 1945, quando gli italiani si illusero, e contrabbandarono l'illusione, che, avendo sostituito la camicia nera che aveva indossato fino a quel momento con quella rossa, la democrazia fosse automaticamente tornata in Italia. In realtà, la Resistenza aveva semplicemente sconfitto il fascismo, ma non aveva ancora instaurato la democrazia nel nome della quale la stessa Resistenza pure era stata combattuta, almeno da una sua parte, quella cattolica, liberale, repubblicana, socialista. Per creare le condizioni di un'autentica forma mentale democratica sarebbe stato necessario riflettere su ciò che era stato il fascismo, perché fosse durato tanto a lungo e quali fossero stati i fondamenti culturali di chi aveva combattuto nella Resistenza da una certa parte, quella comunista, pur meritoria. La mancata riflessione ha finito col rivelare una correlazione fra i metodi squadristi del fascismo e l'intolleranza della sinistra di matrice comunista, allergica alla libertà d'opinione altrui e convinta che in Europa Orientale l'occupazione militare sovietica avesse instaurato democrazie superiori e non semplici dittature. Il fatto che l'Urss avesse contribuito internazionalmente alla caduta del fascismo non ha fatto del suo sistema politico una forma di democrazia superiore a quella borghese. È, perciò, del tutto inutile prendersela ora con i quattro facinorosi che hanno aggredito il professore liberale, e condannarli moralmente e politicamente se non si riflette sull'esito della Resistenza e su ciò che ha significato la caduta del fascismo ad opera di una opposizione che propugnava la nascita anche in Italia di una democrazia popolare che del fascismo aveva la stessa natura totalitaria. La Resistenza non ha cancellato le responsabilità culturali e politiche di chi era stato fascista e, dopo la caduta del fascismo, si era rapidamente trasformato in un (falso) difensore delle libertà conquistate. È questo il pesante lascito culturale e politico della Resistenza sulla nostra giovane e imperfetta democrazia. La verità è che nel 1948 l'Italia è stata salvata dal voto delle donne, che hanno scelto in massa la Democrazia cristiana e i partiti ad essa alleati, allontanando lo spettro di una trasformazione del Paese in una democrazia (si fa per dire) di tipo sovietico per cui si era battuta la Resistenza comunista.

Quando l’amore diventa un nastrino, scrive l'11/02/2016 Nino Spirlì su "Il Giornale". Pensavo di aver visto, sentito e imparato tutto riguardo all’amore. Da quello materno a quello passionale di una puttana lautrecchiana, innamorata del sogno di riscatto. Dall’amore fraterno, al caldo delle pareti di casa, a quello corposo fra commilitoni in battaglia. Fino a quello scomposto dentro ai cessi delle stazioni o nelle umide saune per bugiardi solitari e soli. Ma l’amore a mezzo nastrino, esposto fra le canzoni del festival della canzone piddina, no. Quello non lo conoscevo ancora. E, con me, qualche milione di italiani. Tutto ci saremmo potuti aspettare, compresa la gag ironica di qualche comico strapagato coi dollaroni del canone, ma il gran pavese di bandierine eque e solidali attorcigliate ai microfoni, ai polsi, alle dita dei cantanti, ci ha colti alla sprovvista. Come dire, al ridicolo non c’è mai fine. Io, infatti, sarei sprofondato per la vergogna, solamente a pensare di diventare pennone umano di banali bandiere da gaypride. E su! Prima la rasentavamo, ora ne siamo impastati di scempiaggine e ipocrisia. Così vogliamo risolvere la nostra partecipazione ai “temi sociali”? Con un fiocchetto arcobaleno? O con una parolina buttata lì, fra il liso e il frusto, in una microintervista? Pessimo servizio alla causa. Pessimissimo, oserei azzardare. Sa tanto di “Mi piace” di feisbucchina abitudine. Un clic e via. Si partecipano così, ormai, auguri e condoglianze, dolori e gioie infinite. A Sanremo, lo stesso. Una treccia sciolta di nastrini da fioraia di sette colori, e il frocio è servito. Che pena! Sia gli artisti che i commentatori. Ma, soprattutto, che tristezza i ricchioncelli felici sui social. Che sono pronti a crocifiggere il prete come loro, ma battono le mani e zompettano sulle sedie quando scorgono un accenno di solidarietà alla causa gaya da parte del loro idolo canterino. Se, poi, alla pugna (che spesso non è così grande) partecipa anche l’attorello zigomato di fresco, Evviva! La guerra è vinta! Maddechè, commenterebbe il mio amichetto romano. Bastasse questa ennesima trovata da bancarellari per convincere zia Maria che la nipote lesbica non è “difettosa”! Il problema è che zia Maria morirà convinta che, quella volta che sua sorella scivolò, incinta, per le scale, sicuramente “dentro” qualcosa accadde, e nacque per quel qualcosa la nipotina a cui non piacciono i maschi. Difettosa, appunto. Per cambiarla, questa mentalità disinformata, dovremmo, noi “difettosi” evitare provocazioni e processioni col culo di fuori. Dovremmo viverla, noi per primi, serenamente, la nostra omosessualità. Svegliarci, noi per primi, sinceri, sereni. Fare colazione sereni, andare a lavorare sereni, al cinema, a teatro, al mercato, a scuola, in caserma, in ospedale… Sempre sereni. Parlare con i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici. Perché non siamo né migliori, né peggiori degli altri. Siamo come. Quando lo avremo capito noi, noi per primi, sarà tempo di famiglia. Ora, no. Troppi carri e poca umiltà. Troppo fard. Troppe paillettes. Troppe bugie. Troppo astio. Quasi odio. E silenzi assordanti fra le mura di casa. Mentre fuori è tutto un nastrino. Cretino.

Quanta ipocrisia su una riforma che non serve. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali, scrive Piero Ostellino, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Mentre nel nostro Stato post-fascista e presovietico - ci sono decine di diritti umani disattesi dalla legislazione pubblica, il Parlamento, invece di porvi rimedio, perde tempo a trovare una forma giuridica che disciplini le unioni civili fra individui dello stesso sesso (che è, poi, la formula ipocrita con la quale la politica, quando non sa come cavarsela, utilizza un sinonimo per non usare il termine autentico nella circostanza matrimonio sarebbe troppo impegnativo). A che servano, poi, le unioni civili se non a produrre consenso a chi le ha proposte è difficile dire. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e che non si sognerebbero mai di regolare in tal modo il loro rapporto, o addirittura di sposarsi, avendolo già regolato, grazie alla legislazione vigente, e/o con intese bilaterali. Che si sentisse la necessità di creare l'istituto giuridico delle unioni civili sarebbe difficile sostenerlo anche da parte di chi è omosessuale, e ciò non tanto per ragioni morali, che restano indiscutibili, e neppure per ragioni giuridiche, bensì, diciamo così, per ragioni di costume. Conosco coppie di omosessuali che non ne hanno mai avvertito l'esigenza e che, tanto meno pensano di sposarsi... convinte, come sono, che il matrimonio sia storicamente l'unione fra un maschio e una femmina...E, allora, che dire? Personalmente, penso che ognuno abbia il diritto di fare ciò che più gli piace, tenuto anche conto che una legislazione, in proposito, esiste già e nessuno se ne lamenta. Conosco coppie di omosessuali che convivono pacificamente e felicemente sotto la legislazione vigente e che non si sognerebbero mai di sposarsi facendo ridicolmente il verso al matrimonio fra individui di sesso diverso. Non ne faccio una questione morale o sociale, ci mancherebbe! anche se la famiglia è sociologicamente il primo nucleo attorno al quale, notoriamente, si è costituita la società civile... Ne faccio solo una questione di senso comune nella convinzione che, dopo tutto, ciascuno ha il diritto di fare ciò che più gli piace, senza che altri ci metta il naso.... La politica, che specula sui sentimenti del prossimo per guadagnare consensi, mi fa francamente schifo... E questo delle unioni civili a me pare ne sia è il caso... Si è usato il sinonimo di unione civile per non usare quello, più impegnativo, di matrimonio, anche se ci sono non pochi omosessuali che si sposerebbero e, quel che è esteticamente peggio, con lo stesso rito e le stesse procedure, di quello fra individui di sesso differente...Una cosa è certa: continuerò ad avere gli stessi rapporti di amicizia e di affetto nei confronti dei miei amici omosessuali, accoppiati o no che siano, anche se non aderiranno all'unione civile e non la celebreranno... cosa di cui, del resto, per parte loro, non mostrano affatto di avvertirne l'urgenza... Faccio pertanto, i miei sinceri auguri a quelli che vi aderiranno e celebreranno un'unione civile, anche se, in tal caso, sarebbe pleonastico aggiungervi il rituale «e figli maschi»... Non ne avranno per la contraddizione che non o consente - e neppure, credo, ne adotteranno (altro problema di cui si discute in questi giorni). Continuerò a frequentarli come prima...

E' mistero sul tweet pubblicato da Francesco Facchinetti sul suo profilo. Durante la prima serata del festival di Sanremo (9 febbraio 2016), il figlio del tastierista dei Pooh ha commentato la scelta di alcuni cantanti di presentarsi con un nastro colorato in mano a fovore delle Unioni civili, scrivendo: "Unica cosa che mi irrita è questo ostentare il sostenere i diritti delle coppie GAY. Non ho nulla contro la cosa ma sembra veramente forzato". E sul social network è subito scoppiata la polemica. Anche Alessandro Gassmann ha replicato: "Non si tratta di ostentare, ma di riconoscere, con i doveri, anche i diritti di TUTTI. Irritato?". Il tweet dell'ex presentatore di X Factor è stato poi cancellato e lo stesso Facchinetti ha dato la colpa a non si sa chi: non è stato lui né le persone che lavorano per lui. E sempre attraverso un tweet ha fatto sapere che ha intenzione di indagare. Ma questo non ha fatto altro che alimentare ancora di più la polemica.

Il Festival di Sanremo 2016 è alla sua seconda serata e continuano gli artisti che si stanno esibendo sul palco del Teatro Ariston mostrando i nastrini arcobaleno a favore delle unioni civili. Nella prima serata del Festival cantanti come Arisa, Noemi, Enrico Ruggeri e Irene Fornaciari, sono saliti sul palco con un nastrino color arcobaleno, a sostegno delle unioni civili. Noemi ha deciso di schierarsi a favore dei diritti dei gay abbellendo l’asta del suo microfono con tantissimi lunghi nastrini colorati. A dar loro manforte è intervenuta Laura Pausini, invitata come super ospite. Nella seconda serata, invece, i primi big in gara a presentarsi con gli ormai famosi nastrini sono stati Dolcenera, Patty Pravo, Valerio Scanu e Francesca Michielin. Anche il super ospite della seconda serata Eros Ramazzotti, ha cantato i suoi maggiori successi con il nastrino arcobaleno.

L’Italietta dei nastri arcobaleno si ritrova sul palco dell’Ariston. Davanti alla tv nell’inutile attesa di frasi shock di Elton John La kermesse canora diventa sponsor del decreto Cirinnà, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” l’11 febbraio 2016. Guardando Sanremo, vien da chiedersi se sarebbe definibile musica The roastbeef of Old England, vecchia canzone popolare inglese che esalta il vitello arrosto, perchè rende i soldati «valorosi» e «nobilita i cuori». In quelle strofe del ‘700 si ammonisce a non cedere alle raffinatezze culinarie » delle effemminate Italia, Francia e Spagna». No, questa non è musica, chiaro. C’è «effemminate» nel testo, e mai potrebbe trovar albergo nel circone politicamente corretto, questi giorni costretto a camminare sul ciglio della par condicio ideologica in casa di Mamma Rai. Al massimo, mette giù un piedino, per bagnarsi nel gayo oceano, ossequiando il dogma dell’essere al passo coi tempi. E allora ecco i nastrini arcobaleno, portati sul palco per testimoniare l’assenso dell’areopago vip al Ddl Cirinnà. Ecco una giornata consumarsi nell’attesa di di Elton John all’Ariston manco fosse il lancio dello Sputnik. Ci sarà o no il marito? Dirà «datemi un utero in affitto e solleverò il mondo?» Tutta l’Italia videodipendente diventa una immenso salone di parrucchiera, dove si «prevede», si sparla, si duella a colpi di luoghi comuni. Poi, Elton John arriva, dice una cosa scontata, cioè che mai avrebbe pensato di diventare padre, del suo compagno di vita neanche l’ombra. Coitus interruptus. Come le frasette buttata là dalla Pausini sulla necessità di rispettare i diversi (perché c’è qualcuno di mentalmente sano, forse, che vorrebbe sterminarli?), o come qualche battutina dell’ottima Virginia Raffaele, conduttore morale del Festival. E lo spottino sulla famiglia «fondamentale, qualsiasi essa sia», lanciato da Ramazzotti. Anche lui, ieri, con il nastro arcobaleno («questa cosa è importante», ha detto). Feticcio di un impegno fatto coi gadget e non con gli argomenti, una strizzatina d’occhio senza esagerare. Ma se davvero una questione è importante, allora bisogna viverla fino in fondo. Essere di rottura, prendersi responsabilità. Come gli ubriaconi inglesi che cantavano del vitello arrosto. Però, se questo è il campo da gioco, sfidiamo ad alzare la posta. E invitiamo qualche cantante a presentarsi con un nastro nero. Perché? Per il lutto della delle nostre libertà ed essenza. Per i ragazzi che abbiamo perduto all’estero, tipo Valeria Solesin e Giulio Regeni. Oppure per Paolo e Barbara, 40 anni lui e 46 lei, che lunedì l’hanno fatta finita con il gas di scarico della macchina nel mantovano perché sfiancati dai problemi economici. Nero per le ragazze di Colonia, prede carnali nella mattanza islamica di Capodanno. Banale, scontato? Forse, ma almeno guardiamo alle ferite profonde. Perciò, ora vediamo se qualcuno ha il coraggio di portar su questo nastro nero. Se ciò dovesse accadere, poi, tenetevi pure la vostra saga arcobaleno dagli istinti propagandistici mal inibiti, che tanto si è capito dove volete andare a parare. Anzi, l’anno prossimo fate presentare il Festival direttamente da Vladimir Luxuria, che ha già spiegato come si truccherebbe meglio di Gabriel Garko (di sicuro sarebbe intellettualmente molto più vivace). Andate avanti con questo trionfo di giacchette attillate, con questo tripudio di botox gommoso su volti maschili ben piallati. Non è roba per noi.

Un Sanremo arcobaleno tra coccarde e tweet politici. Il Festival della canzone italiana è diventato teatro di diverbi via Twitter tra i politici. Più che delle canzoni si è parlato di unioni civili tra nastrini arcobaleno che svolazzavano sul microfono della metà dei cantanti e difese e accuse al ddl Cirinnà, scrive Micol Treves il 10 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Dopo la pioggia: l’arcobaleno. Coloratissimo. Artistico. Nubifragio sulla città dei fiori per il primo giorno di kermesse, fino a sera. Quando si placa la tempesta, comincia la festa. E coccarde coloratissime sfilano sul proscenio, illuminate dai riflettori, appese ai microfoni di alcuni artisti (Noemi, Stadio, Fornaciari, Bluvertigo, Ruggeri). Cinque su dieci: i numeri danno manforte alla polemica che da ore aleggia su questa 66esima edizione del festival. Su Twitter parte il can can: l’hashtag? #Sanremoarcobaleno. Piomba solidarietà ai cantanti temerari. Conti non commenta. La politica, sì: “Dopo nastri arcobaleno esporre il Tricolore per le foibe”, cinguetta Gasparri”. E ancora il leader della Lega, Salvini, sull’ospitata di Elton John voluta da Rai Uno: “Strapagarlo per esaltare le adozioni gay è una vergogna. Ma è il festival della canzone o un comizio politico?”. Ecco. Pronta la risposta della senatrice Cirinnà: “Sanremo è lo specchio della società italiana, per questo la solidarietà degli artisti nei confronti di un provvedimento tanto atteso non mi sorprende. E' un qualcosa che probabilmente ci racconta che il Paese reale è più avanti della politica. Se la cosa può toccare il dibattito parlamentare? Può aiutare i colleghi più scettici a capire che là fuori c'è un mondo a colori, variegato. Che le convinzioni personali vanno sì difese ma senza perdere di vista il fatto che, come legislatori, siamo chiamati a dare risposte. A tutti. In special modo a chi vive ancora fuori dalla tutela delle leggi”. A buttare acqua sul fuoco, come sempre, come da manuale, è il direttore di rete, Giancarlo Leone: “Ognuno è libero di portarsi le coccarde che vuole. I cantanti non devono neanche informarci. L’iniziativa è loro”. Così, questa mattina in conferenza stampa. Libertà di coscienza. Ma l’iniziativa, da dove arriva? Da gay.it, ovviamente. E da Andrea Pinna, vincitore in pectore di Pechino Express. Le coccarde incriminate sono passate di mano in mano, fino al retro palco dove, si vocifera, il team di Noemi abbia contribuito a farle avere agli artisti. Un successone. “Esibirmi con la coccarda mi è sembrato un modo sorridente, un segnale affettuoso su un tema sul quale mi sembra che si dibatta abbastanza”, ha spiegato Enrico Ruggeri. “Sono contento di avere partecipato a questa iniziativa. Solo in 5 su 10 hanno aderito? Credo perché gli altri non l’hanno intercettata”. E ancora, a proposito di stepchild adoption: “Per adesso non ho un’opinione precisa a riguardo. Per il resto non si parla di diritti ma di logica, non c’è neanche da discutere”. E a chi sostiene che questo sia, ormai, un festival molto (forse troppo, a questo punto) Lgbt, risponde Carlo Conti: “Spero che resti il festival della canzone italiana, ma siamo nel 2016, uno dei temi è anche questo. Il nostro è un evento dove si raccontano tante sfaccettature della società. Noi lasciamo libertà”. Vedremo.

Parla Veneziani: "A Sanremo Povia processato e il monarca dei gay Elton John esaltato", scrive Adriano Scianca il 10 febbraio 2016. "Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto. Povia fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità...". Marcello Veneziani non ha visto la prima puntata del Festival di Sanremo, ma sulla kermesse e sui messaggi ideologici lanciati sembra essersi fatto lo stesso un'idea. E a IntelligoNews dice: "Non è più democrazia, ma dittatura del proprio tempo".

Veneziani, ha visto Sanremo? 

«No, assolutamente no». 

Avrà letto, tuttavia, che quest'anno, fra Elton John e i nastri arcobaleno, c'è stato un tema che ha dominato la prima serata del Festival... 

«In realtà Sanremo si adegua sempre al politicamente corretto, anche in passato c'erano stati dei casi simili. Del resto quando ci fu qualcuno, come Povia, che tentò di proporre una canzone che affrontava l'omosessualità da un altro punto di vista, fu processato pubblicamente. Quest'anno, poi, c'era Elton John, che è il monarca del regno dell'omosessualità, quindi...».

Non crede che sia un po' assurdo prendere il miliardario Elton John come esempio di tipica famiglia gay felice?

«Esattamente. Si prendono sempre casi estremi, o per drammaticità, o per situazioni opposte e non paragonabili con la quotidianità. Di fatto sono modelli non esportabili».

Intanto si va avanti con il ddl Cirinnà. Per il Parlamento è una priorità. La maggioranza degli italiani, tuttavia, la pensa diversamente. È la solita scissione tra Paese legale e Paese reale? 

«Cessato l'appello al popolo, resta l'appello alla modernità. O all'Europa. Si cerca sempre una nuova fonte di legittimità. Non è più democrazia, ma è dittatura del proprio tempo». 

Ha seguito il dibattito di qualche giorno fa fra pediatri e psichiatri sull'opportunità di affidare figli a coppie omosessuali?

«Era un dibattito sul filo tra scienza ed esperienza. Del resto l'impressione è che molti degli studi su questo argomento siano falsificati, escludendo i dati che vanno in una direzione non voluta. Mi sembra assurdo che nessuno sin qui si sia posto il problema di sapere se questa cosa possa portare dei danni ai bambini. Si dice che basta “essere felici”. Nessuno si chiede se sia felice il bambino, però». 

Cosa risponde a chi dice che a un bambino basta l'amore per essere felice? 

«È una motivazione psicolabile. Con l'amore si può giustificare tutto, del resto...».

Ha notato come sul tema delle unioni civili si usi sempre la metafora spaziale già tipica dei marxisti, quella della linea retta in cui c'è chi sta più “avanti” e chi più “indietro” rispetto al senso della storia? 

«Devo dire che questo è l'argomento più forte in favore delle unioni civili, questo determinismo storico per cui ogni opposizione contro lo spirito del tempo è inutile. L'idea di tradizione funziona esattamene al contrario, o quanto meno si basa sulla continuità e non implica che qualsiasi passo avanti sia un progresso, sia pure per finire nell'abisso. L'idea che esistano solo un “avanti” e un “indietro” va contro la multidirezionalità della storia. È l'unico lascito dell'ideologia progressista che è rimasto in piedi». 

Con la differenza che una volta al termine della linea retta c'era la società senza classi, oggi c'è la società senza sessi... 

«O anche la non-società, ovvero una costellazione di casi individuali che se ne vanno per conto proprio. Ed è paradossale che partendo da una seppur vaga ispirazione socialista si sia finiti alle idee della Tatcher secondo cui “la società non esiste”...».

Ma quello arcobaleno è un simbolo cristiano (cooptato poi dal mondo Lgbt), scrive “Papa Boys” il 10 febbraio 2016. Ieri è andata in onda la prima serata del Festival di Sanremo, ci si aspettava il solito spot Lgbt (come accaduto l’anno scorso) ed invece le proteste preventive hanno funzionato. Ovviamente l’egemonia omosex che domina, questo ed altri Paesi occidentali, non poteva rinunciare completamente ad un’occasione così ghiotta per imporsi con prepotenza, sono così apparsi i nastri arcobaleno legati al microfono dei cantanti. Una manifestazione, sicuramente puerile, ma comunque accettabile se pensiamo che il concreto rischio era la promozione plateale dell’utero in affitto da parte di Elton John noto per aver egoisticamente privato due bambini dell’amore materno. Eppure, pochi sanno che l’arcobaleno è da sempre un simbolo cristiano. Lo ha spiegato recentemente padre John Paul Wauck, professore dell’Università Santa Croce di Roma, commentando la scelta della Santa Sede di colorare con l’arcobaleno l’albero di Natale in piazza San Pietro: i colori dell’arcobaleno hanno «un significato biblico: è il segno dell’alleanza di Dio con l’umanità e con tutto il creato». Soltanto negli anni ’90 venne cooptato dal mondo Lgbt, ma è sempre stato importante nel mondo giudaico-cristiano con collegamenti soprattutto per la festa di Natale: «Come segno celeste dell’amore di Dio per l’umanità, l’arcobaleno è un precursore della stella di Betlemme, che annuncia la nascita di Gesù Cristo, il Messia, che è venuto a portare la pace sulla terra. Dal tempo di Noè, Dio aveva preparato un’alleanza di pace e ogni arcobaleno era un promemoria continuo di essa, che si sarebbe compiuta e realizzata in Gesù». E’ stato spiegato che il brano biblico più famoso in cui si fa riferimento all’arcobaleno è il capitolo 9 del libro della Genesi, a conclusione della narrazione del diluvio. A partire dal v. 8 si descrive la stipulazione di un’alleanza tra Dio, da una parte, e Noè, i suoi figli, i loro discendenti (quindi l’umanità intera nella prospettiva del racconto biblico) e tutti gli animali, dall’altra: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne (cioè ogni essere vivente, uomo o animale) dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gen 9,11). Nei successivi vv. 12-16 si insiste sul «segno» di quest’alleanza che è l’«arco sulle nubi», ovvero l’arcobaleno. E’ possibile, comunque, che la descrizione dell’arcobaleno come «segno dell’alleanza» riprenda tradizioni o racconti o convinzioni popolari al riguardo. Un simbolo di pace e di promessa per la cultura cristiana, cooptato prima dai movimenti pacifisti degli anni ’60 e poi dal movimento gay. Non è la prima volta che accade, anche il tema dell’ecologia è un antico valore prettamente cristiano, sensibilità nata nel Medioevo e poi ideologizzata da radicali, malthusiani e neo-ambientalisti. Così come quello della povertà, valore prettamente cristiano poi “saccheggiato” dal marxismo, che sopra vi ha costruito una demagogica e mortifera ideologia. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Ho sentito, due mesi fa, che una persona ha detto, per questo parlare dei poveri, per questa preferenza: “Questo Papa è comunista”. No! Questa è una bandiera del Vangelo, non del comunismo: del Vangelo! Ma la povertà senza ideologia, la povertà». E ancora: «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».

Un Festival arcobaleno, ma per le foibe un solo minuto. Da due giorni le unioni gay tengono banco a Sanremo. Ma Conti dedica solo una frase al Giorno del Ricordo, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 10/02/2016 su “Il Giornale”. Nastri e bracciali arcobaleno, ospiti che non mancano di parlare del loro concetto di famiglia, battute e appelli vari. Mentre dentro e fuori dal Parlamento tiene banco il ddl Cirinnà, il Festival di Sanremo si è trasformato quest'anno in un lungo spot a favore delle unioni civili e della cosiddetta stepchild adoption, la norma che permette di adottare il figlio del partner. Eppure nel giorno della ricordo ci si aspettava che almeno uno degli intermezzi fosse dedicato a ricordare i morti delle foibe. Soprattutto dopo che da più parti era arrivato l'appello a portare sul palco dell'Ariston oltre alla bandiera arcobaleno anche il Tricolore, simbolo di una strage e un gesto di unità nazionale. Un appello che a quanto pare non è stato accolto, visto che Carlo Conti ha dedicato all'evento nemmeno un minuto e si è limitato a una frase striminzita prima di annunciare Elio e Le Storie Tese. "Ricordiamo per non dimenticare", ha detto il conduttore di Sanremo. A pensar male si direbbe che gli autori si fossero totalmente dimenticati della ricorrenza e che abbiamo buttato lì una frase solo per far contenti i vari Gasparri & Co. Anche se Giorgia Meloni ringrazia su Twitter: "Grazie Carlo #Conti per aver parlato a #Sanremo2016 del #GiornodelRicordo e aver onorato la memoria dei martiri delle # foibe e dell'esodo".

Ma ci pensa il comunistissimo “L’Espresso” a buttarla in “caciara”. "Camerati, attenti". Così i neofascisti sfruttano il giorno del ricordo. Il 10 febbraio si celebrano le vittime delle foibe: le voragini dell'Istria dove tra il 1943 e il 1947 sono stati gettati quasi diecimila italiani per mano dei partigiani jugoslavi. Oggi quella tragedia, ignorata per decenni, è motivo di identità per l’estrema destra del terzo millennio di Casa Pound e Forza Nuova, scrive Michele Sasso il 10 febbraio 2016 su "L'Espresso". Corteo in ricordo dei martiri delle Foibe organizzato da Casapound a Torino nel 2015Il 10 febbraio, che dal 2004 è il giorno del ricordo della tragedia e dell'esilio dei profughi istriani, è una data che divide. Ignorato per decenni, trascurato dai programmi scolastici, il dramma delle foibe è oggi ricordato, oltre che da iniziative istituzionali, da gesti che scaldano i cuori all’estrema destra. Il giorno della «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati» è stato voluto nel 2004 dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accogliendo la proposta di legge di Alleanza nazionale con la volontà di «chiudere definitivamente una pagina di dolore, con un atto di civile memoria dello Stato italiano». Un capitolo tragico e scomodo, un gesto riparatorio fatto da chi come Ciampi nel 1943 rifiutò di aderire alla Repubblica sociale italiana per raggiungere gli alleati che risalivano la Penisola. Dal dopoguerra il nome “foiba” perde il significato di fenomeno naturale per diventare sinonimo di strage. Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell'Istria che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, moltissimi istriani di lingua e cultura italiana. Si stima che le vittime possano essere quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Vengono considerati “nemici del popolo” e quindi sacrificabili. Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Una pulizia etnica per spargere terrore. Graziano Udovisi, l'unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba vivo dopo immense torture e 24 ore sotto terra, raccontò la sua storia nel libro-testimonianza “Sopravvissuto alle foibe”. E' morto nel 2010, a 84 anni. Una carneficina che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta dal maresciallo Tito per eliminare i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra la neonata Repubblica e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Nel febbraio del 1947 Roma ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute. Con quella firma trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in patria una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo da un paese comunista alleato di Mosca, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è, del resto, la ragione per cui il Partito comunista non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il Pci del leader Palmiro Togliatti a lasciar cadere l'argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci: «La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati cittadini di “serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d'altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l'occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco». Un silenzio intorno a questo dramma, che fa tutt’uno con la sconfitta italiana. Nel 1991 si alza il velo: quando i triestini si mobilitano contro il passaggio delle unità corazzate dell’esercito federale jugoslavo che dalla Slovenia devono tornare verso la Serbia, sfruttando il porto giuliano. E riaprendo ferite e ricordi ancora vivi di chi ha avuto fratelli, amici e concittadini finiti nelle foibe per mano di quello stesse divise. «Il silenzio intorno alle foibe è durato troppo a lungo e ha dato l’occasione per una forte polemica e allo stesso tempo creando terreno fertile ad una strumentalizzazione», sottolinea Simona Colarizi, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma: «Da anni l’estrema destra sta cercando una legittimazione del fascismo di Salò, inseguendo il falso mito di italiani brava gente, ma non va dimenticato che la politica di “fascistizzazione” di quei territori del Friuli Venezia Giulia è stata brutale con una reazione altrettanto brutale. Il che non giustifica assolutamente le fobie». Il nazionalismo, la colpa di essere italiani, l’odio per chi si è visto espulso dalla propria terra e non ha avuto nessun appoggio politico. Dimenticando che i morti non sono né “neri” né “rossi”. Né fascisti né comunisti. Un equivoco e un uso pubblico della storia che distorce la storia stessa. Con vittime e colpevoli che cambiano secondo i punti di vista e il colore politico. Così il ricordo delle foibe diventa occasione di divisioni, strumentalizzazioni, adunate in stile Norimberga per cercare colpevoli e vinti. Con una voglia di tornare protagonisti. Si radunano e si schierano con un ordine perentorio: «Camerati, attenti». In prima fila nella corsa a commemorare ci sono i fascisti del terzo millennio di Casa Pound che spiegano così il loro 10 febbraio: «Colpevoli di essere italiani. E per questo assassinati e poi dimenticati, ignorati, cancellati dalla storia: questi sono i martiri delle foibe. Ma l'identità di un popolo e di una nazione nata in trincea non si cancella col sangue, né con le censure sui libri di storia. Per questo tricolori alla mano, saremo nelle piazze e nelle strade di tutta Italia, a ricordare le vittime di quel genocidio e il sacrificio degli esuli istriani e giuliano-dalmati costretti a lasciare le loro case dalla violenza comunista». In questa settimana sono in calendario decine di cortei, fiaccolate, spettacoli teatrali, in grandi città e piccoli centri dal nord al sud del paese. Leit motiv è l’annuncio “Io non scordo”. Da Varese dove tutte le sigle del mondo dell’estrema destra sfilano da tre anni per le vie del centro fino al Trentino Alto Adige, L’Aquila, Lamezia Terme e Siracusa. Con passeggiate commemorative, cortei, fiori sulle lapidi. A Roma Forza Nuova di Roberto Fiore e prevede «omaggio al monumento, conferenza, cena e recital “Foibe, 15.000 fantasmi”. Prima della celebrazione a Trento è sparita la lapide in memoria delle vittime. Il presidente del Trentino, Ugo Rossi ha così stigmatizzato l’accaduto: «Un gesto vile e odioso, tanto più grave considerando che è avvenuto a ridosso del Giorno del ricordo, solennità nazionale istituita per rinnovare la memoria di una tragedia immane. Se l'intento è quello di alimentare divisioni e strumentalizzare la storia per bassi fini, possiamo affermare con certezza che fallirà».

Le Foibe ancora dimenticate (questa volta in un cassetto). Scontro sulla data di inaugurazione della stele: i documenti chiave sono fermi da novembre scorso, scrive Maria Sorbi, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Il sindaco Giuliano Pisapia non si è presentato alla cerimonia per commemorare le vittime delle Foibe. E fin qui nulla di nuovo: non è la prima volta che il sindaco dà forfait e delega a un rappresentante del Comune. Lui che, quando era deputato di Rifondazione Comunista, votò contro la proposta di istituire un giorno per ricordare la strage istriana. La polemica di quest'anno ruota attorno a una questione burocratica, che riguarda il monumento da erigere in piazza Repubblica in memoria di chi subì la violenza dell'eccidio. A quanto pare il documento per decidere la data dell'inaugurazione dell'opera (che, in teoria, era prevista per quest'anno) sarebbe stato dimenticato in un cassetto. Chiuso da mesi. A spiegarlo, durante la cerimonia, è stata l'assessore Carmela Rozza che ha svelato il mistero che si cela intorno alla finora mancata realizzazione del monumento richiesto dal comitato provinciale di Milano dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia nell'ormai lontano giugno 2013. Ebbene, di fatto l'assessore Rozza ha dichiarato pubblicamente che la pratica è ferma in Consiglio di Zona 2. «A seguito di un immediato accesso agli atti dichiara Roberta Capotosti, capogruppo di Sovranità in Consiglio di Zona 2 - ho appreso con stupore che la richiesta di un parere al Consiglio di Zona 2 da parte del Comune giace nei cassetti del presidente del Consiglio di Zona e della sua maggioranza dal 23 novembre scorso e che, fino ad ora, si sono tutti ben guardati dal tirarla fuori e metterne a parte non solo il consiglio tutto, ma nemmeno i capigruppo». «Spiace accertare - conclude Capotosti - che a settant'anni di distanza da quei crimini efferati, e dopo un silenzio assordante che ci ha accompagnati fino al 2004, quando è stata finalmente riconosciuta la ricorrenza, ci sia ancora qualcuno che provi ad insabbiare una pagina vergognosa della storia di questo paese e faccia di tutto per cancellare la memoria e rendere onore ai tanti italiani morti o costretti ad abbandonare le proprie terre, le proprie abitazioni ed i propri averi, negando loro, ancora oggi, perfino la possibilità di farsi, a spese proprie, un monumento a perenne ricordo». «Non si capisce perché abbiano aspettato tanto - commenta Riccardo De Corato, Fratelli d'Italia - e soprattutto perché il Comune non abbia fatto scattare il silenzio/assenso che di prassi avviene dopo un mese». Un tentennare che mette allo scoperto il poco interesse della giunta arancione per la ricorrenza, resa ufficiale solo dal 2004 e fino a poco tempo fa celata anche dagli indici dei libri di scuola. «Comunque, dopo il parere della prossima settimana, non ci saranno più scuse - sostiene De Corato - e la stele dovrà trovare posto in piazza della Repubblica in tempi brevissimi, non facciano slittare l'inaugurazione a dopo le elezioni. Noi non molliamo». In Consiglio regionale invece le Foibe sono stata celebrate in un clima nient'affatto polemico ma commosso: sono state raccolte le testimonianze dirette di alcuni sopravvissuti e sono stati consegnati i premi di un concorso scolastico promosso dallo stessa Regione.

Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».

«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.

Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'Antonio, documentari, inchieste (sull'ecstasy, sul sequestro di Giuseppe Soffiantini, sul regista Sam Peckinpah). Nel 2006 l'esordio nel cinema con Antonio, guerriero di Dio interpretato da Jordi Mollà, Arnoldo Foà e Mattia Sbragia. La Buena Vista (Walt Disney Company) si offre di lanciare il film, ma il produttore preferisce l'italiana 01 Distribution (Rai Cinema). «Risultato: programmazione pessima. E pensare che in quattro sale di Padova aveva fatto gli stessi incassi del Codice da Vinci». Nel 2011 la sua docufiction Giorgione da Castelfranco, sulle tracce del genio viene qualificata dal ministero per i Beni culturali come film d'essai insieme con Habemus Papam di Nanni Moretti. Nello stesso anno cominciano le riprese de Il segreto, con tanto di marchio della Warner Bros sulla colonna sonora, giacché Belluco sa maneggiare tanto la pellicola quanto il pentagramma, come dimostra il Sanctus scritto a quattro mani con l'amico Pino Donaggio e cantato da Antonella Ruggiero nei titoli di coda di Antonio, guerriero di Dio. Il regista aveva già girato un quarto d'ora, dei 105 minuti previsti dal copione ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, quando gli capita fra capo e collo una catena di sventure difficilmente attribuibili al caso e tutte senza spiegazione: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d'epoca si defilano, la Ruggiero si rifiuta d'interpretare il tema musicale del Segreto, gli avvocati inviano diffide. «Finché un giorno Angelo Tabaro, segretario generale per la Cultura della Regione Veneto, me l'ha confessato chiaro e tondo: “Ho ricevuto telefonate dall'Anpi e dai partiti di sinistra. Non vogliono che esca questo film”».

Perché ha deciso di occuparsi dell'eccidio di Codevigo?

«Non certo per ricavarne un'opera ideologica. Nel 2010 il sindaco del paese, Gerardo Fontana, eletto con una lista civica di sinistra, mi sottopone in lettura due pagine riguardanti questa terribile storia. Sento che c'è materia su cui lavorare. Il tema non mi è indifferente: sono figlio di profughi istriani, i miei nonni e mia madre vivevano a Villa del Nevoso e scamparono alle foibe grazie a un ex repubblichino che faceva il doppio gioco per i partigiani di Tito. Butto giù una sceneggiatura e la invio a Fontana. Lui mi telefona: “Mi hai commosso”. Decidiamo di lavorare insieme al soggetto, che toccò da vicino la sua famiglia».

Ebbe qualche parente assassinato?

«Farinacci Fontana, 18 anni. Era suo cugino. Il padre Silvio, capo delle Brigate nere di Codevigo, si salvò consegnandosi ai carabinieri di Piove di Sacco. Il ragazzo, che non aveva fatto nulla di male, preferì restare in paese. Nonostante fosse stato interrogato dagli inglesi e rilasciato per la sua innocuità, finì giustiziato su ordine di un capo partigiano che faceva seviziare i prigionieri e poi li giudicava alla maniera dell'imperatore Nerone nel circo: pollice verso, morte; pollice in alto, vita. Come recita un proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è sempre l'erba a rimanere schiacciata. Farinacci è il personaggio reale di una storia che nel Segreto è basata sulla fantasia. Di lui s'innamora Italia Martin, 15 anni. Ma Farinacci ha occhi solo per Ada, una giovane istriana. Un giorno Italia lo scopre mentre fa l'amore con Ada e per vendetta lo denuncia ai brigatisti».

Quelli sono esistiti davvero, però.

«Sì, la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini” arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell'VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All'epoca Bulow aveva 30 anni. L'ex parlamentare Serena nel libro I giorni di Caino scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell'81º Battaglione “Camicie nere” di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d'oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: Ramon».

Al massimo evoca Per un pugno di dollari: «Al cuore, Ramon».

«Boldrini-Bulow s'è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po' in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke che ammazzano con un colpo alla nuca 15 ostaggi in più rispetto all'ordine di rappresaglia. Dunque chi ha la responsabilità dei morti di Codevigo? Si sono forse uccisi da soli?».

Gino Minorello aveva 23 anni ed era l'organista della chiesa di Codevigo. Che cosa potrà aver mai fatto di male per meritare la morte?

«Gottardo Minato, che era il custode del cimitero, ha testimoniato che fu preso assieme a Edoardo Broccadello, detto Fiore, e a Primo Manfrin. Li misero sul ciglio della fossa. Poi diedero una fisarmonica all'organista, ordinandogli: “Suona una marcetta”. Mentre Minorello suonava, spararono a tutti e tre».

Per quale motivo la strage avvenne proprio in questo luogo?

«Siamo a meno di 5 chilometri in linea d'aria dall'Adriatico, in un territorio bagnato da quattro fiumi, Brenta, Bacchiglione, Nuovissimo e Fiumicello, sulle cui rive i prigionieri venivano spogliati, fucilati e gettati in acqua. Il mare doveva diventare la loro tomba, quando non li aspettava una fossa comune. Alcune vittime furono inchiodate vive sui tavolacci che si usavano per “far su” il maiale, come diciamo dalle nostre parti. Della maestra Doardo, forse colpevole di eccessiva severità nell'insegnare le tabelline al figlio zuccone di qualche comunista, restò integro solo un orecchio, come attestato nel referto del dottor Enrico Vidale, che esaminò le salme recuperate».

Mi racconti delle traversie del Segreto.

«Nel 2011 mi rivolgo a Sergio Pelone. Ha prodotto film di successo, come Gorbaciof, e molte opere di Marco Bellocchio, da L'ora di religione a Il regista di matrimoni».

Un produttore di sinistra.

«Maoista, a detta di Sandro Cecca, un mio amico regista. Tutti mi dissuadevano: “Figurarsi se Pelone ti produce Il segreto”. Vado nel suo ufficio a Roma e, in effetti, alle pareti noto varie scritte in cinese: massime di Mao Tse-tung, suppongo. “L'opera mi piace, può diventare un capolavoro”, mi incoraggia Pelone. Propone di chiedere i finanziamenti al ministero per i Beni culturali e alla Film commission della Regione Veneto. A quel punto diventa il capocordata. A Roma su 66 richieste di contributi ne vengono accolte solo 8. Il primo classificato è Alessandro Gassman, che becca 200.000 euro. Il cognome conta. Noi veniamo rimandati alla sessione successiva. A Venezia otteniamo 50.000 euro, un niente. Pelone firma ugualmente l'inizio delle riprese, che comincio a mie spese. Ma a marzo mi comunica che esce dal progetto perché non c'è il budget. Così ci fa perdere i finanziamenti del ministero e della Regione. E pensare che la scenografa Virginia Vianello, nipote di Raimondo, mia grande amica, mi aveva già presentato a Cinecittà Luce, che era pronta a distribuirmi il film».

Il progetto è stato azzoppato.

«E non solo finanziariamente. Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggi sulla Resistenza, che aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della seconda guerra mondiale, mi manda i costumi per girare le prime scene, però all'improvviso cambia idea. La nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, parla con Davide Viero, aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, il quale balbetta che tiene famiglia e che non vuole mettersi contro l'Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci chiudono le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente”, è il passaparola».

Chi altro ha cambiato idea?

«Due del settore produzione se ne sono appena andati. Siccome realizzano audiovisivi per conto di enti pubblici, non volevano inimicarsi uno dei loro committenti».

Sia meno vago: quale committente?

«Flavio Zanonato, il sindaco di Padova. Ex Pci, oggi Partito democratico».

Non starà peccando di complottismo?

«Complottismo? Da Antonveneta mi avevano comunicato che erano disponibili 10.000 euro nell'ambito dei progetti culturali. Peccato che la fondazione bancaria sia presieduta da Massimo Carraro, già parlamentare europeo dei Democratici di sinistra, grande amico di Zanonato. Mai visti i fondi. Altri ci sono stati negati, sempre per motivi ideologici, dalle casse rurali».

Ha finito con le defezioni?

«Le racconto solo l'ultima, quella che mi ha ferito di più. Ingaggio un finalista di X Factor perché mi scriva il tema musicale del Segreto con una tonalità adatta ad Antonella Ruggiero. Spedisco testo, spartito e cover alla solista genovese. Mi scrive Roberto Colombo, il marito: “Veramente un brano interessante. Ad Antonella piace l'idea di poterlo interpretare”. Poi mi chiede: “Ci puoi mandare anche una rapida descrizione del contenuto del film?”. Mando. A quel punto ci comunica che sua moglie “ha pensato di non sentirsi a proprio agio nello sposare le tematiche della sceneggiatura”».

Tematiche politicamente scabrose.

«Le stesse che hanno indotto l'avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di “girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell'opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite”. Motivo per cui pretendeva una copia della sceneggiatura».

Stando allo Zingarelli, si tratterebbe di un tentativo di censura preventiva.

«L'invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla».

È un fatto che le vicende di Codevigo furono al centro di 24 procedimenti penali riguardanti 108 omicidi, che videro imputati quattro combattenti della 28ª Brigata Garibaldi. Tutti assolti.

«Non è un film processuale. A me interessa di più capire come reagirono i bambini o perché nessuno degli abitanti di Codevigo si oppose a quella spaventosa carneficina. Perciò non comprendo da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio».

Ha trovato un nuovo produttore per il suo film?

«Mi ero rivolto a Rai Cinema. La risposta mi è arrivata per e-mail da Carlo Brancaleoni, che dirige la struttura Produzione film di esordio e sperimentali: “Le devo purtroppo comunicare che non abbiamo ritenuto la sceneggiatura coerente con la nostra linea editoriale. Il senso narrativo essenziale, la storia d'amore dei due amanti stritolati dai meccanismi della guerra, non trova conforto, a nostro avviso, nel sottofondo storico che intende descrivere e raccontare”. Questa del “sottofondo storico” è da incorniciare. Forse la Rai trova conforto solo nei copioni che prevedono qualche milione di morti».

Dunque il produttore non l'ha trovato.

«No. Però avevo parlato con un amico del regista Dellai, il vicentino Bruno Benetti, imprenditore della Itigroup di Villaverla, che con la One art finanzia anche film statunitensi. Il suo consulente è Marco Müller, già direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia, oggi al Festival di Roma. Un giorno dell'anno scorso Benetti mi chiama: “Müller ha letto la sceneggiatura, è rimasto impressionato. Darà l'internazionalizzazione al Segreto”. Passa qualche tempo e l'industriale telefona alla producer Lucietto: “Io non investo neanche 100 euro su un certo tipo di film”».

Adesso come se la caverà?

«Ho un po' di tempo davanti. Prima di fine aprile le riprese non possono ricominciare per motivi meteorologici, visto che l'eccidio fu commesso in primavera. Abbiamo ridotto le spese all'osso. Direttore della fotografia, scenografa e montaggista hanno accettato d'essere pagati a caratura, cioè in percentuale sui soldi che entrano in cassa. Se non entrano, lavorano gratis. C'è chi s'è offerto di noleggiarmi la macchina da presa Alexa per 1.000 euro a settimana: di norma ce ne vogliono 1.500 al giorno. L'investimento iniziale è davvero minimo: 120.000 euro. Mi rifiuto di credere che non vi sia un produttore indipendente, una casa cinematografica, una rete televisiva o anche solo un mecenate che non sia interessato a un film da cui potrebbe fra l'altro ricavare qualche soddisfazione economica».

E se non trova il mecenate?

«Il segreto uscirà comunque, questo è sicuro. Sto ricevendo attestazioni di stima commoventi. L'imprenditore Franco Luxardo, quello del maraschino, esule dalmata nipote di Pietro Luxardo, che col fratello Nicolò e la moglie di questi fu affogato nel mare di Zara dai partigiani titini, ci ha promesso 1.000 euro; a titolo personale, ha voluto precisare, perché non è riuscito a convincere nemmeno il consiglio d'amministrazione della sua azienda a compromettersi con i morti di Codevigo. Gli iscritti all'associazione Comunichiamo italiano, che ha sede a Padova, hanno deciso di autotassarsi. Se proprio non potrò entrare nel circuito normale, mi affiderò a Internet: sul sito Eriadorfilm.it si può fin d'ora prenotare il Dvd del film in edizione speciale, abbinato al libro Il segreto. Ormai ho fatto mio l'impegno dell'Amleto di William Shakespeare: parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere».

Ma lei ha simpatia per il fascismo?

«Non vedo come potrei, essendo nato nel 1956. Giorgio Almirante sosteneva che solo chi ha vissuto sotto il Duce può ancora definirsi fascista, perché il fascismo è un'esperienza storica conclusa. Forse pensano che sia fascista perché avevo preparato la sceneggiatura di un film, Questo bacio a tutto il mondo, sulle prime due vittime delle Brigate rosse, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, un appuntato in congedo dei carabinieri e un agente di commercio che furono assassinati il 17 giugno 1974 nella sede di Padova del Msi-Dn, in via Zabarella. Anche in quell'occasione dalla Rai ricevetti la stessa risposta pervenutami per Il segreto: sceneggiatura non coerente con la nostra linea editoriale».

È di destra, allora?

«Sono un cattolico che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi. Ho una buona cultura marxista, quanto basta per capire che non potrei mai essere marxista».

Dove s'è formato la cultura marxista?

«All'Università di Padova ho avuto Toni Negri come insegnante di dottrine dello Stato. Mi ha tenuto sotto esame per un'ora abbondante. Voto: 28. Più di Renato Brunetta, che in economia politica del lavoro mi ha dato 25».

Perché i registi sono tutti di sinistra?

«Perché la cinematografia è un potere politico fondamentale che è stato attribuito alla sinistra fin dalla nascita della Repubblica. Nella spartizione per aree d'influenza, Dc e Psi si sono tenuti il governo, gli enti pubblici, le banche e i consigli d'amministrazione; al Pci sono andati la scuola, la cultura e l'informazione. È sempre stato così e sempre sarà così. Non c'è regime, violenza, pallottola che salga infinitamente sulla Cattedra della Verità. Quando crollerà l'ultimo muro dell'ipocrisia umana, si apriranno le porte agli eserciti senza bandiere e ogni segreto sarà perdonato».

Come mai ha messo questo esergo al copione?

«È caduto il Muro di Berlino, ma non quello di Codevigo. Abbiamo bisogno di verità, dobbiamo abbattere il Muro del silenzio. Italia Martin, la protagonista del Segreto, è la giovane Italia di ieri. Oggi che quest'Italia è diventata vecchia, io mi preoccupo per sua nipote, condannata a portarsi in dote le acredini di allora anche nella Terza, nella Quarta, nella Quinta Repubblica, senza speranza».

Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 01/12/2013, su "Il Giornale". Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle “prove di dialogo” con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”, scrive il 17/02/2016 Marco Fornasir su “Il Giornale”. «Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì. E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni. La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato. Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine. Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%). «Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari». Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre». La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa. Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei trampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman». Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. «Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani». La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare. E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così». Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe. In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti. E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi. Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri. Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».

Vivere sotto perenne giudizio. Ognuno di noi, durante la sua esistenza, perennemente, è sempre sottoposto al giudizio degli altri ed a questo deve essere conforme. In famiglia i genitori hanno l’obbligo di educare ed istruire i figli secondo canone generale. A scuola si insegna subdolamente la dottrina di Stato: quella laicista e di sinistra. Nei concorsi pubblici o negli esami di Stato si è sottoposti al giudizio di canoni di Stato attraverso commissari divenuti vincitori o abilitati in virtù del trucco. Nei rapporti confessionali ci si deve attenere al dettato religioso interpretato. Viviamo tra il martello del clericalismo e l’incudine dell’anticlericalismo. In questa democrazia menzoniera non c’è spazio per la libertà.

ANTICLERICALISMO e la Chiesa in Italia. Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia. Volume I - Dalle Origini All'Unità Nazionale. Voce pubblicata il 14/01/2015. Autore: Antonio Trampus. L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale. In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini. Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti. Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza. In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani. Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati. Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”. L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Al clericalismo si contrappone politicamente il laicismo e ideologicamente l'anticlericalismo.

Il Clericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La parola clericalismo indica un agire in senso politico che mira alla salvaguardia e al raggiungimento degli interessi del Clero e, conseguentemente, si concretizza nel tentativo di indebolire la laicità di uno Stato attraverso il diretto intervento nella sfera politica e amministrativa da parte di sostenitori anche non appartenenti al Clero, o talvolta non credenti.

Il clericalismo nel mondo. Furono chiamati «clericali» nella metà del XIX secolo, in Francia e in Belgio, quei cattolici impegnati in politica ed organizzati in movimenti o partiti che si richiamavano esplicitamente alla loro confessione religiosa. I "clericali" francesi che erano stati tra i maggiori sostenitori dell'imperatore Napoleone III, influenzarono pesantemente la sua politica estera, in specie per i rapporti con il Regno d'Italia e per il problema di Roma capitale. L'invasione della Repubblica Romana e la restaurazione di papa Pio IX (1849), il fallito tentativo di instaurare un impero cattolico in Messico (1862-67), l'episodio di Mentana sempre a difesa di papa Pio IX (1867), sono gli esempi più rilevanti della subordinazione politica al Clero durante il regime di Luigi Napoleone che a garanzia dell'inviolabilità della Roma papale aveva stabilito nella città un presidio militare francese ritirato solo dopo la Convenzione di settembre nel 1864. Gli stessi eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina (1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy possono essere considerati come effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. L'affaire Dreyfus (1894) la cui accusa era sostenuta anche dai clericalisti antisemiti, organizzati nello squadrismo dell'Action française, era il segno che, alla fine dell'Ottocento, in Francia era forte la presenza di una Chiesa conservatrice contrapposta ad intellettuali laici, progressisti e in parte massoni. Il termine si diffuse poi in Spagna ed in Italia, meno in Germania e per nulla in Inghilterra, segno di una situazione tipica di aree cattoliche dove possono nascere contrasti tra Clero e società civile. Durante la Guerra civile spagnola i clericali di tutta Europa si schierarono apertamente con Francisco Franco, di cui appoggiarono il regime dittatoriale dopo la vittoria. Unica voce cattolica apertamente contraria fu quella di Jacques Maritain. Durante la seconda guerra mondiale il clericalismo supportò i regimi di Jozef Tisoin Slovacchia e di Ante Pavelić in Croazia. Quest'ultimo si salvò dal processo dopo la guerra grazie alla fuga in Spagna agevolata dal Vaticano. Entrambi i regimi furono ferocemente antisemiti.

Il clericalismo in Italia. Cavour, fin dal 1850 si era messo in luce pronunziando un discorso in difesa delle leggi Siccardi che abolivano il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico ancora in vigore dall'età medioevale nel Regno di Sardegna. Formato nel 1852 il "grande ministero" con Urbano Rattazzi, si era proposto di modernizzare il Piemonte laicizzando lo Stato ma dovette scontrarsi nel 1855 con i clericali piemontesi guidati dal vescovo di Casale e senatore, Luigi Nazari di Calabiana contrario alla soppressione degli ordini contemplativi al punto da causare una crisi politica che provocò le dimissioni del primo ministro. Ritornato al governo dovette affrontare un nuovo contrasto con i clericali, questa volta sostenuti dal re Vittorio Emanuele II, per l'introduzione del matrimonio civile in Piemonte che sarà attuato diversi anni dopo. Lo stesso Nazari di Calabiana, nominato arcivescovo di Milano, dopo l'unità d'Italia, nel 1864, si distinguerà per le sue polemiche contro gli intransigenti antiliberali. Fin dal 1857 era comparso sul giornale torinese l'Armonia diretto dal giornalista don Giacomo Margotti l'esortazione diretta ai cattolici: «Né eletti. Né elettori». Non meraviglia quindi che, sebbene lo Stato italiano dichiarasse di rinunciare a ogni controllo giurisdizionalistico, tuttavia i tentativi di regolare i rapporti con la Chiesa secondo la formula cavouriana di «Libera Chiesa in libero Stato», effettuati dallo stesso Cavour tramite il suo collaboratore Diomede Pantaleoni, e in seguito dai primi governanti della Destra storica, fallissero per l'intransigenza del rappresentante papale. Non ancora intransigenti ma cattolici di stretta osservanza, tra il 1861 e il 1878 i credenti italiani si appartano dalla vita nazionale e si esprimono in giornali dal tono estremamente polemico. «Lentamente s'instaura quel costume, che durerà decenni e decenni, fino alla prima guerra europea per cui il cattolico politico ha associazioni professionali, circoli, scuole cui inviare i figli, esclusivamente suoi, forma una società chiusa e riduce gli incontri con persone che non dividano la sua fede al minimo possibile » La data di nascita in Italia del clericalismo coincide con l'emanazione del Sillabo (1864) di papa Pio IX (1846-1878) che, considerandosi "prigioniero dello stato italiano", condannava ogni aspetto del liberalismo e del modernismo dando vita così al movimento degli «intransigenti» cattolici che rifiutavano di riconoscere il nuovo Regno d'Italia. La Chiesa tuttavia, sente la difficoltà di non avere nel Parlamento del Regno d'Italia suoi rappresentanti ed emana una disposizione nel 1866 che consente l'elezione di deputati cattolici purché nel formulare il giuramento allo Stato essi aggiungano, alla presenza di almeno due testimoni, la formula: «salvis legibus divinis et ecclesiasticis» ("salvo quanto dispongono le leggi divine e della Chiesa"). La Camera ritenne nullo il giuramento e da quel momento la voce dei deputati cattolici fu quasi assente dalle aule parlamentari. Questa chiusura della Chiesa influì negativamente sulla politica italiana post-unitaria, acuendo il forte anticlericalismo di gran parte dei politici italiani del tempo. L’allontamento definitivo dei cattolici dalla partecipazione diretta alla vita politica dello Stato italiano si ebbe quando il 30 gennaio 1870 la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari espresse il parere che non fosse conveniente (non expedit) per i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche. Inoltre il Concilio Vaticano Primo iniziato nel dicembre del 1869, che si caratterizzava principalmente per la definizione del dogma dell'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra in materia di fede e di morale (18 giugno 1870), rendeva ancora più accentuata la durezza delle posizioni del Clero nei confronti di chi cercasse con esso un compromesso. Ben 55 vescovi "antinfallibilisti", prima della approvazione del dogma si allontanarono dal Concilio che, interrotto dalla presa di Roma, non fu più ripreso. Il 13 maggio 1871 lo Stato italiano emana un originale atto di accordo internazionale unilaterale: la Legge delle Guarentigie (Legge delle Garanzie) voluta dal Parlamento per regolare i rapporti con la Santa Sede dopo la presa di Roma (20 settembre 1870). Respinta da papa Pio IX con l'enciclica Ubi nos e mai accettata dalla Santa Sede, rimase tuttavia in vigore sino alla Conciliazione del 1929. Su questa linea si costituì in seguito l'Opera dei congressi (1874) che può essere considerata come la nascita di un vero e proprio partito cattolico italiano. L'organizzazione rivendicava la rappresentanza del "paese reale" contro lo Stato liberale e si assumeva il compito di coordinare tutte le attività cattoliche di tipo sociale, cooperativistico, scolastico, giornalistico. Dopo la morte di papa Pio IX nel 1878, e l'assunzione al trono papale di papa Leone XIII (1878-1903) che mostrava dall'inizio del suo pontificato attenzione ai problemi sociali, al mondo del lavoro e dei suoi conflitti (vedi Rerum Novarum), sembrava potersi sperare in un'attenuazione dello scontro tra Chiesa e Stato. In un'enciclica del 1885 si raccomandava infatti ai cattolici europei di partecipare alla vita politica dei propri stati per non rimanere esclusi dalle decisioni dei loro governi, ma con la limitazione che questa adesione alla politica attiva «in qualche luogo…non convenga affatto (nequaquam expediat) per ragioni grandissime e giustissime». Ciò che era consentito per i paesi cattolici europei non lo era per l'Italia. Nel 1886 una circolare del Sant'Uffizio recitava così: «A togliere ogni equivoco, udito il parere degli Eminentissimi signori Cardinali inquisitori generali miei colleghi, ho ordinato che si dichiari il Non expedit contenere un divieto (prohibitionem importat) Card. Monaco.» All'interno del partito clericale italiano stava intanto nascendo una corrente che rifletteva l'azione sociale della Chiesa specie nelle campagne dove si organizzavano società cattoliche di mutuo soccorso, cooperative di consumo contadine, sindacati bianchi. Era la nuova corrente della Democrazia Cristiana che chiedeva che la sua azione sociale trovasse legittima rappresentanza e valido riconoscimento nel parlamento italiano. Senza politici che la difendessero l'organizzazione sociale cattolica non poteva sperare di sostenersi. Per questi obiettivi si batterono don Romolo Murri e il sociologo ed economista Giuseppe Toniolo subito osteggiati dai cattolici veneti, dai gesuiti e dalla Curia romana. Se prima non si risolveva il problema del rapporto Chiesa-Stato, sostenevano gli intransigenti, non si poteva affrontare la questione sociale e politica. Per i democristiani risorgeva il muro del non expedit che però sembrava potesse incrinarsi con l'avvento del nuovo papa Pio X (1903-1914), uomo di costumi semplici e popolari. Ma nel 1903 compariva invece sull'Osservatore Romano una nota ufficiale così redatta: «Siamo autorizzati a smentire le voci messe di questi giorni in giro dalla stampa cittadina e dagli altri giornali riguardo all'abolizione del Non expedit, essendo esse assolutamente prive di fondamento.» Nel 1904 Pio X decise di sciogliere l'Opera dei Congressi dove i "sovversivi" di Romolo Murri avevano acquistato la maggioranza. Il Murri sarà sospeso a divinis nel1907 e diventerà deputato nelle file dei radicali. Un altro sacerdote don Luigi Sturzo, che si era distinto in Sicilia per la sua azione sociale, obbedì all'ingiunzione pontificia in attesa di tempi migliori. Nello stesso anno la corrente moderata del clericalismo organizzata nell'Unione Elettorale Cattolica realizzò accordi prelettorali con candidati liberali moderati in maggioranza giolittiani. Giovanni Giolitti in difficoltà dopo lo sciopero generale degli anarco sindacalisti socialisti aveva infatti deciso di ricorrere alle elezioni convinto che la parte moderata del paese avrebbe punito l'ala massimalista dei socialisti. E in quest'occasione stipulò un accordo per cui i candidati liberali avrebbero avuto il voto dei cattolici, ma si sarebbero impegnati a non appoggiare leggi che contrastassero l'interesse del Clero. Il compromesso era sintetizzato dalla formula: «deputati cattolici no, cattolici deputati sì.» Lo stesso papa Pio X si mostrava favorevole in quanto tra i due mali: accordo con i liberali e la nascita di un partito cattolico democratico, che avrebbe portato a divisioni nella Chiesa, preferiva quello per lui minore. Non così la pensavano i cattolici democratici, che parlarono di «prostituzione di un voto.» Giolitti e i socialisti riformisti di Filippo Turati conseguirono una chiara vittoria elettorale, ma l'ingresso dei cattolici aveva prodotto un'accentuazione in senso conservatrice della politica italiana, quando lo stesso partito liberale avrebbe dovuto invece uscire dal suo moderatismo che non soddisfaceva più le classi contrapposte che si andavano viepiù estremizzando. Le difficoltà di governo con i socialisti, dopo l'impresa coloniale in Libia, spinsero Giolitti a ricercare un nuovo accordo con i cattolici con il Patto Gentiloni del 1912. Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) propose ai candidati del "Partito Liberale" se avessero voluto il sostegno dei votanti cattolici di sottoscrivere i seguenti sette punti programmatici:

difesa delle congregazioni religiose,

difesa della scuola privata,

difesa dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche,

difesa dell'unità della famiglia,

difesa del "diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse s'ispirino",

salvaguardia di una migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali,

conservazione e rinvigorimento “delle forze economiche e morali del paese”, per un incremento dell'influenza italiana in campo internazionale.

Alle Elezioni politiche italiane del 1913, le prime in Italia a suffragio universale maschile, il Partito Liberale ottenne una schiacciante vittoria con il 51 % dei voti e 260 eletti e di questi ben 228 avevano sottoscritto i sette punti programmatici desiderati dai cattolici. Dopo il sanguinoso intervallo della guerra mondiale, dove il cattolicesimo schierato con i neutralisti aveva apertamente espresso con papa Benedetto XV (1914-1922) la sua condanna per l'"inutile strage", nella crisi degli anni 1919 – 1922 dapprima l'Unione nazionale di Carlo Ottavio Cornaggia Medici (1919), poi il Centro Nazionale Italiano di Paolo Mattei-Gentili (1924) ed Egilberto Martire, provocarono scissioni nel Partito Popolare Italiano fondato da Don Sturzo nel 1919. Il partito che nello stesso anno aveva ottenuto un buon successo alle elezioni, nasceva minato al suo interno per la eterogeneità delle posizioni, e all'esterno per la diffidenza di Pio XI (1922-1939) e della gerarchia. Era quindi inevitabile quella scissione nel 1923 che portò una parte del partito all'opposizione al fascismo mentre l'altra, i clericofascisti, s'illudevano, collaborando con il regime, di condizionarlo. Inizialmente benvisti da Mussolini, i clericofascisti vennero ben presto emarginati sia dal fascismo che dalla stessa Chiesa, salvo la concessione di un qualche ruolo diplomatico per la soluzione della questione romana con i Patti Lateranensi del 1929. Con i Patti Lateranensi sembrò acquietarsi lo scontro tra Chiesa e Stato rappresentato dal regime fascista che colse un vasto consenso popolare dalla pacificazione con la chiesa cattolica. Ma la matrice anarchica e socialista di Mussolini rendeva poco affidabile quella politica di «buon vicinato» che i cattolici si auguravano. I primi dissensi emersero nel 1931 quando il fascismo chiese la chiusura dell'Azione Cattolica, rilanciata invece da papa Pio XI come forza organizzata di presenza nella società. L'alleanza di Mussolini con la Germania nazista e pagana, l'emanazione delle leggi razziali del 1938 resero sempre più difficili i rapporti con il regime fascista. Eletto nel 1939 a pochi mesi dallo scoppio della seconda guerra mondiale, papa Pio XII (1939-1958) passò da una dichiarata neutralità ad una adesione sempre più accentuata alle potenze occidentali e ad una condanna sempre più esplicita dei fascismi e della Russia sovietica, pur rinunciando a clamorosi atti di denuncia. Finita la guerra, per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, la Chiesa appoggiava apertamente la causa monarchica trasformando l'alternativa tra monarchia e repubblica in quella tra cristianesimo e comunismo. Il 1º giugno 1946, il giorno precedente il referendum, lo stesso papa Pio XII, rivolse un appello agli Italiani: senza accennare esplicitamente alla monarchia o repubblica invitò i votanti perché scegliessero tra il materialismo e il cristianesimo, tra i sostenitori e i nemici della civiltà cristiana. Considerato che nella campagna elettorale il fronte repubblicano annoverava in prima linea i partiti marxisti materialisti, sarebbe stato difficile fraintendere il senso di questo appello papale. Nel secondo dopoguerra Pio XII promosse un piano di grande mobilitazione dei cattolici riformando l'Azione Cattolica e sostenendo l'azione mediatica del "Movimento per un mondo migliore " di padre Riccardo Lombardi e di Luigi Gedda, cattolico intransigente, fondatore alla vigilia delle elezioni del 1948 dei Comitati Civici a sostegno della Democrazia Cristiana contro il Partito Comunista Italiano. Gli iscritti al PCI furono scomunicati da Pio XII nel 1949. Suoi i ripetuti tentativi di dirigere la politica italiana come attestano lettere del Pontefice, timoroso per l'elezione (1952) di un sindaco comunista a Roma, dirette al Presidente del consiglio Alcide De Gasperi per indurlo a formare un'alleanza politica in funzione anticomunista con il Movimento Sociale Italiano. De Gasperi si batté invece, nei limiti delle sue convinzioni cattoliche e delle opportunità politiche, per l'aconfessionalità dello Stato contenendo le spinte clericali della destra cattolica e dell'Azione Cattolica di Luigi Gedda. Il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò una svolta nelle posizioni del Clero rispetto alla politica in Italia, e lo stesso Concilio Vaticano II fu espressione di questo nuovo spirito di "aggiornamento" che animava la Chiesa cattolica. In quegli anni la formazione di un governo di centro-sinistra non venne infatti ostacolata dalle gerarchie ecclesiastiche. Anche il pontificato di papa Paolo VI (1963-1978) fu improntato ad uno spirito innovatore, sebbene per alcuni aspetti venissero tenute in considerazione istanze conservatrici che già avevano animato il dibattito nel Concilio. Paolo VI riformò la Curia romana introducendovi prelati da tutto il mondo, volle la riforma liturgica, introdusse la collegialità episcopale con il Sinodo dei vescovi; interrompendo una lunga tradizione, compì alcuni viaggi all'estero, trasformò il Sant'Uffizio, abolì l'Indice dei libri proibiti. Durante il suo pontificato, L'Azione Cattolica guidata da Vittorio Bachelet compì la "scelta religiosa", che segnava la fine del collateralismo dell'associazione alla politica della Democrazia Cristiana. Contemporaneamente, però, l'Azione Cattolica smise di essere l'unica associazione laicale in Italia: in un periodo di fioritura di diversi movimenti ecclesiali, nel 1969 viene fondata da don Luigi Giussani Comunione e Liberazione, caratterizzata da un forte senso di appartenenza reciproca e da una religiosità neointransigente e di impegno sociale (Compagnia delle Opere) e di influsso sulla vita politica. La contrapposizione tra lo stile associativo dell'Azione Cattolica e quello di Comunione e Liberazione avrebbe segnato per i decenni a venire l'associazionismo cattolico del Paese. Nel corso del pontificato di Paolo VI fu introdotto in Italia l'istituto del divorzio (1970) fortemente contrastato dai cattolici, che promossero il successivo referendum abrogativo del 1974 ma ne risultarono sconfitti; nel 1978 fu anche approvata, nonostante le ripetute condanne del Clero, l'interruzione volontaria di gravidanza. Anche in questo caso, il successivo ricorso al referendum non sortì gli effetti sperati dai promotori di parte cattolica. Nello stesso 1978, l'elezione di Giovanni Paolo II, primo papa non italiano dopo molti secoli, determina il progressivo attenuarsi dell'attenzione del pontefice alle vicende politiche dell'Italia, sebbene dal 1985 la Conferenza Episcopale Italiana, sotto la guida del card. Camillo Ruini rivolgesse attenzioni crescenti alla politica e alla società italiane. La fine della Guerra Fredda in campo internazionale (1989-1991) e gli avvenimenti di Tangentopoli (1992) mutarono in pochi anni il panorama politico italiano. La stessa Democrazia Cristiana fu sciolta nel 1993: venne così meno il punto di riferimento dei cattolici nella vita politica italiana. Negli anni successivi, pertanto, il Clero avviò un atteggiamento di dialogo con partiti politici sia conservatori sia progressisti, influenzando significativamente entrambi gli schieramenti. Secondo gli osservatori più critici, tale atteggiamento ha assunto talvolta modi vicini a quelli propri dei gruppi di pressione. In ambiente cattolico il termine "clericale" designa la posizione di coloro che tendono a ridurre al minimo la partecipazione attiva dei laici all'esercizio spirituale del Clero. Ma al di là dei termini del dibattito politico e religioso, per cui si preferisce parlare di "teodem" e "teocon" contrapposti a "laicisti", sembra essere in atto uno scontro tra clericali e anticlericali, considerati, come portatori di un'ideologia relativista, materialista, con l'obiettivo di cancellare o ridurre il ruolo della religione nella vita sociale. Dal punto di vista dei laici, tuttavia, questo scontro si manifesta come un tentativo della Chiesa di imporre, attraverso una strategia di comunicazione e di lobbying, i suoi valori anche a coloro che professano fedi diverse o non credono affatto. Costoro comunque, nell'interpretazione della Chiesa, condividono gli universali principii umani che vanno salvaguardati al di là delle proprie convinzioni religiose o laiche. La contrapposizione non verte più, come in un lontano passato, sulla partecipazione o meno dei cattolici alla vita politica, ma su temi sociali di rilevanza etica, riguardo ai quali, secondo gli esponenti del clericalismo, i cattolici devono battersi per difenderne gli aspetti umani e cristiani. Una questione oggi dibattuta è sul significato da attribuire al termine "ingerenza". La gerarchia cattolica rivendica alla Chiesa, depositaria della tradizione apostolica, il diritto-dovere, secondo la sua funzione, di guidare i fedeli, e di predicare i principi morali, che i cattolici devono seguire. I sostenitori dell'ingerenza del Clero nella vita politica e morale dei cittadini rifiutano l'accusa di clericalismo ed anzi accusano di "laicismo" (ritengono infatti che si possa distinguere fino alla contrapposizione tra laicità e laicismo) chi sostiene posizioni opposte. Cosicché, quando, ad esempio, la gerarchia ecclesiastica si pronuncia sulla fecondazione medicalmente assistita e sulla ricerca scientifica sulle cellule staminali, afferma di farlo da posizioni "laiche" poiché difende il valore della vita (che del resto non è negato neppure dai laici) ritenendolo un valore non solo cristiano, ma umano. Per questo essa giudica legittimo avvalersi di cattolici impegnati nella vita politica, che sostengano non solo le posizioni della Chiesa cattolica, ma anche i principi laici della dignità umana. D'altra parte i laici, non solo rivendicano il diritto di legiferare su questi temi connessi a valori etici, ma obiettano di voler lasciare libera scelta ai cittadini, in nome della loro libertà di coscienza, se aderire o meno alle opportunità che offre la legge. Secondo questa posizione, il Clero non ha l'obbligo di astenersi, secondo la sua missione, da tutti quei pronunciamenti che abbiano significato religioso e morale ma da quelli che vogliano incidere sulle decisioni politiche; il che appare al Clero stesso una negazione della propria libertà di parola e di espressione. In questo senso gli esponenti più propriamente laici sottolineano che lo Stato italiano è costituzionalmente uno Stato non confessionale, come afferma chiaramente il combinato disposto degli art.7 e 8 della Costituzione. Sui rapporti tra Stato e Clero può servire a chiarire il problema quanto ha lasciato scritto nel febbraio 2001 Pietro Scoppola, storico, docente e politico italiano, uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico. «La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire a una società inquieta e per tanti aspetti lacerata, motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. È legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. È in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?» Compromesso storico è il nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano osservata negli anni settanta. Questo possibile sviluppo politico fu chiamato anche con il nome di terza fase in ambito democristiano, mentre i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Questa politica in ogni caso non portò mai il Partito Comunista a partecipare al governo in una grande coalizione ai sensi del cosiddetto consociativismo. La proposta dal neo-segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana per una proficua collaborazione di governo (aperta anche alle altre forze democratiche) doveva interrompere così la cosiddetta conventio ad excludendum del secondo partito italiano dal governo. In tal modo, si voleva anche mettere al riparo la democrazia italiana da pericoli di involuzione autoritaria e dalla strategia della tensione che insanguinava il paese dal 1969. Berlinguer si vedeva peraltro sempre più deciso a sottolineare l'indipendenza dei comunisti italiani dall'Unione Sovietica e di rendere quindi il suo partito una forza della società occidentale. Il compromesso venne lanciato da Berlinguer con quattro articoli su Rinascita a commento del golpe cileno che aveva portato le forze reazionarie in collaborazione con gli USA a rovesciare il governo del socialista Salvador Allende (11 settembre 1973). La politica del compromesso storico fu vista negativamente dal Partito Socialista Italiano e da diversi suoi esponenti, in particolare Bettino Craxi e Riccardo Lombardi, che vedevano in questo disegno un chiaro tentativo di marginalizzare il PSI e di allontanare definitivamente l'idea di un'alternativa di sinistra che portasse il PCI al governo, tuttavia con la guida dei socialisti. La scelta di Berlinguer, fondamentalmente legata alla politica di eurocomunismo, era un esempio di politica reale che non riscontrò i favori dell'area di sinistra del suo partito. Il compromesso trovò una sponda nell'area di sinistra della DC che aveva come riferimento il presidente del partito Aldo Moro e il segretario Benigno Zaccagnini, ma non ebbe mai l'avallo dall'ala destra della DC, rappresentata da Giulio Andreotti. Lo stesso Andreotti in un'intervista dichiarò: "secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all'atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista.". Un compromesso minimo si raggiunse mediante l'appoggio esterno assicurato dal PCI al governo monocolore di Solidarietà Nazionale, costituito da Giulio Andreotti nel 1976. L'incontro comunque problematico fra PCI e DC spingerà l'estrema sinistra a boicottare il PCI e porterà i terroristi delle Brigate Rosse a rapire (e in seguito a uccidere) Aldo Moro proprio nel giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV (16 marzo 1978). Caduto quest'ultimo governo per il ritiro del PCI, e senza il prezioso aiuto di Moro, la DC archiviò definitivamente la linea della terza fase col XIV congresso del febbraio 1980, quando prevarrà con il 57,7% l'alleanza tra dorotei, fanfaniani, Proposta e Forze nuove che approvò il cosiddetto «preambolo» al documento finale che escludeva alleanze con il PCI. L'opposizione, composta dall'area Zaccagnini e dagli andreottiani, ottenne il 42,3%. Berlinguer e il PCI tenteranno ancora di riproporre il compromesso storico alla nuova DC di Flaminio Piccoli, ma vanamente. Del resto, la resistenza interna al partito Comunista sarebbe rimasta notevole. Con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980, Berlinguer annunciò dopo otto anni di voler abbandonare la linea del compromesso storico per abbracciare quella dell'«alternativa democratica». Ciò significa che l'obiettivo diventava quello di ricercare governi di solidarietà nazionale che escludessero la DC. Decisivo per il mutamento tattico fu il terremoto in Irpinia della sera del 23 novembre precedente e la conseguente denuncia del pessimo modo di operare dello Stato da parte del presidente della Repubblica Sandro Pertini in diretta tv il 26 novembre. Oltre al fatto storico, Moro era un teorico del valore del compromesso in politica, della ricerca dell'accordo e della mediazione. Il compromesso in politica non viene inteso come un atto moralmente negativo e riprovevole, al contrario è il compito principale di chi viene eletto. La politica non deve essere personalizzata, luogo di affermazione del singolo e del suo programma elettorale, sebbene questi abbia avuto la maggioranza delle preferenze alle elezioni. Se in democrazia la maggioranza vince, persegue un fine democratico il compromesso che mette d'accordo la maggior parte dei partiti e dei singoli rappresentanti eletti dal popolo, e ciò resta un dovere anche per chi beneficia di una vasta maggioranza elettorale e parlamentare, laddove l'accordo sia compatibile e non tradisca le attese e il programma dell'elettorato.

Anticlericalismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'anticlericalismo (nella sua accezione più comune) è una corrente di pensiero laicista, sviluppatasi soprattutto in riferimento alla Chiesa cattolica, che si oppone al clericalismo, ossia all'ingerenza degli ecclesiastici e della loro dottrina, nella vita e negli affari dello Stato e della politica in generale. In quanto "tendenza", non convogliata in un manifesto o in qualche movimento principale, l'anticlericalismo ha subito una serie di evoluzioni storiche e si è sviluppato in molteplici sfaccettature, tanto che è difficile darne una definizione condivisa. Per alcuni esso è l'opposizione allo sconfinamento del clero in qualsiasi ambito diverso dalla pura spiritualità (quindi economia, politica, interessi materiali). Questa forma di pensiero si colloca ideologicamente sia nell'ambito del liberalismo, sia delle sinistre radicali ma anche in alcuni partiti socialisti democratici, ed in Italia, storicamente, nei partiti che traggono origine dal pensiero mazziniano (in particolare, il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano Italiano), nel Partito Socialista Italiano e nel Partito Radicale. Dal punto di vista ideologico e filosofico, talvolta l'anticlericalismo si sviluppa parallelamente a quello della non credenza. L'anticlericalismo esplicito o velato da quella che Torquato Accetto chiamava la «dissimulazione onesta» è tanto più diffuso quanto più il clero, in particolare nei suoi vertici cardinalizi e vescovili, tende a sovrintendere alla vita e all'organizzazione politico-civile dello Stato. In Europa, l'anticlericalismo si è sviluppato lungo parte della storia cristiana ed ha avuto come precursori figure di cristiani come Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant, Paolo Sarpi, Gottfried Arnold e Thomas Woolston, che considerava quale vero unico autentico miracolo di Gesù la cacciata dei mercanti dal Tempio. L'anticlericalismo italiano (tra i primi esponenti sono oggi annoverati personaggi come Marsilio da Padova, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, il Platina e Giordano Bruno), giungerà ad avere i suoi primi "martiri" nella prima metà del settecento con Pietro Giannone, morto in carcere a Torino, e Alberto Radicati di Passerano, morto esule all'Aia. Vanno poi ricordati gli illuministi francesi - tra i quali Voltaire e Diderot - che si opposero a ogni forma di clericalismo. Elementi anticlericali, secondo alcuni, sono presenti nella prima fase della Riforma luterana che abolisce gli ordini regolari, non riconosce né il sacramento dell'ordine, né l'obbligo del celibato ecclesiastico, proclamando il sacerdozio universale di ogni cristiano che ha la sua guida nella sola Sacra Scrittura. In particolare, gli anabattisti riconoscevano Cristo come unico capo della Chiesa, e negavano il valore della gerarchia e del magistero, affidandosi all'insieme dei credenti e dalla loro quotidiana imitazione dell'esempio di Cristo. La Controriforma inaugurata dal Concilio di Trento è stata anche una risposta a tali istanze antigerarchiche presenti, sia pure con grandi diversità e con differenti gradi di intensità, nel mondo protestante e, per Paesi come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, la Baviera, la Polonia, la Croazia, l'America Latina un'istanza di rinnovata clericalizzazione non solo della vita religiosa, ma anche nella vita socio-politica, in particolare attraverso il controllo della formazione scolastica e del costume femminile. Nel Settecento si diffonde l'anticurialismo, una tendenza giuridica che si ergeva a difesa dello Stato assolutista contro i privilegi della Chiesa e particolarmente contro le prerogative del Tribunale dell'Inquisizione, che sottraeva allo Stato parte del suo ruolo nell'amministrazione della giustizia. L'origine dell'anticurialismo risale alla seconda metà del Cinquecento, quando a Napoli il viceré spagnolo Pedro Afán de Ribera, che pure represse duramente i valdesi in Calabria, si oppose alla pubblicazione dei decreti del Concilio di Trento e all'istituzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno di Napoli. Nel Settecento l'anticurialismo assume l'aspetto di una corrente filosofica e giuridica con autori come il sacerdote salernitano Antonio Genovesi, il cavese Costantino Grimaldi, autore delle Considerazioni intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli, 1708) e delle Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca, 1725) e il foggiano Pietro Giannone, che a Ginevra, patria del calvinismo, già inviso alla Chiesa per la sua opera storica, compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale, che sarà pubblicato postumo solo nel 1895. Nel 1730 Alberto Radicati di Passerano, esule a Londra, pubblicò un opuscolo anticlericale, sotto il titolo A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion, in cui rigetta il cattolicesimo e ne dipinge una mordace caricatura, sulla scorta degli autori illuministi francesi. Nel 1732 pubblicò la Dissertazione filosofica sulla morte, un'opera in cui rivendicava il diritto al suicidio e all'eutanasia. In tutto il secolo si rafforza anche l'antigesuitismo, un movimento di ostilità contro la Compagnia di Gesù, un istituto religioso simbolo della fedeltà al papa, che si riteneva protagonista di ingerenze clericali in politica e nella scienza. Mentre l'aspirazione illuministica alla libertà diveniva il marchio del secolo, la presenza dei gesuiti si faceva via via inaccettabile, tanto che furono espulsi da tutti gli Stati cattolici, a cominciare dal Portogallo (1750). Il primo Stato italiano ad espellere i Gesuiti fu il regno di Napoli (1767), seguito dal ducato di Parma e Piacenza. Nel 1773 papa Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor decise la definitiva soppressione della Compagnia di Gesù. Nella seconda metà del XVIII secolo l'infante Filippo I di Parma e il suo ministro Guillaume du Tillot adottarono nel ducato di Parma e Piacenza una politica anticlericale, che poneva pesanti limitazioni nella capacità della Chiesa di acquisire e possedere beni immobili e di ereditare. Addirittura gli ecclesiastici furono esclusi della successione ereditaria delle loro famiglie. Ai vescovi furono proibiti impiegati che non fossero laici e fu loro sottratta la giurisdizione sugli ospedali e sulle opere pie. Con Ferdinando di Borbone non cessarono le vessazioni del clero e papa Clemente XIII fece affiggere un breve di protesta (Monitorium), che suscitò tali reazioni che in breve tempo quasi tutti gli Stati d'Europa presero posizione contro il Papa. A Napoli la tendenza anticuriale è rappresentata in politica dal primo ministro Bernardo Tanucci. Con il concordato del 1741, la Santa Sede aveva concesso larghi privilegi ai monarchi napoletani che erano sempre stati vicini al papato, non prima di lunghe trattative condotte dall'arcivescovo di Taranto Celestino Galiani, che agiva come ministro plenipotenziario del Regno di Napoli ed era egli stesso un uomo di cultura, fiancheggiatore delle tendenze anticuriali. Il Tanucci volle applicare il Concordato in una chiave di imposizione di una politica ecclesiastica statale (regalismo), che andava a infrangere la tradizionale armonia tra il potere civile e quello religioso. Sulla scorta delle rivendicazioni gallicane già applicate in Francia, le entrate di episcopati e abbazie vacanti affluirono alla corona, conventi e monasteri superflui vennero soppressi, le decime abolite e nuove acquisizioni di proprietà da parte delle istituzioni ecclesiastiche tramite la manomorta vietate. La pubblicazione delle bolle papali necessitava della previa autorizzazione reale (il cosiddetto exequatur). Anche le nomine vescovili nel Regno caddero, seppure non direttamente ma solo tramite raccomandazioni, grazie anche all'abilità politica del Tanucci, nelle mani del sovrano. Il Re era soggetto soltanto a Dio, gli appelli a Roma erano proibiti a meno che non vi fosse stato l'assenso del re, il matrimonio venne dichiarato un contratto civile. Papa Clemente XIII reagì con la scomunica, al che Tanucci rispose occupando le enclave pontificie nel territorio napoletano di Benevento e Pontecorvo, che saranno restituite alla Santa Sede solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. Le proteste dei vescovi contro i nuovi insegnamenti nelle scuole a seguito dell'espulsione dei Gesuiti vennero liquidate come non valide. Uno degli ultimi atti di Tanucci fu l'abolizione della chinea (1776), il tributo annuale che i re di Napoli versavano al papa come segno del loro vassallaggio sin dal tempo di Carlo I d'Angiò. Tuttavia, le proteste popolari costrinsero a ritirare il provvedimento di Tanucci e la chinea fu regolarmente corrisposta fino al 1787. Durante il periodo napoleonico, molti dei regni italiani furono trasformati in stati satelliti della Francia e i loro sovrani vennero deposti; lo stesso papa Pio VII fu deportato in Francia. Proclamando a gran voce i principî della Rivoluzione francese, si abolirono i privilegi tanto del clero che della nobiltà. In realtà la rivoluzione fu, a livello locale, spesso condotta da ecclesiastici e nobili subalterni, che talora colsero l'occasione di tentare in tal modo di ottenere una promozione sociale loro preclusa secondo il precedente ordine tradizionale socio-politico. Le autorità napoleoniche appoggiarono all'interno della Chiesa cattolica le posizioni dei gallicani e dei giansenisti contro quelle degli ultramontani. Furono aboliti ed espropriati gli ordini contemplativi, mentre i beni della Chiesa furono a vario titolo espropriati per finanziare lo Stato. Per la prima volta si mise in discussione l'egemonia sociale del clero a favore delle autorità civili. L'anticlericalismo italiano ebbe notevole sviluppo nella lotta al potere temporale del papa, che costituiva oggettivo impedimento all'unificazione sotto la monarchia sabauda ed alla modernizzazione del Paese. Papa Pio VII, rientrato in Italia, tornò a segregare gli ebrei nel ghetto di Roma, dove resteranno fino alla liberazione nel 1870. Papa Gregorio XVI (1831-1846) bollava il treno come "opera di Satana", mentre il suo segretario di Stato, il cardinal Luigi Lambruschini (1776-1854), osteggiava l'illuminazione a gas e instaurava nello Stato pontificio un regime di arbitrio poliziesco, censura e inquisizione. In questo clima, anche tra gli stessi cattolici liberali italiani presero corpo posizioni di stampo anticlericale; ad esempio, una violenta polemica oppose il padre del cattolicesimo liberale italiano, Vincenzo Gioberti (1801-1852), ai gesuiti e ai cattolici reazionari. Giuseppe Garibaldi, l'eroe nazionale italiano, fu il più celebre degli anticlericali del Risorgimento e definì la Chiesa cattolica una «setta contagiosa e perversa», mentre rivolse a papa Pio IX l'epiteto di "metro cubo di letame". La formazione dello Stato nazionale del 1861 fu preceduta e accompagnata dal tentativo di una riforma religiosa di ispirazione cristiana protestante, sul modello della Chiesa nazionale d'Inghilterra, appoggiata dalle chiese valdesi, memori delle persecuzioni, che, nei propositi di alcuni esponenti delle classi dirigenti piemontesi, si proponeva l'ambizioso obiettivo di sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica: la cosiddetta Chiesa Libera Evangelica Italiana. San Leonardo Murialdo scrisse: «Gesù Cristo è bandito dalle leggi, dai monumenti, dalle case, dalle scuole, dalle officine; perseguitato nei discorsi, nei libri, nei giornali, nel papa, nei suoi sacerdoti». Alla Camera, il deputato Filippo Abignente si augurava «che la religione cattolica sia distrutta d'un colpo». Un altro deputato, Ferdinando Petruccelli della Gattina, giornalista e patriota durante le insurrezioni del 1848 nel Regno delle Due Sicilie si riprometteva di eliminare con il potere temporale anche il potere spirituale della Chiesa. Il 20 luglio 1862, espresse senza giri di parole la sua avversione contro il Cattolicesimo: «Noi dobbiamo combattere la preponderanza cattolica nel mondo, comunque, con tutti i modi. Noi vediamo, che questo Cattolicismo è uno strumento di dissidio, di sventura, e dobbiamo distruggerlo.... La base granitica della fortuna politica d'Italia deve essere la guerra contro il Cattolicismo su tutta la superficie del mondo». Dopo la presa di Roma, Petruccelli della Gattina promosse l'abolizione della Legge delle Guarentigie e, durante una seduta alla Camera, gridò: «Il principio generale della rivoluzione Italiana è stato l'abolizione del Papato!». Egli voleva fare del sacerdote «un uomo e un cittadino», dargli «la libertà individuale nei limiti dello Stato» e il «diritto d'invocare la protezione della legge comune», il che significava l'abolizione del foro ecclesiastico. Il giornalista fu anche autore di una controversa opera, Memorie di Giuda, in cui l'apostolo viene raffigurato come un rivoluzionario che combatte l'oppressione romana. Il romanzo suscitò un enorme scandalo e trovò problemi di distribuzione, e La Civiltà Cattolica, il maggiore organo di stampa pontificio, lo etichettò «libraccio infame» e l'autore «sporco romanziere». Secondo il laico Giovanni Spadolini, Cavour volle «fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dal mondo della politica, dall'istruzione, dalla scienza, dove il dominio incondizionato sarebbe stato quello dello Stato e dello Stato soltanto». Tale tentativo prese avvio nel Regno di Sardegna, con la legge del 25 agosto 1848 n. 777 che espelleva tutti i gesuiti stranieri, ne sopprimeva l'ordine e ne incamerava tutti i collegi, convertendoli ad uso militare. Negli anni seguenti i gesuiti furono nell'occhio del ciclone in tutta Italia e dopo il 1848 (durante il quale alcune residenze gesuite furono assaltate da folle inferocite), saranno soppressi in tutti gli Stati italiani (escluso lo Stato pontificio). La legge del 1848 e le analoghe successive saranno caratterizzate da ostilità verso la Chiesa cattolica che, nella visione dei politici di ispirazione liberale (sovente aderenti alla Massoneria), costituiva un freno al progresso civile, ritenendo che la religione non fosse altro che superstizione, mentre la verità andava ricercata avvalendosi del metodo scientifico. Si trattava di un aperto contrasto con la realtà italiana - e soprattutto piemontese - del primo Ottocento, in cui per assenza d'intervento dello Stato era la Chiesa ad organizzare e finanziare scuole, istituzioni sociali e ospedali. Non di rado docenti e scienziati erano essi stessi ecclesiastici. Secondo la studiosa cattolica Angela Pellicciari «la nuova identità che i grandi del mondo progettano per la nazione culla dell'universalismo romano e poi cristiano è anticattolica, mentre la storia, la cultura e la popolazione sono tutte cattoliche.» A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850, e n. 878 del 29 maggio 1855), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l'impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l'esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la Chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l'autorizzazione governativa. L'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Fu del 29 maggio 1855 la legge che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L'iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un'opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l'avvento del Regno d'Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l'affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive:

La Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l'obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l'incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie.

La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d'indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l'esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Negli anni Settanta del XIX secolo il ministro dell'istruzione Cesare Correnti abolì le facoltà teologiche, sottrasse gli educandati femminili siciliani al controllo dei vescovi e infine tentò la soppressione dei direttori spirituali nei ginnasi, ma in seguito alle proteste della Destra dovette rassegnare le dimissioni il 17 maggio 1872. Il tentativo mazziniano di instaurare la Repubblica Romana (febbraio-luglio 1849) fu accompagnato da assassinii di sacerdoti, saccheggi di chiese e requisizioni forzose. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma passò dalla condizione di stato tra i più arretrati d'Europa a banco di prova delle nuove idee liberali che allora si diffondevano nel continente, fondando la sua vita politica e civile su principi - quali, in primis, il suffragio universale maschile, la libertà di culto e l'abolizione della pena di morte (facendo seguito, in questo caso, all'esempio del Granducato di Toscana che aveva definitivamente abolito la pena capitale nel 1786) e - che sarebbero diventate realtà in Europa solo circa un secolo dopo. Nella difesa di Roma dall'esercito francese, che accorse a sostenere lo Stato pontificio insieme alle armate austriache, borboniche e spagnole, persero la vita numerosi padri della patria tra cui Goffredo Mameli. Tra i politici di maggior spicco in questa fase storica emerge la figura di Camillo Benso Conte di Cavour, che nel 1861, poco dopo la proclamazione dell'Unita d'Italia, formulò, inascoltato, il principio della «Libera Chiesa in libero Stato», tentando con questa principio di regolare la convivenza tra Chiesa e Stato. Nel 1869 quando venne convocato il Concilio Vaticano I, a Napoli si riunì un anticoncilio di liberi pensatori, soprattutto massoni, organizzato dal deputato Giuseppe Ricciardi. Il Concilio Vaticano I fu poi interrotto dalla presa di Roma e non più convocato. Negli anni seguenti Roma divenne teatro di numerosi episodi di anticlericalismo, soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche: «fra il 1870 e il 1881 si possono contare oltre trenta casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora scontri fisici». Per lungo tempo il Papa, rifugiatosi in Vaticano, impose ai cattolici di non partecipare alla vita pubblica del Regno d'Italia con un pronunciamento conosciuto come non expedit. Nel 1850 dopo l'approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna l'arcivescovo di Torino Luigi Fransoni fu arrestato per un mese e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione per la sua ferma opposizione alle leggi anticlericali. Dopo l'Unità, circa la metà delle diocesi italiane resterà vacante, per il rifiuto del Governo di concedere il necessario 'placet' o 'exequatur' ai vescovi. Nel 1864 ben 43 vescovi erano in esilio, 20 in carcere, 16 erano stati espulsi e altri 16 morti per le vessazioni subite. A metà degli anni sessanta di 227 sedi vescovili, 108 erano vacanti. I motivi di questi arresti erano spesso arbitrari: il cardinale Corsi, arcivescovo di Pisa, fu arrestato il 13 maggio 1860 per non aver voluto cantare il "Te Deum" per Vittorio Emanuele II. Nel luglio dello stesso anno il vescovo di Piacenza Antonio Ranza e dieci canonici furono condannati dal tribunale a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo. Si trattò di una condanna politica, perché il vescovo si era allontanato dalla città in occasione della visita del re e non aveva celebrato la festa dello Statuto. Nelle province meridionali, dopo la spedizione di Garibaldi con vari pretesti furono arrestati e processati 66 vescovi. Durante i quattro anni successivi subirono la stessa sorte anche nove cardinali. Il problema delle sedi vacanti si avviò verso la soluzione nell'ottobre del 1871, quando furono nominati 41 nuovi vescovi. Altri 61 saranno nominati negli anni successivi. Tuttavia, nel 1875 Minghetti annunciava ancora alla Camera che delle 94 domande di exequatur presentate per la nomina di nuovi vescovi, soltanto 28 erano state accettate dal Governo. Dopo l'Unità d'Italia si verificarono episodi di intolleranza anticlericale come l'assalto al Congresso cattolico di Bologna del 9 ottobre 1876 e i tumulti in occasione della traslazione della salma di Pio IX il 13 luglio 1881. Nel 1889, l'erezione del monumento a Giordano Bruno in Campo de' Fiori avvenne in un contesto di violenta lotta politica in cui si confrontarono le posizioni più oltranziste delle fazioni anticlericali e clericali. L'opera fu realizzata dallo scultore Ettore Ferrari, che più tardi divenne gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Fra i promotori non mancarono toni di sfida al Pontefice, che minacciava di lasciare Roma per rifugiarsi in Austria, e il monumento divenne uno dei simboli dell'anticlericalismo. Francesco Crispi ottenne dal re Umberto I un decreto di destituzione nei confronti del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che aveva fatto una visita ufficiale al cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, portando un messaggio per papa Leone XIII. Nello stesso periodo a Roma la Massoneria metteva in scena sotto i Palazzi apostolici banchetti nei venerdì di Quaresima, per dileggiare il digiuno cristiano. Gli episodi di violenza continueranno anche nella prima parte del XX secolo: fra questi l'assalto alla processione del Corpus Domini a Fabriano, avvenuto il 21 giugno 1911, condotto da socialisti e anticlericali, terminò in un clamoroso processo. Il principale esponente dell'anticlericalismo in ambito accademico e culturale fu il poeta e poi docente di letteratura italiana Giosuè Carducci. Pubblicò nel 1860 nella raccolta Juvenilia la poesia Voce dei preti: «Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo, Quando vessil di servitù la Croce. E campion di tiranni apparve Cristo!» (Giosuè Carducci, Voce dei preti), e nel 1863 l'Inno a Satana, che poi ristamperà nel 1868 in occasione del Concilio Vaticano I. L'anticlericalismo accademico derivò in larga parte dall'adesione di molti docenti al positivismo e allo scientismo. All'università di Torino il positivismo fece la sua comparsa negli anni sessanta del XIX secolo presso la facoltà di medicina, dove insegnava l'olandese Jacob Moleschott. Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale, Salvatore Cognetti de Martiis, professore di economia politica garibaldino, e Arturo Graf, docente di letteratura italiana, furono celebri esponenti di teorie anticlericali. Il darwinismo ebbe come centri di diffusione Torino, Pavia e Firenze. Anche l'associazionismo studentesco risentì della polemica anticlericale e costituì un anello di quella che poteva apparire una «koinè positivista e anticlericale largamente condivisa nel mondo accademico». Nel 1871 i professori dell'Università di Roma furono chiamati a pronunziare il giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I professori della facoltà di teologia furono esentati dal giuramento, ma in maggioranza si rifiutarono di riprendere l'insegnamento in un ambiente ora ostile. Papa Pio IX li ricevette in udienza dicendo loro: «L'Università, quale ora è divenuta, non è più degna delle vostre dottrine e di voi, e voi stessi vi contaminereste varcando quelle soglie, entro le quali si insegnano errori così perniciosi». Appelli analoghi furono rivolti agli studenti e fu dato vita ad un tentativo di un'università alternativa. Quando però il tentativo fallì, agli studenti fu concesso di frequentare le università statali, ammonendoli però ad evitare l'influsso dei cattivi maestri. All'Università di Catania fu professore di letteratura italiana Mario Rapisardi, spirito anticlericale e garibaldino, che considerava le religioni come intralcio al progresso scientifico e morale. Il ritiro dei docenti della facoltà di teologia diede occasione allo Stato di sopprimere le facoltà di teologia con la legge Scialoja-Correnti del 26 gennaio 1873, determinando la scomparsa degli studi ecclesiastici dalle università di Stato. Al di fuori dell'ambito strettamente accademico, ebbe straordinario successo la letteratura di Edmondo De Amicis, che proponeva con il libro Cuore un codice di morale laica e quella di poeti come Antonio Ghislanzoni, librettista di Giuseppe Verdi, Felice Cavallotti, che fu anche un celebre politico e deputato, e Olindo Guerrini, che nel 1899 fu condannato e poi assolto in appello per diffamazione del vescovo di Faenza. Cavalli di battaglia dell'anticlericalismo divennero in questo periodo una ricostruzione storica in stile illuminista, a volte arbitraria, del Medioevo (i secoli bui), la leggenda della Papessa Giovanna, la classificazione della storia delle Crociate come guerra di religione, e della lotta alle eresie in generale e dell'Inquisizione in particolare come fenomeni dell'intolleranza cristiana (vedi Leggenda nera dell'Inquisizione). L'anticlericalismo non restò confinato alle classi dirigenti, ma trovò eco anche nelle società operaie e di mutuo soccorso di fine ottocento, prevalentemente di ispirazione socialista. Secondo questa ideologia, Gesù Cristo era stato il "primo socialista", ma il suo insegnamento era stato corrotto dalla Chiesa ("dai preti") per tornaconto. Un esempio emblematico di questa ideologia fu La predica di Natale del 24 dicembre 1897 di Camillo Prampolini. Diffuse erano anche le rappresentazioni teatrali di spettacoli anticlericali: ad esempio nel 1851 a Vercelli erano in scena due commedie, intitolate "Gli orrori dell'Inquisizione" e "Il diavolo e i Gesuiti". A Roma il primo carnevale dopo Porta Pia fu organizzato dall'associazione anticlericale "Il Pasquino", che propose numerose parodie. Un enorme dito di cartapesta fu fatto sfilare per le vie di Roma: era il "dito di Dio", una formula tipica con cui la stampa cattolica commentava sventure e disgrazie. L'anticlericalismo trovò eco anche in polemiche giornalistiche, che spesso vedevano confrontarsi giornali di tendenze opposte. A Torino la Gazzetta del Popolo diretta dall'anticlericale Felice Govean, che fu anche gran maestro del Grande Oriente d'Italia, battagliava contro l'Armonia cattolica, diretta da Giacomo Margotti. Le vendite vedevano primeggiare il foglio anticlericale, che distribuiva 10 000 copie contro le 2 000 del concorrente. Il Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, fortemente anticlericale e ateo in gioventù, presentava inizialmente, influenzato anche dal futurismo, un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi. Ma Mussolini, dopo essere diventato duce dell'Italia fascista, resosi conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica rivestiva nel Paese, cambiò i suoi propositi iniziali e volle concordare un'intesa con la Chiesa al fine di consolidare e accrescere il proprio potere, ancora instabile, ed ottenere un più ampio consenso di popolo. Tuttavia il capo del fascismo intimamente rimaneva un ateo anticlericale, come testimoniano la sua nota avversione a farsi fotografare accanto a religiosi e la conseguente censura di tutti i ritratti in cui era presente qualche prelato o simile e la confidenza che Dino Grandi fece a Indro Montanelli nella quale raccontava come Mussolini, appena uscito dal palazzo Laterano in cui l'11 febbraio 1929 aveva appena firmato il concordato, bestemmiò pesantemente per sottolineare la sua personale avversione alla Chiesa cattolica e ai preti. L'accordo con la Segreteria di Stato vaticana per la stipula dei Patti Lateranensi, formalmente siglati nel1929 avvenne grazie ad un atteggiamento, nonostante le differenti visuali, diplomaticamente dialogante tra le parti. In cambio il dittatore impose una compressione dello spazio di intervento dell'Azione Cattolica, unica organizzazione giovanile non fascista che sopravvisse durante il regime. Con quest'accordo ci furono alcuni membri del clero, a vari livelli, che diedero la loro adesione, come cittadini italiani, al fascismo. Nello stesso Partito Popolare Italiano, una parte dei membri aderì al governo fascista ante-dittatura, contro il parere di don Luigi Sturzo. Il partito subì una forte crisi che fu determinante per l'ascesa del PNF. Ci furono così aspetti, come nel regime franchista spagnolo, di cosiddetto clericofascismo. Alla caduta del fascismo, mentre i gerarchi e i rappresentanti della monarchia fuggivano, le autorità ecclesiastiche rimasero al loro posto, svolgendo, a volte in collaborazione con il CLN, opere caritatevoli e assistenziali a vantaggio della popolazione, esercitando nel contempo un ruolo civile e sociale. Questo interesse degli ecclesiastici per le questioni politiche ed economiche si scontrava sia con la cultura liberale, che riduceva il problema religioso alla sfera individuale, sia con la cultura marxista, che annoverava le religioni fra le forze reazionarie. Se la Chiesa pretendeva di offrire alla società i valori fondamentali su cui costruire la democrazia, marxisti e liberali consideravano un'indebita ingerenza ogni intervento della Chiesa nell'ambito sociale e politico. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'anticlericalismo ebbe le sue espressioni, seppur in forma minoritaria ed incostante, nel Partito Comunista Italiano, nel Partito Repubblicano Italiano e nel Partito Socialista per divenire centrale nell'attività del Partito Radicale a partire dagli anni settanta, in contrapposizione alla Democrazia Cristiana e all'influenza vaticana nella politica italiana. Uno dei punti principali di contrasto fu la scure censoria che si abbatté sulle migliori opere cinematografiche italiane del dopoguerra, accusati di offesa alla morale o vilipendio della religione cattolica, partendo da La dolce vita di Federico Fellini, a La ricotta di Pier Paolo Pasolini, fino a Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Gli anticlericali sostennero che questi furono solo alcuni esempi tra i tanti di come la morale cattolica influenzasse ed imponesse il proprio punto di vista anche in materia di arte e spettacolo. Si impegnò in una lunga filmografia anticlericale il regista Luigi Magni, che diresse Nell'anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990), una trilogia ambientata nella Roma papalina del Risorgimento. Il fronte laico riuscì ad ottenere l'istituzione del divorzio (1970, confermato dopo il referendum abrogativo del 1974) e la legalizzazione dell'aborto (1978). Nel 1984 il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi attuò una revisione dei Patti Lateranensi, rimuovendo la prerogativa di «Religione di Stato» in precedenza accordata alla Chiesa cattolica. Venne mantenuto, seppur rendendolo facoltativo, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, affidato a insegnanti pagati dallo Stato ma nominati dalla Curia, e l'esenzione dal pagamento delle imposte sugli immobili di proprietà della Chiesa cattolica in cui vengono svolte attività "che non abbiano natura esclusivamente commerciale". Contestualmente venne introdotta la destinazione dell'otto per mille del gettito IRPEF dei contribuenti a 7 confessioni religiose, tra cui la Chiesa cattolica. L'otto per mille viene destinato alle varie confessioni in proporzione delle scelte espresse dai soli contribuenti che forniscono un'indicazione al riguardo. La quota del reddito dei contribuenti che non ha espresso alcuna scelta viene, in altre parole, ripartita tra le confessioni religiose che hanno siglato l'intesa con lo stato italiano in misura pari alla percentuale delle scelte espresse. Per esempio, nel 2000 il 35% degli italiani si espresse a favore della Chiesa cattolica, il 5% circa a favore dello Stato o di altre religioni, e il 60% non espresse alcuna scelta. Di conseguenza, l'87% del gettito è stato devoluto alla Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1984 gli anticlericali italiani, inizialmente dell'area anarchica e libertaria, in seguito anche i socialisti, i radicali, i liberali e i comunisti si diedero appuntamento per discutere dei maggiori temi politici di confronto e scontro con il Vaticano, ai Meeting anticlericali di Fano presso i quali, nel 1986, venne fondata anche l'Associazione per lo Sbattezzo. Oggi è contestato, da taluni, in una società sempre più secolarizzata, l'intervento della Chiesa cattolica, mediante indicazioni di comportamento ai fedeli e indicazioni di voto ai parlamentari cattolici, sull'azione legislativa e regolamentare dello Stato. Si ricorda la presa di posizione del cardinale Camillo Ruini nel referendum sulla procreazione assistita del 2005, rivolte in particolare contro l'utilizzo delle cellule staminali embrionali, e quelle di vari esponenti e prelati cattolici contro le unioni civili, l'eutanasia e il testamento biologico, oltre che la controversia sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane. Dalla parte della Chiesa invece si rivendica un diritto alla parola e un dovere morale nella guida del cristiano su questioni etiche.

Anticlericalismo in Francia. «La civiltà non raggiungerà la perfezione finché l'ultima pietra dell'ultima chiesa non sarà caduta sull'ultimo prete.» (Émile Zola). Voltaire, illuminista e anticlericale, autore del motto Écrasez l'Infâme ("schiacciate l'infame"), con cui incitò alla lotta contro la Chiesa e il fanatismo religioso. A partire dall'Illuminismo, si sviluppò in Francia una forte corrente anticlericale, che ebbe la sua piena espressione in alcune leggi varate durante la Rivoluzione Francese, come la costituzione civile del clero, l'obbligo di sposarsi o abbandonare i voti per i preti, la trasformazione delle chiese in templi della Ragione, il calendario rivoluzionario francese e il culto dell'Essere Supremo, l'introduzione del matrimonio civile e del divorzio. Anche Napoleone varò una politica di separazione tra Stato e Chiesa.

In un contesto politico anticlericale, il 7 dicembre 1830 i redattori de L'Avenir, giornale cattolico liberale, riassumono le loro rivendicazioni: chiedono libertà di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, libertà d'insegnamento, di stampa, d'associazione, decentramento amministrativo ed estensione del diritto elettorale. L'anticlericalismo è un tema di particolare rilevanza nel contesto storico della Terza Repubblica e nelle divergenze che ne derivarono con la Chiesa cattolica. Gli eccidi della "settimana di sangue" seguiti all'instaurazione della Comune parigina(1871) con l'uccisione dell'arcivescovo di Parigi Georges Darboy, possono essere considerati come gli effetti del duro scontro in Francia tra clericali e anticlericali socialisti. Tuttavia, prima del 1905, la Chiesa godeva di un trattamento preferenziale da parte dello stato francese (insieme alle minoranze ebraiche, luterane e calviniste). Nel corso dell'Ottocento, sacerdoti insegnavano nelle scuole pubbliche tutte le materie, religione compresa. E inoltre la Chiesa fu implicata in attacchi antisemiti come nell'Affare Dreyfus. Di conseguenza molti appartenenti alla sinistra chiesero la separazione tra Chiesa e Stato e l'imposizione di una reale laicità. Si noti che la divisione tra "clericali" e "anticlericali" non aderisce esattamente alle categorie di "credenti" e "non credenti" poiché alcuni cattolici, come Victor Hugo, pensavano che la Chiesa non dovesse intervenire nella vita politica, mentre non credenti come Charles Maurras favorivano il potere temporale della Chiesa perché ritenevano fosse essenziale per la coesione del Paese e per i loro obiettivi politici (vedi anche reazionario). Dal punto di vista culturale non mancavano rappresentazioni anticlericali nei teatri, come la commedia Pourquoi elles vont à l'église di Nelly Roussel. In definitiva, la separazione del 1905 tra Stato e Chiesa innescò aspre polemiche e forti controversie, la maggioranza delle scuole cattoliche e delle fondazioni educative venne chiusa e molti ordini religiosi furono sciolti. Papa Pio X reagì con tre diverse encicliche di condanna: la Vehementer Nos dell'11 febbraio 1906, la Gravissimo Officii Munere del 10 agosto dello stesso anno e l'Une Fois Encore del 6 gennaio 1907.

Anticlericalismo in Messico. In seguito alla rivoluzione del 1860, il presidente Benito Juárez, appoggiato dal governo statunitense, varò un decreto per la nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, separando Chiesa e Stato e sopprimendo gli ordini religiosi. All'inizio degli anni dieci del XX secolo, i Costituzionalisti di Venustiano Carranza denunciarono l'ingerenza clericale nella politica messicana. Protestavano di non perseguitare il Cattolicesimo, ma di voler ridurre l'influenza politica della Chiesa. Tuttavia, la campagna dei Costituzionalisti non sfociò immediatamente in un nessun'azione formale. Il movimento dei Costituzionalisti rappresentava gli interessi degli Stati Uniti d'America e delle sue lobby massoniche. Successivamente Álvaro Obregón e i Costituzionalisti intrapresero delle misure volte a ridurre la profonda influenza politica della Chiesa cattolica. Il 19 maggio 1914, le forze di Obregón condannarono il vescovo Andrés Segura e altri uomini di Chiesa a 8 anni di carcere per la loro presunta partecipazione ad una ribellione. Durante il periodo in cui Obregón ebbe il controllo di Città del Messico (febbraio 1915), impose alla Chiesa il pagamento di 500.000 pesos per alleviare le sofferenze dei poveri. Venustiano Carranza assunse la presidenza il 1º maggio 1915. Carranza e i suoi seguaci ritenevano che il clero sobillasse il popolo contro di lui attraverso la propaganda. Divennero sempre più frequenti le violenze, tollerate dalle autorità, nei confronti dei cattolici: nel 1915 vennero assassinati ben 160 sacerdoti. Subito dopo che Carranza ebbe il totale controllo del Messico, emanò una nuova Costituzione con l'intento di ridurre il potere politico della Chiesa.

La Costituzione del 1917. Nella Costituzione Messicana furono introdotti articoli anticlericali:

L'articolo 3 rese obbligatoria l'istruzione laica nelle scuole messicane.

L'articolo 5 mise fuori legge i voti religiosi e gli ordini religiosi.

L'articolo 24 proibì il culto fuori dagli edifici ecclesiastici.

Con l'articolo 27 alle istituzioni religiose fu negato il diritto di acquisire, detenere o amministrare beni immobili e tutti i beni ecclesiastici, compresi quelli di scuole e ospedali, furono dichiarati proprietà nazionale.

Con l'articolo 130 il clero fu privato del diritto di voto e del diritto di commentare questioni politiche.

Il governo messicano fu estremamente pervicace nel suo intento di eliminare l'esistenza legale della Chiesa cattolica in Messico. La costituzione ebbe il risultato di acuire il conflitto fra Chiesa e Stato. Per otto anni questi provvedimenti non furono rigorosamente messi in atto dal governo messicano. Intanto le violenze continuavano. Nel 1921 un attentatore tentò di distruggere il più importante simbolo del cristianesimo messicano: il mantello con l'immagine della Madonna di Guadalupe, conservato nell'omonimo santuario. La bomba, nascosta in un mazzo di fiori deposto vicino all'altare, produsse gravi danni alla basilica. Questa politica ebbe termine nel giugno del 1926, quando il Presidente del Messico Plutarco Elías Calles (che affermava che "la Chiesa è la sola causa di tutte le sventure del Messico"), emanò un decreto noto come “Legge Calles”, con cui metteva in atto l'articolo 130 della Costituzione. La Chiesa era urtata dalla rapidità della decisione di Calles e in particolare dall'articolo 19, che prevedeva la registrazione obbligatoria del clero, perché permetteva al governo di immischiarsi negli affari religiosi. La Chiesa cattolica prese quindi posizione contro il governo. I cattolici messicani, di concerto con il Vaticano, risposero inizialmente con iniziative di protesta non violente, tra le quali il boicottaggio di tutti i prodotti di fabbricazione statale (ad esempio il consumo di tabacchi crollò del 74%) e la presentazione di una petizione che raccolse 2 milioni di firme (su 15 milioni di abitanti). Il governo non diede alcuna risposta e la Chiesa decise infine un estremo gesto simbolico: la sospensione totale del culto pubblico. A partire dal 1º agosto 1926, in tutto il Messico non si sarebbe più celebrata la Messa né i sacramenti, se non clandestinamente. Il 18 novembre papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l'enciclica Iniquis Afflictisque. Lo scontento degenerò in aperte violenze quando oltre 5.000 Cristeros diedero inizio ad una ribellione armata. Il governo messicano e i cattolici ingaggiarono un sanguinoso conflitto che durerà per tre anni. Nel 1927 si formò un vero e proprio esercito ribelle, forte di ventimila uomini, che in seguito aumentarono fino a cinquantamila, al comando del generale Enrique Gorostieta Velarde. All'esercito si affiancavano le "brigate Santa Giovanna d'Arco", formazioni paramilitari femminili che giunsero a contare 25000 membri, tra cui anche giovani di soli 14 anni. Tra il 1927 e il 1929 tutti i tentativi di schiacciare la ribellione fallirono; gli insorti anzi presero il controllo di vaste zone nel sud del paese. La Chiesa messicana e il Vaticano, tuttavia, non diedero mai il loro aperto sostegno alla ribellione (il che non impedì al governo di giustiziare anche numerosi sacerdoti che non ne facevano parte), e agirono per giungere ad una soluzione pacifica. Il 21 giugno 1929 furono così firmati gli Arreglos ("accordi"), che prevedevano l'immediato cessate il fuoco e il disarmo degli insorti. I termini dell'accordo, mediati (o piuttosto imposti) dall'ambasciatore degli Stati Uniti, erano però estremamente sfavorevoli alla Chiesa: in pratica tutte le leggi anticattoliche rimanevano in vigore. Questo periodo di anticlericalismo messicano ha ispirato a Graham Greene la scrittura del romanzo Il potere e la gloria.

Anticlericalismo in Portogallo. Nel 1750 il Portogallo fu il primo paese ad espellere i gesuiti.

Una prima ondata di anticlericalismo si verificò nel 1834 sotto il regno di Pietro IV, quando il ministro Joaquim António de Aguiar decretò la soppressione degli ordini religiosi. Parallelamente, alcune delle più note scuole religiose del Portogallo furono obbligate a cessare l'attività. In questo periodo lo scrittore e politico Almeida Garrett pubblicò la commedia anticlericale A sobrinha do Marquês (1848). La caduta della monarchia a seguito della Rivoluzione repubblicana del 1910 causò un'ulteriore ondata di anticlericalismo. La rivoluzione colpì in primo luogo la Chiesa cattolica: vennero saccheggiate le chiese, vennero attaccati i conventi. Furono presi di mira anche i religiosi. Il nuovo governo inaugurò una politica anticlericale. Il 10 ottobre il nuovo governo repubblicano decretò che tutti i conventi, tutti i monasteri e tutte le istituzioni religiose fossero soppresse: tutti i religiosi venivano espulsi dalla repubblica e i loro beni confiscati. I gesuiti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza portoghese. Seguirono, in rapida successione, una serie di leggi anticattoliche: il 3 novembre venne legalizzato il divorzio. In seguito passarono leggi che legittimavano i figli nati fuori dal matrimonio, che autorizzavano la cremazione, che secolarizzavano i cimiteri, che sopprimevano l'insegnamento religioso a scuola e che proibivano di indossare l'abito talare. Inoltre al suono delle campane e ai periodi di adorazione furono poste alcune restrizioni e la celebrazione delle feste popolari fu soppressa. Il governo interferì anche nei seminari, riservandosi il diritto di nominare i professori e determinare i programmi. Questa lunga serie di leggi culminò nella legge di separazione fra Chiesa e Stato che fu approvata il 20 aprile 1911. Il 24 maggio dello stesso anno papa Pio X deplorò la legge portoghese con l'enciclica Iamdudum.

Anticlericalismo in Spagna. Già tra il XV ed il XVI secolo si nota nella letteratura e nel teatro spagnolo la presenza di opere, o parti di esse, di contenuto anticlericale, spesso generate dall'ammirazione per Erasmo da Rotterdam. Si nota quindi Alfonso de Valdés, con la sua Discorso de Latancio y del Arcediano, dove si compiace di descrivere la corruzione della Roma papale punita con il sacco di Roma; a causa del controllo esercitato dal Sant'Uffizio, si trovano tracce di anticlericalismo celato, come nella commedia di Luis Belmonte Bermúdez, El diablo predicador, o negli aforismi perduti di Miguel Cejudo. In seguito alla prima guerra carlista del 1836, il nuovo regime chiuse i maggiori conventi e monasteri della Spagna. In questo contesto, il radicale Alejandro Lerrouxsi caratterizzava per un'oratoria violenta e incendiaria. Dal punto di vista economico la Chiesa cattolica in Spagna fu pesantemente colpita dalle leggi di esproprio e confisca dei beni ecclesiastici, che si susseguirono dal 1798 al 1924: il più famoso di questi provvedimenti è noto con il nome di Desamortización di Mendizábal del1835. Circa un secolo dopo, instaurata la Seconda repubblica e approvata la Costituzione del 1931, proseguì la legislazione anticlericale, inaugurata il 24 gennaio 1932con lo scioglimento in Spagna della Compagnia di Gesù e l'esilio della maggioranza dei gesuiti. Il 17 maggio 1933, il governo varò la controversa Legge sulle Confessioni e Congregazioni Religiose (Ley de Confesiones y Congregaciones Religiosas), approvata dal parlamento il 2 giugno 1933, e regolamentata mediante un decreto del 27 luglio[54]. La legge confermava la proibizione costituzionale dell'insegnamento per gli ordini religiosi, mentre si dichiararono di proprietà pubblica i monasteri e le chiese. La legge fu un duro colpo al sistema scolastico (le scuole gestite dagli ordini religiosi contavano 350.000 alunni) in un Paese dove il 40% della popolazione era analfabeta. Reagì contro la legge papa Pio XI, con l'enciclica Dilectissima Nobis del 3 giugno 1933. Durante la guerra civile spagnola del 1936, molti appartenenti all'armata Repubblicana erano volontari anarchici e comunisti fortemente anticlericali e provenienti da varie parti del mondo. Nel corso dei loro assalti, (in risposta all'atteggiamento del clero, che con toni da crociata si era schierato dalla parte dell'insurrezione antirepubblicana di Francisco Franco e che denunciava spesso gli anarchici alle autorità, condannandoli a morte certa) parecchi edifici di culto e monasteri vennero bruciati e saccheggiati. Al termine del conflitto, la stima delle vittime religiose ascende a più di 6.000 religiosi trucidati, tra cui 259 clarisse, 226 francescani, 155 agostiniani, 132 domenicani e 114 gesuiti. Gli episodi raccapriccianti non furono isolati: stupri di suore, fucilazioni rituali di statue di santi, preti cosparsi di benzina e arsi, taglio di orecchie e genitali "papisti" e persino corride con sacerdoti al posto di tori[55]. La stragrande maggioranza della Chiesa cattolica salutò la vittoria di Franco, militarmente sostenuto da Hitler e Mussolini, come un provvidenziale intervento divino nella storia di Spagna. Nonostante la guerra fosse stata per Hitler nient'altro che il banco di prova della tragedia che stava preparando per l'Europa, papa Pio XII nel suo radiomessaggio del 16 aprile 1939, Con immensa gioia, parlò di una vera e propria vittoria "contro i nemici di Gesù Cristo". La Chiesa cattolica, sotto il papato di Giovanni Paolo II, tra il 1987 ed il 2001 ha riconosciuto e canonizzato 471 martiri della guerra civile spagnola; altri 498 sono stati poi beatificati nel 2007 da Benedetto XVI. Recentemente, anche il premier Zapatero è stato avvicinato all'anticlericalismo per le sue politiche laiche.

Anticlericalismo negli Stati Uniti. L'anticlericalismo statunitense (o meglio l'anticattolicesimo) degli anni cinquanta del secolo XIX trovò espressione nel Know Nothing: un movimento xenofobo ("nativista"), che traeva forza dalle paure popolari che il paese potesse essere sopraffatto dall'immigrazione massiccia dei cattolici irlandesi, ritenuti ostili ai "valori americani" e controllati dal papa. Sebbene i cattolici asserissero di essere politicamente indipendenti dal clero, i protestanti accusavano papa Pio IX di aver posto fine alla Repubblica Romana e di essere un nemico della libertà, della democrazia e del protestantesimo. Questi rilievi fomentarono teorie di cospirazione che attribuivano a Pio IX il disegno di soggiogare gli Stati Uniti mediante un'immigrazione continua di cattolici controllati da vescovi irlandesi obbedienti e personalmente selezionati dal Pontefice. Un'eco di anticlericalismo è presente nelle elezioni presidenziali del 1928, in cui il Partito Democratico candidò il governatore dello stato di New York Al Smith, (il primo cattolico candidato alla presidenza da un grande partito), che fu attaccato come "papista". L'elettorato temeva che "se Al Smith fosse eletto presidente, gli Stati Uniti sarebbero governati dal Vaticano". L'anticlericalismo ha trovato anche esponenti laici, non legati al protestantesimo e all'opposizione agli immigrati, in epoca recente: ad esempio il giornalista anglo-americano Christopher Hitchens, accusato spesso di anticattolicesimo, ateo e antislamista; i laici americani riprendono le posizioni del presidente Thomas Jefferson che fu uno dei più forti sostenitori di uno stato non legato alla religione all'epoca della nascita degli Stati Uniti. Uno dei cavalli di battaglia più recenti degli anticlericali statunitensi è la lotta contro l'ingerenza evangelicista nella politica interna nonché la critica contro il clero cattolico per loscandalo pedofilia che ha coinvolto molte diocesi americane.

Anticlericalismo nella Germania nazista. La propaganda nazista ebbe tratti anticlericali. Ad esempio Himmler, capo supremo delle SS e della Gestapo, riprende alcuni motivi cari all'anticlericalismo: la depravazione e perversione del clero, la svalorizzazione della donna, la corruzione della grandezza di Roma: «Sono assolutamente convinto che tutto il clero e il cristianesimo cercano soltanto di stabilire un'associazione erotica maschile e a mantenere questo bolscevismo che esiste da duemila anni. Conosco molto bene la storia del cristianesimo a Roma, e ciò mi permette di giustificare la mia opinione. Sono convinto che gli imperatori romani, che hanno sterminato i primi cristiani, hanno agito esattamente come noi con i comunisti. A quell'epoca i cristiani erano la peggior feccia delle grandi città, i peggiori ebrei, i peggiori bolscevichi che vi possiate immaginare. Il bolscevismo di quell'epoca ha avuto il coraggio di crescere sul cadavere di Roma. Il clero di quella Chiesa cristiana che, più tardi, ha sottomesso la Chiesa ariana dopo lotte infinite, cerca, dal IV o V secolo, di ottenere il celibato dei preti. [...]dimostreremo che la Chiesa, sia a livello dei dirigenti che a quello dei preti, costituisce nella maggior parte un'associazione erotica di uomini che terrorizza l'umanità da 1.800 anni, che esige che questa umanità le fornisca una grandissima quantità di vittime e che, nel passato, si è dimostrata sadica e perversa. Posso soltanto citare i processi alle streghe e agli eretici.» (Testo del discorso segreto tenuto da Heinrich Himmler il 17-18 febbraio 1937 ai generali delle SS in relazione ai "pericoli razziali e biologici dell'omosessualità. Ciononostante, il Partito del Centro Cattolico di Germania, guidato da Franz von Papen, aveva appoggiato l'ascesa del nazismo in Germania e, nel gennaio 1933, la nomina di Hitler a Cancelliere, di cui von Papen divenne vice-Cancelliere. Nel marzo dello stesso anno, il partito di von Papen votò la concessione dei pieni poteri a Hitler in cambio di privilegi che sarebbero stati concessi alla Chiesa nel Concordato con la Germania nazista, che venne firmato nel 4 mesi più tardi dal cardinale Pacelli (futuro papa Pio XII). Hitler stesso aveva dichiarato più volte ai suoi collaboratori la sua ostilità verso la Chiesa: "Ho conquistato lo Stato a dispetto della maledizione gettata su di noi dalle due confessioni, quella cattolica e quella protestante. (13 dicembre 1941) I preti oggi ci insultano e ci combattono, si pensi per esempio alla collusione tra la Chiesa e gli assassini di Heydrich. Mi è facile immaginare come il vescovo von Galen sappia perfettamente che a guerra finita regolerò fino al centesimo i miei conti con lui... (4 luglio 1942) - I preti sono aborti in sottana, un brulichio di cimici nere, dei rettili: la Chiesa cattolica stessa non ha che un desiderio: la nostra rovina- La dottrina nazionalsocialista è integralmente antiebraica, cioè anticomunista ed anticristiana. (Notte tra il 29 e il 30 novembre 1944) - schiaccerò la chiesa come un rospo " e aveva mostrato con fatti concreti il suo anticlericalismo, violando continuamente il Reichskonkordat. Oltre a far togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e pubbliche, nella sola Germania più di un terzo del clero secolare e un quinto circa del clero regolare, ossia più di 8000 sacerdoti furono sottoposti a misure coercitive (prigione, arresti illegali, campi rieducativi), 110 morirono nei campi di concentramento, 59 furono giustiziati, assassinati o perirono in seguito ai maltrattamenti ricevuti.

Anticlericalismo in Argentina. Durante il primo periodo peronista, ci furono alcuni atteggiamenti e leggi anticlericali. Inizialmente i rapporti tra il governo di Juan Domingo Perón e di sua moglie Evita e le gerarchie ecclesiastiche furono buoni, e il peronismo non era affatto antireligioso, ma si incrinarono quando Perón legalizzò l'aborto e facilitò il divorzio, introducendo leggi che ostacolavano l'istruzione religiosa. Il governo di Juan Domingo Perón in un primo momento fu legato alle Forze Armate, e l'esercito e la Chiesa erano all'epoca considerati il baluardo contro le ideologie socialiste e comuniste. La Chiesa, inoltre, sosteneva la dottrina politica della "giustizia sociale", e condivideva con il peronismo l'idea che fosse compito dello Stato mediare nei conflitti di classe e livellare le disuguaglianze sociali. Ci furono, tuttavia, settori della Chiesa cattolica, già reduce dai provvedimenti antiecclesiastici del Messico di Calles un ventennio prima, che accusavano il peronismo di statalismo per l'eccessiva interferenza del governo nazionale nella vita privata e in contesti che non gli competevano. Il motivo della critica era dovuto anche al fatto che spesso lo Stato invadeva le sfere tradizionalmente di competenza della Chiesa nel momento in cui si interessava, ad esempio, dei piani di assistenza e della pubblica educazione. Le alte gerarchie ecclesiali argentine erano rimaste alleate dell'oligarchia, nonostante la Costituzione del 1949 trattasse con moltissimo riguardo il cattolicesimo, facendone religione di Stato nell'articolo 2, e affermasse che il Presidente dovesse essere un cattolico. Nel 1946 il Senato approvò una legge che riaffermava e confermava tutti i decreti stabiliti dalla giunta militare del precedente governo dittatoriale. Tra questi decreti c'era anche la legge sull'istruzione religiosa obbligatoria varata nel 1943. Questa legge era stata duramente discussa alla Camera dei Deputati, ed era passata solo grazie al voto dei peronisti. Gli argomenti che apportarono a favore della legge furono nazionalistici ed antiliberali: si sottolineò il legame esistente tra l'identità della nazione e il profondo cattolicesimo della Spagna, e si enfatizzò il ruolo che la religione avrebbe avuto nella formazione delle coscienze e della società. Questa riaffermazione della legge sull'educazione religiosa, tuttavia, limitò i poteri della Chiesa dando ragione a coloro che all'interno della stessa Chiesa tacciavano il peronismo di statalismo: i programmi scolastici e i contenuti dei libri di testo erano responsabilità dello Stato, il quale avrebbe potuto consultare le autorità ecclesiastiche qualora ce ne fosse stato bisogno; le altre materie scolastiche continuarono ad essere insegnate secondo lo spirito della Legge 1420 del 1884, e quindi continuarono a seguire la tradizione laicista dello stile di formazione argentino; l'educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il culto della personalità del Presidente e di sua moglie Eva; nel giugno 1950, infine, Perón nominò Armando Méndez San Martín, un massone anticattolico, Ministro della Pubblica Istruzione, cominciando a guardare la Chiesa con sospetto. Durante il suo secondo mandato Perón non condivise l'aspirazione della Chiesa di promuovere partiti politici cattolici. Infine, alcune leggi peroniste provocarono malumori tra i vescovi: nel 1954 il governo soppresse l'educazione religiosa nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione, di far passare una legge sul divorzio, e di promuovere un emendamento costituzionale per separare completamente Stato e Chiesa. Perón, poi, accusò pubblicamente il clero di sabotaggio. Il 14 giugno1955, durante la festa del Corpus Domini, i vescovi Manuel Tato e Ramón Novoa fecero discorsi antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón divenne apertamente anticlericale e, due giorni dopo questi fatti, venne scomunicato da papa Pio XII. Perón venne deposto nel 1955, ma tornò al potere nel 1973. Alla sua morte (1974) il potere passò alla terza moglie Isabelita Perón, che venne deposta a sua volta da un golpe militare. La dittatura di Jorge Rafael Videla, sosteneva la religione come mezzo di controllo sociale, anche se vi furono molti preti e religiosi che finirono nel numero dei desaparecidos. Con il ritorno della democrazia, ci sono stati alcuni contrasti fra la Chiesa e il governo di Néstor e Cristina Fernández de Kirchner.

Campagna elettorale per la Costituzione dell'Ecuador. In occasione del referendum costituzionale del settembre 2008, la Chiesa cattolica ha preso posizione guidando il fronte del no e ha invitato gli elettori a votare contro la proposta dell'Assemblea costituente ecuadoriana perché, a giudizio dei vescovi, la nuova Costituzione non avrebbe tutelato il diritto alla vita del concepito, lasciando intravedere il diritto per le donne all'aborto. La nuova Costituzione ecuadoriana, all'articolo 66.3.a, tutela infatti l'integrità fisica, psichica, morale e sessuale di ogni persona, senza specificare, come avrebbe voluto la Chiesa, un primato del concepito sulla madre. L'articolo 66.9 garantisce il diritto di decidere sulla propria sessualità e orientamento sessuale. L'articolo 66.10 garantisce il diritto di decidere quanti figli generare e quando. Secondo i vescovi gli articoli sarebbero vaghi e generici e permetterebbero l'introduzione del diritto all'interruzione di gravidanza e del matrimonio omosessuale. Il governo di Rafael Correa ha reagito fermamente alle critiche avanzate dai vescovi cattolici, invitando gli elettori a non farsi catechizzare dai preti, accusati, senza mezzi termini, di mentire e di esercitare indebite ingerenze nella politica nazionale. Il presidente del Tribunale supremo elettorale, Jorge Acosta, ha invitato pubblicamente la Conferenza Episcopale Ecuadoriana a registrarsi come soggetto politico per continuare la sua «campagna di catechesi costituzionale», accusandola al contempo di non aver rispettato le norme giuridiche e di non aver nominato un tesoriere per il finanziamento della campagna stessa. L'episcopato cattolico ha invocato il diritto di esprimere la propria opinione richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ha protestato per gli epiteti offensivi rivolti a vescovi e sacerdoti nella campagna del governo, costata milioni di dollari. Anche il Centro Latinoamericano dei Diritti Umani ha espresso la sua preoccupazione per gli attacchi verbali del presidente Correa contro la Conferenza Episcopale. Gli elettori ecuadoriani hanno poi, nel referendum, approvato la Costituzione con un'ampia maggioranza di circa il 64% contro circa il 29%. Durante la visita ad limina a papa Benedetto XVI nell'ottobre del 2008, i vescovi ecuadoriani hanno espresso disappunto per i rapporti con il governo ecuadoriano, giudicato anticlericale.

Anticlericalismo negli Stati comunisti. Molti governi comunisti, che praticavano l'ateismo di Stato, sono stati violentemente anticlericali, abolendo le festività religiose, imponendo il solo insegnamento dell'ateismo nelle scuole, chiudendo chiese, monasteri, scuole ed istituti religiosi. Il culto privato rimase ufficialmente consentito, tranne nell'Albania, che imponeva l'ateismo anche nella propria Costituzione. A Cuba le manifestazioni religiose pubbliche sono state rese legali solo nel 1993. In alcuni stati fortemente cattolici, come la Polonia, la Chiesa era tollerata fino a quando restava in ambito religioso e non interferiva o criticava il governo comunista. In Russia, poi Unione Sovietica, nel marzo del 1922 viene decisa la requisizione degli oggetti di culto preziosi appartenenti al clero, ufficialmente allo scopo di rimediare agli effetti della carestie che si erano accompagnate durante la guerra. Tuttavia, molti ritengono che tale provvedimento fosse in realtà finalizzato a provocare la reazione degli ecclesiastici (che consideravano i paramenti liturgici sacri), per poterli perseguitare "con ragione". Infatti si ebbero circa un migliaio di episodi di "resistenza", a seguito dei quali i Tribunali rivoluzionari comminarono la pena di morte a 28 vescovi e 1215 preti e la pena detentiva a circa 100 vescovi e diecimila preti. In tutto, durante tale "iniziativa", vennero uccisi circa ottomila membri del clero. In dicembre viene organizzata una campagna pubblica per irridere il Natale; simili manifestazioni si avranno l'anno seguente anche in occasione della Pasqua e della festa ebraica del Yom Kippur. Migliaia di monaci e sacerdoti sono stati condannati a morte o ai lavori forzati nei gulag durante il regime di Stalin. La separazione tra Stato e Chiesa venne decisa nel territorio dell'URSS il 23 gennaio 1918 dai soviet, poco dopo la fine della Rivoluzione russa. Lo Stato divenne laico e ufficiosamente ateo, sostenendo l'ateismo di Stato, anche se ciò non venne mai sancito esplicitamente nelle Costituzioni, che si limitavano a nominare la religione solo affermando la divisione netta tra Chiesa e Stato e la libertà di culto e coscienza; l'ateismo di stato venne attuato in forma di politica governativa anticlericale e antireligiosa, dal punto di vista pratico e culturale, tramite leggi ordinarie e propaganda. La religiosità venne ridotta a semplice scelta privata, secondo l'ideologia di Lenin e del marxismo, da considerare lecita ma da scoraggiare, al di fuori della sfera personale. La chiesa ortodossa russa fu costretta a rinunciare a tutti i privilegi, come l'esenzione dalle tasse e dal servizio militare per i sacerdoti e i monaci, e per un certo periodo perseguitata. Con la Costituzione sovietica del 1918, emanata per la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi estesa alle altre repubbliche federate, venne permesso di svolgere formalmente "propaganda religiosa e non-religiosa", anche se svolgere attiva propaganda di religione o di idee ritenute "superstizioni" in luogo o edificio pubblico (come la propaganda religiosa nelle scuole, l'esposizione di immagini religiose nei luoghi di lavoro, le processioni, ecc.) poteva essere sanzionato con multe o lavori forzati fino a 6 mesi. Coloro i quali non svolgevano lavori socialmente utili (non solo ecclesiastici, ma anche ex agenti zaristi, privati, ad eccezione di artigiani e contadini dei colchoz, ecc.) venivano esclusi dal voto e non pagati, restrizione poi eliminata nel 1936. Quindi questi ultimi, una volta esaurite le risorse di cui erano dotati, dovettero svolgere un altro lavoro per sostentarsi, secondo il principio "chi non lavora non mangia". Venne introdotto il matrimonio civile e negata validità legale a quello religioso, vennero distrutte alcune chiese che occupavano suolo pubblico, altre vennero convertite in uffici e musei pubblici e vennero inoltre abolite tutte le feste religiose come ad esempio il Natale o lo Yom Kippur ebraico. Con Stalin il processo antireligioso dello Stato fu completato. La costituzione sovietica del 1924 non conteneva esplicitamente norme sulla religione, in quanto era stata votata come integrazione per sancire la nascita dell'unione federale delle repubbliche come Unione sovietica, mentre per quanto riguarda i diritti e doveri dei cittadini, restò in vigore la relativa parte della costituzione del 1918. Infine, solo in alcune località remote venne concesso di svolgere cerimonie religiose. Secondo fonti ortodosse, nel 1917 erano attive circa 80.000 chiese, mentre è stato calcolato che erano circa 20.000 nel 1954 e 10.000 nel 1965. La Costituzione sovietica del 1936 sancì la libertà di culto privato, e autorizzò solo la propaganda antireligiosa, ribadendo nuovamente la netta divisione tra Chiesa e Stato. Restarono valide le normative penali del 1922 contro le "superstizioni religiose" diffuse in pubblico. Nel 1927 venne approvato l'articolo del codice penale che sanciva, tra l'altro, che svolgere propaganda religiosa in tempo di guerra o crisi, se considerato fatto con lo scopo preciso di abbattere il regime comunista o danneggiare direttamente o indirettamente lo Stato, poteva essere punito anche con la pena di morte. Durante la seconda guerra mondiale, nel1943, Stalin diede una tregua alla campagna antireligiosa e chiese al patriarca Sergio I di Mosca (in seguito a un incontro avvenuto tra i due) di supportare moralmente i soldati al fronte contro i nazisti. Nello stesso periodo Sergio I rientrò a Mosca e morì nel 1944. Stalin concederà poi alla Chiesa ortodossa la possibilità di celebrare funzioni religiose, ma solo all'interno delle chiese autorizzate e nel privato. Con Nikita Khruščёv riprendono le misure più restrittive verso la Chiesa, e si riprende la propaganda attiva dell'ateismo di Stato dopo la tregua iniziata nel 1943 e durata sino al 1954. Soltanto negli anni ottanta, dopo la continuazione della politica antireligiosa dei governi Breznev, Andropov e Cernenko, vi fu una nuova tregua nella lotta attiva contro la religione, a partire dall'ascesa al potere diMichail Gorbačëv. La situazione di tolleranza pratica perdurò fino al 1990, quando Gorbačëv permise la libera propaganda religiosa e instaurò la libertà di culto in via ufficiale, al posto dell'ateismo di stato. Istituì inoltre l'Istituto per l'ateismo scientifico di Leningrado, che durò fino allo scioglimento dell'URSS, nel 1991. Nell'Unione Sovietica vennero introdotti il divorzio (1º dicembre 1917) e l'aborto nel 1920 (reso molto più difficile da Stalin nel 1935, poi reintrodotto nel 1955) e negata la validità del matrimonio religioso (dicembre 1917). Anche in Cina l'anticlericalismo ha comportato la soppressione (spesso anche fisica) del clero di varie religioni, compreso anche il monachesimo buddista del Tibet. La libertà religiosa ufficialmente è assicurata, anche se in realtà alcuni movimenti sono perseguitati e la stessa Chiesa cattolica e la nomina dei suoi vescovi sono subordinate all'avallo del Partito Comunista Cinese.

Anticlericalismo negli stati islamici. Influenzati dall'occidente anche alcuni Paesi islamici, principalmente la Turchia negli anni venti e l'Iran negli anni sessanta, vararono provvedimenti anticlericali contro il clero musulmano. «Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.» Mustafa Kemal Atatürk, militare e politico membro del movimento dei Giovani Turchi e della Massoneria, prese il potere nel 1923. Egli era anticlericale e in favore di un forte nazionalismo, il suo modello di riferimento trovava radici nell'Illuminismo. Aveva l'ambizione di creare una moderna forma di civiltà turca. Durante tutto il periodo e anche oltre, l'esercito rimase il pilastro della nazione e la scuola fu riformata in modo da essere laica, gratuita e obbligatoria. La nuova capitale fu posta ad Ankara, scelta a scapito di Istanbul (due volte capitale imperiale: Impero Romano d'Oriente ed Impero Ottomano). La lingua fu riformata nello stile e nell'alfabeto: l'alfabeto ottomano di origine araba venne sostituito dall'alfabeto latino nel 1928. Nello stesso periodo la storia venne riscritta per dare radici alla nazione, e legarla all'occidente. Kemal, la cui ideologia è detta kemalismo, introdusse il cognome al posto del patronimico arabo: a lui il parlamento assegnò il cognome Atatürk, cioè "padre dei turchi". Usanze islamiche, come portare la barba, i baffi alla turca o i copricapi arabi come il fez furono scoraggiate o vietate (ai militari fu proibito di portare i baffi e tuttora devono essere sbarbati). Dalla rivoluzione del 1908, i diritti delle donne uscirono rinforzati. Nel 1919, sotto l'influsso dei militari, furono adottate misure per cambiare lo status delle donne: la parità con gli uomini fu riconosciuta nel codice civile, il matrimonio civile reso obbligatorio per chi volesse sposarsi, fu introdotto il divieto di poligamia, vietati il ripudio (divorzio unilaterale maschile) e l'uso del velo islamico nei luoghi pubblici (possibilità resa nuovamente lecita solo nel 2011), legalizzata la produzione e la vendita delle bevande alcoliche, resa obbligatoria l'iscrizione a scuola per le bambine, incentivata l'assunzione di donne in vari posti di lavoro e così dicendo. Nel 1934 fu riconosciuto alle donne il diritto di votare e nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco. La Turchia kemalista era risolutamente laica. Il califfato fu abolito il 3 marzo 1924. Questo gesto fu considerato come un sacrilegio da parte del mondo arabo-musulmano. Nel 1928, primo paese del mondo musulmano, l'Islam non era più la religione di Stato e, nel 1937, il secolarismo venne sancito nella Costituzione. Fu adottato il calendario gregoriano, e la domenica divenne il giorno settimanale di riposo. Proseguendo la secolarizzazione delle leggi cominciata nel 1839 dalleTanzimat (riforme) dell'Impero Ottomano, il regime kemalista adottò nel 1926, un codice civile sulla base del codice svizzero, un codice penale sulla base del codice italiano e un codice commerciale basato sul Codice tedesco. Furono abolite le pene corporali previste dalla legge islamica, i reati di apostasia e adulterio. L'anticlericalismo del regime era pronunciato, ma lo spiritualismo musulmano non fu mai completamente abbandonato. L'Islam e le altre religioni, compreso il cristianesimo, erano inoltre controllate attraverso l'Organo per la Direzione degli Affari Religiosi, creato nel 1924. Sotto l'influsso del kemalismo anche dopo la morte del leader continuarono le riforme: fu depenalizzata l'omosessualità, anche se i gay turchi vengono tuttora discriminati, non potendo, ad esempio, far parte dell'esercito. In tempi recenti l'avvento al potere di un partito islamico moderato, anche se non ha abolito lo Stato laico, ha incrementato tuttavia la rinascita di movimenti e sentimenti "islamisti". Nel 2008 i militari, guardiani del secolarismo secondo la visione di Atatürk hanno tentato un colpo di Stato, fallito, in difesa della laicità e contro il governo eletto di Recep Tayyip Erdoğan. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, varò la cosiddetta rivoluzione bianca, che modernizzò il Paese in senso occidentale; benché egli, a differenza di Atatürk, fosse un fervente praticante musulmano (nonché formalmente capo supremo dell'Islam sciita duodecimano), era fortemente e violentemente avverso al clero e all'influenza dei mullah. Reza proibì, ad esempio, l'uso del velo in luoghi pubblici e perseguitò il clero che si opponeva alle riforme occidentalizzanti, uccidendo, imprigionando o esiliando i mullah e gli imam, compreso l'Ayatollah Khomeini inviato in esilio nel 1964. Lo scià modernizzò il paese con la forza, ma vietò ogni tipo di opposizione alla sua monarchia. Furono resi legali il gioco d'azzardo, la prostituzione, le bevande alcoliche, istituito il suffragio femminile e il matrimonio civile. Tra il fronte di rivolta alle riforme pahlavidi, soprattutto per la loro impronta giurisdizionalista, si schierò soprattutto il clero sciita perché veniva privato dei benefici assolutisti, nonché gruppi religiosi che si erano opposti alla sua riforma agraria e sociale, che venivano espropriati di molti beni di manomorta, controllati dalle gerarchie religiose. Tuttavia, la sua posizione ambivalente nei confronti della religiosità iraniana, della quale era virtualmente anche il capo (incarnando un modello cesaropapistico), lo poneva in difficoltà impedendogli di prendere provvedimenti drastici onde evitare lo scontento aperto e manifesto delle masse popolari. Alla rivoluzione iraniana, nel 1979, Khomeini prese il potere e lo scià dovette fuggire. I religiosi instaurarono un regime clericale ed islamista, la repubblica islamica, che cancellò le riforme del periodo Pahlavi e perseguitò anche la sinistra che aveva contribuito a combattere l'autocrazia dello scià.

Anticlericalismo oggi in Italia. Il potere temporale dei papi ha cessato di esistere, ad esclusione ovviamente del diritto a legiferare e governare nei limiti territoriali della Città del Vaticano, ma rimangono tuttora fortemente contestati, da parte di alcuni ambienti laici, la ripetuta attività di pressione, diretta e indiretta, esercitata dalla Chiesa, in nome dei propri valori e delle proprie finalità, nella società e nella politica, anche attraverso la ramificata presenza delle sue organizzazioni all'interno di partiti, associazioni, enti pubblici e privati. L'anticlericalismo rimane presente in varie forme in alcuni giornali satirici come il settimanale parigino Le Canard enchaîné, e nel dibattito politico e culturale di vari stati, come reazione all'influsso esercitato dalla chiesa sui partiti politici che dichiarano di richiamarsi ai valori cristiani e sui governi degli stati a maggioranza cattolica. Oggi l'anticlericalismo in Italia si esplica nelle tensioni della attualità politica; l'etica e la morale sono ancora terreno vivo e fertile dello scontro tra parti, tra Stato e Chiesa, tra comunità scientifiche. Tra le questioni dibattute sono sicuramente al vertice la libertà di ricerca scientifica, in particolare sulle cellule staminali embrionali, la procreazione medicalmente assistita sia eterologa che omologa, l'eutanasia e la terapia del dolore, le unioni civili, la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la pillola RU486. L'anticlericalismo contemporaneo spesso focalizza l'attenzione sugli aspetti più arretrati che ritiene presenti, sia pure con diversi livelli di gravità, in diverse religioni, come l'Islam quali, ad esempio, la condizione di subalternità della donna. In questo senso, si potrebbe ritenere come anticlericale la recente legge varata in Francia che vieta l'uso del velo e dei simboli religiosi all'interno delle aule scolastiche. La possibilità che, su invito del rettore, papa Benedetto XVI potesse inaugurare l'anno accademico all'università la Sapienza di Roma, il 17 gennaio 2008, è stata contestata fortemente da alcuni gruppi studenteschi e da 67 professori, in particolare di materie scientifiche. Richiamandosi ad una lettera aperta di Marcello Cini al rettore apparsa su il manifesto, i contestatori ritenevano inopportuna la visita del papa sulla base di una citazione del Pontefice, risalente ad un suo discorso del1990 tenuto a Parma. L'allora cardinale Ratzinger aveva citato il filosofo Feyerabend: «La Chiesa dell'epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». Questa citazione costituiva, secondo i 67 professori (tra cui il presidente del CNR), una minaccia alla laicità della scienza. La contestazione portò all'annullamento della visita del Papa, che preferì declinare l'invito del rettore, in quanto non era condiviso da tutta l'università.

Alla testa dei cattocomunisti ci stanno i comunisti, con i cattolici che fanno da prestanome, pronti ad essere sfrattati quando necessario, scrive Diego Gabutti il 28 ottobre 2015 su “Italia Oggi”. Vittima prima del libro Cuore e della retorica risorgimentale, poi del fascismo, quindi del clericalismo e del comunismo, infine del giustizialismo e del berlusconismo, mai che sull'Italia brilli una buona stella, come sa bene Massimo Teodori. Radicale storico, uno dei rari intellettuali laici e liberali in un paese di bacchettoni, devoti soltanto a ubbìe ideologiche e a idee fisse religiose, Teodori continua la sua esplorazione dell'Italia sotto sortilegio illiberale (e luogo di catastrofi culturali) con il suo ultimo libro, Il vizietto cattocomunista (Marsilio 2015, pp. 176, 14,00 euro, ebook 9,99 euro). È la storia lunga settant'anni «del connubio tra eredi del Pci e della sinistra democristiana» che ha per capolinea il partito democratico di Matteo Renzi. Teodori ripercorre nel suo libro tutta la vicenda: la guerra di Togliatti contro Benedetto Croce e gli altri nemici del Concordato con la Chiesa, il congresso della gioventù comunista in cui un Enrico Berlinguer poco più che ventenne invitava le giovani militanti a prendere esempio (in fatto di morale sessuale) da Santa Maria Goretti, gl'innumerevoli tentativi d'arruffianarsi la sinistra cattolica, le titubanze in tema d'aborto e di divorzio, l'epoca in cui Berlinguer (sempre lui) predicava il compromesso storico tra comunisti e democristiani contro le derive (non sembra vero, visto il pulpito) clericali e autoritarie, l'odio per il laicismo craxiano, la guerra contro il consumismo e l'elogio dell'austerità, l'invenzione della «questione morale», poi la crisi del comunismo internazionale e la caduta dell'Urss. Arrivano i giorni di Tangentopoli, Craxi se ne va in esilio come Trotzky, i laici si raccolgono intorno al nascente partito di plastica, sparisce la Dc, il Pci cambia nome. In questa generale rovina una sola forza ideologicamente e politicamente attiva porta a casa la pelle: il cattocomunismo, con i suoi ingombri religiosi e i suoi pregiudizi ideologici. Alla testa dei cattocomunisti ci sono i comunisti e i cattolici (tra cui lo stesso Romano Prodi) fanno più che altro da prestanome (come gli «utili idioti» d'un tempo, che potevano essere sfrattati senza preavviso da ogni incarico). Poi Matteo Renzi chiede banco, come a baccarat. Sono i cattolici, non appena il suo astro comincia a salire, a distribuire le carte: la sinistra mesozoica e stalinista, nata con Togliatti nel 1944, viene rottamata di prepotenza. Finiscono tra i rottami anche i cattolici di sinistra troppo compromessi con la Ditta post comunista. Che la storia dei cattocomunisti prosegua oltre, è naturalmente possibile, specie in un paese sventurato come il nostro, che per i mostri della ragion politica ha sempre avuto un debole. Ma il partito renziano, dopo tanti esperimenti falliti, sembra un esperimento finalmente riuscito, diversamente dall'alleanza più o meno organica «tra forze popolari e cattoliche» vagheggiata da Palmiro Togliatti nei primi giorni della repubblica, o dal «compromesso storico» berlingueriano, dalla «solidarietà nazionale» e dall'Ulivo prodiano. Duri tanto o poco, sempre più «catto» e sempre meno «comunista», il partito democratico a guida renziana ha messo definitivamente in crisi la ragion sociale del cattocomunismo. È probabile che già al prossimo passaggio elettorale resti soltanto l'ala cattolica e che i comunisti lascino la scena una volta per tutte. Può darsi, come si diceva, che la storia finisca qui, col trionfo dei cattolici dossettiani d'antan, non si sa se più populisti o più clericali, di cui Renzi è insieme l'erede e la caricatura. E già questo sarebbe un pessimo finale di partita. Ma c'è il rischio che, finita questa storia, ne cominci un'altra, più minacciosa ancora. Se ne intravedono i primi segni nel gesto da Papa Re col quale Francesco I prima ha congedato il sindaco Marino dal Campidoglio e poi ha chiesto scusa ai romani per la sua sindacatura. Stanno tornando i clericali, e i loro «utili idioti» sono i talk show sempre più devoti e i comici televisivi che abbracciano la teologia della liberazione.

Il libro di Massimo Teodori: "Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana". Si svelano qui le ambiguità di settant’anni di egemonie cattoliche e comuniste che - combinate nel «vizietto cattocomunista» - hanno reso l’Italia una democrazia anomala. Nei grandi Paesi europei l’alternarsi al potere di conservatori e riformatori ha prodotto l’espansione del benessere e delle libertà. In Italia, invece, la sinistra comunista e postcomunista, confluita con i democristiani nel Partito democratico, è rimasta estranea al riformismo socialista di stampo europeo e ha guardato con ostilità alla laicità dello Stato, con effetti negativi sui diritti civili e la giustizia sociale. L’anomalia cattocomunista italiana è destinata a continuare all’infinito? Con il rigore dello storico e lo spirito critico del laico, Massimo Teodori mette in luce l’intreccio perverso tra il conservatorismo burocratico comunista e il rapace «attaccamento alla roba» dei clericali: dalla versione di Palmiro Togliatti, che votando il Concordato pensava di giocare il Vaticano e ne fu giocato, al fatale moralismo di Enrico Berlinguer, attratto dal mondo cattolico, fi no ai postdemocristiani d’oggi, Matteo Renzi e Sergio Mattarella, assurti al massimo potere con il benestare dei postcomunisti. «Se è vero che Renzi ha rimosso le scorie veterocomuniste - scrive Teodori - è altrettanto incontestabile che non ha tagliato i ponti con il cattocomunismo, la vera palla al piede del riformismo italiano insediato al centro del Partito democratico».

Ora ci impongono lo Stato (diet)etico. "Repubblica" rilancia l'appello "liberal" a mangiare vegano, per essere coerenti coi principi di giustizia anche verso gli animali. Un animalismo caricaturale che cela un'ideologia anti-umanista e totalitaria. Il prossimo passo sarà la dieta di Stato? Scrive Corrado Ocone su “L’Intraprendente" del 27 gennaio 2016. Un virus si aggira per il mondo culturale americano. È contagioso e pericoloso perché causa seri danni all’organismo vitale. Dai sintomi che lo accompagnano potremmo definirlo come la “chiusura della mente occidentale”. Ed è pericoloso perché si annida nel settore dominante delle accademie, del giornalismo, dell’editoria e di certo mondo giornalistico: il pensiero liberal. L’ultima manifestazione è davvero stupefacente: ce ne ha dato notizia, con un certo compiacimento, l’antropologo Marino Niola sulle pagine di Repubblica. Essa si è appalesata sulla rivista onlinecultural-chic “Salon” sotto forma di un appello lanciato agli intellettuali dal medico e psichiatria Steve Stankevicius. In esso, gli sciagurati, che sicuramente come la monaca di Monza risponderanno, sono chiamati a dare finalmente coerenza al loro pensiero a farsi tutti vegani in nome dei “diritti degli animali”. Siete per i diritti di tutti, indifferentemente e a prescindere da quello che essi sono e fanno, fossero pure dei delinquenti? Volete eliminare la sofferenza dal mondo e farci vivere in un eden ovattato di sicura e rassicurante felicità, casomai sotto il manto protettivo di uno Stato e di un welfare che ci accompagni “dalla culla alla bara” in nome di astratti “principi di giustizia”? Bene, dice Stankevicius, non potete non estendere anche agli animali questa etica utilitaristica e, in quanto tale, direi, profondamente immorale. In questo modo di ragionare, che aveva avuto come capostipite qualche decennio fa un sopravvalutato filosofo di Princeton, Peter Singer, vediamo all’opera, quasi in modo paradigmatico, tutte le contraddizioni e tutti i vizi del pensiero liberal. Le contraddizioni, sol che si pensi che quasi sempre coloro che vorrebbero equiparare le bestie agli uomini, in nome dell’astrattissimo concetto di “vita organica” o “sensibile”, sono gli stessi che negano all’embrionela vita in nome del diritto della donna ad abortire (e poi perché fermarsi al mondo vegetale: non sono anche le verdure, seppur a uno stadio minimo, forme di vita?). Ma anche i vizi del pensiero liberal, sia teorici che pratici. I primi sono riconducibili a quello che già Hegel chiamava “intelletto astratto”, incapace di vedere il senso ultimo delle cose del mondo, che è storico e umano. I secondi riconducibili invece all’intolleranza di chi non si limita a fare una personale e legittima scelta dietetica ma, ammantandola di valori etici, vuole imporla agli altri apostrofando come immorale qualsiasi altro regime alimentare. Statene certi: il passo successivo sarà l’imposizione per legge della “dieta giusta”, la “dieta di Stato” (secondo i dettami socialisti dello Stato etico rimodellato come Stato dietetico). Ancora più preoccupante è poi il fatto che al fondo di questo acritico animalismo ci sia un’ideologia ecologista e quindi antiumanista che, sconfessando il valore ultimo della nostra civiltà cristiano-liberale, cioè appunto l’uomo nella sua singolarità e libertà, vuole mettere in discussione lo stesso sistema di sviluppo e civiltà che chiamiamo Occidente. Una civiltà, quella occidentale, che è umanistica perché profondamente cristiana, checché ne possa dire un Papa tendenzialmente succube dei tempicome il Francesco che, ad esempio, fa proiettare bestie di ogni tipo sul cupolone. E che è altresì umanistica perché profondamente liberale, cioè ponente l’individuo al centro di ogni etica e ontologia. Il buon Niola, cercando un supporto alla tesi animalistica, non si accorge di citare per lo più eresie cristiane fondate sul pericoloso concetto di “purificazione” (in uno spettro che va dalla gnosi ai catari) o pensatori profondamente illiberali come Rousseau. D’altronde, e non sembri una esagerazione dirlo qui perché ha una sua logica e coerenza, sembra che anche Hitler amasse gli animali e fosse rigorosamente vegetariano. Tutto si tiene e tutto coopera affinché noi si gridi forte, prima di tutto ai cosiddetti “intellettuali”, di lasciarci vivere e mangiare come meglio ci aggrada. La scelta vegana? No, grazie.

Perseguitato fino alla morte per la lapide "repubblichina". Un monumento in ricordo dell'eccidio di Saccol sul terreno di un ottantenne scatena i partigiani e la sinistra. L'anziano preso di mira ha avuto un infarto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 05/02/2016, su "Il Giornale". I morti degli sconfitti, quelli di serie B, non hanno mai pace. Soprattutto se credevano nella Repubblica sociale italiana, comprese donne e civili, trucidati senza processo dai partigiani. Prima si scatena la levata di scudi ideologica. Se non basta entrano in gioco burocratiche norme anti abusivismo, applicate da un vigile troppo zelante, che in questo caso coincidono, stranamente, con il politicamente corretto. Alla fine la lapide che ricordava 23 civili e militari della Rsi ammazzati dai partigiani viene tolta. E di mezzo va a finire anche l'ultra ottantenne, testimone della strage e proprietario del terreno dove era stata posta la lapide. Antonio Zanetton è morto in ospedale lo scorso mercoledì. Negli ultimi mesi si sentiva ossessionato dalle intimazioni dei vigili di rimuovere la lapide per gli sconfitti considerata abuso edilizio. «Un volgare pretesto. Prima ci hanno provato con la campagna denigratoria sui media. Poi è arrivata l'azione intimidatoria dei vigili, ma noi quella lapide la rimetteremo al suo posto» spiega a il Giornale, Elena Donazzan, assessore regionale in Veneto, presente all'inaugurazione lo scorso settembre. E aggiunge: «La burocrazia è stata usata come un'arma. Non sapevo che il proprietario del terreno fosse morto, ma per una persona anziana subire denunce e pressioni dei vigili può aver peggiorato le condizioni di salute». La storia ha inizio a Valdobbiadene (nel Trevigiano), a guerra finita, nella notte fra il 4 e 5 maggio del 1945, quando una cinquantina di prigionieri, in gran parte della X Mas, che si erano arresi, vengono passati brutalmente per le armi dai partigiani «rossi». Lo scorso settembre la sezione Piave dei paracadutisti d'Italia inaugura una lapide a Saccol grazie all'interessamento dell'ex senatore di An, Antonio Serena, e di Luciano Sonego nel mirino della sinistra, che li bolla come «pseudo storici» nostalgici. «A 100 metri da qui il 5 maggio 1945 partigiani della Mazzini rinchiusero in una galleria fatta poi esplodere 23 civili e militari R.S.I. - In loro memoria i familiari posero - 2015» era inciso sul marmo. Prima della cerimonia si alzano gli scudi antifascisti dei partigiani dell'Anpi e della Cgil di Treviso. La senatrice Pd, Laura Puppato, emette un comunicato-sentenza: «No a raduni fascisti! (...) è un pretesto per rivisitare la storia». All'inaugurazione è presente Donazzan e pure l'assessore di Valdobbiadene, Tommaso Razzolini, anche se il Comune non concede il patrocinio. Antonio Zanetton, classe 1930, che ospita sul suo terreno la lapide, è un testimone della strage. La storia sembra essere finita, ma in ottobre un vigile troppo zelante del Comune bussa alla porta di Zanetton con un verbale di abuso edilizio. La colpa è l'«installazione di una lapide in pietra (...) in zona sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico». Il sindaco, Luciano Fragonese, scende in campo e ribadisce: «Non strumentalizzate la vicenda. Davanti ad un abuso i vigili non possono far finta di non vedere». L'assessore regionale Donazzan tuona con il Giornale: «Il presunto abuso è un grimaldello burocratico che nasconde una stortura ideologica». L'ex senatore Serena sostiene che «sono state messe delle lapidi dei partigiani senza permessi particolari. Il Comune con la presenza dava il via libera e all'inaugurazione di Soccol c'era un assessore. Poi si è messo di mezzo il vigile troppo zelante». Personaggio che ne ha già combinate parecchie per motivi non ideologici e alla fine è stato rimosso. «Prima però l'anziano proprietario ha subito un vero e proprio stalking. Era ossessionato da questa storia. Per questo faremo un esposto in procura» spiega Serena. Il Comune intima di pagare una sanzione di 2.000 euro per farla finita, ma gli organizzatori vogliono andare davanti ad un giudice. «Ogni volta che arrivavano i vigili Zanetton mi chiamava palesando il suo disagio. Preoccupazione continua, il riposo notturno oramai un dormiveglia e la sua famiglia accusava il colpo di queste denunce dal sapore intimidatorio» racconta Sonego, uno degli organizzatori del ricordo. Zanetton, impaurito e cardiopatico, vuole disfarsi della grana, ma in gennaio finisce in ospedale. Il poveretto muore mercoledì scorso, il giorno dell'ultimatum del Comune, che ha portato alla rimozione della lapide «abusiva». In una maniera o nell'altra missione compiuta: Nessun ricordo per i morti degli sconfitti.

Servello, il Famedio e l'odio che non passa. L'Associazione partigiani contesta la decisione del Comune di ricordarlo tra i milanesi illustri, scrive Giannino della Frattina, Sabato 17/10/2015, su "Il Giornale". Si leggeva ieri su Repubblica un ampio resoconto dell'ennesima fatwa dell'Anpi. L'Associazione nazionale partigiani che ancora una volta si scaglia indignata contro l'ennesimo attentato all'Italia democratica e repubblicana. E soprattutto alla Milano medaglia d'oro allea Resistenza. «È un errore onorare Servello al Famedio» recitava il titolo grande, citando le parole del presidente Roberto Cenati dopo la decisone del Comune di ricordare il politico missino al Cimitero Monumentale. «Sarebbe il primo uomo di destra a cui viene riservato questo onore», sottolinea il vice presidente del consiglio comunale Riccardo De Corato, la cui proposta è stata accettata dalla commissione formata dall'ufficio di presidenza e dagli assessori Franco D'Alfonso e Filippo Del Corno. Un sì unanime e bipartisan. «Forse - aggiunge De Corato - a infastidire è che a deciderlo sia stata proprio un'amministrazione di sinistra». Proprio così. Perché per l'Anpi il reato di leso antifascismo è ancora una volta il desiderio di ricordare un defunto. Il sangue di un vinto arrivato per sua fortuna (e benedizione del destino) a trovare una morte serena nel suo letto, alla veneranda età di 93 anni. Mica da pericoloso eversivo. Appassionato di calcio e grande interista, fu nel consiglio di amministrazione dell'Inter di Helenio Herrera e Angelo Moratti. Dal 1958 in parlamento per il Msi, dal 1996 senatore e capogruppo di Alleanza nazionale alla Bicamerale, traghettò la destra nell'universo berlusconiano. Il 28 febbraio 2006 la comunicazione che non si sarebbe ricandidato. Gianfranco Fini lo ringraziò e il giorno della morte, il ferragosto del 2014, lo ricorderà come «uomo generoso e leale, ci mancherà la sua coerenza e la sua onestà». Ma non solo. Perché nel 2006 il Comune gli assegnò l'Ambrogino d'oro, la massima onorificenza della città. E lo stesso anno Servello fu nominato Grand'ufficiale della Repubblica. Eppure, secondo l'Associazione partigiani, il suo nome non deve essere scolpito nel marmo del Famedio, lì dove viene onorato il ricordo dei milanesi illustri. «Non rinnegò mai il Fascismo», la sentenza inappellabile dei partigiani che gli imputano anche l'organizzazione della manifestazione del 12 aprile 1973, finita negli scontri nei quali venne ucciso l'agente Antonio Marino. Peccato che da quei fatti i vertici milanesi del Msi furono assolti da una sentenza del tribunale. Il resto è vecchio armamentario di una sinistra che vive solo di logoro antifascismo. Un furore ideologico che impedisce di concedere quell'onore delle armi che già la storia ha concesso a chi a Fascismo ormai già morto e sepolto ha dedicato la vita a un impegno fedele all'interno delle istituzioni repubblicane. In un partito, per giunta, rimasto in piedi di fronte alle spranghe dei compagni sotto cui cadde col cranio sfondato il diciottenne del Fronte della gioventù Sergio Ramelli o alle pallottole che uccisero l'avvocato e consigliere provinciale del Msi Enrico Pedenovi. Ma anche agli assalti altrettanto temibili dei tribunali che portarono in carcere tanti giovani innocenti. «Senza di lui - ricordò un commosso Ignazio La Russa il giorno della morte - non avremmo resistito a Milano agli anni della ingiusta criminalizzazione e alla violenza rossa». Pagine della storia d'Italia che l'Anpi vorrebbe stracciare. L'Anpi, un'associazione nella quale ormai se non altro per ragioni anagrafiche, i veri partigiani sono oggi rimasti ben pochi. E che si guarda bene dal ricordare l'adesione al comunismo di Giorgio Napolitano a cui è stato riservato addirittura l'onore di diventare presidente della Repubblica. E, dunque, di tutti gli italiani. Avesse vinto la sua parte (e quella dei partigiani rossi dell'Anpi), a Roma sarebbero arrivati i carri armati russi. E difficilmente avremmo avuto una Repubblica.

La giornalista de L'Espresso: "I fascisti vanno solo menati". Beatrice Dondi, vicecaposervizio all'Espresso online e blogger dell'Huffington Post scrive un tweet al vetriolo durante le manifestazioni pro famiglia gay: "Nessuna tolleranza coi fascisti: vanno menati", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/01/2016. La democrazia a modo mio. A modo de L'Espresso e famiglia: o la pensi come loro, oppure meriti solo di essere menato. Il 23 gennaio scorso, mentre le (piccole) piazze italiane erano "invase" dai manifestanti favorevoli al ddl Cirinnà e alla famiglia omosessuale, Beatrice Dondi, giornalista dell'Espresso e blogger dell'Huffington Post, con un passato a Repubblica, ha lanciato in rete un tweet di profondo spirito democratico (si fa per dire). "A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati. #svegliatitalia". "Svegliati Italia" era ed è il motto dei favorevoli alle unioni omo. "Svegliati Italia", tira fuori il manganello e vai a menare i fascisti. Il tweet della Dondi è l'esempio lampante del concetto di tolleranza tramandato in generazioni di famiglie dalla sinistra radical chic. Rimane ancora da capire è a chi si riferisse la bionda giornalista. Se ad inesistenti balilla da "libro e moschetto, fascista perfetto", oppure a tutti coloro i quali credono che il ddl Cirinnà sia un obbrobrio legislativo e un errore politico. A chi crede nel diritto dei bambini ad avere un padre ed una madre, a non essere comprato attraverso la pratica dell'utero in affitto. A chi rivendica il diritto di manifestare al circo Massimo senza essere etichettati come omofobi e fascisti. I lettori mi scusino per l'eccessiva ripetizione del termine "diritto". Solo che, come dice Beatrice Dondi, la libertà a sinistra non è un principio universale. È solo radical chic. Se la pensi come loro sei democratico, altrimenti prima ti etichettano come fascista e poi ti menano. Sperando anche in una medaglia al valore. Perché in fondo il principio valido è sempre (ancora) quello: uccidere un fascista non è reato. E il bello è che la definizione di fascista la danno loro. Così possono decidere a chi affibbiare la "patente democratica" e chi lasciare senza. A me i miei genitori tradizionali hanno insegnato il rispetto e la tolleranza. Tranne che con fascisti. Che vanno menati.  

Testo La Democrazia (prosa) di Giorgio Gaber.

"Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi, sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema, più democratico che ci sia. Dunque c'è, la democrazia, la dittatura, e basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura in Italia c’è stata, e chi l'ha vista sa cos'è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. Io da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico apostolico romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma anche romano... Comunque diciamo, come si fa oggi, a non essere democratici?  Sul vocabolario c'è scritto che democrazia, è parola che deriva dal greco, e significa “potere al popolo”. L'espressione è poetica e suggestiva. Ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c'è scritto. Però si sa che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. E' nata così la famosa democrazia rappresentativa, che dopo alcune geniali modifiche, fa sì che tu deleghi un partito, che sceglie una coalizione, che sceglie un candidato, che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri, ti dice giustamente: "Lei non sa chi sono io". Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Il referendum per esempio, è una pratica di democrazia diretta, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla “variante di valico Barberino Roncobilaccio”, ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo sì se vuol dire no, e no se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Ma il referendum ha più che altro un valore folcloristico simbolico. Perché dopo avere discusso a lungo sul significato politico dei risultati, tutto resta come prima, e chi se ne frega. Un altro vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari si chiama propaganda, e tu non puoi mai sapere la verità; in democrazia si chiama informazione, che per maggiore chiarezza ha il pregio di essere pluralista. Sappiamo tutto… sappiamo tutto ma anche il contrario di tutto, pensa che bello! Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al tre, al quattro, al sei ma anche al dieci percento, pensa che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12%, non si sa bene di cosa, e che possono aumentare o diminuire a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti abitanti ci sono in Italia, vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: chi va al sud, chi va al nord. Altro che ISTAT! Un’altra caratteristica della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri, come il gioco del Lotto, anche se meno casuale, ma più redditizio. Più è largo il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un grosso problema per chi governa: se ti dà il suo consenso, vuol dire che ha capito, che è consapevole e anche intelligente; se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci: la democrazia non è nemica della qualità, è la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno seguire? Pochi. Pochi, ma buoni. Eeh no, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri! Bisogna allargare il consenso, bisogna scendere alla portata di tutti, bisogna adeguarsi! E un’adeguatina oggi e un’adeguatina domani, e l’uomo di qualità ci prende gusto e… tac! Un’abbassatina. Poi c’è un altro che si abbassa più di lui e… tac tac! Un’altra abbassatina. Ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta! Un’altra caratteristica fondamentale della democrazia, è che si basa sul gioco delle maggioranze e delle minoranze. Se dalle urne viene fuori il 51 vinci, se viene fuori il 49 perdi. Ecco, dipende tutto dai numeri. Come al gioco del lotto, con la differenza che al gioco del lotto il popolo qualche volta vince, in democrazia mai. E se viene fuori il 50 e il 50? Ecco, questa è una caratteristica della nostra democrazia. È cominciato tutto nel 1948, se si fanno bene i conti, tra la destra, DC liberali monarchici missini eccetera eccetera, e la sinistra, comunisti socialisti socialdemocratici eccetera eccetera, viene fuori un bel pareggio. Poi da allora è sempre stato così, per anni. No adesso che c’entra, adesso è tutto diverso, eh è chiaro, è successo un mezzo terremoto, le formazioni politiche hanno nomi e leader diversi. Bè adesso non c’è più il 50% a destra e il 50% a sinistra. C’è il 50% al centrodestra e il 50% al centrosinistra. Oppure, il 50 virgola talmente poco, che basta che a uno gli venga la diarrea che cade il governo. Non c’è niente da fare, sembra proprio che gli italiani non vogliano essere governati, non si fidano. Hanno paura che se vincono troppo quelli di là, viene fuori una dittatura di sinistra. Se vincono troppo quegli altri, viene fuori una dittatura di destra. La dittatura di centro invece? Quella gli va bene. Auguri auguri auguri.

Gaber e la democrazia, scrive Fabio Balocco il 20 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Non mi piace l’Italia di oggi, credo lo si sia capito ampiamente. Non mi piace questo sistema elettorale, ma soprattutto non mi piacciono questi partiti. Non mi piacciono le lobbies a cui i partiti rispondono. Che poi sono sempre le stesse e mi hanno davvero stufato. Che palle! Mi piacciono invece le minoranze, mi piace la democrazia diretta, ma soprattutto mi piace che ci si esponga in prima persona, che la democrazia la facciamo tu, io, voi, noi, che venga su dal basso e non calata dall’alto. Mi piacciono gli ideali, gli impegni, mi piace che il cambiamento cominci dai cittadini. C’era un cantante, sì, proprio un cantante che queste cose le cantava chiare. Un cantante scomodo, a cui oggi non dedicano le vie o le piazze, che non è stato santificato dopo morto. Questo cantante era Giorgio Gaber. Per la carità, mi piaceva De André, lo adoravo, ma lui cantava altre cose. Gaber mi infondeva di più l’urgenza di incazzarmi, e la voglia di scendere in strada e possibilmente condividere con gli altri le stesse idee. Ecco, a Gaber volevo dedicare questo post e volevo ringraziarlo per quello che cantò.

La donna e l’intolleranza: della cultura di sinistra, scrive Remo Bassini l'8 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". La donna, da onorare e rispettare, si sa, è una barzelletta. Giorni fa parlavo con una mia amica psicologa dei danni che la televisione fa, mostrando strafiche al popolo di sesso maschile che guarda il piccolo schermo con la moglie accanto che strafica, ogni giorno che passa, lo è sempre meno. La psicologa mi fa: E non sai i danni che fa la televisione alle donne che sono state operate al seno e che magari sono gonfie… Una mi ha detto: Mi sento spazzatura. La tv spazzatura fa sentire spazzatura chi non dovrebbe, bene. Ma c’è un altro male per alcune donne: l’intolleranza. Della stessa sinistra bacchettona, a volte delle femministe. Una vita fa. Lavoro in fabbrica, io. Dopo il diploma così ho voluto. E sono iscritto al sindacato. Alla Cisl di Carniti. E faccio il sindacalista metalmeccanico in quelle che allora si chiamavano Commissioni interne. Un giorno c’è un’assemblea. Parla un sindacalista a tempo pieno. Forse è meglio non fare uno sciopero con un picchetto davanti alla fabbrica, dice. Poi spiega: I rapporti di forza sono cambiati, non sono più a nostro favore. La donna che mi sta accanto mi sussurra all’orecchio: Cosa vuol dire rapporti di forza? Giorni dopo sollevo la questione al sindacato. Dico che, almeno con gli operai e con le operaie, bisogna usare un linguaggio semplice. Mi risposero in malo modo. Chi non vuole essere tagliato dal mondo, chi non vuole essere sopraffatto deve attrezzarsi a capire. Ricordo perfettamente: era mattino. Sarei andato a lavorare il pomeriggio, turno dalle 14 alle 22. Lavoro, più viaggio, più darsi una ripulita – perché il grasso della fabbrica ti entra dentro la pelle e devi sfregare, sfregare – fa in tutto nove ore. Anche più. Io sono fortunato, perché per esempio non prendo l’autobus, che ci mette una vita. Ho tempo, io, per leggere il giornale al mattino, guardare un film, poi, quando torno a casa. La signora che mi stava accanto no. Al mattino doveva badare al figlio più piccolo, fare la spesa, tenere pulita la casa. Poi andare a prendere a scuola il figlio che frequentava le elementari. Poi preparare da mangiare per tutta la famiglia. Poi, correre in fabbrica. Poi tornare, mettere a letto i figli, azionare la lavatrice perché i bimbi si sporcano, tanto, e il marito pure: lavora in fabbrica pure lui. Verso le undici di sera, facciamo undici e mezzo la signora, stando alla burocrazia sindacale, avrebbe dovuto accendere l’abat jour e mettersi a leggere, preferibilmente l’Unità, e spegnere tutto il resto: la televisione ed eventuali bollenti spiriti del consorte. Altrimenti non si cresce, non si cresce. La sinistra non ammette l’ignoranza. Ma le mondine del vercellese che, nel 1906, presero botte dai carabinieri a cavallo quando si coricavano sui binari per impedire che arrivassero i treni con le crumire cosa leggevano? E i socialisti che le guidavano come parlavano? A proposito di cultura e politica.

La polizia: Casa Pound «tutela i deboli». Giustizia. Violenti solo se provocati dalla «sinistra radicale», secondo l’informativa del Ministero dell’Interno al Tribunale civile di Roma. «Organizza manifestazioni nel rispetto delle leggi e senza turbative dell’ordine pubblico», scrive Eleonora Martini il 2 febbraio 2016 su “Il Manifesto”. Leggere un rapporto della Polizia di Stato sull’organizzazione di estrema destra Casa Pound Italia, è davvero istruttivo. Anche se, comprensibilmente, ha destato molte reazioni di sconcerto l’informativa con la quale la Direzione centrale della Polizia di prevenzione (ex Ucigos) descrive vita e attività dell’organizzazione, capeggiata da Gianluca Iannone, ai magistrati del tribunale civile di Roma che ne hanno fatto richiesta per dirimere una causa intentata dalla figlia di Ezra Pound sull’uso del nome del padre. Secondo il documento trasmesso l’11 aprile 2015 dal ministero dell’Interno, che porta in calce la firma del direttore centrale dell’ufficio, il prefetto Mario Papa, il «sodalizio» che dichiaratamente sostiene «una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio» «organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo a illegalità e turbative dell’ordine pubblico». La Polizia non nega l’uso («spesso») della violenza da parte di alcuni militanti dell’associazione, soprattutto quando infiltrati «nel mondo delle tifoserie ultras calcistiche», ma solo «nei confronti di esponenti di opposta ideologia, anche fuori degli stadi». D’altronde vengono provocati, sembra affermare il report quando spiega in ultima analisi che «la sinistra radicale, in special modo gli ambienti autonomi e quelli anarco-insurrezionalisti, sotto la spinta del cosiddetto “antifascismo militante”, non riconoscono a Casa Pound e alle altre organizzazioni politiche di estrema destra il diritto “all’agibilità politica” sull’assunto che debba impedirsi ai “fascisti” la fruibilità di ogni spazio cittadino, con il conseguente frequente ripetersi di episodi di contrapposizione caratterizzati da contenuti di violenza». Dimentica però, la Polizia di Stato, che nel 2013 anche l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, commentando l’inchiesta «lame» della procura di Napoli aperta dopo diverse aggressioni, che coinvolse alcuni esponenti di Casa Pound, si interrogava «con sgomento sia sul circolare, tra giovani e giovanissimi, di una miserabile paccottiglia ideologica apertamente neonazista, sia sul fondersi di violenze di diversa matrice, da quella del fanatismo calcistico a quella del razzismo ancora una volta innanzitutto antiebraico». Se lo ricorda invece Fabio Lavagno, deputato del Partito democratico, che ha depositato ieri un’interrogazione al governo e sta «raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il ministro dell’Interno possa riferire in aula a Montecitorio su questa inquietante vicenda». «Va bene che il movimento di estrema destra cerchi forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini — scrive il deputato in una nota — vedere però che questa descrizione stia nero su bianco in una nota della Polizia al ministero dell’Interno risulta piuttosto inquietante». Soprattutto quando, aggiunge Lavagno, «si descrive CasaPound come un’organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinati, con un’abile strategia linguistica che tende ad eufemizzare i passaggi più scomodi e la natura violenta di cui, come si è visto, è costellata la storia di CasaPound, quasi esclusivamente all’ambito sportivo, luogo tra gli altri di proselitismo all’interno delle tifoserie ultras». Per la Polizia di Stato, infatti, Casa Pound ha come «impegno primario» la «tutela delle fasce deboli» ma rivolge la propria attenzione anche «alla lotta del precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro la privatizzazione delle aziende pubbliche». E oltre alle «numerose iniziative» intraprese «sotto l’aspetto meramente aggregativo e ludico», CasaPound ha trovato anche il modo di dedicarsi a «tematiche in passato predominio esclusivo della contrapposta area politica» come «il «sovraffollamento delle carceri o la promozione di campagne animaliste». Ecco, il tribunale di Roma ora potrà serenamente giudicare se l’immagine e il nome di Ezra Pound siano stati lesi dall’uso che ne ha fatto l’organizzazione, come sostiene la figlia del poeta.

La polizia promuove CasaPound: "Violenti per colpa della sinistra". Una nota del Viminale fa chiarezza sul movimento di estrema destra: "Manifestazioni sempre nella legalità. Se sono violenti è colpa della sinistra", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 02/02/2016, su "Il Giornale". L'informativa del ministero dell'Interno parla chiaro: tra i movimenti di estrema destra e quelli di estrema sinistra non c'è storia. La nota in cui è contenuta la "bastonata" ad antagonisti e centri sociali in favore di CasaPound è contenuta in una informativa inviata dal Viminale al tribunale di Roma, dove è in corso una causa tra la figlia del poeta Ezra Pound e im movimento politico. La famiglia del poeta aveva chiesto di realizzare un documento per descrivere la natura di CasaPound. Relazione inviata l'11 aprile 2015 e firmata dal prefetto Mario Papa. La descrizione che fa la polizia parla di uno "stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne" con l’obiettivo "di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio". I principi che lo guidano, si legge, sono "la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto 'Mutuo Sociale'". E ancora "l'attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell'occupazione attraverso l'appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche". Non mancano tematiche una volta di sinistra, come "il sovraffollamento delle carceri, o la promozione di campagne animaliste contro la vivisezione e l’utilizzo di animali in spettacoli circensi". Degno di nota anche il collegamento con la Lega Nord di Matteo Salvini, "di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie" - attraverso la creazione del cartello elettorale denominato "Sovranità"". Per quanto riguarda la violenza e le manifestazioni, il riconoscimento della polizia è chiaro. "Il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente - scrive il Viminale - e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico". "All’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura", ma sono reazioni provocate dalla sinistra radicale che "sotto la spinta del cosiddetto 'antifascismo militante' non riconosce il diritto alla agibilità politica". Meglio CasaPound, quindi, dei centri sociali e antagonismi vari. Che se non provocassero, permetterebbero ai movimenti di destra di manifestare nel rispetto delle regole. La relazione della polizia ha lasciato senza parole, ovviamente, parlamentari di Sel e del Pd. Il deputato pd Fabio Lavagno si è detto indignato: "Va bene che il movimento di estrema destra cerca forme di legittimazione e visibilità continuamente, non da ultime l’adesione al Family day e le manifestazioni comuni con la Lega di Salvini, vedere però che questa descrizione sta nero su bianco in una nota della polizia al Ministero dell’interno risulta piuttosto inquietante".

Il Viminale loda le battaglie di CasaPound. E la sinistra impazzisce. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di...scrive il 2 febbraio 2016 “Il Tempo”. Il Viminale sbaglia ad assolvere CasaPound. Dovrebbe, piuttosto, sciogliere l’organizzazione «in applicazione delle leggi Scelba e Mancino». Parole e musica di Fabio Lavagno, deputato del Pd, e di Gianluca Peciola, esponente di Sel. Ma perché quest’improvviso rilancio di accuse da parte della sinistra nei confronti di Casapound? Tutto nasce un paio di giorni fa, quando il sito internet «Insorgenze.net» ha svelato l’esistenza di un’informativa del Viminale sull’attività dell’associazione guidata da Gianluca Iannone in cui, nei confronti di CasaPound, vengono utilizzati toni assolutori. L’informativa della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, protocollata N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333, è frutto di una richiesta della giudice Bianchini del tribunale di Roma. La Bianchini, dovendo esprimersi sulla causa intentata da Mary Pound, figlia di Ezra Pound, contro l’organizzazione che richiama il nome del padre, ha chiesto al ministero dell’Interno di acquisire informazioni sulla stessa organizzazione. Nell’informativa, datata 11 aprile 2015, si descrive un gruppo di associati con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio». «Il risultato - continua la nota - è stato conseguito anche attraverso l’organizzazione di convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico». «L’impegno primario» di CasaPound, secondo il Viminale, è volto alla «tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto "Mutuo Sociale"». Parole che proprio non sono andate giù agli esponenti di sinistra. «Ho depositato un’interrogazione al Governo e sto raccogliendo le firme necessarie per un’interpellanza parlamentare in modo che il Alfano possa riferire a Montecitorio su questa inquietante vicenda» ha annunciato Lavagno. Peciola, dal canto suo, ha ribadito che «le organizzazioni politiche che si richiamano al fascismo devono essere sciolte in applicazione delle Leggi Scelba e Mancino».

“CasaPound attiva nel sociale, centri sociali violenti”. La verità viene a galla, scrive l'1 febbraio 2016 Giuliano Lebelli su “Primato Nazionale”. L’acqua bagna, il fuoco brucia e l’antifascismo militante, avendo lo scopo dichiarato di conculcare violentemente i diritti politici altrui, genera reazioni anche muscolari da parte di chi non ci sta a subire i soprusi. Sono alcune delle verità elementari di fronte a cui è impossibile non convenire. Ma poiché viviamo in un eterno 1984, la verità più evidente sembra anche la più scandalosa. È il caso dell’informativa del ministero dell’Interno inviata al tribunale di Roma dopo richiesta del giudice incaricato della causa mossa dalla figlia di Ezra Pound a CasaPound, nella speranza di ridare il monopolio del nome del padre agli eredi politici di chi lo mise in una gabbia da zoo. Il magistrato, dovendo decidere se l’utilizzo di tale nome da parte del movimento oltraggiasse la memoria del poeta statunitense, ha chiesto al Viminale una nota su Cpi per vederci più chiaro. Nota che, tuttavia, non ha ricalcato le “inchieste” del gruppo L’Espresso su CasaPound, dato che in un aula di tribunale gli accostamenti suggestivi non valgono (non varrebbero neanche nel giornalismo, se è per questo), ma si è limitata a elencare i fatti. Apriti cielo. Il tam tam è nato sui siti dell’estremismo di sinistra per poi rimbalzare persino su Repubblica. Indegno, inaudito, inaccettabile: su Cpi esiste una sola verità ed è quella scritta su immortali tavole della legge da professionisti specchiati e noti pacifisti come Saverio Ferrari e luminari simili. Deragliare da quella versione non si può. Ma cosa dice il rapporto dello scandalo? Che CasaPound si è sempre contraddistinta per “lo stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne” e che ha l’obiettivo “di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio”. E non è chiaro, fin qui, cosa ci sarebbe da contestare. Andiamo avanti: fra gli obbiettivi politici di Cpi, si scrive, c’è “la tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto ‘Mutuo Sociale'”. E poi, “l’attenzione del sodalizio è stata rivolta anche alla lotta al precariato ed alla difesa dell’occupazione attraverso l’appoggio ai lavoratori impegnati in vertenze occupazionali e le proteste contro le privatizzazioni delle aziende pubbliche”. Di nuovo, basta essere minimamente informati sulle attività del movimento per sapere che questa è una mera descrizione della realtà. E l’eterna accusa circa l’uso della violenza? Il Viminale scrive che “il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico”. Per smentire questa frase basterebbe ricordare qualche manifestazione di Cpi terminata con vetrine sfasciate e macchine in fiamme, ma, sfortunatamente per Repubblica, non ce ne sono. Si sottolinea anche il ruolo provocatorio della sinistra estrema che, “sotto la spinta del cosiddetto ‘antifascismo militante’ non riconosce il diritto alla agibilità politica” a CasaPound. È forse questo che fa indignare? Ma la negazione dell’agibilità politica di Cpi è esattamente il tema identitario dichiarato che cementa le frange dell’estrema sinistra. L’unico modo per smentire il ministero potrebbe essere quello di dichiarare finalmente che Cpi ha diritto di fare politica. In caso contrario, e in presenza di comportamenti conseguenti, Cpi questo diritto è solita prenderselo da sé.

La sinistra intollerante, scrive Caino Mediatico il 31 marzo 2011 su “The Front Page”. Angela Azzaro è una giornalista di sinistra, abbastanza radicale. Scrive su Gli Altri, sta con la Fiom e non con Marchione per dirne una. Vorrebbe una sinistra di sinistra e non “sinistra” né sinistrata. Si è fatta le ossa con la Liberazione di Bertinotti e con Sansonetti. Ha creduto al post comunismo in senso libertario e liberal, alla non violenza, alla lotta di liberazione sessuale del femminismo. E’ quello che si capisce dai suoi articoli e dai suoi post su Facebook. Ma la rivista de sinistra alfabeta2 le censura un pezzo perché troppo filoberlusconiano. I suoi ex colleghi “fedeli alla linea” su Facebook la definiscono uno scarto. In un bel pezzo sul Foglio, Angela racconta di questa strana definizione e delle tante critiche che fioccano per le sue posizioni antimoraliste (sulla prostituzione) e garantiste, soprattutto per la carenza di antiberlusconismo DOCG. I giudici della “NormaSinistra”, come li definisce, sono anche enti certificatori dell’antiberlusconismo, che è la norma non transitoria n.1 della loro “costituzione materiale”; la inseguono magari nascosti dietro nickname, nelle presentazioni e ai party (rigorosamente casti) ove milita la sinistra capitolina. Dall’articolo del Foglio viene fuori un quadretto della sinistra per bene delizioso. L’antropologia del compagno nel giusto (un regista al buffet) che la deride o la insulta, ma alza la voce e si indigna se lei risponde per le rime. Ho idea che tra i danni (involontari?) del berlusconismo vero e presunto ci sia un peggioramento netto del Dna della sinistra mutante. Una vera e propria regressione antropologica. Come quelle famiglie sperdute nella campagna americana, che perso il lavoro, la speranza, cominciano a riprodursi tra loro e sfornano serial killer. Non aprite quella porta! I comunisti delle origini si occupavano sì di stigmatizzare l’incerto, il dubbioso, il dialogante. Che fosse socialdemocratico, estremista infantile o semplicemente riformista era relegato nella categoria del dissidente e doveva essere isolato, per emendarlo, criticarlo e rieducarlo. Tardivamente si accolse l’idea che potessero scontrarsi diverse idee, ma entro certi limiti, superati i quali c’era la scissione. Oppure la organizzazione in correnti dove presto tornava a prevalere, atomizzata, la lotta all’altro, ma per ragioni più pratiche. Anche se atrocemente divisi, paradossalmente il dissidente e il consenziente puntavano a convincere l’avversario, ad insinuare nel suo elettorato sottili e crescenti contraddizioni. Oggi no. La lotta al berlusconismo ha cancellato tutto ciò nel pragmatico Bersani e nel poetico Vendola, nel tattico D’Alema e nello pseudoecumenico Veltroni. Via Berlusconi senza se e senza ma, bando a ciò che gli somiglia: la tv commerciale, la gnocca, i consumi, Drive In. Chi si estranea dalla lotta è pagato, o è triste o è la vera ragione delle sconfitte della sinistra ieri, oggi e per omnia saecula saeculorum, amen. Per non dire dei newcomers, giudici in politica, questurini, giornalisti repubblichini, intellettuali imbolsiti vecchi e nuovi: quelli incitano al linciaggio. Tutti come Travaglio all’insegna del nemico interno che è peggio di quello esterno. Ogni dubbio puzza di intelligenza con il nemico. Taci il nemico ti ascolta. La compagna che sbaglia, la Azzaro non manca nelle sue esternazioni di auto-ironia e appare su Facebook con una parrucca viola. Loro invece hanno icone variegate e altisonanti: Garibaldi, Saviano, la Costituzione, Napolitano, a seconda delle convenienze. Non è che li disegniamo così: è che sono diventati più cattivi. Vogliono vincere non convincere, schizzano veleno nei post, indignazione contro gli adulteri e gli adulterati. Vedono la pagliuzza e non la trave. E vogliono disegnare il bersaglio sulla schiena di quelle/i che si definiscono compagni/e come Angela Azzaro o Piero Sansonetti perché ripescando libertà di pensiero e spirito contestario dal loro rimosso di ex rivoluzionari in pantofole rischiano di metterli in mutande. Persino nei cocktail delle terrazze parioline non tollerano alter ego dissidenti.

Con una sinistra così intollerante una cultura condivisa non è possibile, scrive Giuliano Cazzola l'11 Agosto 2009 su “L’Occidentale”. La società della comunicazione è una specie di animale feroce che divora le notizie. Sono sufficienti pochi giorni perché quanto appariva in prima pagina sui maggiori quotidiani finisca presto nel dimenticatoio. Nessuno parla più, infatti, dell’ultima in ordine di tempo aggressione ad un ministro della Repubblica, davanti alla stazione di Bologna, il 2 agosto scorso. Si vuole forse attendere un altro anno per ragionare non solo sul da farsi in questo caso, ma anche per riflettere sul clima d’intolleranza di cui è protagonista la sinistra? Quando una nazione è talmente divisa da non ritrovarsi insieme a festeggiare le ricorrenze della sua storia è bene prenderne atto e trarne le conseguenze. Le vittime della strage del 2 agosto 1980 non sono state colpite perché avevano in tasca delle tessere di partito. Peraltro i partiti di allora oggi non esistono più: o sono scomparsi o hanno cambiato tante volte identità che hanno fatto perdere le proprie tracce. Erano persone comuni che attendevano in una sala d’aspetto di seconda classe, alla Stazione Centrale di Bologna, i treni che li avrebbero portati a destinazione. Probabilmente – se il destino non li avesse fatti trovare in quel luogo alle 10,25 di quel giorno maledetto – oggi voterebbero più o meno come gli altri italiani. E tanti di loro, nel 2008, avrebbero contribuito alla vittoria del centro-destra. Ecco perché quei gruppi di attivisti di sinistra - che domenica in Piazza Medaglie d’Oro hanno contestato un ministro della compagine di Berlusconi (ovvero del Governo legittimo di questo Paese)  - non hanno alcun diritto di impadronirsi della memoria di quei poveri martiri e di decidere – loro – chi abbia o meno la possibilità di parlare, soprattutto quando il rappresentante del Governo era su quel palco, insieme alle altre Istituzioni, per rispondere ad un preciso invito dell’Associazione dei familiari delle vittime. Se nella cerimonia del 2 agosto la piazza concede il diritto di parola soltanto ad esponenti e ministri dei partiti di sinistra, mentre quelli di centro destra devono essere lì solo per sottoporsi alla gogna, qualunque sia la loro storia, qualunque cosa dicano o facciano; se i cittadini che partecipano ai riti di quel giorno hanno come principale obiettivo quello di contestare pesantemente e di offendere volgarmente una personalità che ha il solo torto di essere un avversario politico (in quanto tale meritevole non solo di critiche, ma di odio irriducibile, di disprezzo e beffa), non resta allora che prenderne dolorosamente atto soltanto in un modo: nel trentennale della strage, l’anno prossimo, vi lasceremo la piazza, la cerimonia, le bandiere e gli striscioni, i comizi, i fischi e le pernacchie. Quei caduti, quei nostri caduti, quei morti di noi tutti, il centro destra li commemorerà per conto suo. Con proprie iniziative, sicuri che nell’Aldilà nessuno protesterà. Perché – come afferma il grande Totò nella poesia A livella – i morti sono gente seria, le gazzarre polemiche le lasciano tutte a vivi.  E’ inaccettabile che delle forze di minoranza (alcune delle quali tanto ignorate dagli italiani da non fare più parte delle assemblee elettive) si arroghino il diritto di rilasciare patenti di legittimità costituzionale, appropriandosi con violenza delle piazze, quando viene il momento di ritrovarsi insieme per rinsaldare le radici comuni di un popolo. E’ vero: una componente costitutiva del Pdl non faceva parte dell’arco costituzionale che ha consentito al Pci di essere un protagonista della vita politica del dopoguerra anche quando i suoi parlamentari si alzavano in Aula inneggiando all’Armata Rossa mentre massacrava i patrioti ungheresi. Ma An ha reciso con chiarezza e da tempo il cordone ombelicale con il fascismo. Dal canto suo l’elettorato di Forza Italia è più o meno lo stesso di quei partiti democratici che hanno garantito all’Italia di rimuovere le macerie della guerra, di crescere come un grande Paese civile e di sviluppare la propria economia. Mai come adesso l’Italia potrebbe ritrovarsi intorno a valori comuni, consentendo così alle forze nazionali di contrastare, con l’esempio e l’azione politica bipartisan, i processi separatisti che covano sotto la cenere. Ma se la logica continuerà ad essere quella della discriminazione, della <cittadinanza imperfetta>, dell’accusa perenne di usurpare il potere, è ora di ribadire chiaro e forte che il centro destra non si sottoporrà più all’esame di idoneità da parte di tanti <cattivi maestri> prepotenti e intolleranti. Vogliono tenersi anche il 25 Aprile? Si accomodino. Noi faremo approvare una leggina con la quale proclameremo <Festa della Libertà> il 18 aprile, in ricordo di quella radiosa giornata del 1948, quando, sotto la guida della Dc, l’Italia collocò le sue istituzioni nel campo della democrazia.

La democrazia secondo la sinistra, scrive il 17 dicembre 2015 Indianalakota. “Mettere fuorilegge la Destra”. Questa è la democrazia secondo la sinistra! Sindacati, Anpi e partiti di sinistra si rivolgono al Quirinale con una petizione scritta a Mattarella per mettere fuorilegge qualsiasi cosa non sia di sinistra, cioè associazioni come: Casa Pound, Forza Nuova, Lealtà e Azione e tutte le altre che non sventolano bandierine rosse distruggendo intere città ogni volta che manifestano. Come fanno, invece, questi poveri deficienti che berciano: “Il fascismo è un crimine, non un’opinione come altre: quelle organizzazioni di estrema destra vanno messe fuorilegge”. Invece il comunismo è libertà e pace, vero cari i miei ignorantoni? Quei milioni di morti causati dal comunismo e affini non contano per voi? Ricordo ai poveri idioti che innanzitutto il fascismo non esiste più da un’ottantina d’anni e che la legge, creata ad hoc, punisce solo chi cerca di ricostituire il partito fascista, non l’ideologia! Quella non si può nè punire nè vietare perchè la nostra cara Costituzione permette a chiunque libertà di pensiero e di opinione anche quella di riunirsi in associazioni. Anche a voi comunisti che esistete ancora e osate sventolare una bandiera con falce e martello alla faccia dei milioni di morti del comunismo! Siete così sfigati che volete tappare la bocca a chiunque non la pensi come voialtri pecoroni belanti (con tutte le mie scuse alle pecore per l’infelice paragone con questi senza palle qui). Provateci pure! Vediamo quante persone firmeranno la vostra petizione contro la libertà di pensiero e di opinione degli altri! Poi noi faremo la nostra per eliminare voi! Associazioni, centri sociali di stupidi ragazzotti ignoranti che non conoscono la storia e che ogni volta che manifestano non sono capaci di fare altro che casino e distruggere col passamontagna in testa e qualche arma in mano. Oltre che occupare abusivamente case ed edifici, ubriacarsi e drogarsi. Da quel che so vi gode molto la gente, bravi! I sindacati (ma esistono ancora?) la loro bella figurina di merda l’hanno già fatta da tempo…..L’Anpi…..ma esistono ancora questi vecchietti??? Vogliamo ricordare anche i loro crimini durante la guerra oppure non contano perchè hanno vinto? Se è vero che avete combattuto per la libertà, siate coerenti! La “democrazia”, per essere tale, prevede la diversità di opinioni. Non solo la vostra! A quando una petizione per eliminare anche Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia ecc.? Paura di perdere le elezioni e di trovare gente con le palle che vi fa lavorare e rispettare le leggi invece di andare in giro a bighellonare e dire cazzate? Chi non conosce Casa Pound sappia che è un’associazione che difende ideali come la famiglia, la patria, gli animali e l’ambiente. Tantissime le loro manifestazioni contro la vivisezione, i circhi e gli zoo. E per i diritti degli italiani. Voi invece cosa propagandate? IL NULLA! Al massimo la liberalizzazione delle droghe (eh sì perchè quelle meritano libertà) per rincoglionirvi ancora di più, le famiglie gender alla faccia dei diritti dei bambini, e l’invasione degli extracomunitari senza controllo. Perchè voi sapete solo andare contro gli altri, soprattutto contro gli italiani e la Nazione. Perfino io qui sui social ho subito discriminazioni e insulti perchè non sono di sinistra ma di destra! E essere di destra non significa affatto essere fascisti o nazisti, cercate di capirlo per bene, anche se fa molto comodo insultare e discriminare le persone perchè non la pensano come voi: certa gente non è in grado di ascoltare le opinioni altrui e di rispettarle, meglio gli insulti facili. Sei di destra? Allora sei fascista, nazista, klu klux klanista….Anche qui su WordPress ho visto diverse persone smettere di seguirmi perchè sono di destra. E so che ne perderò ancora dopo questo articolo. Paura del confronto? Io non sono qui per compiacere nessuno: ho le mie idee e le mie opinioni, condivisibili o meno, e sono abituata a dire quello che penso. Nella vita reale ho diversi amici di sinistra, non cretini come quelli dei centri sociali, con cui condivido certe cose e su altre mi scontro in piena democrazia e rispetto. Infatti siamo amici da anni! Io ogni modo io sto con Casa Pound!!!! Non certo con chi cerca di tappare la bocca agli altri.

Maurizio Belpietro su “Panorama”: Pericolosa l'intolleranza di sinistra. C'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. Punta alla demolizione di chi la pensa diversamente: nemici di cui sbarazzarsi. Giampaolo Pansa si occupa sul Riformista dell'intolleranza che «troppa gente di sinistra» nutre nei confronti di chi non la pensa in un certo modo. Ha tratto spunto da un paio di lettere inviate al Giornale da persone che lamentano d'essere state insultate in treno e in autobus per il solo fatto di avere tra le mani una copia del quotidiano milanese. Il frasario usato contro di loro va da «fai schifo!» a «sei un servo di Berlusconi». Pansa, nel commentare le due lettere, riferisce di un episodio analogo di cui è stata vittima una sua lettrice, assalita a male parole perché, mentre era in attesa di un treno, leggeva il libro La grande bugia, documentata denuncia dei falsi storici e dei crimini commessi in nome della lotta di liberazione. Naturalmente la madre degli imbecilli è sempre incinta e si potrebbe concludere che i due lettori del Giornale e la signora sono stati sfortunati e hanno avuto il guaio d'incappare in compagni di viaggio maleducati e fanatici. Ma Pansa, che fu cronista del Corriere della sera negli anni in cui «la sinistra menava e sparava», parole sue, «e Montanelli era ritenuto un fascista insieme ai suoi lettori», non minimizza. Anzi, siccome il diavolo si nasconde nei dettagli, spiega che scruta l'orizzonte con qualche timore. Le aggressioni, gli insulti, le intolleranze sono il sintomo, il dettaglio per citare Giampaolo, che segnala una malattia più estesa, un settarismo strisciante che tracima e che rischia di bruciarci tutti. C'è infatti una parte di sinistra che non si limita a contestare le idee che non le piacciono, ma assale chi ne è portatore o, semplicemente, lettore. E non si tratta di pochi scalmanati. Dietro c'è una cultura di odio, una violenza che per ora è verbale, ma che non è detto resti tale. È una cultura da vecchi stalinisti, che punta alla demolizione, all'annientamento di chi la pensa diversamente. Colpisce con furia, senza rispetto degli avversari, che vede come nemici di cui sbarazzarsi. Per questa cultura chi manifesta opinioni dissonanti non ha dignità né onore, non ha diritto di parola, fa schifo e basta. Non è un uomo, ma un servo. Forse qualcuno penserà che io enfatizzi pochi episodi, ma, siccome tocco con mano da tempo questo sentimento di rancore, posso assicurare che nelle mie parole non c'è esagerazione: mi limito a riportare le opinioni che si trovano online e a sintetizzare gli insulti e le minacce. A differenza di Pansa, però non penso che il clima di intolleranza sia bipartisan. Non ho notizia di lettori della Repubblica o dell'Unità presi a male parole da qualche energumeno. E nemmeno di ingiurie contro chi appartiene a uno schieramento di sinistra. Ho provato a chiedere ad Antonio Padellaro, che del quotidiano che fu comunista è stato direttore, se gli è mai capitato di ricevere lettere di persone che segnalavano lo stesso trattamento riservato ai lettori del Giornale e se a lui stesso fossero arrivate offese, e la risposta è stata no. La stessa domanda l'ho rivolta ad altri giornalisti ritenuti di sinistra. La risposta è stata ancora no. Non voglio dire che a destra siano tutti angioletti, sempre pronti a comprendere le ragioni altrui. No, anche lì ci sono comportamenti esecrabili. Ma penso che l'intolleranza sia patrimonio della sinistra. Di più: che faccia parte del suo dna. E credo che chi si candida a diventare leader di un partito democratico per definizione non possa ignorare questo tema. Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Ignazio Marino diano un segnale di civismo nei confronti di quegli italiani che sono la maggioranza del Paese. Evitino di considerarli tutti servi sciocchi di Silvio Berlusconi e impediscano che siano vittime dell'odio coltivato a sinistra. Sarebbe il miglior inizio per chi ambisce a governare l'Italia e a riunificarla.

Lo studio americano: a sinistra i più ottusi e intolleranti, scrive Gianni Candotto, il 18 novembre 2013 su “Quelsi”. Il bestseller “the Righteous mind” di Johnatan Haidt, docente universitario di psicologia sociale in molte università americane, di dichiarate tendenze liberal, ovvero di sinistra, scopre quello che Guareschi già diceva tanti anni fa: le persone di sinistra sono di solito più ottuse, estremiste, chiuse e intolleranti. Guareschi li disegnava con tre narici, violenti e pronti a cambiare idea appena arrivava il “Contrordine compagni!” dei capi del partito rosso, Haidt invece fa uno studio approfondito iniziato nel 2004 e conclusosi dopo migliaia di esperimenti con la pubblicazione del suo bestseller nel 2012. Certo Haidt dice di averlo pubblicato, non a caso è di sinistra, con lo scopo di aiutare la sinistra americana a non essere troppo chiusa e autoreferenziale e migliorare il partito democratico perché non sottovaluti la componente emotiva dell’elettorato. Un altro scopo dichiarato del suo lavoro era capire come mai la destra prendesse più voti della sinistra tra gli operai, fatto che nella mentalità progressista dell’autore rappresentava un paradosso. Una delle parti intuitivamente più semplici da capire di questo studio è il sondaggio proposto a 2000 americani che si definivano liberal (in Italia sarebbero a sinistra del PD) sui valori e le convinzioni dei conservatori: ne è venuto fuori un quadro paradossale dove le persone di sinistra avevano una visione caricaturale di quelli di destra visti come dei bruti, ignoranti, razzisti, omofobi. Lo stesso sondaggio fatto al contrario mostrava come i conservatori fossero estremamente più tolleranti e aperti a capire le opinioni degli altri. In poche parole molto più democratici. L’esperimento intuitivamente funzionerebbe anche in Italia. Il professor Haidt in questo vede la difficoltà dei liberal di capire i sentimenti dei conservatori, perché si è accorto che alcuni valori naturali che fanno parte della mente umana, come autorità, famiglia e senso del sacro vengono identificati con razzismo, omofobia e fondamentalismo religioso dai liberal, in particolari quelli più accesi. Gli stessi liberal riescono a concepire solo tre fattori che sono radicati nella mente umana, cioè la salute, la libertà e l’equità, sui sei che secondo gli studi di Haidt compongono l’intelletto politico dell’individuo. Mentre però per i conservatori libertà, salute ed equità sono valori accettati anche se declinati in maniera differente, per i liberal gli altri tre sono valori rifiutati tanto che al solo nominarli hanno reazioni pavloviane di rigetto. Questa in sostanza la dimostrazione pratica della mancanza di elasticità mentale e apertura delle persone di sinistra. L’autore poi si sposta sulla pratica quotidiana sostenendo che internet ha peggiorato la mentalità degli estremisti, portandoli a leggere solo siti di informazione che si adattano alla propria mentalità. Se lo studio è intuitivamente plausibile, le soluzioni che propone tuttavia lasciano alquanto perplessi (è dopotutto un liberal anche lui), come quella di invitare le famiglie dei parlamentari a vivere a Washington perché imparino a scambiarsi opinioni tra famiglie di destra e di sinistra. In Italia tale studio è stato tradotto con un titolo molto fuorviante: “Menti tribali: perché le brave persone si dividono su politica e religione”. Senza leggere gli studi dei liberal americani, è sufficiente rivedersi le vignette di Guareschi.

Come la macchina dell’intolleranza di sinistra ha messo all’angolo la castigatrice delle censure liberal, Kirsten Powers, scrive Mattia Ferraresi il 14 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Che la sinistra si scagli con intenzioni intolleranti contro un libro che descrive l’intolleranza della sinistra è la perfetta chiusura del cerchio. Il nuovo libro di Kirsten Powers, “The Silencing: How the Left Is Killing Free Speech”, non era ancora sugli scaffali quando i commentatori liberal hanno preso ad attaccarlo, provando involontariamente la verità del suo contenuto. Powers ha compilato una rassegna di boicottaggi, licenziamenti, disinviti di università a personaggi non allineati alla cultura liberal prevalente, dall’ex ceo di Mozilla, Brendan Eich, cacciato per una donazione perfettamente legale a sostegno della campagna per il matrimonio tradizionale, fino a Christin Hoff Sommers, femminista non convenzionale che regolarmente vede sfumare inviti delle università per le proteste preventive di professori e studenti liberal. Aveva così tanti esempi per illustrare la guerra da sinistra contro la libertà di espressione che ha dovuto sacrificare un paio di capitoli. Obama bastona la sinistra non allineata sul libero scambio “Quello che mi ha colpito – ha spiegato Powers – è che la sinistra illiberale mi ricorda i fanatici religiosi, ma di una religione secolarizzata. La persona religiosa media ha il proprio credo, ma non cerca di licenziare chi la pensa diversamente. Solo i fanatici lo fanno. Per loro non è sufficiente credere, non riescono a tollerare che altri non credano in quello in cui credono loro. Devono dimostrare che sono moralmente superiori alle persone con le quali sono in disaccordo”. William Buckley diceva già una vita fa che “i liberal vogliono sentire altri punti di vista rispetto al loro, ma sono scioccati quando scoprono che esistono altri punti di vista”. Ai liberal questa rappresentazione non è piaciuta. Si badi bene: non sono gli esempi di intolleranza elencati nel libro a essere sotto attacco, quanto l’autrice, secondo un classico schema di attacco incentrato sulla delegittimazione dell’autore invece che sulla confutazione delle sue tesi. Esempio: per smontare le accuse di usare i fondi in modo improprio e illegale contenute in un’inchiesta, il team di Hillary Clinton non si prende la briga di rispondere punto su punto, ma si limita a screditare l’autore, mettendolo nella schiera degli urlatori della destra zoticona, confinandolo nel girone dei cospiratori che ancora insistono a dire che Obama è un musulmano nato in Kenya, o forse una lucertola gigante venuta dallo spazio. Allo stesso modo Oliver Willis di Media Matters, osservatorio progressista dei media, bolla Powers come una “impiegata da Fox News, anti choice che scrive per la Heritage Foundation”, e ne conclude: “Sì, continuate a dirmi che è una democratica”. Chi lavora in un osservatorio dei media sa che è più efficace presentarla come una controfigura ideologica di Sarah Palin invece di entrare nel merito, magari ricordando che Powers ha iniziato la sua carriera nell’Amministrazione Clinton e sosteneva il matrimonio gay quando Hillary era contraria. Era ed è ancora pro life, ma non anti choice. Poi si è convertita al cristianesimo, ma è tuttora a favore del matrimonio omosessuale, e si definisce una liberal nonostante le rappresentazioni distorte della sinistra che concede libertà di parola soltanto a chi esprime concetti con cui è d’accordo. 

In tempi di Bassissimo Impero, può accadere che i nostalgici della maxitangente Enimont denuncino la malcapitata Guidi, per sputtanamento sentimentalistico delle “gesta epiche” di Tangentopoli, scrive Antonella Grippo l’11 aprile 2016 su “Il Giornale”. Gli appetiti economici di un fidanzato mandrillo non ti consegneranno alla posterità. Anche se a sfrattarti è il PD di renziano conio. Il partito in questione, del resto, sconta una certa inattendibilità, quale gendarme dell’etica pubblica, nonostante i suoi trascorsi simil-giustizialisti. Agli albori degli anni ’90 infatti, la mattanza giudiziaria di Mani Pulite risparmiò le “anime belle” del postcomunismo (PDS), tradizionalmente immuni al virus della mazzetta e dei finanziamenti illegali. La grande stampa italiana, all’epoca, s’incaricò di certificarne l’immacolatezza. Ai più avveduti non sfuggì il fatto che gli eredi del partito di Gramsci, in realtà, avevano già ceduto in “comodato d’uso” la titolarità della lotta politica alle Procure. Abdicandovi. Una sorta di masochistica e mortificante diserzione dall’agire politico in prima linea. Di più. La cosiddetta “rivoluzione giudiziaria” si configurò come la variante vicaria della palingenesi berlingueriana. La medesima nomenklatura, lungo tutto il ventennio successivo, darà in subappalto ai Pubblici Ministeri l’opposizione a Silvio Berlusconi. Una vera e propria goduria a beneficio degli amanti dell’iconografia patibolare. L’ossequio alla bulimia puritana della base. Insomma: il primato della politica dilaniato dalle fauci del basic instinct delle masse sanguinarie. Da Togliatti a Javert, perfida creatura manettara di Victor Hugo, il passo fu breve. L’epopea di Renzi sembra contraddire la tendenza del recente passato. La magistratura, nella percezione del nerboruto leader, acquisisce, sin dai primordi, un ruolo inedito: quello di foglia di fico e di prestanome del Palazzo, che non è propriamente abitato da francescani con le pezze al culo. Matteo, in tempi altamente sospetti, coltiva, infatti, il culto di Cantone e di Gratteri, indicandoli, addirittura, come possibili Ministri, allo scopo di rastrellare facili consensi, in nome di un’improbabile catarsi. Contestualmente, dopo aver trombato Lupi, a quanti reclamano le dimissioni dei sottosegretari indagati risponde: “Non mi faccio dettare la linea dagli inquirenti.” E cita Montesquieu. Intanto, in un ineffabile gioco delle tre carte,” impiega” le icone togate, quali garanti della virtù di Stato. Altro che separazione dei poteri! Siamo al meticciato dei medesimi. Come se non bastasse, il Nostro, nel mezzo della bufera Guidi e similari, attacca la Procura di Potenza, rea, a suo dire, di non aver mai quagliato. Come dire: se non vai a sentenza, sei uno sfigato. Poi brandisce un’arma spuntata contro l’uso perverso delle intercettazioni, salvo ritirarsi in buon ordine subito dopo. Il sospetto di un’operazione quantomeno schizofrenica non può dirsi fugato. L’orizzonte, allo stato, appare nebuloso: non è verosimile ritenere interdetta la migrazione delle prerogative della Politica nella direzione dei Palazzi di Giustizia. Nonostante il gradasso. Ad ogni buon conto, Renzi, potrebbe chiamare in correità ideologica Benedetto Croce, che, nel merito, sentenziava: “La petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica non è altro che una volgare manifestazione dell’inintelligenza (mancanza di intelligenza) circa le cose della Politica.”  Tradotto: gli innocenti non sempre hanno la stoffa degli statisti. Con buona pace di Davigo. Ma questa è un’altra storia. Complicatissima. Cuperlo e le min(on)oranze funebri del Pd non capirebbero.

Qualche dubbio sul caso Matei. Condannata per "l'omicidio dell'ombrello", che sconvolse l'opinione pubblica, era uscita per buona condotta. Ora ci torna. Grazie all'opinione pubblica, scrive il 13 aprile 2016 su "Panorama" Maurizio Tortorella. Mi rendo conto che non è facile per un giornalista scrivere a favore di una donna condannata per omicidio: è così anche se l'omicidio non è volontario, ma preterintenzionale, cioè è causato da un atto che non intende causare la morte, ma va oltre le intenzioni dell'omicida. Non è per nulla facile nemmeno fare il giudice, e mi rendo conto anche di questo. Ma credo che nella storia di Doina Matei qualcuno debba pur dire che la giustizia italiana non può decidere in base alle urla di piazza, alla negatività dell'opinione pubblica, allo strepito di un social network. Non è questa la giustizia: se esistono regole, vano rispettate prescindendo dalla piazza, dall'opinione pubblica. La storia. Dorina Matei è la 20enne che nell'aprile 2007, nella metropolitana di Roma, aveva duramente litigato con una povera ragazza, la coetanea Vanessa Russo. Nella colluttazione seguita al litigio, Matei aveva ucciso Russo colpendola all'occhio con la punta dell’ombrello. Aveva anche tentato di fuggire con un’amica, ma era stata arrestata pochi giorni dopo, vicino a Macerata. Matei era stata ovviamente processata e alla fine era stata condannata definitivamente a 16 anni di carcere. Dopo quasi nove anni scontati in prigione, grazie alla buona condotta aveva da poco aveva ottenuto da un giudice una misura alternativa al carcere per i quasi otto che le restavano da scontare. Il suo errore è stato pensare di poter usare uno di quei permessi per andare a Venezia. Per fare un bagno al Lido. E per sorridere davanti a un obiettivo. Le sue foto, postate su Facebook, sono state pubblicate alcuni giorni fa dai giornali. E subito i social network si sono riempiti di ovvia indignazione. I giornali si sono riempiti di facile indignazione. I bar sport si sono messi a urlare di indignata indignazione. Si sono mossi anche i pesi massimi del giornalismo. Massimo Gramellini, sulla Stampa, ha scritto: "Nove anni di carcere per un omicidio rappresentano la vergogna del legislatore italiano (...). Oggi però la questione sono le foto di felicità diffuse dall’assassina. Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente. Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network?". Francamente, io non so rispondere a questa domanda. È una questione complessa, che attiene alla coscienza, alla sensibilità. E mi rendo conto della pena e della infinita sofferenza che hanno provato e continuano a provare i familiari della ragazza uccisa nove anni fa. Ma non credo che nulla di tutto questo sia pertinente con la questione di giustizia che il caso oggi incarna. Perché Dorina Matei, dopo il can-can che ho appena descritto, è stata riportata in cella, perché le è stata sospesa la semilibertà. E allora, mi spiace, ma io continuo a pensare che di certo Dorina Matei sia stata condannata giustamente per quel che ha fatto, però oggi penso anche che, se alla base di tutto c'è la protesta dell'opinione pubblica, riportare in carcere Doina Matei non sia un atto di giustizia. Un giudice stabilisce che, anche se sei un'omicida, dopo 9 anni di carcere hai diritto alla semilibertà? Immagino lo faccia in base alle norme, alle leggi, rispettando procedure e calcoli. Userà anche il buon senso. Insomma, farà correttamente il suo lavoro. Questo credo perché ho fiducia nella giustizia. Ma allora quel giudice non torna sulle sue decisioni perché l'opinione pubblica si rivolta contro un sorriso in una fotografia, come fanno pensare le cronache. Forse per la condannata era previsto il divieto a sorridere finché non avesse finito di scontare la pena, o la proibizione di pubblicare una foto su Facebook. Ma se è così, questa è una prescrizione che può essere scritta solo in un detestabile "Codice della giustizia a furor di popolo", non nel Codice penale o nel Codice di procedura penale di uno Stato di diritto. Doina Matei è certamente colpevole del delitto che le è stato ascrittto. Aveva ovviamente cercato di chiedere scusa ai genitori di Vanessa Russo: “Ho invocato il loro perdono, non ho avuto risposta. Tocca a me, ora, piegarmi a quel silenzio”. La morale ipocrita di questa vicenda è che, in quel silenzio, non avrebbe però mai dovuto sorridere, come scrive oggi la penna che meglio di ogni altra incarna l'opinione pubblica. Ecco la colpa, nuova ed estrema, di Doina Matei. Dice giustamente Beniamino Migliucci, presidente dell'Unione delle camere penali: "Non conosco le motivazioni del giudice di Venezia, ma posso dire che una foto sorridente postata su un social non è un motivo sufficiente per sospendere il regime di semilibertà". Prosegue Migliucci: "Forse i giudici l'hanno ritenuto un comportamento inopportuno. Forse le foto sono state scattate nell'orario lavorativo. Forse hanno risentito della pressione dei media". Se il motivo è il terzo, allora esiste un caso Matei che qualcuno, forse un ministro della Giustizia, dovrebbe affrontare con coraggio. Una volta tanto senza piegarsi al populismo giudiziario.

Il valore liberale trascurato dei «Promessi Sposi», scrive Nicola Porro, Domenica 10/04/2016, su "Il Giornale". Esiste un testo, che abbiamo letto tutti, che avrebbe dovuto formare qualche generazione di italiani allo spirito liberale. Sono I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Recentemente lo ha ricordato Alberto Mingardi, ma il primo a scoprirne la sua portata liberale fu Luigi Einaudi che in una delle sue Prediche Inutili sottolineò: «Manzoni scrisse pagine stupende sui pregiudizi popolari intorno alla scarsità ed all'abbondanza del frumento e della farina, agli incettatori ed ai fornai; ché ogni volta che il discorso cade oggi sul rincaro dei viveri, sui prezzi al minuto e all'ingrosso, sulle malefatte degli accaparratori e degli speculatori, si leggono sui fogli quotidiani e si ripetono nei comizi gli stessi luoghi comuni che l'ironia manzoniana aveva bollato; e cadono le braccia». Il capitolo a cui ci riferiamo è il 12esimo, quello della «Carestia». In una Milano affamata il popolo dà l'assalto ai forni e il governatore Ferrer e i magistrati commettono un errore economico dietro l'altro. Manzoni racconta quel clima favolosamente e nelle prime pagine del capitolo, prima dell'arrivo di un Renzo spaesato ma di buon senso («Chi fa il pane, se fanno a pezzi i forni?», si chiede), racconta il paradosso, così attuale, di chi voglia controllare la formazione dei prezzi. Il prezzo, ci spiegheranno poi Milton Friedman e soci, non è altro che una magnifica, per la sua sinteticità, informazione. Non far funzionare bene il meccanismo di rialzo e ribasso dei prezzi, mina l'essenza di un mercato, racconta una storia non vera. E che prima o poi porterà ad uno scoppio. Ma ritorniamo ai Promessi sposi. È un crescendo. Prima la cultura del sospetto: Dopo un rincaro «nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza». I prezzi non riflettono, per un collettivista, la scarsità di un bene, quanto la decisione di pochi nel determinarli. Se ci pensate è alla base delle differenza tra un'economia di mercato ed una di Stato. Meglio, molto meglio di un manuale di economia, l'economista Manzoni ci spiega come funziona il meccanismo dei prezzi e con una scrittura piatta e ironica avrebbe dovuto far capire a milioni di studenti che non è attraverso il controllo dei prezzi che si combattono improvvisi rincari di un bene. Anzi al contrario. Fissare un tetto ai prezzi, controllarli centralmente, porta all'effetto esattamente contrario: nessun incentivo a produrre di più il bene scarso e tanto meno interesse da parte di eventuali esportatori di supplire al deficit che si è formato. Per questo Einaudi nella predica inutile (Un libro per seminaristi e studenti) dice: «Forse la sola prosa da cui sia possibile, con l'aiuto di un insegnante non del tutto fuori dalla vita di oggi, trarre qualche immediata applicazione economica, è il capitolo sulla carestia nei Promessi sposi».

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

Staino e il manuale per compagni incazzati. Con il romanzo a fumetti "Alla ricerca della pecora Fassina", Bobo si imbatte nell'ultima grande tragedia della Gauche nostrana, dove Renzi è incollato allo smartphone, Cuperlo è un attore shakespeariano e Cofferati viene alle mani con Veltroni. Dedicato a "un pubblico adulto di sinistra", scrive Maurizio Di Fazio il 13 aprile 2016 su "L'Espresso". “Istruzioni per l’uso: la lettura è consigliata a un pubblico adulto di sinistra accompagnato da figli o conoscenti giovani, che possano tenerlo per mano nelle scene più crude in cui l’Autore affonda le mani nella carne viva delle contraddizioni ideologiche”. L’Autore è uno che di guerre fratricide ed epico-comiche interne al Pci prima, e al Pds, Ds e partito democratico poi, se ne intende benissimo, visto che le disegna e racconta in controluce biografica dal 1979, anno di nascita di Bobo, alter ego suo e di più di una generazione. Torna in libreria (per Giunti) Sergio Staino, tra i giganti della satira politica non soltanto italiana. Una statura che conferma in questo suo nuovo e ricco romanzo a fumetti, nonostante giusto pochi mesi fa Sergio/Bobo avesse confessato di essere ormai semicieco: si intitola “Alla ricerca della pecora Fassina” e ha per sottotitolo “Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti ma sempre compagni”. Con la passione di sempre, engagé ma dissacrante, Staino eleva a memento artistico l’ultima grande cronaca di una tragedia annunciata in seno alla Gauche tricolore: lo strappo di Civati e Fassina e la nascita di ulteriori movimenti alla sinistra del Pd. Un distacco che matura all’ombra del Renzismo (“malattia infantile del Dalemismo”) e di un segretario-premier multitasking, “sempre incollato al suo smartphone dal quale controlla e dirige tutto e tutti, sorvolando su ogni difficoltà e dissenso con il suo ormai proverbiale “Ce ne faremo una ragione” scrive nella prefazione Ellekappa. Nel libro, Matteo Renzi salta da un impegno (e da una promessa) all’altro, con ogni mezzo di trasporto possibile; e tra lui, superdigitale e post-Agesci e dallo sguardo affilato e l’analogico e vetero-romantico ed ex berlingueriano Bobo è tumulto continuo. Anche in senso fisico. Con un sottofondo tuttavia di sentimenti indefiniti condivisi. Sono finiti i tempi del centralismo democratico, il web 2.0 dà l’illusione di avere rivoluzionato ogni dialettica tra base e classe dirigente e il meta-internettiano Bobo chiede dal vivo (e a gran voce) al suo segretario, con strattoni e imprecazioni se necessario, di farsi guida magnanima per i suoi più alti quadri e di non abbandonare a se stessa, quindi, la pecorella smarrita Fassina. Come nella parabola evangelica del buon pastore, che lasciò novantanove pecore nel deserto per andare alla ricerca dell’unica perduta. Bobo il tesserato e militante esemplare, libero e critico ma rispettoso delle regole e delle sintesi di partito, né con l’ortodossia genuflessa né con la fronda autolesionista, si imbarca in quest’operazione improba: riportare all’ovile la fuggiasca “pecora Fassina, una pecora focosa, ma generosa”. Sanare l’ennesima ferita inferta al giovane corpo del partito democratico, posseduto da vecchi e purulenti demoni di scissione. E lo fa eleggendo a compagno di viaggio, nel girone infernale delle polemiche, tale marlonbrando, un piccolo Virgilio Rom, pure qui rovesciando i canoni della vulgata che ci attanaglia. Quello che ne vien fuori è un affresco picaresco, corale e pittoresco del nostro paesaggio politico progressista, su cui continua però a soffiare imperterrita la speranza di Staino. Meglio parlarsi apertamente e prendersi per i fondelli che covare sordi rancori, suscettibili di divorzi brucianti e repentini. E mentre cerca Fassina Bobo si imbatte, in ordine sparso, in Gianni Cuperlo a teatro nei panni di un attore scespiriano; in Romano Prodi ed Eugenio Scalfari che dispensano saggi consigli nel deserto; in Walter Veltroni in balia dei suoi aneliti cinematografici; in Sergio Cofferati con cui viene alle mani; in Fabrizio Barca, Matteo Orfini, Pier Luigi Bersani e un manipolo di seguaci delle teorie complottiste di Giulietto Chiesa. E poi l’incontro-choc con Denis Verdini, che cerca di irretirlo dichiarandosi anch’egli “comunista”, forte della sua fede massonica di stampo “socialista mazziniano”. E tanto altro che non vi sveliamo. La lettura è sconsolante, ma appassiona, e tra le strisce prendono forma alcuni pensieri fermi nella testa di Bobo/Staino, uomo e artista idealista ma pragmatico. Ha senso scimmiottare i vari Tsipras, Podemos e Corbyn, o si rischiano solo sarabande di fallimenti? Esistono delle alternative credibili e auspicabili a Renzi? “Siamo stati contro la Cina e a favore dell’Albania. Poi contro Natta e di nuovo a favore di Berlinguer. Poi contro Occhetto e a favore di D’Alema. Poi contro Veltroni e a favore di D’Alema. Poi contro Prodi e a favore di D’Alema. Poi contro D’Alema e a favore di un qualsiasi giovane purché degli ex Ds. Ora sei contro Renzi, ok. Ma a favore di chi? Dimmelo! Che ci vengo anch’io” grida Bobo a un certo punto all’anziano compagno Molotov. “A favore di chi? Se lo sapessi non sarei qui” gli risponde il gagliardo marxista-leninista. “Ti piace Civati?”. “Quel fighetto milanese? Mai”. “Cofferati?”. “Dopo Bologna basta, non mi fido”. “Fassina?”. “Uno che ha fatto il sottosegretario con Monti? Mai”. “Allora tornare a D’Alema?”. “Ma se sono loro ad averci condotto qui!”. Per il compagno Molotov, Renzi è un po’ il male assoluto e piuttosto se ne andrebbe con i grillini. Per Bobo e Sergio Staino questo no, questo mai. Chiunque ne sia pro tempore il leader, il partito c’è già ed è quello democratico. E con Molotov sono botte.

La morte di Gianroberto Casaleggio e l’ipocrisia della politica. Ora tutti salutano il fondatore del Movimento come un innovatore che ha modernizzato la vita pubblica. Compresi quelli che fino a pochi giorni fa lo definivano il fondatore di una setta pericolosa per la democrazia, scrive Paolo Fantauzzi il 12 aprile 2016 su "L'Espresso". Ma Gianroberto Casaleggio era un pericolo per la democrazia, fondatore di “una setta”, anzi di “un’associazione violenta e antidemocratica” segnata dal “fanatismo” o il “genio comunicativo” e l’“innovatore visionario” che ha invogliato la partecipazione dei cittadini, come viene pianto oggi? È la domanda che viene da porsi a leggere il profluvio di dichiarazioni con cui tanti politici hanno commentato la morte del fondatore del Movimento cinque stelle. Affermazioni, si badi bene, fatte spesso proprio da quanti maggiormente lo hanno attaccato sul piano personale, in un imbarbarimento del discorso pubblico che a tratti pare aver superato perfino i toni usati quando Silvio Berlusconi sedeva a Palazzo Chigi. Fanno così un certo effetto le parole con cui il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, ha definito Casaleggio “un avversario politico che abbiamo sempre rispettato”. Proprio lui che, durante il voto per il Quirinale nel 2013, accusava i vertici del Movimento di aver usato il nome della giornalista Milena Gabanelli fra i candidati per il Colle “per dare lustro ad una demagogia che calpesta i diritti e la trasparenza”. Oppure il vicesegretario Lorenzo Guerini, che pochi mesi fa lo paragonava al “lato oscuro della forza”, autore di una autentica “dittatura”. O ancora il già dalemiano, già montiano e adesso renziano Andrea Romano, che commentando l’idea di una multa per gli eletti che non rispettano il programma nelle settimane scorse ha affermato che “Casaleggio avrebbe fatto fucilare Churchill” perché era stato prima conservatore e poi liberale. Perché se è vero che i grillini hanno spesso sconfinato a sproposito nei toni e nell’offesa personale da quando sono entrati in Parlamento, i democratici e tutti gli altri partiti non sono stati da meno. Al contrario, sembrano aver dato vita a una continua gara al rialzo. Con cadute di stile come quella della senatrice Pina Maturani che nei giorni scorsi, alla notizia del passo indietro di Casaleggio a favore del figlio Davide a causa della malattia, ha ironizzato sul “passaggio dinastico da impero Carolingio”, con tanto di immaginata “incoronazione nella notte di Natale”. Oppure frasi come quelle di Beppe Fioroni, che oggi saluta l’uomo “intelligente, timido e arguto” e due anni fa, parlando dell’apocalittico video Gaia, si diceva convinto che “non c'è niente da ridere ma da preoccuparsi”. Tutto legittimo ovviamente, ma a quale versione bisogna prestar fede? E c’è pure la deputata Pd Enza Bruno Bossio, che afferma di piangere “un amico” e che pure in passato non ha esitato a definirlo né più né meno che “un venditore di pentole”. Conseguenze inevitabili della propaganda martellante e della politica urlata, si dirà. Che però non scalfiscono la leggerezza di espressioni pronunciate da chi ricopre pur sempre un ruolo istituzionale, fosse anche per convenienza più che convinzione. Vedi l’esponente leghista che appena un mese fa paragonava Casaleggio a Jim Jones, il predicatore americano fondatore del Tempio del popolo che indusse i suoi adepti a un suicidio di massa a fine anni ’70. O Fratelli d’Italia, che oggi ne riconosce il ruolo di “innovatore” ma il cui coordinatore Guido Crosetto appena un paio d’anni fa definiva il Movimento “una setta antidemocratica che mina le basi di convivenza civile della Nazione”. Parole in libertà, insomma, in cui è possibile affermare (e quindi far credere vero) tutto e il suo contrario. Può così perfino accadere che dai verdiniani adesso venga riconosciuta a Casaleggio “l’onestà del progetto”, che però quando si tradusse nella affollata partecipazione alla marcia Perugia-Assisi fu bollato assai poco rispettosamente come “un corteo funebre”. Una corsa alla quale non si è sottratto nemmeno Corrado Passera, già pacato ministro montiano e oggi descamisado leader di Italia unica: tre mesi fa bollava Casaleggio come antidemocratico, oggi saluta il contributo dato col Movimento “ai meccanismi di partecipazione”. I quali sono notoriamente l’esatto opposto dell’antidemocrazia. 

Io, giornalista grillino, vi racconto cosa succede nel Movimento di Grillo e Casaleggio, scrive il 19 maggio 2016 Mauro Suttora su “Il Corriere del Giorno. Da Serenetta a Serenella. La parabola del Grillo politico è riassumibile fra Serenetta Monti, candidata sindaca a Roma nel 2008, e Serenella Fucksia, espulsa dal Movimento 5 stelle (M5s) all’alba del 2016. Due donne “con le palle” per usare il bellicoso linguaggio grillino. La prima scappata un anno dopo il debutto romano (3%, quattro consiglieri municipali eletti, tre che cambiano partito dopo pochi mesi, un disastro che nessuno ama ricordare), la seconda fatta fuori con l’agghiacciante ordalia che finora ha epurato online un quarto dei 162 parlamentari eletti nel 2013. Neanche Stalin purgava i compagni a questo ritmo. In mezzo, l’incredibile storia di un partito che raggiunge il 25% al suo primo voto nazionale. Caso unico al mondo: Berlusconi nel 1994 si fermò al 21, ed ereditava gli apparati Dc e Psi. Ma, soprattutto, un fenomeno sociologico mai capitato: 162 persone digiune di politica catapultate in Parlamento da un giorno all’altro, a formare il secondo partito nazionale. È anche la prima vera forza politica popolare nella storia d’Italia. Il Pci, infatti, nonostante volesse rappresentare la classe operaia, aveva dirigenti borghesi. I grillini invece, come reddito e cultura, sono l’odierno lumpen-proletariato dei disoccupati e precari. Nozioni da Facebook, ignoranza pari all’arroganza, prevalenza del perito informatico (il diploma del loro capo, Gianroberto Casaleggio). Non hanno letto Fruttero & Lucentini, quindi a dirglielo non si offendono. Faccio vita da grillino da nove anni. Mi sono iscritto nel settembre 2007 dopo il Vaffa-day, un giorno prima di Paola Taverna. Partecipavo ai primi meetup di Roma: riunioni al quartiere africano in una sala affittata dal dentista Dario Tamburrano (oggi eurodeputato), poi al cinodromo, o sull’Ostiense. Serenetta sconfisse Roberta Lombardi alle primarie. Il 25 aprile 2008 raccogliemmo un’enorme quantità di firme davanti alla basilica di San Paolo per i referendum contro l’Ordine dei Giornalisti. Poi buttate, perché il figlio di Casaleggio sbagliò le date della raccolta. C’era grande entusiasmo, sull’onda del libro La casta di Stella e Rizzo. Ma alle regionali del 2010, disastro: solo quattro eletti in Piemonte ed Emilia. Tutti poi espulsi tranne uno. Trasferito a Milano, frequento anche qui il meetup. Lo stesso clima da caserma-convento-asilo-circo. “Suttora, non seminare zizzagna”, mi intimano sul gruppo Facebook se esprimo una critica. Nel 2013 Paola Bernetti, la più votata alle primarie per il Senato, viene fatta fuori con un trucco. I monzesi con una cordata eleggono tre senatori, Milano neanche uno. Stessi grovigli due mesi fa, alle primarie per il sindaco: solo 300 votanti, 74 voti alla vincitrice. I risultati vengono secretati, gli altri sette candidati non sanno le loro preferenze. Dal movimento della trasparenza al partito dell’omertà. Addio streaming, forum pubblici, dibattiti online. Dopo la valanga delle espulsioni regna la paura, si comunica solo su chat Whatsapp segrete. Sette attivisti milanesi osano pubblicare un giornalino a loro spese: cacciati con lettera dell’avvocato di Casaleggio. Il clima di paranoia avvolge anche i parlamentari. Appena uno azzarda qualche pensiero non conformista, è bollato come dissidente. Intanto, il fervore altruista scema. I parlamentari, che prendono 15mila euro mensili, due anni fa ne restituivano in media 5-6mila. Oggi la cifra si è dimezzata: tremila. Se va bene. Molti si limitano a 1.400-1.800: Morra, Lombardi, Giarrusso, Nuti, Fico, Sibilia. I rendiconti sono una farsa: solo autodichiarazioni, niente ricevute, nessun controllo. La cuccagna è all’Europarlamento. Ben 12 eurodeputati M5s su 17 neanche rendicontano. Possono incassare fino a 40mila euro mensili (21mila solo per i portaborse), ma tutti tranne una restituiscono appena mille euro al mese. Il siciliano Ignazio Corrao (ex portaborse in regione Sicilia) aveva assunto 11 portaborse. L’ho pizzicato con un articolo su Oggi, lui mi ha insultato, ora li ha ridotti a sette. Come un’eurodeputata abruzzese: due li tiene a Bruxelles, gli altri cinque stanno nel suo collegio elettorale. Che differenza c’è con i vecchi politici del passato? Nessuna, tranne che i grillini si vantano di non avere funzionari di partito. Invece ne hanno centinaia, stipendiati dai 1.600 eletti. Insomma, il movimento ora è Collocamento 5 stelle, scherzano i tanti ex. I nomi dei portaborse parlamentari sono convenientemente segreti, per non scoprire altri parenti e conviventi dopo quelli già scoperti (Lezzi, Moronese). Casaleggio e suo figlio comandano a bacchetta. I parlamentari sono sorvegliati da un simpatico reduce del Grande Fratello, Rocco Casalino: decide lui chi mandare in tv. Fra gli altri addetti stampa spicca un ex camionista di Bologna. Dove sono state abolite le primarie: alle comunali di giugno lista bloccata, tutti nominati dall’alto come nel listino berlusconiano di Nicole Minetti. A Trieste un eurodeputato ha candidato sindaca la moglie: metà dei grillini locali in rivolta. La sceneggiata napoletana di Quarto aumenterà la disciplina interna. Per paura di altri “infiltrati” della camorra, i candidati saranno nominati d’autorità. Così, quello che era nato come un movimento liberatorio si è trasformato nel suo esatto contrario. Hare Krishna, Scientology? Ma no, meglio Testimoni di Genova. Lì Grillo ha una delle sue tre ville. E il suo commercialista personale (nonché segretario del M5s) è stato nominato in una società regionale. Quelle che i grillini volevano abolire. 

I PARAGURI DELL’ANTICASTA.

Le 6 tribù politiche in cui si divide l’elettorato italiano. L’analisi di Swg, scrive Enzo Risso su “Formiche” il 10/07/2016.

L’arena politica non è più strutturata lungo l’asse destra-sinistra, ma è composta da sciami, da communities of sentiment che associano le persone in base ad affinità ed emozioni, costruite intorno a nemici, idee di società e visioni di futuro. L'analisi di Enzo Risso della società Swg. Finita da anni l’era delle ideologie, l’Italia sta abbandonando anche l’epoca delle appartenenze politiche, che ha segnato la Seconda Repubblica: siamo entrati a pieno titolo nell’era della politica per affinità. Il partito di massa strutturato non c’è più da tempo. Quello fluido sta lasciando il posto a nuove forme di adesione. L’arena politica non è più strutturata lungo l’asse destra-sinistra, ma è composta da sciami, da communities of sentiment (per dirla con Arjun Appadurai) che associano le persone in base ad affinità ed emozioni, costruite intorno a nemici, idee di società e visioni di futuro. Le “comunità di sentire” producono legami forti in intensità, fragili in strutturazione. Le persone si riconoscono in esse finché sono capaci di rappresentare desideri, aspirazioni e pulsioni. E poi si cambia. Dieci anni fa non era così. Nel 2006 il Paese era suddiviso in due blocchi contrapposti e impermeabili, lungo l’asse destra-sinistra: 19.002.598 (49,81%) hanno votato per il centrosinistra e 18.977.843 (49,74%) per il centrodestra. Oggi il quadro è mutato e gira attorno a un tripolarismo asimmetrico in costante movimento, con M5S e Pd sul 30% e il centrodestra (diviso) che tallona a brevissima distanza. Da che cosa deriva tale mutamento? In questi anni abbiamo assistito a un cambio di forma e di paradigma nell’adesione politica. Complice la crisi economica, la caduta del ceto medio, l’accrescersi dei fenomeni corruttivi e dell’omologazione tra i partiti, l’asse di adesione politica si è spostato dalle appartenenze alle emozioni. L’arena politica si è strutturata in comunità affezionali, generate da sensazioni come rabbia, cambiamento, fiducia, speranza, paura, apprensione. In esse si entra ed esce facilmente, con persone che, contemporaneamente, possono condividere idee e sensazioni di più community. Le nuove comunità si strutturano in base ad affinità e a temi vetrina, che implicano il posizionarsi da una parte o dall’altra. E allora si è pro o contro la casta, pro o contro gli immigrati, pro o contro le tasse, pro o contro l’Europa ecc. Ogni comunità ha un tema trainante, calamitico: il nemico del momento; ha una forza gravitazionale che funge da collante: l’idea di futuro, il mood ideale di riferimento. Osservato da quest’angolatura il panorama politico italiano appare composto da nove communities of sentiment, che si dispongono su un piano triangolare e non più sull’asse lineare destra-sinistra.

La prima comunità di cui possiamo tracciare il profilo è quella degli “Italexit”. Sono l’8% del corpo elettorale. Nemici della Ue, auspicano una Brexit italiana. Non sopportano Renzi, non vogliono politiche d’integrazione per gli immigrati e non vogliono sentir parlare di diritti dei gay.

Il secondo agglomerato è quello che ruota intorno alla sensazione “prima gli italiani”. Sono il 10%. Vogliono soluzioni nette contro immigrati, chiedono sicurezza e sono arrabbiati con i moderati che stanno sempre dalla parte del potere.

Terza comunità sono i “fiscal choc” (11%). Il collante che li unisce è l’avversione totale per le tasse. Si dicono ancora anti-comunisti e il liberismo è il loro faro.

“I moderati della governabilità”, sono la quarta community (12%). La forza gravitazionale che li tiene insieme è il fastidio per le posizioni estremiste e per il populismo. Figli di una visione razionale della politica, si riconoscono in ideali che fanno capo, pur provenendo da differenti culture, a una visione di moderatismo liberal democratico.

L’area liberal, in questi anni, si è arricchita di un altro tratto, i “liberal svecchiatori” (17%). Sono la community più grande. Fare le cose, colpire furbetti, e fannulloni, ridurre la burocrazia, nonché riformare la società e la politica, sono i loro mastici. Governare, per loro, è un fatto di dinamismo, per far uscire il Paese dalle secche e dalle gerontocrazie.

Sesta community è quella dei “big responsability” (12%). Colpire la corruzione, le mafie, ma anche chi attenta la democrazia e si approfitta della gente, sono il comun denominatore. Riformisti storici. Antifascisti, antiberlusconiani, sono attratti dalle istanze della partecipazione civica.

Alle loro spalle troviamo i “post idealisti disorientati” (8%).  Il bisogno di un Paese equo e giusto, combattere i nuovi fascismi che fioriscono, punire i corrotti, aiutare gli immigrati a integrarsi e difendere i diritti civili: ecco il mix gravitazionale che tiene insieme questa community.

La penultima tribù politica è quella degli “sharing anti-élite” (12%). I loro nemici sono le banche e i poteri forti. Il fattore che li unisce è l’avversità verso tutti. Non amano la Ue, auspicano un Paese più meritocratico e vogliono un governo che abbia il coraggio di mutare alla radice il Paese. Il loro ideale politico è quello del civismo attivo. Tra loro c’è un mix di provenienze, con segmenti antifascisti che condividono lo spazio con residuali dell’anticomunismo; antiberlusconiani, antisalviniani e antirenziani che convivono insieme.

Infine, i “decisi dell’anticasta” (11%). Desiderano un governo che rada al suolo la casta e metta al centro del programma onestà e concretezza. In termini programmatici non amano le tasse, auspicano il sostegno a piccole imprese, allevatori e agricoltori. Vogliono lottare contro banche e multinazionali e sono sensibili al richiamo degli italiani prima di tutto. Il disgusto per la vecchia politica e il definitivo superamento di centrodestra e centrosinistra sono i driver fusionali di questa community, che strizza l’occhio alle figure manageriali (se non fosse che guadagnano troppo).

Ogni community descritta ha un corpus di rifermento, una parte solida e una cassa di espansione e attrazione. Le persone che ne fanno parte possono avere atteggiamenti elettorali distinti. Possono astenersi o votare partiti differenti, secondo il momento e il tipo di elezione. Il principio guida nella scelta, tuttavia, è uno: votano il partito e il leader che sa intercettare al meglio l’affinità guida della community, che sa entrare in connessione con loro.

La casta siamo noi, scrive Christian Rocca su "Il Sole 24 ore". La casta siamo noi, nessuno si senta offeso. Siamo noi questo piatto di grano. Francesco De Gregori mi scuserà, ma siamo proprio noi che desideriamo i privilegi, il parcheggio gratuito allo stadio, la pensione baby. Siamo noi che scavalchiamo la fila, lavoriamo in nero, evadiamo il fisco. Siamo noi che aspiriamo alla vip lounge, vogliamo il pass per il centro e ci riempiamo di lei non sa chi sono io. Siamo noi che abbiamo un cugino che conosce tutti e un conoscente che è cugino di qualcuno. Anche questa è casta; e la casta, cari professionisti dell'anticasta, siamo noi. Siete anche voi, specializzati nel ditino alzato. Prendersela con quei pochi eletti è tropo facile e inutile. Vogliamo tutti godere dei privilegi, far parte del club, esserne cooptati. Adoriamo la casta, altroché. La odiamo soltanto quando le iscrizioni sono chiuse, i posti occupati, i benefici ridotti. Quando i conti saltano. Ecco che qui spuntate voi, i professionisti dell'anticasta. Fate credere che sia sufficiente un bel repulisti chirurgico e mirato, ma è una presa in giro. Senza alcuna indulgenza nei confronti di chi fa meno del proprio dovere, ma siamo davvero un Paese fondato sulla casta, costruito sul più casta per tutti, prosperato sulla fruizione democratica dei privilegi. Ci siamo inventati la spintarella, la raccomandazione è diventata un'arte, il «non-c'è-problema» è il nostro motto. La casta siamo noi, insomma. Oppure è un'invenzione (sei anni fa, per esempio, abbiamo votato contro la riduzione del numero dei parlamentari, approvata addirittura dalla casta dei parlamentari in doppia lettura bicamerale). La politica è da sempre animata da movimenti anticasta che poi si fanno casta. I sindacati nascono anticasta ma sono diventati casta. Gli ordini professionali, i magistrati, i tassisti sono piccole e grandi caste. I grandi mezzi di informazione fotografano questa realtà, la perpetuano, interpretano alla perfezione questo sentimento diffuso: sono proprio loro che ciclicamente inaugurano le stagioni anticasta, prima di rabbuiarsi accigliati per l'esplosione incontrollata, signora mia, dell'anti-politica, e poi di prostrarsi davanti ai Masaniello che loro stessi hanno contribuito a creare. Non so se avesse ragione Antonio Gramsci a sostenere che in Italia c'è il sovversivismo delle classi dirigenti o, ancora di più, Mario Missiroli quando scherzava sul fatto che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. So, però, che la casta siamo noi. Nessuno si senta offeso.

I professionisti dell'anticasta, scrive Francesco Costa su "Il Sole 24ore". Andate sul sito di Amazon e cercate la parola "casta". Otterrete più di un centinaio di risultati, soprattutto libri. La circostanza ci dice qualcosa sullo stato dell'industria editoriale italiana – se la cosa vi diverte, si può fare un giochino simile coi romanzi sui vampiri o i gialli di autori scandinavi – ma la questione è più complessa e profonda. Nell'arco di pochi anni la saggistica italiana ha prodotto descrizioni e denunce della Casta con la c maiuscola, quella descritta dagli apripista Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, e poi delle caste dei sindacati, dei magistrati, dei giornalisti, dell'industria farmaceutica, della Chiesa, della "monnezza", delle regioni, della finanza, della sanità, dei notai, della moda, delle cooperative, dell'acqua, del vino, e davvero si potrebbe andare avanti a lungo. Non è successo per caso, naturalmente. Dal 2006, più o meno, l'Italia fa i conti non tanto col luogo comune per cui "sono tutti uguali" – quello c'era da prima e ci sarà sempre, come molti luoghi comuni – bensì con quel luogo comune esteso a qualsiasi settore umano che somigli, anche da lontano, al "potere", e promosso a opinione maggioritaria, argomento politico, linea editoriale, proposta commerciale, persino programma di governo. Con effetti disastrosi, su tutti uno fondamentale e colpevole: la perpetuazione degli stessi vizi e delle stesse mediocrità che gli anti-casta in buona fede, diciamo, vorrebbero combattere. Prendiamo la politica, "la casta" per antonomasia. Solo chi ha un'idea distorta della realtà può pensare di difendere una classe dirigente che, seppure con vari e diversi livelli di colpa, è oggi una delle meno credibili e preparate d'Europa. Né di giustificare i loro molti odiosi privilegi, la loro generalmente scarsa attitudine ad assumersi delle responsabilità, gli abili magheggi con cui respingono i tentativi di ricambio e i frequenti scandali in cui alcuni di loro vengono coinvolti screditando istituzioni già debolissime. Non si può ignorare, insomma, la fondata legittimità del sentimento di nausea e rigetto avvertito dalla grandissima maggioranza degli italiani nei confronti dei politici e, per estensione, della politica. In un Paese normale, specie se dopo dieci anni di crescita zero e nel mezzo della più grave crisi economica dalla Seconda guerra mondiale, sentimenti del genere produrrebbero cambiamenti politici di portata storica: nei partiti, negli enti locali, nei governi, a tutti i livelli. Alcuni in meglio e alcuni in peggio, ma questo vale sempre. In Italia qualcosa è accaduto, ma ancora poco e da troppo poco tempo. C'entra "la casta", certo, e la sua straordinaria rendita di posizione politica, economica e mediatica. Ma c'entrano, per un pezzo più che significativo, anche uno squadrone di Guglielmo Giannini al cubo, campioni di demagogia, bravi a spararla grossa, che da anni incassano – politicamente, economicamente – i dividendi della mediocrità politica della casta, preservandola. Sono i professionisti dell'anti-casta. Beppe Grillo ne è l'esponente più sboccato, quello che unisce il massimo dell'incontinenza verbale col massimo della demagogia, il massimo delle balle col massimo del complottismo, vendendoci sopra DVD, libri e biglietti per i suoi comizi/spettacoli. Antonio Di Pietro, la Lega, Silvio Berlusconi e il variegato fronte antiberlusconiano ne sono stati, da posizioni diversissime, i più significativi interpreti politici. Striscia la Notizia e Le Iene quelli televisivi, gli ultimi soprattutto di recente. Dietro di loro crescono e prosperano una valanga di politici, scrittori, giornalisti, conduttori televisivi, opinionisti e blogger che cercano e trovano spazi di affermazione con analoghe strategie. Sono professionisti dell'anti-casta per ragioni sia di metodo sia di merito. Nel metodo, perché cercano e ottengono applausi a forza di sparate e "provocazioni". Perché associano con frequenza i loro avversari ai regimi e ai peggiori dittatori del Novecento. Perché gli è capitato di chiedere le dimissioni di governi regolarmente eletti sulla base del successo popolare di una manifestazione di piazza. Perché sono manichei, perché semplificano, brigano, cercano scorciatoie, producono denunce e appelli a nastro. Perché replicano, insomma, lo stile comunicativo di chi contestano. Nel merito, perché sono spesso imprecisi, faciloni, ingannevoli, a volte in buona fede, spesso in cattiva fede. Perché maneggiano pericolosamente la dietrologia: per fare un esempio, dicevano che il governo Prodi non sarebbe mai caduto prima di una certa data perché i parlamentari avrebbero voluto prima maturare la pensione – Beppe Grillo ci fece addirittura un conto alla rovescia sul suo blog – eppure il governo Prodi cadde prima di quella certa data. Perché dicono bugie, in nome del fine che giustifica i mezzi. Perché propagandano idee clamorosamente sballate e dannose. Lo scorso 18 ottobre un sondaggio mostrato durante Ballarò illustrava quale dovesse essere secondo gli italiani "l'intervento prioritario contro la crisi". Eravamo in pieno panico da spread, gli ultimi giorni del governo Berlusconi. Ce n'erano di cose su cui dividersi: spendere per rilanciare i consumi o tagliare la spesa per ridurre le tasse? Alzare o no l'età pensionabile? Privatizzare o nazionalizzare? Nessuna di queste ipotesi risultò in testa al sondaggio di Ballarò. Ottenne invece il 61 per cento dei voti, la maggioranza assoluta, questa proposta: "la riduzione del numero dei parlamentari". Un altro 10 per cento sostenne che la cosa da fare subito per uscire dalla crisi fosse "abolire le province". Misure simbolicamente importanti ma che non avrebbero impatti immediati sull'economia – se li avessero sarebbero probabilmente recessivi, almeno nel breve periodo – e che non scalfirebbero nemmeno il mastodontico debito pubblico italiano. È brutto da dire, ma in tutto sono un 71 per cento di italiani che non aveva idea di che cosa si stesse parlando. La storia dell'incredibile sondaggio di Ballarò mostra in modo esemplare perché la casta è orribile ma anche noi non siamo messi bene. Anni e anni di demagogia, di generici strali contro "i politici", di sparate apocalittiche, di dietrologia, di giustizialismo sfrenato e di tutto il repertorio dei professionisti dell'anti-casta, hanno contribuito in modo cruciale a deresponsabilizzare l'elettorato, abituandolo a scaricare ogni problema sui politici e lavarsi così la coscienza. Hanno formato un'opinione pubblica immatura, lagnosa, superficiale, disinformata, che ragiona per luoghi comuni e frasi fatte. E che quindi nella maggior parte dei casi non può che scegliersi una classe dirigente egoista, localista, populista, appiattita verso il basso, che non rende conto di niente in particolare perché nessuno gli chiede conto di niente in particolare, dato che "sono tutti uguali". I politici lo hanno capito e ci marciano, infatti da tempo non promettono più di essere eccezionali ma di essere "gente come noi". Rassicurano, invece che scuotere. Seguono, invece che guidare. La "casta" dei politici italiani, con tutte le sue grandi e pompose storture, non è piovuta dal cielo, né oggi rimane al suo posto grazie a superpoteri invincibili o paranormali. È stata votata, e poi ri-votata, e poi votata ancora. Dagli stessi che se ne lamentano, il più delle volte. E questo perché "la casta" dei politici è l'espressione ultima di un Paese che è interamente strutturato in modo castale. Si pensi alla nostra scarsissima mobilità sociale, per esempio, oppure allo scandaloso apartheid a cui sono relegati i lavoratori precari. Agli stipendi che si muovono solo e soltanto sulla base dell'anzianità, oppure all'arcaica e corporativa regolamentazione delle professioni. Caste, vere. In quel famoso sondaggio di Ballarò, soltanto il 5 per cento delle persone consultate disse che "l'intervento prioritario contro la crisi" dovesse essere "le liberalizzazioni". Le riforme a costo zero, scelta obbligata in tempi di vacche magre, non godono di grande popolarità fra gli italiani. O meglio: ne godono, ma finché riguardano gli altri. Il farmacista preferisce svenarsi dal notaio, aspettare un taxi per mezz'ora, spendere di più per treni e aerei e pagare le commissioni bancarie piuttosto che ritoccare appena i privilegi della sua professione. In un Paese castale ognuno difende il suo piccolo beneficio, e i politici in questo senso svolgono persino un ruolo socialmente prezioso: fanno da capro espiatorio universale. Laddove la risoluzione di problemi complicati richiederebbe sforzi di mediazione e comprensione, "la casta" fornisce una soluzione semplice e popolare a qualsiasi problema di coscienza: la colpa è tutta loro, che sono tutti uguali, e finita lì. Nel corso degli anni, questo genere di sentimento ha sviluppato negli italiani una specie di rabbia strabica. Siamo tutti presi da mille concretissime preoccupazioni quotidiane ma non siamo granché interessati a capire le ragioni di quelle mille concretissime preoccupazioni, ad andare oltre le frasi fatte. E quindi ci siamo avvitati: più ci incazziamo e più le cose non si muovono, e ci incazziamo ancora di più. Contesti sociali del genere non producono niente di buono. È opportuno concedere l'attenuante della buona fede a una buona parte delle iniziative contro "la casta", sinceramente benintenzionate. Le conseguenze però rimangono. Ogni autentica battaglia politica contro "la casta" non può fare a meno di porsi analogo obiettivo nei confronti di chi in questi anni, volontariamente o no, ha creato le condizioni perché questa prosperasse, promuovendo la sua sopravvivenza in queste o altre forme: i professionisti dell'anti-casta. Non esiste, non può esistere, una via demagogica al ricambio delle classi dirigenti italiane: se sembra che ci sia, non è un vero ricambio; se si pensa che il fine giustifica i mezzi, che "à la guerre comme à la guerre", allora si è già diventati parte del problema.

Chi sono i paladini della piazza, scrive Roberto Sapienza l'8 Novembre 2012 su “Lettera 43”. Tragedia italiana in diretta. «Ecco Paolo, qui con me c’è il signor Davide, ha una pensione di 100 euro al mese, mangia la spazzatura, l’erba dei giardini pubblici». E il signor Davide piange, mentre la telecamera zoomma avidamente sulla disgrazia. Siamo nell’antipolitica versione trash, con alcuni campioni singolari della disciplina, tutti passati e premiati dalla Casta che ora disprezzano (per far salire lo share). Prendete Roberto Poletti, volto noto ai lombardi per aver imperversato nelle tivù locali dagli Anni 90 in poi. Allievo di Gianfranco Funari, ora Poletti è l’inviato nelle tragedie «dell’Italia che non arriva alla terza settimana», in quel di Quinta colonna, con Paolo Del Debbio, altro paraguru dell’anti Casta. Poletti aizza i disgraziati, tira fuori il peggio per materializzare il concept del programma: la Casta mangia, gli italiani digiunano. Sì, ma, Poletti, tu quoque? Basta ricordare il curriculum dell’inviato anti Casta. Il simpatico ragazzotto può vantare la direzione di Radio Padania Libera, la radio del Carroccio, che conquistò facendo per l’appunto il leghista in tivù. Poi però ruppe con Umberto Bossi, ma non con la politica che lo sedusse di nuovo e lo candidò al parlamento. Nel 2006 Poletti venne infatti eletto deputato con i Verdi. Con cui poi litigò, senza però rinunciare allo stipendio da 15 mila euro né al vitalizio da ex deputato.  Ma non basta. Dopo essere stato leghista e poi verde (nel governo Prodi) l’inviato anti Casta si fece conquistare da Forza Italia, nella persona del sindaco di Milano Letizia Moratti. Durante la stagione Moratti, il ragazzotto vispo si cuccò un contrattone, pagato coi soldi nostri e del signor Davide che mangia l’erba. Primo, quello con la municipalizzata milanese dei trasporti, l’Atm, che lo prese come superconsulente per lo sviluppo dei media a 160 mila euro l’anno (ci arrivava lui alla terza settimana, eccome). Nel 2010 Poletti venne poi nominato direttore della tivù dell’Expo 2015, Milano 2015, finanziata da una cordata di imprenditori vicini all’allora sindaco e perciò subito ribattezzata TeleLetizia. Ma non basta ancora. A novembre 2011 si apprese da Repubblica che Poletti era passato da consulente per la comunicazione di Atm a quello di Trenord. Con un compenso di oltre 100 mila euro annui. L’ineffabile savonarola televisivo in salsa lombarda che ha fatto spesso i conti in tasca alla Casta è così transitato, è proprio il caso di dirlo, a Ferrovie Nord. E a fare scoccare la scintilla pare sia stata una vecchia amicizia con Giuseppe Biesuz, direttore generale dell’azienda. Maledetta Casta, come no. Anche il direttore di Poletti, Paolo Del Debbio, è uno che se ne intende. A sentirlo pare che i politici abbiano la rogna, e ci sarebbe anche da essere d’accordo se non fosse che la carriera del boccoluto lucchese è stata tutta all’ombra della Casta. Blindatissimo nell’impero Fininvest, dove ha fatto carriera con Fedele Confalonieri, e marito di Gina Nieri, potente capo delle relazioni istituzionali Mediaset, «Del Dubbio» schifa la Casta dopo averne fatto parte. Tra i fondatori di Forza Italia, si candidò a presidente della Regione Toscana nel 1995 (e fu trombato); poi diventò assessore per le Periferie e la sicurezza nella Giunta Albertini di Milano e quindi si ricandidò con Moratti nel 2011, per fare l’assessore alla Cultura (ri-trombato). Non solo, De Debbio ha una società di comunicazione che ha fatto consulenze per il ministero dei Beni culturali. Ovviamente durante il governo Berlusconi. Un simpatico paraguru televisivo. E poi c'è lui, il paraguru Gianluigi Paragone. Se ne sta lì con la chitarra, a fare il Celentano della mutua, dopo aver fatto carriera grazie a Bossi e Roberto Maroni (da cui, dicono i leghisti, andava «col cappello in mano» al ministero), che lo hanno imposto in una infornata di inutili nuovi vicedirettori in Rai, madre di tutti gli sprechi pubblici. MR. RAIDUE. Anche lui fa parlare la piazza, la «gggente». Quella che non arriva alla solita terza settimana. Ma anche lui, eccome se ci arriva. Si becca 300 mila euro l’anno, soldi pubblici, della Rai, pagati da noi e dal signor Davide che mangia l’erba. Che paraguri.

5 stelle, nobili intenzioni finora non decollate, scrive Astolfo Di Amato il 19 settembre 2016 su "Il Dubbio". Si tratta di un esperimento per creare una nuova forma di democrazia che va guardato con attenzione e senza preconcetti. Ma anche con spirito critico. L'accusa, generalmente formulata, nei confronti del Movimento 5 Stelle, è quella di essere un movimento populista, la cui forza viene soprattutto da un uso demagogico della sottolineatura delle insufficienze nella gestione della cosa pubblica che ha sinora caratterizzato, specie negli ultimi tempi, il nostro Paese. È una lettura della realtà politica del tutto inadeguata e che finisce con non cogliere alcuni tratti essenziali del Movimento che richiedono, viceversa, una più profonda attenzione. Una delle iniziative, su cui il Movimento sta impegnando maggiormente le proprie energie, è la creazione della cosiddetta piattaforma Rousseau. Il riferimento al grande pensatore francese evoca immediatamente quale sia il concetto di fondo a cui si ispira l'iniziativa e che costituisce, a ben vedere, il dato costitutivo dell'intero Movimento. Nel pensiero di Rousseau l'autorità politica risiede essenzialmente nel popolo. Essa è inalienabile, e il popolo non può affidarne l'esercizio a nessuno, né a un monarca, né a dei rappresentanti. Soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello stato in modo conforme al fine della sua istituzione, che è il bene comune. Il potere legislativo appartiene al popolo, e non può appartenere che ad esso. Poiché la legge non è che la dichiarazione della volontà generale, è chiaro che, nel potere legislativo, il popolo non può essere rappresentato. La democrazia, dunque, per essere tale, deve essere diretta. A questa concezione si è ribattuto, durante tutto l'800, che la sovranità popolare è solo un ideale che non potrà mai corrispondere ad una realtà di fatto. In ogni regime politico, quale che sia la formula che lo descrive, comunque vi è una minoranza di persone che detiene il potere effettivo. Vi è, cioè, sempre una élite la quale governa e che, nei regimi democratici, affronta una competizione per la conquista del voto popolare. In qualsiasi regime politico, dunque, vi è sempre una leadership che governa. Questa nei regimi democratici viene ad essere scelta attraverso una libera competizione elettorale. La democrazia, dunque, non sta nel fatto che vi sia una diretta formazione delle leggi da parte del popolo, ma sta nel fatto che le leadership non sono scelte attraverso la trasmissione ereditaria o la cooptazione (si vedano al riguardo gli studi di Gaetano Mosca). Il Movimento 5 Stelle è intervenuto nella questione proponendo internet come strumento di democrazia diretta. Il ruolo, solo apparentemente defilato ma in realtà centrale, di Gianroberto Casaleggio, è stato quello di guardare ad internet come strumento di democrazia diretta. In effetti, internet, con la sua inarrestabile capacità di disintermediare tutti i rapporti, sembra essere uno strumento perfettamente idoneo a realizzare l'ideale di Rousseau: una democrazia caratterizzata dalla partecipazione diretta alle decisioni di tutti i cittadini. Se, però, si passa dalla utopia alla prassi la delusione è enorme. La prima osservazione da fare è che internet ha solo apparentemente disintermediato e reso i rapporti più orizzontali. Nella realtà ha dato vita a potentati economici enormi, capaci di influire in modo dittatoriale sulla vita di tutti, che non hanno precedenti nella storia dell'umanità: si pensi ad Amazon, a Facebook, a Google, etc. La seconda osservazione è che i famosi algoritmi, che governano internet e che domani dovrebbero governare la piattaforma Rousseau, sono solo apparentemente neutri: in realtà dànno un valore, secondo criteri che possono essere diversi, alla realtà che organizzano. Basta ricordare, al riguardo, la variabilità dei risultati che possono offrire i motori di ricerca. L'ultima osservazione, non meno rilevante, è che internet ha mostrato una particolare attitudine a far emergere anche la parte peggiore degli individui ed a dare corpo alle aspirazioni più irrazionali ed elementari. Il che costituisce un ambiente di elezione per la demagogia. Ed è innegabile che un atteggiamento fortemente giustizialista sia una componente costitutiva del Movimento. Se, poi, si guarda alla realtà dei 5 Stelle, si deve rilevare che le figure del garante, del direttorio, e lo stesso ruolo del figlio di Casaleggio, finiscono con l'essere una smentita clamorosa della filosofia della democrazia diretta. Ci si trova in presenza di una vera e propria élite, cui è, di fatto, delegato il compito di governare. E', questa, una osservazione che riguarda il "sistema" e non la qualità delle singole persone. La differenza rispetto agli altri sta, forse, nella circostanza che la "classe" politica del Movimento è stata selezionata attraverso internet e non attraverso i gazebo e le primarie, che sono lo strumento attraverso cui i partiti tradizionali hanno cercato di uscire dai circoli ristretti. Troppo poco per dire che si tratta di una nuova forma di democrazia. A parte il rilievo che quella classe politica appena formata si è già, di fatto, istituzionalizzata. Tutto questo non toglie, tuttavia, che si tratta di un esperimento animato da nobili intenzioni e che per la originalità delle vie che tenta di percorrere va guardato con attenzione e senza preconcetti. Ma anche con spirito serenamente critico.

Cinque Stelle, la lezione di Roma: Grillo e la democrazia diretta non bastano per governare. Leaderismo e “uno vale uno” non bastano. Ora al Movimento serve personale per governare: farlo senza snaturarsi, però, è una missione (quasi) impossibile, scrive Lorenzo Castellani su “L’Inkiesta” il 5 Settembre 2016. Come insegna la lezione politica di Gianfranco Miglio, uno dei più influenti politologi italiani degli anni ottanta e novanta, per analizzare i fenomeni politici e le loro trasformazioni bisogna rintracciarne le "regolarità", ovvero gli oscillamenti, le ciclicità, le continuità. La storia politica del Movimento 5 Stelle sembra scandita da due grandi regolarità: la burocrazia politica e la personalizzazione politica, ovvero la leadership carismatica. In questi anni, il Movimento si è mosso tra l'organizzazione dei mezzi e l'incarnazione del suo messaggio nelle figure politiche di riferimento. In altre parole, il Movimento 5 Stelle è un pendolo che oscilla tra la leadership popolare e la tecnocrazia, in cui figura assente un elemento fondamentale: una classe politica diffusa, organica e omogenea. Ed è tutta la sua storia a dimostrarlo. In principio c'erano i meetup, gli incontri aperti a tutti i cittadini con la promessa della democrazia diretta, dell'uno vale uno, del coordinamento online per agire capillarmente a livello locale. C'era Beppe Grillo con i V-Day, gli spettacoli, i comizi fiume, i nomignoli, la satira feroce contro la casta e il sistema, il blog. C'era la Casaleggio e Associati con le sue analisi dei dati, dei flussi elettori, delle emozioni in rete e della comunicazione alternativa. Gli elementi delle regolarità tipiche dei grillini erano già evidenti: una fase di costruzione dell'organizzazione meticolosa, capace di arrivare in tutte le piazze, di coinvolgere ed interessare milioni di cittadini insofferenti verso la politica tradizionale, un leader capace di fare da scudo all'inesperienza e ai novizi del Movimento, una macchina della comunicazione sovrana e centralista. In questa prima fase, i tre pilastri si muovono insieme, ma è l'organizzazione burocratica della politica a essere preminente almeno fino al 2011. I due anni successivi, 2012 e 2013, sono indiscutibilmente gli anni di Beppe Grillo. Un leader assoluto, unica figura riconoscibile del Movimento, comiziante capace di occupare piazze, televisioni, giornali pur dichiarandosi contrario a qualsiasi rapporto con i media, anzi proprio per questo il "rimbalzo" mediatico delle battaglie del comico genovese è stato così forte. In quest'epoca non esistevano i Di Maio, i Di Battista, i Fico, le Ruocco e le Taverna. Tutti erano semplicemente figli della personalizzazione del Movimento cucita addosso al suo speaker. Erano, per l'appunto, i grillini, massa anonima di cittadini arrabbiati. Questi anni, però, sono anche quelli del consolidamento della Casaleggio e Associati in cui la gestione delle votazioni online di programmi, primarie e battaglie politiche viene gestita dalla macchina informatica della società milanese. Mentre Grillo parla alle piazze, la comunicazione è accentrata nelle sapienti mani di Gianroberto Casaleggio e dei suoi fedelissimi. La regolarità politica, in questa fase, si dipana nella leadership di Beppe Grillo e nella comunicazione corporate applicata alla politica. In principio c'era la promessa della democrazia diretta, dell'uno vale uno, del coordinamento online per agire capillarmente a livello locale. C'era Beppe Grillo con i V-Day, gli spettacoli, i comizi fiume, i nomignoli, la satira feroce contro la casta e il sistema, il blog. C'era la Casaleggio e Associati con le sue analisi dei dati, dei flussi elettori, delle emozioni in rete e della comunicazione alternativa. Dopo lo straordinario successo elettorale del 2013, un'altra svolta. Grillo si defila progressivamente e l'eclissi definitiva del comico si avrà definitivamente nel 2014 dopo il Malox in diretta streaming che segue il risultato deludente delle elezioni europee, quelle in cui il nuovo Partito Democratico renziano porta a casa il 41%. In questi quasi due anni, tra il febbraio 2013 e la fine del 2014 il Movimento torna a "burocratizzarsi", ad evidenziare l'altra delle sue regolarità. Prima di tutto i grillini parlamentari imparano a sopravvivere senza lo scudo mediatico di Beppe Grillo: il partito si istituzionalizza, con grandi meriti dei suoi fondatori. La strategia del comico di mettersi in disparte risulta vincente perché il Movimento non si disperde né si si esaurisce con la sua leadership. Anche le lotte interne al partito vengono tenute sotto controllo dal vigile occhio della Casaleggio che elimina il dissenso territoriale e parlamentare a suon di espulsioni. È il periodo della setta, ma anche una fase d'instabilità che viene governata con abilità dalla società milanese. A fine novembre 2014 viene varato il direttorio pentastellato da Grillo e Casaleggio. Tramonta l'era del blog e della democrazia diretta. Ancora una volta i fondatori del Movimento introducono una novità nella politica italiana: non un solo leader, né un'investitura (troppo presto e troppo contrario ai principi originari del movimento), ma un organo collegiale ristretto composto dai cinque parlamentari più rappresentativi. Nonostante questo provvedimento, si entra in un'altra fase del ciclo politico: la regolarità della burocratizzazione non regge e, lentamente ma con una progressione inesorabile, ritorna la regolarità della personalizzazione e della leadership. Dal direttorio emergono, infatti, due grandi anime e correnti interne al Movimento: quella moderata e dialogante di Luigi Di Maio e quella movimentista e aggressiva di Alessandro Di Battista. Al centro tra le due, la Casaleggio e Associati a decidere in quale momento spingere sull'uno oppure sull'altro. Sui media e nel Paese si parla sempre meno del Movimento e dei "grillini" e sempre di più dei due giovani leader. Nel 2016 si registra un'altra variante della politica a cinque stelle. Virginia Raggi e Chiara Appendino diventano sindaco di Roma e Torino. Sono due candidate ad immagine e somiglianza della nuova leadership nazionale. Che portano in Giunta tecnici di un certo profilo: magistrati, professionisti, docenti universitari, alti funzionari amministrativi. Nel 2016 si registra un'altra variante della politica a cinque stelle. Virginia Raggi e Chiara Appendino diventano sindaco di Roma e Torino. Sono due candidate ad immagine e somiglianza della nuova leadership nazionale. Fine dei candidati beceri, con basso livello d'istruzione e lessico da strada, largo a giovani e sorridenti professioniste, presentabili e televisive, adatte al pubblico elettorale dei grandi centri urbani. E' una scelta che paga in termini elettorali e che va di pari passo all'ascesa politica del duo Di Maio e Di Battista. Tuttavia, la regolarità della burocratizzazione torna a fare capolino a livello locale perché tanto Raggi quanto Appendino selezionano la propria giunta non per meriti o affiliazione politica, ma per curriculum. Si avviano giunte tecnocratiche in cui non entrano nell'esecutivo i consiglieri comunali più votati, bensì tecnici di un certo profilo: magistrati, professionisti, docenti universitari, alti funzionari amministrativi. Personalità che difficilmente s'incontrano ai banchetti di volantinaggio. L'intransigenza anti-casta e antipolitica, fortemente alimentata dalla Casaleggio, continua tanto nelle scelte amministrative quanto nei problemi che questa pone con le dimissioni in massa di assessore al bilancio, capo di gabinetto e amministratori delegati delle municipalizzate che la Raggi si trova a fronteggiare in queste ore. Probabilmente per i pentastellati è giunto il momento di provare a superare le "regolarità" che scandiscono la loro storia trovando un metodo per formare una classe politica diffusa e omogenea magari attraverso la creazione di corpi o livelli intermedi interni al Movimento. L'impressione è che il Movimento sia capace di selezionare personalità elettoralmente performanti ma che non sia capace di ampliare la propria classe politica al punto da renderla capace di governare realtà complesse. Insomma, se domani i 5 stelle vincessero le elezioni politiche con Di Maio o Di Battista alla testa, chi sarebbero i ministri? Chi i capi di gabinetto? Quanto pagherebbe il Movimento per la mancanza di un gruppo politico forte? Virginia Raggi lo sta sperimentando sulla propria pelle. Probabilmente per i pentastellati è giunto il momento di provare a superare le "regolarità" che scandiscono la loro storia trovando un metodo per formare una classe politica diffusa e omogenea magari attraverso la creazione di corpi o livelli intermedi interni al Movimento: leadership personali-verticali e tecnocrati selezionati dalla Casaleggio&Associati non bastano più a chi pensa di poter governare l'ottava potenza economica mondiale.

Nel M5S volano i coltelli. Il mistero del video tagliato dalla Raggi. Il messaggio della Raggi era stato concordato con Grillo. Ma alla fine il sindaco l'ha modificato. L'ira del comico e l'idea di ridimensionare Di Maio, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 08/09/2016, su "Il Giornale".  L'impalcatura dei Cinque Stelle costruita da Beppe Grillo sta scricchiolando. All'interno del Movimento non c'è più armonia e il rapporto tra il sindaco Virginia Raggi e il resto della truppa grillina è ai minimi storici. L'ultimo colpo d'accetta l'ha dato proprio il primo cittadino di Roma. Il video di 1 minuto e 35 secondi con cui ieri la Raggi ha provato "a fare chiarezza" e che avrebbe dovuto sedare le liti grilline è stato invece nuova benzina sul fuoco. L'intero testo del messaggio era stato concordato con Grillo, ma la Raggi alla fine ha deciso di modificarlo e di omettere una parte del discorso. Il video era atteso per le quattro del pomeriggio ma è stato caricato online solo alle 19. E il motivo si trova proprio nella lunga catena di telefonate con cui Grillo, il Direttorio e il sindaco hanno concordato ogni singola parola, ogni concetto e ogni "omissione". Secondo quanto racconta il Corriere in un retroscena, però, alla fine la Raggi ha deciso di fare di testa sua. E ha fatto arrabbiare di nuovo tutto il vertice grillino. In particolare, il sindaco si sarebbe "dimenticata" di comunicare che Raffaele Marra, il discusso vicecapo di Gabinetto con un passato con Alemanno e la Polverini, sarebbe stato ricollocato altrove. Non è un segreto che la Raggi vorrebbe tenere Marra al suo posto. Ma Grillo non ne vuole sapere, convinto come è che personalità estranee al Movimento possano bloccarne l'attività riformatrice. Bene. Dopo le telefonate pomeridiane, ricostruisce sempre il Corriere, la decisione presa era quella di "risolvere pubblicamente" il caso Marra. Ovvero inserire nel video l'annuncio del suo ricollocamento. E invece la Raggi non l'ha detto e ha scelto di fare di testa sua. Subito dopo la pubblicazione del video sono partite le proteste dei senatori grillini. Il Direttorio e il sindaco hanno ricevuto decine di telefonate di protesta. E così nel Blog di Grillo viene aggiunto un post scriptum in cui si aggiunge che "l'attuale vicecapo di Gabinetto Raffaele Marra verrà ricollocato in altra posizione". Una pezza che spegne le polemiche, ma l'ira del comico non è del tutto placata anche se dal palco di Nettuno (dove la Raggi non c'era) non l'ha dato a vedere. Eppure pare che Carlo Ruocco in una delle tante riunioni fatte in questi giorni avrebbe detto che la Raggi è peggio di Marino: "Quello faceva perdere voti al Pd solo a Roma, mentre lei ci distrugge in tutta Italia. Non la voglio più vedere...". Lei non cede di un millimetro. Uscendo stamattina dal Parco della Resistenza per l'anniversario dell'8 settembre 1943, la Raggi ha risposto a un cittadino che dicendo: "Non mollo". Ma deve gestire anche la vicenda Muraro. Altra gatta da pelare. "Vogliamo leggere le carte", è la versione ufficiale. Ma l'imbarazzo è enorme. Come scrive il Giornale oggi in edicola, infatti, oltre all'indagine già aperta nei suoi confronti la Muraro ora rischia nuove incriminazioni: "Prima le è stata contestata solo la violazione di norme ambientali, poi il reato di abuso d'ufficio e ora potrebbe aggiungersi il reato di corruzione". Ma non è solo Virginia a doversi difendere dagli attacchi interni. Tutto il Direttorio è finito sotto accusa quando ieri a Palazzo Madama i senatori grillini si sono visti per parlare delle fughe di notizie di questi giorni e della gestione (goffa) di tutta la vicenda Muraro. "Non possiamo stare nelle mani di un gruppo di immaturi", avrebbe detto qualcuno alla riunione. Non solo. "Nel Movimento - scrive il quotidiano di Via Solferino - si coltiva anche l’ipotesi di una svolta che riguarda proprio il direttorio. Potrebbe essere proposto dai vertici di Rousseau un rinforzamento della struttura organizzativa, liberando i deputati da alcune deleghe che gravano sulla loro attività. Enti locali e gestione dei meet up potrebbero passare di mano, affidate non più a singole persone (Di Maio, Fico e Di Battista) ma una organizzazione più ramificata. La durata di una tregua che appare fragile, forse, passa anche da strade fino a poco tempo fa del tutto inaspettate". Insomma, una bocciatura ai "giovani" del Direttorio che in questa fase hanno dimostrato poca capacità di reazione agli attacchi esterni.

L'ex grillino attacca la Raggi: "Espressione dei poteri forti". Luis Alberto Orellana, espulso dal Movimento, si scaglia contro il sindaco Raggi: "Lei espressione dei poteri forti", scrive Rachele Nenzi, Martedì 06/09/2016, su "Il Giornale". "I 5 stelle dicono che la Raggi è sotto attacco perché si mette contro i poteri forti, ma forse lei stessa è espressione di questi poteri forti. Resto sorpreso da questa continuità della sindaca Raggi con persone come il vice capo di gabinetto Marra, che hanno avuto a che fare con la giunta Alemanno. Raggi, per potersi candidare, aveva taciuto del suo passato in uno studio legale vicino a Previti". Non le manda a dire Luis Alberto Orellana, eletto con i Cinque Stelle e poi fuoriuscito (o meglio espulso) nel febbraio 2014. In una lunga intervista a LaPresse spiega i motivi che lo inducono a sostenere che la Raggi sia espressione di quei poteri forti che dice di combattere. Orellana era presente alla audizione in commissione Ecomafie che ha visto protagoniste la Raggi e la Muraro. "Sono rimasto attonito di fronte alle loro dichiarazioni - dice-. Hanno ammesso di sapere delle indagini sull' assessore Muraro solo perché costrette dal fatto che le loro dichiarazioni rese in ecomafie sarebbero state acquisite dalla procura: dire il falso sarebbe stato grave. Senza questo avrebbero continuato a negare. Siamo dovuti arrivare a questo punto". Poi critica le regole del Movimento che la sindaca sembra non dover seguire. "Raggi non doveva prima dirlo ai cittadini e a Grillo, con cui ha fatto un contratto, vincoli accettati per essere candidata, accettando poi anche il minidirettorio? - si chiede Orellana - Raggi doveva informare e correre a dirlo a Grillo. E ieri è venuto fuori che invece non lo ha detto né a Grillo né al direttorio, solo ad alcuni del minidirettorio". Il grillismo di cui si era fatto portavoce non esiste più. "Alla luce del caso della Giunta Raggia Roma e della vicenda dell'assessore Muraro, vedo invece una involuzione sempre piu negativa. E quindi mi son convinto che il M5S è una presa in giro, ed è meglio che finisca e si riparta. A questo punto non so chi e come possa ripartire, ma non certo con questo M5S. Raggi non è trasparente, lo abbiamo visto ieri in commissione Ecomafie. E il M5S si è rivelato una grande presa in giro rispetto ai valori che professava e in cui io avevo creduto". Un Movimento guidato dalle paranoie, dalle paure di inciuci, forse incapace di governare. "La situazione di oggi nella giunta Raggi è figlia di ciò che accadeva tempo fa. Già allora c'era una atmosfera paranoica, una chiusura paranoica, una visione in cui tutto il mondo era contro i 5 stelle. Si inventava un nemico esterno, i poteri forti, per non essere trasparenti, cadendo in palese contraddizione coi principi del movimento. Io e i 4 colleghi senatori delM5S espulsi con me fummo accusati proprio di volere fare una corrente". Infine Orellana chiede alla sindaca di fare "un passo indietro" e di presentarsi "in consiglio comunale a chiedere di nuovo la fiducia e a verificare se ce l'ha. Se non ce l'ha, a Roma può arrivare un commissario. Io ho capito che anche molti suoi consiglieri dei 5 stelle sono rimasti perplessi".

Più che le spese folli le inchieste, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 13/09/2016, su "Il Giornale". Non abbiamo mai simpatizzato per la casta dei politici, tanto meno per quella sostanzialmente inutile e faraonica delle Regioni. Abbiamo dato ampio risalto a tutte le inchieste sulle spese pazze dei consiglieri di tutte le regioni d'Italia che tanto hanno contribuito a indignare l'opinione pubblica, a ingrassare l'astensionismo e il partito di Grillo. Sì, abbiamo contribuito allo sputtanamento della classe politica, ma adesso c'è un problema. La maggioranza di quelle inchieste giudiziarie non regge, non come poteva sembrare a caldo. Ieri il giudice per l'udienza preliminare del tribunale di Ancona ha disposto il non luogo a procedere perché il reato non sussiste per 55 consiglieri accusati dai pm di peculato e truffa, cinque li ha assolti per rito abbreviato e solo sei andranno a giudizio ma non per tutti i capi di accusa. Parliamo quindi di un'inchiesta flop, simile nei risultati a quelle che a fatica e rilento stanno andando in porto un po' in tutta Italia. Certo, abbiamo ancora in mente i casini combinati nel Lazio da Batman-Fiorito, a Milano da Trota-Bossi e tanti altri casi di mascalzoni. Ma evidentemente non è vero che i politici sono «tutti ladri» come hanno voluto farci credere le procure (ieri, per esempio, è stata archiviata l'inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa sull'ex presidente del Pd campano Stefano Graziano). Inseguendo migliaia e migliaia di scontrini di caffè e ricevute di ristoranti come fossero carichi di cocaina abbiamo intasato i tribunali, speso una montagna di euro ben più grande del presunto maltolto, sputtanato persone e istituzioni, e tutto questo per cosa? Sei rinvii a giudizio nelle Marche, qualcun altro qui e là (e non è detto che questi signori saranno alla fine condannati). Io dico che anche un solo scontrino non a norma di legge è una vergogna ma altra cosa - e ben più grave - è fare perdere a cuor leggero e con una buona dose di dilettantismo la fiducia dei cittadini in chi ci amministra. Se poi la conseguenza è di consegnare alla Raggi e alla sua banda di boy scout un po' bugiardi il governo oggi della capitale e, forse, domani del paese, allora ti viene il dubbio che il vizietto della magistratura di fare politica selettiva non sia solo una fantasia. Quel «tutti ladri» è un cancro, spontaneo o indotto non lo so. Ma è un cancro.

Una banda di ballisti. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 7/09/2016, su "Il Giornale". Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, cadde su una bugia. Un suo successore, Bill Clinton, rischiò la stessa fine e si salvò in extremis solo perché si pentì e chiese scusa in tempo. Margaret Thatcher sull'argomento aveva un'idea più femminile: «Non si raccontano - ebbe a dire - bugie deliberatamente, diciamo che a volte bisogna essere evasivi». Virginia Raggi, neosindaco di Roma, Luigi Di Maio e tutta la banda dei Cinquestelle, travolti dallo scandalo della bugia sul fatto che nessuno sapeva che una loro assessora era indagata, sono quindi in buona compagnia. Del resto perché sorprendersi di un politico bugiardo? Machiavelli, già cinquecento anni fa, inseriva la menzogna tra le arti di cui un principe deve essere dotato se vuole ben governare. Il problema nasce quando sul malcapitato si accende il faro del sospetto, perché secondo gli esperti, per provare a coprire una bugia - esattamente come accade tra marito e moglie fedifraghi - è necessario raccontarne almeno altre sette. Che è esattamente quello che sta succedendo in queste ore nei piani alti del partito di Grillo, tra accuse e difese, sospetti e veleni incrociati. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo. E adesso si fa dura, perché, come dice un antico proverbio russo, con le bugie si può andare avanti ma mai tornare indietro. E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni. Il Cinquestelle non è il partito Bengodi, non lo è mai stato e mai lo sarà, è semplicemente una casta che sta tentando di scalzarne un'altra. Con l'aggravante dell'inesperienza e dell'incapacità che si sono dimostrate maggiori del previsto, non solo a Roma ma in tutte le città in cui sono stati messi alla prova. C'è da gioire di tutto questo? No, per niente. Milioni di italiani sono stati ingannati dal moralismo di un comico e da un gruppo di ragazzini; Virginia Raggi, se come probabile resterà in sella grazie a qualche espediente mediatico, sarà un sindaco dimezzato, bugiardo e inaffidabile. E parliamo del sindaco di Roma capitale, non so se mi spiego.

A Roma si schianta la "superiorità" grillina. È caduta la maschera, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 6/09/2016, su "Il Giornale". La sindaca Virginia Raggi e la sua assessora Paola Muraro hanno mentito ai romani e a tutti gli italiani. Ieri la prima cittadina di Roma non ha potuto che confermare l'indiscrezione da noi pubblicata, e cioè che entrambe erano a conoscenza fin da luglio che la procura aveva iscritto la Muraro sul registro degli indagati. Non è quindi vero che «nessuno sapeva», come sostenuto fino a poche ore fa. Dopo quelli sugli indagati colpevoli a prescindere e sugli stipendi da fame, cade così un altro dei dogmi sui quali i grillini hanno costruito la loro fortuna, quello della trasparenza senza se e senza ma. Proviamo a riepilogare. In due mesi di giunta Raggi (si fa per dire non avendo fatto un tubo) abbiamo imparato che: essere indagati non deve comportare conseguenze politiche automatiche e che un sindaco Cinquestelle può affidare incarichi delicati a persone sotto inchiesta; un manager pubblico va pagato per quello che si presume valga, anche centocinquanta-duecentomila euro se lo si ritiene; si possono nascondere ai propri elettori fatti sgradevoli - oggi tipo avvisi di garanzia, domani chissà - se nuocciono all'immagine del partito o dell'ente che si presiede; le guerre di potere interne a un movimento contano e valgono più dell'interesse comune; centri di potere possono raccomandare con successo nominativi da piazzare in posti strategici della pubblica amministrazione. Insomma, in poche settimane Virginia Raggi ha distrutto il sogno di qualche milione di italiani che ingenuamente pensavano di aver trovato nei Cinquestelle il rimedio a tutte le storture della politica e ai mali del paese. Ciò non toglie che forti del consenso ottenuto dal sessanta per cento dei romani, la Raggi e i suoi devono andare avanti, o almeno provarci. Ma che la smettano di romperci i santissimi con la loro presunta superiorità etica e morale che ovviamente non è mai esistita se non nelle battute del fondatore-comico. Devono cambiare postura e linguaggio, via quei sorrisetti allusivi da primi della classe. Che tirino su le maniche e immergano le mani nella melma della capitale. Come disse il grande Rino Formica «la politica è sangue e merda». Quindi fuori educande, signorini, pretini e perditempo. E anche belle signore e signorine dalla lacrima facile e dalla retorica dozzinale. Per governare Roma servono uomini, magari in gonnella, ma uomini.

Adesso togliete una stella ai Cinque stelle, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 16/09/2016, su "Il Giornale". Se le stelle sono un simbolo di qualità i grillini ne stanno perdendo almeno un paio. Non un partito di lusso che mette in rete le migliori energie di questo Paese, ma una mezza topaia tirata su da un brillante capocomico e dalla sua compagnia di egocentrici arruffoni. Roma da questo punto di vista non perdona. È come uno specchio magico, svela chi si para davanti, poi magari digerisce di tutto, ma i difetti del potere li mette a nudo. Quasi sempre nel suo millenario cinismo lascia fare, non si ribella, continua a campare, però smaschera gli angeli e gioca a scopone con i diavoli. C'è stato di peggio dei grillini, ma pure con loro non può fare a meno di gridare la verità: quelle cinque stelle sono una patacca. C'è un sindaco che si farà anche chiamare sindaca, ma che ogni giorno dimostra come tra il peggiore sindaco e una sindaca a cinque stelle non ci sia una gran differenza. Dopo tre mesi ha una giunta con nove poltrone vuote, l'emergenza rifiuti di nuovo sul tavolo, ma soprattutto per le strade e il suo Movimento che non vede l'ora di rinnegarla. Roma, per i Cinque stelle, doveva rappresentare la prova capitale, l'esame di ammissione al governo. Bene, come al solito Roma non ha tradito la sua storia di dissacratrice, svelando al Paese il vero volto dei grillini. Indagati in giunta, l'assessore Muraro. Bugie spacciate per verità e mail nascoste, Di Maio. Senatori in rivolta nemmeno fossero senatori pd. Il direttorio che perde la direzione. Vertici segreti alla faccia della trasparenza. Il Movimento unito soltanto da coltellate e correnti, al punto che Grillo sembra il Cavaliere, ufficialmente appoggia la Raggi, in segreto, dicono i bene informati, dà il via libera alla deputata Lombardi, accesa rivale della sindaca, per un post su Facebook in cui attacca il braccio destro della Raggi: Marra è un virus che infetta il Movimento. Non sappiamo se il virus sia Marra, di sicuro, però, il Movimento è già infettato. Ha fatto buchi nella Rete, ha trasmesso il veleno del sospetto a quasi tutti gli eletti, sempre meno lucidi, vedi i congiuntivi sbagliati e gli errori di geografia, sempre più nemici di se stessi. Tanto che la Raggi è spesso sul balcone del Campidoglio, l'unica iniziativa che attesti che effettivamente è lei la sindaca di Roma. Salvatore Tramontano

Roma, ecco le lobby che hanno avvelenato il Campidoglio. I gruppi di potere in passato hanno affiancato un po’ tutti: da Alemanno a Mastella. Per poi infiltrarsi tra i nuovi vincitori del Campidoglio. E infettare la giunta di Virginia Raggi, scrive Emiliano Fittipaldi il 12 settembre 2016 su "L'Espresso". Per capire chi e come ha infettato la giunta di Virginia Raggi spostandola su territori che Beppe Grillo ha definito ai suoi «oscuri e pericolosi» per il futuro della sindaca e dell’intero M5S, non bisogna fare un salto solo in piazza del Campidoglio. Ma spostarsi in moto dall’altro lato del Tevere, arrivare nel quartiere Prati e bussare a un elegante condominio di via Muzio Clementi, a due passi dalla Corte di Cassazione. È lì, infatti, che ha sede lo studio legale Sammarco, diventato in tre mesi la principale centrale strategica della giunta a Cinque stelle, il luogo in cui vengono (venivano, dopo l’intervento del leader e della Casaleggio associati) consigliate nomine e scelte politiche. Quella dell’ex capo della Raggi, Pieremilio Sammarco - fratello di Alessandro, storico avvocato di Berlusconi, Dell’Utri e Previti - è una delle tante influenze esterne che hanno infiltrato, fin dall’inizio, la squadra del sindaco. Un ascendente a cui va sommato quello di alcuni funzionari vicini alla destra, di ex finanzieri estranei al grillismo, oltre alle pressioni di lobbisti passati da Mastella a Pecoraro Scanio fino a Rutelli, che sono entrati in plancia di comando a fianco della sindaca. Correnti e personaggi spesso non allineati, l’un contro l’altro armati, che hanno o stanno ancora consigliano a una truppa ingenua e sbandata, tattiche politiche, piani di comunicazione, e che ha provato (riuscendoci) a piazzare assessori amici e funzionari compiacenti. Una classe dirigente che l’assessore uscente Carla Raineri, appartenente a una cordata perdente, ha definito «del tutto mediocre», e che – nonostante gli interventi tardivi dei vertici che hanno deciso di fare tabula rasa per ripartire da zero - può distruggere sul nascere l’esperienza pentastellata nella capitale d’Italia e, di conseguenza, minare l’intero progetto governativo dei grillini. Non è un caso, però, che le infiltrazioni di camarille e poteri lontani anni luce dal M5S siano spuntati proprio a Roma, una città - a differenza di Torino, Parma e Livorno - che da molto tempo ha superato il limite della governabilità. «Il “mondo di mezzo” cantato dal presunto boss di Mafia Capitale Massimo Carminati sembra indistruttibile e pronto a infiltrare la forza politica», chiosa un magistrato della procura di Roma. Già: i miasmi della Suburra – come dimostra il caso dell’indagine sull’assessore ai rifiuti Paola Muraro - sembrano impossibili da bonificare. Andiamo con ordine, partendo dai Sammarco. Grazie a Fiorenza Sarzanini del “Corriere” sappiamo che è stato Pieremilio, titolare dello studio dove ha lavorato la Raggi, a contattare l’amico e magistrato Raffaele De Dominicis per proporgli di diventare il nuovo assessore al Bilancio. Sammarco è un cognome che sotto il Colosseo rimanda, da sempre, a Cesare Previti: se nello studio dell’ex ministro azzurro pluripregiudicato la Raggi ha fatto pratica forense (omettendo di scriverlo nel curriculum), Pieremilio, prima di aprire il suo ufficio, lavorava proprio per Previti. Anche il fratello maggiore Alessandro, penalista e oggi consulente esterno dello studio del fratello, è legato a filo doppio con Forza Italia: ha difeso Dell’Utri, Previti e Berlusconi. «La Raggi la conosco ed è un’ottima collega. È una persona proba, può essere un ottimo candidato», disse lo scorso febbraio il legale dell’ex Cavaliere, che forse non sapeva che il suo sodale fosse indagato per abuso d'ufficio, macchia che ha costretto Raggi a levargli l'incarico dopo solo 24 ore. «Do solo qualche consiglio, De Dominicis lo conosco e credo sia persona preparata», ha detto Pieremilio dopo aver raccomandato il vulcanico magistrato contabile in pensione, famoso al pubblico per aver chiesto (senza successo) 234 miliardi alle agenzie Moody’s e S&P per una presunta manipolazione del rating dell’Italia e tra i colleghi per aver tappezzato i corridoi della Corte dei Conti del Lazio con una dozzina di quadretti di un suo amico pittore raffiguranti ammalianti sirene. Sarà. Ma il Richelieu della Raggi non solo era presente in Campidoglio in prima fila durante la prima riunione di giunta (stretto tra i genitori di Virginia, come uno di famiglia), non solo accompagnava l’allieva appena eletta alla messa nella basilica di San Giovanni lo scorso fine giugno, ma il suo studio si è anche attivato - durante la campagna elettorale - per favorire la raccolta fondi per la candidata. «Virginia, De Dominicis non può entrare in giunta», ha detto Grillo chiudendo la porta. Qualcuno crede che ci sia l’ombra dello studio Sammarco anche dietro la cavalcata di Raffaele Marra, fino a qualche tempo fa uomo ombra prima di Gianni Alemanno poi diRenata Polverini, diventato vice capo gabinetto della sindaca e fino a pochi giorni fa indiscusso agit prop del “raggio magico” che guida il Campidoglio. In realtà è stato il vicesindaco Daniele Frongia a presentarlo alla Raggi. Peccato che Marra sia non un funzionario qualunque, ma un ex ufficiale della Finanza che nel 2006 appese la divisa al chiodo diventando un fedelissimo di Alemanno. Che seguì prima all’Unire (come direttore dell’area “Galoppo” sotto le dipendenze di Franco Panzironi, poi arrestato per Mafia Capitale), poi al Comune, quando il gruppo dei “neri”  sloggia il centrosinistra dopo decenni di opposizione. È con loro che Marra acquista rapidamente potere. Diventa il capo del Dipartimento del Patrimonio, lancia strali a destra e manca cercando di fare pulizia, e quando rompe con il sindaco riesce a trovare riparo prima alla Rai berlusconizzata, poi alla Regione Lazio dove signora e padrona è l’ex sindacalista di destra Renata Polverini. Diventato a sorpresa, grazie alle buone entrature di Frongia, vicecapo di gabinetto ha prima chiamato nel giro che conta l’amico Salvatore Romeo (ora capo della segreteria della Raggi) e l’ex finanziere Gianluca Viggiano, poi ha cominciato una guerra sotterranea contro il suo capo, Carla Raineri, un magistrato che era stato voluto dall’economista Minenna come garanzia per entrare in giunta. Da giorni i bene informati raccontano che sia stato Marra a suggerire alla Raggi di mandare all’Anac di Raffaele Cantone un parere sulla delibera di nomina della Raineri, mossa che è stata usata come il grimaldello per farla dimettere. A parte avvocati considerati vicini alla destra previtiana e professionisti di stagioni chiacchierate, sono altre le lobby oscure che sarebbero riuscite a (ri)entrare in Campidoglio usando il passepartout del M5S. Almeno secondo le ipotesi investigative dei magistrati della procura di Roma, in effetti, l’assessore Paola Muraro sarebbe legata a doppio filo sia con l’ottavo re di Roma, Manlio Cerroni detto “Il supremo”, proprietario della discarica di Malagrotta e della ditta di smaltimento Colari (un uomo che ha spadroneggiato sia con il centrosinistra che durante il regno della destra) sia con la vecchia dirigenza dell’Ama, la municipalizzata per il trattamento dei rifiuti, composta dal duo Panzironi-Giovanni Fiscon, entrambi a processo per Mafia Capitale. Il pm Alberto Galanti, che ha iscritto la Muraro nel registro degli indagati per reati ambientali, vuole infatti capire se fu l’esperta la vera mediatrice degli interessi illegittimi di Cerroni e degli ex uomini di Alemanno travolti dall’inchiesta sulla mafia romana guidata da Salvatore Buzzi e Carminati. «Muraro? È una brava munnezzara con cui ci si intende», ha intanto chiosato maramaldo Cerroni, intervistato dal “Venerdì”. Non è tutto: la spazzatura e il nome di Panzironi fanno però capolino anche nella biografia segreta della Raggi, che per un anno e mezzo, tra il 2008 e il 2009, fu presidente per conto dello studio Sammarco di una società, la Hgr srl, di proprietà di Gloria Rojo, oggi dirigente in Ama ed ex segretaria proprio di Panzironi. Affaristi, ex fascisti, indagati eccellenti, grumi di potere che nessuno poteva immaginare potessero rispuntare grazie all’ascesa di Virginia. In verità prima del redde rationem di tre giorni fa dentro il movimento qualcuno si era già accorto che qualcosa non andava. Il gruppo della Raggi è stato infatti ostacolato dai big (Grillo ha chiesto inutilmente la testa di Marra fin dall’inizio) ed esponenti del direttorio più vicini a politiche di sinistra. È un fatto che Carla Ruocco, Paola Taverna e Roberta Lombardi abbiano cercato di consigliare figure diverse e che il sindaco, per coprirsi le spalle dal fuoco amico, abbia chiesto sostegno a Luigi Di Maio. Il quale ci ha messo la faccia rischiando di perderla, ma non è stato lui in prima persona ad occuparsi del Campidoglio: ha infatti delegato il “dossier Roma” al suo nuovo plenipotenziario, Vincenzo Spadafora. Un lobbista assunto qualche mese fa per gestire e curare i rapporti istituzionali del leader, che per scalare Palazzo Chigi ha deciso di parlare anche con mondi con cui il M5S non ha mai dialogato. Prima di organizzare incontri tra Di Maio e alcune società di lobbying e piazzare la sua amica Laura Baldassare all’assessorato al Sociale (i due fino a pochi mesi fa lavoravano insieme all’Unicef, di cui Spadafora è stato presidente), Spadafora ha lavorato per politici e ministri di ogni colore, passando dalla corte di Clemente Mastella (nel 1999 era nella segreteria del Campano Andrea Losco) a quella di Alfonso Pecoraro Scanio, di Francesco Rutelli, fino a quella del sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, grazie alla quale è diventato presidente delle Terme di Agnano spa. Intelligente, prudente (unico inciampo qualche intercettazione senza conseguenze penali con il capo della “cricca” degli appalti pubblici Angelo Balducci, con cui Spadafora interloquiva con espressioni tipo: «Presidente, comandi!»), capace e ambizioso, il lobbista è un tecnico (senza laurea) così moderato da riuscire a conquistare anche qualche esponente del centrodestra: non è un caso che nel 2011 riesca a diventare grazie a Gianfranco Fini e Renato Schifani il primo Garante per l’infanzia con stipendio da quasi 200 mila euro, il capo di un minuscolo carrozzone (10 dipendenti) la cui nascita fu voluta dall’allora ministro Carfagna. Quando capisce che Laura Boldrini non gli rinnoverà l’incarico e che i renziani, per lui, non muoveranno un dito, si sposta però sui Cinque stelle. In particolare punta tutte le sue fiches sull’amico Luigi, che ha conosciuto nel 2013 e che lo assume nel suo staff ad aprile, come capo delle sue relazioni istituzionali: finora il talento di Spadafora è stato impegnato soprattutto per costruire un cordone di sicurezza intorno alla sindaca romana: è lui a suggerire l’assessore Baldassarre, è lui a convincere Minenna a venire a Roma. «Noi avremo tutti contro, in due mesi ci siamo messi contro le lobby, come quella delle Olimpiadi», ha urlato Di Maio la settimana scorsa. «Diamo fastidio ai poteri forti ci vogliono fare cadere», ha insistito la Raggi qualche giorno fa. Ma il Campidoglio è andato a fuoco soprattutto per le azioni dei lobbisti a cinque stelle, e a causa di correnti avvelenate che hanno portato la nave di Virginia a un repentino naufragio. Ora tutto è stato resettato: ma non è detto che i miasmi della Suburra non portino presto nuove cancrene.

Così il braccio destro di Raggi faceva affari con l'immobiliarista della Casta. Il fedelissimo della sindaca Raffaele Marra, quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio in quota Alemanno, comprò un attico di lusso dal gruppo di Sergio Scarpellini. Ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. In barba al conflitto di interessi: il costruttore, definito da Grillo «un evasore di Iva» e da Di Battista «un gentleman detto "er cavallaro"» fa business milionari con il Comune, scrive Emiliano Fittipaldi il 14 settembre 2016 su "L'Espresso". Sergio Scarpellini è un immobiliarista romano. Famoso per essere il costruttore preferito dalla Casta, perché proprietario di alcuni palazzi affittati per lustri dalla Camera dei Deputati a peso d'oro. Un imprenditore pieno di amici ed entrature importanti considerato, dai big del movimento Cinque Stelle, uno dei nemici pubblici numero uno della Capitale. Un simbolo plastico della “suburra” di affaristi che si arricchisce grazie ai politici e ai soldi pubblici, sempre a scapito dei contribuenti. Non a caso Beppe Grillo, in un post del gennaio 2015 dedicato ai «regali di Renzie ai grandi evasori» definiva Scarpellini «un evasore di Iva», mentre Alessandro Di Battista (dopo la battaglia vittoriosa del M5S per la rescissione di un contratto ventennale, quello di palazzo Marini, costato in totale «500 milioni di euro») lo definì letteralmente «un gentleman meglio noto come “er cavallaro”». È sorprendente scoprire, dunque, che il braccio destro di Virginia Raggi, l'ex vice capo di gabinetto Raffaele Marra (dopo la crisi della scorsa settimana in procinto di trasferirsi, pare, ad altro incarico apicale) nel 2010 abbia comprato un attico proprio da una società del gruppo dell'immobiliarista, ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione di euro rispetto ai prezzi di mercato. Circa il 40 per cento in meno rispetto a un altro acquirente che, nello stesso periodo, prese da Scarpellini un appartamento gemello dirimpetto al suo. La compravendita di Marra fu perfezionata, tra l'altro, quando il dirigente era seduto - grazie agli eccellenti rapporti con l'ex sindaco Gianni Alemanno - sulla poltrona di direttore dell'Ufficio delle Politiche abitative del Comune di Roma e su quella, strategica, di capo del dipartimento del Patrimonio e della Casa, la prima ottenuta nel giugno del 2008 e la seconda a fine 2009. L'acquisto tra due privati dovrebbe escludere in teoria qualsiasi conflitto di interessi. Però Scarpellini era (ed è ancora) proprietario di sedi affittate direttamente al Comune di Roma con contratti a sei zeri, ed aveva (ed ha ancora) interessi su importanti aree edificabili che obbligano il gruppo a un rapporto costante (a volte complesso) con il Campidoglio e i suoi uomini. Basti pensare allo scandalo del palazzo a Largo della Loria, di proprietà di un ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi, affittato dalla Milano 90 di Scarpellini per 2,1 milioni annui e poi subaffittata al Comune di Roma per 9,5 milioni nel 2008. O ai sei milioni annui che il Campidoglio ha dato all'immobiliarista per alcuni locali usati dall'assemblea e dal gabinetto del sindaco a Via delle Vergini, e fortunatamente restituiti. La sindaca di Roma Virginia Raggi difende senza indugio la sua assessora all'Ambiente indagata Paola Muraro e l'ex fedelissimo di Alemanno Raffaele Marra. La Muraro è stata collaboratrice dell'Ama per 12 anni, anche in tempo di Mafia Capitale. Marra quando era direttore del Patrimonio e della Casa del Campidoglio, comprò con uno sconto di quasi mezzo milione di euro un attico di lusso dal gruppo di Scarpellini, come rivela l'Espresso.it. Perché la sindaca continua a fare quadrato su due figure così difficili da digerire anche al suo Movimento? Chi c'è dietro di lei? “L'Espresso” ha consultato gli archivi dell'Agenzia del Territorio, scoprendo il giro di compravendite tra il costruttore e Marra, ancora oggi principale collaboratore della sindaca e definito qualche giorno fa «un bravo ragazzo» dall'assessore Adriano Meloni, nonostante gli attacchi di parte del direttorio grillino per il suo passato alemanniano. Il dirigente aveva deciso di trasferirsi nell'elegante residence dell'Eur all'Acqua Acetosa già a fine 2009, quando aveva firmato un rogito con la società Progetto 90 di Scarpellini. Allora la società aveva quasi finito di costruire i cinque palazzi di un complesso residenziale di lusso, con due piscine (una di 25 metri con lettini e ombrelloni e un’altra destinata ai bambini), comprensiva di palestra, videosorveglianza e guardiania H24 e un bellissimo campo da golf da 18 buche, non ancora ultimato. L'appartamento di cui Marra si innamora è uno dei più belli del mazzo: un attico su due piani di 168 metri quadri con doppio terrazzo (nella brochure di vendita si spiega che le fioriere sono «ad irrigazione automatica»), ingresso, soggiorno, cucina, ripostiglio, tre bagni e due camere. Gemello per valore catastale e metratura di quello comprato qualche mese prima da un imprenditore, che – documenti alla mano - aveva sborsato per un gioiellino (secondo la pubblicità sono tutti con «infissi in rovere, pavimenti pregiati in marmo o parquet a listoni in rovere, armadi a muro realizzati artigianalmente, cucine in marmo, bagni in marco con doccia o vasca idromassaggio, androni con boiserie e cornici in gesso, pavimento in travertino») più un box auto ben 1.204.000 euro Iva inclusa. Marra un anno dopo riesce a concludere l'affare della vita, perché davanti al notaio Claudio Togna e al figlio di Scarpellini, Emanuele, si mette in tasca una casa identica a soli 728 mila euro, con un risparmio di quasi mezzo milione rispetto a quello che il gruppo immobiliare considerava evidentemente prezzo di mercato. I due appartamenti sono nell'edificio E, quelli più alti. Facendo altri raffronti, è un fatto che Scarpellini venda a una ragazza, nell'edificio A, un appartamento della metà del valore catastale rispetto a quello di Marra quasi allo stesso prezzo: 676 mila euro. Stesso criterio, quello della dura legge di mercato, per il signor A.V., che è riuscito a ottenere un piano terra di sole 5 stanze a 724 mila euro. “L'Espresso” ha provato a chiedere all'ufficio acquisti il costo attuale di un attico nello stesso comprensorio: “Ce ne sono pochi invenduti. Ne abbiamo uno di 110 metri quadri calpestabili nell'edificio B, che è un po' più basso, più un grande terrazzo. Costa 1.350 milioni di euro, ma c'è un minimo di trattabilità. I prezzi li abbiamo abbassati, qualche tempo fa stavamo a 10 mila euro al metro quadro. Oggi stanno a nove». Marra ha comprato a circa 4.500. Un business da leccarsi i baffi. Ma ci sono altri particolari che rischiano di imbarazzare Raggi e il M5S. Il dirigente comunale, che ha già versato una caparra nell'ottobre del 2009, il 23 giugno 2010 salda la Progetto 90 srl con un assegno da 400 mila euro, a cui aggiunge quello ottenuto attraverso un mutuo da 250 mila euro della banca Barclays. Ma Scarpellini sembra aver preso davvero a cuore questa compravendita: lo stesso giorno, davanti allo stesso notaio, compra la vecchia casa di Marra, in tutto quattro camere di una modesta palazzina distante poche centinaia di metri dalla nuova residenza. Scarpellini per accaparrarsela gira a Marra un assegno da 400 mila euro attraverso la sua Progetto 90, stessa identica cifra che qualche minuto dopo Marra gira al gruppo Scarpellini per comprarsi l'attico. Un nuovo affare per il funzionario: Marra nel 2003 aveva infatti acquistato la sua prima casa in via Francesco Gentile attraverso una cartolarizzazione fatta dalla società SCIP: l'immobile era infatti dell'Inpdap. Nel 2003 il fedelissimo di Virginia la paga poco meno di 140 mila euro. Sette anni dopo Scarpellini la ricompra a prezzo triplo. Non sappiamo perché il costruttore fa, dopo il maxi sconto, un secondo favore al consigliere della sindaca. Scarpellini infatti non solo nell'appartamento non ci metterà mai piedi (vivendo in una stupenda villa sull'Appia Antica che fu di Silvana Mangano) ma se ne libererà appena possibile (un anno dopo) per 380 mila euro. Perdendoci dunque 20 mila euro. Non sappiamo nemmeno se negli anni Marra e Scarpellini siano rimasti in contatto. È un fatto che, dopo qualche screzio con Alemanno, Marra sia poi stato nominato (dal 2011 al 2013) dall'allora governatore della Regione Lazio direttore Regionale del Demanio e del Patrimonio. Anche l'ente oggi guidato da Nicola Zingaretti ha affittato immobili da Scarpellini. Finora nessuno conosceva gli affari immobiliari del fedelissimo di Virginia. Nemmeno Grillo, che lo considerava inadatto a fare il capo o il vicecapo di gabinetto già a luglio perché considerato troppo vicino alla destra romana. Marra è stato spostato a capo del personale del Campidoglio, con una insolita delibera a tempo che scadrà a fine ottobre. Si tratta di una poltrona di enorme peso che sovrintende su 24 mila dipendenti diretti, che arrivano a 60 mila se si considerano anche gli impiegati delle partecipate. Chissà se Raggi, dopo il nuovo scandalo, riuscirà a proteggerlo ancora.

La casa di Marra scovata dall'Espresso fa litigare il M5S: Lombardi-Ruocco contro Raggi. La notizia data dalla nostra testata sull'abitazione comprata con uno sconto di oltre mezzo milione da parte dell'ex vicecapo di gabinetto della sindaca 5 Stelle riaccende lo scontro tra i pentasellati, scrive R.I. il 15 settembre 2016 su "L'Espresso". La casa di Raffaele Marra riaccende la guerra tra le correnti del Movimento 5 Stelle. La notizia di una casa comprata dal costruttore Sergio Scarpellini con un maxi sconto da parte dell'ex vice capo di gabinetto della sindaca Virginia Raggi, rivelata da Emiliano Fittipaldi sull'Espresso, diventa un nuovo motivo di polemica tra le diverse anime dei pentastellati. La deputata romana dei 5 Stelle Roberta Lombardi, già membro del mini direttorio che doveva aiutare Virginia Raggi nella formazione della giunta ed è stato recentemente sciolto, condivide su Facebook la notizia dell'Espresso e lancia un ultimatum alla sindaca: "Qualcuno si è autodefinito "lo spermatozoo che ha fecondato il Movimento". Io penso che la definizione esatta sia "il virus che ha infettato il Movimento". Ora sta a noi dimostrare di avere gli anticorpi. PS: poiché la trasparenza è un valore del M5S, sono sicura che il sindaco Raggi pubblicherà subito i pareri dell'Anac in suo possesso sulle nomine di Marra e Romeo". Un commento durissimo che conferma i pessimi rapporti tra Lombardi e Raggi, già emersi nei mesi scorsi e culminati nelle "dimissioni" di Lombardi dal mini-direttorio romano in chiaro segno di protesta rispetto alle prime nomine della sindaca, tra cui proprio quella di Raffale Marra, ora spostato al personale. L'appello di Roberta Lombardi è stato condiviso anche da Carla Ruocco, membro del direttorio nazionale del Movimento e tra le più critiche sulle gestione del "caso Roma" da parte di Raggi e Luigi Di Maio. I primi e più votati commenti sotto i post da parte della base grillina prendono però le difese della sindaca e si scagliano contro le due parlamentari, accusate di stare danneggiando il Movimento con le loro uscite. "Questi Post autolesionistici fanno solo male a noi del Movimento", scrive Massimo, "Cancella il tuo post sarcastico e chiedi scusa, se ti rode qualcosa, parlane in privato con chi di dovere, ma non metterci tutti noi alla Gogna mediatica". "Questo post è vergognoso! Roma ha bisogno di essere salvata non di queste faide interne di merda!" chiosa Pasquale. La casa di Marra. Come ha rivelato l'inchiesta esclusiva dell'Espresso, Raffaele Marra per decisione di Gianni Alemanno nel 2010 siedeva sulla poltrona di direttore dell'Ufficio delle Politiche abitative del Comune di Roma e su quella di capo del dipartimento del Patrimonio e della Casa. In quell'anno ha acquistato un attico dall'immobiliarista Sergio Scarpellini, uno dei più vicini al potere romano e proprietario di molti palazzi affittati alle istituzioni capitoline, ottenendo uno sconto di quasi mezzo milione sul prezzo di mercato: circa il 40 per cento del valore complessivo della residenza.

M5S, le case degli uomini di Casaleggio pagate coi fondi pubblici del Senato. I Cinque Stelle hanno speso 160 mila euro per gli appartamenti dello staff comunicazione, 40 mila dei quali per il solo alloggio di Rocco Casalino, l’ex del Grande fratello. Anche se la normativa prevede che i soldi siano usati per “scopi istituzionali”, scrive Paolo Fantauzzi il 10 marzo 2015 su "L'Espresso". Contro gli affitti d’oro di Montecitorio il Movimento cinque stelle ha condotto una delle sue più popolari battaglie. Al motto di “Basta milioni spesi per gli uffici parlamentari, anche gli onorevoli devono fare la loro parte” (e stringersi se necessario), la Camera ha alla fine rescisso parte dei contratti di locazione sottoscritti con la società Milano 90 dell’immobiliarista Sergio Scarpellini. Non a caso il deputato Riccardo Fraccaro, protagonista della “campagna” in Ufficio di presidenza, l’ha definita «una delle più grandi vittorie politiche del Movimento». Solo che nel loro piccolo anche i grillini, che rivendicano orgogliosamente la loro diversità e morigeratezza, rischiano di impantanarsi proprio su una vicenda immobiliare. Dall’inizio della legislatura, ha ricostruito l’Espresso, al Senato hanno speso infatti 160 mila euro per pagare l’affitto di casa ai dipendenti della comunicazione, la cinghia di trasmissione tra lo staff della Casaleggio associati a Milano e il gruppo parlamentare di Palazzo Madama. Un manipolo di fedelissimi (qualcuno è arrivato a Roma direttamente dalla srl del guru), scelti "su designazione di Beppe Grillo" come recita il codice di comportamento degli eletti e che si è accasato in una delle più belle zone di Roma, compresa fra il Pantheon e via Giulia. L’affittuario più noto è il coordinatore dello staff Rocco Casalino, divenuto celebre come inquilino di un’altra casa: quella del Grande Fratello (all'interno della quale, in tempi pre-Movimento, si dichiarava convinto sostenitore di Rifondazione comunista). Quando a fine 2012 provò a candidarsi per le elezioni regionali in Lombardia, ai militanti che lo criticavano sul blog per il suo passato televisivo rammentò la dura infanzia in Germania, in un piccolo appartamento dove il padre "per risparmiare non accendeva mai i riscaldamenti". Tempi quanto mai lontani, fortunatamente: dall’estate del 2013 l’ex gieffino ha trovato insieme a un collega il suo buen ritiro al quinto piano di un bellissimo palazzo secentesco in via di Torre Argentina, fatto costruire da una nobile casata viterbese e da due secoli di proprietà di una storica famiglia romana. Una stupenda casa a due passi dal Pantheon: per le sue due camere, il salone e i due bagni il gruppo parlamentare ha speso finora 40 mila euro di affitto. Altri 50 mila euro, invece, sono andati per la pigione di un grande appartamento abitato fino allo scorso autunno da altri tre dipendenti. Compreso - a quanto risulta a l’Espresso - il fedelissimo Nik il Nero, il camionista-videomaker divenuto celebre per i suoi editoriali politici girati nella cabina del suo tir. Anche in questo caso, un’abitazione assai blasonata: è infatti del conte Emo Capodilista, che - ironia della sorte - essendo fra i proprietari di Palazzo Grazioli, è anche padrone di casa di Silvio Berlusconi. Prima di lasciare Roma per Bruxelles, invece, il precedente capo della comunicazione Claudio Messora viveva in un grazioso monolocale dietro piazza Navona, anche questo all'interno di uno splendido palazzo nobiliare: 1.600 euro al mese per un quinto piano con angolo cottura. In tutto, circa 26 mila euro di affitto. Andati a un altro proprietario dal sangue blu: una nobildonna appartenente alla famiglia dei marchesi di Sambuci, sposata col discendente di una famiglia di conti partenopei di antico lignaggio. Solo nel 2014, ha ricostruito l’Espresso, il Movimento cinque stelle ha speso 100 mila euro per le case dei dipendenti della comunicazione. Ai quali vanno aggiunti altri 52 mila nel 2013, 8 mila di agenzia e altri 5 mila di utenze domestiche. Totale: 165 mila circa. Forse troppo per gli stessi grillini, visto che negli ultimi mesi è andata in scena una “spending review” che dovrebbe consentire loro di spendere meno per l’anno in corso: alla fine dell’anno scorso le case affittate erano cinque, i dipendenti che ci vivevano erano sei, e costavano 6.291 euro al mese. Ma se l’attenzione che i Cinque stelle riservano ai loro dipendenti è lodevole, il problema è che si tratta di fondi pubblici. Il Senato infatti eroga ai gruppi parlamentari una somma in base alla loro consistenza (2,5 milioni l’anno nel caso del M5S) ma i contributi, recita il regolamento all’articolo 16, “sono destinati esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti all'attività parlamentare e alle attività politiche ad essa connesse (…) nonché alle spese per il funzionamento dei loro organi e delle loro strutture, ivi comprese quelle relative ai trattamenti economici del personale”. Insomma, in teoria il denaro non potrebbe essere utilizzato per stipulare contratti di locazione a uso abitativo ma solo per pagare gli stipendi dei dipendenti. Se poi il Movimento ritenesse la casa un benefit indispensabile, potrebbe sempre aggiungere un extra in busta paga. Come accade alla Camera, dove per alcuni dipendenti è previsto un rimborso a piè di lista per l’affitto (peraltro sottoposto a tassazione). E che l’alloggio non rientri nelle fattispecie previste sembra confermarlo indirettamente il fatto che l’anno scorso questa spesa è stata inserita sotto la voce “godimento di beni terzi”. «Era quella che ci si avvicinava di più» spiega a l’Espresso il senatore Giuseppe Vacciano, ex tesoriere del gruppo: «E comunque quella dell’affitto è una clausola prevista nel contratto come fringe benefit, penso ci sia poco da fare…». Nel 2014 il rendiconto del M5S ha superato il controllo di conformità ma la società di revisione (la Bdo) ha rammentato nella sua relazione come “la verifica dell’inerenza delle spese documentate agli scopi istituzionali per i quali i contributi sono erogati ai gruppi parlamentari è demandata al Collegio dei questori ed esula dalla nostra attività”. Le cose adesso potrebbero cambiare e sul prossimo rendiconto rischia di abbattersi la censura dei tre senatori chiamati a controllare i bilanci dei gruppi (una è la grillina Laura Bottici), che pure lo scorso anno non hanno sollevato obiezioni. «Di recente c’è stata una segnalazione su questo aspetto e, se fosse confermata, siamo intenzionati a chiedere chiarimenti espliciti e approfondimenti» dice a l’Espresso il senatore-questore Lucio Malan. "Il rischio, nel caso le motivazioni addotte dal Movimento cinque stelle non venissero accolte, è che al gruppo siano decurtati i soldi spesi finora per i contratti di locazione".

M5S, "Due misure tra Roma e Parma": Federico Pizzarotti contro Luigi Di Maio & Co. Il sindaco di Parma, ottenuta l'archiviazione nell'inchiesta per abuso d'ufficio, vuole le pubbliche scuse dei vertici del Movimento. Soprattutto da chi ha usato l'indagine «come pretesto per la sospensione». Ma il reintegro non è scontato, scrive Luca Sappino il 16 settembre 2016 su "L'Espresso". «Ora qualche sassolino dalla scarpa me lo toglierò». Federico Pizzarotti festeggia con un post su Facebook la richiesta di archiviazione arrivata nell’indagine a suo carico per abuso d’ufficio. «Sono contento, soprattutto per la mia città, per il Teatro Regio e per i miei concittadini», scrive perfettamente calato nel ruolo di sindaco. Ma anche il militante 5 stelle che è in lui è sicuramente contento. E infatti prende subito il sopravvento. Perché Federico Pizzarotti, come noto, è stato sospeso dal Movimento 5 stelle, accusato di aver nascosto la notizia dell’inchiesta. Inchiesta che lui ha sostenuto di non dover rivelare perché frutto - come ripete oggi - «di esposti delle opposizioni privi di contenuto». «Sapevamo di aver agito in massima coscienza», dice il sindaco pensando alle nomine del Teatro Regio. Pizzarotti ora vorrebbe le scuse, quindi, e non tanto dell’opposizione quanto dei suoi colleghi di partito. E vorrebbe spendere il credito acquisito per quella che ritiene un’ingiusta gogna, poi, nella partita per l’organizzazione del Movimento. La richiesta di Pizzarotti su questo è la stessa di sempre: il sindaco di Parma vuole un’assemblea pubblica che meglio decida regole e cariche, una cosa così simile a quello che i vecchi partiti chiamerebbero congresso. Ma prima vuole le scuse, il reintegro e una pubblica ammenda da celebrarsi nella sua Parma. «Questa indagine», dice, «per i vertici nazionali del Movimento, è stata una scusa». Un pretesto per la sospensione. L’indagine, continua il sindaco, è diventata «il pretesto per metterci in difficoltà: peccato si sia trasformata in un boomerang per chi ha dato giudizi sprezzanti sulla nostra situazione». A partire da Luigi Di Maio, dunque, «che ora si ritrova in una condizione a Roma che è sotto gli occhi di tutti». La vicenda di Pizzarotti si intreccia così con quella di Virginia Raggi e sull’inchiesta che coinvolge l’assessore Paola Muraro e che sia Raggi che Di Maio hanno per settimane tenuto segreta. Di Maio ha spiegato - ma solo quando sono usciti gli sms e le mail - di averlo fatto perché pensava che l’indagine fosse solo lo sviluppo di un dossier presentato in procura dell’ex Ad di Ama, Daniele Fortini, di area Pd. Ma qual è la differenza con la valutazione di Pizzarotti? «Non andava sospeso Di Maio come non andavo sospeso io, ma è evidente che si sono usate diverse misure per Roma e Parma», dice il sindaco, attorno al quale c'è un'area di dissenso che è cresciuta molto in queste settimane. E che crescerà ancora se, come sembra, i vertici del Movimento si dimostreranno effettivamente intenzionati a non reintegrare Pizzarotti, non prima di averlo fatto penare ancora, sostenendo che il problema non è l’effettiva responsabilità nell’inchiesta ma la mancanza di trasparenza nella comunicazione. Pizzarotti sa però che è questo il momento in cui può ottenere qualcosa. Ecco perché si vuole mostrare superiore, e dice che le scuse non gli interessano (anche se poi dice che il reintegro «non può avvenire via mail»): «Mi interessa un'apertura reale», dice, «a me interessa si cambi rotta, perché ho a cuore il futuro del Movimento che rischia invece di essere divorato da lotte intestine e correnti». E se poi il reintegro veramente non dovesse arrivare, dice il sindaco all'Adnkronos, «valuteremo cosa fare». Ma certo, «sarebbe ancor più evidente l'inadeguatezza dei presunti vertici e la loro incapacità di gestire queste situazioni». «Non c'è volontà di decidere, probabilmente, perché si ha timore del giudizio degli attivisti», continua il sindaco, che si augura comunque «che il direttorio torni sui suoi passi e venga a Parma a chiarire». «Altrimenti sarà un ulteriore boomerang per tutti loro».

Da Casaleggio a Casalino, così cresce il potere dell'uomo-ombra a 5 stelle. Nella crisi del movimento di Beppe Grillo l'ex Grande Fratello è ora regista della comunicazione. E di molto altro. Perché non vi sono ormai aree sulle quali non abbia un ascendente, scrive Susanna Turco il 12 settembre 2016 su "L'Espresso".  Nel bel mezzo della bufera che sconvolge il Movimento, lui sembra aver stretto un patto con il demonio. Rocco Casalino, 44 anni, ingegnere elettronico, semidio talebano dell’ortodossia grillina, è infatti oggetto di un fenomeno tutto particolare: più nei Cinque stelle aumenta il caos, e più il suo potere invisibile cresce. Per il capo dei capi della comunicazione M5S, colui che porta nel mondo il verbo di Casaleggio, è una danza sul bordo dell’effimero. Col delirio di Roma, poi: figurarsi. Ma intanto, dai e dai, il suo ruolo pare assurto a parodia dell’investitura di un cavaliere medievale: “Coordinatore della Comunicazione Nazionale, Regionale e Comunale del Movimento Cinque stelle, Portavoce e Capo comunicazione del Gruppo M5S al Senato”. Così recita la più recente definizione ufficiale di ciò che fa, da lui diffusa a destra e a manca. Accipicchia. Non vi sono ormai aree del movimento sulle quali Casalino non abbia un ascendente. Via via s’è fatta universale, tra i parlamentari, la platea di quelli che rispondono: «Chiedi prima a Rocco». C’è chi arriva a definirlo spin doctor, chi al contrario argomenta l’incapacità a grandi strategie. Ad ogni buon conto, lui parla poco, scrive ancora meno - vanta sei lingue straniere, gli invidiosi sostengono zoppichi giusto in italiano - ma via WhatsApp si fa intendere alla perfezione. La sua missione di penombra corre parallela a quella più arruffata e allegra del popolo dei militanti, e in fondo anche degli eletti: mentre gli altri festeggiano o discutono, conquistano voti o li perdono, lui - l’anima oscura - se ne sta dall’altro lato della sala, pronto a mettere in scena il prossimo gioco, il prossimo espediente. Una volta è la gara del silenzio o l’arte della fuga, come nei giorni più neri del caso Muraro, quando non si trovava parlamentare disposto a dire alcunché; un’altra è l’effetto uomo invisibile, come accadde al senatore Alberto Airola nei momenti difficili delle Unioni civili, quando Casalino in pratica lo fece sparire dai radar; in taluni casi speciali - come per esempio quando scoppiò il caso di Quarto - sono pure i quattro cantoni, anzi tre (Di Maio, Fico, Di Battista), spediti contemporaneamente su diverse reti tv a parare i colpi. Quale che sia quello prescelto, il gioco sarà eseguito con cortese e spietata determinazione. Perché Casalino, col suo passato trash tra scuderia di Lele Mora e litigate in tv, notorietà e oblio, ha un passo cinico che gli dà una misura d’assoluto in ciò che fa. Se tace, se mente, se giura vendetta: indietro non torna. Del resto è così, raccontano, che entrò nelle grazie di Gianroberto Casaleggio: con una esibizione di fedeltà talmente marcata da non poter esser ricambiata altro che con incondizionata fiducia. Anche se poi altri, nemici del popolo di certo, la spicciano così: «È solo ruffianeria». Ha funzionato alla perfezione, comunque. Casalino è alla fine il più longevo dei comunicatori, li ha fatti fuori tutti: Caris Vanghetti, il primo che introdusse i grillini alla Camera, Daniele Martinelli, che durò pochissimo, e poi Nicola Biondo, Claudio Messora, di cui cominciò come vice. Pugliese nato in Germania, cresciuto e diplomato nella bianca Ceglie Messapica (Brindisi), laureato a Bologna, ha vissuto dieci anni a Milano e per questo tutt’ora si definisce milanese. È stato marchiato a fuoco dalla partecipazione alla prima edizione del Grande Fratello, quella condotta da Daria Bignardi. I Cinque stelle sono la sua seconda, o terza, incarnazione, ma la televisione è da sempre il suo specchio, la telecamera il suo metro. Ai tempi del GF Casalino l’ha subìta: poi ha lavorato per dominarla. Ci ha messo quindici anni a passare da uno status all’altro e oggi è lui a concedere la presenza del grillino in un certo studio televisivo, o evento giornalistico in genere. Esempi a iosa, dei suoi diktat o “regolette” memorizzati da autori e giornalisti: «pollaio mai», «niente contraddittorio», «per i big solo faccia a faccia», fuori gli altri ospiti, in studio ce ne possono essere «massimo tre», «massimo quattro»; il Cinque stelle deve essere l’unico di opposizione; e comunque per i politici, come per i giornalisti, vi è una black list di indegni (per esempio personaggi come Daniela Santanché e Maurizio Gasparri sono vietatissimi). Raccontò Casalino al “Quotidiano di Puglia”, nel lontano 2000, che nella casa del Grande Fratello, «le telecamere rappresentavano qualcosa di soprannaturale, un dio che ti controlla». Di qui l’evoluzione: nella vita dei Cinque stelle, ora è Casalino che controlla. In un completo capovolgimento di fronti (da controllato a controllore) di uno che da ragazzo ha dato la propria vita in pasto alle telecamere e adesso, per contratto, manda in televisione le facce e le reputazioni altrui. Con l’ambizione finale di essere diventato lui, il grande occhio che tutto vede e giudica. Un semidio, appunto. Ce ne è abbastanza, per abbozzare la trama di una specie romanzo di formazione, tra reality, social e blog? E dire che tante volte Casalino ha invocato il diritto all’oblio: «Non giudicatemi per quello che sono stato, ma per quello che sono». Eppure, altro che inchiodarlo: il passato è la sua chiave di volta, è ciò che l’ha mandato avanti. Altro che ingegneria. Tanto più che poi lui quasi sempre di televisione si è occupato: oltre a Mediaset, ha lavorato per Vero Tv, Telenorba, Telelombardia. Quando approdò ai Cinque stelle, se ne giustificò: «Sono un giornalista televisivo, purtroppo, e questo mi porta a dover andare spesso in televisione: sono praticamente in onda da dodici anni tutti i giorni, solo che su televisioni minori», chiariva nel dicembre 2012, quando il Movimento lo rifiutò come candidato in Lombardia. Ancora, in effetti, discettava di ex grandi amori cubani davanti alle telecamere di Vero tv, chiarendo di aver “capito che mi innamoravo senza razionalizzare”. Con la calata a Roma, appresso a Vito Crimi, dal 2013 in poi ha smesso. Conquistandosi la fiducia dei Casaleggio e anche, di riflesso, quella del cofondatore Grillo (che lo chiama “Casa”) al punto - dicono - da convincerlo ad andare ospite da Vespa, nel 2014, e riuscendo poi persino a non farsi poi cacciare per il madornale errore strategico e comunicativo. Che poi era solo l’inizio di una serie: visto con gli occhi di oggi, una bazzecola.

La gabbia delle stelle. Le parole che imprigionano il M5s nella torre in cui si è rinchiuso e senza le quali diventa altro da sé. I drammi politici del primo autunno grillino orfano di Casaleggio. Il catalogo di Marianna Rizzini il 19 Settembre 2016 su “Il Foglio”. Erano stati immaginati come prodotti a freddo, i Cinque stelle, cellule bioniche da crio-laboratorio del “Dottor Creator”, lo scienziato pazzo dell’omonimo vecchio film con Peter O’Toole. Ed erano usciti dalla mente di Gianroberto Casaleggio, guru prematuramente scomparso, come esperimento di futuribile utopia: il governo dal basso, la Rete che tutto livella, l’ossessione del governo iper-controllabile della cosa pubblica, scatola di vetro ottenibile dopo aver aperto la “scatola di tonno” (il Parlamento nelle metafore del comico, padre co-fondatore e leader Beppe Grillo). Solo che, ai primi passi mossi fuori da internet, ci si era subito accorti, anche e soprattutto nel crio-laboratorio casaleggiano, che il film di fantascienza non era più un film, e che la creatura, buttata a nuotare nella realtà, era imperfetta, nervosa, scalabile. Il nitore da Pianeta Gaia – nitore teorico – era stato presto reso meno lucente dalle piccole (umane) ambizioni, debolezze, cialtronerie, resistenze e fantasie, e dall’ineliminabile necessità del compromesso. E così, per poter fare sì che la creatura continuasse, almeno in apparenza, ad assomigliare all’utopia (già per molti aspetti distopia), ci si era ancorati, a partire dai vertici e giù giù fino agli eserciti su Twitter, ad alcune parole-chiave, poi rivelatesi parole-gabbia. Parole che tuttora imprigionano il M5s nella torre in cui il Casaleggio-demiurgo l’aveva pensato e a un certo punto rinchiuso, come per proteggerlo dalla contaminazione esterna. E oggi, a una settimana dalla festa nazionale a cinque stelle (il 24 e 25 settembre, a Palermo), la prima celebrata nell’assenza del guru, restano sulla scena il vincolo e il dilemma: senza quelle parole-gabbia i Cinque stelle non sarebbero più tali, ma legati a quelle parole rischiano l’implosione. Eccole.

Direttorio. Parola-confine tra un prima e un dopo (prima e dopo il primo scontro con la realtà, tra il 2013 dello Tsunami e il 2014 della disillusione), al tempo stesso rimedio e deroga alla purezza impossibile. Era il novembre 2014, Beppe Grillo si era a più riprese dichiarato “stanchino” e la diarchia con Gianroberto Casaleggio si era rivelata inadatta a contenere spinte centrifughe e sotterranee lotte locali di poteri. Due erano, allora, le linee di pensiero sull’idea di creare un corpo intermedio nel Movimento: i puristi erano convinti che fosse l’inizio della fine, i “riformisti” che fosse l’unico modo per risolvere le aporie. E alla fine la “base” degli iscritti aveva votato sul sito del comico, e approvato la nascita del Direttorio con il 91 per cento dei consensi (ma ai vertici restavano i dubbi, come scriveva ieri su Repubblica Annalisa Cuzzocrea, anticipando l’uscita del libro-rivelazione dell’ex cinque stelle Marco Canestrari, convinto che il Movimento sia “finito con la nascita del Direttorio”, un “errore” in qualche modo “imposto” a Casaleggio). Era l’autunno dello scontento 2014, le espulsioni di parlamentari avevano fatto mormorare gli attivisti e Grillo aveva annunciato la nomina di cinque garanti: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Roberto Fico, Carlo Sibilia, ognuno con il proprio carico di “deleghe”. Organismo accettato, il Direttorio, ma in qualche modo guardato con insofferenza da una parte degli attivisti (anche se che alla festa nazionale a cinque stelle di Imola, un anno fa, i “garanti” Di Battista e Fico si erano consegnati per due pomeriggi alle orde di militanti con cahier de doléances). Ora, con la crisi della giunta Raggi a Roma, le critiche a Luigi Di Maio per il mancato allarme sul caso Muraro e il parallelo sfaldamento del mini-direttorio che affiancava la sindaca, il Direttorio nazionale è guardato a vista, se non di fatto commissariato (nonché attraversato dalla linea invisibile di dissenso tra il vicepresidente della Camera Di Maio e gli altri, con Di Battista in mezzo). Si parla di far entrare altri parlamentari (prima fra tutti la front-woman televisiva Barbara Lezzi), di togliere la delega agli Enti-locali a Di Maio, di dare un ruolo alla pasionaria anti-Raggi Paola Taverna. Un corpo intermedio nel movimento degli “uno vale uno” è una contraddizione? Sì, però necessaria, è la tacita risposta che devono essersi dati i vertici m5s.

Trasparenza. In nome della trasparenza sono state vinte le elezioni dai Cinque stelle a Roma, ma per colpa della trasparenza non così trasparente i Cinque stelle rischiano di impantanarsi a Roma (ché anche nel M5s qualcuno si è accorto che non è possibile fare il sindaco – e il consigliere comunale o il deputato o il senatore – condividendo ogni singola ora e decisione con il cosiddetto “popolo della Rete”). Ma il problema è all’origine: se ti presenti come movimento dal basso che “aprirà il Parlamento come una scatola di tonno”, rendendo visibile ai più le presunte magagne della casta, e se pensi che la catarsi sotto streaming (vedi relativa voce) possa cancellare errori e contraddizioni, poi non ti puoi permettere che Luigi Di Maio “interpreti male” un’e-mail sull’assessora indagata Paola Muraro (e anche se Di Maio fa pubblicamente mea culpa su un palco in quel di Nettuno, il peccato di lesa trasparenza non verrà perdonato dagli attivisti e colleghi ortodossi). Precedente: il caso della sindaca di Quarto Rosa Capuozzo, espulsa dal M5s con l’accusa di non aver “comunicato” ai vertici le presunte minacce della camorra (corsi e ricorsi: anche in quel caso il Direttorio si era trovato nei guai, ché Capuozzo, dimettendosi e poi ritirando le dimissioni, aveva accusato il corpo intermedio del Movimento di “sapere” e non avere detto. Quando poi ci sono di mezzo gli stipendi (vedi voce relativa), l’ossessione della trasparenza può portare a conseguenze inimmaginabili (come a Roma, e con o senza intervento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione). Che la trasparenza si sia fatta un po’ “matrigna”?

Streaming. Indispensabile compare della trasparenza, ma anche negazione di fatto della medesima. Lo si è capito fin dai primi episodi di streaming, casi in cui la ripresa in diretta di incontri o assemblee nascondeva invece di svelare (tutto sotto la telecamera diventa recita, mantra di autoconvincimento o melodramma – e le vere cose indicibili non vengono dette): era infatti la primavera del 2013 e Roberta Lombardi e Vito Crimi, primi “portavoce” grillini alla Camera e al Senato, incontravano Pierluigi Bersani, dando vita a un siparietto con gioco di ruolo (lei la “maestrina” annoiata che diceva di “non parlare con le parti sociali” perché il M5s era “le parti sociali”, lui il “poliziotto buono” che fingeva di dialogare). I due si erano poi ritrovati a ripetere la performance al cospetto di Enrico Letta, ma la differenza di fase politica e di caratteri tra Bersani (in fase di “scouting” intensivo) e Letta (in fase “professore all’ultima domanda dell’esame”), avevano reso il tutto ancora più surreale. Ma il massimo trionfo tragicomico dello streaming si era avuto qualche settimana dopo, quando il senatore Marino Mastrangeli era stato messo “sotto processo” per aver trasgredito al divieto di talk-show, partecipando alla trasmissione di Barbara D’Urso, ed era diventato star del web per la sua cinematografica autodifesa (“Sono come Bruce Lee, ne atterro cinquanta alla volta, ma essere processato per il gravissimo delitto di intervista giornalistica mi sembra una farsa”, aveva detto). A quel punto si era capito (alla Casaleggio Associati) che lo streaming andava dosato, tanto che le più sentite assemblee di parlamentari a cinque stelle si sono sempre svolte in assenza di telecamera. Rimane in piedi lo streaming didascalico degli eventi (normale diretta sul web). Guarda caso, la sindaca di Roma Virginia Raggi, controllata speciale del Movimento, spedisce on line asettici messaggi video in stile telenovela, ma dello streaming fa pochissimo uso.

Indagato. Croce e delizia del Movimento. Quando l’avviso di garanzia raggiunge i rappresentanti di altri partiti, infatti, la parola “indagato “viene dai Cinque stelle pronunciata con soddisfazione e durezza direttamente proporzionale alla fama di chi è stato raggiunto dall’avviso medesimo. Ma quando l’avviso colpisce un eletto a cinque stelle o una personalità scelta dai Cinque stelle, la questione si fa complessa: c’è di mezzo intanto la solita trasparenza (vedi relativa voce), che imporrebbe di comunicare al mondo qualsiasi fruscio di fogli in Procura. E c’è il tema etico delle “dimissioni” (vedi relativa voce) che aleggia come destino inevitabile, ma spesso evitato con vari distinguo – e magari con buonsenso – dall’indagato. A ogni indagato il suo (diverso) trattamento da parte dei vertici del M5s: si va dalla comprensione moderata per Filippo Nogarin, sindaco a cinque stelle di Livorno raggiunto da avviso di garanzia per una vicenda legata alla gestione dei rifiuti (“fiducia” accordata da Grillo), alla sospensione per mancata trasparenza del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, reo di “non aver comunicato per tre mesi” – questa l’accusa dei vertici – la notizia dell’avviso di garanzia per le nomine del teatro Regio. “La trasparenza è il primo dovere degli amministratori e dei portavoce del Movimento 5 stelle” aveva detto Grillo in quel frangente (maggio 2016). Ma l’estate romana ha portato un nuovo caso: l’assessore Paola Muraro indagata, l’annuncio dell’indagine non dato tempestivamente, Luigi Di Maio messo sotto accusa proprio per sospetto momentaneo “nascondimento” del fatto. E una nuova voglia di garantismo ha preso piede tra i Cinque stelle tentati dal (vero) governo e dall’archiviazione dell’intransigenza pre-processuale. 335. Numero che si riferisce all’articolo del codice di procedura penale che disciplina l’iscrizione nel registro degli indagati, diventato il fulcro del caso Muraro a Roma: Virginia Raggi aveva chiesto a tutti i membri della giunta il certificato dei carichi pendenti ex articolo 335 c.p.p. Tutti “puliti”? Sì. Solo che poi la situazione per Paola Muraro era cambiata, causa indagine sulla gestione dei rifiuti. Seguiva commedia degli equivoci su “chi sapeva cosa”, con melodramma finale in quel di Nettuno.

Dimissioni. Parola complementare a “indagato”, con comune ondivago uso: si devono dimettere gli indagati di altri partiti, ma per i Cinque stelle dipende (diversa infatti la pressione per i suddetti sindaci indagati Filippo Nogarin e Federico Pizzarotti). Questione a parte: le dimissioni a catena nella giunta Raggi a inizio settembre (casus belli, lo stipendio dell’ex capo di Gabinetto Carla Raineri).

Stipendio, scontrini, soldi. Le tre “s” del Movimento: guai ad avere stipendi giudicati troppo alti (vedi caso Raineri a Roma), pena l’accusa di assimilazione alla casta; guai a non rendicontare (nel 2013 i neo-parlamentari si sentivano obbligati a mettere online anche il costo della pizza margherita); guai a non restituire una parte dei guadagni da deputato o senatore (i “restitution-day” sono i momenti più attesi dagli eletti a cinque stelle che vogliono essere considerati appunto “cittadini non della casta e lontani dal magna-magna”). I Cinque stelle che governano come sindaci (vedi la suddetta Rosa Capuozzo, sindaca di Quarto poi espulsa) fanno però a volte presente che un conto è la teoria, un conto la pratica: “… Guadagno 2.100 euro al mese, al netto del 10 per cento di decurtazione”, diceva Capuozzo, “non mi bastano neanche per pagare gli avvocati. I Cinque stelle volevano che rinunciassi alla metà dello stipendio, con un assegno di soli mille euro…”. Una volta messo piede nei Palazzi, ci si accorge che non tutta la propaganda sui “poveri ma belli” facilita l’espletamento delle pratiche governative (anzi).

Casta. Nemico teorico numero uno dei Cinque stelle, e canovaccio per comizi e interventi (specie in area Alessandro Di Battista). Nella pratica il nemico diventa meno minaccioso (se non inconsistente), ma non si può dire, pena l’ira dell’Attivista Indignato.

Staff. Misterioso e cangiante altro “corpo intermedio” a cinque stelle, composto di addetti-video, uffici-stampa, assistenti parlamentari, dipendenti della Casaleggio Associati. Se troppo irraggiungibile, può contribuire, presso le platee del web, alla messa in stato d’accusa per “castizzazione” (metamorfosi in casta) dell’intero M5s.

Scorta. Altro nemico pubblico, per derivazione dall’odio anticasta – ma da quando Virginia Raggi è sindaco sono ammesse eccezioni al divieto di scorta.

Post. Principale arma (a doppio taglio) a cinque stelle. Se Roberta Lombardi attacca su Facebook, Grillo può rispondere su blog (e viceversa). Via post si sono consumate le migliori guerre inter-grilline, ma alla fine anche il dover “postare” è diventata prigione per gli eletti (se non posti, potresti avere qualcosa da nascondere. “Vorrei ma non posto”, dice la canzone di J-AX e Fedez, ma per i Cinque stelle il “vorrei ma non posto” è periodo ipotetico dell’irrealtà).

Olimpiade. Manifestazione sportiva e ultimamente anche grimaldello per ricatti interni a cinque stelle. Nel caso Raggi, è “l’ordigno fine di mondo”, per dirla col Dottor Stranamore: se Raggi dice “sì” alla campagna per le Olimpiadi a Roma, non si sa che cosa potrebbe accadere presso gli eletti e gli attivisti del Movimento.

Referendum. Secondo “ordigno fine di mondo” la cui ombra si allunga contro il governo Renzi (in coordinazione con le altre opposizioni), ma anche ultima vestigia del passato purista casaleggiano: lo si invoca per qualsiasi cosa, in ossequio alla democrazia diretta.

Onestà. Parola una e trina, nel senso che viene di solito declinata per tre volte (“onestà / onestà / onestà”, come un tempo si urlava “Rodotà-Rodotà-Rodotà”, dal nome del prof. che i Cinque stelle volevano come presidente della Repubblica). Che l’onestà dia il titolo a una notte in piazza o faccia da sottofondo al discorso di insediamento di Virginia Raggi a sindaco di Roma, è feticcio ineliminabile e dai mobili confini: presunta disonestà potrebbe essere, agli occhi del Cinque stelle medio, persino un mancato post (vedi relativa voce).

Cortocircuito a 5 stelle, scrive Fabrizio Rondolino il 15 settembre 2016 su “L'Unità”. Se vince il No al referendum, Renzi deve fare un passo indietro: ma per me va benissimo andare al voto anche nel 2018. Magari si può trovare un altro premier, un governo di scopo e fare quindi la legge elettorale»: reduce dal giro estivo in scooter e forte della benedizione pubblica di “Beppe” in persona, Alessandro Di Battista torna in tv e si lancia nella grande politica. Intervistato da Lilli Gruber, martedì sera, annuncia una svolta epocale: i grillini scendono dalla montagna, e pur di mandare via Renzi sono disposti a fare un governo – “di scopo”, secondo la bizantina terminologia ereditata direttamente dalla Prima Repubblica – che cambi la legge elettorale e accompagni la legislatura alla sua scadenza naturale. Il caso vuole che sulla stessa rete, poco dopo, ci sia Pier Luigi Bersani ospite di Giovanni Floris. L’ex segretario del Pd, già umiliato in diretta streaming da Grillo tre anni fa, conclude il suo intervento con una dichiarazione sorprendente: «I 5 Stelle sono un partito di centro anti Casta. Io vorrei che ci fosse un centrosinistra largo capace, in un sistema tripartito, di cercare un dialogo col centro». Che non è il centro di Alfano e Casini, né tantomeno di Moro e Martinazzoli, ma, incredibilmente, quello di Dibba e Di Maio. Bersani non parla di «governo di scopo», ma il cortocircuito è immediato e inevitabile: a tre anni dal clamoroso fallimento del «governo di cambiamento» che l’allora segretario del Pd, dopo l’inaspettata sconfitta elettorale, avrebbe voluto guidare con l’appoggio del Movimento 5 stelle, eccoci tornati al punto di partenza. Per salutare il lieto evento, il Fatto di ieri esaltava il «cambio di linea e di visione» del M5s, sottolineava con simpatia «la corte dell’ex segretario Pd» e già pregustava una «maggioranza alternativa, impastata tra M5s, bersaniani e chissà chi altro». «Chissà chi altro» è un riuscito eufemismo per indicare Brunetta e Salvini, senza i quali non esistono maggioranze alternative a Renzi in questo Parlamento. Ma questo è un dettaglio, per statisti di quel livello. Il problema però è che ieri mattina Luigi Di Maio ha smentito categoricamente: «La linea del M5s non è cambiata, io e gli altri miei colleghi pensiamo che se dovessero vincere i No e Renzi dovesse dimettersi, allora il Presidente della Repubblica traccerà la strada. Ma abbiamo dei punti fermi: andiamo al governo con i voti degli italiani». E sul «governo di scopo» cala anzitempo il sipario. O no? Se sgombriamo il campo dalle ingenuità, resta però in campo una costante cui il M5s in questi anni non è mai venuto meno: dichiararsi in prima battuta disponibile ad un qualche accordo – è stato così sulle unioni civili, ma anche sull’Italicum – e poi, quando l’interlocutore mostra di voler fare sul serio, sfilarsi con il primo pretesto (o anche senza pretesto alcuno) per riprendere il bombardamento a tappeto. L’elementare giochino è utile a consolidare la purezza rivoluzionaria del movimento senza mai sporcarsi le mani né mettersi seriamente in gioco. Non più tardi di dieci giorni fa, del resto, un informato retroscena del Corriere della Sera raccontava di un Di Maio «disponibile» a rivedere in Parlamento la legge elettorale; neppure un paio di giorni dopo, lo stesso Di Maio – che ormai, da politico consumato, ha imparato a dire tutto e il suo contrario con la medesima configurazione dei muscoli facciali – ha definito Renzi «schizofrenico» per la sua disponibilità a modificare l’Italicum. In ogni caso, la politica italiana è lieta di dare finalmente il benvenuto alla Casaleggio Associati srl. Non c’è soltanto il «governo di scopo»: ci sono anche, alla bisogna, il «governo tecnico», il «governo istituzionale», il «governo delle larghe intese», il «governo del Presidente», il «governo-ponte», il «governo di tregua» e, se tutto ciò non bastasse, il mitico «governo balneare» della nostra adolescenza.

Cinquestelle: farsa e tragedia, scrive Simone Lenzi il 20 settembre 2016 su “L’Unità”. La storia si ripete: piccola tragedia a Livorno, grande farsa a Roma. Sulle pagine di questo giornale, nel dicembre 2015, avevo tristemente profetizzato che a Roma sarebbe successo esattamente quel che era successo a Livorno. Mi capitò di riparlarne a cena in Trastevere, con amici, in una bella sera d’estate: “Cosa vi avevo detto?”. Gli amici sbuffavano, ridacchiavano con sufficienza: “E basta con Livorno!”, “ma come fai a paragonare la tragedia di Roma con una piccola città di provincia?”, “ma smettila” etc. Molti di loro avevano votato per la Raggi. Facevano parte di quella sinistra delusa (da se stessa, immagino) per la quale ormai qualunque cosa va bene purché non sia il Pd. La smisi subito, un po’ perché preferisco mangiare cacio e pepe in pace, senza condimento di discussioni politiche, un po’ perché c’è un dato antropologico ineludibile, quando parli con i romani: per loro Roma è Roma e niente le somiglia, nel bene e nel male. Anche i problemi, come ce li hanno loro, non ce li ha nessuno. Vaglielo a dire che qualche giorno fa una bambina di tre anni, nella piccola Livorno di provincia, è stata morsa dalle pantegane in una casa popolare. Roma è e resta un’altra cosa. E va bene, dunque, non parliamone.

«M5S? Sono la casta degli anticasta». Parola di grillino della prima ora, scrive il 9 Settembre 2016 Caterina Giojelli su “Tempi”. Intervista a Marco Canestrari, ex braccio destro di Grillo e Casaleggio, oggi deluso. «Assistiamo a una guerra per bande». Per tutti è l’ex braccio destro di Grillo e Casaleggio, per anni si è occupato del blog del comico genovese e di curare, per conto della Casaleggio Associati, i rapporti con i MeetUp. Oggi Marco Canestrari vive a Londra, fa il programmatore informatico ed è ben contento di trovarsi «lontano anni luce» dalla «casta degli anticasta» sulla quale, anticipa a tempi.it, tutto quello che ha da dire verrà presto raccontato in un libro. Il suo è il punto di vista di un grillino della prima ora, che credeva in un progetto e che ora si sente tradito. «Sono stato per anni l’uomo che seguiva Beppe Grillo ovunque, dal colloquio con l’ambasciatore tedesco a quello con il presidente del Senato. Ho lavorato anni alla Casaleggio accanto a Gianroberto, ero il suo inviato agli incontri nazionali dei meet up, la cinghia di trasmissione tra loro, le cellule originarie del Movimento, e lui. Solo io e altre due persone sappiamo davvero cosa volessero Roberto e Beppe». Così disse in una intervista alla Stampa in aprile quando usò parole molto esplicite («sono il nuovo oscurantismo») per esprimere il proprio scoramento a proposito delle iniziative politiche del cosiddetto direttorio.

Canestrari, che ne pensa del bailamme romano? È sorpreso?

«Per nulla: alla Stampa avevo previsto che dopo le elezioni sarebbe scoppiata una guerra per bande, ed è puntualmente accaduto».

Lei cosa ha capito del caso Raggi-Muraro? E della posizione di Di Maio?

«Roma e la Muraro sono, al momento, il campo di battaglia di questa guerra per bande dentro il M5S. Su Di Maio, umanamente mi spiace che abbia problemi di comprensione dei testi scritti, come lui stesso ha dichiarato. Ho il sospetto che possa rappresentare un problema nella corsa verso Palazzo Chigi».

I principi non negoziabili del movimento sono: legalità, onestà, trasparenza. C’è stata una mutazione genetica? Come era nato e cosa è diventato il M5S?

«La mutazione c’è stata nel 2014, quando si è istituito il direttorio. Come e perché lo sto scrivendo in un libro».

Non era inevitabile il testacoda per un movimento che ha il dogma del “non partito”, orgoglioso del proprio digiuno politico?

«Non era inevitabile: chi ha scalato il MoVimento ha deciso di farlo diventare ciò che è oggi, per ambizioni personali. Ciò che forse era inevitabile è che il M5S diventasse così facilmente – e pericolosamente – scalabile, da dentro e da fuori».

Intanto sul blog di Beppe Grillo (che ha fatto una piccola autocritica: «Qualche cazzata, qualche cazzatina, la facciamo anche noi…») ci si divide tra chi accusa il M5S di comportarsi come i vecchi partiti e chi ritiene tutto un complotto. Sui social spopola l’hashtag #RAGGIrati che alimenta il coro delle opposizioni nei confronti del mandato Raggi. Che ne è di quell’ampia investitura popolare?

«È stata palesemente tradita. Gianroberto Casaleggio usava dire: «Un dubbio, nessun dubbio», cioè alla prima cazzata sei fuori senza appello. In questa vicenda è evidente l’atteggiamento ridicolmente autoassolutorio».

Per tanti anni lei si è occupato del blog di Beppe Grillo per conto della società che oggi presiede la comunicazione del MoVimento 5 Stelle. Fa ancora vita da grillino?

«Faccio il mio lavoro di sviluppatore web e mi interesso, dall’estero, delle vicende italiane, ben felice di essere lontano anni luce da quelle persone».

Definisca il “grillismo” oggi.

«La casta degli anticasta».

Raggi, Becchi: "In scena uno scontro fra donne. Grillo non ha leadership ed era solo marketing politico", scrive il 16 settembre 2016 Americo Mascarucci su “Intelligonews”. "A Roma sta andando in scena uno scontro fra donne. Questa situazione deriva dal fatto che il Movimento 5Stelle ha perso l'unico leader capace di tenerlo in vita unito, Gianroberto Casaleggio". Il filosofo Paolo Becchi ad Intelligonews fornisce la sua chiave di lettura sulle vicende romane, dagli attacchi della Lombardi al sindaco, alla telefonata con pianto della Raggi a Grillo sceso in campo in sua difesa.

Professor Becchi, la convince la ricostruzione della Raggi in lacrime che chiama Grillo per essere difesa dagli attacchi della Lombardi con tanto di minaccia di dimissioni?

"Mi sembra evidente che Grillo non possa permettersi questa situazione e tenti una difficile tregua. Quanto sta avvenendo in queste ore dimostra che oltre ad un conflitto politico c’è soprattutto un conflitto fra tre donne, Virginia Raggi, Roberta Lombardi e Paola Taverna. Le ultime due detestano chiaramente la Raggi che sta avendo eccessiva visibilità. E’ chiaro che nel momento in cui la Raggi dovesse realmente dimettersi si avrebbe la dimostrazione pratica che il Movimento 5Stelle non è in grado di governare né Roma, né l’Italia. Roma doveva essere la prova del nove per governare l’Italia. Ora tutti dicono che le vicende romane sono un caso isolato e che non c'entrano nulla con il Governo del Paese ma è chiaro come le vicende della Giunta Raggi stiano certificando l'incapacità dei 5S ad amministrare le grandi città. Ma lei si rende conto che a nemmeno cento giorni dalle elezioni sono cambiati già due assessori al bilancio e il posto in giunta è attualmente vacante? 

Ma secondo lei Grillo è in grado di superare questa situazione?

"Grillo non ha leadership. L'unico vero leader che il Movimento ha avuto è stato Casaleggio.  La sua parola non veniva mai messa in discussione da nessuno. Grillo seguiva a ruota Casaleggio. E' stato lui a creare in vitro personaggi come Di Maio, Di Battista e la stessa Raggi. Non doveva essere lei il candidato sindaco di Roma, è stato Casaleggio a costruire la sua candidatura in quanto donna e di bella presenza. E' stata un'operazione di marketing politico. E' chiaro che però in questo modo le altre donne si sono risentite. Di Casaleggio si può dire tutto ma non che non avesse capacità. E’ lui l’unico artefice del Movimento 5Stelle e dei milioni di voti raccolti. Grillo non è nessuno, non ha capacità. Come non le ha il figlio di Casaleggio".

Lo sa che è in uscita un libro di Marco Canestrari, ex braccio destro di Casaleggio, che annuncia rivelazioni clamorose sui 5Stelle? Si attende verità succulenti? 

"Non mi aspetto nulla di sconvolgente, anche perché quello che c'era da rivelare sul mondo 5Stelle l'ho già ampiamente rivelato io nel mio libro Cinquestelle e Associati dove, ben prima che Virginia Raggi fosse eletta sindaco, anticipavo ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Il libro in uscita credo si soffermerà su aspetti secondari come i guadagni dei parlamentari e il loro essere casta in nome dell'anticasta. Io invece in tempi non sospetti ho anticipato lo spettacolo indecoroso che vediamo oggi mettendo in evidenza come il Movimento 5Stelle fosse peggiore degli altri partiti. Parlano di poteri forti che remerebbero contro la Raggi, ma solo loro i poteri forti, sono loro a farsi la guerra, si stanno auto distruggendo con le loro stesse mani. Grillo lo ha capito ma non riuscirà a salvare la situazione. Continueranno a prendere voti soltanto perché a Renzi al momento non c'è altra alternativa". 

Critica della Ragion Grillina. Purezza e contaminazione. Trasparenza e retroscena. Regole e arbitrio. Analisi del M5S nell'anno della grande metamorfosi, scritta da Marco Damilano ed Alessandro Gilioli del 12 ottobre 2016 su "L'Espresso". È nato sette anni fa, il 4 ottobre 2009, il giorno di San Francesco. Nel 2013, alle elezioni politiche, ha preso 8 milioni e 792 mila voti. Nel 2016 ha conquistato Roma e Torino. Oggi i sondaggi lo danno a ridosso del Pd, vincente in caso di ballottaggio. Prossimo obiettivo: la regione Sicilia. Piaccia o no, il Movimento 5 Stelle è la risposta, per una grande fetta di italiani. Una risposta che si fatica ad analizzare e capire: per pregiudizi, spesso, ma anche per l’autentica difficoltà di spiegare la complessità di un fenomeno nato e cresciuto fuori dai binari tradizionali della politica, dei suoi luoghi e linguaggi. A rendere problematica l’osservazione "scientifica" del M5s c’è anche la sua natura disorganica, "liquida", destrutturata. E le sue aporie: in filosofia indicano «la difficoltà o incertezza che incontra il ragionamento di fronte a due argomenti opposti entrambi possibili». Non solo incoerenze o contraddizioni, dunque, ma parti costitutive del Movimento proprio in quanto aporie, dialettica. È con questa chiave interpretativa che l’Espresso propone una Critica della Ragion Grillina. «Il Movimento 5 Stelle è una non-associazione...», recita l’articolo 1 del Non-statuto. «Non è un partito politico, né si intende che lo diventi in futuro», si afferma all’articolo 4. «Non è previsto il versamento di alcuna quota, non si prevedono formalità maggiori per registrarsi rispetto all’adesione a un normale sito internet». E nella proposta di legge elettorale di M5S c’è la preferenza negativa, con cui cancellare i candidati sgraditi: sbarrare il nome di chi "non" piace. È il nocciolo duro dell’identità 5 Stelle: il Non. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe...», scriveva il poeta genovese (Eugenio Montale, non Beppe Grillo). O forse tra gli ispiratori inconsapevoli c’è il meno ricordato James Matthew Barrie, inventore della favola di Peter Pan e la sua Isola-che-non-c’è: «Le stelle, per quanto meravigliose, non possono in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane, ma devono limitarsi a guardare in eterno. È una punizione che si è abbattuta su di loro così tanto tempo fa che nessuna stella ne ricorda il motivo». È questo l’incantesimo che tiene incatenate le 5 Stelle quando incontrano l’età adulta della politica: il governare. Trasformare il non in una scelta: un no oppure un sì. Rifuggendo dalla tentazione di affidare la scelta a qualcun altro: le regole, la legge, la magistratura, l’Anac di Raffaele Cantone, il Consiglio di Stato, la Rete, i cittadini. Alla Rete è stata consegnata nel 2013, e poi nel 2015, la scelta dei candidati al Quirinale. Prima del voto romano, Virginia Raggi dichiarò di voler chiedere ai cittadini l’indicazione di un nome cui dedicare una via, lei non si assumeva la responsabilità di farlo. E anche di pensare a un referendum popolare per decidere se mantenere la candidatura di Roma alle Olimpiadi. Poi, ha deciso lei: ha detto no. Che differisce dal "non" appena in una lettera, ma per descrivere l’identità, dire chi sei, vale come l’addio all’adolescenza, il difficile passaggio alla maturità. Per i grillini il 2016 è questo: l’addio all’Isola che non c’è. Referendum propositivo senza quorum, obbligo di discutere in Parlamento le leggi di iniziativa popolare, elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, abolizione del voto segreto, introduzione del vincolo di mandato. Il programma delle origini di Gianroberto Casaleggio predicava la necessità di «rivedere l’architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta». «Ogni collegio elettorale», aggiungeva il fondatore del Movimento, «dovrebbe essere in grado di sfiduciare e far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi». Il mandato imperativo, vietato dall’articolo 67 della Costituzione, di cui Grillo chiede l’abolizione. Per limitarne gli effetti, M5S ha più volte chiesto ai candidati di firmare un impegno a non violare le regole del Movimento, con tanto di multa da 150 mila euro per i trasgressori, per danno d’immagine. E prima del voto romano la Raggi dichiarò all’Espresso che si sarebbe dimessa se fosse arrivata la richiesta di Grillo. Eppure, dopo tre anni di presenza in Parlamento, anche M5S sconta la rivincita della decrepita, imperfetta ma pur sempre senza alternative (per ora) democrazia rappresentativa. Blindata, nella proposta di legge elettorale del Movimento, dal ritorno della proporzionale e delle preferenze. Che nella Prima Repubblica significavano il massimo della delega degli elettori. E il minimo della responsabilità degli eletti. «In M5S c’è un prima e un dopo. Ci sono quelli arrivati prima del 2012, cioè la vittoria di Parma: io, Carla Ruocco, Paola Taverna e Roberto Fico. E quelli che sono arrivati dopo. Quell’anno è stato un po’ spartiacque. Chi è arrivato dopo spesso ha fatto prevalere la comunicazione alla sostanza». Così parlò Roberta Lombardi, la deputata romana che si propone in queste settimane come la custode della purezza della stirpe, della «limpieza de sangre», come gli inquisitori spagnoli del XV secolo. Ossessione comune ai rivoluzionari di professione e ai fondatori di religioni. Gli apostoli Pietro e Paolo si scontrarono nella Chiesa delle origini: battezzare solo gli ebrei o anche i gentili? Più mondano il dilemma del Pci all’alba della Repubblica - restare il partito uscito dalla clandestinità o allargare la base - sciolto da Togliatti con un tratto di penna verde: l’amnistia per i fascisti significava sdoganare il partito legato all’Urss e garantirsi solide radici nella nascente democrazia italiana. Negli ultimi mesi il più voglioso di ripercorrere inconsapevolmente la strategia di Togliatti, quella del discorso ai ceti medi di Reggio Emilia (1946), è sembrato il candidato premier in pectore Luigi Di Maio: a pranzo con gli esperti internazionali dell’Ispi, accanto al presidente della Trilateral italiana, su un barcone sul Tevere per la festa dei trent’anni, in posa su una Mini d’epoca per "Vanity Fair", accanto alla nota famiglia dei venditori ambulanti Tredicine. Tra lobby e star-system. Dalla Trilateral a Tredicine: strategie di accreditamento, legittimazione. Contaminazione. Contagio. Gli elettori li hanno preceduti: difficile restare duri e puri con milioni di voti. «La massa aperta esiste fintanto che cresce: la disgregazione subentra non appena cessa di crescere. La massa chiusa invece rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata», scriveva Elias Canetti in "Massa e potere". L’organizzazione di M5S in apparenza supera questa distinzione tipica del ‘900 della politica ideologica totalizzante, in realtà ne segue la stessa traiettoria. Il Movimento delle origini è come un fiume che accoglie tutti: non si pone il problema del blocco sociale di riferimento, come fa la sinistra in crisi, dà risposte e senso di appartenenza ai lavoratori liquidi della Gig economy, precari e sottopagati, ma anche al ceto medio impoverito e incazzato, in rivolta verso le forme di rappresentanza tradizionale, partiti, sindacati, associazioni, contro cui Grillo lancia i suoi strali nel 2012-2013. Con la crescita elettorale M5S ha il problema opposto: selezionare gli ingressi per permettere all’organizzazione di restare nel tempo, durare. Le espulsioni, le radiazioni, gli addii. Il Movimento che era liquido si consolida, si solidifica, fino a pietrificarsi. E ad assumere le sembianze di una nuova nomenklatura, di tipo leninista. Con i suoi apparatcik sul palco. Il programma del M5S è un pdf in modalità playlist: pragmaticamente lontano cioè da ogni sistematizzazione organica, volutamente agli antipodi rispetto ai tomi dei vecchi partiti che includevano tutto e non portavano a niente. Tra i temi selezionati, alcuni sono più approfonditi (es: energia, informazione), altri sono affrontati in modo più generico (es: economia), altri ancora ignorati (es: diritti civili, immigrazione). Del resto il M5S nasce su battaglie verticali - ambientali, legalitarie o anticasta - e non da un’ideologia con pretese onnicomprensive. Perfettamente coerente con la contemporaneità liquida e post-sistematica, si direbbe. Ma proprio perché liquida, poi la realtà si infiltra dappertutto e propone questioni che non rientrano nel programma e che dividono la base così come i parlamentari (dallo ius soli alle unioni civili - e infinite altre). Come uscirne? La risposta, per il M5S, sta nella piattaforma Rousseau, con le sue proposte di legge su centinaia di temi, tutte da sottoporre al voto degli iscritti. «Una rivoluzione mondiale», secondo il responsabile della funzione Lex Iscritti Danilo Toninelli, deputato del movimento. Meno enfaticamente, un grande contenitore con l’ambizione di rappresentare (democraticamente) la sintesi tra solido e liquido, tra ideologia e playlist, tra strutturato e destrutturato. Sono in corso e dureranno fino al 26 ottobre le votazioni on line con cui gli iscritti al Movimento decideranno se e quali modifiche apportare al "Non Statuto" e al "Regolamento" del M5S. Lo scopo è provare a superare, almeno un po’, un’antinomia storica del Movimento: quella tra la mistica della legalità (come obiettivo etico-politico) e una liquidità normativa interna che porta con sé ampi margini di ambiguità e imposizioni arbitrarie dall’alto, con in più la variabile della spersonalizzazione-deresponsabilizzazione costituita dal cosiddetto "staff" (anonimo) che si autoattribuisce il diritto di chiedere documentazione e di «avviare istruttorie» (caso Pizzarotti). All’origine di questa contraddizione tra obiettivo politico e pratiche interne c’è l’origine del M5S come rete molecolare di meetup che rigetta ogni burocrazia organigrammatica (vista come rendita di posizione e di potere tipica dei partiti). L’incontro con la complessità della politica porta ora a moderare questo rifiuto: ad esempio a «indicare in modo più dettagliato i comportamenti sanzionabili (degli iscritti) attribuendo la decisione ad un organo terzo composto da portavoce e lasciando a Beppe Grillo le sole facoltà di annullare le sanzioni e di sottoporre la decisione ad una votazione on line degli iscritti». Per ulteriore paradosso, a richiedere una definizione meno arbitraria delle regole sulle espulsioni era proprio Pizzarotti, prima di lasciare il M5S. L’antinomia precedente è intrecciata con quella (altrettanto congenita e storica) tra l’obiettivo della democrazia assoluta e l’esigenza-esistenza di gerarchie, di capi. Una questione persistente nel tempo e altalenante nei tentativi di soluzione: "nessun capo, decidono tutto gli iscritti", Grillo capo politico, Grillo e Casaleggio insieme "garanti", Direttorio nazionale, Direttorio locale, staff, Grillo di nuovo capo politico, ruoli di peso più o meno formalizzati o informali ma evidenti (come Roberta Lombardi, che in teoria è un semplice deputato ma conta più di altri). Di nuovo: è la complessità del reale che fa emergere catene di comando sul campo, che il "capo politico" Grillo talvolta alimenta, talvolta tollera, talvolta ignora (e talvolta cancella con una frase sul blog o in un comizio). Come nella voce sopra, all’origine c’è il rifiuto drastico dei vecchi e rigidi organigrammi di partito: comitato centrale, direzione nazionale, segreteria etc. Ma se su questa pars detruens nessuno ha dubbi, manca ancora la formula che impedisca all’utopia "uno vale uno" di rovesciarsi in una distopia di poteri di fatto, in equilibrio o squilibrio tra loro secondo capricciosi e impermanenti rapporti di forza. Il primo incontro, chi può dimenticarlo?, all’hotel Saint John a San Giovanni a Roma. Neo-parlamentari che con l’iPad fotografavano i giornalisti, sublime rovesciamento dei ruoli, cronisti infiltrati che si fingevano deputati (i neo-eletti non si conoscevano tra loro), la promessa di mettere tutto in streaming per uccidere gli odiati retroscena dei giornali. Missione riuscita, con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e anche Matteo Renzi: epico lo scontro nel 2014 tra il premier incaricato e Grillo piombato a Roma per insultarlo on line, per tracciare una linea di confine, di qua o di là. «La trasparenza diventerà in futuro obbligatoria per qualunque governo o organizzazione. Non è corretto che qualcuno decida per i cittadini in base a logiche imperscrutabili e senza renderne conto», teorizzava Casaleggio. Tre anni dopo, si è vista la prima cittadina di Roma seduta sul tetto del Campidoglio per sfuggire a occhi e orecchie indiscrete. E i retroscenisti del Palazzo - disoccupati quando devono occuparsi di Pd o di Forza Italia, che noia - hanno ritrovato linfa vitale tra le correnti del M5S. Riecco gli squali e i tonni, così il decano dei giornalisti parlamentari Guido Quaranta catalogava i colleghi del Transatlantico, in branco sulle prede. Solo che ieri erano i potenti boss dc, oggi gli spauriti aspiranti capicorrente grillini. Risorge il minzolinismo (da Augusto Minzolini: ieri giornalista-squalo, oggi nell’acquario come senatore berlusconiano) con i suoi stili narrativi: l’ira del capo sui seguaci, la rissosità tra i gerarchi, le veline, i virgolettati anonimi. La sindaca Raggi e il suo portavoce si fanno intercettare da un reporter a tavola, come accadde ai colonnelli di An che tramavano contro Gianfranco Fini. Solo che i protagonisti non sembrano in grado di tenere la scena, e neppure il retroscena. E così, tra il tripudio di facce, faccette, chi-sta-con-chi incorniciate nelle infografiche dei quotidiani e gli scoop sull’ultimo nominato in Campidoglio, manco fosse il Watergate, viene il dubbio che, alla fine, Grillo stia riuscendo nel suo intento. Uccidere quel che resta del racconto della politica con una dose sempre più massiccia di sconfortanti banalità. «Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno!», disse Grillo nel 2013. «Una rivoluzione democratica, non violenta, che sradica i poteri, che rovescia le piramidi». Scardinare le liturgie della vecchia politica: il programma di un cambiamento radicale, l’indicazione della terra promessa. Già qualche mese dopo l’ingresso a Montecitorio e Palazzo Madama, però, il proposito si era capovolto. Colpa della rottamazione di Renzi, un brand direttamente concorrenziale con M5S negli scaffali del supermarket politico, che pesca nello stesso mare dell’indignazione dei cittadini verso la casta del Palazzo. Renzi occupa il ruolo del riformatore costituzionale, il premier che vuole cancellare il Senato e il Cnel. E i 5 Stelle, di conseguenza, salgono sui tetti per difendere la Costituzione, si tramutano nelle sentinelle della Carta del 1947, dalla parte di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Salvatore Settis, nonostante siano rappresentanti di un elettorato giovane e giovanissimo. Dall’attacco alla difesa, anche nelle città. Un solo messaggio per dipendenti comunali, vigili, autisti dell’autobus, l’esercito degli assunti nelle municipalizzate: nessuno sarà tagliato. Rassicurante e moderato. L’eterno gattopardismo o il suo contrario: non cambiare nulla per avere la forza di cambiare tutto? Al debutto, al comune di Parma, il sindaco neo-eletto Pizzarotti chiese ai cittadini di inviare i loro curriculum per partecipare alla giunta da assessori. E impiegò due mesi per mettere a posto la squadra. Quattro anni più tardi Virginia Raggi non ha fatto pubblica richiesta di competenze, in compenso la ricerca di un nome all’altezza del delicato assessorato al Bilancio è durata ancora di più. Il mix delicato tra gli incarichi ai militanti della prima ora e quelli distribuiti ai tecnici svela un’altra metamorfosi del Movimento. Quando M5S ancora non esisteva e Grillo girava l’Italia con i meetup era naturale per lui far salire sul palco gli studiosi di nanoparticelle Stefano Montanari e Antonietta Gatti, il teorico della decrescita felice Maurizio Pallante, il consulente economico Beppe Scienza, la sindaca di Montebelluna Laura Puppato del Pd... Nel corso degli anni il Movimento ha incontrato altri esterni, l’economista no-euro Alberto Bagnai, il filosofo Paolo Becchi. Più cresceva la nuova nomenclatura informale del Movimento, più le presenze degli esperti venivano meno. Nelle giunte del 2016, a Roma e a Torino, l’esperimento è sembrato tornare di moda, con Paolo Berdini all’urbanistica a Roma o Francesca Leon alla cultura a Torino. Compagni di strada, intellettuali, professori cui non viene chiesto di giurare fedeltà a Grillo e Casaleggio, ma accettano di fare una parte del cammino, come gli indipendenti di sinistra con il Pci. Fino a scivolare, sotto il Campidoglio, nell’esterna Paola Muraro, assessore all’Ambiente sotto inchiesta. O nel capo di gabinetto Carla Raineri, dimissionaria dopo la polemica sul suo compenso («le competenze si pagano», la difese la sindaca), insieme all’assessore al Bilancio Marcello Minenna, sostituito dopo lungo travaglio da Andrea Mazzillo. Il militante: che però era stato del Pd. Per Grillo M5S è «il cittadino che si fa Stato ed entra in Parlamento». Lo disse nel comizio finale di piazza San Giovanni il 22 febbraio 2013, alla vigilia del trionfo elettorale, forse il suo intervento più pensato e programmatico. «Pensavamo di essere soli e invece eravamo moltitudine. Ci siamo finalmente riconosciuti uno nell’altro e abbiamo condiviso parole guerriere». Moltitudine, la parola cara a Toni Negri, Michael Hardt e i teorici del nuovo ordine globale, che sta a significare il singolo che si ritrova in una pluralità senza perdere la propria individualità. Cittadini, si fanno chiamare e si chiamano tra di loro gli eletti dei 5 Stelle, alla francese, il sogno di una cittadinanza nuova: consapevole, informata, responsabile. Una minoranza attiva, ma il grande consenso ricevuto nel 2013, otto milioni di voti trasversali per classi di età, aree geografiche, lavoratori autonomi e dipendenti, obbliga M5S alla necessità di trasformarsi rapidamente in lista pigliatutto, per rappresentare la massa di cui scriveva Elias Canetti sessant’anni fa, caratterizzata dalla «scontentezza per il numero limitato dei partecipanti, l’improvvisa voglia di attrarre, la determinazione appassionata di raggiungere tutti». Da portavoce dei cittadini a megafono della gente. Nessuna forza politica, nemmeno Forza Italia, ha mai avuto l’interesse verso la comunicazione e i media del M5S. Un movimento che nasce in un nuovo medium (Internet), da un fondatore che proviene da un altro medium (la tivù) al quale deve la sua notorietà pregressa ma anche il suo primo scontro politico (1986, l’anatema di Craxi e l’espulsione dalla Rai). E sono in tivù i primi "comizi" su temi civili (i monologhi di fine anno su Tele+, anni Novanta), è su un settimanale che Grillo scrive i suoi editoriali ("l’Internazionale", dal 2008 al 2014). Ne deriva, per il M5S, un’attenzione per i media al limite dell’ossessione: gli attacchi continui ai giornali, il rapporto conflittuale e altalenante con i talk show, fino alla rilevanza decisionale all’interno dello stesso M5s dei "responsabili della comunicazione", il cui ruolo sconfina spesso nella regia politica (ultimo caso, Rocco Casalino). «I giornali sono morti», ripete Grillo, poi però scrive al "Corriere della Sera" per spiegare il caso Roma (10 settembre scorso), così come già aveva fatto Casaleggio per spiegare il suo ruolo nel M5S, nella sua prima uscita pubblica (maggio 2012); e anche l’erede Davide affida al "Corriere" la sua prima intervista (giugno 2016). Quanta alla tivù, «è una merda» (Grillo dixit) però i parlamentari vengono sottoposti a training per bucare lo schermo. Incoerenze? Forse. O magari il segno di un rapporto intenso e quindi ricco di ambivalenze. Nemmeno così strano, per un partito nato in un’era in cui politica e comunicazione sono la stessa cosa. «Abbiamo piazzato trenta virus in una trentina di comuni», scrive Grillo all’indomani dei suoi primi eletti negli enti locali (2009). E poi: «Il virus della conoscenza non si può fermare, Ognuno è un trasmettitore e un ricevitore» (2010); ancora: «Il M5S è un virus, non una poltrona (2012), «Siamo un virus inarrestabile» (dopo la vittoria a Livorno, 2014) «Chi si risveglia è un virus, questo virus non si ferma» (2015). La metafora è chiara: una contaminazione positiva, per uccidere il corpaccione della casta e del palazzo. Con il tempo però il virus diventa anche altro: quello degli "infiltrati" nel M5s (i parlamentari fuoriusciti e/o espulsi) e quindi contamina il M5S stesso (Roberta Lombardi: «Raffaele Marra è il virus che ha infettato il Movimento»). Il partito di Grillo da soggetto virale a potenziale oggetto di virus, insomma, in contemporanea con il passaggio dalla pura protesta alle responsabilità istituzionali. Un’evoluzione che però non può essere risolta in modo troppo semplificatorio o fatalista: perché alla fine quello che conta è la risposta dell’organismo all’agente esterno. E finora gli agenti patogeni sembrano aver più rinforzato che indebolito il M5S. Henri Bergson insegna che il riso rinsalda le relazioni sociali tra coloro che ridono, definendo così la propria differenza rispetto agli oggetti del riso. Il comico Grillo è sempre stato consapevole di questa dinamica e gli inizi del Movimento stanno in una sorta di inedito "blocco sociale": coloro che ridono con lui - Grillo - contro gli avversari verso cui è indirizzata la risata (Berlusconi-Psiconano, Bersani-Gargamella, Morfeo-Napolitano etc). Con la sua comicità Grillo declina e trasfigura la rabbia: e, nelle intenzioni, ne impedisce le derive brutali, la fertilizza politicamente. Il meccanismo tuttavia è instabile e sempre a rischio: il "vaffanculo" del resto è per sua natura in bilico tra gioco satirico e aggressione violenta, tra la leggerezza della comicità e la cupezza della collera. Ed è questa che spesso prevale, soprattutto sui social network, dove ogni critica al Movimento è seguita da aggressioni verbali poco ludiche e molto lugubri. Il cui effetto è ovviamente quello di un boomerang. Lo capì anche Casaleggio senior, all’indomani della sconfitta elettorale del 2014: quando raccomandò «più sorrisi e meno livore» e costruì un video ironico con Beppe Grillo che prendeva un Maalox. Per il M5S Internet è il tempio della democrazia dal basso, dove si propongono le leggi, si discutono e alla fine si votano (piattaforma Rousseau). È la democrazia più alta: non solo diretta, ma anche continua e in grado di autocorreggersi, come teorizzato dai "classici" della Rete e mostrato dal modello Wikipedia. Inoltre è il luogo della critica che stimola e aggrega la protesta-proposta dei cittadini. Il Web tuttavia è un Giano bifronte e, accanto all’agorà digitale, porta in pancia conseguenze negative secondo la stessa cultura del Movimento: la globalizzazione dei mercati che uccide il piccolo produttore locale, la concentrazione di ricchezze nelle mani di pochissimi "over the top", l’esternalizzazione del potere da parte di dinamiche e algoritmi non trasparenti e non controllabili dai cittadini. In più, con l’avvento dei social, la Rete scatena quelle dinamiche sociopsicologiche che lo scrittore Vincenzo Latronico ha definito "mentalità dell’alveare": sospetti, accuse, minacce, congiure, allusioni, processi, bufale, insulti. Tutti rovesci della medaglia che lo stesso Casaleggio ha raccolto in un suo libro ("Insultatemi", 2013) dove racconta di aver «scoperto di essere un pericoloso massone, frequentatore del Bilderberg ed espressione dei "poteri forti": identità multiple, a me del tutto sconosciute». Insomma Internet è un’arma meravigliosa, ma a doppio taglio. Così il tecnoentusiasmo dei primordi viene affiancato da una riflessione più sfumata. O perfino dalla tecnopaura: come nel video postumo di Gianroberto Casaleggio, in cui la minaccia più seria per il futuro dell’umanità viene identificata in «un superorganismo che mescola Internet, intelligenza artificiale, Big Data». Si ama sempre Lawrence Lessig, certo: ma si inizia a temere che abbia ragione Evgenij Morozov.

C’è qualcosa di nuovo anzi di antico, scrive Michele Ainis il 9 ottobre 2016 su "L'Espresso". Difficile affibbiar e un’etichetta al Movimento 5 Stelle. Sarà di destra o di sinistra? Vattelappesca, ammesso che la questione abbia importanza. Ma in realtà l’identità politica dei 5 Stelle si compone soprattutto della loro identità «costituzionale», si nutre in altri termini di un’idea particolare della democrazia. Fateci caso: ciascun partito si riconosce in un modello di democrazia, oltre che in un programma sociale. Solo che quel modello rimane sottotraccia, come una seconda pelle. Generalmente i leader politici non si pronunziano sui massimi sistemi, bensì sui minimi problemi. Invece ai 5 Stelle capita il contrario. Loro sono gli alfieri della democrazia diretta, dell’«Uno vale uno», delle leggi popolari attorno alle quali fu imbastito il Vaffa Day (8 settembre 2007). È questa la loro cifra distintiva: procedurale, prima che politica. In qualche modo, per i grillini lo strumento conta più dell’argomento. E quali strumenti suonerebbero, se andassero al potere? Come cambierebbero il profilo delle nostre istituzioni? Con una ventata d’aria nuova; ma in questo caso il nuovo riesuma l’antico. C’è infatti un sentimento di nostalgia istituzionale – se così possiamo definirlo - nelle loro visioni, nelle loro concezioni. Sembrano avveniristiche, sono invece passatiste. Sia verso gli elettori, sia verso gli eletti. Quanto ai primi, entra in gioco la legge elettorale, da cui dipende per l’appunto il ruolo del popolo votante: spettatore o attore? La soluzione che propone il Movimento è il Democratellum, ossia un sistema proporzionale con voti di preferenza. Toh, proprio come la legge elettorale che restò in vigore durante i 45 anni della Prima Repubblica, quando al governo c’era la Dc. Un suicidio politico, dato che il proporzionale t’obbliga a cercarti un alleato, mentre i 5 Stelle si coalizzano soltanto con se stessi. Però questo proporzionale 2.0 non è del tutto identico al suo predecessore. Intanto reca una soglia di sbarramento implicita (attorno al 5%), che deriva dall’ampiezza delle circoscrizioni: dunque via i piccoli partiti, a meno che non abbiano un forte radicamento territoriale. Inoltre il Democratellum contempla le preferenze negative, oltre a quelle positive. Promossi e bocciati, per gli elettori ci sarà da divertirsi. E gli eletti? Vengono sottoposti a una data di scadenza, come i medicinali. «Il politico a tempo indeterminato è contro il pubblico decoro», si legge in un vecchio post di Beppe Grillo (novembre 2006). Da qui il limite di due mandati in Parlamento, dopo di che l’eletto torna ad essere semplicemente un elettore. Un’idea che si lega alla politica come servizio, anziché come professione, stando alla celebre distinzione di Max Weber. Ma il cui archetipo istituzionale coincide con le regole coniate ad Atene 25 secoli fa. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele (Politica, 1317b). E infatti nella Grecia antica le cariche erano di breve durata, e venivano ricoperte a rotazione. Come fanno, per l’appunto, i 5 Stelle, che ogni tre mesi cambiano i propri capigruppo alla Camera e al Senato. Sempre dal passato remoto deriva il Recall, ossia la revoca anticipata degli eletti immeritevoli. Un istituto applicato in mezzo mondo, che a sua volta è figlio dell’ostracismo forgiato nel 510 a.C. dalla democrazia ateniese, come antidoto alle derive autoritarie. Ora i 5 Stelle vorrebbero esportarlo nella democrazia italiana, correggendo l’art. 67 della Costituzione, che protegge la libertà dei parlamentari. Ottimo tema, però si tira dietro due problemi. In primo luogo, il mandato imperativo dell’elettore sull’eletto fu caro a Robespierre e a Lenin, non proprio due campioni di democrazia; meglio lasciare in pace l’art. 67, tanto non è d’ostacolo al Recall. In secondo luogo, quest’ultimo funziona per gli organi monocratici, dai sindaci in su; non per i parlamentari, a meno che non vengano eletti con l’uninominale. Scegliendo viceversa i collegi plurinominali - come fa il Democratellum - c’è il rischio che la maggioranza del corpo elettorale revochi con altrettanti Recall i parlamentari della minoranza. Morale della favola: o proporzionale o Recall. Il passato prossimo non sempre si concilia con il passato remoto. Michele Ainis

L'Italia dei 5 Stelle è una marmellata sociale forgiata dal Gabibbo. Il Movimento fondato da Beppe Grillo interpreta un Paese senza più classi, cresciuto con l’immaginario delle tv berlusconiane. L'analisi del politologo Marco Belpoliti del 12 ottobre 2016 su "L'Espresso". Per capire quale sia la cultura del Movimento 5 Stelle, cosa leggono, che film vedono, quali canzoni ascoltano, quali videogiochi usano, i militanti, i dirigenti e i leader, bisogna partire da un dato sociologico: gli elettori e gli eletti di questo movimento appartengono, salvo rare eccezioni, alla piccola borghesia. Ovvero a quella classe sociale la cui continuità attraversa la storia italiana degli ultimi 100 anni, dal fascismo alla Dc passando per Berlusconi sino ad arrivare a Renzi. Come ha detto una volta Giovanni Boccia Artieri, parlando dei pentastellati, per comprenderli a fondo bisogna ricostruire la storia italiana e insieme quella del Web. Una più lunga, l’altra più corta, tuttavia il risultato è comunque questo. Oggi che le classi sociali sembrano non esistere più, non tanto come classi di reddito, quanto come classi con un profilo e un’identità socioculturale, 5 Stelle attinge a piene mani dalla marmellata sociale del Bel Paese. In Italia anche i ricchi oggi sono dei piccoli borghesi, con le loro manie, fissazioni, desideri. Notava qualche decennio fa Enzensberger, a proposito dell’Europa, che era più facile incontrare un tassista che conosceva a memoria Dante, che non un ricco, o super-ricco, con la medesima cultura. La marmellata sociale, ovvero la piccola borghesia, in Italia non legge neppure un libro all’anno. Cinquant’anni fa molti dei pentastellati sarebbero stati abbonati a “Selezione dal Reader’s Digest”, acculturati dalle pubblicazioni a fascicoli e dal “Club del Libro”. Oggi hanno sicuramente letto Harry Potter e “Cinquanta sfumature di grigio”, e i più giovani di loro i volumi a fumetti de “La schiappa”. La loro formazione culturale è avvenuta attraverso la televisione berlusconiana. Grillo è l’epitome di questa formazione, non solo perché è un comico, ma perché nasce e cresce con la televisione, e grazie alla televisione è vissuto sino all’incontro con Casaleggio. La sua predicazione è imparentata strettamente con quella del Gabibbo, di “Striscia la notizia”. La sua volontà di trasformarsi da giullare in re, come scrive Oliviero Ponte di Pino in “Comico & Politico” (Cortina), è il frutto della cultura del risentimento e del rancore coltivata in quello spazio culturale. “La Casta” è senza dubbio uno dei riferimenti culturali del grillismo. Non importa averlo letto, basta averne annusato l’atmosfera. Del libro-denuncia resta impressa in loro la denuncia medesima e poco altro. Parlare al negativo, usando il non per ogni affermazione anche positiva, è il risultato di un lungo allenamento all’indignazione, dove prevale l’emozione e quasi mai i contenuti. Ben poco in positivo. Il berlusconismo con la sua politica del desiderio ha contrabbandato insieme al sole in tasca il suo contrario. Non c’era nessuna utopia positiva in lui, se non quella del consumo; ma per consumare bisogna avere soldi. Tutta questa strategia del marketing quotidiano ha promosso un populismo di fondo, dove destra e sinistra non si distinguono più. Qual è l’utopia dei 5 Stelle? L’onesta. È il mito della trasparenza. Nelle prime righe delle “Confessioni Rousseau”, autore di riferimento del movimento, citato da Fo come un Vangelo (si chiama così la piattaforma grillina della democrazia diretta), comincia dicendo che racconterà tutto, con sincerità, in modo trasparente. Un mito. Non è possibile esserlo. Grillo per primo è opaco. Perché è un essere umano, perché è un giullare, perché è ricco, perché come Berlusconi promette a sua volta onestà e trasparenza. Anche lui appartiene alla zona grigia, è compromesso con il potere, con il denaro, con l’ambizione. Cosa leggerà mai la classe dirigente di 5 Stelle? Che libri ci sono sugli scaffali di Di Maio, Di Battista, della Raggi? Il Codice da Vinci, i romanzi di consumo, qualche best seller, la manualistica? Probabilmente tutto questo, e anche i tascabili letti alle medie e alle superiori, i libri di testo dell’università, per chi l’ha fatta e anche per chi invece l’ha interrotta. Il complottismo tiene un posto importante e spiega molte delle loro letture. Non è tipico solo dei 5 Stelle, ma anche della cultura di gran parte della piccola borghesia: dal complotto per far cadere Mussolini a quello contro la sindaca di Roma. Di Casaleggio sapevamo parecchio attraverso le sue dichiarazioni e il video apocalittico Gaia: ecologismo catastrofista, New Age, Philip Dick, Ron Hubbard, la fantascienza come i manuali di Dianetics. Non credo che questa classe politica che aspira a dirigere lo Stato abbia letto Max Weber, Pareto, o anche solo Sorel oppure Malaparte. Alla sera, al ritorno dagli incontri politici o dal Parlamento, invece di aprire la Tv come i berlusconiani di un tempo, che stanchi si appisolavano sul divano, i giovani leoni di 5 Stelle si mettono al computer, aprono Facebook, chattano, leggono il blog del Capo. Sono adolescenti di lungo corso, cresciuti in un mondo che va alla deriva su una zattera malconcia. Non hanno remi, usano le mani. Ne vedremo sicuramente delle belle.

"M5S? Banale chi lo riduce a populismo". Parla il filosofo Massimo Cacciari. A cui abbiamo chiesto se quella attraversata dai pentastellati è una crisi o una metamorfosi, scrive Luca Sappino il 7 ottobre 2016 su "L'Espresso".

La morte di Casaleggio, la sfida di Roma e Torino, un nuovo statuto. Quella attraversata dal Movimento 5 stelle nell'ultimo anno è una crisi o solo una metamorfosi, come la definiamo nella copertina che dedichiamo al Movimento, in edicola da domenica?

«Non vedo né una crisi né una metamorfosi. Il Movimento 5 stelle sta semplicemente proseguendo il suo percorso, dritto sulla sua linea. Che è l'unica che può percorrere, peraltro, un movimento dalla natura così composita, che mette insieme diverse culture, diversi orientamenti politici, diverse classi sociali e anche diverse fasce anagrafiche, perché mi dovreste anche spiegare cosa c'entra Beppe Grillo con i suoi giovani attivisti. Niente, ecco cosa. Ma Grillo, che è un prodotto degli anni '80, un leader un po' situazionista e anarchico, è riuscito a trovare un collegamento e tenere tutto insieme con questa sorta di religione del web, di cui lui per primo si è dovuto convincere».

Giuliano Ferrara sul Foglio dà una lettura radicale, ma per molti fondata, della crisi romana. «A Roma», dice l'ex direttore, «non è in crisi solo una sindaca e un'assessora. È in stato patologico un intero progetto antipolitico fondato sul pressappochismo, la demagogia, l'inettitudine, l'obliquità, l'uso sbagliato del congiuntivo». C'è del vero?

«Quelle di Ferrara sono le parole di un avversario politico. Sono banali. Non c'è analisi ma solo demonizzazione, un po' come quando si accusa il Movimento di populismo».

Che però è sicuramente una cifra del Movimento, peraltro spesso mischiato a una buona dose di bufale. No?

«Ma non è una cifra anche di Renzi quando tira fuori ponti e tredicesime per vincere una campagna elettorale?»

Sono tempi farciti di populismo e retorica, in effetti. Siamo condannati alla semplificazione imperante?

«Lo siamo perché la politica è impotente e si rifugiata nelle frasi fatte. La politica contemporanea ricorre ossessivamente alla retorica, in un modo stucchevole, perché oggi, nel mondo, è difficilissimo impostare una strategia politica complessiva e quindi complessa. È l'impotenza della politica che genera il populismo e poi l'antipolitica, che non è, come si pensa, l'avversione per questa o quella casta, per i deputati o i consiglieri che rubano. Lo è superficialmente, sì, ma in realtà l'antipolitica è la rabbia contro una politica impotente, che non risponde alle domande della gente, che nel frattempo si sono anche moltiplicate».

Che il Movimento 5 stelle sia un movimento antipolitico è però innegabile.

«Lo è perché non ha capito i termini della crisi politica che stiamo vivendo. I 5 stelle non capiscono che intendendo l'antipolitica come anticasta stanno segando lo stesso ramo su cui sono seduti, perché il tema della politica e delle istituzioni impotenti riguarda anche loro. E se ne stanno accorgendo a Roma, ad esempio, dove non poteva che andare così».

Non poteva che andare così il debutto di Virginia Raggi?

«Chiunque a Roma avrebbe combinato quel che sta combinando Raggi, cioè niente. E la ragione è la stessa per cui a Torino, invece, chiunque se la sarebbe cavata come pare se la stia cavando Appendino. È la stessa ragione per cui a Milano Sala avrà vita facile. La complessità di Roma, e la disfatta della sua elité dirigente, fa uscire fuori tutta l'impotenza della politica».

Che però dovrebbe riuscire a nominare almeno i suoi staff…

«Le difficoltà nella nomina degli staff o nella ricerca di un assessore sono sempre il frutto della natura composita del Movimento. Che ovunque, ma a Roma ancora di più, ha messo insieme anime diversissime. Le difficoltà sugli staff altro non sono che difficoltà di sintesi, di sintesi politica tra la destra e la sinistra che si vorrebbero tenere insieme».

Non attraverso un'ideologia, ma il Movimento 5 stelle è uno dei più vasti esempi di mobilitazione e partecipazione, in Italia. Cos'è che tiene insieme gli attivisti 5 stelle?

«A me pare che molti Paesi, in Europa e non solo, abbiano avuto un loro movimento simile, anche se altrove, come in Spagna o in Grecia, si è caratterizzato più a sinistra. In tutti questi casi, però, a tenere insieme attivisti e elettori non è il movimento o il partito che poi li rappresenta ma la rabbia stessa, l'insoddisfazione, i bisogni e i desideri a cui non si trova risposta. Oggi i movimenti politici sono infatti variabili dei movimenti sociali - e qui sta la differenza fondamentale con i partiti di massa novecenteschi».

Per il sociologo Biorcio il Movimento 5 stelle si sta istituzionalizzando, si sta facendo un po' partito nel confrontarsi con l'esigenza di un'organizzazione imposta dall'avvento al potere e dal fallimento dello strumento del Direttorio...

«Qualunque organizzazione scelgano di darsi, il grande pericolo è che questi pseudo-partiti non siano comunque in grado di metabolizzare la protesta sociale. Che è una funzione fondamentale dei partiti a cui questi hanno in effetti rinunciato. Hanno rinunciato alla funzione educativa e di filtro che i partiti hanno sempre rappresentato, mettendo in ordine o anche scartando le molteplici domande che arrivano e le istituzioni. Loro preferiscono inseguire, che in effetti è più comodo».

«Eravamo orgogliosi di avere solo un megafono, ora molti si dicono contenti di avere “finalmente” un capo», dice Pizzarotti. Grillo non è riuscito - ammesso che mai abbia voluto - a fare il passo di lato. Ci si può sottrarre oggi alla politica leaderistica?

«Si può, teoricamente. Ma i leader sono il surrogato di tutto quello che i partiti non sono più, e che non è quindi il Movimento. Grillo ha capito che senza di lui manca un centro, che se togli il leader carismatico non c'è più un punto di orientamento. Vale per il Movimento, vale per Forza Italia con Berlusconi, vale per il Pd».

Per il Pd?

«C'è qualcosa di simile nelle zucche di Bersani e Renzi?».

Sembrerebbe di no. Ma allora il problema, si dovrebbe dire, è stato fare il Pd, tenere insieme due culture politiche diverse, fare un contenitore che potesse, un po' come il Movimento, raccogliere l'intera società...

«No, no. È semplicemente la nostra epoca. Culture diverse possono convivere se poi ci sono anche gli strumenti per fare sintesi, gli strumenti che avevano i partiti, e se la proposta politica si può mantenere complessa. Oggi non è così».

Le difficoltà dei 5 stelle nascono dalla loro Mezza Cultura, scrive Corrado Ocone, Filosofo, liberale, il 05/08/2016 su "L' huffingtonpost.it". Era stato tutto ampiamente previsto. Non stupiscono affatto, voglio dire, le enormi difficoltà politico-amministrative davanti a cui si trova il movimento 5 stelle una volta al potere in alcune importanti città. A cominciare da Roma, ove pure Virginia Raggi ha avuto dalla cittadinanza un mandato quasi plebiscitario. Gli stessi grillini avevano intuito queste difficoltà, che sono solo in parte dovute alle pesanti eredità ricevute dal passato: la frase della Taverna, che leggeva un complotto degli altri partiti nel far vincere i grillini a Roma, era sembrata paradossale e bizzarra certo, ma anche significativa. Il fatto è che le difficoltà dei grillini sono tutte o quasi di tipo culturale, e quindi strutturali. Sia beninteso, la cultura, quella professorale e degli esperti, "tecnici" o competenti, in politica non garantisce nulla. Può anzi essere, e spesso è stata nel passato (pur con vistose eccezioni), di nocumento all'azione, facendo perdere, dietro astrazioni e schematismi, la realtà pulsante della stessa vita politica. No, la cultura che ai pentastellati fa difetto è quella cultura che si sedimenta nelle abitudini e nella sapienza pratica delle generazioni e che dà una visione delle cose coerente e sistematica. Se non la si possiede, anche ogni idea di trasformazione radicale della società diventa demagogica e velleitaria. Chiediamoci, allora, per capire ancora meglio, chi è il Grillino Medio, con tutte le approssimazioni del caso? Il primo elemento da considerare è che quello messo su da Casaleggio e Co. non è, nel senso proprio della parola, un "partito popolare". L'attivista è di solito un borghese piccolo-medio, il quale ha spesso o quasi sempre un titolo di studio in tasca. È un laureato, per lo più in discipline tecnico-informatiche, le quali, accanto a una forte capacità di pensiero analitico, spesso non sviluppano quella capacità di sintesi che è essenziale in politica. Proprio perché spesso è un laureato, il Grillino Medio, per avendo vistose lacune nella cultura storico-umanistica, ne ha però un profondo rispetto: ne capisce l'importanza e vuole migliorarsi pensando di poter colmare le sue lacune con qualche piccolo intervento. Ecco che allora si impegna a leggere qualche libro, quelli del mainstream ovviamente, e a seguire quei festival o eventi di ogni tipo che, fra luoghi comuni e false "profondità", forgiano, in un'epoca di cultura di massa (il che in sé non è un male), quello che potremmo chiamare l'Uomo di Cultura Collettivo. È un terreno saldamente presidiato, soprattutto in Italia, da una certa cultura di sinistra che si è sviluppata nel secondo dopoguerra sul tronco del cattolicesimo sociale e soprattutto del marxismo (i quali pure originariamente erano ben diversa e più solida cosa). Non è un caso che, in barba a ogni trasversalità di voto che in ambito grillino pure c'è stata, là il movimento può essere considerato per questa parte come una sorta di figlio degenere della sinistra (non sono di sinistra, giusto per fare qualche esempio, le tematiche dell'ecologismo, della democrazia diretta o assembleare, del "reddito di cittadinanza", nonché un certo antiamericanismo e la stessa avversione per tutto ciò che sa di concorrenza e mercato?). È la Mezza Cultura che ci pervade (che pervade persino le università sol che si pensi a certe discipline della "comunicazione") e che fa aggio sia sulla cultura vera sia sul buon senso dell'uomo semplice che spesso non ha una laurea in tasca ma ha con sé tanta saggezza e buon senso. È il problema della classe dirigente, che, anche nell'epoca del web, dovrà farsi mediatrice fra le istanze ideali (non ideologiche) e l'immutabile (perché umana) realtà della politica. Ed è il problema della Politica, che ha le sue "leggi" e "regole" a cui è vano, nonché stupido, ribellarsi.

Come il caso delle firme false a 5 Stelle sta per scoppiare in mano al MoVimento di Palermo. Grillo ringrazia le Iene e chi ha denunciato il caso. Schierandosi contro chi nel M5S ha creato il pasticcio di Palermo. E promettendo azioni disciplinari. Ma chi è sotto tiro? E come mai questa storia scoppia solo oggi? Cosa stava succedendo alle Comunarie in città? E chi finisce indebolito dall'accaduto? Scrive Alessandro D'Amato martedì 11 ottobre 2016 su "Next Quotidiano”. «Ringraziamo Le Iene e le persone che hanno denunciato il fatto. Se sarà accertato che i colpevoli sono iscritti al MoVimento 5 Stelle saranno presi adeguati provvedimenti disciplinari»: poche righe, giusto alla fine del comunicato sul blog di Beppe Grillo, che dimostrano come sia necessario leggere i post fino in fondo, visto che lì si nascondono le notizie più importanti. Sul caso delle firme false a 5 Stelle a Palermo infatti il capo politico del M5S vuole vederci chiaro ma sembra già essersi fatto un’idea, visto che parla di «dramma dell’ignoranza» a proposito di chi ha compiuto un reato – parole sue – utilizzando il simbolo del MoVimento 5 Stelle. Le parole sono importanti e nel post sono scelte accuratamente. Invece di un’invettiva contro i giornalisti e i ficcanaso, come quasi sempre è capitato, Beppe ringrazia le Ienema anche – e soprattutto – le persone che hanno denunciato il fatto. Non si può non cogliere una contraddizione con quanto fatto dai nominati all’interno del servizio, ovvero le denunce annunciate dai parlamentari coinvolti nella faccenda dalle dichiarazioni di Vincenzo Pintagro, professore di educazione fisica a Palermo che ha raccontato alle telecamere di Mediaset l’intera vicenda. Un caso che scoppia, per coincidenza, proprio mentre si stava avviando la procedura delle comunarie per scegliere il candidato sindaco in città. E si annunciavano particolarmente interessanti visto che a contendersi la candidatura a sindaco erano due correnti palermitane molto forti e un outsider che avrebbe potuto sparigliare il tavolo grazie alla sua popolarità. Questa inchiesta arriva proprio nel momento cruciale, ovvero quando ci si misura con il voto degli attivisti e dopo una vigilia tormentata, con accuse e tentativi di eliminare qualcuno in corsa. Comunque finisca questa storia non si può non pensare che finirà per danneggiare la “vecchia guardia” – ovvero i parlamentari già eletti e gli attivisti a loro vicini, a Roma o all’ARS – e favorire le new entry. Ad esempio, scrive l’Adn Kronos, Samantha Busalacchi, attivista locale coinvolta nella vicenda e, fino a qualche giorno fa, papabile candidata sindaco nelle elezioni 2017 al Comune. La sua candidatura pare sfumata definitivamente: “Ormai è bruciata, non possiamo puntare su di lei dopo il casino che la vede coinvolta in prima persona”, spiega una fonte all’ADN. Non solo. Nei vertici non è escluso che, se dovessero emergere responsabilità, verranno adottate sanzioni, anche pesanti, anche nei confronti dei parlamentari coinvolti nel servizio, e che per ora si sono dichiarati estranei alla vicenda presentando querela. “Si spera stiano dicendo il vero – riferisce la stessa fonte all’Adn – ma semmai dovessero emergere responsabilità non ci sono dubbi, verranno sanzionati anche loro e in maniera severissima”. La Busalacchi e Claudia Mannino fanno la peggiore delle figure nel servizio delle Iene andato in onda una settimana fa. La prima si dichiara disposta a un confronto con Pintagro sulla storia delle firme false e poi ci ripensa dicendo alle Iene che ha cambiato idea il giorno dopo. La seconda non risponde alle domande di Filippo Roma scappando dalle telecamere, poi ieri, dopo il secondo servizio, annuncia querela proprio a Pintagro senza sentirsi in dovere di spiegare niente altro riguardo l’accaduto. Riccardo Nuti evita direttamente il confronto con Roma nel servizio nonostante l’intercessione di Rocco Casalino e dopo il servizio annuncia querela. Giampiero Trizzino, portavoce all’ARS e anch’egli nominato nel secondo servizio delle Iene, invece spiega su Facebook che in quel periodo non era a Palermo e nelle riunioni dei 5 Stelle a cui ha partecipato non si è mai parlato dell’argomento. Hanno preferito il silenzio totale invece Giulia Di Vita e Chiara Di Benedetto: probabilmente andranno a presentare querela insieme a Nuti e Mannino. Intanto la Procura di Palermo ha riaperto l’indagine coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Dino Petralia sul caso delle presunte firme false riferibili alle liste del Movimento 5 stelle alle Comunali del 2012 nel capoluogo siciliano, ma chiede di essere lasciata fuori dalla contesa politica. “Sarebbe opportuno che la Procura di Palermo – dice Lo Voi – venisse lasciata fuori dalle polemiche politiche legate alla questione delle firme raccolte per le elezioni del 2012“. Probabilmente la procura dovrebbe accettare il fatto che se avesse indagato a dovere nella prima occasione forse oggi non si troverebbe all’interno di una polemica con le elezioni in comune alle porte. Perché una prima indagine sul caso venne aperta nel 2013 in seguito a una serie di segnalazioni: la Digos indagò, ascoltò qualche protagonista e l’indagine venne archiviata. All’epoca infatti non vennero ritrovati i fogli, ben cinque con decine e decine di firme, che però, nella parte dedicata all’autenticazione non sono compilati, cioè sono senza timbro né firma del pubblico ufficiale che avrebbe dovuto provvedere all’autenticazione. Quelli, insieme al documento originale nel frattempo recuperato a Palermo grazie all’accesso agli atti di un consigliere comunale sono la dimostrazione che la storia è molto probabilmente andata come ha raccontato Pintagro: «Io ho trovato due persone che stavano ricopiando 2000 firme» a causa dell’errore formale nella compilazione del modulo, che vedeva un errore nel luogo di nascita di uno dei candidati. Per paura di essere esclusi hanno ricopiato le firme», secondo quanto racconta il testimone che dice di aver visto con i suoi occhi le persone che falsificavano le firme: una parlamentare (Claudia Mannino) e una collaboratrice del M5S all’Assemblea Regionale Siciliana (Samantha Busalacchi). L’errore riguarda l’allora candidato Giuseppe Ippolito, che secondo i fogli inviati alle Iene è nato a Palermo il 19 agosto 1987 mentre in realtà il suo luogo di nascita è Corleone. I due periti ascoltati dalla trasmissione Mediaset – due esperti grafologi consulenti del tribunale di Milano, ovvero Laura Guizzardi e Fausto Brugnatelli – spiegano che su cinquanta firme sono false certamente una trentina, mentre una quindicina sono probabilmente false e su cinque bisognerebbe approfondire l’indagine. Ci sono anche una serie di errori imbarazzanti, come tre firme completamente identiche. Brugnatelli fa anche notare che in molti casi sono state apposte firme sbagliate rispetto al nominativo, prova del fatto che il modulo è stato ricopiato. Intanto Carmelo Miceli, avvocato e segretario provinciale del PD a Palermo, ha parlato oggi di un altro mistero a proposito della candidatura del 2012. «Quando a settembre, su sollecitazione della trasmissione ‘le Iene’, siamo venuti in possesso delle copie dei verbali di presentazione delle firme del Movimento 5 Stelle alle amministrative, abbiamo verificato che mancavano i numeri progressivi dei fogli dall’uno al 4». Insomma non si trova più, nei documenti custoditi nell’ufficio elettorale circoscrizionale di Palermo, “la dichiarazione fondamentale di presentazione della candidatura di Riccardo Nuti e della lista del M5S alle amministrative del 2012. È evaporata, scomparsa, non esiste. Parlo del primo foglio, il frontespizio, che contiene la dichiarazione di candidatura di Nuti e della lista 5Stelle a Palermo. Insomma è come se Nuti si fosse presentato alle elezioni ma non si sa chi lo ha sostenuto e con quali firme”. “Nel retro di questi verbali – ha continuato Miceli – ci sono le firme dei primi sottoscrittori. Chi possono essere questi firmatari? Ci potevano forse essere tra di essi persone che oggi sono state elette in Parlamento? Perché sono scomparse solo le prime 20 firme? Forse perché potevano essere comparate con la grafia delle successive firme? Forse il M5S può dare una mano a fare chiarezza”. “Immaginare una firma falsificata senza dolo – ha concluso Miceli – è proprio difficile da credere, così come un’eventuale sottrazione di documenti dagli uffici comunali. Dopo quello che abbiamo scoperto, abbiamo il dovere di presentare una denuncia alla magistratura. Senza fare valutazioni politiche, noi alla magistratura forniremo solo una sequenza cronologica di fatti. “Dolo? Intanto – ha aggiunto Alessia Morani – pensiamo che ci sia un atteggiamento omertoso da parte di un gruppo di persone che da anni sa che ci sono state delle irregolarità, perché sono stati gli stessi militanti M5S a denunciarlo. Noi possiamo stabilire noi se c’è stato un dolo, questo è compito della magistratura, noi parliamo di copertura di fatti gravi che possono aver falsato il corso amministrativo di una città. Vorrei che i vertici del Movimento – Ha concluso la vice capogruppo Pd – fossero trasparenti con i cittadini, dire che il movimento è parte lesa è una presa in giro”. E lui cosa dice? Su Facebook annuncia querela nei confronti di Pintagro: Nei commenti c’è chi è in piena crisi da ipotesi di complotto: «Se credete sia il caso di tacere fate pure, però credo che la stampa e i media di regime non si fermeranno qui. Per questo vi chiedo di preparavi ad una difesa. Il rischio è che ci massacrano mediaticamente e che in prossimità di un appuntamento importante come il referendum sfrutteranno questa situazione». Ma la maggior parte non sembra pensarla così: «Mi meraviglia il fatto si difendano comportamenti evidentemente sbagliati, proprio noi che facciamo dell’onestà e della trasparenza i nostri ideali. Bisognerebbe fare chiarezza e chi ha sbagliato paghi. Altrimenti finiamo per essere dei piddini qualunque». C’è chi si improvvisa giudice: «Provare cosa? L’inchiesta riguarda la falsificazione delle firme, non le presunte riunioni in cui erano presenti i deputati! Quello lo ha affermato Pintagro, ma non è oggetto di indagine. È solo un affermazione lesiva dell’immagine dei destinatari. Toccherà a Pintagro provare quello che afferma per evitare una condanna per diffamazione» (Nuti era il candidato sindaco, ndr). E qui torniamo al post di Grillo. Dove il capo politico del MoVimento 5 Stelle ringrazia «le Iene e le persone che hanno denunciato il fatto», e sembra proprio dare implicitamente torto invece a chi sta difendendosi con il silenzio e con le querele. E Giancarlo Cancelleri, capo dei deputati all’ARS e uomo forte dei 5 Stelle in Sicilia ribadisce le stesse parole su Facebook ricordando anche che saranno presi provvedimenti disciplinari. Mentre è impossibile non notare che questa storia scoppia proprio durante l’organizzazione delle Comunarie. Alle quali hanno chiesto di candidarsi oltre 120 e tra questi il fondatore di Addiopizzo Ugo Forello, l’attivista in difesa dei diritti gay Daniela Tomasino, i collaboratori parlamentari Adriano Varrica e Samantha Busalacchi. E, ancora, Riccardo Ricciardi, marito della deputata Loredana Lupo, e Igor Gelarda, poliziotto e dirigente sindacale. Già all’epoca la Casaleggio aveva chiesto ai candidati di evitare dichiarazioni pubbliche, tanto per far capire il clima. L’intenzione era di proclamare il vincitore durante Italia5Stelle a Palermo, ma vari ritardi hanno portato a rimandare fino allo stop di oggi. Per quali motivi? A quanto pare c’erano molti curriculum da vagliare attentamente, visto che «Dai controlli sulle esperienze professionali inviate allo staff milanese dei pentastellati, infatti, è emersa la necessità di “approfondimenti aggiuntivi” su alcuni profili» a fronte di prime risposte giudicate non sufficienti. Insomma, i 5 Stelle già stavano litigando sulle candidature. Su due nomi su tutti: uno è Ugo Forello, come ha raccontato Livesicilia, fortemente voluto dal meetup palermitano «ma che, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non riscuote unanimi consensi. Allo staff milanese di Grillo sarebbero arrivate alcune segnalazioni su Forello, legate soprattutto alla sua attività di avvocato e legale di alcune vittime del racket, e al suo ruolo all’interno di Addiopizzo. Segnali pericolosi per il movimento, che punta molto sul voto palermitano e che portano il deputato messinese Francesco D’Uva, componente della commissione nazionale Antimafia, a esprimersi apertamente sulla questione: “La possibile candidatura di Forello non mi fa impazzire, anzi, è decisamente inopportuna – diceva tempo fa D’Uva a Livesicilia -. Non c’è bisogno di ricorrere ai nomi blasonati”». Il caso, spiega sempre Livesicilia, è la spia di una divisione tra gli attivisti locali e i parlamentari nazionali: Non è un mistero, infatti, che l’avvicinarsi delle elezioni abbia inasprito i rapporti fra gli attivisti locali, che hanno per esempio spinto per il nome del fondatore di Addiopizzo e che vorrebbero maggiore autonomia, e i parlamentari nazionali che invece cercano di gestire in modo diretto la macchina organizzativa: una tensione che ha portato il Movimento a “commissariare” momentaneamente anche la gestione del forum, del profilo Facebook e del profilo Twitter. Gli attivisti locali hanno addirittura scritto un documento per “denunciare” il comportamento dei portavoce, accusati di voler favorire la candidatura di Riccardo Ricciardi, marito della deputata Loredana Lupo. Veleni e scontri interni che la dicono lunga sul clima che si respira fra i grillini palermitani, a poche settimane dalla festa nazionale. L’altra candidatura è quella di Igor Gelarda, poliziotto e presidente del CONSAP. Lui la campagna elettorale l’ha già cominciata da un pezzo su Facebook, raccontando del “degrado” di Palermo, del suo incontro con Gianroberto Casaleggio, della sua partecipazione a Italia5Stelle con tanto di foto. Insomma, un candidato che sembra sapere come toccare il cuore degli attivisti e l’orgoglio dei 5 Stelle. Un serissimo candidato alla vittoria finale. Anche Gelarda è casualmente finito nel mirino dei suoi aspiranti colleghi in consiglio comunale: Il suo tentativo di accreditarsi come candidato “investito” direttamente dai vertici del Movimento 5 Stelle lo ha reso inviso ai più e, in particolare, al gruppo di attivisti di Palermo che hanno visto in questo atteggiamento di Gelarda una manovra per scavalcarli e interfacciarsi direttamente con i big. Una mossa definita “scorretta” che ha offeso e preoccupato chi aveva paventato un rischio del genere scegliendo di giocare su Palermo con il “modello Roma” piuttosto che con il “modello Torino”. Ma non solo. La maggior parte delle segnalazioni, raccolte in una specie di dossier, riguarda le sue posizioni anti-immigrazione e anti-Schengen, sostenute e caldeggiate più volte sul blog di Beppe Grillo e sui suoi profili social. Molti si chiedono, per esempio, come possano stare insieme, nella stessa lista, Igor Gelarda e Daniela Tomasino, attivista Lgbt e operatrice della Croce Rossa e da sempre al fianco dei migranti. C’è anche chi ha portato all’attenzione dello staff il tentativo di Gelarda, su un forum del Meetup, di creare una “cordata” per accaparrarsi voti in vista delle votazioni organizzando una riunione a Ballarò con potenziali votanti delle “comunarie”. Una palese violazione del regolamento. Insomma, prima la guerra delle candidature. Poi le firme false a 5 Stelle, che obiettivamente indeboliscono il fronte parlamentare e di rimando ogni proposta politica che abbia il loro avallo. La Busalacchi, già nell’organizzazione della kermesse di Palermo e attivista da anni, data per pronta a ritirare la candidatura. E Grillo che ringrazia chi denuncia e minaccia provvedimenti disciplinari. Intanto il Partito Democratico annuncia una denuncia alla magistratura. E pensare che Riccardo Nuti che nel 2012 era candidato a sindaco di Palermo prese solo “il 4,91%”. A quelle amministrative, il Movimento 5 Stelle non superò la soglia del 5% e così non riuscì ad avere consiglieri comunali. Ma la vera partita, quella per il candidato a 5 Stelle del comune di Palermo, si gioca oggi.

M5S addio, nasce "Effetto Parma": la lettera integrale del 11 Ottobre 2016 su "La Gazzetta di Parma". Oggi, durante il consiglio comunale, è stato ufficializzato quanto già era stato anticipato: diciassette consiglieri lasciano il M5S e creano "Effetto Parma" (nome annunciato oggi). La maggioranza che sostiene il sindaco di Parma Federico Pizzarotti non è più del Movimento 5 Stelle bensì di “Effetto Parma”. Si è consumata in consiglio comunale, ad una settimana di distanza dall’addio del sindaco a Grillo, l’auto-espulsione dei consiglieri comunali eletti sotto il simbolo pentastellato. Dicono addio ai 5 Stelle 18 dei 19 consiglieri 5 Stelle, compreso il presidente del consiglio comunale Marco Vagnozzi. Completerà invece il mandato in seno al 5 Stelle il consigliere Andrea D’Alessandro che comunque ha confermato «fiducia all’operato del sindaco». A leggere la lettera in consiglio, il capogruppo ex 5 Stelle Marco Bosi, confermando la fiducia al sindaco. Ecco la lettera. Dopo oltre 10 anni di attivismo prima e attività istituzionale poi, si conclude la nostra esperienza all’interno del Movimento 5 Stelle. Ciò che invece prosegue sotto gli stessi valori è il nostro impegno per una politica diversa, lontana dalle logiche di partito, vissuta come servizio civile e non come carriera personale. Era il 2005 quando a Parma fu fondato il primo MeetUp “Amici di Beppe Grillo”. Due di quei fondatori ora siedono in consiglio comunale: Marco Vagnozzi e Alessandro Mallozzi. Da allora tante, troppe cose sono cambiate. Beppe Grillo ha avuto l’indiscutibile merito di smuovere le nostre coscienze e metterci in Movimento. “Nessuno lo farà al posto tuo” diceva. “Nessun leader, solo un megafono” ripeteva. Oggi abbiamo visto tutti dove siamo arrivati: votazioni “confermative” in cui si può solo prendere per buono ciò che in altre stanze è stato deciso; capi politici autoproclamati; direttivi di partito nominati dall’alto; successioni dinastiche come nelle peggiore tradizione padronale. Abbiamo tentato in ogni modo di raddrizzare una rotta che ci stava facendo perdere di vista quel faro iniziale. Come detto dal nostro compagno di avventura Federico Pizzarotti noi non siamo cambiati, non sono cambiati i nostri valori e la nostra volontà di cambiare le cose. E’ cambiato un movimento che è indiscutibilmente mutato geneticamente. Quanti compagni di avventura abbiamo visto andarsene, delusi dal grande sogno tradito. Quante persone si sono avvicinate negli ultimi anni, spesso orfane di altri leader, ma soprattutto digiune da quei concetti di coscienza critica e mente libera che aveva contraddistinto il nostro Movimento perlomeno fino a quel fatidico maggio 2012. Una schiera di soldatini che sono disposti a dire tutto e il contrario di tutto, purché imbeccati dal capo, come accaduto sulle vicende delle indagini a carico di Federico Pizzarotti e l’Assessore di Roma Muraro. Tutto ciò è accaduto quando si è creduto che il Movimento 5 stelle non fosse più il mezzo per un fine più grande e nobile, cioè una società più giusta. No, da un certo momento si è cominciato a ragionare per consenso, con quel 51% da raggiungere ad ogni costo. Ecco, quando il Movimento è diventato il fine stesso del nostro agire, quando si è pensato che il successo del Movimento equivalesse automaticamente al bene di tutti i cittadini perché quel simbolo era garantito dall’illuminato e quindi garanzia di buona politica, quando, quindi, si è pensato che la critica non potesse essere altro che espressione di qualche infiltrato del sistema: allora è si è tradito quel sogno. Oggi, va riconosciuto, siamo rimasti una minoranza in questo Movimento. Retaggi di un passato che qualcuno ha cercato di cancellare in ogni modo. E nel giorno del nostro addio un pensiero va inevitabilmente a quegli attivisti e consiglieri che ancora oggi continuano a lottare affinché quel sogno non venga ucciso per sempre. Ci piange il cuore a dirlo, ma per noi quel processo è irreversibile. Continua però il nostro impegno per Parma. I nostri concittadini sono sempre stati la nostra unica priorità e la rottura col Movimento 5 Stelle lo dimostra. Abbiamo lavorato duramente, passato momenti molto difficili che solo l’unità di intenti e di valori ci hanno permesso di superare. Siamo a pochi mesi dal termine del nostro mandato, ma ancora tanta strada c’è da fare. Però tanto lavoro è anche già stato fatto e ci piace proseguire su quello stesso solco che abbiamo tracciato in questi anni. Più volte abbiamo usato un hashtag per contraddistinguere questo modo di fare politica: Effetto Parma. Ci piace l’idea che il nostro gruppo possa identificarsi ancora in quel lavoro fatto in questi anni, perché sono le nostre azioni di tutti i giorni a dare valore a ciò che siamo, non le etichette o i simboli. Da oggi questo gruppo cambia nome, ma non cambia pelle. Da oggi siamo l’Effetto Parma.

Viaggio nei Comuni 5 Stelle: Torino la città guidata da Chiara Appendino dove i No grillini diventano Nì, scrivono Andrea Punzo e Gabriella Ferrero su "L'Huffington Post" l'11/10/2016. A guardarla da lontano la Torino a 5 stelle, nata con la vittoria di Chiara Appendino, sembra vivere su un altro pianeta rispetto al caos, alle polemiche, alle lotte tra correnti, ai veti incrociati che in queste settimane attanagliano la Roma pentastellata guidata da Virginia Raggi. All’ombra della Mole non esistono le Taverne, o le Lombardi, senatrice la prima, deputata l’altra, potenti e influenti rappresentati romane del Movimento. Nella Torino di Chiara Appendino i nomi per la Giunta sono stati fatti addirittura durante le campagna elettorale. “Dovete fare squadra, come a Torino. Vedetevi di più, incontratevi, fate feste”. Ama ripetere Beppe Grillo ai romani litigiosi. Qualcuno nel mondo grillino si è addirittura spinto oltre, coniando la definizione di “modello Torino”. A oltre 100 giorni dalla cacciata del Pd, però, nella nuova Torino comincia ad aleggiare il sospetto che dietro tutta questa concordia si nasconda un certo immobilismo. Fino ad ora la decisione più significativa riguarda il piano da 18 milioni per scuole, strade e periferie. “Sono passati tre mesi dal voto - spiega Oscar Serra, giornalista dello Spiffero, sito on line che molto bene segue i fatti politici piemontesi – e per ora poco è stato fatto. Tanta inerzia e pochi fatti veri”.  Eppure la partenza sembrava di tutt’altro tono: la richiesta di dimissioni di Francesco Profumo dalla presidenza della Compagnia di Sanpaolo, simbolo dei poteri da tempo consolidatisi in città e prima azionista di Intesa San Paolo, aveva dato la sensazione che la rivoluzione fosse davvero cominciata. A distanza di quasi tre mesi restano le parole: a oggi il “diavolo” siede ancora al suo posto. Il Sindaco ha così da subito fatto i conti con la realtà dei fatti. A partire dalla Tav, la linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Lione, tema tra i dibattuti durante la campagna elettorale. Il No alla grande opera era sempre stato chiaro e netto. Un No senza se e ma che nelle settimane successive alla vittoria si è trasformato in No con rassegnazione. “Un sindaco – aveva detto - non può bloccare la Tav, quello che farò è portare al tavolo le ragioni del No”. A questo poi si sono aggiunte le prime crepe nei rapporti tra il Movimento e il movimentismo che da tempo si batte contro l’alta velocità in Val Susa. Un episodio ha fatto molto rumore: è il 18 luglio e il Presidente del Consiglio Comunale Fabio Versaci, convinto No Tav, dichiara solidarietà alle forze dell’ordine di Chiomonte per gli scontri avvenuti al cantiere della Maddalena. Una posizione che non è piaciuta a molti No Tav. Da quel momento l’argomento è diventato tabù, nessuno tra i 5 stelle di governo ne parla più. Tutto finisce nel dimenticatoio. Mentre i lavori vanno avanti. Nei primi mesi a 5 stelle ci sono così i No che si scontrano con la realtà e i No che, nel silenzio generale, diventano dei quasi Sì. Su due temi tanto cari al Movimento, acqua pubblica e infrastrutture, il cambio verso è nei fatti. Il progetto della nuova amministrazione, scritto nel programma di governo, era la trasformazione della Smat, la società che gestisce le acque torinesi, in un’azienda di diritto pubblico partecipata dai cittadini. In sostanza la volontà era svuotarla dalle logiche privatistiche di una società per azioni, per trasformarla in qualcosa d’altro. Il risultato, per ora, è che la gestione delle acque, con una mozione è stata riaffidata a Smat, con le stesse identiche caratteristiche del passato. Sul capitolo infrastrutture il cambio di passo è ancor più evidente. Il nodo in questione è la costruzione della linea 2 della metropolitana che dovrebbe unire la città da nord a sud. In campagna elettorale le parole del neo assessore ai trasporti Montanari erano state chiare: “La linea 2 è soltanto un bluff: meglio ripensarla”. Toni da campagna elettorale appunto, perché poi una volta al governo della città la realtà racconta che il sindaco nelle prossime settimane procederà all’apertura delle buste per gli appalti e la progettazione dei lavori per cui da Roma sono già stati stanziati 10 milioni di euro. Quando non è retromarcia allora può diventare frenata. Com’è successo per la città della Salute, il grande polo ospedaliero sul quale il ministero della Salute aveva già previsto uno stanziamento di 250 milioni di euro: prima il no in campagna elettorale, poi il ni dopo le polemiche con il governo e in particolare il ministro Boschi fino al definitivo sì dopo un incontro chiarificatore con la Regione e con il presidente Sergio Chiamparino che con Appendino coltiva un rapporto, ricambiato, di dialogo e stima. Unione di intenti che si era già vista nella gestione della crisi sul Salone del Libro. A fine giugno l’associazione degli editori saluta e se ne va, scegliendo Milano come nuova location. Appendino resta con il cerino in mano e trova nel “Chiampa” la spalla ideale per battere i pugni con governo ed editori e non perdere del tutto un appuntamento culturale cruciale per la città. Chiamparino, Appendino. Un tandem per cui è già stato coniato un nome, Chiappendino, e che secondo molti rappresenterebbe già un vero e proprio asse tra sindaco presente e sindaco passato che poco piace ai puristi del Movimento i quali vorrebbero maggiore intransigenza nei confronti di chi, come Chiamparino appunto, ha rappresentato il potere sabaudo negli ultimi 20 anni. Il neo sindaco su questo ha voluto imprimere un cambio di passo rispetto all'archetipo grillino. Come? Riponendo l'ascia delle polemiche e degli attacchi dei tempi in cui faceva opposizione per far spazio all'arte della mediazione nella sua nuova veste di primo cittadino. E non solo con la Regione guidata dal "Chiampa" ma anche con il Governo, conscia di come i buoni rapporti con Renzi possano aiutarla ad ottenere i soldi necessari per finanziare i progetti di rilancio della città promessi in campagna elettorale. Per capire il cambio di passo basta rileggere le parole concilianti e dialoganti dopo il primo faccia a faccia con Renzi: "L'incontro con il premier? E' andato bene, abbiamo parlato del patto per Torino". Tra alti e bassi, No, Ni e Sì, mediazioni e patti c’è un filo rosso che lega questi primi mesi di amministrazione: il silenzio. Apparizioni pubbliche selezionate, una sola conferenza stampa in 100 giorni, interviste a giornali e tv ridotte all’osso, forfait a dibattiti e feste. Il sindaco ha deciso di affidarsi alla comunicazione diretta, senza intermediazioni: ha lanciato il “Parliamoci Tour” per dialogare direttamente con i cittadini, ha deciso di riaprire (lo aveva fatto Chiamparino) due volte al mese la sede del Comune per ascoltare le istanze dei torinesi. Attivissima sui social, dalle vetrine di Twitter e Facebook mostra la città che cambia. In un sondaggio pubblicato da La Stampa un torinese su due si dice soddisfatto dell’operato del neo sindaco. Per non disperdere tutto questo credito Appendino dovrà affrontare la sfida più grande: bilanciare le promesse fatte con la possibilità concreta di realizzarle. Farlo, guidando un Comune con un debito da 2,8 miliardi di euro sul quale la magistratura ha acceso un faro, non sarà impresa facile. Vista più da vicino Torino non sembra poi così tanto lontana da Roma.

Ma se fai queste critiche, perché stai con il Movimento 5 Stelle? Scritto da Aldo Giannuli (dove traspare la sua ideologia comunista, naturale sbocco nel Movimento 5 Stelle) il 5 ottobre 2016. A volte mi sento dire (mi è capitato anche in una trasmissione su La7) “Ma visto che fai queste analisi critiche nei confronti del M5s, perché poi stai dalla loro parte?” In effetti è vero che spesso sono molto esplicito nelle mie critiche perché non ho nè la vocazione dell’avvocato di ufficio né quella del diplomatico, non mi piacciono né le difese di ruolo né i contorti giri di parole e se qualcosa non mi convince preferisco dirlo nel modo più chiaro e diretto. Detto questo, le ragioni per cui sto dalla parte del m5s sono molto più numerose ed importanti dei dissensi che, il più delle volte, dipendono dalla pasticcioneria un po’ arruffona con cui spesso procedono. Vorrei spiegare perchè indicare tre ordini di motivi strettamente correlati fra loro. In primo luogo, il successo elettorale del M5s è il riflesso della rivolta popolare che si sta manifestando in tutta Europa contro i partiti tradizionali che, ormai, rappresentano una casta omogenea incapace di affrontare la crisi ed interessata solo al mantenimento dell’ordine neo liberista che non vuol rimettere in discussione per nessun motivo. Per ora la rivolta sta assumendo questi toni e queste forme, per fortuna in Italia non si esprime attraverso movimenti di destra o propriamente fascistoidi, ma attraverso il M5s che, magari, su diversi punti ha idee non chiarissime (del tipo “né di destra né di sinistra”) e spesso sovrappone idee e posizioni non del tutto coerenti, ma resta pur sempre nel campo della democrazia. La mia estrazione politica è molto precisa e nota, io penso in termini di conflitto di classe e potete capire che su diversi punti dissento, ma se c’è una rivolta popolare che si muove sul terreno della democrazia (e non delle nostalgie fascistoidi, razziste e xenofobe), io sto dalla parte della rivolta popolare, anche se non è esattamente come la vorrei. Le rivolte non si scelgono, capitano e ti obbligano a scegliere se stare con loro o con il sistema di potere. La mia cultura politica mi ha sempre chiesto di schierarmi contro il sistema. Piaccia o no, il M5s è l’unico strumento a disposizione, per quanto imperfetto, per la lotta al sistema. Ditemi cosa altro c’è e discutiamone, io per ora non vedo niente altro. La conseguenza è che nella maggior parte dei casi mi trovo nel M5s chi si oppone alle stesse cose cui mi oppongo io: dalla riforma costituzionale al “riassetto di Bankitalia, dall’uscita dall’Euro alla questione della lotta alla legge truffa elettorale, dallo scontro sul job act e dell’abolizione dell’art 18 a quello sulla “buona scuola”, dalla lotta al Muos e degli F35 al rifiuto delle Olimpiadi. Non conosco altre forze politiche con cui registro tante convergenze su temi così importanti. Dunque, diciamo che una volta su 10 mi capita di essere in dissenso (ad esempio sulla questione dell’immigrazione, nel qual caso devo però ricordare che l’unica consultazione on line svolta sul tema, ha mostrato un orientamento molto diverso da quello della dirigenza) e quando capita lo dico lealmente a viso aperto, che credo sia il modo più onorevole di osservare l’obbligo di lealtà verso una forza politica con cui si collabora. Magari alcuni del M5s non gradiscono e preferirebbero solo lodi, ma forse anche loro un giorno capiranno che le critiche non indeboliscono ma rafforzano una parte politica che sappia usarle opportunamente. E con questo credo di essere stato chiaro. Aldo Giannuli

SUPER NOVA E L'OMICIDIO DEL MOVIMENTO PENTASTELLATO.

Supernova - Com'è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle, scrivono Marco Canestrari e Nicola Biondo su “Produzioni dal Basso”. Cos'è Supernova?

Volevano la democrazia partecipata, e adesso sono un'élite.

Volevano fare politica senza soldi. E adesso si scannano per i soldi.

Volevano lottare contro il sistema dei media. E adesso sono dipendenti dai media.

Volevano eliminare la casta. E adesso sono la casta.

Supernova è la vera storia del Movimento Cinque Stelle, come nessuno fino ad oggi l’ha mai raccontata. Documenti esclusivi, retroscena inediti, un resoconto dettagliato.

Supernova è un’inchiesta giornalistica, un memoriale, ma anche un progetto multimediale di data journalism e un video reportage su cosa è stato, cosa doveva essere e cosa è diventato il più grande esperimento politico di massa del nuovo secolo.

A svelare i segreti più profondi dei Cinque Stelle sono due professionisti che sono entrati nella stanza dei bottoni del Movimento: Marco Canestrari, web developer, dal 2007 al 2010 braccio destro di Gianroberto Casaleggio, e Nicola Biondo che ha diretto l'ufficio comunicazione M5S alla Camera.

Supernova è il racconto di come il potere abbia corrotto il sogno di un Paese migliore e di una politica fatta con e per i cittadini, decrittando per la prima volta dall'interno i codici e i buchi neri del Movimento cinque stelle.

Con Supernova trovano risposte le domande che in questi anni in tanti si sono fatti. Come nasce il blog di Beppe Grillo. Chi era davvero Gianroberto Casaleggio. Come immaginava la rivoluzione dal basso del Movimento Cinque Stelle, come nascono i primi V-Day, come si costruisce un progetto di democrazia in rete e come infine si arriva in Parlamento. Fino alla degenerazione: la guerra per i soldi e la visibilità, la scalata di alcuni parlamentari alla leadership senza esclusione di colpi, la divisione in correnti, l’assoggettamento alle regole del potere, i vuoti slogan sulla legalità, la trasformazione del movimento in una sorta di “casta degli anticasta”.

Perché una raccolta fondi?

Un'inchiesta ha dei costi: bisogna andare a scovare le fonti, trovare riscontri, scrivere, montare, rileggere, controllare, correggere. E' un lavoro, per svolgere il quale gli autori si avvalgono anche delle consulenze di professionisti. Solitamente questi costi sono coperti dagli editori: noi non ne abbiamo, così chiediamo il vostro aiuto per sostenerli. Chiunque effettui una donazione avrà accesso alle anticipazioni che pubblicheremo: già da ora è possibile leggere l'introduzione del libro e il capitolo "L'ultima telefonata".

Gli autori.

Nicola Biondo (1970) è stato perito giudiziario ausiliario per le procure di Milano, Brescia e Palermo. Componente della redazione di Blu Notte­ - Misteri italiani, la trasmissione condotta da Carlo Lucarelli, ha scritto inchieste e reportage per Avvenimenti, La Stampa, L'Adige, L'unità, Radio Radicale e il blog di Beppe Grillo. E' autore con Sigfrido Ranucci de "Il Patto" e Alkamar (Chiarelettere). Ha ideato e diretto il primo master in giornalismo investigativo per l'Università di Urbino e ha insegnato alla California University.

Dall'aprile 2013 al luglio del 2014 ha diretto l'ufficio comunicazione M5S alla Camera dei deputati. Oggi coltiva felicemente il suo orto vista mare.

Marco Canestrari (1983) è uno sviluppatore informatico. Dal 2007 al 2010 ha lavorato presso Casaleggio Associati occupandosi, per il blog di Beppe Grillo, della comunicazione con i MeetUp locali, della produzione di contenuti multimediali e dell’organizzazione dei V­Day del 2007 e del 2008. E’ autore del documentario “1992 ­- Una strage di Stato” (2010). Vive a Londra. 

“Come è stato ucciso il Movimento 5 Stelle”. L’introduzione del libro “Supernova”, scrivono Marco Canestrari e Nicola Biondo il 19/09/2016 su “La Stampa”. Pubblichiamo in anteprima l’introduzione al libro Supernova, il volume che racconta «come è stato ucciso il Movimento», scritto da Nicola Biondo e Marco Canestrari. Il libro uscirà tra due mesi, sul sito supernova5stelle.it e sarà finanziato non da un editore tradizionale, ma attraverso la piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso. Biondo è l’ex capo della comunicazione del M5S alla Camera. Canestrari è stato per quattro anni nella Casaleggio Associati.  I segreti del Movimento 5 Stelle vengono raccontati in un libro.

Italia, 2005. Un Paese stremato da due decenni di berlusconismo, con un’opposizione inesistente e complice. Un comico a fine carriera apre un blog, per gridare contro tutto quello che non va. Inizia una rivoluzione. E’ un percorso lento, ma contagioso, che in poco tempo mobilita decine di migliaia di persone desiderose di un reale cambiamento. 

Italia, 8 Settembre 2007. Il blog da virtuale diventa reale: a Bologna si tiene il primo V Day. V sta per Vaffanculo. La piazza è allegra, senza bandiere, ci sono migliaia di persone, sentono finalmente un profumo nuovo, come di pulito, in mezzo al pantano che è l’Italia. Questa è la vera storia del primo vincente esperimento politico mai nato in Rete. Ma anche la storia del più grande raggiro di massa mai messo in atto in una democrazia occidentale. Una rivoluzione allegra, pulita, sincera. Fallita nel più triste degli inganni, come un incubo che prende vita giorno dopo giorno. Milano, Via Morone 6, secondo piano. Casaleggio Associati. E’ un’azienda di strategie digitali. I vaffa, i post, l’uno vale uno, lo streaming, la piattaforma, il meetup, il non statuto: tutto nasce, si sviluppa, viene deciso lì. Tutto accade, lì. Noi ci siamo stati. Abbiamo visto. Sappiamo. E adesso, raccontiamo. Lo facciamo per quelle persone, tantissime, che hanno creduto tanto a quello che poi si è rivelato un grande inganno. Uomini, donne, tantissimi giovani che hanno investito in questo progetto le migliori energie e i migliori anni della propria vita, rompendo amicizie, litigando con le proprie famiglie, mettendo in gioco tutto. Loro meritano di sapere come, perché e da chi siano stati traditi. 

Italia, fine 2016. Meritano di saperlo tutti. 

«Vaffanculo non ti voglio più sentire» L’ultima lite tra Grillo e Casaleggio prima della morte del guru, scrive il 19/09/2016 la Redazione di "Giornalettismo". Iacopo Iacoboni rivela sulla Stampa il primo capitolo di Supernova il libro di Canestrari e Biondo sui segreti del Movimento 5 Stelle. Compresa l'ultima lite tra il comico genovese e la mente del M5S. L’ultima amara telefonata. Un litigio al quale non si è potuto porre rimedio. Il libro Supernova, scritto da Nicola Biondo, ex capo della comunicazione del Movimento alla Camera, e da Marco Canestrari, uomo di fiducia della Casaleggio Associati fino al 2011, promette di essere una bomba nel mondo pentastellato. Non sarà pubblicato da un editore tradizionale, ma grazie alla piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso. Ad anticipare parti del primo capitolo – che dovrebbe essere pubblicato online oggi lunedì 19 settembre – è Iacopo Iacoboni sulla Stampa: «Vaffanculo! Non ti voglio più sentire», grida dunque al telefono Casaleggio a Grillo. Pochi giorni dopo muore, e Grillo piange, senza aver avuto possibilità di un chiarimento con il suo amico. Non è uno scontro casuale, però, quello tra i due: è una divergenza strutturale su ciò che sta accadendo al Movimento, e sulla strada da prendere. Grillo confida ai suoi: «mi girano le scatole» – scrivono Biondo e Canestrari – per cos’è diventato il Movimento. Ha nostalgia degli inizi, naif ma puri. È estromesso da scelte di fondo che avvengono senza che lui le conosca: su tutte, la migrazione, cruciale, dal blog beppegrillo.it a ilblogdellestelle.it. Grillo non ne era stato informato, è un’altra rivelazione di Biondo e Canestrari: «Da Genova la cosa è stata presa male, perché in questo modo non è più il blog di Beppe il motore propulsore del Movimento. Casaleggio sceglie di guardare oltre il vecchio sodale, tutelando da una parte la sua azienda, dall’altra accontentando le richieste dei parlamentari che fanno un pressing asfissiante perché vogliono a tutti i costi un loro spazio che non sia all’ombra del blog di Grillo. E questo ovviamente al comico genovese non va giù». Iacoboni racconta di un movimento sempre più spaccato, diviso tra gruppi in lotta, diviso tra puristi e deputati “romani”. Un movimento in cui lo stesso Beppe Grillo stenterebbe a riconoscersi; per non parlare dei rapporti tra il comico genovese e il figlio del fondatore: Già, anche tra il fondatore e il figlio di Gianroberto le cose si sono guastate. «I rapporti tra i due sono tesissimi», raccontano Biondo e Canestrari. «L’indomani dell’incontro di Genova, i cinque del direttorio vanno a Milano proprio da Davide Casaleggio. E la frattura tra loro diventa pubblica per una forzatura di Casaleggio jr che poco dopo l’incontro con il direttorio pubblica un post: “Da domani si vota sul nuovo statuto”. È uno strappo. Ma a quell’annuncio non segue più nulla, il silenzio. Fino ad oggi». Tanti parlamentari chiamano Grillo sgomenti: davvero vuoi lasciare il simbolo al direttorio? «State tranquilli – replica Beppe – non ci penso nemmeno». Eppure la scalata non è finita. Se Imola è stata l’ultima festa di Gianroberto Casaleggio, Palermo, la kermesse M5S che si apre sabato «potrebbe essere davvero l’ultima festa di Beppe Grillo da leader del movimento».

TORMENTI PENTASTELLATI. Scrive il 19/09/2016 “Il Tempo”. Casaleggio e il litigio con Grillo prima di morire: "Non ti voglio più sentire". Due ex collaboratori del M5S rivelano le faide interne al MoVimento e l'ultima telefonata tra i due cofondatori IL LIBRO che fa tremare i grillini. “Vaffanculo! Non ti voglio più sentire”. Sarebbero state queste le ultime parole urlate da Gianroberto Casaleggio a Beppe Grillo. Uno scontro violento che sarebbe avvenuto nel corso di una telefonata fatta poco prima che il guru del M5S morisse. A rivelarlo in un libro che sta per essere pubblicato, sono due ex collaboratori del MoVimento. Il volume si intitola "Supernova - Com'è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle" e verrà finanziato attraverso la piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso. Da ieri è disponibile in rete un capitolo di lancio (clicca qui se vuoi saperne di più).  Gli autori Gli autori del volume sono Nicola Biondo, dall'aprile 2013 al luglio del 2014 a capo dell'ufficio comunicazione dei 5 Stelle alla Camera, e Marco Canestrari, dal 2007 al 2010 collaboratore della Casaleggio associati o, come si autodefinisce lui, “braccio destro di Gianroberto Casaleggio” in quegli anni. "I valori e i principi del M5S sarebbero ancora attuali, ma sono stati traditi da vertici parlamentari che dimostrano come la scelta della classe dirigente sia stata un fallimento" raccontato gli autori secondo cui Grillo, negli ultimi tempi, avrebbe confidato agli amici che "Gianroberto si era come incattivito. A volte stentavo a riconoscerlo. Mi spiace sia finita così...". Con Supernova, spiegano, “trovano risposte le domande che in questi anni in tanti si sono fatti. Come nasce il blog di Beppe Grillo. Chi era davvero Gianroberto Casaleggio. Come immaginava la rivoluzione dal basso del MoVimento Cinque Stelle, come nascono i primi V-Day, come si costruisce un progetto di democrazia in rete e come infine si arriva in Parlamento. Fino alla degenerazione: la guerra per i soldi e la visibilità, la scalata di alcuni parlamentari alla leadership senza esclusione di colpi, la divisione in correnti, l’assoggettamento alle regole del potere, i vuoti slogan sulla legalità, la trasformazione del movimento in una sorta di casta degli anticasta”.

M5s, online il primo capitolo di Supernova: rottura tra Grillo e Casaleggio. In Rete un’anticipazione del pamphlet scritto dagli ex M5s Marco Canestrari e Nicola Biondo che svela i retroscena del Movimento, scrive Monica Rubino il 19 settembre 2016 su “La Repubblica”. "Questa è la vera storia del primo vincente esperimento politico mai nato in Rete. Ma anche la storia del più grande raggiro di massa mai messo in atto in una democrazia occidentale". Comincia così Supernova, il libro che svela i retroscena dei cinquestelle, scritto da due ex comunicatori del Movimento, Marco Canestrari e Nicola Biondo. Del pamphlet si parla da giorni in Rete e oggi sono disponibili online l’introduzione e il primo capitolo sul sito supernova5stelle.it, ma solo per chi sostiene con almeno 5 euro la piattaforma di crowdfunding "Produzioni dal Basso" che finanzia la pubblicazione del volume. L'ultima telefonata. Supernova è il racconto di una rivoluzione fallita. E il titolo, che indica un'esplosione stellare, non è casuale. Scrivono ancora gli autori nell'introduzione: "Una rivoluzione allegra, pulita, sincera. Fallita nel più triste degli inganni, come un incubo che prende vita giorno dopo giorno". Il libro narra anche la storia di una frattura insanabile, quella tra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, avvenuta pochi giorni prima della morte di quest'ultimo. Il primo capitolo da oggi in Rete si intitola "L'ultima telefonata", quella intercorsa, appunto, fra i due fondatori del Movimento: "La voce è un grido e il grido è un 'Vaffanculo' - si legge nelle prime pagine - Solo che non c’è una folla acclamante davanti, e non c’è una piazza. C’è un uomo e quell’uomo è Beppe Grillo. E l’invito ad andare a quel paese è rivolto a lui. Al telefono. Da Gianroberto Casaleggio". Pochi giorni dopo Casaleggio muore senza che Grillo abbia avuto la possibilità di chiarire con il suo amico. Secondo gli autori di Supernova, quell'ultima telefonata "testimonia quello che il Movimento già non è più, spiega cosa sta diventando, descrive il rimpianto di Beppe per quello che sarebbe dovuto essere. È il paradigma di un nuovo assestamento strutturale che la 'dirigenza' sta perseguendo". Nel silenzio della base degli iscritti, che è all'oscuro di tutto. Tre sono gli attori del nuovo corso: Grillo, Davide Casaleggio che ha preso il posto del padre alla guida dell'azienda di famiglia  - la Casaleggio Associati - e il direttorio. "La posta è enorme - scrivono Canestrari e Biondo - chi ha accesso agli iscritti al blog e alla piattaforma Rousseau può mettere le mani sul Movimento". Il motivo dello scontro. All'origine dello scontro tra Beppe e Gianroberto c'è la migrazione dal blog beppegrillo.it a ilblogdellestelle.it, di cui il comico genovese non era stato informato, e la nascita di Rousseau. Grillo la prende male, spiegano gli autori di Supernova, perché in questo modo non c'è più il suo blog al centro delle attenzioni, "non è più il motore propulsore del Movimento". Ma "Casaleggio sceglie di guardare oltre il vecchio sodale, tutelando da una parte la sua azienda, dall'altra accontentando le richieste dei parlamentari che fanno un pressing asfissiante perché vogliono a tutti costi un loro spazio che non sia all'ombra del blog di Grillo. E questo ovviamente al comico genovese non va giù". Sono già alcuni mesi che si trova a disagio, si legge nel libro: "Grillo, fuori dal palco, nel Movimento conta sempre meno, soprattutto nella sua gestione quotidiana, ormai sempre più accentrata a Roma". I due fondatori perdono progressivamente uomini nel Direttorio: solo Carla Ruocco e Roberto Fico restano loro fedeli, mentre Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, in piena ascesa romana, dopo la "Notte dell'Onestà" a Roma nel gennaio 2015 avrebbero affermato di poter fare a meno di Grillo. Meritandosi per questo l'appellativo di "ragazzini cattivi", affibbiato loro dalla Ruocco. L'insofferenza del direttorio. E così a fine luglio 2016, Di Maio e Di Battista salgono con gli altri membri del direttorio a Genova per parlare di tante cose, ma soprattutto di simbolo e proprietà del Movimento. Grillo diserta e manda all'incontro suo nipote Enrico, avvocato e vicepresidente dell'associazione Movimento Cinque Stelle, formata da Beppe, il nipote Enrico e il commercialista Enrico Nadasi. "Poco o nulla trapela su quell'incontro - racconta il libro - tutto rimane segreto. Ci sono casi in cui lo streaming è meglio non farlo". Ma Roberto Fico si lascia scappare: "Noi siamo in mezzo tra Beppe e Davide". I rapporti tra i due, infatti, sono tesissimi. "L'indomani dell'incontro di Genova - scrivono Biondo e Canestrari - i cinque del direttorio vanno a Milano proprio da Davide Casaleggio. E la frattura tra loro diventa pubblica per una forzatura di Casaleggio jr, che poco dopo l'incontro con il direttorio pubblica un post: 'Da domani si vota sul nuovo statuto'. È uno strappo. Ma a quell'annuncio non segue più nulla, il silenzio. Fino ad oggi". Statuto e simbolo. Tanti parlamentari chiamano Grillo per sapere se davvero vuole lasciare il simbolo al direttorio, ma lui rassicura: "State tranquilli, non ci penso nemmeno". E così, si legge in Supernova, "l'ultima spallata a Grillo viene sventata. Ma la resa dei conti è solo rimandata". Rimane sul piatto la questione legale: "A chi appartengono gli iscritti del Movimento - si chiedono Canestrari e Biondo - all'associazione Movimento Cinque Stelle o all'azienda Casaleggio Associati nei cui server sono contenuti tutti i loro dati? E chi li gestirà in futuro quando sarà pronto un nuovo statuto del Movimento?". Quest'incertezza, sottolineano gli autori di Supernova, è anche il motivo per cui non sono stati rispettati i tempi annunciati per la pubblicazione del nuovo statuto: "Doveva essere pronto prima della prossima festa nazionale dei Cinque Stelle, che sarà a Palermo il 24 e 25 settembre. E se quella di Imola è stata l'ultima festa di Gianroberto Casaleggio, questa di Palermo che arriva tra mille difficoltà e imbarazzi, potrebbe essere davvero l'ultima festa di Beppe Grillo da leader del Movimento".

Supernova, online il primo capitolo del libro degli ex M5s: “Racconteremo la vera storia del Movimento”. L'ex dipendente della Casaleggio associati Canestrari e l'ex capo della comunicazione 5 stelle alla Camera Biondo lanciano il progetto "Supernova": una raccolta fondi per scrivere un libro con documenti e retroscena. Nel primo capitolo anticipato alla stampa si racconta di tensioni tra i due cofondatori e di spaccature dentro il direttorio. Da quanto si apprende i vertici non hanno intenzione di replicare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 settembre 2016. “La vera storia del Movimento 5 stelle come nessuno fino ad oggi l’ha mai raccontata. Dallo scontro tra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio ai malumori sullo statuto tra il leader e il figlio del cofondatore”. Dopo un countdown di una settimana, gli ex M5sMarco Canestrari e Nicola Biondo hanno lanciato il progetto “Supernova, come è stato ucciso il M5s” e una raccolta fondi in rete per poter scrivere un libro con “documenti esclusivi, retroscena inediti e un resoconto dettagliato”. I vertici del Movimento da quanto si apprende non replicheranno. Per i grillini si apre una delle settimane più delicate che culminerà con il raduno di Italia 5 stelle a Palermo e mentre tutti gli occhi sono puntati sulla crisi della giunta di Roma, l’obiettivo è non prestare il fianco ad ulteriori polemiche. Gli autori sono due ex dello staff di Casaleggio e del Movimento: Biondo oltre ad essere stato perito giudiziario ausiliario e aver collaborato con varie testate giornalistiche, per un anno e mezzo ha diretto l’ufficio comunicazione M5s alla Camera e se n’è andato dopo un duro scontro all’interno del gruppo nel post Europee; Canestrari è uno sviluppatore informatico, nel periodo 2007-2010 ha lavorato per la Casaleggio associati e ad aprile 2016 ha creato un sito che monitora le spese dei parlamentari 5 stelle. Il primo capitolo dato in esclusiva ai giornalisti e a chi ha deciso di fare una donazione di almeno 5 euro si intitola “l’ultima telefonata”. Parte dal presunto scontro che ci sarebbe stato tra Grillo e Casaleggio pochi giorni prima della morte di quest’ultimo. “E’ uno dei passaggi più rilevanti e drammatici della storia del Movimento: testimonia quello che il Movimento già non è più”, scrivono. Il motivo della lite sarebbe derivato, si legge, dal fatto che Casaleggio negli ultimi tempi aveva informato meno il comico delle evoluzioni della struttura generale: dalla nascita del Blog delle Stelle al portale Rousseau. Canestrari e Biondo scrivono anche che Grillo, quando dal palco di Imola annunciò che avrebbe tolto il suo nome dal simbolo, non era convinto: “Non credo sia questo che la nostra gente vuole”, avrebbe detto dietro le quinte. La rottura tra i due cofondatori, sempre secondo gli autori, è la stessa che oggi c’è tra Grillo e Davide Casaleggio. Ora al centro della discussione c’è il “non statuto” che regola il funzionamento del Movimento. A fine luglio scorso il direttorio ha incontrato Grillo, il nipote Enrico e il commercialista per parlare dei cambiamenti da apportare al documento. In quel momento si ipotizza addirittura di cedere la proprietà del simbolo ai cinque parlamentari e nei giorni successivi il blog annuncia che ci sarà un voto in rete per arrivare con un testo condiviso per fine settembre. Questo non è mai successo e sul ritardo nessuno si è mai espresso. Secondo Canestrari e Biondo la causa è uno scontro che vede contrapposti Grillo e Davide Casaleggio e in mezzo il direttorio. Sullo sfondo anche la guerra di potere tra i parlamentari scelti per rappresentare il gruppo: gli ortodossi Carla Ruocco e Roberto Fico sono descritti come i più fedeli al comico e in opposizione ai sempre più indipendenti Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. “Ecco perché quella di Palermo potrebbe essere davvero l’ultima festa di Beppe Grillo da leader del Movimento”, concludono i due autori le prime sei pagine del libro.

Supernova, il libro che fa tremare il M5s. Guerra intestina Direttorio-Grillo. Ecco il libro che fa tremare il Movimento 5 Stelle. Le rivelazioni: "Litigio durissimo tra Grillo e Casaleggio poco prima della morte di Gianroberto", scrive "Affari Italiani" il 19 settembre 2016. Il giorno che il Movimento 5 Stelle temeva è arrivato. E' stata diffusa in Rete la prima parte di "Supernova", il libro di Marco Canestrari e Nicola Biondo che si propone di fare molte scomode rivelazioni sul Movimento 5 Stelle e sui suoi fondatori, a cominciare da Beppe Grillo. Canestrari e Biondo, ex comunicatori del Movimento 5 Stelle, hanno autoprodotto il libro tramite crowdfunding. L’introduzione e il primo capitolo sul sito supernova5stelle.it, per chi sostiene con almeno 5 euro la piattaforma di crowdfunding "Produzioni dal Basso" che finanzia la pubblicazione del volume. Sul sito che pubblica il libro si legge: "Supernova è la vera storia del Movimento Cinque Stelle, come nessuno fino ad oggi l’ha mai raccontata. Documenti esclusivi, retroscena inediti, un resoconto dettagliato. Supernova è un’inchiesta giornalistica, un memoriale, ma anche un progetto multimediale di data journalism e un video reportage su cosa è stato, cosa doveva essere e cosa è diventato il più grande esperimento politico di massa del nuovo secolo". "A svelare i segreti più profondi dei Cinque Stelle sono due professionisti che sono entrati nella stanza dei bottoni del Movimento: Marco Canestrari, web developer, dal 2007 al 2010 braccio destro di Gianroberto Casaleggio, e Nicola Biondo che ha diretto l'ufficio comunicazione M5S alla Camera", si legge ancora. "Supernova è il racconto di come il potere abbia corrotto il sogno di un Paese migliore e di una politica fatta con e per i cittadini, decrittando per la prima volta dall'interno i codici e i buchi neri del Movimento cinque stelle. Con Supernova trovano risposte le domande che in questi anni in tanti si sono fatti. Come nasce il blog di Beppe Grillo. Chi era davvero Gianroberto Casaleggio. Come immaginava la rivoluzione dal basso del Movimento Cinque Stelle, come nascono i primi V-Day, come si costruisce un progetto di democrazia in rete e come infine si arriva in Parlamento. Fino alla degenerazione: la guerra per i soldi e la visibilità, la scalata di alcuni parlamentari alla leadership senza esclusione di colpi, la divisione in correnti, l’assoggettamento alle regole del potere, i vuoti slogan sulla legalità, la trasformazione del movimento in una sorta di “casta degli anticasta”. Già, perché in fin dei conti Supernova è il racconto di una rivoluzione fallita. Il primo capitolo rivela l'esistenza di una importante telefonata, chiamata "l'ultima telefonata", quella intercorsa fra i due fondatori del Movimento, Grillo e Casaleggio: "La voce è un grido e il grido è un 'Vaffanculo' - si legge nelle prime pagine - Solo che non c’è una folla acclamante davanti, e non c’è una piazza. C’è un uomo e quell’uomo è Beppe Grillo. E l’invito ad andare a quel paese è rivolto a lui. Al telefono. Da Gianroberto Casaleggio". Pochi giorni dopo Casaleggio muore senza che Grillo abbia avuto la possibilità di chiarire con il suo amico. Secondo gli autori di Supernova, quell'ultima telefonata "testimonia quello che il Movimento già non è più, spiega cosa sta diventando, descrive il rimpianto di Beppe per quello che sarebbe dovuto essere. È il paradigma di un nuovo assestamento strutturale che la dirigenza sta perseguendo". Il motivo dello scontro tra Grillo e Casaleggio, secondo gli autori, è l'appoggio di Casaleggio ad alcuni parlamentari che vorrebbero uscire dal gioco del blog del comico. "La posta è enorme - scrivono Canestrari e Biondo - chi ha accesso agli iscritti al blog e alla piattaforma Rousseau può mettere le mani sul Movimento". Il motivo dello scontro. All'origine dello scontro tra Beppe e Gianroberto c'è la migrazione dal blog beppegrillo.it a ilblogdellestelle.it, di cui il comico genovese non era stato informato, e la nascita di Rousseau. Grillo la prende male, spiegano gli autori di Supernova, perché in questo modo non c'è più il suo blog al centro delle attenzioni, "non è più il motore propulsore del Movimento". Ma "Casaleggio sceglie di guardare oltre il vecchio sodale, tutelando da una parte la sua azienda, dall'altra accontentando le richieste dei parlamentari che fanno un pressing asfissiante perché vogliono a tutti costi un loro spazio che non sia all'ombra del blog di Grillo. E questo ovviamente al comico genovese non va giù". Il libro parla anche dell'ascesa di Di Maio e Di Battista e il loro tentativo di emanciparsi da Grillo per abbracciare di più Davide Casaleggio, presentato come l'antagonista di Grillo. "A chi appartengono gli iscritti del Movimento - si chiedono Canestrari e Biondo - all'associazione Movimento Cinque Stelle o all'azienda Casaleggio Associati nei cui server sono contenuti tutti i loro dati? E chi li gestirà in futuro quando sarà pronto un nuovo statuto del Movimento?". Uno statuto in ritardo che nasconde una guerra intestina che potrebbe anche portare a una clamorosa e decisiva spallata ai danni di Grillo.

«Quell’ultimo litigio tra Grillo e Casaleggio»: il pamphlet degli ex. In uscita tra due mesi «Supernova», il libro scritto dagli ex pentastellati Canestrari e Biondo: «Fallita la scelta dei dirigenti», scrive Marco Imarisio il 18 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. Non tutti i vaffa sono uguali. Ma questo potrebbe diventare il più importante nella storia pur piena di inviti a visitare quel paese del Movimento 5 Stelle. Se confermato, cosa che appare difficile. Eppure sono in molti a sapere del modo brusco con il quale un Gianroberto Casaleggio ormai molto provato dalla malattia concluse la sua ultima telefonata con Beppe Grillo, l’amico di sempre. Pochi giorni dopo il cofondatore milanese di M5S sarebbe morto all’Istituto Auxologico di Milano. «Questa è la vera storia di una rivoluzione fallita nel più triste degli inganni». Eccolo, il libro del quale si discute da giorni nel mondo pentastellato. Magari non farà tremare il direttorio, Davide Casaleggio e l’ala governativa del M5S, i suoi bersagli, ma dovrebbe indurre a qualche riflessione. Il pamphlet, perché alla fine di questo di tratta, si intitolaSupernova, come le esplosioni delle stelle. L’opera completa uscirà tra due mesi e sarà finanziata attraverso crowdfunding su supernova5stelle.it, ma da ieri notte è visibile online il primo capitolo. Gli autori sono due ex dirigenti pentastellati uniti da una visione idealistica del Movimento e da una uscita di scena alquanto brusca, una specialità della casa. Nicola Biondo ha diretto la comunicazione dei deputati M5S fino alla sconfitta del giugno 2014 alle Europee. Prima di allora era stato perito giudiziario, aveva scritto inchieste e reportage per approdare infine al blog di Beppe Grillo. Gli è stata fatale una assemblea dove la sua critica della strategia del M5S risultò indigesta ad alcuni parlamentari di vaglia. Oggi si gode la buonuscita e coltiva un orto vista mare a San Vito Lo Capo, in Sicilia. Marco Canestrari entrò alla Casaleggio Associati nel 2007, a soli 24 anni, su chiamata diretta del titolare. Divenne responsabile dei Meet up per il sacro blog. Con uno sfottò affettuoso Grillo lo chiamava «la mente grigia». Li ha visti da molto vicino. Un tecnico fondatore, o quasi. Ha sbattuto contro gli spigoli di Casaleggio figlio. Non si amavano. Ancora oggi Canestrari, operatore informatico con base a Londra, risulta iscritto al M5S. «I valori e i principi del M5S sarebbero ancora attuali» dicono. «Ma sono stati traditi da vertici parlamentari che dimostrano come la scelta della classe dirigente sia stata un fallimento». Quell’ultima telefonata diventa «il paradigma del nuovo assestamentostrutturale che la “dirigenza” del Movimento sta perseguendo all’insaputa degli iscritti e di cui Grillo da tempo si lamenta». Secondo gli autori, negli ultimi mesi di vita Casaleggio non ha mai informato Grillo di alcuni passaggi fondamentali. La nascita del Blog delle Stelle, la piattaforma Rousseau. «In questo modo non è più il blog di Grillo al centro delle attenzioni; il motore propulsore di M5S, la sua comunicazione, migrano altrove». Nel gennaio 2015 la fedelissima Carla Ruocco accusa di ingratitudine Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista che dopo la «Notte dell’onestà» a Roma avrebbero affermato di poter fare a meno del comico genovese. Ai funerali di Casaleggio se ne esce con una battuta che riassume lo spirito di questo pamphlet. «Lui è morto, Beppe è isolato e io rimango con questi ragazzini cattivi». Tutti episodi che necessitano di conferma. A modo suo Supernova testimonia l’asprezza della lotta intestina del M5S. Governativi e ortodossi gli uni contro gli altri, con il premio finale rappresentato dalla gestione del database dei blog, ovvero degli iscritti del Movimento. Biondo e Canestrari sostengono che l’imminente Festa nazionale dei 5 Stelle potrebbe essere l’ultima con Grillo nella veste di leader. Per ora è solo una profezia. La scelta di tempo per il lancio del libro comunque è perfetta.

GUERRE STELLARI, scrive Alberto Di Majo su “Il Tempo” il 20/09/2016. "Soldi, rimborsi, litigi e segreti Il M5S è la casta dell’anticasta"

L'intervista a Nicola Biondo, ex portavoce 5 Stelle. «Il potere li ha cambiati, sono diventati la casta dell’anticasta. Hanno cominciato con gli scontrini, andate a vedere i rimborsi che hanno e le altre spese. Lo dicevamo spesso con Casaleggio: se il MoVimento 5 Stelle si trasforma in un partito è finito». Nicola Biondo, ex responsabile della comunicazione pentastellata a Montecitorio, scandisce le parole, non ha fretta. Probabilmente ha pianificato con calma l’«operazione», condivisa con un altro ex, Marco Canestrari, che ha lavorato per tre anni al blog di Beppe Grillo come dipendente della Casaleggio e Associati. Si sono inventati di scrivere un libro sul MoVimento man mano che le persone li finanziano sul web. Si chiama «crowdfunding». È lo stesso principio che rende possibile, in gran parte, le iniziative dei 5 Stelle. Il loro libro si intitola «Supernova - Com’è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle». Sul sito, per ora, si può leggere l’introduzione, in cui si svela che l’ultima telefonata tra Grillo e Casaleggio fu tutt’altro che amichevole. Insomma, il comico e il manager, che insieme hanno creato il blog e il «non partito», avevano alcuni contrasti. Non solo. Nelle prime pagine si racconta anche il presunto distacco di alcuni esponenti del MoVimento da Grillo. Ora Biondo promette nuove rivelazioni. È soddisfatto per aver raccolto in pochissimo tempo quasi 1.500 euro da 161 sostenitori. E guarda avanti.

Quindi Biondo, secondo lei e Canestrari il MoVimento è finito?

«I suoi principi restano validi ma non vanno bene né i suoi esponenti né le modalità con cui sono stati scelti. Di questo passo resteranno nel MoVimento soltanto i leccaculi».

La palude a 5 Stelle e il miraggio anti casta. Riflessioni. Non pare scarsa cultura di governo ma arrembaggio al potere di un non-movimento, scrive Imma Barbarossa su “Il Manifesto” il 9.9.2016. Certo, Roma ne ha passate di brutte: dall’incendio di Nerone al sacco dei Vandali alle repressioni dei papi re ai bombardamenti dei nazisti, ai moderni saccheggi dei palazzinari a Mafia Capitale, al funerale fastoso di un padrino dei Casamonica. Di fronte a tutto questo l’amara sceneggiata dei 5 Stelle è nulla. Sarà per la mia formazione comunista non «aggiornata», sarà per il mio moralismo di vecchio stampo, ma devo confessare che mi colpì molto durante le elezioni amministrative il sostegno ai candidati 5 Stelle di Salvini e dei suoi accoliti. Sostegno non smentito oggi dalle posizioni morbidissime dello stesso Salvini sui fatti di Roma. Il fatto è che gli avversari e accusatori dei 5 Stelle non brillano per «innocenza»; ha ragione Norma Rangeri sul «pulpito» da cui vengono le prediche. Si pensi al Pd, ai suoi illustri indagati, alle sue gravissime responsabilità. Si pensi al centrodestra. Per carità! Ma queste sacrosante cautele non possono e non devono offuscare le nostre capacità critiche. Né impedirci di notare l’imbarazzo dei simpatizzanti grillini alla Travaglio, alla Flores, persino di sindacalisti di «estrema» sinistra, per i quali tutto il ripudio del cosiddetto «sistema dei partiti» e l’assalto alla Casta, che ne è l’esito allarmante, valgono a saltare su un «movimento» che nulla ha di movimento, che si è anzi presentato subito come una casta dell’Anticasta, giustizialista a senso unico, costruita attorno a un’Azienda web, ingrassata sul malcontento, sulla crisi, sull’insofferenza verso gli immigrati, sulla sfiducia del «popolo» verso i suoi rappresentanti. Sull’assenza di una sinistra progettuale, capace di interpretare la crisi e di ricondurre disagio e malcontento a una proposta di trasformazione. Insomma sull’assenza di un’ «antitesi vigorosa» (Gramsci). Se con Berlusconi si diffuse una sorta di passivizzazione e di «corruzione» di massa, da Renzi alla società italiana vengono autoritarismo strisciante, cialtrone, pericoloso per i suoi oscuri referenti sociali, economici, politici e l’introiezione della necessità di «adeguamento» alle cosiddette novità che ha prodotto un trasformismo stupefacente (vedi gli ex comunisti sostenitori del Sì al referendum, uno fra tutti Mario Tronti). Devo dire con sollievo che il manifesto non si è aggregato al vento grillino e gli articoli di Giuliano Santoro sono sempre stati cauti. L’articolo di Annamaria Rivera sul razzismo anti immigrati era illuminante, ora dopo i fatti di Roma ha pienamente ragione Sandro Medici (il manifesto del 6 settembre) nell’analisi delle scelte affidate «a un’oligarchia gestionale di tecnici, magistrati, avvocati e avvocaticchi, contabili, burocrati, consulenti, esperti di varia caratura, nonché pensionati ringalluzziti», strapagati e rigorosamente «né di destra né di sinistra», cioè in gran parte di destra. Le vicende di Roma sono, ahimè, esemplari: tra bugie e scontri personali e di gruppo, non si tratta secondo me di una «scarsa cultura di governo» (sarebbe bello se dicessero «vogliamo contestare quello che voi – Pd e dintorni – chiamate intendete per cultura di governo»); quello che appare è uno squallido arrembaggio al potere, una smania di sostituirsi al vecchio ceto politico, con «cittadini» senza partito ma ammanigliati nei dintorni del Potere. Personaggi a cui importa poco di raccogliere le firme contro il Job’s Act o la Buona Scuola, e d’altronde anche sulla Costituzione si sono mossi tardi e ora accelerano freneticamente per il miraggio di sostituire Renzi al potere. Lo spettacolo del palco di Nettuno, poi, è illuminante: il Padrone viene a sistemare gli errori e le sviste dei ragazzi, urlando e sputando su nemici e complotti. Un’ultima amara considerazione: tra questi personaggi senza storia fa impressione la presenza di tante donne 5 Stelle, «innocenti» e ignare della storia delle donne, fatta di conquiste di autonomia, di libertà e di liberazione dai padri, dal padre, dal capo azienda.

M5s,il socio di Casaleggio: "Vi spiego sogni e segreti di Gianroberto". Intervista a Maurizio Benzi, socio della Casaleggio Associati e ideatore del primo Meetup di Beppe Grillo nel 2004, scrive Lorenzo Lamperti su "Affari Italiani", Venerdì 24 giugno 2016. E' stato sicuramente uno dei personaggi politici, nel senso più ampio del termine, più importanti degli ultimi anni. Comunque la si pensi. Ora esce con Chiarelettere un libro che raccoglie i suoi "aforismi". Stiamo parlando di Gianroberto Casaleggio. In attesa dell'uscita del libro, Affaritaliani.it ha intervistato Maurizio Benzi, socio della Casaleggio Associati e ideatore del primo Meetup di Beppe Grillo nel 2004.

Come ha conosciuto Casaleggio e che cosa ha significato per lei il vostro rapporto?

«Gianroberto scriveva articoli sull’evoluzione della Rete per un magazine fantastico che si chiamava “Webmarketing Tools”, che è stato il riferimento per chi, come me, ha iniziato a lavorare nell’ambito di Internet alla fine degli anni ’90. Al mio primo colloquio di lavoro rimasi colpito dal fatto che l’Amministratore Delegato di un’azienda importante potesse conoscere così bene la Rete, i suoi impatti sulla società ed avere una visione tanto chiara del futuro. A quell’epoca le altre aziende di informatica, disse lui, “si sono tutte focalizzate sul Millennium Bug. Non hanno capito niente della rivoluzione che Internet porterà nei prossimi anni”.  Ci trovammo subito in sintonia e per i successivi 16 anni è stato per me un capo, un mentore e un amico».

Qual è l'obiettivo di questo libro?

«Gianroberto era schivo e riservato. Questo forse ha impedito che gli venisse attribuito il giusto riconoscimento per la sua capacità di innovare sia attraverso la consulenza alle imprese, sia nella politica. Ho immaginato un modo attraverso cui avrei potuto trasmettere le sue riflessioni, i suoi valori, anche a chi non ha avuto modo di conoscerlo di persona. Questo libro spero riesca a raggiungere lo scopo di mantenere vive le idee di Gianroberto Casaleggio e di ispirare le persone a credere nei propri sogni e a lottare con tenacia per essi. Anche sfidando il pensiero convenzionale».

Un pregio e un difetto di Casaleggio?

«Chi ha avuto modo di parlare con lui non può che aver avuto la sensazione di trovarsi di fronte ad un uomo che aveva pensato più degli altri. Per descriverlo, il premio Nobel Dario Fo ha usato queste parole: “Era un uomo di una conoscenza straordinaria, faceva collegamenti molto acuti fra i vari testi e aveva un modo di esprimersi riguardo alle diverse situazioni mai banale e prevedibile.” È chiaro che chi ha una personalità forte e dice ciò che pensa in modo diretto, può essere una persona con cui non è facile relazionarsi»

Il più bel ricordo che ha di lui?

«Gianroberto era una persona che motivava gli altri a dare sempre il meglio di sé e a migliorarsi continuamente attraverso l'esempio diretto. Se stabiliva un obiettivo, nessuna avversità poteva fermarlo. Nelle ultime settimane, nonostante la sua salute non fosse buona, non smetteva di venire in ufficio. Diceva che si sarebbe preso una pausa solo dopo la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma»

Lei fondò il primo Meetup di Grillo. Com'è nata l'idea e come ci si arrivò?

«Gianroberto ha sempre sostenuto che l’intelligenza collettiva è l’arma che le persone hanno per ottenere i cambiamenti che desiderano. E per riuscire farlo devono avere modo di entrare in contatto tra di loro. Oggi i Social Network facilitano le aggregazioni su base spontanea, ma dieci anni fa le cose erano molto diverse. La nostra società già all’epoca si dedicava allo studio di Internet e delle sue prospettive. Fu così che scoprimmo l’uso innovativo della Rete che il candidato americano Howard Dean aveva fatto pochi mesi prima, durante la sua campagna del 2004. Tra queste innovazioni risultò chiaro che Meetup poteva essere un ottimo strumento per ridurre le distanza tra il mondo digitale a quello fisico. Sono orgoglioso di aver contribuito creando il primo Meetup a Milano e gestendolo per alcuni mesi».

Casaleggio disse che "il leader del M5s è il M5s stesso". Che cosa significa? E' davvero così?

«Nel libro è citata una massima di Marco Aurelio che Gianroberto apprezzava molto: “Ciò che non è utile per l'alveare non lo è neppure per l'ape.” Tra le intuizioni di Gianroberto c’è il fatto che l’idea che lega un gruppo di persone sia più forte degli individui presi singolarmente. I commentatori hanno spesso ingigantito il ruolo del leader, di colui che quasi da solo risolve ogni problema, relegando così in secondo piano tutto il resto. E noi ci siamo abituati a queste logiche perché desideriamo avere eroi a cui appassionarci. Eppure ciò che pensava Gianroberto è che il nostro Paese non abbia bisogno di un salvatore a cui delegare tutte le responsabilità, ma di un cambiamento di mentalità che ci consenta di tornare a essere una comunità e di prenderci individualmente le nostre responsabilità».  

Il voto di Roma e Torino è l'ennesimo successo del M5s. Casaleggio aveva subito in mente di dare vita a una forza potenzialmente di governo oppure no?

«L'obiettivo di Casaleggio era di poter vivere in un Paese migliore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie idee. Se il Movimento 5 Stelle è nato ed è cresciuto è perché la politica non ha voluto scendere dal piedistallo e ascoltare i veri datori di lavoro, cioè i cittadini. Gianroberto aveva in mente la Democrazia Diretta: persone informate che decidono il futuro della collettività senza doversi affidare a intermediari che prendono le decisioni importanti senza interpellarli».

Casaleggio disse che "Facebook e Google ci conosceranno più dei nostri amici". La riteneva una cosa giusta, normale oppure no?

«Era preoccupato da questa possibilità. Se già oggi le grandi compagnie americane conoscono le nostre preferenze ed hanno memoria delle nostre ricerche, cosa succederà tra 5 o 10 anni? Eli Pariser nel suo libro “The Filter Bubble”, ha spiegato molto bene i rischi di questo concentramento di potere. Gianroberto aveva fiducia nelle capacità di autoregolarsi della Rete. Ma da appassionato di Futurologia non poteva non considerare anche i possibili rischi».

Qual è la più grande lezione che la nostra politica e il nostro Paese possono imparare da Casaleggio?

«Karl Popper diceva: “I nostri sogni e desideri cambiano il mondo.”  Ed è così. Nessun politico avrebbe mai potuto prevederlo ma Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo partendo da un sogno hanno creato il Movimento 5 Stelle, che ha rappresentato l'unione dei desideri di milioni di italiani. E sono certo che il futuro testimonierà la portata delle idee e delle innovazioni di Gianroberto, più di quanto oggi non si riesca ad immaginare»

Gianroberto Casaleggio. AFORISMI. Prefazione di Davide Casaleggio. Lettera a un amico di Luca Eleuteri. A cura di Maurizio Benzi. In libreria dal 27 giugno con Chiarelettere. Gianroberto Casaleggio amava la creatività, l’innovazione, la profondità di pensiero e nello stesso tempo la chiarezza e la semplicità. Lettore instancabile di generi diversi (dalla fantascienza al saggio storico ai classici), usava l’aforisma come chiave per esprimere in modo sinteticamente preciso riflessioni elaborate.  Un modo di comunicare che rispondeva anche al suo carattere. Il libro è diviso in due parti. Nella prima sono raccolte le frasi e le dichiarazioni che Casaleggio ha concepito nel corso degli anni sotto varie forme, dal libro all’intervista, o durante la sua esperienza di lavoro, con i colleghi. Nella seconda è invece presente una raccolta di aforismi che Casaleggio apprezzava particolarmente e che usava a seconda delle circostanze. Tutti insieme questi testi brevi aiutano a capire quali erano i riferimenti e l’armatura concettuale di un personaggio unico, che si è imposto all’improvviso all’opinione pubblica e che in pochi anni ha segnato in modo decisivo il cambiamento culturale e politico del nostro paese. Gianroberto Casaleggio (Milano 1954-2016) è stato un manager, studioso e stratega della Rete, ed esperto di dinamiche web. Inizialmente progettista di software per la Olivetti, nel 1985 è direttore generale e amministratore delegato di Logicasiel, società partecipata da Logica Plc e Finsiel, e dal 2000 al 2003 esercita la carica di amministratore delegato di Webegg Spa, partecipata da Telecom Italia e Olivetti. Ha ricoperto il ruolo di consigliere di amministrazione in varie aziende. Nel 2004 fonda la Casaleggio Associati, società di consulenza per lo sviluppo di strategie di Rete per le imprese. Dal 2005 è stato curatore del blog di Beppe Grillo, con il quale nel 2009 ha fondato il Movimento 5 Stelle. Ha pubblicato diversi libri. Per Chiarelettere: “Siamo in guerra. Per una nuova politica” (con Beppe Grillo) e “Il Grillo canta sempre al tramonto. Dialogo sull’Italia” (con Dario Fo e Beppe Grillo). Maurizio Benzi è un socio di Casaleggio Associati, esperto di strategie Internet e innovazione digitale. Laureato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, si occupa professionalmente di Internet dal 1998. È specializzato nella definizione delle strategie online per le imprese e nei progetti di comunicazione e Digital marketing. Nel 2000 è entrato a far parte del team Digital Strategy di Webegg. Dal 2004 collabora con Casaleggio Associati, dove attualmente gestisce i progetti di consulenza nell’ambito delle strategie Internet di alcuni dei principali clienti della società.

IL WATERGATE GRILLINO, OSSIA IL M5SGATE.

L'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

L’ultimo leninista, scrive Fabrizio Rondolino il 13 aprile 2016 su “L’Unità”. “Ad un certo punto pensai di fare a meno di lui, e me ne sono pentito”: Antonio Di Pietro, che di Gianroberto Casaleggio era anche uno degli avvocati, ricorda l’amico scomparso con una punta di rammarico che conferma e rafforza la fama del santone della Rete capace, con la sue sole capacità di web marketing, di creare dal nulla un partito e portarlo al trionfo elettorale. È tuttavia improbabile che l’Italia dei valori avrebbe avuto lo stesso successo del M5s se avesse continuato a giovarsi della collaborazione di Casaleggio; più ragionevole credere che sia stato invece Casaleggio, dopo un primo tentativo con Di Pietro, a cercarsi un altro avatar attraverso il quale conquistare il potere: Beppe Grillo. Entrambi tuttavia – il magistrato che ha messo a nudo i delitti della Casta e il comico che l’ha sbeffeggiata per trent’anni – hanno in comune un tratto essenziale dell’ideologia casaleggiana: nel partito moderno, che obbedisce scrupolosamente alle regole della pubblicità e del marketing, il leader è sostituito dal testimonial, il quale è chiamato a recitare un copione scritto da altri ed è in grado di inverare, esclusivamente grazie alla propria biografia, il programma di cui è portatore passivo. Non c’è alcun contenuto nel M5s: e la grandezza di Casaleggio sta nell’aver capito per primo che per la politica contemporanea il contenuto è soltanto un peso e un intralcio agli acquisti, e l’unica cosa che interessa al consumatore-elettore è il brand, l’identità, l’appartenenza ad un gruppo coeso e omogeneo. Steve Jobs ha costruito le fortune della Apple su un modello di marketing analogo, che spinge i consumatori a ricomprare sempre gli stessi oggetti, lievemente rinnovati, per riconfermare la propria appartenenza ad una comunità esclusiva. Dal punto di vista organizzativo, il M5s somiglia molto ad un classico partito leninista novecentesco: c’è una base ristretta di seguaci pronti a tutto (quelli che un tempo si chiamavano rivoluzionari di professione), c’è un potente sistema di comunicazione (i comunisti lo chiamavano agit-prop) e c’è una leadership carismatica e inamovibile (il segretario generale conclude contemporaneamente l’incarico e la vita): su questo modello, Casaleggio ha innestato da un lato l’aggressività del marketing digitale, capace di unificare il pulviscolo di storie, interessi, rancori e speranze che agita una parte di società, e dall’altro la potenza semplificatoria dell’insulto, il mantra identitario che consolida la comunità e la distingue dalle altre. Più che interrogarsi sulla grandezza di Casaleggio, bisognerebbe forse riflettere sulla permeabilità assoluta della nostra società politica e sulla deriva dell’opinione pubblica. Il tratto antimoderno, per non dire reazionario, dell’ideologia casaleggiana sta proprio qui, in questo ostinato rifiutare la complessità del Moderno, che porta con sé la tolleranza come strumento di sopravvivenza e la continua revisione delle idee come motore dello sviluppo, per rifluire invece in una visione settaria, integralista, medievale, dove il Bene e il Male si confrontano nella loro immutabile fissità. Intollerante e ottuso il M5s lo è per natura, e non c’è bisogno di ricordare le centinaia di espulsioni a tutti i livelli (sempre imposte da Casaleggio) per averne conferma. Resta da capire che cosa succederà adesso che l’unica testa pensante non c’è più. Il brand resta molto forte, ma il testimonial appare stanco e i venditori porta a porta sono pronti a dilaniarsi per il controllo del partito, mentre l’utopia internettiana della trasparenza e della partecipazione non interessa più nessuno.

Antonio Di Pietro: "Con Casaleggio al mio fianco io sarei ancora in politica", scrive “Libero Quotidiano” il 14 aprile 2016. In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro. Il quale oggi, in una intervista al Fatto Quotidiano si dispera per l'interruzione di quel rapporto di collaborazione in presenza del quale, spiega, "l'Italia dei valori oggi sarebbe ancora viva". E i 5 Stelle chissà... "Roberto Casaleggio per me, oltre che un amico, è stato anche un rimpianto. Gli avevo affidato la comunicazione sul web dell'Idv mentre ancora muovevo i primi passi in politica, nello stesso periodo in cui lui si avvicinava anche a Grillo. Poi, quando l'Idv si è strutturata, ognuno di noi è andato per la sua strada. Ma se Casaleggio me lo fossi invece tenuto accanto, probabilmente non avrei commesso certi errori". Il motivo è presto detto: "Lui era uno intransigente, gli ha permesso di controllare in modo capillare chi entrava nel Movimento e di mandare via chi tradiva. Nell'Idv, invece, sono mancati i filtri". Alla domanda su chi raccoglierà l'eredità di Gianroberto, Di Pietro non ha alcun dubbio: "Sarà il figlio Davide a raccoglierla, già l'ha fatto lavorando a pieno ritmo accanto al Movimento da un paio d'anni. E' un ragazzo competente, tutto tranne un figlio di...".

Ecco perché Di Pietro ruppe con Casaleggio, scrive Claudia Fusani il 19 giugno 2013 su “L’Unità”. Settembre 2009, cortile del castello di Vasto, festa nazionale dell’Italia dei Valori. È pomeriggio inoltrato quando irrompe in sala stampa un ancora ai più ignoto Gianroberto Casaleggio che con un gesto tra il frettoloso e il nervoso richiama un paio di collaboratori. E li avvisa: «Occhio ragazzi che stanno per farci fuori». Il divorzio tra il guru del web, inventore di Grillo e dei Cinque Stelle, e il partito del gabbiano che alle Europee aveva superato l’8 per cento, avverrà l’anno dopo. Perché Casaleggio aveva il vizio di mettere mano e parole e contenuti nei post di Antonio Di Pietro andando sempre più spesso oltre le intenzioni dell’ex pm. Era durata circa tre anni quella strana coabitazione. Poi a Di Pietro cominciarono a non tornare più i conti: né di quello che veniva scritto a suo nome sul suo sito e del partito; né della linea politica generale che da quei post e da quei messaggi discendeva, sempre più contro il Pd, sempre più ostili con la stampa, sempre più vicina, invece, ai toni da vaffa del Movimento 5 Stelle. Comincia nel 2007 la strana alleanza tra l’ex pm e il guru di Gaja. Nel 2004 ha già allestito il sito Beppegrillo.it, teorizzato la rete dei Meet up, soprattutto convertito Grillo dal più convinto luddismo alla teorizzazione suprema della net democracy. Di Pietro, scarpe grosse e cervello fino, intuisce prima di altri l’importanza del web e dei social network nella comunicazione politica. E s’affida al Gianroberto perché, disse una volta, «è un professionista che sa come vendere un prodotto, che siano noccioline o un partito». Solo che il partito si chiamava Italia dei Valori e la linea la voleva dare Di Pietro, certo non disponibile ad essere neppure vagamente eterodiretto dal puparo Gianroberto. Oggi nessuno in casa Idv ha voglia di ricostruire i motivi specifici di quel divorzio: troppe cose sono successe in così breve tempo, ci sono stati vincitori e vinti senza fare prigionieri. Nel breve periodo possiamo dire che hanno vinto Grillo e Casaleggio. E che Di Pietro, che pure a un certo punto ha quasi imitato quei toni, ha perso. Quello che interessa oggi è capire come funziona la comunicazione secondo il team Casaleggio. Perché una cosa è certa: la crisi dei Cinque stelle è figlia soprattutto dei post e del blog di Grillo. E sarebbe sorprendente scoprire che i post dello scandalo, da Rodotà «ottuagenario scongelato» a Parlamento «tomba maleodorante» non siano stati né scritti, né vistati da Grillo. Ma da qualche vulcanico ghost writer. Premessa: la Casaleggio e associati guadagna ogni volta che qualcuno clicca sui loro prodotti, cioè i siti di cui gestiscono la comunicazione. Primo cliente e prima fonte di guadagno è ovviamente beppegrillo.it al cui dominio è collegato anche il sito del Movimento Cinque stelle. Negli ultimi trenta giorni dello Tsunami tour, quelli del boom elettorale, gli accessi sono cresciuti del 107% rispetto al mese precedente e le pagine viste del 124%. Poiché il sito vive di pubblicità, raddoppiare utenti e pagine viste significa raddoppiare gli introiti pubblicitari. Semplificando, possiamo dire che più i post urlano e fanno parlare di sé, più Casaleggio e soci guadagnano. Di certo fece molti clic il sito di Di Pietro quando sul post, con sotto la firma dell’ex pm, comparve uno dei tanti attacchi alla Rai (battaglia tipica dell’Idv) condito però con un paragone violento: «Minzolini e Vespa stanno all’informazione come la sedia elettrica alla vita». Possiamo essere certi che mai Di Pietro abbia autorizzato una simile espressione. Era il settembre 2009. Di Pietro si è sicuramente scusato visto che è stato spesso ospite del salotto di Porta a Porta. Merita rileggerlo quel post: parla di «stato vegetativo», «voltastomaco». Straordinaria coincidenza di termini e temi con i post di Grillo. Ancora più clic nel giugno 2008, quando era già chiara la volontà del leader Idv di fare gruppo a parte rispetto al Pd con cui era entrato in Parlamento in coalizione. In quei giorni comparve sul sito di Di Pietro una pagina siffatta: le foto di D’Alema, Ricucci e Berlusconi una accanto all’altra e sopra il titolo: «I furbetti del quartierino». Altro che clic, lì ci fu proprio uno tsunami di contatti. Quella pagina creò imbarazzi forse mai superati con gli alleati. Ancora una volta, di sicuro Di Pietro voleva tenere il punto sulle intercettazioni (che Berlusconi appena arrivato al governo voleva invece togliere di mezzo) e voleva smarcarsi dal Pd, mai però avrebbe osato accostare D’Alema a Ricucci all’insegna dei furbetti. Tante volte, troppe, i post di Di Pietro sono andati al di là delle intenzioni del firmatario e secondo, invece, i progetti politici del gestore. Finché si giunse al fatale divorzio. «Portiamo la gestione della parte web in house» fu la motivazione ufficiale. Al netto di un budget pesante: dai 500 mila euro fino al milione. E di una linea politica che veniva spinta, quasi schiacciata, sempre un più in là. Verso Grillo e i Cinque stelle. Ma forse era già troppo tardi.

Sui presunti legami americani di Di Pietro destò scalpore l’intervista in cui l’ex console Usa Semler disse che l’allora toga gli anticipò l’inchiesta Mani Pulite - Un endorsement’simile arrivò dall’ambasciatore Spogli e poi da Thorne nei confronti del M5S - Ora un documento inedito rivela anche un link più istituzionale, scrive Martino Cervo per "Libero" il 23 maggio 2014. «Ho avuto un rapporto di stima e di collaborazione con Di Pietro», ha detto Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio nella lunga e discussa intervista rilasciata al Fatto Quotidiano due giorni fa: la stessa in cui non ha escluso, salvo poi smentirlo, di fare il ministro assieme a Beppe Grillo, con lui fondatore del Movimento 5 Stelle. Libero è in grado di documentare in maniera meno vaga la natura di questa collaborazione tra Tonino e il «padre» del movimento politico che rischia di scombinare i piani di Matteo Renzi alle Europee. I documenti in pagina recano la data dell'8 febbraio 2007: al ministero delle Infrastrutture del governo Prodi siede l'ex pm di Montenero di Bisaccia. Beppe Grillo è un comico di successo che da un paio d'anni ha patrocinato, sulla scorta di un modello in voga negli Usa, i meet-up: raduni su Internet per sollecitare una sorta di democrazia dal basso. Conosce Casaleggio nel 2004. Tre anni più tardi nasce l'idea che darà la svolta al movimento: il Vaffa-day dell'8 settembre 2007. Esattamente sette mesi prima, Gianroberto Casaleggio diventa consigliere del ministro Di Pietro, come sancisce il documento controfirmato dal Tesoro, allora occupato da Tommaso Padoa-Schioppa. Il link Di Pietro-Casaleggio non è nuovo: la società del padre ideologico dei 5 Stelle gestiva la piattaforma dei siti di Grillo e di Tonino. «Quando ho cominciato io a fare politica, per schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook sono andato a scuola da lui. E lui è quello che per primo mi ha costruito la macchina informatica ed è stato pagato per questo, ha fatto un servizio», spiegò il fondatore dell'Italia dei Valori parlando del «guru». E proprio la gestione del sito, e i suoi costi, sarebbero stati all'origine della rottura tra i due, come ha raccontato un retroscena dell'Unità nel giugno 2013. Perché Antonio Di Pietro ha voluto con sé Casaleggio? L'incarico affidatogli non è di secondo piano: non prevede compensi ma un rimborso di missione secondo il trattamento per i dirigenti di prima fascia. La «missione» affidatagli in qualità di esperto è relativa allo «studio [...]delle attività relative alla comunicazione istituzionale nei diversi settori dell'informazione: stampa, radiotelevisione e Internet». Casaleggio viene affiancato, con le stesse mansioni e «per l'esperienza e la comprovata competenza» posseduta «nelle strategie della comunicazione», dal dottor Mario Bucchich e dall'ingegner Luca Eleuteri. Entrambi risultano soci fondatori della Casaleggio&associati, nata tre anni prima dei fatti, nel 2004.I tre diventano così «Consiglieri del Ministro delle Infrastrutture per lo studio delle attività inerenti la comunicazione istituzionale» in uno dei dicasteri con la maggior disponibilità di spesa del governo, alle dirette dipendenze di Antonio Di Pietro. Ben dentro i palazzi della «casta». Ma più che la polemica, è utile qualche domanda. Il 2007 è l'anno in cui matura la svolta «politica» del movimento: come detto a settembre il V-day crea più di un problema al governo Prodi. In un certo senso, anzi, la progressiva evaporazione dell'Idv viene sostituita dalla forza anti-sistema di Grillo. Tanto che l'ex pm nel 2012 si schermisce alla inevitabile domanda su una possibile fusione col Movimento 5 Stelle: «Io alleato con Beppe? È come se mi chiedessero se voglio sposare la Schiffer. Prima bisogna sapere se lei vuole sposare me...». È successo che la Schiffer (Grillo) si è mangiata l'aspirante Tonino. E il M5S si è guadagnato l'attenzione delle cancellerie, come mostra l'incontro con l'ambasciatore inglese nell'aprile 2013, rivelato da Casaleggio a Travaglio. C'è qualcosa che è sopravvissuto tra i due partiti, oltre all'aura di movimento dal basso, di «nuova politica», di «è tutto un magna-magna» che li rende - in anni diversi - catalizzatori di un voto di protesta? Sui presunti legami americani di Di Pietro si è detto e scritto molto: destò scalpore l'intervista alla Stampa (2012) in cui l'ex console Usa a Milano Peter Semler disse che l'allora toga gli anticipò l'inchiesta Mani Pulite addirittura alla fine del 1991: «Mi preannunciò l'arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Craxi e la Dc. Poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato». E aggiunse: «Di Pietro mi piacque molto», definendolo «un personaggio straordinario». Un «endorsement» simile arrivò nel 2008 (fu rivelato più tardi, ancora dalla Stampa) col telegramma che l'ambasciatore Ronald Spogli spedì a Condi Rice spiegando che Grillo, con cui aveva pranzato, era «bene informato, competente sulla tecnologia, provocatorio e grande intrattenitore, [...] unico, una voce solitaria nel panorama politico italiano. [...] ha un grande potere di attrazione». Nuovo ambasciatore, altro endorsement: David Thorne, agli studenti del liceo Ennio Quirino Visconti disse (2013): «Voi giovani potete prendere in mano il vostro Paese e agire, come il Movimento 5 Stelle, per le riforme e il cambiamento», con annesso Pd a denunciare la «gravissima ingerenza nelle vicende italiane». Ora tra i due «americani» c'è anche un link più istituzionale.

Gli intrecci Casaleggio-Di Pietro. Quello che Santoro non fa vedere, scrive Antonio Amorosi, Giovedì, 20 dicembre 2012, su “Affari Italiani”. L'onorevole Antonio Di Pietro in merito ai suoi rapporti con Gianroberto Casaleggio dichiara al conduttore di Domenica-in Massimo Giletti nella puntata dell'11 novembre 2012: “Ma quali affari!? Con Casaleggio!?… Quando ho cominciato io a fare politica per schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook sono andato a scuola da lui. E lui è quello che per primo mi ha costruito la macchina informatica ed è stato pagato per questo, ha fatto un servizio... Casaleggio è un imprenditore che... se lei ci va e gli dice 'mi costruisci un sistema di informazione attraverso la rete!?', lo fa pure a lei basta che paga!” Un “doposcuola dalle cifre importanti” è quello che emerge dai documenti e dalle parole riportate dal penalista Domenico Morace che, dopo aver fatto esplodere con un'intervista ad Affaritaliani le inchieste sull'Idv in Emilia Romagna, segue un contenzioso legale tra Antonio Di Pietro e un piccolo editore, Maurizio Bardi, responsabile internet del sito di Di Pietro e dell'IdV per un certo periodo. Il costo del sito durante la sua gestione ammontava a circa 1500 euro annuali. Con l'avvento nel 2006 di Gianroberto Casaleggio, che già gestiva il sito di Beppe Grillo, il costo della voce internet dell'Idv Di Pietro cresce in modo esponenziale. Il bilancio dell'Italia dei Valori del 2006 riporta la spesa Internet aggregata ad altre voci per un ammontare totale di 1milione 305mila euro. Nel 2007 la voce siti Internet è unica e ammonta a 469.173 euro. Lievita ancora nel 2008 ed arriva 539.138 euro. I costi vengono coperti come è ovvio che sia dal denaro incassato dall'Italia dei valori col finanziamento pubblico. Per un sito che per quel periodo è la precisa copia di quello di Beppe Grillo che la società Casaleggio gestiva. Alla gestione Casaleggio si arriva mentre è in corso il contenzioso legale col piccolo editore. A questi, condannato in primo grado, dopo la testimonianza della tesoriera Silvana Mura e di due impiegate dell'IdV, viene chiesto dal giudice un risarcimento nei confronti di Antonio Di Pietro. L'editore ha proceduto però in secondo grado avvalendosi del legale Domenico Morace denunciando Silvana Mura per falsa testimonianza. La tesoriera dell'Italia dei valori è attualmente accusata dalla Procura di Massa di falsa testimonianza e secondo l''accusa le sue affermazione sono state un “favore” ad Antonio Di Pietro. La deputata ha ricevuto un avviso di fine indagine anche se continua a negare di aver dichiarato il falso. “Casaleggio faceva quello che fa la Casaleggio Associati: marketing politico, una gestione dei contenuti destinata a creare consenso per una determinata forza politica”, commenta Morace. In parole povere il marketing pubblicitario invece di applicarsi all'acquisto di un prodotto di consumo, come una lavatrice o un'automobile, viene utilizzato per la costruzione del consenso politico. Ma quando osserviamo che ci sembra poco credibile che Gianroberto Casaleggio sia una sorta di “Grande Fratello” della nuova politica italiana Morace annuisce. “Casaleggio sta facendo business. Il suo controllo del marketing della forza politica in oggetto è così forte da arrivare, come nel caso del Movimento 5 Stelle di Grillo, amanifestarsi come mancanza di democrazia interna”. Questi temi sono stati trattati dallo stesso Morace in una conferenza stampa tenutasi a Bologna. Per questo motivo è stato contattato da redattori del programma televisivo di Michele Santoro “Servizio Pubblico”. Ma se prima il programma si era dimostrato molto interessato a intervistarlo in un secondo tempo l'ipotesi è tramontata. “Forse si sarà contrariato Marco Travaglio. Avrà sculacciato qualcuno. Gli toccano Di Pietro, Casaleggio...Travaglio soffre!”, commenta Morace. Alla domanda se anche lui pensa come altri che Travaglio e Santoro siano giustamente inflessibili rispetto alla vecchia politica ma molto accomodanti con personaggi come Di Pietro prima e Grillo oggi, Morace risponde: “Per chi come me ha partecipato al lancio di Servizio Pubblico e del Il Fatto quotidiano con i sui 10 euro non è certamente una cosa bella né piacevole”. E intanto il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Giovanni Favia, appena espulso da Grillo, annuncia che o vincerà la battaglia sul logo del Movimento per tenersi il simbolo a livello regionale o si dimetterà dalla Regione Emilia Romagna. Paventa anche la possibilità di continuare la sua carriera politica entrando in una nuova forza politica.

L’affaire Casaleggio. Quali segreti nasconde il sancta sanctorum della “Associati”. Con quali uomini e quali mezzi governa il movimento di Grillo. Il super potere di una nomenklatura, scrive Salvatore Merlo il 20 Febbraio 2016 su “Il Foglio”. Il suo sguardo, se non fosse per una diffusa malinconia che giunge all’astrattezza, potrebbe apparire buono, o forse statico, proiettato altrove, assorto non tanto in riflessioni, quanto in una specie di muta concentrazione. In generale non redarguisce troppo i suoi ragazzi, fa solo domande. In questo modo, con una serie di interrogativi anche bruschi a cui la persona interpellata è costretta a rispondere, Casaleggio costringe il dipendente a rendersi conto, con le sue proprie risposte e contraddizioni, che il lavoro doveva essere svolto in un modo anziché in un altro. Alla Casaleggio vivono tutti un’estasi nevrotica e imitativa. “Durante il mio primo colloquio di lavoro, Casaleggio parlava poco, parole pesate”, ha raccontato una volta Luca Eleuteri, l’allievo prediletto, il socio più anziano. “Notai che dai suoi discorsi mancavano gli avverbi, mi spiegò poi che sono interlocuzioni inutili. Mi ricordo la prima email che scrissi dalla mia scrivania. Mi vien da sorridere, ma fu una delle più belle lezioni di vita ricevute dopo tanti anni di studi… Gianroberto uscì dal suo ufficio, entrò nel mio e disse ‘nella tua email c’è un errore, è importante che tu non ne faccia. Sono i dettagli che contano’. Voltò le spalle e rientrò nella sua stanza. Non ho più inviato una email, e nemmeno un semplice sms, senza aver prima riletto almeno tre volte il testo”. Sulle sue abitudini, su una sua certa mania del controllo, circolano i racconti più inverosimili e leggendari, frutto di rielaborazioni, fantasie, semi verità di un mondo composto di mattoidi attratti dal Movimento 5 stelle e poi in gran parte respinti, dunque pronti, per delusione e rivalsa, per mitomania e congenito complottismo, ad attribuirgli un’intelligenza acutissima e fredda, capace di qualsiasi turpitudine luciferina. Lo disse, esagerando un po’, anche Giovanni Favia, il primo eletto del M5s in Italia, il più famoso degli espulsi: “Una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende”. Una narrazione per la verità impalpabile nella quale Casaleggio ama accucciarsi, lasciando che si dica, e che tutto si confonda nell’indistinto, come una polvere che copre ogni cosa. Un pissi pissi malizioso che a lui forse fa comodo, per la politica, ma pure per gli affari, dove attraverso queste leggende senza fondamento (persino l’indimostrato e risibile legame con le massonerie, i fantasiosi collegamenti con i servizi segreti americani e addirittura con non meglio precisati e grotteschi centri di potere finanziario anglo-olandese) gli si riconoscono straordinarie conoscenze e pure profetiche qualità professionali che tuttavia non trovano riscontro né nei medi bilanci della sua piccola azienda né nella scarsa proiezione internazionale di questa sua agenzia di web marketing il cui unico prodotto di vero successo, per ora, è il M5s. E forse, a questo proposito, vale la pena di raccontare un episodio significativo. Nel 2009 il Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, l’aveva coinvolto nella costruzione e gestione del suo sito internet. E insomma mentre Grillo appoggiava esplicitamente la campagna di abbonamenti al Fatto attraverso i palchi, i comizi, gli spettacoli e il blog (da un analisi di mercato, circa il 60 per cento dei primi abbonati risultava essere un simpatizzante grillino), Casaleggio aveva un accordo commerciale con il giornale. Ma a un certo punto l’accordo salta, con la conseguenza che tutti i contenuti del Fatto sponsorizzati da Grillo attraverso il suo blog spariscono. La rottura era avvenuta perché Casaleggio, il visionario, il genio, oltre a chiedere forse troppi soldi, pretendeva anche di avere il controllo sui contenuti del sito, e poneva pure una condizione assurda: sicuro com’era che i giornali di carta fossero destinati a repentina scomparsa, pretendeva che il Fatto non uscisse cartaceo nelle edicole ma solo sul web. L’avessero ascoltato, Antonio Padellaro, Peter Gomez e Travaglio sarebbero falliti in meno di un anno. Oggi la dimensione di quello scampato pericolo è chiara a tutti loro. Con sollievo. Dunque i racconti e le fantasie sulla sua diabolica genialità rendono Casaleggio più misterioso, abile, persino oscuramente capace di quanto forse quest’uomo, ex dirigente allontanato dalla Telecom per non aver brillato alla guida di una controllata (la Webegg), in realtà non sia. Ed ecco dunque la cortina fumogena, la fuffa luciferina. Le voci incontrollate su misteriose e mai verificate sedi all’estero della Casaleggio Associati. Le leggende sui server con i dati degli iscritti al Movimento che sarebbero installati in America. E poi, ancora, come racconta Sergio Di Cori Modigliani, ex militante, autore per Chiarelettere di un libro – “Vinciamo Noi” – con prefazione di Grillo e Casaleggio: “Ma lo sai che va in giro con una chiavetta usb appesa al collo? Lì dentro ci sono i ‘big data’ del Movimento. E poi c’è ‘l’algoritmo’ con il quale controlla gli umori della rete. Lui vede tutto, lui sa tutto”. Ed è insomma un mondo dove ogni cosa è intrecciata e confusa. Seguendo il flusso di questo chiacchiericcio sussurrato non si capisce mai quanto ci sia di vero, di falso e di verosimile. Mentre cosa certa è che i più riconoscibili tra i parlamentari di Grillo hanno praticamente ceduto i loro diritti d’immagine a Casaleggio, ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa: si sono cioè impegnati a caricare tutti i video che li riguardano sul famoso blog. E per ogni video visto, ogni centomila visualizzazioni, per ogni clic, la Casaleggio Associati guadagna. Un pasticcio d’interessi in cui i parlamentari della Repubblica usano i social network per indirizzare le migliaia dei loro elettori su video che poi fanno lievitare i compensi pubblicitari di un’azienda privata. La fonte principale dei ricavi è il blog di Beppe Grillo, ma la società gestisce anche il portale del Movimento, i due siti di informazione (Tze Tze e La Fucina), la tivù streaming (LaCosa). Tutti siti collegati tra loro, e collegati ai parlamentari, al movimento d’opinione e di umori che questi riescono a orientare. Un intreccio d’interessi pubblici e privati non nuovo alla democrazia italiana, per qualcuno forse nemmeno scandaloso e forse (per adesso) anche di modesta entità, ma pure inquietante per l’opacità contrabbandata da trasparenza. La legge 96 del 2012 prevede l’obbligo di presentare un bilancio certificato per tutti i partiti o movimenti che si siano presentati alle elezioni, indipendentemente dal fatto che chiedano o meno l’accesso al finanziamento pubblico. Per ragioni oscure, il Movimento cinque stelle non ha mai depositato il bilancio. Così, dunque, l’azienda di marketing diffonde e ingrossa l’immagine di Di Battista, di Di Maio, di Fico, di Ruocco… e loro, con impeccabile circolarità, accompagnano questo flusso di nuovo verso l’azienda di marketing. “I siti della galassia (TzeTze, LaFucina, LaCosa), nati per cercare di inventare un nuovo sistema di informazione, sono diventati una macchina per creare consenso facile con sistemi di dubbia moralità. Non trovo nessuna differenza tra il Canale 5 del 1994, dove Sgarbi vomitava insulti per creare il brodo necessario a Forza Italia, e LaFucina che usa le tette della Boschi per attirare qualche clic con titoli scandalistici, o propaganda rimedi al limone contro il cancro, o fa terrorismo contro i vaccini che provocherebbero l’autismo”, ha scritto su Facebook Marco Canestreri, collaboratore di Casaleggio dal 2007 al 2010, uno dei ragazzi che lavorò, tra le altre cose, dall’interno della Casaleggio Associati, anche alla costruzione e alla gestione del sito del Fatto quotidiano. L’intuizione di Casaleggio, tra il 2005 e il 2006, fu che la tecnologia di internet rendeva possibile una nuova forma di marketing politico, che ben si adattava a un crescente malumore popolare. All’inizio ci provò con Antonio Di Pietro, di cui era diventato consulente, formalmente incaricato di occuparsi solo del blog, ma in realtà così dentro le meccaniche dell’Idv, e così vicino all’orecchio dell’ex magistrato, da prevaricare l’ufficio stampa del partito, determinando addirittura gli slogan elettorali, e la natura della cartellonistica. “Casaleggio si occupava del blog di Di Pietro ma proiettava la sua influenza sempre un po’ più in là. Per l’amicizia che aveva con Di Pietro arrivava al punto di suggerire battaglie”, ricorda Massimo Donadi, che dell’Idv fu capogruppo alla Camera e membro dell’ufficio di presidenza. Nel 2008 l’Idv spese 539.138,06 euro per lo “sviluppo dell’immagine in rete”. Nel 2009 la spesa lievitò alla bellezza di 893.554,82 euro. E’ l’anno in cui Beppe Grillo, di cui Casaleggio è già da anni il braccio destro, appoggia attraverso il blog, e nei comizi, le candidature di Luigi De Magistris e Sonia Alfano nelle liste dell’Idv per le europee: “Sono dei nostri”. De Magistris viene eletto. E Grillo scrive: “In Europa sarà una voce forte e pulita. Il blog lo sostiene”. Ma poi succede qualcosa, e il rapporto tra Casaleggio e Di Pietro s’interrompe. Così, appena De Magistris si candida sindaco di Napoli, Grillo lo scarica, e pubblica la foto di quello che un anno prima era “uno dei nostri”, con sotto questo interrogativo retorico: “Comprereste un voto usato da quest’uomo?”. Ricorda Donadi: “A me risulta che il rapporto con Di Pietro si interrompe quando Casaleggio suggerì in modo perentorio, perché secondo lui altra via non c’era, che l’Idv rompesse con il centrosinistra e diventasse una forza anti sistema. Lui pensava che in Italia ci fosse spazio per una cosa del genere. Noi ne parlammo in una riunione e decidemmo diversamente. Decidemmo cioè di restare nel centrosinistra, col Pd. E decidemmo anche, di conseguenza, che non c’era nemmeno più spazio per proseguire una collaborazione anche soltanto tecnica con Casaleggio”. Ed è a questo punto che il M5s, esperimento di liste civiche locali, comunali e regionali, diventa, nelle mani della Casaleggio Associati (privata dell’Idv, suo principale cliente: tra il 2006 e il 2009 circa un terzo dei ricavi della Casaleggio Associati arrivava da Di Pietro) un partito con ambizioni nazionali. Sostiene Giovanni Favia, grande espulso: “Non c’era un disegno sicuro che portava alla costituzione del M5s partito nazionale. Tutto è sempre stato condizionato dalla situazione privata e societaria di Casaleggio”. Chissà. Di sicuro, con i suoi collaboratori e soci, Casaleggio ha cambiato le regole del gioco, è andato oltre Berlusconi, oltre il partito liquido o di plastica, immaginando e realizzando un movimento, un partito, che è puro flusso di marketing, con ideologia, valori, istanze e programmi mutevoli, intercambiabili, legati all’analisi dei trend internettiani, agli umori raccolti in presa diretta. Già da prima i partiti si rivolgevano alle agenzie di comunicazione, ai persuasori più o meno occulti, ai guru, ai maghi, agli stregoni, agli oracoli… Ma Casaleggio è andato al di là dell’immaginabile: ha eliminato il partito, e sublimato il marketing. Dunque attraverso la sua agenzia fornisce tutto al Movimento, che è in realtà, nella città e nelle province d’Italia, una tribù eterogenea che senza di lui non avrebbe voce, collegamenti, né capacità organizzativa nazionale: consulenti ed esperti di mercato politico, compulsatori di forum e di ‘social trend’, grafici e teleoperatori, maestri di recitazione e persino supporto psicologico, all’occorrenza. Dunque Pietro Dettori, il vero autore dei post firmati Beppe Grillo. Biagio Simonetta, giornalista che compila contenuti (come quelli del giornale online del movimento, Tze Tze) e poi li gonfia di commenti e ‘like’. Marcello Accanto, altro social media manager. E poi Filippo Pittarello, quadrato, scaltro, serioso, il miglior dipendente di Casaleggio, il suo tuttofare, adesso a capo dell’ufficio stampa M5s a Bruxelles. Fu lui a combinare l’incontro tra Grillo e il leader estremista inglese Nigel Farrage. A maggio del 2013, appena dopo le elezioni, fu sempre lui a tenere il “discorso motivazionale” ai nuovi parlamentari grillini (“ci trattava come dei deficienti da catechizzare”, ricorda Mara Mucci). In un incontro con i militanti, Pittarello spiegò quale fosse l’idea di parlamentare della Repubblica che avevano loro, alla Casaleggio: “Il candidato ideale dovrebbe avere più soft skills che hard skills, cioè più attitudini che competenze”. Una squadra, questa, cui si aggiungono l’informatico (Maiocchi) e lo studioso di marketing e vendite (Benzi). E adesso anche Silvia Virgulti, che insegna ai parlamentari come si fa a parlare in pubblico e che nel 2013 fece ad alcuni di loro le prime lezioni di presenza televisiva nella sede della Casaleggio Associati. Formalmente dipendente del gruppo della Camera, Virgulti, ora si sa, è la fidanzata di Luigi Di Maio che l’ha inserita nell’ambiente, malgrado Casaleggio all’inizio storcesse il naso. E chi oggi può fare politica meglio di un’agenzia di comunicazione, aiutata da un propagandista vociante, eppure malleabile, come Grillo, un vecchio attore egocentrico e sgarbato che però Casaleggio sa prendere per il verso giusto, scomparendo durante le frequenti crisi depressivo-aggressive del tribuno, e ricomparendo invece, con suggerimenti e parole, nei repentini picchi d’entusiasmo e super eccitazione che come un’altalena scandiscono l’esistenza del famoso comico? Lo spartito suonato alla Casaleggio Associati è persino banale: una divisione manichea del basso contro l’alto, del cittadino contro il potere, in un contesto liquido, anzi gassoso, dove ogni posizione politica è ritrattabile, riconvertibile, ribaltabile. Una strategia pubblicitaria portata all’estremo. Così dietro le quinte della grande rappresentazione e della trasparenza, il guru mette al servizio di una tribù eterogenea e un po’ raccogliticcia la potenza arcana di numeri, simboli, icone e rituali. Ma la superiorità morale, la purezza, il mito della trasparenza, malgrado la Casaleggio Associati guadagni com’è s’è visto quattrini, non sono purtroppo un’astuzia, una mossa tattica, un espediente per confondere quei gonzi degli elettori e rintuzzare alla meglio la casta degli avversari, né un trucco per acquistare ricchezza. Loro ci credono davvero, ne sono persuasi. Casaleggio vede se stesso come uno scienziato (infallibile, all’inizio; oggi un po’ meno) impegnato in un grandioso, nobile esperimento di felicità generale, di rigenerazione universale. Ma sembra che per lui il fine giustifichi i mezzi, e chiunque abbia mete più corte, speranze più immediate, sia un infame che dovrebbe avere almeno il pudore di stare zitto quando l’esperimento sfugge qua e là di mano, tra purghe, dissidenze, psicosi, espulsioni e crisi amministrative.

Vi svelo le manovre della lobby di Casaleggio. Grillo, Di Pietro, Travaglio e De Magistris: ecco tutti i volti della cerchia. L'sms di Giggino a Travaglio: "Vulpio contro Santoro, io mi dissocio", scrive Carlo Vulpio, Lunedì 05/11/2012, su “Il Giornale”. "Caro direttore, era il 5 maggio 2009 e io - candidato indipendente con l'IdV al Parlamento europeo - rilasciai al Giornale un'intervista in cui affermavo letteralmente che l'Idv era un partito pieno di banditi, che andavano cacciati a pedate. Nota bene: lo dicevo il 5 maggio, cioè «prima» del voto (6 e 7 giugno), consapevole di farmi molti nemici non soltanto all'interno del partito con cui mi ero candidato, ma anche in tutta l'area (stampa, magistratura, associazioni) a esso «collaterale», in alcuni casi in buona fede, in molti altri no. Il giorno della pubblicazione di quella intervista, ecco, puntuale, la telefonata. Non di Di Pietro, ma di Grillo. Di Pietro mi chiamò, lamentandosi della «inopportunità» delle mie parole, ma lo fece subito dopo il comico genovese. Grillo mi disse che non avrei dovuto parlare di quegli argomenti, men che meno con il Giornale. Ovviamente, come sa chi mi conosce un po', né Grillo né Di Pietro mi impressionarono più di tanto. Anzi, diciamo che non mi fu difficile zittirli, portando esempi concreti di «banditismo dei Valori» che i due conoscevano benissimo e che dimostravano quanto fosse fondata la mia denuncia del doppiopesismo e dell'ipocrisia sui quali essi lucravano moralmente, politicamente ed elettoralmente. Non ce n'era bisogno - poiché la mia stroncatura elettorale era stata decisa fin dall'inizio dalla premiata ditta Casaleggio (che gestiva contemporaneamente forma e contenuti del blog di Grillo, di Di Pietro e dell'Idv) - ma così facendo firmai la mia condanna. Non solo non fui eletto per un paio di centinaia di voti, ma al momento delle «opzioni» il duo Alfano Sonia-De Magistris Luigi, obbedendo al diktat del padrone, scelse in maniera tale da tenermi fuori, così da far scattare il candidato sardo Uggias (sì, uno dei Batman dell'Idv, oggi indagato per peculato), noto anche per essere il difensore del fotografo Zappadu (quello delle foto rubate degli ospiti di Berlusconi a Villa Certosa). Questo non è un racconto «vendicativo» di una persona «tradita». Avrebbe potuto esserlo, se avessi detto queste cose solo oggi. Invece le ho dette «prima», addirittura durante la campagna elettorale (nessun «matto» ha fatto una cosa del genere dalle elezioni del 1948 a oggi) e non una volta soltanto. Il 7 maggio 2009, per esempio, a Ferrara mi capitò una cosa simile e ancor più singolare. Parlavo di libertà di stampa e con me c'erano De Magistris e Nanni (sì, l'altro Batman dell'Idv dell'Emilia Romagna, anch'egli indagato per peculato). Mi permisi di criticare Santoro e le finte battaglie dei «paladini» della libera informazione. Nanni si agitava sulla seggiola, De Magistris addirittura insorse. Io lo mandai al diavolo. Lui si giustificò così: «È che poi Di Pietro, Grillo e Travaglio chiamano me e rompono le palle a me per le cose che dici tu!». Incredibile, De Magistris mi stava dicendo che lo avevano messo a fare il mio cane da guardia. Due giorni dopo, a Pescara, incontrai Travaglio e gliene chiesi conto. Messo alle strette, Travaglio mi mostrò un sms sul suo cellulare: era De Magistris che lo avvertiva: «Vulpio sta attaccando Santoro, ma io mi sono dissociato». Potrei continuare. Su Vendola, per esempio, del quale Grillo, Di Pietro e De Magistris sono diventati alleati nonostante ne conoscessero le imprese di malgoverno. Ma credo che possa bastare, per ora. Altrimenti il Giano bifronte Grillo/Casaleggio potrebbe rilanciare: Di Pietro non più al Quirinale, ma direttamente al vertice dell'Onu.

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base.

Grillo e Di Pietro, raccontati da Sonia Alfano, «l'epurata da Casaleggio». In vista delle Politiche del 2013, abbiamo ricostruito i rapporti dei 5 Stelle con Pd, Pdl, Lega, Idv e Sel. In questa quinta puntata, la relazione con l'Italia dei Valori attraverso la storia di Sonia Alfano, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. (Fondato appena tre anni fa, il Movimento 5 Stelle, secondo un recente sondaggio Swg, potrebbe entrare per la prima volta nel Parlamento italiano già come seconda forza politica, dopo il Pd. In vista delle elezioni del 2013 il suo fondatore Beppe Grillo deve affrontare tre nodi fondamentali: il nome del candidato premier, la lista dei parlamentari e soprattutto il rapporto con i partiti che troverà a Roma. Abbiamo provato a ricostruire i rapporti del Movimento con Pd, Pdl, Lega, Idv e Sel. Dopo quella sul Pd, sulla Lega, su Sel e Pdl, ecco la storia delle «relazioni pericolose» tra Grillo e Di Pietro, raccontata attraverso l'esperienza dell'europarlamentare Sonia Alfano). «E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv è da poco diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, adesso con l'Idv) iniziata nel 2008. La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». Negli ultimi mesi però i rapporti tra i due si sono raffreddati. Alla vigilia delle Amministrative 2012, il leader dell'Idv ha accusato il comico di «voler sfasciare tutto e basta», senza voler costruire un'alternativa. Una ricerca dell'Istituto Cattaneo ha mostrato che gran parte dei voti ai 5 Stelle arrivano proprio da ex elettori della Lega e dell'Idv. «Ma i due leader si sentono ancora», assicura Sonia Alfano. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi.

Come la convinsero?

«Grillo mi disse che dovevamo dimostrare agli attivisti dei Meetup che potevamo farcela. Che era arrivata l'ora di dar vita a un progetto propositivo, quello che poi sarebbe diventato il Movimento 5 Stelle».

Con il sostegno pubblico di Grillo, che vi lanciò come «due persone oneste in Europa», lei e Luigi De Magistris, l'ex pm ora sindaco di Napoli, veniste eletti con l'Idv con preferenze da record. Che cosa ha fatto una volta arrivata a Strasburgo?

«Ho portato all'attenzione dell'Europa i problemi dell'Italia. Con interrogazioni sul lodo Alfano, sulla libertà di stampa italiana, sul caso dei respingimenti degli immigrati e sull'inquinamento».

Si lamentò con Grillo perché non pubblicizzava il suo lavoro.

«Gli chiesi al telefono perché non informava i lettori del blog, quindi i nostri elettori, su quello che stavamo facendo».

Che cosa le rispose?

«Mi diede ragione. Disse: "Devo dire a Casaleggio di creare sul blog una finestra con gli aggiornamenti sulle attività europee"».

E invece?

«Niente. A gennaio 2010 sono tornata a lamentarmi. Grillo disse di nuovo che avevo ragione e che presto mi avrebbe telefonato Gianroberto Casaleggio».

L'ha mai chiamata?

«Sì, ma vidi che la tirava per le lunghe. Diceva: "Dobbiamo organizzarci, così vieni a Milano, giriamo alcuni filmati e li mettiamo sul blog. Poi vediamo anche di spingere il tuo blog". Mi sembrò strano, visto che il mio blog non è paragonabile a quello di Grillo».

Nella primavera 2010 i rapporti tra Grillo, o chi per lui, e i due eurodeputati si sfaldano. Dal blog partono attacchi a De Magistris e Sonia Alfano. In un post dedicato alla Casta dei politici viene pubblicato il link di un servizio de L'Espresso che prendeva di mira Alfano e De Magistris, colpevoli di usare un «charter» per fare la spola tra Strasburgo e Roma. E' una scomunica in piena regola. Ad aprile l'ex pm viene diffidato dal parlare a nome del Movimento 5 Stelle. A giugno la Alfano venne attaccata in seguito a una votazione su alcune norme che riguardavano la Nutella.

«Pensi che il giorno prima che il post di scomunica con l'articolo de L'Espresso venisse pubblicato, mi sentii telefonicamente con Grillo. Mi chiese come andava, come stava la mia famiglia. E non citò neanche quell'articolo. Secondo me non ne sapeva nulla». 

Che cosa ha fatto quando ha letto i post?

«Gliene ho chiesto conto tramite sms, non mi ha mai risposto. Gli ho inviato una lettera aperta, l'ho invitato a un incontro pubblico, niente. Da allora non ho più parlato con Grillo. Si vede che ha dovuto cedere a una strategia che neanche condivideva...». 

Si riferisce a Casaleggio?

«Lui sovrintende a tutta la struttura di comunicazione. Ha una strategia, la condivide con Beppe, ma il grosso lo fa lui. Sono sicura che le nostre scomuniche non siano arrivate da Beppe, ma da lui». 

Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come voi?

«La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

"Casaleggio spia le mail degli onorevoli M5S". Di Battista e Di Maio: "Dietro c'è il Pd", scrive “Libero Quotidiano” il 6 marzo 2016. Una "storia montata ad arte da stampa e Partito democratico". Reagisce così il direttorio del Movimento 5 Stelle alla notizia, rilanciata da diversi quotidiani, secondo cui il server del gruppo parlamentare dei 5 Stelle sarebbe stato violato dalla Casaleggio associati. "Pura fantasia", scrivono Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Roberto Fico e Carlo Sibilia su un post pubblicato dal blog di Beppe Grillo. "Evidentemente dopo il decreto mutui, durante il brindisi con le banche, devono aver alzato tutti un po' il gomito. La paura dei partiti e di qualche editore di perdere Roma si fa sentire. Noi rispondiamo con il sorriso e andando avanti sui nostri temi. Solidarietà a Gianroberto Casaleggio per il vile attacco subito. Lo invitiamo - concludono i 5 Stelle a chiedere i danni fino all'ultimo centesimo. Una risata li seppellirà".

Il "Watergate" del M5S: "Casaleggio Associati controlla le email dei parlamentari". Grillo: "Non ha accesso al server". Boldrini: "Un fatto grave. Valuteremo se attivare competenze della Camera". Pd all'attacco chiede di fare luce sull'accaduto. La notizia svelata da un articolo de il Foglio, scrive il 5 marzo 2016 “La Repubblica”. La posta elettronica dei parlamentari del M5S spiata 24 ore su 24 dalla Casaleggio Associati, la società che fa la società che fa capo a Gianroberto Casaleggio. Una storia che svelerebbe una specie di Watergate per i pentastellati nata da un'email trovata dal quotidiano Il Foglio e sulla quale ora il Pd chiede chiarezza. Ma che M5S smentisce tramite il suo leader Beppe Grillo che sul suo blog dice: "Da Casaleggio nessun accesso a server del gruppo". E lancia un j'accuse ai dem: "Per quanto riguarda il grave attacco dal sedicente gruppo 'hacker del Pd' che ha divulgato email dei parlamentari appena insediati si sta ancora aspettando che vengano identificati e incriminati i colpevoli da due anni. Viene il sospetto che essendo forza di opposizione il governo e la presidenza della Camera non stia dedicando sufficienti risorse per identificare i colpevoli di atti così gravi all'interno del Parlamento stesso". Un episodio grave se fosse confermato sul quale interviene la presidente della Camera Laura Boldrini. "Se confermate, le notizie di stampa uscite stamattina sul controllo della posta elettronica messo in atto ai danni di deputati del m5s da società vicine al movimento costituirebbero un fatto rilevante e grave, lesivo dei loro diritti. Valuteremo in breve tempo se vi siano i presupposti per attivare le competenze di organi della Camera", ha detto Boldrini. Interrogazione parlamentare. Il senatore dem Stefano Esposito depositerà nei prossimi giorni un'interrogazione al premier, Matteo Renzi, e al ministro dell'Interno, Angelino Alfano, per fare luce sull'accaduto. Nel raccontare questa "spy story grillina", il quotidiano diretto da Claudio Cerasa cita il racconto di Tancredi Turco, ex deputato M5S, uscito a gennaio 2015, secondo il quale la società del guru del movimento ha "accesso al nostro sistema di archiviazione e comunicazione interno, dove si depositano documenti". La spy-story. Gli episodi sarebbero numerosi e alcuni già conosciuti. A settembre 2014, il gruppo M5S aveva incaricato un'azienda fornitrice di servizi della Casaleggio Associati, di controllare la sicurezza del sistema parlamentari5selle.it, e creare un network parallelo e libero dai controlli di Casaleggio e Grillo. Secondo Il Foglio, poco dopo con la password del sistema, il tecnico che gestiva la piattaforma, la rese non funzionante. Nell'ottobre 2014 ci furono sospetti di hackeraggio di e-mail con la cancellazione di mail di circa 30 parlamentari pentastellati. La Casaleggio Associati spiegò di non essere coinvolta e annunciò una "denuncia contro ignoti". Nel 2013 qualcuno aveva violato la posta elettronica di Giulia Sarti, giovane deputata emiliana, fidanzata fino al 2012 con il più noto degli espulsi e accusatore di Casaleggio, Giuseppe Favia. Ma c'è un altro episodio significativo. I dem all'attacco. Per il vicesegretario dem Lorenzo Guerini, "che Casaleggio fosse il vero, oscuro e nascosto capo del M5S era già chiaro, ma è davvero inquietante leggere che spia i suoi parlamentari. La "spectre" al confronto sembra un'associazione di dilettanti". In blocco i senatori del Pd attaccano su Twitter la Casaleggio Associati e chiedono infatti di conoscere se corrisponda al vero quanto anticipato stamattina sulle pagine de "Il Foglio".  "Parlamentari M5s controllati e spiati dalla Casaleggio associati? Organi parlamentari e magistratura indaghino #M5SSpy", scrive Esposito. Mentre Camilla Fabbri attacca: "Spiano i parlamentari e poi danno lezioni di democrazia e partecipazione #coerenzaacinquestelle #M5Spy". #M5spy, Pd attacca Casaleggio sui social: ''Watergate grillina''. Secondo Mauro Del Barba "ancora una volta abbiamo le prove della grande dittatura interna ai 5 stelle".  "Casaleggio si è fatto il suo Kgb. Spiare i parlamentari e usare la corrispondenza per spaventare il dissenso sarebbero attività gravissime da fermare. Aspettiamo urgentemente chiarimenti dal M5S", ha detto ancora il senatore del Pd Andrea Marcucci. Forza Italia e Lega. Anche Forza Italia, con l'europarlamentare Lara Comi, prende posizione. "Dell'ossessione di Casaleggio di tele-comandare ogni singolo passo dei parlamentari del Movimento 5 Stelle eravamo già a conoscenza, ma mai - spiega - ci saremmo aspettati che arrivasse al punto di spiare le loro mail e i loro documenti intrufolandosi nel server del gruppo. L'amara verità che emerge da alcune notizie di stampa, se confermata, delinea un quadro davvero desolante". Mente Gianluca Pini di Lega Nord dice: "La notizia dello spionaggio compiuto dalla Casaleggio associati a danno dei parlamentari 5 Stelle dovrebbe portare Grillo a cambiare il nome del Movimento in "5 pirla", che è più o meno il numero di idioti che ancora credono alla democraticità di questa accozzaglia di scappati di casa in cerca di fortuna". Nei mesi scorsi il MoVimento 5 Stelle era finito nel mirino anche per la vicenda dei «contratti» fatti firmare ai vari candidati alle amministrative, compresi quelli in corsa per il Campidoglio, scrive “Leonardo Ventura su “I Tempo” il 6 marzo 2016. Accordi nei quali si prevedeva il pagamento di una penale in caso di «tradimento» dei valori del MoVimento. Ed è anche su questo versante che si sono concentrate le accuse indirizzate ieri ai Cinquestelle, in particolar modo dal Pd. «Il grande fratello Casaleggio&associati spiava i parlamentari M5s? Una cosa mai vista, di cui si dovrà occupare la magistratura - attacca il senatore Dem Stefano Esposito -. E in tutto questo arriva la Raggi, collaboratrice dello studio Previti, messa sotto contratto capestro da Casaleggio per le amministrative, che dice di non prendere ordini da lui. Ieri da Casaleggio ci ha passato sei ore, e al ritorno ha parlato dello stadio della Roma aprendo linee di credito a poteri veramente forti. Un intreccio pesantissimo di interessi molto poco chiari, che tra Milano e Roma hanno il loro epicentro nella Casaleggio & associati».

L’affaire Casaleggio. Quali segreti nasconde il sancta sanctorum della “Associati”. Con quali uomini e quali mezzi governa il movimento di Grillo. Il super potere di una nomenklatura, scrive Salvatore Merlo il 20 Febbraio 2016 su "Il Foglio".  Via Gerolamo Morone è quella strada linda ed elegante del quadrilatero della moda milanese che porta a Casa Manzoni, un po’ Brera e un po’ via Montenapoleone, in tre minuti si arriva a piedi in Via filodrammatici, quindi alla Scala, poi un altro passo ed ecco la Madonnina. E’ una Milano che abita, nascosta, in palazzi antichi con atrio spazioso e bel cortile insospettabile. L’affitto medio di un ufficio di rappresentanza, o di un appartamento, tra la boutique di antichità e il grande negozio del design di lusso, è di circa 30 euro al metro quadro. Ed è qui al numero 6 la Casaleggio Associati, disposta in un luminoso appartamento di circa duecento metri quadrati, cinque stanze di cui una molto grande, la sala riunioni, uno spazio cucina, e il piccolo ufficio di Gianroberto Casaleggio: parquet chiaro, muri di un bianco stinto, quasi nulla appeso alle pareti. Stanze, pavimento, sedie, computer e i quindici tra soci e collaboratori di età compresa tra i trenta e i quarant’anni, si confondono in piena e silenziosa armonia come pezzi di una composizione di elementi tutti uguali, fatti della stessa materia. Malgrado siano quasi tutti giovani, e anche molto giovani, si scherza pochissimo. E chini sulle scrivanie, s’avverte soprattutto un battere di tastiere, uno scrollare di mouse, talvolta un sospiro. E’ un luogo razionale, con una sua rituale eleganza, scandita dal contrappunto di varie piante, verdi e a tronco, alte e basse, semi rampicanti, e dalla serie delle bellissime e costose lampade da tavolo, le Artemide Tolomeo. Casaleggio è per i suoi collaboratori, e persino per gli ex collaboratori che di lui parlano quasi tutti benissimo, l’oggetto meccanico, e allo stesso tempo umano, della proprietà assoluta, totalitaria e demiurgica. La Casaleggio Associati. Diecimila euro di capitale originariamente versato e diviso tra Casaleggio e suo figlio Davide (2950 euro ciascuno), Mario Bucchich e Luca Eleuteri (con 1900 euro di quote), e, prima che lasciasse in fortissima polemica (“Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono”) Enrico Sassoon. Più di recente si sono aggiunti due ex dipendenti, Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. E tanto Casaleggio appare ieratico, quanto il suo braccio destro Eleuteri – lavora a Milano, ma vive a Genova “per via dello smog” – è invece estroverso, spiritoso, per quanto sia pure lui intimamente persuaso, come del resto anche tutti gli altri, delle stranezze apocalittiche del suo mentore (tipo: la profezia della terza guerra mondiale che scoppierà nel 2020). Anche Davide Casaleggio, il numero due dell’azienda, non sembra figlio di suo padre, nessuno sguardo remoto da bonzo tibetano e niente capelloni. Ma alto e slanciato, con un bel sorriso sui denti bianchissimi, Davide ha piuttosto l’aria del bravo ragazzo uscito da una università americana, malgrado sia proprio lui l’addetto alla procedura delle “disattivazioni” sul blog: il meccanismo con il quale – raccontano i militanti – viene soppresso il dissenso nel corso delle frequenti votazioni web alle quali sono chiamati gli attivisti dell’M5s. E questa pratica della disattivazione merita una parentesi.  “Guardi, io sono stato cancellato, da un giorno all’altro, disattivato dal blog, silenziato da qualcuno che a Milano ha premuto un pulsante”, dice Alessandro Cuppone, un fondatore del Movimento a Bologna, più di dieci anni di attivismo. Non l’unico sbianchettato, per la verità una cosa simile è successa a Bologna anche a Lorenzo Andraghetti, altro militante storico. Cuppone lo racconta, ancora, dopo tre anni, con un misto di stupore, divertimento e amarezza: “Ero candidato alle parlamentarie, per le elezioni del 2013. Avevo completato tutta la procedura, ma quando stavo per caricare il video di presentazione, come tutti gli altri, ho improvvisamente notato che era sparita la mia candidatura”. E non una candidatura qualsiasi. Cuppone era uno dei più conosciuti, attivi e apprezzati militanti di Bologna. “Sparita. Non ero più candidabile. Non esistevo. Allora chiamai Marco Piazza e Massimo Bugani, attivisti come me a Bologna, e cercai a telefono anche Filippo Pittarello, uno dei collaboratori di Casaleggio, l’unico con il quale era possibile avere un rapporto diretto. Ma niente. Poi mi chiamò Beppe”. Beppe Grillo? “Sì. Mi disse che ad aprile, molti mesi prima, avevo scritto “una cosa su Facebook’…. Io non mi ricordavo niente. Allora gli chiedo: ‘Scusa Beppe, ma cosa ho scritto di male?”. E lui, allusivo: ‘Vai a vedere e poi mi richiami’”. Trattato come un bambino monello. “Insomma cercavo di capire cosa li avesse urtati. Mi sembrava assurdo. Poi a un certo punto ho scoperto: avevo condiviso su Facebook la foto della lettera con la quale Valentino Tavolazzi, uno dei primi epurati dal Movimento, era stato espulso. Io quella foto l’avevo condivisa per solidarietà umana, perché conoscevo Tavolazzi, sapevo che era uno per bene. Ma quel post non era di aprile, come diceva Beppe. Secondo me Grillo nemmeno sapeva le ragioni per le quali io ero stato disattivato dal blog. La verità è che ero stato disattivato perché, lì a Milano, mi consideravano inaffidabile. Era bastato pubblicare quella foto per farli spaventare. E io guardi che stavo nel Movimento dal 2005. Ci credevo, e ancora ci credo. A Bologna il movimento era una meraviglia. Avevamo davvero realizzato la democrazia diretta, assembleare, con una capacità notevole anche di selezionare persone in gamba. Ora la spinta è più alla fedeltà. Alla fine, nel 2013, dal portale di Grillo, per quanto ne so io, furono cancellati almeno trenta militanti. E consideri che io non sono mai stato espulso formalmente”. Anzi. Cuppone è il compagno storico della senatrice Michela Montevecchi, tutt’ora nel gruppo parlamentare grillino. Ma quando raccontava in giro questa storia della disattivazione, i suoi amici nel Movimento, a Bologna, che le dicevano? “Erano increduli. Ma dopo un po’ mi chiedevano: ma cos’è che hai combinato? E insomma, in buona fede o in mala fede, tutti pensavano che avessi qualcosa da nascondere. Che me l’ero meritato, per qualche oscuro motivo. Pazzesco”. Pazzesco, ma neanche troppo. La Casaleggio Associati sembra coltivare l’idea di un antropico livellamento del gruppo parlamentare a Cinque stelle, non di diversità. La diversità, anche solo sospettata, è un pericolo. “Appena entrati in Parlamento ci ordinarono di consegnare user e password delle nostre poste elettroniche”, raccontano Walter Rizzetto e Sebastiano Barbanti, due degli oltre cinquanta parlamentari espulsi o fuggiti dal M5s. Dice Serenella Fucksia, senatrice di fresca espulsione (è stata cacciata il 28 dicembre 2015): “A me il primo dubbio è venuto quando arrivammo a Roma. Quando mi accorsi che c’erano questi viaggi della speranza verso Milano. C’erano gruppi consolidati, che avevano rapporti diretti con questi misteriosi signori della Casaleggio. I milanesi, Bruno Martòn, Manlio Di Stefano, Vito Crimi. E poi i napoletani Ruocco, Sibilia, Fico, Di Maio. E i romani come Lombardi, Taverna e Di Battista. Andavano a Milano a fare strani corsi di comunicazione e chissà che altro”. Poi la signora Fucksia abbassa il tono della voce, e descrive una specie di clima psicotico: “Verso il 10 giugno mi hanno rubato il cellulare in Aula. Sul banco. Sono praticamente sicura che me lo hanno preso per controllare gli sms. All’inizio pensavo che mi avessero fatto uno scherzo”. Dice allora Tommaso Currò, che il gruppo della Camera lo ha lasciato 16 dicembre 2014: “L’ordine implicito è sempre stato di non fare politica, di non fare accordi, di non parlare con nessuno, di obbedire allo staff. Chi sorrideva di sufficienza, prima o poi finiva male”. E insomma in Parlamento gli impedivano di muoversi, di mescolarsi, di fare qualsiasi cosa. Chiusi in un acquario portatile, i parlamentari si sarebbero dovuti muovere come branchi di pesci in Transatlantico: una parete di vetro li avrebbe dovuti dividere dal mondo esterno, che loro vedevano transitare deformato e fioco davanti ai loro occhi. Se pure lo vedevano. “Mi ricordo che quando discutemmo le espulsioni dei primi quattro senatori, in assemblea, lo streaming era parecchio strano. Ogni volta che parlava qualcuno in difesa di quei poveracci, succedeva una cosa incredibile: o andava via l’immagine o s’interrompeva il suono. Guardi, può darsi che fosse un caso, ma era davvero così”, ricorda il senatore Maurizio Romani, oggi iscritto al gruppo misto. E aggiunge: “E le telecamere c’erano sempre. In tutte le assemblee. Anche senza streaming. Molti di noi erano intimiditi, c’era questa idea qui: ma non è che mi buttano fuori, e poi mi espongono alla gogna su Facebook se Casaleggio s’incazza per quello che dico? Io me ne fregavo. Non mi autocensuravo solo perché c’erano delle telecamere. Molti altri no. Per un periodo ci hanno fatto firmare una liberatoria, dicevano che si trattava di girare un documentario sui Cinque stelle. Ma poi le telecamere sono rimaste sempre. C’era Nick il Nero che registrava tutto, e Claudio Messora alla regia”. Messora è stato uno degli uomini della comunicazione del gruppo parlamentare (scelto a Milano dalla Casaleggio): cercato per questo articolo non ha mai risposto agli sms, alle mail, né ovviamente al telefono. Nick il nero, così chiamato perché veste sempre di nero e ha la pelle olivastra, è invece un ex camionista emiliano, anche lui addetto stampa del gruppo parlamentare M5s, molto noto in passato per alcuni video virali rilanciati dal blog di Grillo, e poi considerato fedelissimo dalle parti della Casaleggio Associati per aver contribuito alla cacciata di Giovanni Favia, di cui era amico. “Tutto il gruppo della comunicazione è stato selezionato fuori dal Parlamento e imposto al gruppo parlamentare”, racconta Mara Mucci, giovane deputata, ovviamente fuoriuscita anche lei, e poi fatta oggetto di uno spaventoso linciaggio sui social media. “Com’è arrivato Rocco Casalino, capo della comunicazione al Senato? Mi ricordo una sera in pizzeria, c’erano i milanesi, che hanno maggiore familiarità con la Casaleggio, e certamente Manlio Di Stefano. E loro dicevano: ‘Adesso vi portiamo Casalino’”. Ricorda Serenella Fucksia: “Ci hanno sempre dato ordini. Verbalmente, la mattina via mail…”. Insomma se c’era tra i parlamentari, come statisticamente ci deve pur essere, qualche tipetto cui gli dèi avevano concesso curiosità e voglia di fare, questo modo di “prendere contatto” con il Parlamento non poteva mancare di levargli dalla testa, sul nascere, ogni scintilla politica. Trascinato davanti ai corsi di “programmazione neuro linguistica”, una specie di delirio new age basato sull’idea che certe parole e movimenti possono “condizionare” le emozioni di chi ascolta e guarda, circondato dalle assemblee con telecamere a circuito chiuso, spiato dagli addetti stampa e persino dai colleghi, l’infelice parlamentare a cinque stelle non doveva sentire altro che l’obbligo di seguire il suo branco di pesci nell’aquario chiassoso. E s’avverte nell’aria l’ambiguo e pervasivo sapore della nomenklatura, una strana e invisibile nomenklatura che a quanto pare l’Italia è riuscita a mettere insieme (miracolo nazionale dopo la caduta del Muro) senza nemmeno passare dalla rivoluzione sovietica. Racconta, per esempio, Massimo Artini, eletto deputato del Movimento cinque stelle nel 2013 ed espulso a seguito di consultazione online il 27 novembre 2014, uno dei pochi parlamentari che ha un po’ frequentato la Casaleggio a Milano: “Su tutto il territorio nazionale, in ogni regione, ci sono tre o quatto attivisti ‘sentinelle’. Forse erano ‘sentinelle’, anche Lombardi, Crimi, Fico… Le sentinelle ascoltano, controllano, leggono le chat degli attivisti, e riferiscono i loro sospetti sui militanti che secondo loro ‘deviano’”. Quando a febbraio del 2014 venne ordinata l’espulsione dei primi quattro senatori (Lorenzo Battista, Luis Orellana, Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino), Grillo spiegò che l’idea di buttarli fuori derivava da “svariate segnalazioni dal territorio di ragazzi, di attivisti, che ci dicevano che i 4 senatori Battista, Bocchino, Campanella e Orellana si vedevano poco e male”. Dunque prima arrivano le segnalazioni, poi a quanto pare alla Casaleggio decidono disattivazioni, cancellazioni e procedimenti di espulsione, “che chissà come mai vengono sempre accettate dal voto online”, dice Artini. E come mai vengono sempre accettate? “E chi controlla che il voto online sia regolare? Quis cutodiet custodes, chi sorveglia i sorveglianti della Casaleggio?”. Nessuno. Ai tempi delle quirinarie, pare che Gianroberto Casaleggio si fosse rivolto a una azienda di certificazioni. Loro fecero un controllo e dissero che non potevano certificare nulla perché il sistema di voto elettronico era pieno di bug, di difetti di programmazione. E’ tuttavia improbabile che Casaleggio alteri i risultati delle consultazioni aggiungendo o sottraendo voti. Non è necessario. E’ più verosimile quello che racconta un suo ex dipendente, e cioè che negli uffici di via Gerolamo Morone 6 tutti i militanti iscritti al Movimento sarebbero schedati. Esisterebbe infatti un sistema, di banale realizzazione informatica, che registra e ricorda esattamente come ognuno degli iscritti si è espresso in ciascuna delle votazioni. E insomma Casaleggio sa più o meno come la pensa ciascuno dei militanti: chi è più di destra o più di sinistra, chi ha sempre votato contro le espulsioni, chi è a favore o contrario al reddito di cittadinanza, e così via. Ogni voto rimane registrato. Di conseguenza lui può all’incirca prevedere i risultati di qualsiasi futura consultazione. Sa, per esempio, cosa sarebbe successo se il Movimento avesse messo in votazione (cosa che non ha fatto, pour cause) il tema delle unioni civili. Dunque, se Casaleggio volesse orientare un voto, l’operazione sarebbe persino banale, come dimostra il racconto di Alessandro Cuppone sulle parlamentarie del 2013: ti disattiva. Ti fa scomparire. E nello statuto del M5s c’è scritto che può farlo. Articolo 5: “La partecipazione al Movimento è individuale e personale e dura fino alla cancellazione dell’utente che potrà intervenire per volontà dello stesso o per mancanza o perdita dei requisiti di ammissione”. L’uso di questa schedatura trasforma l’abitante della Casaleggio Associati in un’entità onnipotente nel marasma indistinto del Movimento. Solido, vanitoso, assertivo, un po’ permaloso, gentile eppure incapace di vera empatia, Casaleggio “parla poco, non ti guarda mai negli occhi e poi, improvvisamente, interrompe il discorso, ti volta le spalle e se ne va”, ricorda Mauro Cioni, ex project manager alla Webegg, azienda di cui Casaleggio fu amministratore delegato fino al 2003. Non esce quasi mai dalla sua stanzetta di via Gerolamo Morone. E mentre gli altri, soci e dipendenti della sua azienda, vanno al bar dietro l’angolo o mordono un panino in ufficio, lui misura con lo sguardo una delle mele che tiene raccolte in un cestino, la afferra e la mangia in silenzio. Da solo.  Il suo sguardo, se non fosse per una diffusa malinconia che giunge all’astrattezza, potrebbe apparire buono, o forse statico, proiettato altrove, assorto non tanto in riflessioni, quanto in una specie di muta concentrazione. In generale non redarguisce troppo i suoi ragazzi, fa solo domande. In questo modo, con una serie di interrogativi anche bruschi a cui la persona interpellata è costretta a rispondere, Casaleggio costringe il dipendente a rendersi conto, con le sue proprie risposte e contraddizioni, che il lavoro doveva essere svolto in un modo anziché in un altro. Alla Casaleggio vivono tutti un’estasi nevrotica e imitativa. “Durante il mio primo colloquio di lavoro, Casaleggio parlava poco, parole pesate”, ha raccontato una volta Luca Eleuteri, l’allievo prediletto, il socio più anziano. “Notai che dai suoi discorsi mancavano gli avverbi, mi spiegò poi che sono interlocuzioni inutili. Mi ricordo la prima email che scrissi dalla mia scrivania. Mi vien da sorridere, ma fu una delle più belle lezioni di vita ricevute dopo tanti anni di studi… Gianroberto uscì dal suo ufficio, entrò nel mio e disse ‘nella tua email c’è un errore, è importante che tu non ne faccia. Sono i dettagli che contano’. Voltò le spalle e rientrò nella sua stanza. Non ho più inviato una email, e nemmeno un semplice sms, senza aver prima riletto almeno tre volte il testo”. Sulle sue abitudini, su una sua certa mania del controllo, circolano i racconti più inverosimili e leggendari, frutto di rielaborazioni, fantasie, semi verità di un mondo composto di mattoidi attratti dal Movimento 5 stelle e poi in gran parte respinti, dunque pronti, per delusione e rivalsa, per mitomania e congenito complottismo, ad attribuirgli un’intelligenza acutissima e fredda, capace di qualsiasi turpitudine luciferina. Lo disse, esagerando un po’, anche Giovanni Favia, il primo eletto del M5s in Italia, il più famoso degli espulsi: “Una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende”. Una narrazione per la verità impalpabile nella quale Casaleggio ama accucciarsi, lasciando che si dica, e che tutto si confonda nell’indistinto, come una polvere che copre ogni cosa. Un pissi pissi malizioso che a lui forse fa comodo, per la politica, ma pure per gli affari, dove attraverso queste leggende senza fondamento (persino l’indimostrato e risibile legame con le massonerie, i fantasiosi collegamenti con i servizi segreti americani e addirittura con non meglio precisati e grotteschi centri di potere finanziario anglo-olandese) gli si riconoscono straordinarie conoscenze e pure profetiche qualità professionali che tuttavia non trovano riscontro né nei medi bilanci della sua piccola azienda né nella scarsa proiezione internazionale di questa sua agenzia di web marketing il cui unico prodotto di vero successo, per ora, è il M5s. E forse, a questo proposito, vale la pena di raccontare un episodio significativo. Nel 2009 il Fatto quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, l’aveva coinvolto nella costruzione e gestione del suo sito internet. E insomma mentre Grillo appoggiava esplicitamente la campagna di abbonamenti al Fatto attraverso i palchi, i comizi, gli spettacoli e il blog (da un analisi di mercato, circa il 60 per cento dei primi abbonati risultava essere un simpatizzante grillino), Casaleggio aveva un accordo commerciale con il giornale. Ma a un certo punto l’accordo salta, con la conseguenza che tutti i contenuti del Fatto sponsorizzati da Grillo attraverso il suo blog spariscono. La rottura era avvenuta perché Casaleggio, il visionario, il genio, oltre a chiedere forse troppi soldi, pretendeva anche di avere il controllo sui contenuti del sito, e poneva pure una condizione assurda: sicuro com’era che i giornali di carta fossero destinati a repentina scomparsa, pretendeva che il Fatto non uscisse cartaceo nelle edicole ma solo sul web. L’avessero ascoltato, Antonio Padellaro, Peter Gomez e Travaglio sarebbero falliti in meno di un anno. Oggi la dimensione di quello scampato pericolo è chiara a tutti loro. Con sollievo. Dunque i racconti e le fantasie sulla sua diabolica genialità rendono Casaleggio più misterioso, abile, persino oscuramente capace di quanto forse quest’uomo, ex dirigente allontanato dalla Telecom per non aver brillato alla guida di una controllata (la Webegg), in realtà non sia. Ed ecco dunque la cortina fumogena, la fuffa luciferina. Le voci incontrollate su misteriose e mai verificate sedi all’estero della Casaleggio Associati. Le leggende sui server con i dati degli iscritti al Movimento che sarebbero installati in America. E poi, ancora, come racconta Sergio Di Cori Modigliani, ex militante, autore per Chiarelettere di un libro – “Vinciamo Noi” – con prefazione di Grillo e Casaleggio: “Ma lo sai che va in giro con una chiavetta usb appesa al collo? Lì dentro ci sono i ‘big data’ del Movimento. E poi c’è ‘l’algoritmo’ con il quale controlla gli umori della rete. Lui vede tutto, lui sa tutto”. Ed è insomma un mondo dove ogni cosa è intrecciata e confusa. Seguendo il flusso di questo chiacchiericcio sussurrato non si capisce mai quanto ci sia di vero, di falso e di verosimile. Mentre cosa certa è che i più riconoscibili tra i parlamentari di Grillo hanno praticamente ceduto i loro diritti d’immagine a Casaleggio, ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa: si sono cioè impegnati a caricare tutti i video che li riguardano sul famoso blog. E per ogni video visto, ogni centomila visualizzazioni, per ogni clic, la Casaleggio Associati guadagna. Un pasticcio d’interessi in cui i parlamentari della Repubblica usano i social network per indirizzare le migliaia dei loro elettori su video che poi fanno lievitare i compensi pubblicitari di un’azienda privata. La fonte principale dei ricavi è il blog di Beppe Grillo, ma la società gestisce anche il portale del Movimento, i due siti di informazione (Tze Tze e La Fucina), la tivù streaming (LaCosa). Tutti siti collegati tra loro, e collegati ai parlamentari, al movimento d’opinione e di umori che questi riescono a orientare. Un intreccio d’interessi pubblici e privati non nuovo alla democrazia italiana, per qualcuno forse nemmeno scandaloso e forse (per adesso) anche di modesta entità, ma pure inquietante per l’opacità contrabbandata da trasparenza. La legge 96 del 2012 prevede l’obbligo di presentare un bilancio certificato per tutti i partiti o movimenti che si siano presentati alle elezioni, indipendentemente dal fatto che chiedano o meno l’accesso al finanziamento pubblico. Per ragioni oscure, il Movimento cinque stelle non ha mai depositato il bilancio. Così, dunque, l’azienda di marketing diffonde e ingrossa l’immagine di Di Battista, di Di Maio, di Fico, di Ruocco… e loro, con impeccabile circolarità, accompagnano questo flusso di nuovo verso l’azienda di marketing. “I siti della galassia (TzeTze, LaFucina, LaCosa), nati per cercare di inventare un nuovo sistema di informazione, sono diventati una macchina per creare consenso facile con sistemi di dubbia moralità. Non trovo nessuna differenza tra il Canale 5 del 1994, dove Sgarbi vomitava insulti per creare il brodo necessario a Forza Italia, e LaFucina che usa le tette della Boschi per attirare qualche clic con titoli scandalistici, o propaganda rimedi al limone contro il cancro, o fa terrorismo contro i vaccini che provocherebbero l’autismo”, ha scritto su Facebook Marco Canestreri, collaboratore di Casaleggio dal 2007 al 2010, uno dei ragazzi che lavorò, tra le altre cose, dall’interno della Casaleggio Associati, anche alla costruzione e alla gestione del sito del Fatto quotidiano. L’intuizione di Casaleggio, tra il 2005 e il 2006, fu che la tecnologia di internet rendeva possibile una nuova forma di marketing politico, che ben si adattava a un crescente malumore popolare. All’inizio ci provò con Antonio Di Pietro, di cui era diventato consulente, formalmente incaricato di occuparsi solo del blog, ma in realtà così dentro le meccaniche dell’Idv, e così vicino all’orecchio dell’ex magistrato, da prevaricare l’ufficio stampa del partito, determinando addirittura gli slogan elettorali, e la natura della cartellonistica. “Casaleggio si occupava del blog di Di Pietro ma proiettava la sua influenza sempre un po’ più in là. Per l’amicizia che aveva con Di Pietro arrivava al punto di suggerire battaglie”, ricorda Massimo Donadi, che dell’Idv fu capogruppo alla Camera e membro dell’ufficio di presidenza. Nel 2008 l’Idv spese 539.138,06 euro per lo “sviluppo dell’immagine in rete”. Nel 2009 la spesa lievitò alla bellezza di 893.554,82 euro. E’ l’anno in cui Beppe Grillo, di cui Casaleggio è già da anni il braccio destro, appoggia attraverso il blog, e nei comizi, le candidature di Luigi De Magistris e Sonia Alfano nelle liste dell’Idv per le europee: “Sono dei nostri”. De Magistris viene eletto. E Grillo scrive: “In Europa sarà una voce forte e pulita. Il blog lo sostiene”. Ma poi succede qualcosa, e il rapporto tra Casaleggio e Di Pietro s’interrompe. Così, appena De Magistris si candida sindaco di Napoli, Grillo lo scarica, e pubblica la foto di quello che un anno prima era “uno dei nostri”, con sotto questo interrogativo retorico: “Comprereste un voto usato da quest’uomo?”. Ricorda Donadi: “A me risulta che il rapporto con Di Pietro si interrompe quando Casaleggio suggerì in modo perentorio, perché secondo lui altra via non c’era, che l’Idv rompesse con il centrosinistra e diventasse una forza anti sistema. Lui pensava che in Italia ci fosse spazio per una cosa del genere. Noi ne parlammo in una riunione e decidemmo diversamente. Decidemmo cioè di restare nel centrosinistra, col Pd. E decidemmo anche, di conseguenza, che non c’era nemmeno più spazio per proseguire una collaborazione anche soltanto tecnica con Casaleggio”. Ed è a questo punto che il M5s, esperimento di liste civiche locali, comunali e regionali, diventa, nelle mani della Casaleggio Associati (privata dell’Idv, suo principale cliente: tra il 2006 e il 2009 circa un terzo dei ricavi della Casaleggio Associati arrivava da Di Pietro) un partito con ambizioni nazionali. Sostiene Giovanni Favia, grande espulso: “Non c’era un disegno sicuro che portava alla costituzione del M5s partito nazionale. Tutto è sempre stato condizionato dalla situazione privata e societaria di Casaleggio”. Chissà. Di sicuro, con i suoi collaboratori e soci, Casaleggio ha cambiato le regole del gioco, è andato oltre Berlusconi, oltre il partito liquido o di plastica, immaginando e realizzando un movimento, un partito, che è puro flusso di marketing, con ideologia, valori, istanze e programmi mutevoli, intercambiabili, legati all’analisi dei trend internettiani, agli umori raccolti in presa diretta. Già da prima i partiti si rivolgevano alle agenzie di comunicazione, ai persuasori più o meno occulti, ai guru, ai maghi, agli stregoni, agli oracoli… Ma Casaleggio è andato al di là dell’immaginabile: ha eliminato il partito, e sublimato il marketing. Dunque attraverso la sua agenzia fornisce tutto al Movimento, che è in realtà, nella città e nelle province d’Italia, una tribù eterogenea che senza di lui non avrebbe voce, collegamenti, né capacità organizzativa nazionale: consulenti ed esperti di mercato politico, compulsatori di forum e di ‘social trend’, grafici e teleoperatori, maestri di recitazione e persino supporto psicologico, all’occorrenza. Dunque Pietro Dettori, il vero autore dei post firmati Beppe Grillo. Biagio Simonetta, giornalista che compila contenuti (come quelli del giornale online del movimento, Tze Tze) e poi li gonfia di commenti e ‘like’. Marcello Accanto, altro social media manager. E poi Filippo Pittarello, quadrato, scaltro, serioso, il miglior dipendente di Casaleggio, il suo tuttofare, adesso a capo dell’ufficio stampa M5s a Bruxelles. Fu lui a combinare l’incontro tra Grillo e il leader estremista inglese Nigel Farrage. A maggio del 2013, appena dopo le elezioni, fu sempre lui a tenere il “discorso motivazionale” ai nuovi parlamentari grillini (“ci trattava come dei deficienti da catechizzare”, ricorda Mara Mucci). In un incontro con i militanti, Pittarello spiegò quale fosse l’idea di parlamentare della Repubblica che avevano loro, alla Casaleggio: “Il candidato ideale dovrebbe avere più soft skills che hard skills, cioè più attitudini che competenze”. Una squadra, questa, cui si aggiungono l’informatico (Maiocchi) e lo studioso di marketing e vendite (Benzi). E adesso anche Silvia Virgulti, che insegna ai parlamentari come si fa a parlare in pubblico e che nel 2013 fece ad alcuni di loro le prime lezioni di presenza televisiva nella sede della Casaleggio Associati. Formalmente dipendente del gruppo della Camera, Virgulti, ora si sa, è la fidanzata di Luigi Di Maio che l’ha inserita nell’ambiente, malgrado Casaleggio all’inizio storcesse il naso. E chi oggi può fare politica meglio di un’agenzia di comunicazione, aiutata da un propagandista vociante, eppure malleabile, come Grillo, un vecchio attore egocentrico e sgarbato che però Casaleggio sa prendere per il verso giusto, scomparendo durante le frequenti crisi depressivo-aggressive del tribuno, e ricomparendo invece, con suggerimenti e parole, nei repentini picchi d’entusiasmo e super eccitazione che come un’altalena scandiscono l’esistenza del famoso comico? Lo spartito suonato alla Casaleggio Associati è persino banale: una divisione manichea del basso contro l’alto, del cittadino contro il potere, in un contesto liquido, anzi gassoso, dove ogni posizione politica è ritrattabile, riconvertibile, ribaltabile. Una strategia pubblicitaria portata all’estremo. Così dietro le quinte della grande rappresentazione e della trasparenza, il guru mette al servizio di una tribù eterogenea e un po’ raccogliticcia la potenza arcana di numeri, simboli, icone e rituali. Ma la superiorità morale, la purezza, il mito della trasparenza, malgrado la Casaleggio Associati guadagni com’è s’è visto quattrini, non sono purtroppo un’astuzia, una mossa tattica, un espediente per confondere quei gonzi degli elettori e rintuzzare alla meglio la casta degli avversari, né un trucco per acquistare ricchezza. Loro ci credono davvero, ne sono persuasi. Casaleggio vede se stesso come uno scienziato (infallibile, all’inizio; oggi un po’ meno) impegnato in un grandioso, nobile esperimento di felicità generale, di rigenerazione universale. Ma sembra che per lui il fine giustifichi i mezzi, e chiunque abbia mete più corte, speranze più immediate, sia un infame che dovrebbe avere almeno il pudore di stare zitto quando l’esperimento sfugge qua e là di mano, tra purghe, dissidenze, psicosi, espulsioni e crisi amministrative.

Ora Casaleggio spiegherà ai parlamentari come funziona il modello Blog & Associati. Parla la parlamentare fuoriuscita dal M5s Mara Mucci, che ha invitato il guru dei grillini per un contributo alla discussione sulla nuova legge su come dovrebbe funzionare un partito democratico, scrive Luciano Capone il 2 Marzo 2016 su "Il Foglio". Sarà Gianroberto Casaleggio a spiegare al Parlamento come dovrebbe funzionare un partito democratico, se deve essere modello Gaia o modello Rousseau. Alla Camera, in commissione Affari Costituzionali, è iniziato il confronto sulle proposte di legge per attuare l’art.49 della Costituzione, quello appunto sul “diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, e la parlamentare fuoriuscita dal M5s Mara Mucci ha invitato in audizione il “guru” del partito fondato da Grillo: “In audizione si ascoltano gli esperti per capire come si può attuare la democrazia interna ai partiti e io ho chiesto l’audizione di Gianroberto Casaleggio – dice al Foglio la parlamentare – adesso vedremo se viene in commissione a dire la sua”. Lo si saprà presto, perché la proposta è già incardinata e dalla prossima settimana dovrebbero cominciare le audizioni. “I princìpi sono quelli alla base del Movimento, si chiede a tutti i partiti maggiore trasparenza, democrazia e di rendicontare i bilanci, non capisco perché dovrebbero essere contro”. Il tema è caldo, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, che è autore di una delle proposte di legge, aveva dichiarato che era il momento di approvarne una nuova dopo la vicenda delle multe imposte dal Movimento ai dissidenti o ai voltagabbana (a seconda dei punti di vista). Ma il tentativo di regolare la vita democratica dei partiti è stato definito “liberticida” dai grillini, che contestano qualsiasi norma che imponga un minimo di struttura democratica, visto che secondo l’impostazione di Casaleggio il Movimento è fondato sulla democrazia diretta. A questo punto il numero due (o uno secondo molti) del M5s, avrebbe il palcoscenico della Camera per proporre a tutti i partiti di organizzarsi secondo il suo modello, a patto che spieghi come funziona: “Teoricamente doveva essere una democrazia dal basso, ma adesso è chiaro a tutti che è un sistema verticistico in cui Casaleggio è il regista e forse ciò spiega perché sono contrari a una legge sulla democrazia nei partiti – dice la Mucci – Nel Movimento bisognava decidere tutto con le consultazioni online, ma ne sono state fatte due o tre, senza un ente terzo che certifica il voto. Dov’è la democrazia senza la garanzia che il voto sia libero e certificato? Dov’è la democrazia se i quesiti che tu poni indirizzano già i votanti?”. L’audizione di Casaleggio, in diretta streaming come piace ai grillini (anche se da un po’ di tempo ne fanno poche), sarebbe un’ottima occasione per convincere i partiti a convertirsi al modello Blog & Associati, ma soprattutto per far sapere a tutti come diavolo funziona questa democrazia diretta nel M5s. Ma il guru si presenterà?

Cos’è, per i grillini, l’inevitabile controllo dei Casaleggios. Un'email scovata dal Foglio dimostra come funziona il controllo della Casaleggio Associati sulle vite (e i server) degli altri, scrive Salvatore Merlo il 05 Marzo 2016 su “Il Foglio”. Questa storia la conoscono tutti i parlamentari, e tutti gli ex parlamentari, del Movimento cinque stelle. Eppure non è stata mai raccontata da nessun giornale. “A un certo punto, a settembre del 2014, venimmo a sapere che la Casaleggio Associati non solo aveva avuto informazioni sui nostri server di posta elettronica”, racconta Tancredi Turco, deputato veneto, avvocato penalista uscito dal M5s il 26 gennaio 2015. “Ma capimmo pure che qualcuno da lì aveva potenzialmente accesso al nostro sistema di archiviazione e comunicazione interno, parlamentari5stelle.it, quello che usano i deputati, dove si depositano documenti. Ne discutemmo anche in assemblea di questo fatto. Io, come altri, non feci una denuncia solo per il bene del Movimento. Ma la cosa diede fastidio, si fa per dire, a tanti”. Appena un anno prima, fine aprile 2013, qualcuno aveva violato la posta elettronica di Giulia Sarti, giovane deputata emiliana – fidanzata fino al 2012 con il più noto degli espulsi e grande accusatore di Gianroberto Casaleggio, Giovanni Favia. Quel qualcuno, il ladro di email, aveva diffuso attraverso internet le foto private della deputata, stralci di sue conversazioni, sfoghi, giudizi, umori… “Giulia Sarti si era messa contro lo staff della comunicazione”, dice Lorenzo Andraghetti, che era il suo addetto stampa, storico e noto militante emiliano, lui che quando tornò a Bologna dicendo che avrebbe voluto rifondare il 5 stelle venne rapidamente espulso. “Alla fine, chissà come, mentre Giulia si lamentava dello staff, sono state diffuse le sue email, accompagnate dalla minaccia anonima di rivelarne altre, e di altri parlamentari… A quel punto stavano tutti zitti. C’è sempre stata una tensione che si tagliava con il coltello. Una paura incredibile di essere abbandonati ai cani, di essere in qualche modo esposti alla gogna del web, di essere sputtanati, e di essere anche spiati”. E in questo clima quasi psicotico, non stupisce affatto che un anno dopo, “quando capimmo che a Milano potevano avere avuto accesso alle nostre mail, ci preoccupammo”, come ha raccontato sul Foglio dello scorso 20 febbraio Sebastiano Barbanti, deputato oggi iscritto al gruppo Misto. Ma ecco come andò e come fu che si scoprì, ma pure si coprì, l’affaire delle email. Alla fine di settembre 2014, il gruppo M5s aveva incaricato la ditta Wr Network srl, azienda Itc torinese fornitrice di servizi per la Casaleggio Associati (ma questo ancora non si sapeva), di controllare la sicurezza del sistema “parlamentari5stelle.it”, una piattaforma di proprietà del gruppo parlamentare, creata in realtà allo scopo (non esplicito) di sfuggire un po’ all’occhio troppo attento della Casaleggio, un sistema che oltre alle mail personali dei deputati conteneva, ovviamente, anche altri dati riservati. E infatti per questa ragione, all’ingegnere della Wr Network chiamato a lavorarci, era stato impedito il pieno accesso alla piattaforma. Tuttavia, il 30 settembre 2014, il capogruppo Paola Carinelli e il capo della comunicazione Ilaria Loquenzi, su indicazione della Casaleggio, e senza informare il responsabile legale del gruppo, Alessio Villarosa, consegnarono al tecnico informatico torinese la password del sistema. Ma la sorpresa massima doveva arrivare dopo qualche giorno. Ottenuta infatti la password di questo sistema libero e parallelo che i deputati si erano creati al di fuori del network controllato da Grillo e Casaleggio, il tecnico dell’azienda (attenzione: ingaggiata dal gruppo parlamentare), a un certo punto, per ragioni poco chiare, modifica tutti gli accessi al sistema informatico. In pratica lo smantella, lo rende inaccessibile e non funzionante. E qui arriva il bello. Perché i deputati cominciano a mugugnare, qualcuno a preoccuparsi della sua posta elettronica (visto il precedente di Giulia Sarti), qualche altro a sospettare che quella piattaforma fuori controllo non piacesse troppo “a Milano”. Così, nel corso di un’assemblea agitata, la lamentela e il mugugno diventano ufficiali: Tancredi Turco ipotizza una denuncia cautelativa, Tatiana Basilio chiede spiegazioni, Mara Mucci si mette a ridere perché forse già sospetta la rivelazione, la prevedibile epifania che di lì a poco ci sarebbe stata. E infatti chi mai risponde ai deputati dando delucidazioni sull’accaduto? Forse il tecnico dell’azienda pagato dal gruppo parlamentare (550 euro al giorno, più viaggio e rimborso spese)? Forse il capogruppo? Ma no. Risponde, il 3 ottobre, via email, la Casaleggio Associati in persona, ovviamente. Ed è una fantastica lettera firmata “lo staff di Beppe Grillo” nella quale si dice espressamente che il sistema non è ripristinabile e che se ne sarebbe dovuto installare un altro (installato da loro, si suppone). Ma non solo. L’email conteneva pure una ammissione involontaria. Tra le righe, rivelava infatti che il misterioso “staff” di Milano aveva avuto alcuni dati relativi alla posta elettronica dei deputati. Scriveva infatti l’evanescente “staff”: “Ad ora risultano meno di 30 persone che stanno utilizzando in modo continuo o la posta o il calendario”. “Meno di 30”. Dunque sapevano chi, come e quanti deputati utilizzavano quella posta elettronica? E sapevano solo quello o avevano ricevuto anche altre informazioni provenienti dal server? E a che titolo, in definitiva, la Casaleggio era informata di quel controllo, se una ditta terza aveva il contratto con il gruppo della Camera? E a che titolo prendevano decisioni? (“abbiamo riscontrato una situazione non sanabile nella gestione attuale della posta e dei calendari … ti invitiamo a svuotare la posta e non utilizzare questo account … suggeriamo venga dismesso nell’immediato”). Dice Andraghetti, che ci sta scrivendo persino un libro: “E’ il clima Casaleggio. Io l’ho respirato per due anni a Montecitorio, prima di tornarmene a casa dopo sette anni di militanza”. E insomma sempre, sull’intero microcosmo parlamentare grillino, in ogni angolo, dal più riposto al più illuminato, aleggia remoto, inaccessibile e inevitabile il controllo della Casaleggio Associati. E questo contribuisce non poco ad alimentare anche un elevato tasso di paranoia complottista, talvolta ingiustificata, tra i poveri parlamentari a cinque stelle, che non sono soltanto controllati ma si controllano pure l’un l’altro, in modo ossessivo, in un continuo gorgoglio di malizie, insinuazioni, che ha forse toccato il suo vertice massimo con la storia di Giulia Sarti nel 2013 ma che in queste ore si sta replicando – in tono minore – anche a Roma, dove la candidata sindaco Virginia Raggi è vittima di chiacchiere, fantasie contundenti, spiate, pseudo informazioni e dossieraggi da parte dei suoi stessi compagni. Sbracciamenti selvaggi, soprusi, abiette suppliche e delazioni sono all’ordine del giorno, nel M5s.

Lo scoop del Foglio sul metodo Casaleggio arriva in Parlamento. Come funziona il controllo di Casaleggio sui parlamentari a cinque stelle? Il Pd presenterà lunedì un'interrogazione parlamentare per far luce sui metodi non trasparenti dei Casaleggios, scrive "Il Foglio" il 05 Marzo 2016. Lo scoop del Foglio sul metodo Casaleggio arriva lunedì in Parlamento. Il senatore Stefano Esposito, del Pd, al termine di una mattinata in cui diversi esponenti di centrodestra e di centrosinistra hanno rilanciato l'inchiesta di Salvatore Merlo sui metodi non trasparenti con cui la Casaleggio Associati ha avuto acceso ai server di diversi parlamentari del movimento 5 stelle (hashtag su Twitter #m5spy), ha annunciato in una intervista all'Huffington Post che presenterà lunedì al Senato una interrogazione parlamentare indirizzata al Presidente del Consiglio e al ministro dell'Interno "per fare luce sull'accaduto". Dice Stefano Esposito: "Noi sappiamo che la vicenda ha riguardato parlamentari a 5 stelle, ma chi ci dice che la Casaleggio Associati non abbia violato la privacy anche di altri parlamentari non del Movimento? Il dubbio è lecito, stando a quanto raccontato dal Foglio. Bisogna capire se dobbiamo fare i conti con una nuova Costituzione, quella della Casaleggio Associati. C'è un gruppo politico manovrato, ricattato, minacciato e diretto dall'ufficio di una società privata a Milano di cui non si sa nulla. Abbiamo fatto una battaglia contro Berlusconi ma almeno Berlusconi si è candidato. Casaleggio invece vuole dirigere il Paese standosene chiuso nel suo ufficio".

Enrico Sassoon: “Ecco perché Casaleggio scelse Grillo”. L'ex socio dell'imprenditore informatico racconta la genesi della collaborazione con il comico genovese: "Credo che il blog fosse un'idea di Casaleggio, Grillo non ha speso un euro". E parla della polemica dei troll: "La denuncia di Grillo è curiosa: ha fatto esattamente quello che lamenta ora", scrive Carlo Tecce il 28 marzo 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Dodici anni in società con Gianroberto Casaleggio, un profilo internazionale, un’araldica complessa, scrittura e relazioni, economia e Internet, poi Enrico Sassoon ha scritto una lettera, lo scorso settembre, per sigillare proprio quei dodici anni. E in poche righe, pubblicate in evidenza sul Corriere della Sera, si è liberato di quelle ricostruzioni su complotti, massoneria, servizi segreti che – dice – l’hanno perseguitato. Non adora parlare ai giornalisti. Ci riceve in una sala riunioni costellata di oggetti elettronici antichi e moderni, che un neofita vedrebbe bene in un museo. Riflette su ogni sillaba e la registra anche. 

Quando ha incontrato Casaleggio?

«Ci siamo conosciuti nel 2000, quando sono entrato a far parte del Cda di Webegg come consigliere indipendente. Quando nel 2004 Casaleggio fonda la sua società di consulenza e strategie di rete (che cura il sito di Grillo), mi propone di acquisire una quota e io entro come socio di minoranza con il 10%. In quell’epoca ero l’ad di American chamber of commerce. Ho lasciato la Casaleggio Associati perché c’erano fazioni in rete, esterne e interne al Movimento, che mi diffamavano. Né Grillo né Casaleggio mi hanno difeso. Sono stato costretto a lasciare pur non avendo mai scelto di fare politica con il M5S. Non mi ha colpito la rete, ma persone che hanno trovato la mia figura professionale poca consona al Movimento».

Come può un sito attirare milioni di visite che diventano milioni di voti?

«Perché Grillo ha toccato corde di carattere sociale e politico che hanno persuaso un numero crescente di persone. Credo che il blog sia un’idea di Casaleggio, penso che Grillo non sapesse proprio nulla di Internet quando gli fu proposto. Casaleggio ha notato il successo di Grillo che faceva spettacoli con una componente di critica sociale e politica molto aggressiva. Ha pensato che potesse essere utile sfruttarlo e inserire Internet, le connessioni immediate, negli spettacoli in maniera tale che potesse far vedere le cose di cui parlava, ricordo ad esempio la vicenda Telecom. Hanno usato molto la famosa mappa del potere, elaborata da Casaleggio e Associati, che dimostrava come poche persone controllano molti Cda».

È stato anche un affare economico?

«È convenuto per un breve periodo di tempo. Che io sappia, Grillo non ha mai pagato niente, non ha speso un euro, ma ha dato in concessione la vendita di dvd e libri. Pubblicità? Non ho idea. La Casaleggio ha un passivo non drammatico per una società che non supera 1,5 milioni di fatturato. Pura fantasia che la Casaleggio Associati abbia costruito un impero con quel fatturato. Otto anni governando la rete, ora Grillo segnala “gruppi pagati per gettare fango”, i troll. Mi sembra strano che si lamenti di interventi in rete di cui lui è stato il primo esempio. Come leggo nei commenti al blog, quelli più seguiti e votati, la maggior parte sono molto critici con la sua denuncia. La presa di posizione di Grillo è oggettivamente molto curiosa: lui ha fatto esattamente quello che lamenta in questo momento, e solo perché è rivolto contro di lui…»

Ma Internet è davvero sinonimo di trasparenza?

«La rete è uno strumento come il telefono o come la televisione, ma ha barriere di accesso più basse. La rete non significa democrazia, se usata male può anche significare attentato alla democrazia. Chi vuole identificare la rete come democrazia, e si immagina un popolo della rete, dice cose sostanzialmente sbagliate. La rete è lo strumento più potente per fare politica, nessuno, però, la usa in maniera sistematica come loro. L’hanno usata per le Parlamentarie: poca partecipazione, tante polemiche. Quando si selezionano persone per creare dei candidati queste persone dovrebbero essere selezionate per capacità, competenze, onestà, storie personali, quanto tutto questo sia stato possibile verificarlo attraverso le Parlamentarie, non ne ho idea e non ce l’ha nessuno se non chi le ha organizzate mettendo i filtri».

Quanto durerà il M5S in Parlamento?

«La proposta politica di Grillo dipenderà dalla capacità di trasformare in programmi quelle che sono finora essenzialmente parole d’ordine peraltro abbastanza elementari e in parte solo di protesta. Per fare questo mi sembra che venga utilizzata una tecnica che ricorda molto quella economica del crowdsourcing (chiedere supporto alle folle, ndr), cioè quando un’azienda o una persona si rivolge a una comunità online, più o meno specialistica, per risolvere un problema e ricevere proposte che poi dovrà scegliere, premiare e infine utilizzare. Questo richiede due condizioni: la prima che esista un pensiero strutturato, la seconda che ci sia un’organizzazione capace di filtrare quello che arriva. Ascoltando Grillo che utilizza questi termini in maniera piuttosto confusa, che sono certamente patrimonio culturale di Casaleggio, ho la netta sensazione che si illudano di fare crowdsourcing politico non avendo per ora né una struttura organizzata né un pensiero realmente definito».

Chi è imprescindibile per il Movimento: Casaleggio o Grillo?

«Mi pare che l’uno non viva senza l’altro. La parte ideologicamente più preparata mi sembra sia quella di Casaleggio, Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono».

ONESTA’ E DISONESTA’.

1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)

2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)

3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)

4. Il socialista più elegante?  Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!

5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse".  "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".

6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).

7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.

8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)

9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")

10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)

11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)

12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)

13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)

14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)

15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.

16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)

17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")

18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)

19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)

20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)

21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)

22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)

23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)

24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)

25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".

26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)

27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)

28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.

29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)

30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)

31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.

32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)

34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")

35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)

36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)

37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")

38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)

39.  Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.

40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")

41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!".  Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")

42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)

43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)

44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)

45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)

46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)

47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")

48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)

49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.

51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)

52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)

53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)

54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)

55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)

56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)

57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)

58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)

59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.

60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)

61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)

62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)

63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)

64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)

65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)

66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.

67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)

69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)

70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)

71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.

72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)

73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)

74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")

75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")

76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")

77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")

78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette

e la poltrona sua saluta

e ogni lingua de li colleghi trema muta

che altrimenti vorrebber commentare.

Egli si va, sentendosi laudare,

per la rinuncia d’umiltà vestuta,

e par quasi fosse cosa non dovuta

ma invece scelta per obbligo morale.

Che il popolino l’onestà l’ammira,

e dà agli illusi una dolcezza al core,

chi se ne va senza aspettar altre prove.

Ma i peggiori non v’è modo li si muova,

né per decenza oppur spinti dall’onore,

che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)

79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)

80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)

81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.

82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)

84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)

85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)

86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)

87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)

88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)

Disonestà, disonestà. Caso rimborsi, i grillini si sono tenuti oltre un milione. Crolla il mito dei "puri", scrive Alessandro Sallusti, Martedì 13/02/2018, su "Il Giornale". Se so magnati li sordi, direbbero a Roma. Si allarga infatti a macchia d’olio lo scandalo dei deputati e senatori grillini che hanno fatto solo finta di rinunciare a parte dei loro lauti compensi a favore di un fondo di solidarietà. Una truffa - ci sono carte false - che fa crollare il punto più forte della loro promessa elettorale di cinque anni fa. Che era: noi siamo diversi, noi gli stipendi della casta li restituiamo. La cosa non mi stupisce. Semmai questo tradimento degli elettori va ad aggiungersi ai tanti altri avvenuti lungo l’arco di questi anni, come quello che un avviso di garanzia avrebbe fatto scattare automaticamente l’espulsione dalla vita politica e amministrativa. Adesso nei Cinquestelle tutti fingono di cadere dalle nuvole, quando è chiaro che se non tutti almeno in tanti sapevano dell’allegra gestione finanziaria, tanto che probabilmente la spiata è partita proprio dall’interno del movimento, da colleghi non rimessi in lista o comunque scontenti. Di Maio fa la parte del più offeso di tutti, quando anche lui in realtà era corso a sanare gli arretrati alle prime avvisaglie del casino, giusto in tempo per evitare di finire diritto nella lista nera. Ora annuncia che i mariuoli, se eletti, dovranno dimettersi, ben sapendo che la sua è una richiesta irricevibile dagli interessati. Una volta che un cittadino diventa deputato o senatore non deve rispondere più a nessuno, e anche eventuali dimissioni volontarie devono essere approvate dal Parlamento, non certo dal partito, prassi questa molto lunga: in passato c'è chi ha aspettato anni, percependo nell’attesa lo stipendio pieno. Nati contro tangentopoli scivolano su rimborsopoli. La parabola moralista grillina piega verso il basso e scatena una guerra dentro il movimento dagli esiti incerti. Il giuramento «onestà, onestà», scandito a gran voce ai funerali di Casaleggio, si è infranto contro i lauti assegni e le prebende erogate dallo Stato a chi entra nella casta della politica, anche da oppositore del sistema. Così hanno capito che quello dei professionisti dell’anticasta è un mestiere redditizio e molto semplice: basta fingere di aver fatto un bonifico e il gioco è fatto. La maschera è caduta e il vetro della trasparenza è andato in frantumi. I grillini non solo sono come gli altri, sono peggio. Perché hanno l’arroganza di credersi i migliori.

Onestà, onestà …forse, scrive Luigi Iannone il 13 febbraio 2018 su "Il Giornale". La “questione morale” la inventarono i comunisti italiani. Quelli che da un lato sbraitavano contro la corruzione e dall’altro ricevevano rubli sonanti, e non pochi, da un potenza straniera nemica dell’occidente e magari pronta ad invaderci. Enrico Berlinguer trasse da quella stagione politica il massimo beneficio in termini di consenso e di credibilità personale. Ancora oggi, quando si blatera di onestà e trasparenza, il riferimento va direttamente a lui che, oltre ad essere stato un ottimo leader, gode pure di questa ingiustificata aureola di santità. Perché, nonostante si conosca la verità sulla faccenda dei finanziamenti illeciti da Mosca, si continua a perseguire una strada traboccante di falsità storiche. Post-comunisti di ogni risma e democratici in sedicesima ritornano con una certa frequenza sull’assioma «sinistra uguale moralità e onestà», senza però mai menzionare il fatto che queste premesse si fondano sulla doppiezza di una nomenclatura che veicolava messaggi falsi e li trasformava in verità consacrate grazie ad una egemonia su un apparato culturale e mediatico sempre compiacente.  Poi se ne fecero vanto i missini i quali esclusi dal gioco parlamentare, e quindi lontani dai gangli vitali del potere e del governo locale e nazionale, esibivano con ostentazione la loro assoluta estraneità ad ogni forma compromissoria e corruttiva. Quando, difatti, allo scoppio di Tangentopoli, all’alba della Seconda Repubblica, poterono sfilare per le strade delle grandi città con guanti bianchi a dimostrazione della propria immunità da corruzione e inquinamenti, lo fecero con orgoglio e compiacimento. Solo qualche anno dopo, conquistati enti locali e governo centrale con la nuova divisa di Alleanza nazionale, non pochi di essi si peritarono di smentire tutto quanto per farsi trovare con le mani nella famosa marmellata. Lo stesso sta accadendo in queste settimane al M5S che, però, a differenza, dei due esempi citati, essendo movimento post-ideologico, quindi privo di una solida base ideale che possa tener sempre serrate le fila, infonde tutte le sue energie in questa azione monotematica, incentrata sulla ripetizione ossessiva del termine ‘‘onestà’’ e dei suoi correlati di azione politico-parlamentare, e quindi a fronte di notizie che riguardano bonifici emessi e poi revocati, avvisi di garanzia e fatti liminari, vede palesarsi le prime crepe nelle fondamenta. E ciò non è fatto di poco conto. Sia per il Pci che per il Msi la questione della ‘diversità morale’ fu infatti importante ma non fondamentale ed esclusiva. Erano partiti che traevano linfa vitale da una storia decennale dove l’aspetto comunitario si legava ad una strategia complessiva tesa a reificare una nuovo modello di società. Insomma, missini e comunisti fecero tante battaglie contro la corruzione ma la loro azione politica era strutturata su più fronti con un disegno generale e omnicomprensivo. Condivisibili o meno, quei programmi e quelle ideologie fornivano un ampio ventaglio di applicazioni e se una parte dell’azione politica (per esempio, quella riferibile al tema legalitario o giustizialista) subiva dei contraccolpi per via di qualche inchiesta giudiziaria, la restante impalcatura ideologica riusciva a tenere in piedi tutto il resto. Perché in quei partiti, oltre a dei Savonarola pronti a puntare l’indice contro la partitocrazia e il mal governo, c’era anche dell’altro. I grillini hanno invece un peccato originale, un marchio indelebile. Le loro comprensibili campagne legalitarie paiono prive di una solida e radicata strategia collettiva e sembrano monotematiche. Spesso slegate da ogni contesto e pregiudizialmente orientate. E poi, per dirla in maniera semplice: avendo essi puntato sin dall’inizio tutte le loro fiches sulla diversità morale, ora non possono che pagarne le conseguenze con una celerità spaventosa rispetto ad ogni altra formazione politica. Il solo fatto che questioni non di eccelsa rilevanza politica si connotino di una risonanza mediatica enorme e creino così tanto imbarazzo nella stessa classe dirigente grillina, che pare per la prima volta balbettante, è la risultanza non solo di un evidente e comprensibile accerchiamento (…ma la politica è anche questo; vale per tutti e dovranno abituarsi anche loro!) ma soprattutto – ed essenzialmente –  di un carico di imprudenze ed errori che tocca il nucleo stesso del loro Dna, della loro stessa ragione sociale.

Luigi Di Maio, la rimborsopoli dei 5 Stelle si allarga. Le Iene: "Ecco i primi dieci nomi", scrive il 13 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Le Iene tornano sul caso Rimborsopoli di M5s. Lo fanno sul sito della trasmissione dove annunciano: "Ecco i primi dieci nomi" di chi non ha rispettato le regole. "Secondo la fonte delle Iene ad avere falsificato le restituzioni di parte degli stipendi al Fondo per il microcredito, sarebbero stati questi parlamentari dei Cinque stelle: Silvia Benedetti, Massimiliano Bernini, Maurizio Buccarella, Elisa Bulgarelli, Andrea Cecconi, Emanuele Cozzolino, Ivan Della Valle, Barbara Lezzi, Carlo Martelli, Giulia Sarti. Come nel caso di Cecconi, Martelli, Buccarella e Lezzi, che ancora non ci hanno contattato, invitiamo anche gli altri parlamentari nominati qui sopra a mettersi in contatto con noi per chiarire le loro posizioni». Secondo quanto si è appreso oggi nel caso di Lezzi per i vertici M5s non vi sarebbe dolo.

La lista degli scrocconi. Anche i big tra i grillini che non hanno restituito i soldi come promesso, scrive Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 14/02/2018, su "Il Giornale". Cinque Stelle e mille bugie. I grillini sono la fantasia al potere. Nel senso che, quando i loro progetti si schiantano contro il muro della realtà, danno sfogo all'immaginazione. Nel tentativo di giustificare i rimborsi non rimborsati si sono esibiti in uno spettacolo d'arte varia degna di uno scolaretto che nega una marachella: dal deputato che ha accusato lo sportellista della banca di aver sbagliato il bonifico perché aveva fatto bisboccia la sera prima (testuale!), all'onorevole che non ha presentato i rimborsi perché non è riuscita a stamparli, fino a quello che ha candidamente ammesso di aver sbagliato i conti. Di qualche migliaio di euro, ovviamente. Cose di poco peso per chi vorrebbe amministrare un Paese e non riesce neanche a rendicontare le spese giornaliere. O, forse, lo fa con un'eccessiva dose di creatività. Ma d'altronde è la fantasia al potere...E poi tutte le sfumature del complotto: dalla piattaforma Rousseau che ha fatto scomparire le ricevute della regione Sicilia, ai giornalisti che hanno ordito un'imboscata. La realtà, per loro inammissibile, è che quei soldi non volevano sganciarli. Volevano tenerseli. Schiacciavano il tasto del bonifico, poi facevano una foto allo schermo del pc, la inviavano a Casaleggio e, infine, bloccavano la transazione. Con un trucco da furbetti di serie B. Sperando che nessuno li scoprisse. Così quando il bubbone è scoppiato hanno iniziato a sparar balle, senza rendersi conto che ora quando concionano di trasparenza hanno la credibilità di una pornodiva che pontifica sulla verginità. Ma quello delle bugie, per i grillini, è un vizio antico e i furbetti del rimborso non sono i primi e non saranno neppure gli ultimi. Lo sanno bene anche i vertici del Movimento, che tremano all'idea che da qui al 4 marzo scoppino altri bubboni. Nel frattempo continuano con il solito copione: scaricare la colpa su qualcun altro o puntare il dito contro qualche complotto massonico. Salvo poi trovarsi i grembiulini in lista. Copione utilizzato, finora, da tutti i maggiorenti a Cinque Stelle. D'altronde quando lo scorso settembre Livorno venne colpita da una terribile alluvione (9 vittime) il sindaco Nogarin si giustificò così per il mancato allarme via sms: «Il cellulare non aveva campo». Se si trattava di balle lo chiarirà la magistratura. Ma intanto molti italiani se le sono rotte. Le balle.

Le scuse ridicole dei morosi, dall'impiegato ubriaco ai costi. Gli onorevoli M5s si arrampicano sugli specchi e usano i pretesti più assurdi. La colpa? È tutta delle banche, scrive Giuseppe Marino, Mercoledì 14/02/2018, su "Il Giornale". «Ero senza benzina, con una gomma a terra, non avevo i soldi per il taxi, c'era il funerale di mia madre...le cavallette...». I cinque stelle beccati con le mani nella marmellata dei rimborsi sembrano tanti Blues Brothers, in ginocchio come John Belushi a piangere: «Non è stata colpa mia!». Il più comico è Michele Mario Giarrusso che, di fronte a un bonifico del 2015 con un inspiegabile timbro «eseguito» del 2014 dà dell'ubriaco all'impiegato di banca, «lo scellerato allo sportello che avrà fatto bisboccia la sera prima» (salvo poi fornire altri chiarimenti). Ma in fondo si sa che i Cinque stelle ce l'hanno con le banche. E infatti Barbara Lezzi, al sorgere delle prime accuse, si affretta a dire che la mattina dopo andrà in banca a controllare, uscendo per un giorno dall'era del banking on line. Maurizio Buccarella, altro parlamentare nel tritacarne, si autosospende e dichiara fiero che non spiegherà nulla ai giornalisti (che hanno il brutto vizio di fare domande). Meglio un soliloquio via web per dare la colpa al «costo eccessivo delle operazioni applicato dalla banca», ecco spiegato perché faceva il bonifico, stampava la ricevuta da mostrare agli elettori creduloni, per poi revocarlo in attesa di cambiare banca. I casi si moltiplicano e gli occhiuti registi della comunicazione a 5 stelle evidentemente non ci stanno dietro e spuntano le scuse più improbabili. Per i primi due accusati, i deputati Cecconi e Martelli, interviene la regia, come provano le scuse fotocopia postate da entrambi all'unisono per giustificare i bonifici mancanti: «Il ritardo è stato dovuto a motivi di natura personale». Frase identica per entrambi, parola per parola. Chissà se è lo stesso motivo personale, o ne hanno uno diverso a testa. Anche Roberta Lombardi, sfiorata dalle critiche, ne sforna una buona: «Mi manca solo il bonifico di dicembre, ho tardato perché ero in campagna elettorale». Eppure tra gli onorevoli grillini spicca per le spese dello staff più corpose. Del resto, i furbetti pentastellati hanno avuto un buon maestro. Chi non ricorda cosa disse il capo Luigi Di Maio quando si scoprì che era stato informato per posta elettronica che Paola Muraro era già indagata quando fu scelta come assessore da Virginia Raggi? «Ho letto la mail ma ho capito male». Bel colpo per il leader del movimento della Rete. Scuse improbabili buone per coprire l'ingloriosa caduta dei pilastri ideali alla base del Movimento stesso. Trasparenza, onestà, uno vale uno? Slogan buoni per le folle di elettori-nickname, traditi ogni volta che conviene. E a ogni tradimento mai una spiegazione sensata, politica. Sempre e solo pretesti imbarazzati e imbarazzanti. Come quando Di Maio viene sorpreso dai giornalisti mentre entra a una riunione di lobbisti e colto in contropiede, nega: «Ma quali lobbisti?», poi dice di voler regolamentare le lobby. Poteva essere da meno Virginia Raggi? Appena il suo braccio destro Raffaele Marra viene portato via in manette non trova di meglio che liquidarlo così: «Solo uno dei 23mila dipendenti capitolini». Solo due dei quali però, lui e Salvatore Romeo, l'uomo dalla polizza facile, membri una chat con la sindaca dal titolo «Quattro amici al bar». Il vizio della scusa banale non è ingenuità, ma una facoltà riservata ai leader grillini, sempre più simili a una setta. E in una setta agli adepti non bisogna spiegare nulla. Non c'è figuraccia che li scalfisca, i fan sul web continuano a difenderli. Questione di fede. Ecco perché potevano tenersi pure Lello Vitiello, il candidato che, estromesso perché affiliato alla massoneria, si è giustificato così: «Per me era un hobby». Perfetto stile 5 stelle.

5 stelle, rimborsi falsi: è sparito un milione, scrive Rocco Vazzana il 13 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Lo tsunami rischia di azzoppare il Movimento. Si allarga la “rimborsopoli” dei grillini sollevato dalla trasmissione le Iene. A barare sui bonifici volontari destinati al fondo delle piccole e medie imprese non sarebbero stati solo il deputato Andrea Cecconi e il senatore Carlo Martelli, ma anche altri parlamentari e consiglieri regionali. L’ammanco ammonterebbe a circa 500 mila euro, a cui però si potrebbero sommare i mancati rimborsi dei parlamentari europei: secondo alcune stime si supererebbe il milione di euro. Un vero e proprio ciclone a tre settimane dal voto. Rischia di trasformarsi in un nuovo Tsunami tour la campagna elettorale del Movimento 5 Stelle. Solo che questa volta a essere travolto potrebbe non essere solo il vecchio “sistema” politico ma lo stesso partito nato per aprire le istituzioni come una «scatoletta di tonno» in nome della trasparenza. Si allarga, infatti, il caso “rimborsopoli” dei parlamentari grillini sollevato dalla trasmissione televisiva le Iene. A barare sui bonifici volontari destinati al fondo delle piccole e medie imprese non sarebbero stati solo il deputato Andrea Cecconi e il senatore Carlo Martelli (avrebbero finto di restituire circa 98 mila euro in due) ma anche altri parlamentari e consiglieri regionali. L’ammanco ammonterebbe a circa 500 mila euro, a cui però si potrebbero sommare i mancati rimborsi dei parlamentari europei: secondo alcune stime si supererebbe il milione di euro. Un vero e proprio ciclone a tre settimane dal voto. Il partito nato online vive ore di puro panico. I vertici, che hanno chiesto al ministero dell’Economia l’accesso agli atti per verificare lo stato dei versamenti al Fondo per le Pmi, promettono trasparenza e pulizia. E se Cecconi e Martelli, con quasi entrambi i piedi fuori dal Movimento, hanno assicurato che rinunceranno al seggio in caso di elezione – procedura tutt’altro che semplice e appannaggio di un voto parlamentare – altri “portavoce” uscenti potrebbero essere costretti a seguire la loro strada. Tutti i bonifici verranno pubblicati sul blog delle Stelle nel giro di 48 ore, fanno sa- pere i pentastellati, nel frenetico tentativo di non dover abdicare all’unico punto fermo del programma: l’onestà. «Quelle persone come Cecconi e Martelli io le ho già messe fuori. Per gli altri stiamo facendo tutte le verifiche che servono. Siamo orgogliosi di quello che è il Movimento», prova a rassicurare tutti Luigi Di Maio. «La notizia, in un paese normale, è che il Movimento 5 Stelle ha restituito 23,1 milioni di euro di stipendi e questo è certificato da tutti quanti», prosegue il candidato premier, che poi sottolinea: «Ci sono 7 mila imprese in Italia che lo testimoniano, perché quei soldi hanno fatto partire 7 mila imprese e 14 mila lavoratori. Non sarà qualche mela marcia a inficiare questa iniziativa che facciamo solo noi e, come sanno gli italiani, da noi le mele marce si puniscono sempre. Questo è un paese strano in cui restituisci 23,1 milioni e la notizia è che manca lo 0,1». Ma se le mele marce, come le definisce Di Maio, fossero più del previsto, per i grillini si aprirebbe un enorme problema non solo politico ma anche elettorale: sono già quattro i collegi uninominali in cui il M5S si presenta ai cittadini con candidati ripudiati. Ai già citati Cecconi e Martelli, infatti, bisogna aggiungere i nomi di Emanuele Dessì, obbligato a firmare un modulo di rinuncia preventiva per un video in cui balla con un membro della famiglia Spada e per la controversa vicenda della casa popolare a 7 euro al mese, e Catello Vitiello, appena espropriato del simbolo per un passato nella massoneria. Di questo passo, da qui al 4 marzo il Movimento potrebbe arrivare azzoppato all’appuntamento con le urne. E in base a quanto mandato in onda dalle Iene, circolano già i nomi di altri due parlamentari furbetti che potrebbero essere smascherati in un’altra puntata: Barbara Lezzi e Maurizio Buccarella. I competitor del M5S quasi non credono all’incredibile autogol venuto alla luce nelle ultime ore. «Voglio esprimere la mia solidarietà umana a Marco Minniti», ironizza il segretario del Pd Matteo Renzi. «Ho chiesto a Marco di darci una mano, gli ho spiegato che c’è un collegio che secondo Matteo Ricci, responsabile enti locali del Pd, rischiamo perchè c’è un Movimento 5 Stelle molto forte. “Bisogna che tu vada a Pesaro”, gli ho detto», racconta l’ex premier. «E lui va a Pesaro. Dopodiché mi devo scusare con Marco, perchè a Pesaro va a beccare per l’appunto uno dei collegi dove non si sa chi è il candidato 5 Stelle, c’è Cecconi che ieri le Ienè hanno dimostrato che è un truffatore». Per Maurizio Gasparri, i «grillini beccati con le mani nella marmellata» hanno fatto una figuraccia. «Ricordiamo i loro sermoni in aula, pronti a attaccare chiunque anche per una multa in divieto di sosta, e adesso rivelatisi autentici scrocconi», attacca il senatore for- zista. «Si parla di almeno dieci parlamentari che avrebbero mentito sul taglio all’indennità di fine mandato e finto il relativo bonifico». Nessuno sconto neanche da Liberi e Uguali, fino a poco tempo fa considerato potenziale alleato del Movimento. «Quando si è duri e puri, c’è sempre qualcuno di più puro che ti epura, diceva qualcuno», commenta Piero Grasso. Lo Tsunami è partito.

"Un meccanismo che stritolerà Casaleggio". Il deputato uscente: «I rimborsi usati per far fuori i dissidenti. Ma ora sono un boomerang», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 14/02/2018, su "Il Giornale". È stato fra i primi a essere epurato, ma non si scompone: «Questo meccanismo infernale delle restituzioni prima o poi si ritorcerà contro Di Maio e il gruppo dirigente dei Cinque stelle». Ivan Catalano, 31 anni, deputato uscente, ha rotto con la casa madre nel 2014.

Sempre per via dei rimborsi?

«Certo, questa storia a base di scontrini va avanti dall'inizio della legislatura ed è un formidabile strumento di potere nelle mani della Casaleggio. Quando qualcuno rompe la linea monolitica, ecco che improvvisamente saltano fuori ricevute mancanti e rimborsi in ritardo».

Lei era andato contro l'ortodossia?

«Certo, io avevo cautamente aperto all'ipotesi di un governo con Bersani, ma Casaleggio padre non tollerava questa impostazione. Così sono stato colpito. Oggi capita lo stesso con quelli che fino a qualche tempo fa attaccavano i dissidenti».

D'accordo, ma il problema non l'ha inventato Di Maio.

«No, ma la confusione, chiamiamola così, è figlia del congegno distorto messo a punto dalla Casaleggio».

Perché parla di meccanismo distorto?

«L'idea originaria era quella di ridare indietro una parte della nostra indennità. Noi neoparlamentari avevamo il mito della politica a costo zero».

Errore?

«Una cretinata. Ma io nel 2013 avevi 26 anni e grandi aspettative purificatrici. Oggi, a 31 anni, vorrei solo tornare alla mia vita precedente, alla mia dimensione a Busto Arsizio e alla mia professione di disegnatore meccanico».

Andiamo avanti.

«All'inizio sulle note spese ci si fermava alla rendicontazione e ciascuno faceva le sue, su un normale foglio excel. Poi la Casaleggio ha creato il meccanismo centralizzato e si è passati a restituire anche una quota dei rimborsi spese».

Quanto?

«Questo è uno dei tanti punti critici. In teoria i soldi che non avevi utilizzato».

Ci può stare.

«I conti sono sempre stati difficili e soggetti a contestazioni: l'algoritmo della Casaleggio sfavorisce sempre il parlamentare e indica sempre cifre molto alte. Invece può essere che un mese si spenda tanto e meno quello successivo. E poi un conto è abitare in Sicilia, altra cosa è se sei eletto all'estero, per esempio in Svizzera».

Obiezioni sensate.

«Sì, ma respinte dalla Casaleggio. Che non ha tenuto conto delle diverse situazioni».

In concreto?

«Chiunque ha avanzato critiche è stato silurato. Il collega Alessio Tacconi ha spiegato che lui non ci stava con il tenore di vita della Svizzera, per lui i rimborsi erano fondamentali, anzi ha aggiunto che se gli avessero fatto questo discorso prima non si sarebbe nemmeno candidato».

Risultato?

«L'hanno buttato fuori. Come Massimo Artini».

La sua colpa?

«Aveva attaccato il sistema informatico del Movimento. L'hanno messo alla gogna e liquidato con le solite note spese».

E non si è difeso?

«La difesa è impossibile. Sul web parte una campagna violentissima: ti distruggono e sono cento contro uno. Anch'io sono stato falciato cosi: volevo versare i soldi alla Caritas e non sul conto da loro indicato, che finiva almeno inizialmente nel calderone del debito pubblico; ma questo era un pretesto, la verità è che non la pensavo come loro, mi hanno dato l'ultimatum, ho chiuso con i Cinque stelle».

Oggi?

«Ci sarà pure chi fa la cresta ma molti sono vittime di regolamenti di conti. Non sei in linea e ti fanno fuori, dipingendoti come un furbetto. Questa è la democrazia grillina».

Luigi Di Maio, il brutto sospetto su David Borrelli: "Perché l'uomo di Casaleggio ha lasciato il Movimento 5 Stelle", scrive il 14 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Il sospetto è che il terremoto debba ancora arrivare. Dietro il clamoroso, sorprendente addio di David Borrelli al gruppo del Movimento 5 Stelle all'Europarlamento ci sarebbero ragioni politiche gravi. Altro che "i problemi di salute" con cui l'uomo forte di David Casaleggio in Europa (nonché insieme a lui e a Max Bugani responsabile di Rousseau, il "cuore" del M5s) ha motivato la sua scelta di passare al Gruppo Misto a Strasburgo. Per la verità Borrelli non ha parlato, e la comunicazione è avvenuta attraverso una laconica nota del Movimento. Secondo il Fatto quotidiano, è per lo meno una strana coincidenza che Borrelli, a un anno dalla fine del suo mandato, abbia rotto con i 5 Stelle proprio nella settimana che ha visto emergere il caso Rimborsopoli, con una decina di onorevoli 5 Stelle che versavano al fondo per le piccole imprese molto meno di quanto promesso. Borrelli tra l'altro era stato uno dei primi a premere su questo tasto, in tempi non sospetti, quando accusò l'ex senatrice grillina Paola De Pin della stessa colpa. Tanto che la De Pin, prima di passare a Gal, l'aveva definito proprio per questo "stalker". Le strade, dunque, sono due: o Borrelli se n'è andato in segno di clamorosa protesta, oppure, peggio, sa che lo scandalo sta per investire in maniera anche più grave lo stesso gruppo europarlamentare del Movimento. "I vertici del Movimento stanno esplorando tutte le strade possibili", suggerisce il Fatto, dalla "scorrettezza nelle richieste di rimborso" a un "abuso dei fondi per le attività del gruppo". Borrelli, questo è il dubbio, "sa che qualcosa di pesante si sta abbattendo su di lui e se ne va prima che crolli tutto". Per il candidato premier Luigi Di Maio non un bell'antipasto di volata elettorale.

Marco Travaglio, il ferocissimo attacco al Cav nel giorno dello scandalo grillino, scrive il 13 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Sui giornali di oggi, tutti i giornali, il titolo a tutta pagina riguardava lo scandalo dei finti rimborsi dei 5 Stelle. Uno scandalo che sulla sua prima pagina Marco Travaglio ha liquidato con un titoletto in alto a sinistra che recita "Si son tenuti la diaria: Di Maio contro altri 5S", assolvendo così automaticamente dalla vicenda il candidato premier del Movimento 5 Stelle. Poi, nell'editoriale, ha vergato uno degli attacchi più feroci mai rivolti a Silvio Berlusconi da quando ha iniziato a fare il giornalista, dipingendolo ancora una volta come il male assoluto, la causa unica di tutte le rovine dell'Italia, il vero pericolo in agguato alle prossime elezioni. Che descrive in questi toni: "Un vecchio malvissuto, pregiudicato e pluriprescritto, definito da una sentenza definitiva "delinquente naturale", che dal 1994 ha devastato l'Italia governandola per 9 anni da solo e per altri 3 in condominio col centrosinistra, con l'unico obiettivo - peraltro centrato - di non finire in galera, salvare le sue aziende dalla bancarotta e guadagnare sempre più soldi a spese nostre". Se non è un'arma di "distrazione di massa" questa...

Il "no" di Benedetto Croce al moralismo in politica. L'edizione nazionale dell'opera del pensatore ci restituisce i testi completi sul rapporto tra l'etica e la cosa pubblica, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/05/2016, su "Il Giornale". È curioso, ma gli italiani quando si tratta di curare malanni e malattie non chiedono un onest'uomo, sì piuttosto un buon medico, onesto o disonesto che sia, purché sappia il fatto suo e non li mandi anzitempo all'altro mondo mentre quando ci sono in ballo le cose della politica gli italiani richiedono non uomini pratici e d'azione ma onest'uomini o, almeno, così dicono. Cos'è, dunque, l'onestà politica? Se lo chiedeva in modo diretto Benedetto Croce e rispondeva in modo altrettanto diretto: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Lo scritto intitolato proprio così - L'onestà politica - è il frammento XXXVII dei Frammenti di etica che uscì in volume nel 1922 e che nel 1931 andò a comporre, insieme con altri scritti, l'importante volume Etica e Politica. Ora la casa editrice Bibliopolis, che cura l'Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, sta per mandare in libreria a cura di A. Musci proprio Etica e Politica nella edizione completa del 1931 riproducendo il testo nell'edizione ne varietur del 1945. In questo modo il lettore che segue le uscite delle opere crociane avrà modo di avere in un unico testo i quattro libri che compongono il volume: appunto, i Frammenti di etica del 1922, gli Elementi di politica del 1925, gli Aspetti morali della vita politica del 1928 e il Contributo alla critica di me stesso che uscì per la prima volta nel 1918 in cento copie stampate da Riccardo Ricciardi, l'amico editore di Croce che il filosofo chiamava con affetto Belacqua. Gli scritti raccoglievano nella maggior parte dei casi testi già pubblicati sin dal 1915 su riviste e periodici: anzitutto La Critica, e poi La Diana di Fiorina Centi, il Giornale Critico della Filosofia Italiana di Gentile, Politica di Alfredo Rocco e Francesco Coppola, gli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, i Quaderni critici di Domenico Petrini e La Parola di Zino Zini. In qualche caso anticipazioni e estratti erano già comparsi su quotidiani d'ispirazione liberale e conservatrice come Il Resto del Carlino di Tomaso Monicelli o Il Giornale d'Italia di Alberto Bergamini e Vittorio Vettori. L'origine pubblicistica dei testi ci fa aprire gli occhi sulla qualità del giornalismo italiano del secolo scorso. Ma oggi questi scritti cos'hanno da dire al lettore, son vivi o son morti? Faccia così il signor lettore, non si fidi di niente e di nessuno, neanche di questa noterella, prenda in mano il testo e si faccia un'idea sua. Qui, se è possibile, do solo un consiglio, di guardar le date e notare che gli scritti di politica - gli elementi - uscirono nel 1925 quando Croce, ormai, era passato all'opposizione di Mussolini e del fascismo, quando era finita male l'amicizia con Giovanni Gentile e in quegli scritti il filosofo della libertà marcava tutta la sua differenza rispetto alle commistioni di pensiero e azione fatte da Gentile e da Mussolini e rifiutava apertamente ogni morale governativa respingendo la sbagliata e pericolosa idea hegeliana dello Stato etico: «Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governa mentale -diceva- bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». Il pregio della posizione liberale di Croce è proprio qua: nella distinzione tra filosofia e politica, pensiero e azione; una distinzione che non solo si basava sulla qualità del giudizio storico che ha la sua virtù proprio nella distinzione ma anche sulla grande e imperitura lezione di Machiavelli che rendendo autonoma la politica rese possibile il governo liberale e il controllo dei governanti. Il liberalismo di Croce ha in sé il realismo politico e questo gli consente di non degenerare né nell'utopia né nel giusnaturalismo e di essere oggi come allora un pensatore antitotalitario che si oppose non solo al fascismo ma anche al comunismo. Tuttavia, qui giunto, vorrei dare al lettore, se mi è concesso e se non lo infastidisco, un altro consiglio non richiesto: inizi la lettura dal Contributo alla critica di me stesso, un gioiello di pensiero, umanità e letteratura. Forse, è il modo migliore non solo di avvicinarsi a quest'opera ma anche di avvicinarsi a Croce e di entrare nel suo mondo che è tutto ispirato dalla libertà umana e improntato alla sua promozione e custodia. La lezione viva che si può ricavare da Etica e Politica è quella di non cadere nelle illusioni e nei miti della politica e della vita pratica e di conservare quella necessità che insita nella vita umana: pensare la propria esistenza per non farsi eccessivamente governare dagli altri.

La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”!  E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.

Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.

Una banda di ballisti. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 07/09/2016 su “Il Giornale”. Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, cadde su una bugia. Un suo successore, Bill Clinton, rischiò la stessa fine e si salvò in extremis solo perché si pentì e chiese scusa in tempo. Margaret Thatcher sull'argomento aveva un'idea più femminile: «Non si raccontano - ebbe a dire - bugie deliberatamente, diciamo che a volte bisogna essere evasivi». Virginia Raggi, neosindaco di Roma, Luigi Di Maio e tutta la banda dei Cinquestelle, travolti dallo scandalo della bugia sul fatto che nessuno sapeva che una loro assessora era indagata, sono quindi in buona compagnia. Del resto perché sorprendersi di un politico bugiardo? Machiavelli, già cinquecento anni fa, inseriva la menzogna tra le arti di cui un principe deve essere dotato se vuole ben governare. Il problema nasce quando sul malcapitato si accende il faro del sospetto, perché secondo gli esperti, per provare a coprire una bugia - esattamente come accade tra marito e moglie fedifraghi - è necessario raccontarne almeno altre sette. Che è esattamente quello che sta succedendo in queste ore nei piani alti del partito di Grillo, tra accuse e difese, sospetti e veleni incrociati. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo. E adesso si fa dura, perché, come dice un antico proverbio russo, con le bugie si può andare avanti ma mai tornare indietro. E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni. Il Cinquestelle non è il partito Bengodi, non lo è mai stato e mai lo sarà, è semplicemente una casta che sta tentando di scalzarne un'altra. Con l'aggravante dell'inesperienza e dell'incapacità che si sono dimostrate maggiori del previsto, non solo a Roma ma in tutte le città in cui sono stati messi alla prova. C'è da gioire di tutto questo? No, per niente. Milioni di italiani sono stati ingannati dal moralismo di un comico e da un gruppo di ragazzini; Virginia Raggi, se come probabile resterà in sella grazie a qualche espediente mediatico, sarà un sindaco dimezzato, bugiardo e inaffidabile. E parliamo del sindaco di Roma capitale, non so se mi spiego.

Sul web scatta la gara di sfottò: "È tutta colpa delle cavallette". Raffica di parodie su Di Maio, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/09/2016, su "Il Giornale". Dopo le case pagate ad insaputa e lauree conseguite senza saperlo, la mail letta ma non capita da Di Maio entra di diritto nella classifica delle scuse più incredibili della politica nazionale, anche perché nel breve curriculum di Di Maio figura un periodo da webmaster, difficile da svolgere se si ha difficoltà con le mail. L'ironia del web, quindi, si abbatte senza pietà sul pupillo avellinese della Casaleggio Associati, che già aveva pronti nel guardaroba i completi da presidente del Consiglio. Anche se molte tweetstar che in altri casi avrebbero fatto a pezzi il protagonista della gaffe politica, con Di Maio si astengono dall'infierire, meglio non mettersi contro i follower grillini che fanno numero. Ma se una parte dei commenti in Rete è rappresentato dai fan che seguono fedelmente la linea indicata dal direttorio (cioè: è tutta una montatura dei partiti e dei media per screditare il M5S, gli scandali sono altri), la stragrande maggioranza sono sfottó e parodie per la goffa giustificazione addotta dal vicepresidente della Camera. Che rievoca a molti lettori, ricordi e memorie dai banchi di scuola: «Ma oggi c'era interrogazione? Pensavo si facesse ripasso», «Il cane mi ha mangiato i compiti!», «La difesa del ripetente: non avevo capito, non c'ero, e se c'ero dormivo» suggeriscono tre lettori di Repubblica.it, mentre un altro propone un'interpretazione linguistica: «Lui è napoletano e la Taverna parla in romanesco stretto, dovete pur capire il poverino!». Molti twittaroli suggeriscono una integrazione alla scusa di Di Maio pubblicando il celebre monologo di John Belushi in Blues Brothers, quando deve giustificarsi di fronte all'ex ragazza che lo punta con un fucile d'assalto M16 per averla abbandonata davanti all'altare («Ero rimasto senza benzina. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»), mentre sui social network viene rimbalza una parodia evangelica: «Tutti contro Di Maio per una mail e nessuno parla dei Corinzi che non hanno mai risposto alle lettere di San Paolo. Questa è l'Italia dei poteri forti». Su Twitter esiste un account @Iddio, con 454mila follower, e anche da lì arriva l'ironia sul vicepresidente della Camera: «Nel progetto originale era previsto di fare le donne senza peli e senza cellulite, ma ho letto male l'email». Filippo Casini ha capito l'origine del complotto denunciato dai Cinque stelle: «Di Maio: Abbiamo tutti i media contro. Soprattutto Hotmail e Outlook», i provider di posta elettronica. «Ho sbagliato a leggere la mail» is the new «Mi hanno rubato l'account», twitta la Lucarelli del Fatto. Sfotte anche Pig Floyd su Twitter: «Mi è arrivata la bolletta della luce da 230. Credo che pagherò 2.30 dicendo Scusate, ho letto male». Ma poi il popolo M5S si dà la carica con Grillo a Nettuno. E anche questo ispira la presa per i fondelli sui malintesi di Di Maio: «Nettuno? Cavolo. Ma un pianeta più vicino non c'era?».

La follia di fare dell'onestà un manifesto politico. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Onestà, onestà», hanno intonato dirigenti e simpatizzanti grillini sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie all'uscita della bara di Gianroberto Casaleggio. Come ultimo saluto, una preghiera laica in linea con il dogma pentastellato che al di fuori del loro club tutto è marcio e indegno. Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione. Cari Di Maio e compagnia, smettetela con questa scemenza del partito degli onesti che fa la morale a tutti, cosa che fra l'altro porta pure male. L'onestà non è un programma politico, è una precondizione personale per affrontare la vita in un certo modo. Io voglio comportarmi onestamente, e mi piacerebbe facessero altrettanto il mio fruttivendolo, chi mi vende l'automobile, chi si occupa della mia salute, il politico che voto. Ma da loro pretendo solo una cosa: che la frutta sia buona e sana, che l'auto funzioni come mi aspettavo, che se necessario il mio medico mi salvi la vita, che la politica sia efficiente nel risolvere i miei problemi. L'onestà che viene a mancare è un problema della loro coscienza, e giudiziario se comporta la violazione delle leggi e se danneggia la comunità. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro. Anzi, a volte, vedi casi Livorno e Quarto, fanno disastri ben peggiori. Cosi come in Parlamento la strategia grillina ha prodotto tanto fumo e zero arrosto. Sarò all'antica, ma in chiesa, ai cori sull'esclusiva dell'onestà («chi è senza peccato scagli la prima pietra», diceva il Padrone di casa) preferisco ancora una preghiera. 

"Noi siamo garantisti e lo siamo anche con il sindaco di Livorno raggiunto da avviso di garanzia non come gli esponenti del Movimento che sono garantisti con i loro e giustizialisti con gli altri": lo ha detto il ministro Boschi parlando nel bresciano a Desenzano del Garda il 7 maggio 2016. Boschi ha quindi aggiunto "Di Maio era a Lodi questa mattina, mi auguro che domani vada a Livorno a chiedere le dimissioni del suo sindaco". "Il 21% dei comuni amministrati dal Movimento 5 stelle - ha concluso - ha problemi con la giustizia, ma il loro grido onestà, onestà diventa omertà, omertà quando riguarda loro".

Caso Pizzarotti: il doppiopesismo che spaventa. L'ipocrisia dentro e fuori il M5S li mostra giustizialisti in pubblico, esoterici nelle “stanze delle tastiere”. Un pericolo per la democrazia, scrive Marco Ventura il 15 maggio 2016 su "Panorama".  Lo aveva detto con chiarezza Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, prima della sospensione dal Movimento 5 Stelle tramite la mail anonima dello “staff” (che rimanda al direttorio M5S e, in definitiva, al clan Casaleggio): “Non è che tutti gli altri sono cattivi e noi tutti buoni. Per sistemare i problemi a volte è necessario sporcarsi le mani”. Ammissione importante. Quindi, non erano tutti cattivi i craxiani o i berlusconiani, così come non sono tutti buoni i magistrati o i 5 Stelle. Se c’è di mezzo l’amministrazione di una città, ci si può dover sporcare le mani. Ne consegue che se questo vale per Livorno, a maggior ragione deve valere per Roma o Milano. Ci si può sporcare le mani “a fin di bene”, forse. Per dare un’aggiustatina. Eppure, per degli integralisti come i 5 Stelle dovrebbe valere il principio che il fine non giustifica mai i mezzi, insomma le mani bisognerebbe non sporcarsele in nessun caso. Tanto meno bisognerebbe accusare gli altri di sporcarsele, per poi autoassolversi se si viene beccati con le mani dentro lo stesso barattolo di marmellata con l’etichetta “concorrenza in bancarotta fraudolenta” o “abuso d’ufficio”. Sembra invece che i grillini siano una razza a parte anche sotto questo aspetto. Se sono loro a finire nel mirino delle Procure (è successo nella maggioranza delle amministrazioni locali che controllano), si tratta di giustizia a orologeria, manganellate giustizialiste, “reati minori”. Vito Crimi, ex presidente dei senatori pentastellati, sembra considerare una medaglia al petto l’avviso di garanzia al compagno di partito nonché Sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, per 33 assunzioni in un’azienda sull’orlo del baratro. Si può mai esser colpevoli, chiede Crimi, di “aver evitato a 33 famiglie di finire in mezzo a una strada?”. Eppure, in altri tempi e riferita ad avversari, l’assunzione di 33 persone in un’azienda municipalizzata che sta per fallire sarebbe stata definita proprio dai 5 Stelle “clientelismo”. I due pesi e due misure riguardano non soltanto i nemici, ma i compagni di cordata. Pizzarotti è sempre stato un mezzo dissidente rispetto ai vertici del partito, Nogarin no. Quindi Pizzarotti viene sospeso e Nogarin salvato (e difeso). Ma il problema non riguarda solo i pentastellati. Riguarda tutti noi. I 5 Stelle un giorno potrebbero avere i numeri per governare. Si tratta di un movimento rivoluzionario, guidato senza trasparenza, molto simile a una setta (spesso i rivoluzionari sono strutturalmente settari). Ma quando la setta incrocia il potere, diventa un pericolo per la democrazia. La verità è che i rivoluzionari, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi momento storico, hanno dimostrato di essere poi bravissimi a adattarsi alle poltrone e nicchie di potere, e di essere mediamente peggiori dei predecessori che si sono trovati a gestire un consenso che calava.  I due pesi e due misure di direttorio e clan Casaleggio contraddicono in modo eclatante la supposta trasparenza delle origini (che in realtà non c’è mai stata). I terribili scontri intestini appartengono alla peggiore tradizione del variegato socialismo e comunismo sovietico. Specchio capovolto del populismo sbandierato dai parlamentari 5 Stelle. Populisti e giustizialisti in pubblico, esoterici e incontrollabili nel chiuso di “stanze delle tastiere” che hanno sostituito le “stanze dei bottoni”.  

Come il giustizialista imputato diventa garantista. L'ex comunista Cioni a Firenze. I grillini Nogarin a Livorno e Pizzarotti a Parma. Prima giacobini, poi indagati: e oggi chiedono il rispetto delle regole dello Stato di diritto, scrive il 13 maggio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". "A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono". È bellissima e illuminante l'intervista di Graziano Cioni al Foglio di oggi. Cioni, 70 anni, è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Pd toscano, assessore alla Sicurezza e alla vivibilità di Firenze: nel novembre 2008, da candidato a sindaco della città, venne travolto politicamente e umanamente da un'inchiesta e poi da un processo per corruzione per un progetto urbanistico sull'area fiorentina di Castello. Quell'inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d'inferno. Oggi dice ad Annalisa Chirico, che lo intervista: "Io ero un giustizialista convinto. Che puttanata. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie? la presunzione d'innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione". Cioni ricorda il famoso discorso di Bettino Craxi: quello del luglio 1992, in piena Tangentopoli, quando in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti i segretari di partito, dichiarando "spergiuro" chi avesse negato un finanziamento illecito. "Io ero un anticraxiano di ferro" dice oggi Cioni. "Votai per l'autorizzazione a procedere. Oggi non lo rifarei. Pensavo che Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi". Oggi che cosa dice Cioni della giustizia? "Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L'assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?". È un uomo folgorato sulla via di un processo. Induce sincera compassione umana, Graziano Cioni. La vita con lui è stata durissima e crudele, non soltanto dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e paradossale, e intimamente giusto, scuote l'animo. Anche perché ormai incarna in sé gli echi di una sconcertante regolarità. Perché, esattamente come lui, proprio in questo periodo approdano alla sponda garantista tanti ex giustizialisti. Sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto saltano loro i nervi, diventano fragili, soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario. Filippo Nogarin, sindaco grillino di Livorno, e Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 stelle cui appartengono. Non si dimettono, dopo che il mantra grillino per anni è stato: "Fuori dallo Stato ogni indagato". Attenzione: qui nessuno s'indigna. Ed è in buona misura scorretto fare quel che fanno certi esponenti del Pd, che gridano strumentalmente allo scandalo per il cambio di fronte degli avversari grillini. Non pare corretta nemmeno la rivalsa di chi, nel centrodestra, osserva tacendo: come se fosse una consolazione, perché "ora tocca a loro". No, qui non si tratta nemmeno di contestare una doppia morale, o il doppiopesismo. Chi crede di avere davvero nel sangue il rispetto delle regole dello Stato di diritto, in realtà, si stupisce soltanto che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l'errore è umano, e che anche l'errore giudiziario lo è. E pertanto che non c'è alcuna certezza, né una Verità assoluta e insindacabile. Né in una chiesa, né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale. Il problema è che non si può attendere di subire un'esperienza giudiziaria per comprendere che la presunzione d'innocenza va davvero utilizzata come una regola superiore, stellare. Che l'arresto in carcere deve essere l'ultima istanza, davvero. Che i giornali non possono devastare l'immagine di una persona. Possono porre problemi, ma non dare certezze. Quelle le ha soltanto Dio, se esiste. Il problema è che il circuito mediatico-giudiziario, un unicum vergognoso, da Paese sottosviluppato, è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato. Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico (con la sua intervista anche Cioni lo conferma, esplicitamente). Ma di calcoli politici si può anche soccombere.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

Sorpresa, Marco Travaglio ha chiesto la prescrizione! Scrive Piero Sansonetti il 24 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Lo strano ricorso del direttore del Fatto Quotidiano che tante volte, insieme a Davigo, ci ha spiegato i “trucchetti” per allungare i processi e “farla franca”…Ieri, nel suo editoriale sul “Fatto”, Marco Travaglio ha ripetuto che c’è una lobby di avvocati che si batte contro la riforma della prescrizione, perché gli avvocati, di solito, usano la prescrizione come tecnica difensiva. Travaglio scrive con molto disprezzo la parola lobby: la considera un sinonimo di gang, o banda, o cricca. Gli avvocati – dice – cercano di fare assolvere i propri clienti colpevoli, specie quelli legati a Berlusconi o a Renzi (che di conseguenza sono colpevoli quasi automaticamente…), non smontando le accuse, perché non potrebbero, ma tirandola per le lunghe e puntando a fare scattare la prescrizione. Dunque pensavo io – Travaglio considera una cosa pessima ricorrere alla prescrizione. E più pessima che pessima, considera l’abitudine di tirare per le lunghe i processi. Lui e Davigo ci hanno spiegato tante volte che ci sono degli avvocati che ricorrono in Appello e in Cassazione, sapendo benissimo che non potranno ottenere la cancellazione della condanna, ma con la speranza di ottenere in questo modo – date le “lungaggini” della giustizia – la prescrizione e dunque la non condanna. Beh, mi sbagliavo. Ieri mi è capitata per le mani una vecchia sentenza della Corte di Cassazione che fa un lisciabbusso a Travaglio e ai suoi avvocati per aver presentato un ricorso manifestamente infondato contro una sentenza d’appello per diffamazione. Perché Travaglio allora presentò quel ricorso? L’obiettivo era evidente: quello di ottenere la prescrizione. La sentenza della Cassazione alla quale mi riferisco – che potete trovare online sul sito della Cassazione – è stata emessa dalla quinta sezione penale ed è la numero 14701 del 2014. Presidente Gennaro Marasca, relatore Paolo Micheli. La sentenza si legge nelle primissime righe riguarda il ricorso “proposto nell’interesse di Travaglio Marco, nato a Torino il 13 ottobre del 1964 e di Daniela Hamaui eccetera eccetera…”. La Hamaui era stata condannata per omesso controllo sull’articolo di Travaglio, visto che all’epoca era direttrice dell’Espresso, giornale sul quale scriveva Travaglio ( i direttori, per legge, rispondono di qualunque cosa venga scritta sul giornale del quale sono responsabili).Poche righe dopo questa intestazione, si legge questa frase: “Uditi per gli imputati ricorrenti gli avvocati Enrico Grosso e Mario Geraci, i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata ( in subordine senza rinvio, per intervenuta prescrizione)”. Naturalmente quando ho letto quelle due paroline (“intervenuta prescrizione”) ho fatto un salto sulla sedia. Marco Travaglio chiede di essere assolto per intervenuta prescrizione? Lui che considera la prescrizione il male di mali e la bandiera sporca dei garantisti? Che devo dirvi? E’ così. Travaglio ha chiesto la prescrizione. Ci sono ancora un paio di aspetti di questa sentenza che sono interessanti. Il primo riguarda il merito della condanna. Il secondo il merito della sentenza. Il merito della condanna è presto detto. Pare che Travaglio avesse scritto un articolo corredato dal solito titolo sobrio e ammiccante, che diceva così: “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. Nell’articolo, Travaglio, se ho capito bene, raccontava di un incontro avvenuto nello studio dell’avvocato Taormina nel marzo del 2001 fra lo stesso Taormina, il suo assistito Marcello Dell’Utri e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio; l’incontro – si diceva nell’articolo – sarebbe avvenuto per concordare una testimonianza, e sempre nell’articolo si diceva che nello studio di Taormina, secondo la testimonianza del colonnello, c’era anche Cesare Previti. Però Travaglio – sostengono le varie corti che lo hanno condannato – non diceva che il colonnello aveva dichiarato che sì Previti era in quello studio, ma non si incontrò con Riccio e Dell’Utri e la sua presenza non aveva niente a che fare con quell’incontro, nel quale invece si parlava della accuse a Dell’Utri di concorso esterno in associazione mafiosa. Dunque il nome di Previti era stato messo lì a sproposito – hanno stabilito le Corti, e omettendo un particolare decisivo delle dichiarazioni del colonnello Riccio. Il merito della sentenza della Cassazione è ancora più interessante. La Cassazione considera il ricorso del tutto infondato. E dunque – questo lo aggiungiamo noi – pretestuoso. E per questa ragione rifiuta la prescrizione. Perché – dice la Cassazione – siccome il ricorso è inammissibile è come se non ci fosse stato. E dunque la sentenza di appello vale come sentenza ultima, e la sentenza d’appello fu emessa prima che scattasse la prescrizione. Dunque Travaglio non ne ha diritto. Sembra proprio che la Corte di Cassazione avesse letto, quando decise così, gli articoli che Travaglio avrebbe successivamente scritto. E cioè le sue severe requisitorie contro gli avvocati che ricorrono in Appello o in Cassazione solo per allungare i tempi. La Cassazione dice che in questa occasione fu Travaglio a ricorrere solo per allungare i tempi. Cosa c’è da aggiungere? Niente di speciale. Solo constatare il perfetto funzionamento della solita legge del pendolo. Secondo la quale uno è garantista quando l’accusato è lui o qualche suo amico, e non è garantista se l’accusato è un suo nemico. Travaglio se la prende con le lobby degli avvocati. Fa male. Le lobby degli avvocati, se vogliamo usare questo termine (lobby), hanno come interesse comune la difesa dello Stato di Diritto (le lobby sono organizzazioni che tendono a difendere un interesse comune: i petrolieri il prezzo del petrolio, i commercianti il non aumento dell’Iva, i tabaccai la riduzione delle tasse sulle sigarette, gli ecologisti la riduzione delle automobili che inquinano eccetera eccetera). La difesa dello Stato di Diritto è una battaglia che riguarda lo svolgimento del mestiere di avvocati, gli interessi dei propri clienti, ma anche la saldezza del sistema democratico. Poi esistono altre lobby con interessi opposti. Per esempio la lobby che si raggruppa attorno al “Fatto”, ma anche al movimento di riferimento (cioè i 5 Stelle) e ad alcuni settori della magistratura, la quale si oppone al pieno sviluppo dello Stato di Diritto e ne chiede limitazioni che ritiene necessarie per aumentare le condanne nei processi, visto che questa lobby considera il numero alto delle condanne una garanzia di “pulizia” della società. Io personalmente non riesco a mettere sullo stesso piano le due lobby. Penso che non sia la stessa cosa difendere lo Stato di Diritto o osteggiarlo. Riconosco però la piena legittimità di tutte le battaglie ideali e il diritto di tutti ad avere e difendere le proprie idee. Anche le più reazionarie. Anche il diritto di Davigo. Anche quello di Travaglio, che è l’esponente più in vista ed è il più abile di quella lobby. Mi lascia solo un po’ perplesso questo contrasto tra condanna della prescrizione e suo uso. Sarebbe un po’ come se scoprissimo che Salvini ha un gommone col quale, di nascosto, porta in Italia stranieri clandestini…

Giustizia, 13 anni per arrivare in appello. Ex procuratore capo, cancelliere e altri 9 imputati prescritti. Gli imputati erano accusati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo, Alfredo Ormani, scrive Vincenzo Iurillo il 6 maggio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Ci volevano 13 anni per far estinguere i reati di cui erano accusati i principali imputati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, secondo l’accusa, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo. Ci volevano 13 anni eppure è successo: il colpo di spugna della prescrizione ha cancellato in appello le condanne a sei e cinque anni in primo grado dell’ex capo della Procura di Torre Annunziata Alfredo Ormanni e dell’ex supercancelliere Domenico Vernola. Entrambi erano alla sbarra a Roma – competente quando è implicato un magistrato del napoletano – in un processo con 21 imputati per reati che spaziavano dall’associazione a delinquere al peculato, falso e riciclaggio. La Corte d’Appello ha sentenziato 11 prescrizioni, 8 condanne per riciclaggio e 2 assoluzioni nel merito. Colpa dei tempi biblici di un processo di primo grado durante il quale il collegio giudicante è cambiato dieci volte. Spiega un avvocato: “Anche le accuse di riciclaggio aggravato dovrebbero prescriversi tra un mese, non faranno nemmeno in tempo a depositare le motivazioni: i giudici si sono presi 90 giorni di tempo per redigerle”. Basterà presentare un ricorso in Cassazione, e la prescrizione scatterà anche per molti dei condannati in appello. E così tanti saluti alle responsabilità penali di uno dei più colossali scandali della provincia napoletana del decennio scorso. Esplose violentissimo nel 2004, al termine di una ispezione ministeriale, che contestò a Vernola un giro fraudolento di rimborsi per spese di giustizia. Il cancelliere fu sospeso e allontanato, si aprì una indagine che coinvolse il procuratore Ormanni, firmatario di centinaia di mandati di pagamenti ritenuti fasulli, e i parenti di Vernola, sospettati di essersi fatti girare i soldi raccolti dal cancelliere tramite finti ‘mandati a se stesso’ per trasformarli in auto, case e beni di lusso. Nel mirino le spese di giustizia di alcune importanti indagini di Torre Annunziata: così finiscono sotto inchiesta a Roma anche alcuni esponenti delle forze di polizia giudiziaria che materialmente le condussero, presentando note spese ritenute anch’esse finte o gonfiate. Il Gup decreta il rinvio a giudizio il 25 maggio 2006. Ma il processo parte al rallentatore perché il collegio giudicante cambia in continuazione. Ed ogni volta si riparte da capo. Udienze celebrate solo per fissare rinvii. Senza istruttorie. Senza testimonianze. Un processo fermo. Partito in pratica solo nel 2012, quando finalmente il collegio si stabilizza. Quindi due anni di udienze per la sentenza di primo grado. E due per la fissazione dell’appello. Tempi normali, sui quali però ha pesato il lungo stop iniziale. Allora si stagliano come due eroi gli unici imputati che hanno rinunciato alla prescrizione per ottenere un’assoluzione piena. Si chiamano Emilia Salomone e Sergio Profeta, rispettivamente cancelliere a Torre Annunziata ed ispettore di polizia del commissariato di Sorrento. Assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Giuseppe Ferraro, il cancelliere e il poliziotto erano stati condannati in primo grado e licenziati in tronco. Ora avranno diritto al reintegro e alle spettanze perse. Gli anni smarriti nel lungo tunnel della giustizia, quelli no: sono persi per sempre.

Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:

1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!

2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge.  Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.

3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.

Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!

Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)

Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.

Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!

Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.

“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.

Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma.  Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia.  18 ottobre 2015

LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.

Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…

"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.

Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?

«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».

E questo nome, Il dubbio?

«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».

Sarà un nuovo Garantista?

«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».

Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.

«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».

Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?

«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».

Serve la famosa riforma.

«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».

In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.

«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».

Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio": "Non è un giornale contro i magistrati ma contro il giustizialismo e per i diritti", scrive Laura Eduati su L'Huffington Post il 07/04/2016. Un giornale garantista e battagliero in difesa dei diritti, senza padroni politici. Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio", il quotidiano che ha come editrice unica la Fondazione dell'Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che sarà in edicola e online dal 12 aprile. "Saremo la testata di riferimento per coloro che vorranno comprendere le ragioni della difesa e non soltanto quelle dell'accusa, ma non per questo saremo ossessionati dalla perfidia dei magistrati. Tanto è vero che ho invitato all'inaugurazione anche il procuratore Pignatone", spiega un po' scherzosamente l'ex cronista politico dell'Unità, già direttore di Liberazione, di Calabria Ora e del Garantista con la parentesi del settimanale Gli Altri. La squadra dei giornalisti è pronta. Le firme del politico e della cronaca giudiziaria comprendono l'ex notista storico del Messaggero Carlo Fusi, Davide Varì (ex vicedirettore di Calabria Ora) ed Enrico Novi (Indipendente, Liberal). Per il momento non esiste un vicedirettore, il ruolo di caporedattore centrale è affidato ad Angela Azzaro che dai tempi di Liberazione fa parte dei cronisti di fiducia di Sansonetti. Sono già 45mila gli abbonamenti attivati dagli avvocati in tutta Italia. Dodici le città dove sarà possibile trovare la versione cartacea: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Venezia, Bologna, Bari, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona. Un progetto ambizioso: 16 pagine a colori e un contenuto generalista che troverà nella politica e nella giustizia l'osso da mordere. L'obiettivo, spiega Sansonetti, non è tanto criticare l'operato della magistratura quanto "mettere in discussione la mentalità di un'Italia giustizialista che ritiene l'indagato immediatamente colpevole, trova giusta la pubblicazione delle intercettazioni private di Federica Guidi e scende in piazza per manifestare contro i giudici che hanno assolto i geologi processati per il terremoto dell'Aquila". "Perché agli italiani piacciono i processi di piazza", argomenta, "ma dimenticano che dei 4500 politici indagati per Tangentopoli ne sono stati condannati 800: moltissimi, anzi, troppi. Dobbiamo ricordare però che gli altri 3700 sono innocenti". C'è un altro esempio che Sansonetti ama citare per spiegare il clima contro il quale vorrebbe scrivere e fare cultura: il processo Cucchi. Gli agenti della polizia penitenziaria assolti in Cassazione eppure per anni additati come colpevoli: "Ora sono sotto inchiesta dei carabinieri per pestaggio. E' evidente che qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti". "La colpa di questa mentalità è più dei giornali che dei pubblici ministeri", osserva Sansonetti. "Il numero delle assoluzioni in realtà è altissimo e sono sicuro che molti magistrati la pensano come noi". A proposito della percezione che in realtà la macchina della giustizia sia lenta e non vi sia la certezza della pena, il direttore del "Dubbio" si trova quasi d'accordo ma con una precisazione statistica che rovescia in parte la credenza popolare: "Spesso si dice che per colpa della prescrizione i colpevoli non sono condannati. La verità è che il 70% delle prescrizioni avviene durante le indagini preliminari perciò non possiamo addossare la colpa della mancanza di giustizia agli avvocati, come se facessero di tutto per allungare i tempi". Da anni la battaglia di Sansonetti si concentra sulle storture dei processi. Non a caso il suo nuovo quotidiano prende il nome dall'articolo del codice penale secondo il quale il giudice deve condannare se ritiene l'imputato colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". Purtroppo, osserva, le condanne arrivano anche quando questo dubbio esiste ed è fondato: "Prendiamo Alberto Stasi. Il fatto che fosse stato assolto due volte doveva scalfire la certezza della sua colpevolezza. E invece si trova in prigione dopo l'ultimo passo alla Cassazione". Perché il pallino è la riforma della giustizia: "Sarei per eliminare l'appello se in primo grado ti assolvono. E naturalmente per la riforma delle carriere e in generale uno sveltimento dei procedimenti giudiziari per evitare di celebrare un processo anche otto anni dopo il fatto". Ma il governo è "timoroso": "Purtroppo nessuno è riuscito a far passare questa riforma e penso che nemmeno Andrea Orlando ce la farà, il potere della magistratura è ancora troppo forte. Matteo Renzi è un garantista timoroso. Ricordiamoci che è probabilmente il primo premier a non godere dell'immunità parlamentare, ciò significa che potrebbero arrestarlo senza passare dal Parlamento". Dopo la politica e la giustizia, "Il Dubbio" avrà una seconda missione: i diritti. "La nostra idea è che i diritti sociali e civili non possono essere influenzati dal mercato". A chi pensa che Sansonetti stia tornando al suo alveo politico originario (il Pci), arriva immediata la precisazione: "Il Dubbio non sarà un quotidiano anti-mercato, così come nemmeno io lo sono. Ma il mercato non può governare la società, a meno che non si vogliano schiacciare i diritti fondamentali e quelli acquisiti negli ultimi decenni in Occidente".

Poi ci sono i media giustizialisti che i garantisti non li possono sopportare ed ogni occasione è buona per infangare la loro reputazione.

Il Garantista, giornale di Sansonetti già in crisi. “Da cinque mesi non paga stipendi”. In un comunicato l'assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno annunciato lo sciopero delle firme, scattato il primo aprile contro la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti”, rappresentata dall'imprenditore Andrea Cuzzocrea, che edita il quotidiano nato appena nove mesi fa, scrive Lucio Musolino il 6 aprile 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Neanche un anno ed è già crisi per il quotidiano calabrese Cronache del Garantista. Da alcuni giorni è sciopero delle firme per i giornalisti assunti che lamentano 5 mesi di stipendio arretrato. Mentre i collaboratori esterni non vengono pagati da novembre, quando hanno ricevuto l’unico compenso dal giorno in cui il Garantista è in edicola. La protesta è scattata il primo aprile quando l’assemblea dei giornalisti e il comitato di redazione hanno fatto pubblicare un comunicato sindacale contro chi amministra la “Società Cooperativa Giornalisti Indipendenti” che edita il giornale diretto da Piero Sansonetti, ex direttore di Calabria Ora, il quotidiano fallito dopo la “storia dei cinghiali” e le pressioni subite da direttore Luciano Regolo, ma soprattutto dopo una bancarotta fraudolenta per la quale l’editore Piero Citrigno sarà presto processato davanti al tribunale di Cosenza. Giornali che falliscono, editori che non pagano e giornalisti costretti a prostituire la loro firma per miseri stipendi che poi non riescono a recuperare neanche se si rivolgono ai giudici del lavoro. È la storia della stampa calabrese che, da quasi 10 anni a questa parte, fa i conti con giornali in crisi che ricorrono ad ammortizzatori sociali, che licenziano senza preavviso o che costringono i loro giornalisti a firmare contratti capestri puntualmente denunciati dal sindacato Fnsi. Ritornando al Garantista, che ha debuttato lo scorso 18 giugno, i giornalisti assunti dopo essersi visti congelare le spettanze di novembre, dicembre, tredicesima mensilità e gennaio, per mancanza di liquidità, avrebbero dovuto ricevere quelle di febbraio e marzo grazie alla sottoscrizione del contratto di solidarietà difensiva nella misura del 40 per cento della riduzione dell’orario di lavoro. In questo modo sarebbe stato scongiurato il licenziamento collettivo di 23 lavoratori dichiarati in esubero su un organico di 57. Così non è stato. La Cooperativa, rappresentata dall’imprenditore Andrea Cuzzocrea (che è anche presidente di Confindustria Reggio Calabria) non ha pagato gli stipendi. D’altronde, il segretario regionale del sindacato Fnsi Carlo Parisi, prima dell’uscita del Garantista aveva espresso le sue perplessità sul progetto editoriale. Parisi, infatti, si dice “fortemente preoccupato dal precipitare degli eventi in una realtà editoriale nei confronti della quale, purtroppo, ancor prima del debutto, il sindacato dei giornalisti è stato facile profeta esprimendo serie riserve in materia di sostenibilità dell’impresa”. Anche il contratto di solidarietà non sta salvando il giornale di Sansonetti. “L’applicazione dell’ammortizzatore sociale – spiega ancora il segretario del sindacato – si è rivelata insufficiente a fronteggiare la crisi del giornale che, il 16 gennaio, aveva indotto la cooperativa ad avviare la procedura di licenziamento collettivo per riduzione di personale per 19 giornalisti dei 49 assunti con contratto nazionale Fnsi-Fieg e 4 poligrafici su 8. Dopo un mese di incontri e trattative la vertenza sembrava chiusa. Ma i giornalisti del “Garantista” hanno dovuto amaramente constatare che nulla è cambiato”. Da mesi circolano voci di nuovi soci in grado di mettere soldi freschi per scongiurare il blocco del giornale. Soci che non ci sono mentre quelli vecchi non intendono ricapitalizzare la cooperativa. Per descrivere il Garantista, infine, il sindacato ricorda le parole utilizzate dallo stesso Sansonetti in occasione della presentazione avvenuta a Roma, sul Tevere, a bordo del Barcone della Romana Nuoto: “Un’impresa folle e temeraria”. Il senso però è diverso per Parisi. Se da una parte in Calabria, per quanto riguarda le vendite, ilGarantista è riuscito ad avere “apprezzabili risconti con le circa 3500 copie in edicola, non è riuscito a raggiungere gli obiettivi anche minimi, di vendita e distribuzione, soprattutto a livello nazionale”. Già, perché il Garantista è un giornale nazionale, ma fuori dalla Calabria il quotidiano diretto da Sansonetti non supera qualche centinaio di copie pur avendo una redazione a Roma con costi esorbitanti che oggi rischiano di fare affondare il progetto editoriale.

Piero Sansonetti, nuovo giornale edito da fondazione Avvocatura. Ma i legali si spaccano e scrivono a Orlando. E' battaglia nella categoria sul nuovo quotidiano. Edito da una srl della Fai, la fondazione dell'Avvocatura. E avversato dall'Associazione nazionale forense. Che contesta opportunità e legittimità della pubblicazione. Scrivendo anche al ministro Orlando: "Faccia rispettare la legge", scrive Ilaria Proietti l'11 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Se si farà largo nelle edicole è presto per dirlo. Sicuramente si è già fatto strada tra i membri autorevoli dell’avvocatura italiana e in particolare dell’Anf, l’associazione guidata da Luigi Pansini, tra le più rappresentative degli avvocati. I quali, presi dal dubbio, il nome del nuovo quotidiano che il Consiglio nazionale forense (Cnf) sta tenendo a battesimo e da domani in edicola, si sono rivolti (vedere immagini in basso), con grande preoccupazione, prima al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. E, poi, direttamente all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom). Chiedendo di essere ascoltati con urgenza e stoppare l’iniziativa. A creare così tanti problemi agli avvocati dell’Anf, è l’uscita della nuova testata ‘Il Dubbio’, diretta da Piero Sansonetti e patrocinata come editore dalla srl Edizioni Diritto e Ragione (Edr), società partecipata al 100 per cento dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana (Fai), ente costituito dal Cnf per la “promozione” e “l’aggiornamento della cultura giuridica e forense”, la “valorizzazione dell’avvocatura” e la “divulgazione dei diritti di difesa della persona”. Ma non solo. Può anche “pubblicare, diffondere e commercializzare articoli, riviste, giornali e dispense”. Ma non certo, almeno questa è la linea degli avvocati che sono sul piede di guerra, “un giornale di informazione, di discussione e di cultura”, “capace di informare su tutti gli argomenti di politica, di esteri, di cronaca, di spettacoli e di cultura”. E con l’ambizione di essere “competitivo su questi terreni con gli altri quotidiani” nelle “edicole delle principali città italiane”, come è stato spiegato dal presidente del Cnf Andrea Mascherin, che è anche presidente di Fai. Insomma un quotidiano generalista, ma soprattutto, fanno capire gli interessati, un giornale a carico delle casse degli stessi avvocati. Un’iniziativa ad alto rischio, che non solo non sarebbe in linea con i compiti che spettano al Fai per conto del Cnf, ma che starebbe già provocando guasti nel bilancio della categoria. Con un disavanzo preventivato per il2016 di quasi 1,6 milioni di euro. Da qui l’accorato grido di allarme che potrebbe stroncare sul nascere le ambizione del direttore designato Sansonetti. Rivolto dapprima il 10 febbraio scorso all’indirizzo del ministro Orlando, nella sua qualità “di soggetto preposto alla vigilanza sul Consiglio nazionale forense e sugli ordini circondariali”. E nel quale si sottolinea la necessità di “riflettere sull’opportunità e forse anche sulla legittimità dell’iniziativa editoriale del Consiglio nazionale forense”. Chiedendo poi “al ministro vigilante se un ente istituzionale, per di più con funzioni giurisdizionali e con sede presso il ministero della Giustizia, possa assumere, sia pure tramite una delle tante fondazioni facente capo al Cnf, l’iniziativa editoriale annunciata”. E auspicando da parte del Guardasigilli un “Suo intervento diretto al richiamo del rispetto della legge e delle funzioni istituzionali da parte del Cnf”, nonché a “ristabilire compiti e ruoli alla stregua della legge ordinamentale forense”.  Da Orlando nessuna risposta. Almeno sinora. E da qui l’ulteriore iniziativa dell’Anf rivolta all’Agcom. Di cui si chiede l’intervento. All’Autorità Pansini chiede di essere ascoltato al più presto. E che soprattutto l’Agcom si attivi immediatamente affinchè “al fine della vigilanza sul settore, sia verificata l’effettiva idoneità dell’assetto proprietario e di controllo, all’esercizio dell’impresa editoriale, allo scopo di condizionarne l’effettivo svolgimento al pieno rispetto delle norme di legge”. Insomma, una stroncatura. E senza alcun dubbio.

Così il "metodo Travaglio" diventa un corso a pagamento. In cattedra un gip che spiega come trasformare un verbale in un articolo, scrive Felice Manti, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. La parabola si è compiuta. Il «metodo Travaglio» diventa materia di studio (a pagamento), i magistrati salgono in cattedra e diventano docenti di giornalismo. Sabato 30 aprile nella redazione del Fatto Quotidiano alla modica cifra di 85 euro ci si potrà finalmente abbeverare alla fonte di quella barbarie giustizialista di cui (finalmente) si sono accorti il premier Matteo Renzi e l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano dopo che le procure hanno dichiarato guerra a Palazzo Chigi. C'è bisogno di nuovi adepti, e la missione apostolare tocca ai giornalisti del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Sei un giornalista di giudiziaria e hai tra le mani delle intercettazioni scottanti (anche se penalmente irrilevanti) ma non sai come scrivere il pezzo? Beh, succede anche nei migliori quotidiani. Ma non ti preoccupare. Te lo spiega un giudice come fare. Al corso di giornalismo interverrà anche Stefano Aprile, Gip del Tribunale di Roma, che dalle 10 alle 11 terrà il modulo «Come usare le intercettazioni», subito dopo la lezione «Avvocati, magistrati, investigatori: i rapporti con le fonti». Aprile, dice il sito del Fatto sul corso a pagamento, si è occupato di importanti indagini. Quelle riportate sul sito, curiosamente, sono tutte contro il centrodestra. Come quella su Franco Fiorito detto Batman, ex capogruppo Pdl condannato per peculato, o quella sull'ex sindaco di Roma Gianni Alemanni e la «contestata tangente da 500 mila euro pagata per una commessa di 45 filobus», per finire alle indagini che portarono alla chiusura del sito Stormfront, quello dei cattivoni neofascisti. La lectio magistralis tocca invece alla cronista di giudiziaria del Fatto Valeria Pacelli, dal croccante titolo «Dai tribunali agli studi degli avvocati agli incontri con poliziotti e finanzieri: costruire e mantenere i rapporti giusti». Ma la teoria non basta, ci vuole esercizio. E dunque, compresa nel prezzo, c'è anche l'esercitazione pratica «Come trasformare un verbale in una notizia». È l'ultima metamorfosi del giornalismo giudiziario: non bastava aver trasformato i giornali in ciclostile delle Procure, adesso a scrivere gli articoli ci pensano direttamente i magistrati...

Renzi è tornato a parlare al Senato prima del voto di sfiducia del 19 aprile 2016. A parlato della magistratura e delle inchieste di Potenza che non sono mai arrivate a sentenza: «Io sono per la giustizia, ma non giustizialista. Per i tribunali, non per i tribuni. Io rispetto le sentenze dei giudici, non le veline che rompono il segreto istruttorio. Quando auspico che si arrivi a sentenza, non attacco la magistratura ma rispetto la Costituzione: un avviso di garanzia è stato per oltre 20 anni come una condanna definitiva. Vite di persone perbene sono state distrutte, ma un avviso di garanzia non è mai una condanna ed è per questo che non chiederemo le dimissioni del consigliere del Movimento 5 Stelle di Livorno, perché crediamo nella presunzione di innocenza. Questo paese ha conosciuto figure di giudici eroi che hanno perso la vita ma anche, negli ultimi 25 anni, pagine di autentica barbarie legata al giustizialismo dove l’avviso di garanzia è stata una sentenza mediatica definitiva. Io sono per la giustizia - è il distinguo del capo del governo - e non per i giustizialisti. L’avviso di garanzia in passato è stata una sentenza mediatica definitiva, vite di persone perbene sono state distrutte mentre i delinquenti avevano il loro guadagno nell’atteggiamento populista di chi faceva di tutta un’erba un fascio. L’avviso garanzia non è mai condanna».

Lo spettro di nuove inchieste dietro l'attacco di Renzi ai pm. L'affondo del premier in Senato è frutto di una strategia chiara: quando sente il fiato sul collo assume un atteggiamento di sfida. Quei presagi di un'estate calda, scrive Fabrizio De Feo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il giorno dopo il sonante «no alla barbarie giustizialista» conosciuta dal Paese negli ultimi venti anni, frase che di certo ha scosso le coscienze e fatto arricciare il naso a tanta parte della sinistra allevata a pane a manette, gli interrogativi sull'affondo pronunciato da Matteo Renzi nel suo discorso al Senato non mancano. E si muovono su un filo sottile che oscilla tra motivazioni politiche, sospetti di timori giudiziari e aspetti caratteriali e psicologici legati al personaggio. Sui social network si assiste alla prevedibile spaccatura tra difese d'ufficio della magistratura, applausi renziani e ironie sul neo-garantismo di convenienza. «Bravi a denunciare la barbarie giustizialista quando sono loro a farne le spese. Prima, dal '92 compreso, silenzio. Meglio tardi che mai», scrive su Twitter Pierluigi Battista. Contrapposizioni prevedibili in un Paese che sulla rivendicazione giustizialista ha visto fiorire prima formazioni minori come La Rete e l'Italia dei Valori, poi il Movimento 5 Stelle, capace di raccogliere un quarto dei consensi dell'elettorato. Nei palazzi, invece, ci si interroga sulla genesi di un attacco che come ha giustamente scritto su La Stampa, Fabio Martini, non è figlio di un accesso di ira o una frase dal sen fuggita, ma di una precisa volontà di pronunciare quelle parole.

Renzi e la tecnica del tergicristallo tra garantismo e giustizialismo, scrive il 21 aprile 2016 Emanuele Boffi su “Tempi”. Dice di credere «nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Ma mica sempre, dipende. Dipende da cosa gli conviene in quel momento. «Questo paese ha conosciuto anche negli ultimi venti, venticinque anni, pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». Come non essere d’accordo con le parole pronunciate martedì 19 aprile da Matteo Renzi? Respingendo la mozione di sfiducia in Senato, il presidente del Consiglio ha dato prova di autentico garantismo: «Un avviso di garanzia è stato per oltre vent’anni una sentenza mediatica definitiva (…). Io sono per la giustizia sempre, non per i giustizialisti. Credo nei tribunali, non nei tribuni. Credo nelle sentenze, non nelle veline che violano il segreto istruttorio». Come non essere d’accordo? D’altronde Renzi si è sempre proclamato un garantista ed è questo uno degli aspetti che meno piace ai suoi avversari, come si poteva facilmente constatare ieri dando uno sguardo alla prima pagina del Fatto quotidiano: “Renzi come B.”, dove B. da quelle parti sta per Berlusconi, l’apogeo dell’insulto. E, giusto per ribadire la linea, sempre in prima pagina compariva una lunga e dura intervista del direttore Marco Travaglio a Piercamillo Davigo, uno degli eroi di Mani Pulite, fresco presidente dell’Anm, a certificare la continuità tra i governi precedenti e l’attuale: «Qualche differenza di linguaggio, ma niente più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti». Ma la verità è che Renzi è un garantista a targhe alterne. Ha sempre ondeggiato tra gli opposti come un tergicristallo: giustizialista quando gli faceva comodo, innocentista quando desiderava tirare l’applauso senza pagarne il fio. Non che sia l’unico, per carità. A parte qualche raro caso, è un doppiopesismo che caratterizza l’intera classe politica italiana. Il lettore ricorderà facilmente gli ultimi casi. Col ministro Federica Guidi, Renzi ha adottato una tattica simile a quella usata con Maurizio Lupi. Nessuna pressione ufficiale per le dimissioni, ma nemmeno una pubblica parola in loro difesa. Gli è stato sufficiente “non dire” per ottenere, pilatescamente, il doppio risultato di non contrariare la piazza né apparire un despota giacobino. Diverso è il caso se si tratta del ministro Maria Elena Boschi, e non occorre aggiungere altro. Quando non gli costa nulla, al garantista Renzi piace fare la ruota come un pavone. Alla Leopolda del 2013 disse che «la storia di Silvio ci dimostra in modo chiaro che dobbiamo fare la riforma della giustizia». Si riferiva a Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, ingiustamente accusato e finito in carcere; certamente, come scandì Renzi, un caso che dimostrava che «la riforma della giustizia è i-ne-lu-di-bi-le». Non che prima di Scaglia non ci fossero stati episodi che dimostrassero la medesima urgenza, il problema è che riguardavano “l’altro Silvio”. E, soprattutto, non è che quando Scaglia era nel mezzo della bufera mediatica e giudiziaria, Renzi si fosse speso in un’eroica battaglia a difesa delle garanzie a tutela dell’indagato. Facile essere garantisti dopo la sentenza d’assoluzione, il problema è esserlo prima. E su questo Renzi traccheggia a seconda della convenienze. In modo clamoroso lo si notò sul caso del ministro degli Interni del governo Letta, Annamaria Cancellieri, sbrigativamente invitata da Renzi a togliere il disturbo in base a un’intercettazione. E, caso forse di cui si è persa memoria, accade anche col suo predecessore a Palazzo Vecchio a Firenze, Leonardo Domenici. Vittima di un uso “disinvolto” (eufemismo) del materiale d’inchiesta da parte di magistrati e giornalisti, fu additato dall’Espresso come esempio di connubio (a sinistra) tra affari e politica. Domenici arrivò a incatenarsi davanti alla sede del giornale per denunciare il trattamento riservatogli. Era il 2008, il primo cittadino era a fine mandato e un certo Matteo Renzi sedeva sulla poltrona di presidente della Provincia. Non si ricordano sue battaglie garantiste in favore del compagno di partito, anzi. Quel che sappiamo è che Renzi diventò sindaco della città nel 2009 e segretario del Pd nel dicembre 2013, giusto un mese dopo che erano state rese note le motivazioni della sentenza d’assoluzione di Domenici.

Ecco la "barbarie giustizialista" che non ha indignato Re Giorgio. Napolitano oggi denuncia la malagiustizia, ma quante indagini flop sono passate sotto il suo silenzio, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 21/04/2016, su “Il Giornale”. Il suo cruccio si chiama Loris D'Ambrosio. «Non posso dimenticare», ha scandito Giorgio Napolitano in Senato. Non si può archiviare la tragedia di un magistrato colto e preparato, morto di crepacuore dopo la pubblicazione delle sue conversazioni. Ora re Giorgio punta il dito accusatore. «C'è chi ha pagato prezzi altissimi al giustizialismo, grazie anche alla pubblicazione di intercettazioni manipolate. Come è successo al mio consigliere D'Ambrosio che ci ha rimesso la pelle». Oggi è tutto chiaro. Senza ombre e silenzi. Ma ieri non era così. Napolitano, Renzi e tanti altri tacevano, assecondavano, nascondevano dubbi e timori. Anzi, partecipavano, puntata dopo puntata, alla grande fiction giudiziaria e al rotolare di tante teste e dignità. Sì, meglio ricordare. Ecco Vittorio Emanuele. Le sue frasi, non proprio regali, hanno fatto il giro d'Italia. E così la storia gloriosa dei Savoia è diventata cronaca sporca, in un diluvio di intercettazioni. Per giorni e giorni le gesta del principe si sono trasformate in un penoso fumetto popolare, con un capitolo sui sardi e un altro sulle prostitute. L'opinione pubblica si è rimpinzata di dialoghi imbarazzanti, ma alla fine, nel frastuono generale, anche le accuse sono evaporate. Via i reati gravissimi, via le contestazioni e le tangenti, via l'associazione a delinquere e tante scuse per gli arresti. È il malcostume tricolore: sempre uguale da anni e anni. Arresti fra squilli di tromba, frasi a effetto atterrate al momento giusto sui giornali, capi d'imputazione chilometrici. Poi, col tempo, le nebbie della giustizia si diradano lasciando un paesaggio di rovine. Un copione che si rinnova maledettamente uguale. Roberto Salmoiraghi, sindaco forzista di Campione d'Italia, finisce nella rete stesa dall'allora pm di Potenza Henry John Woodcock intorno all'onnipresente Vittorio Emanuele. E segue la stessa umiliante trafila: le manette per, nientemeno, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Intanto, mentre lo portano a Potenza ascolta i giornali radio che ripetono il suo nome in una litania di presunti traditori del bene pubblico. Nessuno prova a ricordare che la presunzione di innocenza «non è un velo d'ipocrisia, ma un richiamo forte alla realtà concreta». E la realtà reclama la sua innocenza. Addirittura non deve nemmeno passare in aula per il processo perché il dibattimento si affloscia ancora prima di cominciare. Salmoiraghi si dimette da sindaco, il tempo gli restituisce l'onore. Del resto, in Italia hanno gettato la spugna primi cittadini e ministri, sgambettati da insidiosi avvisi di garanzia, vocaboli velenosi usciti da qualche faldone, contestazioni imponenti svanite nel nulla. Nel silenzio assordante dei tanti garantisti di oggi. Sempre pronti per troppi anni a battere le mani ad ogni stormire della magistratura, sempre alieni da critiche, sempre rapidi nel giustificare qualunque ricamo sulle vite degli indagati. Del resto il 16 gennaio 2008 lascia la sua scrivania di Guardasigilli Clemente Mastella, assediato dalle indagini, dai sospetti, dai pregiudizi. La moglie Sandra Lonardo va ai domiciliari, lui scappa da via Arenula e una settimana dopo è il governo Prodi a saltare: il già gracile esecutivo viene travolto: il solito partito trasversale mette al primo posto la questione morale. Non c'è spazio per altre considerazioni: l'indagato è colpevole a priori, anche se poi risulterà estraneo, e il marito condanna, con la sua vicinanza, la moglie e viceversa. Non c'è scampo e i vertici dello Stato dirigono il traffico senza se e senza ma. Oggi di quel groviglio di accuse non è rimasto nulla, ma ormai è andata così. I conti si fanno alla fine, ma le carriere vengono stroncate prima, ora il pm chiede l'assoluzione per il governatore Vincenzo De Luca, inquisito per l'indagine sul Sea Park di Salerno. Solo ieri De Luca era esposto ala gogna dell'Antimafia e passava per impresentabile. Dal Quirinale, e non solo, nemmeno l'accenno di un'obiezione.

POTERE A 5 STELLE.

Pd e M5S, è guerra in nome della legalità. L'ombra della camorra sul comune di Quarto e la condanna dell'ex assessore Pd Ozzimo per Mafia Capitale incendiano lo scontro tra renziani e grillini. La campagna elettorale delle amministrative è così ufficialmente aperta, scrive Susanna Turco l'8 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Alla faccia dei Cinque stelle “stampella” del Pd: è invece guerra (mediatica) senza esclusione di colpi, quella che si combatte sotto la bandiera della legalità tra i democratici e i grillini. Chiamati in causa, entrambi, dall’azione della magistratura. Da un lato, infatti, c’è l’inchiesta sull’amministrazione comunale di Quarto, comune flegreo guidato dai Cinque Stelle su cui pesa l’ombra dell’infiltrazione camorristica nell’elezione e nell’attività dell’ex consigliere De Robbio (indagato dalla Dda); dall’altro, c’è la condanna in primo grado di Daniele Ozzimo, ex assessore Pd a Roma, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio nell’ambito di uno dei processi stralcio di Mafia Capitale. E se per la prima parte della giornata è il Pd che va all’attacco dei grillini, chiedendo chiarimenti sul caso, in un crescendo nel quale si invoca anche l’intervento di Alfano per valutare se sia il caso di commissariare il comune, nel pomeriggio invece, poco dopo la condanna di Ozzimo, sono i Cinque stelle a partire al contrattacco. Prima arriva il commento di Alessandro Di Battista, che parla di “macchina del fango” fatta partire dal Pd “contro M5S” “proprio nel giorno della condanna di Ozzimo” e attacca: “Accusano noi ma condannano loro!”. Poi, peraltro invocato più volte dai dem, interviene Beppe Grillo in persona. Con un post sul suo sito, fatto di otto domande e risposte, il leader pentastellato chiarisce che la camorra “non condiziona il M5S di Quarto”, che la sindaca Rosa Capuozzo “non ha mai ceduto alle richieste dell’ex consigliere” (sospeso una decina di giorni prima di essere indagato), e puntualizza che i voti raccolti da De Robbio non sono stati determinanti (ne ha presi 840, il M5S “ha vinto con 70.79 per cento, pari a 9.744 voti contro i 4.020 degli avversari”). Insomma, spiega Grillo, “sindaco e amministrazione sono parte lesa”, nella vicenda di Quarto. Anche se, fa notare il deputato renziano Ernesto Carbone, “esiste un dato politico sul quale sorvolano con leggerezza: Quarto è il feudo elettorale degli stessi Di Maio e Fico. Da quella sede, nella loro campagna elettorale, facevano grandi rampogne moraliste senza però mai accorgersi che l'onda che spingeva i 5 stelle era un'onda sporca”. Insomma, se la condanna di Ozzimo arriva a riaprire le ferite mai chiuse di un Pd romano devastato da Mafia Capitale, l’ombra della camorra – pur arginata quanto si vuole - tra le fila dei Cinque stelle, dove peraltro quattro su cinque componenti il direttorio è campano, è la novità che contribuisce a movimentare il quadro. Volano tra i due partiti accuse a tutti i livelli: i Cinque stelle rinfacciano al Pd l’elezione di De Luca, il salvataggio dell’Ncd Azzollini la legge anticorruzione che “di anti ha solo il nome”, parlano di un partito di “condannati e rei confessi”, invitano Orfini a “portare le arance in carcere a Ozzimo”. Il Pd dal canto suo rinfaccia il no grillino alla legge sul reato per voto di scambio politico-mafioso, la mancata denuncia da parte di Rosa Capuozzo per le minacce ricevute e domanda perché i Cinque stelle, così pronti a invocare la “ghigliottina” per gli altri, stavolta non si pongano “neanche il problema delle dimissioni del sindaco”. Su twitter, giusto per la cronaca, l’hashtag lanciato da Grillo (#condannovoi) prevale come era prevedibile su quello dem (#malgoverno5stelle). Complessivamente, non un bel vedere. Probabilmente, al netto degli sviluppi giudiziari, un assaggio della campagna elettorale per le amministrative, ormai ufficialmente cominciata.

M5S e il caso dei voti camorristi. Le intercettazioni nel comune campano retto dai 5 Stelle. Gli uomini ritenuti vicini alle cosche: al sindaco Capuozzo l'assessore lo diamo in pratica noi...La replica: noi parte lesa, voi a braccetto con la mafia, scrive Alessandro Trocino su “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2016. Dopo un lungo silenzio, il Movimento 5 Stelle reagisce alle notizie sulle intercettazioni di personaggi in odore di camorra che avrebbero invitato a votare il sindaco M5S di Quarto. Accusati e sbeffeggiati per tutto il giorno dai parlamentari del Pd, i 5 Stelle reagiscono non sul blog di Beppe Grillo (che ancora riporta un post di novembre sulla «trasparenza di Rosa Capuozzo»), ma con una nota: «A Quarto abbiamo espulso Giovanni De Robbio prima ancora che fosse indagato e oggi siamo parte lesa. Fa ridere che sia il Pd, che con la mafia ci è andato a braccetto finora, a ergersi a cattedra morale della politica. Abbia la decenza di restare in silenzio». Nelle intercettazioni, presunti esponenti camorristici spiegano che porteranno a votare per il sindaco a 5 Stelle, Capuozzo, «anche le vecchie di ottant'anni» e che «l'assessore glielo diamo praticamente noi». Il sindaco spiega: «Dalle intercettazioni esce una visione distorta dei fatti». Per tutta la giornata, dal Pd è arrivata una gragnuola di tweet e dichiarazioni. Debora Serracchiani: «Inquietante, Di Maio e Fico, che hanno fatto la campagna elettorale a Quarto, chiariscano». Stefano Esposito: «A Quarto i 5 Stelle mangiano nello stesso piatto della camorra?». Simona Bonafè: «Perché Grillo tace?». Ettore Rosato: «Fatti gravissimi». Ernesto Carbone: «Chiederò che il sindaco sia audita in Antimafia». Matteo Orfini: «Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S». Ma proprio a Orfini è rivolto un passaggio della nota dei 5 Stelle: «Ha difeso fino all'ultimo l'ex presidente pd di Ostia Andrea Tassone, nonostante avesse avuto contezza dei suoi legami con i clan». I 5 Stelle ricordano che «dal '91 a oggi un centinaio di comuni amministrati dal centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose. E hanno il coraggio di parlare? La verità è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd, ci ha fatto affari. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S, invece, è stata messa alla porta». Alessia Rotta, Pd, commenta: «Dopo un assordante silenzio, i 5 Stelle se ne escono sotto tg con una nota anonima che non dice nulla sulle pesantissime accuse. Di Maio che faceva campagna elettorale ora fischietta, Fico starà in vacanza, Di Battista e la Ruocco dai loro amici a Ostia, Casaleggio nella sua azienda a epurare dissidenti, Grillo in tournée. Non hanno il coraggio di mettere neanche la faccia, si nascondono dietro alle veline anonime».

Orfini: "Di Maio mi criticò da Quarto, dove la camorra vota M5S". Tutto il Pd attacca la giunta M5S del comune campano dopo l'inchiesta del pm Woodcock. La replica: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". Il sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti", scrive Cristina Zagaria il 6 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il voto inquinato a Quarto diventa un caso nazionale. Basta un tweet e dall'inchiesta giudiziaria si passa allo scontro politico tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle. "A Quarto la camorra vota M5S", poco dopo le 13 il presidente del Pd Matteo Orfini in 140 caratteri cita le intercettazioni dalle quali emerge che alle comunali di Quarto del giugno scorso un clan camorrista locale avrebbe sostenuto il candidato pentastellato Rosa Capuozzo (poi eletta sindaco) e attacca i Pentastellati. Il Pd compatto lo segue. Sinistra Italiana e Verdi chiedono l'invio di una commissione d'accesso nel Comune, per valutare l'ipotesi di uno scioglimento anticipato. Ncd vuole le dimissioni del sindaco. Un attacco concentrico. E poco prima delle 19, un comunicato M5S - senza nessun nome - risponde alle accuse: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". E mezz'ora dopo la dichiarazione del sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti". Il Tweet di Orfini. "Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S". Così, in un tweet, il presidente del Pd Matteo Orfini fa diventare le intercettazioni dell'inchiesta sul Comune di Quarto un caso politico nazionale. Il PD si compatta. Sempre Twitter Ernesto Carbone, deputato del Pd e componente della segreteria nazionale del partito, chiede che il sindaco di Quarto sia ascoltato dalla commissione Antimafia, chiosando "spero che i colleghi del M5S non si oppongano". E il Pd fa quadrato e attacca i Cinque Stelle. Sandra Zampa, vice presidente del Partito Democratico pone l'accento di Di Maio e Fico: "Il quadro che le indagini della magistratura sulle amministrative del comune campano di Quarto ci consegnano è grave e inquietante. Ancora più grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l'attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico".  Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd"Ma come mai il movimento Cinque Stelle non manifesta davanti alla prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del comune di Quarto, da loro amministrato? Ma come mai? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri, i vari di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura, oppure ci impartirebbero lezioni di morale dai banchi parlamentari". Debora Serracchiani, vicesegretario Pd: "Di Maio e Fico a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni". Anche Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera chiede "ai vertici del movimento grillino di chiarire la natura di quei rapporti con personaggi collusi con la malavita capogruppo del Pd alla Camera". E Andrea Romano, deputato Pd, parla di "modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle". "Rosa, tu hai un problema". Così, alla fine di ottobre, il consigliere comunale pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si sarebbe rivolto a Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, cittadina dell'area flegrea, eletta con il Movimento fondato da Beppe Grillo. "Mi mostrò una foto aerea di casa mia sul suo cellulare", ha raccontato Capuozzo in Procura. Comincia così, l'inchiesta sul ricatto a "cinque stelle" coordinata dal pm Henry John Woodcock e condotta dai carabinieri di Pozzuoli. Secondo l'accusa, De Robbio avrebbe minacciato il primo cittadino mostrandole più volte una foto dell'area dove si trova la casa di proprietà del marito alludendo a un presunto problema di abusi edilizi.  Nella ricostruzione della Procura, De Robbio voleva imporre in questo modo al sindaco l'affidamento ad un imprenditore di sua fiducia, Alfonso Cesarano (titolare e gestore di fatto di una ditta di pompe funebri) il campo sportivo di Quarto, la struttura, ora di gestione comunale, che fino all'insediamento della giunta Capuozzo era affidata alla Nuova Quarto calcio per la legalità, la squadra antiracket che, una volta privata del campo, ha dovuto chiudere i battenti. A questo capitolo dell'inchiesta è strettamente collegato l'altro filone al vaglio degli investigatori, quello sul voto di scambio. Il fulcro delle indagini è appunto una intercettazione telefonica che risale al primo giugno scorso, tra il primo e secondo turno delle comunali di Quarto, unica città della Campania amministrata da una giunta del M5S. Un imprenditore legato al clan camorrista dei Polverino, Alfonso Cesarano, dà indicazioni di appoggiare il candidato a sindaco dei Cinque Stelle, Rosa Capuozzo: "Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stel". Capuozzo, che non aveva denunciato De Robbio, è stata sentita due volte dal pm Woodcock. Nel secondo verbale ha parlato espressamente di "ricatto" specificando di avere "paura" di De Robbio. Anche se poi in un secondo momento ha corretto il tiro e ha dichiarato di "non aver mai subito minacce". E oggi dice: "Le intercettazioni telefoniche non aggiungono nulla a quanto già letto nei giorni scorsi. Sono le stesse già note da 15 giorni. C'è solo una visione distorta dei fatti. Riguarda il campo sportivo di proprietà comunale. Ne abbiamo ripreso la gestione non per affidarlo a privati ma per promuovere lo sport per il sociale". Il campo sportivo era stato gestito negli ultimi anni dalla Nuova Quarto calcio per la legalità, sodalizio nato dopo le indagini della Dda di Napoli che avevano scoperto collusioni della vecchia società col clan Polverino. "Ci siamo mossi - dice la Capuozzo - nella direzione di creare una rete di associazioni che operano anche nel settore sociale. Con quote basse possono usufruire della struttura. Inoltre le società e le associazioni che accoglieranno casi di ragazzi indigenti, su indicazione dei nostri servizi sociali, potranno usufruire di ulteriori sconti. Ciò - aggiunge - per operare in senso sociale e puntare a togliere i ragazzi dalla strada". La Capuozzo insiste: "Sin dal primo momento ci siamo mossi in questa direzione non prendendo in considerazione un affidamento a privati".  "Con De Robbio - aggiunge- il rapporto tra noi si era deteriorato proprio per la questione dello stadio. Io sentivo la pressione politica, non le minacce. Mi chiedeva di programmare una gestione affidata a privati. Non ero d'accordo. Era anche contro il nostro programma amministrativo. Per questo motivo non appoggiai la sua candidatura a presidente del consiglio comunale. Si era creata una situazione, come dire, non simpatica". "L'espulsione dal movimento - conclude il sindaco - è avvenuta perché si era allontanato dal piano operativo predisposto per amministrare e rilanciare la città e dalle linee guida del movimento". Intanto De Robbio, il più votato tra i candidati al Consiglio comunale di Quarto alle ultime elezioni amministrative, dopo le polemiche seguite all'inchiesta della Dda di Napoli, già espulso dal partito il 14 dicembre 2015, si dimette dal Consiglio comunale il 28 dicembre. Il 31 dicembre, nel pieno della bufera scatenata dall'inchiesta condotta dal pm Henry John Woodcock, la giunta della Capuozzo perde altri pezzi: rassegnano le dimissioni anche l'assessore al Bilancio, Umberto Masullo ed il consigliere comunale Ferdinando Manzo. Masullo e Manzo hanno escluso collegamenti tra l'indagine e la scelta di dimettersi. L'assessore Masullo parla di "motivi professionali ", mentre il consigliere Manzo scrive una lettera in cui indica "ragioni familiari". In precedenza si era dimesso anche l'assessore alla Cultura, Raffaella Iovine. Oltre a De Robbio, sono indagati anche il geometra Giulio Intemerato, coinvolto nel filone del tentativo di estorsione ai danni del sindaco, e Mario Ferro, il cui nome entra invece nella vicenda del voto di scambio perché sospettato di aver ricevuto, da De Robbio, la promessa di assunzione del figlio presso il cimitero di Quarto in cambio di sostegno elettorale. "Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che con la mafia ci è andato a braccetto finora, che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Luca alla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita. Fa ridere sì, che sia il Pd, che oggi ha fatto della questione morale una reliquia, ad avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell'unica forza politica onesta e pulita, qual è il M5S". Dichiara il M5S. "Per non parlare di Orfini - aggiungono i parlamentari - colpevole non solo di aver trascinato Roma nel fosso, ma soprattutto di aver difeso fino all'ultimo l'ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante - come lui stesso dichiarò - avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale. Dal 91 ad oggi - prosegue il 5 Stelle - circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l'amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose ed hanno anche il coraggio di parlare, di dispensare lezioni di democrazia". "La verità - prosegue il 5 Stelle - è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa. Questa è la grande differenza tra una forza di cittadini onesti e puliti come il 5 Stelle e la vecchia classe politica: noi - conclude la nota - camminiamo a testa alta, loro dovrebbero avere almeno la decenza di restare in silenzio". Appena uscito da un commissariamento per infiltrazioni camorristiche, il Comune è per questo "sorvegliato speciale" da parte della prefettura e vive l'incubo di un nuovo scioglimento. Arturo Scotto capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana chiama in causa l'invio di una commissione d'accesso al Comune: "A Quarto da anni la sinistra si batte a viso aperto contro la camorra. Vedere in questi mesi le ambiguità del movimento Cinque stelle è davvero insopportabile. Serve subito una commissione d'accesso in comune". Anche i Verdi locali si chiedono perchè non venga nominata la commissione.  Luigi Barone, componente della direzione nazionale del Nuovo Centrodestra e dirigente campano del partito chiede le "dimissioni" del sindaco Capuozzo. E sul caso Quarto interviene anche Fi, con i vicepresidente della Camera, Simone Baldelli: "E poi i vertici di M 5s vanno in tv a Difendere le preferenze...".

M5S e camorra, Pd all’attacco: “Vertici in silenzio su Quarto”. La replica: “Fate ridere, avete sostenuto De Luca”. Grillo e i parlamentari campani Di Maio e Fico accusati di non aver preso posizione sulle infiltrazioni camorristiche che emergono dall'inchiesta che vede indagato per voto di scambio e tentata estorsione il più votato del movimento, già espulso. Serracchiani: "In campagna elettorale davano lezioni di onestà". Carbone: "Audire il sindaco in Antimafia". Sel prefigura lo scioglimento per mafia. La nota M5S: "Molti comuni di centrosinistra già sciolti", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 gennaio 2016. Il Pd va all’attacco del Movimento 5 Stelle sui rapporti con la camorra. Il caso è quello di Quarto, in provincia di Napoli, dove un’inchiesta della magistratura ha fatto emergere le pressioni sulla nuova giunta comunale grillina da parte di un imprenditore ritenuto vicino al clan Polverino. E dove il più votato del Movimento, Giovanni De Robbio, già espulso, è indagato per voto di scambio tentata estorsione nei confronti del sindaco Rosa Capuozzo. I dem contestano soprattutto “il silenzio dei vertici”, da Beppe Grillo ai parlamentari campani Luigi Di Maio e Roberto Fico e rinfacciano due pesi e due misure rispetto alle tante denunce di malaffare provenienti dal Movimento. E ci si mette anche Sinistra Italiana, prefigurando lo scioglimento per mafia del Comune conquistato dall’M5s appena sei mesi fa. In serata arriva la replica, in una nota del Movimento: “Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Lucaalla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita”. Ad accendere lo scontro un articolo della Stampa che riporta alcune intercettazioni agli atti dell’inchiesta coordinata da Henry John Woodcock, già pubblicate da ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre. Conversazioni nelle quali il figlio dell’imprenditore Alfonso Cesarano, Giacomo, afferma di aver spinto il boom elettorale di De Robbio e di voler continuare a sostenere i 5 Stelle al ballottaggio: “Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stelle”. Convinto della vittoria finale, Cesarano aggiunge: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui – il riferimento è ancora a De Robbio – ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”. “Dite a Grillo che Quarto non è uno scoglio di Genova ma uno dei comuni amministrati dal M5S Silenzio su voto di scambio con camorra?”, twitta l’eurodeputata Pd Simona Bonafè. Un silenzio rimproverato anche dal vicesegretario Debora Serracchiani a Di Maio e Fico, che “a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni”. Sulla stessa linea il vicepresidente Sandra Zampa: “Grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l’attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico”, dichiara. Ai due parlamentari chiede spiegazioni anche il senatore Stefano Esposito: “Nei pochi posti dove amministrano o falliscono o sembra abbiano rapporti perversi con la malavita organizzata”, afferma Esposito, che si chiede se il Movimento di Grillo a Quarto “mangi nello stesso piatto della camorra”. E se non stia diventando “un facile cavallo di troia per i poteri malavitosi. Certo”, conclude, “aver detto, come fece Grillo, che la mafia non esiste non aiuta proprio per nulla”. Dal fronte dem è un fuoco di fila: “La prossima settimana chiederò che in commissione parlamentare Antimafia venga audito il sindaco di Quarto. Spero che i colleghi del Movimento 5 Stelle non si oppongano”, annuncia su Twitter il deputato Ernesto Carbone. Mentre il presidente Pd Matteo Orfini si toglie un sassolino dalla scarpa: “Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S”. E ancora, Andrea Romano punta sui meccanismi di selezione dei candidati tanto caro a Grillo e Casaleggio: “Certo le modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle e la stessa opacità dei rapporti tra blog e movimento non aiutano”. Non è solo il Pd a sollevare il caso. Mentre Scelta civica, con Gianfranco Librandi, parla di “pericolosi intrecci”, il capogruppo alla Camera di Sinistra italiana Arturo Scotto prefigura l’onta, per il Comune conquistato a giugno dal Movimento di Grillo, di una “commissione d’accesso”, anticamera del possibile scioglimento per condizionamento mafioso. E tornando al Pd osserva Emanuele Fiano: “Ma come mai il Movimento 5 Stelle non manifesta davanti alla Prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del Comune di Quarto, da loro amministrato? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri i vari Di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura”. La nota dell’M5s ribadisce che le accuse del Pd “fanno ridere”, perché il partito di Matteo Renzi “oggi ha fatto della questione morale una reliquia”, dunque non può “avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell’unica forza politica onesta e pulita”. Il Movimento rinfaccia a Orfini “di aver difeso fino all’ultimo l’ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante – come lui stesso dichiarò – avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale”. E ricorda poi che “dal ’91 a oggi circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l’amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose”. Da decenni, inoltre, “la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa”.

Saviano: quella sesta stella nera che rischia di diventare una macchia indelebile. La vicenda di Quarto e i 5 Stelle. La delusione per l'incapacità di reggere una sfida come questa può condizionare il giudizio sul Movimento alle amministrative, scrive Roberto Saviano il 10 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il Consiglio comunale di Quarto va sciolto per infiltrazione camorristica. Non importa quanti siano i voti portati dal consigliere espulso Giovanni De Robbio: quanto accaduto rischia di diventare un punto di non ritorno per il Movimento 5 Stelle. Il balletto sulle dimissioni del sindaco Rosa Capuozzo rischia di diventare una macchia indelebile, la sesta stella, la blackstar che offusca tutte le altre. Quarto è la storia di un cortocircuito. La prassi di raccogliere dossier per poter screditare l'avversario politico (che abbiamo chiamato macchina del fango), ha finito per trovare una sinistra corrispondenza, anche se sottile e camuffata, nei processi sui blog o in televisione. Quello che pare essere accaduto a Quarto è un caso di scuola. Da una parte la conferma della terribile regola che vede la camorra schierarsi sempre al fianco di chi vince o quanto meno attiva nello strumentalizzare quelle vittorie; dall'altro un sindaco che ora dopo ora si è mostrato sempre più inadeguato al ruolo, soprattutto in quella realtà così complessa, dove niente è come sembra. Ma la storia di Rosa Capuozzo ha una ricaduta ancora più drammatica poiché conferma che la politica in Italia è solo arte del ricatto; non si esce da questa logica, chiunque sia al governo. Del resto la purezza è un concetto non applicabile alla vita reale: tutti gli esseri umani commettono errori e hanno contraddizioni, che stranamente non vengono valutati se non quando si ha un ruolo istituzionale. E come un serpente che si morde la coda, quanto più in alto abbiamo posto l'asticella della "purezza&onestà", più grande sarà lo scandalo a prescindere dall'entità e dalla natura dell'errore, commesso o meno. Ma il nodo per comprendere questa situazione è la analisi della prassi delle espulsioni, che nei propri opachi contorni è sempre più vissuta dall'opinione pubblica come una pratica di epurazione. Del resto, cosa sono le espulsioni se non il mettere alla gogna chi non ha rispettato il programma, l'additare alla folla il reo? Rosa Capuozzo è colpevole, non eventualmente di abusivismo edilizio (di cui non conosciamo la portata e la natura), ma di essersi presentata come parte lesa invece che come amministratrice inadeguata; d'altro canto, lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche del Consiglio comunale non farebbe giustizia alla storia di un Movimento, intrisa di ingenuità politica ma non di disonestà o peggio di connivenze con la camorra. C'è una storia che riguarda Quarto che voglio raccontare. Come spesso accade, i clan investono in società di calcio per ottenere consenso sul territorio, ma anche per riciclare denaro e camuffare il racket con le sponsorizzazioni imposte ai commercianti e agli imprenditori locali. La "Quarto Calcio" apparteneva al clan Polverino - storica cosca attiva nell'area nord di Napoli e legata alla famiglia Nuvoletta, a sua volta in rapporto con la mafia di Corleone -, un clan potentissimo e particolarmente attivo nel traffico di stupefacenti, che ha da sempre avuto un ruolo di primo piano proprio per lo storico legame con Cosa Nostra. A febbraio 2011 la DDA di Napoli sequestra la squadra di calcio ai Polverino e la affida a "Sos Impresa", un ente antiracket. Il sostituto procuratore Antonello Ardituro, oggi al Csm, diventa il presidente onorario della "Nuova Quarto Calcio". Nel 2013 la squadra viene promossa in Eccellenza e sembra prendere corpo il mantra che a Quarto ci si ripeteva: "Con la legalità si vince sempre". Ma il territorio non fa cerchio, gli atti di sabotaggio sono sempre più frequenti e prendono di mira anche lo stadio Giarrusso, quello stesso stadio tornato in gestione al comune sotto il sindaco pentastellato. L'anno scorso l'avventura della squadra della legalità si è conclusa a dimostrazione che la legalità non vince sempre, non vince se la società civile è distratta e impaurita. Non vince se la politica non comprende come queste esperienze siano un collante vero. Che Quarto non fosse un comune come un altro era evidente sin dal principio ed è per questo che la vittoria alle amministrative del Movimento 5 Stelle ha costituito un fatto per certi versi epocale, ma purtroppo per la cittadinanza, dopo sei mesi sembra già venuto il momento del bilancio finale, per un'amministrazione che esce del tutto delegittimata. Il piano politico è quello dunque più significativo oggi ed è bene dire, senza esitazioni, che la delusione per l'incapacità di reggere il confronto con una sfida davvero probante, non può che condizionare il giudizio sulla capacità strutturale del Movimento di proporsi credibilmente alle amministrative che si terranno quest'anno nelle tre più grandi città italiane. Se alle criticità il Movimento è in grado di opporre la sola prassi dell'espulsione, allora il futuro è tutt'altro che roseo e la provocatoria invocazione "onestà, onestà", risuonata nell'aula del consiglio comunale di Quarto, e proveniente dal pubblico di militanti del Partito Democratico, ha finito per essere un amaro contrappasso, una grottesca inversione di ruoli. Ciò che è accaduto a Quarto, ma qualche giorno fa anche a Gela (mi si potrebbe obiettare che le giunte guidate dal Movimento sono 16 e che non è giusto citare solo i casi critici: rispondo che sono i casi critici a mostrare le potenzialità di un movimento politico), ci dice chiaramente che le espulsioni non servono a creare gli anticorpi necessari per amministrare realtà complesse. Mi domando, infatti, cosa accadrà se e quando il Movimento dovesse governare realtà metropolitane in cui politica è giocoforza compromissione, nel senso positivo del termine di dover condividere decisioni importanti anche con altre forze sociali e più in generale con il territorio. Di fronte alle accuse, che ci sono e che ci potrebbero essere, non si può rispondere: voi siete peggio di noi. Non funziona così, i conti non tornano: se il nuovo è solo sentirsi migliori di quello che c'era prima, non è detto che questo sentimento basti a creare le condizioni per essere in grado di amministrare. Io stesso, quando il Movimento 5 Stelle vinse a Quarto, pensai e parlai di un successo del voto di opinione, in un contesto storicamente condizionato dagli interessi della camorra. Invece oggi il caso Quarto rischia di confermare nel cittadino l'idea che la politica in Italia viva solo nelle possibilità di ricatto e che non si possa uscire da questa logica. Rischia di confermare l'idea che non esista davvero la possibilità di evitare di candidare soggetti che prima o poi potrebbero risultare impresentabili. Ma questo non è vero: la conoscenza del territorio, insieme a strutture interne democratiche di pesi e contrappesi, sono le uniche prassi sicure di selezione e metterebbero al riparo da procedimenti di espulsione tipici di una logica da imbonitore. Invece il caso Quarto, per mancanza di competenze e di conoscenza del territorio, finisce per confermare la convinzione distruttiva che viviamo in una democrazia strutturalmente corrotta e arretrata, dove nessuno può ergersi a moralizzatore, perché i giustizieri, prima o poi, finiscono giustiziati. Chi può escludere oggi che l'inconveniente verificatosi a Quarto non possa ripetersi a Roma, a Milano o a Napoli? E se dovesse capitare di nuovo? Se altre criticità dovessero riguardare la figura del sindaco eletto o di un importante assessore - a oggi nulla sappiamo sulla identità dei potenziali candidati e anche questa è vecchia, cattiva politica - cosa ha da proporre come rimedio politico il Movimento, oltre all'espulsione? Che sarà anche catartica, ma che non risolve i problemi enormi di realtà complesse. La fedina penale immacolata non è sufficiente a evitare futuri imbarazzi: il boss Zagaria ha utilizzato come suoi referenti persone che lo avevano denunciato per racket e che quindi indossavano abusivamente la maglia dei "giusti". Le mafie da anni cercano di utilizzare persone senza precedenti, cercano tra i parenti di vittime delle mafie, cercano insospettabili. Quindi come avere soltanto la garanzia della fedina penale? Bisogna munirsi di altri meccanismi di valutazione che non siano inquisitoriali ma semplicemente presenza sul territorio e approfondimento. Sono anni che diciamo quanto le mafie non siano più riconducibili allo stereotipo di coppola e lupara, e abbiano come elementi interni faccendieri dai curricula immacolati, il cui ruolo è proprio fare da collegamento tra l'imprenditoria legata ai clan e la politica. E allora è lecito chiedersi: se le mafie avvicinano il Movimento lo fanno perché è mafioso? Assolutamente no. Lo fanno perché con le sue logiche di reclutamento è facile infiltrarlo, perché sospettano che l'inesperienza di governo possa lasciare spiragli (come sarebbe accaduto a Quarto) per ottenere appalti, ricattare assessori, consiglieri comunali e sindaci. Le mafie stanno provando a infiltrare M5S perché dove la parola d'ordine è purezza e onestà, sanno benissimo come gettare ombre, come far cadere una persona, come bloccare un percorso politico. Se predichi onestà qualsiasi graffio ti farà cadere, mentre dall'altra parte resterà in sella chi il problema dell'onestà non se l'è mai nemmeno posto. E se il Movimento non sarà in grado di imparare e trarre profitto dallo sbandamento di queste ore, il caso Quarto potrebbe pesare come un macigno sulle possibilità di offrire una credibile ed efficiente alternativa ai partiti tradizionali, nonostante i venti di tempesta giudiziaria che oramai soffiano sempre più impetuosi dalle parti di Palazzo Chigi. Eppure il meccanismo inquisitoriale che sottende la logica delle epurazioni, in continuità con la matrice puritana propria della tradizione comunista, è in contrasto con l'ammirazione che il Movimento 5 Stelle prova verso Sandro Pertini, riformista socialista che sull'esempio di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, contrastò l'intransigenza bolscevica "o tutto si cambia o nulla serve", spingendo al contrario verso trasformazioni graduali per rafforzare i meccanismi di legalità e giustizia. Negli anni più bui furono loro che salvarono il sentire democratico e socialista dalle derive totalitarie. Quando è il momento di governare e di assumersi responsabilità, il cortocircuito innescato dai processi sommari a mezzo blog a soggetti infedeli ti presenta il conto: oggi è fin troppo chiaro che non basta candidare incensurati per avere la certezza che non commettano reati nel corso del loro mandato. Ed è altrettanto chiaro che non basta espellere chi non rispetta le "regole" per preservare un percorso politico. Il rischio – non faccio ironia – è che ne resti uno solo, il più puro, che finirà per espellere tutti gli altri.

I giusti allo specchio, scrive Marco Bracconi su “la Repubblica” il 10 gennaio 2016. Il tic giustizialista è un automatismo consolidato del grillismo. A tal punto da far dire (e ribadire) all’enfant prodige Di Maio che della presunzione di innocenza – cardine dello stato di diritto – lui farebbe volentieri a meno. Eppure fare dell’onestà non una pre-condizione dell’agire politico ma un programma politico in quanto tale è pericoloso e fuorviante per il funzionamento della vita democratica. Intanto perché con l’alibi della corruzione si spaccia l’idea che la cosa pubblica possa essere gestita non grazie a competenze tecniche e culturali ma solo in virtù di una presunta attitudine morale. In secondo luogo perché rende inevitabile il corto circuito tra media, magistratura e politica che troppo spesso ha condizionato il rapporto tra poteri e opinione pubblica. Infine -­ e conseguentemente - perché crea un clima in cui il sospetto diventa certezza, l’avviso di garanzia una condanna, l’intercettazione un versetto evangelico. Per questo la reazione del Pd sul caso Quarto è miope e sbagliata. Perché volendo cogliere nel breve una (ghiotta) opportunità di propaganda ripropone e alimenta nel medio e lungo periodo uno schema che non può che nuocere alla nostra vita pubblica. Alzare in Campania gli stessi cartelli che i Cinque Stelle alzano nelle altre aule consiliari; costruire un tweet-bombing che riassume i medesimi toni e le stesse modalità degli hastag pentastellati; invocare immediate conseguenze politiche per una vicenda ancora tutta da chiarire sul piano giudiziario: tutto questo significa perpetuare il regime di ambiguità in cui da decenni è intrappolato nel nostro Paese il rapporto tra politica e giustizia. Invece davanti al caso Quarto appropriarsi del mantra l’onestà andrà di moda non era la sola scelta possibile. L’altra avrebbe potuto essere approfittare di quanto sta avvenendo in Campania per dire agli avversari grillini (e al Paese) che il tema della legalità andrebbe posto, nell’interesse di tutti, in modo più equilibrato e meno istintivo. Ma nessuno sfugge - sa sfuggire - al timing dell’istantaneità e del dinamismo pop. Perché la politica è stanca ed è inutile chiedergli di scegliere tra una scorciatoia e un discorso pubblico dai tempi più lunghi e complessi. E perché malgrado lo storytelling imperante in troppi hanno dimenticato la prima lezione delle favole: la via più breve non sempre è la migliore.

La morale a Cinque Stelle è un calcolo variabile, scrive Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” l'8 gennaio 2016. L’imbarazzo è difficile da gestire, si sa. Specialmente in pubblico, specialmente in politica. Ed ecco, dai grillini alle prese con il caso Quarto, l’ultima clamorosa conferma. Dopo un lungo silenzio, quando sono venute fuori le intercettazioni dei camorristi che nel Comune flegreo si mobilitavano per far votare e portare alle urne anche le nonnine sulle sedie a rotelle, i pentastellati si sono finalmente decisi a dire qualcosa. Ma se già le prime risposte all’incalzante campagna di stampa e a quella particolarmente accusatoria del Pd erano apparse poco pertinenti, non parliamo poi delle successive, firmate dallo stesso Grillo e postate sul blog ufficiale. «Zitti voi, che avete eletto un condannato come Vincenzo De Luca», avevano infatti detto i vari Fico e Di Maio ai «democrat». D’accordo, è così che sono andate le cose, tanto è vero che alla Regione Campania è poi successo quello che è successo con la legge Severino, i ricorsi, le sospensioni e le sospensioni delle sospensioni. Ma cosa c’entra l’abuso d’ufficio del governatore con una sospetta collusione con la criminalità organizzata nell’unico comune della regione amministrato da una sindaca a cinque stelle? Il peggio però è venuto ieri, quando il leader massimo ha calato l’argomento a suo dire decisivo. I voti di Quarto — si è chiesto Grillo — sono stati determinanti? Risposta: «No è falso. Il M5S ha vinto con il 70.79 per cento pari a 9.744 voti contro i 4.020 degli avversari. L’ex consigliere De Robbio ha raccolto 840 preferenze». Premesso che De Robbio è stato successivamente espulso, e aggiunto che l’espulsione dal M5s è una pratica, come si sa, tutt’altro che eccezionale, sarebbe dunque questo l’alibi di ferro? Chi ha elevato il moralismo a religione politica riduce, oggi che gli conviene, il dato etico a mero calcolo aritmetico.

"Se i boss scelgono i 5 Stelle perché paga solo il sindaco?". Orellana: "Fico è andato in Procura per "spiegare le regole" Se lo avesse fatto il ministro Boschi l’avrebbero massacrata", scrive Alberto Di Majo su “Il Tempo” del 11 gennaio 2016. È stato il candidato del MoVimento 5 Stelle alla presidenza del Senato. Poi, nel corso della legislatura, è stato espulso dal «non partito». Per Luis Alberto Orellana quello che sta succedendo a Quarto è un film già visto. Ma stavolta i 5 Stelle rischiano di perdere la credibilità conquistata negli ultimi anni.

Senatore Orellana, il sindaco Capuozzo deve dimettersi?

«Valuterà lei, ovviamente. Dico soltanto che il sindaco è di tutti i cittadini e non del MoVimento 5 Stelle. La Capuozzo deve difendere un’intera comunità, peraltro in una realtà difficile. E poi quale sarebbe la sua colpa? Poteva denunciare le minacce ricevute dal consigliere che poi è stato cacciato dal MoVimento ma non è nemmeno indagata».

Dunque lei è garantista, a differenza dei suoi ex compagni di partito...

«Loro sono giustizialisti. Al sindaco di Roma Marino hanno chiesto le dimissioni per quattro scontrini. Ieri Roberto Fico (uno dei membri del direttorio del M5S, ndr) è stato sentito dai magistrati napoletani sull’inchiesta. Ha detto che gli ha spiegato le regole del MoVimento. Pensate cosa sarebbe successo se fosse stata chiamata dalla Procura che indaga sull’affaire banche la Boschi per illustrare il decreto del governo. Cosa avrebbero fatto i 5 Stelle?».

Cosa avrebbero fatto?

«Avrebbero chiesto almeno di mettere il ministro in carcere e di buttare la chiave. Mentre Fico è andato a spiegare le regole...».

Però la situazione a Quarto sembra compromessa.

«Un tema c’è: dalle intercettazioni sembra proprio che la camorra abbia scelto come referente il MoVimento 5 Stelle. Hanno cacciato il consigliere De Robbio che avrebbe avuto parecchi voti sospetti ma i presunti camorristi dicono "Portiamo a votare tutti il MoVimento 5 Stelle" e non "De Robbio". Cioè l’ombra del voto di scambio si estende su tutta la lista di Grillo e non solo su un consigliere. Dunque, semmai, dovrebbero dimettersi tutti i 5 Stelle e non soltanto il sindaco».

Il blog del comico genovese è stato chiaro: una nota del M5S chiede alla Capuozzo di lasciare. Se non lo fa, le toglieranno l’uso del simbolo? Cioè la cacceranno?

«Certo. Grillo è l’unico titolare del simbolo dei 5 Stelle. Lo dà e lo toglie quando vuole. Gli manderà una lettera dell’avvocato».

Il caso Quarto peserà sul MoVimento?

«Hanno perso la verginità. Loro si difendono col dire che se la Capuozzo dovesse essere convocata dalla commissione Antimafia, allora dovrebbe andarci anche una cinquantina di esponenti del Pd che si trovano in condizioni peggiori. È soltanto propaganda. Il MoVimento guida 15 città, il Pd ha migliaia di amministratori. Non voglio difendere i Democratici ma la sproporzione mi sembra evidente».

Qualcuno maliziosamente pensa che dietro la «resistenza» della Capuozzo ci sia il sindaco di Parma Pizzarotti, che già da tempo ha molti dissidi con Grillo e Casaleggio...

«Peraltro il "direttorio" è nato subito dopo che Pizzarotti propose di organizzare una serie di incontri tra gli amministratori del MoVimento. Invece il sindaco di Parma ha ragione: ci sono consiglieri che non sanno che differenza c’è tra la Giunta e il Consiglio, che non sanno scrivere una delibera. Eppure nel MoVimento sugli enti locali c’è il vuoto assoluto».

Perché non hanno mai creato una rete degli amministratori a 5 Stelle?

«Grillo e, credo, soprattutto Casaleggio hanno paura di perdere il controllo del MoVimento. Capiterà comunque».

Pensa che i 5 Stelle abbiano esagerato con il «moralismo» nei confronti degli altri partiti?

«Penso di sì. Invece dovrebbero ragionare su come gestire queste situazioni che in Italia sono putroppo molto frequenti. Dovrebbero evitare di arroccarsi nella loro presunta purezza e valutare su come fronteggiare le mafie che, chiaramente, cercano sempre di salire sul carro del vincitore».

Come pensa che andrà a finire la storia di Quarto?

«Spero che non massacreranno il sindaco come hanno fatto tante volte. A me hanno detto anche che ero un verme, che volevo tenere i soldi del mio incarico. Tutte falsità, che io combatto come posso, ma la loro forza mediatica è superiore. Finché saranno convinti, come lo è Casaleggio, che la politica è soltanto comunicazione, le persone saranno messe in secondo piano».

L'anomalia Casaleggio leader senza un voto. Si apre però un grosso problema nel M5S. Ormai Casaleggio esercita un potere assoluto sul nuovo partito, scrive Paolo Becchi Mercoledì 6/01/2016 su “Il Giornale”. Le trasformazioni all'interno del Movimento fondato da Grillo e Casaleggio sono sotto gli occhi di tutti. Grillo, dopo aver fatto togliere il suo nome dal logo, ha ormai altri pensieri (e tra questi, anche se ora non se ne parla, sicuramente lo spettacolino in programma per questo anno). A quanto pare ci siamo: Grillo è ormai assente, anche se ancora si sente la presenza della sua assenza. Si limita ormai a fare il presidente del nuovo partito che invia gli auguri di Natale, ben guardandosi dal riconoscere onestamente il fallimento del suo originario progetto rivoluzionario. Ormai è diventato, come lui stesso ammette, un ologramma in un paese di ologrammi. Più che un augurio di fine d'anno sembra uno spot pubblicitario per lo spettacolino in programma. Si apre però un grosso problema. Nonostante questi cambiamenti resta ancora Grillo, in ultima istanza, il garante delle regole? Il dato di fatto è che all'uscita di scena di Grillo non ha fatto seguito anche quella di Casaleggio, il quale a questo punto da solo esercita un potere assoluto sul nuovo partito, senza esserne il leader, anzi rivendicando di non esserne la guida, pur prendendo tutte le decisioni politiche. Da Weber in avanti è divenuto comune pensare che, nelle democrazie di massa, il leader carismatico funzioni come la reale forza che crea consenso e legittimazione. Il Movimento, volente o nolente, di fatto ne aveva uno: Grillo. E Grillo ci aveva insegnato «la nostalgia del mare vasto e infinito». Ora invece abbiamo una figura quasi invisibile sulla scena pubblica, che decide in segreto la linea politica della maggiore forza politica di opposizione. Insomma, si potrà dire tutto il male che si vuole di Berlusconi, Renzi e Salvini, ma sono leader che ci «mettono la faccia». Nel caso del Movimento, invece, abbiamo una forza politica pilotata da chi è in grado, utilizzando il blog che comunque porta ancora il nome di Grillo, di manipolare l'informazione e al contempo (come nel caso della Consulta) di controllare i parlamentari e, nell'ipotesi del futuro governo pentastellato, di controllare persino l'esecutivo. Una persona, Gianroberto Casaleggio, che non è stata mai eletta e votata da nessuno, controlla il maggior partito di opposizione, imponendo decisioni prese da lui con il ristretto gruppo del Direttorio, che funge da cinghia di trasmissione per controllare tutti gli altri parlamentari ridotti al ruolo di marionette, una persona che ormai utilizza la rete come mezzo per manipolare le coscienze e che domani potrebbe addirittura controllare dall'esterno l'intero governo. Stiamo andando verso una nuova forma di democrazia, non quella diretta, bensì quella eterodiretta. Forse per l'oligarchia finanziaria dominante è ancora meglio della democrazia di facciata di Renzi. Del resto non è un caso che sin dall'inizio la diplomazia americana e le grandi banche d'affari abbiano avuto un occhio di riguardo per il Movimento. Forse un partito ibrido, ma dichiaratamente filoatlantico e che ormai ha archiviato Grillo come un fenomeno da baraccone, è ancora meglio del partito personale di Renzi.

Vi racconto la dittatura a 5 stelle di Casaleggio. Parla Orellana (ex M5s) con Michele Pierri. Conversazione di Formiche.net del 2 gennaio 2016 con Luis Alberto Orellana, senatore, ex grillino, oggi nel gruppo Per le Autonomie. Le ultime epurazioni nel Movimento 5 Stelle, i ruoli di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, le fibrillazioni in vista delle prossime elezioni e la lotta per la leadership tra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Luis Alberto Orellana, senatore, ex grillino, oggi nel gruppo Per le Autonomie.

Senatore, che succede al M5s? Come mai ci sono tribolazioni mentre i sondaggi continuano a dare il partito in crescita?

«​Innanzitutto va detto che i sondaggi vanno presi con le pinze. Sicuramente il movimento tiene, ma se è cresciuto davvero lo vedremo nelle urne. Molte delle fibrillazioni di questi giorni sono anche frutto di una valutazione: checché se ne dica, non si arriverà a scadenza naturale del mandato. Dopo il referendum sulle riforme costituzionali, è prevedibile che si vada al voto, probabilmente nel 2017. Quindi meglio epurare prima i parlamentari poco graditi. Per quelli in cerca di riconferma è stata un’occasione per dimostrarsi fedeli e allineati alle scelte del capo».

Da cosa dipendono, invece, le tensioni a livello locale, come nel caso di Gela?

«In alcuni posti è risultato chiaro che mentre a livello nazionale alcune carenze riescono per il momento ad essere mascherate non essendo chiamati a governare, negli enti locali è più evidente che la selezione della classe dirigente non ha funzionato. È difficile mettere mano ai problemi, anche se non è il caso del sindaco di Gela. Mentre le espulsioni e il modo in cui vengono attuate non sono altro che una parte di una strategia di comunicazione del M5s che purtroppo abbiamo imparato a conoscere bene nel tempo. Di fronte a delle divergenze, legittime in politica, si tende a rappresentare un mondo diviso in buoni e cattivi, bianco o nero. Naturalmente dalla parte della ragione c’è sempre e solo chi la pensa come i vertici del movimento, dall’altro tutti gli altri, epurati compresi. Invece la storia è ben diversa e più complessa di come viene raccontata».

Quali sono i veri motivi delle ultime epurazioni, come quella di Serenella Fucksia, ma anche del sindaco di Gela?

«​Nel M5s si assiste sin dalla sua nascita a una vera e propria dittatura politica. Il sindaco di Gela ha provato a lavorare autonomamente per il bene dell’intera comunità, saltando gli steccati ideologici e di parte, come dovrebbe fare ogni amministratore locale. Evidentemente questo è bastato a farlo fuori. Ma anche il caso della Fucksia è esemplare. Nel suo caso si è trattato di differenti opinioni politiche. Ad esempio, sul voto al Jobs act si era astenuta, invece di votar contro. Non conosco le ragioni della sua scelta, ma evidentemente non condivideva la posizione del suo partito su quello specifico argomento. In quel momento il M5s, invece di aprire una discussione sul tema, come sarebbe stato giusto e normale in politica, è stata inserita nella lista nera. Poi al momento giusto è stata accompagnata alla porta, con la scusa della rendicontazione effettuata in ritardo. Una motivazione francamente ridicola».

Perché non la convince?

«Nel regolamento dei Cinque stelle non c’è nessun obbligo di rendicontazione a intervalli regolari. Paradossalmente, un parlamentare potrebbe rendicontare una sola volta al termine del suo mandato. Detto ciò, la Fucksia ha effettuato in ritardo solo una rendicontazione, adducendo fra l’altro motivi di salute. Ho fatto questo esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri. La verità è che nel M5s si vogliono soldatini, non teste autonome e pensanti».

Perché nel caso di Gela non c’è stata una consultazione on line ma solo un comunicato del M5s regionale?

«​Nel M5s le regole ci sono e non ci sono, si inventano o si usano a piacimento. La stessa Fucksia non è stata espulsa a termini di regolamento. Avrebbe dovuto essere prima decisa dall’assemblea dei parlamentari del partito e poi semplicemente ratificata dalla Rete. Senza contare che, questo modo di giudicare le persone in modo sommario, di denigrarle sul piano personale evitando il confronto politico, non fa altro che far leva sugli istinti più bassi e scatenare reazioni inquisitorie che spesso sfociano in insulti, quando non proprio in minacce, come è accaduto anche al sottoscritto».

Walter Rizzetto ha detto che ormai è Gianroberto Casaleggio a dominare mentre Beppe Grillo ormai conta poco. Lei cosa pensa a riguardo?

«​Tutte le decisioni vengono prese dai Casaleggio, padre e figlio. Sono loro a gestire il blog di Grillo, che è un organo di partito a tutti gli effetti, ma sfugge ad ogni controllo interno ed esterno. Innanzitutto non si sa chi scrive, perché la maggior parte degli articoli non sono nemmeno firmati. E poi è agghiacciante che un partito sia gestito da una srl, è una cosa fuori da ogni logica democratica. Non è un caso che il M5s si opponga a qualsiasi riforma della costituzione per forme di controllo democratico e più stringenti nei partiti. Io stesso mi sono fatto promotore in Parlamento di una proposta di questo tipo. Grillo, sin dall’inizio, è stato il megafono del movimento, forse non ha mai deciso nulla. Ora però sta venendo meno anche a questo ruolo, si sta estraniando a poco a poco».

Come mai?

«Credo si sia stancato e, come ha detto lui stesso più volte, voglia tornare a fare più l’artista».

Sarà Luigi Di Maio il candidato premier​ del M5s alle prossime elezioni?

«​In questo momento sì. Il suo teorico avversario interno, Alessandro Di Battista, sembra non essere in grado di giocarsela. Non ha la stessa capacità mediatica, a mio parere. E poi Di Maio è stato bravo a ritagliarsi un ruolo più pacato e istituzionale, mentre Di Battista è rimasto ancorato al personaggio dell’attivista».

Come si concilia l’atteggiamento intransigente e anti sistema del M5s con la votazione insieme a Pd e Area Popolare per le nomine della Consulta?

«Rappresenta di sicuro ​un cambiamento, anche se momentaneo e calcolato. Penso che abbiano deciso di farlo perché si sono resi conto che il danno di reputazione che stava subendo il Parlamento per quello stallo iniziava a intaccare anche loro, a causa del loro ostruzionismo. Hanno portato alla situazione al limite estremo, per poi raccogliere quello che potevano con un nome a loro gradito, nella più classica logica della politica. Vogliono comunque non fare accordi seri, perché in vista delle prossime elezioni, che credono di poter vincere, vogliono sentirsi liberi di criticare tutti senza che qualcuno possa dire loro che quando hanno governato non hanno fatto nulla. Nel caso della Consulta si può dire che nel complesso la partita l’abbiano giocata bene, a differenza di quanto è accaduto con la mozione di sfiducia al ministro Boschi».

Perché quella mozione non l’ha convinta?

«Si trattava di un testo scritto male, senza fondamento, portato poi alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono senz’altro più ampi che al Senato. L’operazione aveva solo fini propagandistici. È servita a occupare un po’ di spazio in TV e a marcare subito una distanza dagli altri partiti dopo il voto sulla Consulta».

Ha letto l’ultimo libro di Casaleggio? Fabrizio Rondolino ci ha visto un delirio ideologico.

«​Non ho letto il libro, ma ricordo bene il filmato che diffuse tempo fa, Gaia. Non mi stupiscono le frasi di Rondolino, Casaleggio ha sempre farneticato di una democrazia diretta basata sulla Rete. Per lui pare essere un dettaglio se la gente sia informata o meno di ciò che accade, basta che voti con un clic o che creda di farlo. Ma questo sistema porterebbe con sé un rischio fortissimo di derive autoritarie. La nostra, come ogni democrazia occidentale, è fondata sui partiti ed è bene che rimanga così. Le uniche nazioni a non averne sono, non a caso, i regimi totalitari, che al massimo ne hanno uno solo».

Una testata come il Financial Times ha scritto nei giorni scorsi che il M5s è cresciuto molto, anche nell’esperienza. Crede che sarebbe in grado di governare l’Italia?

«Non li ritengo assolutamente capaci di governare da soli un Paese complesso come il nostro. E non sono il solo, malgrado l’endorsement, probabilmente interessato, del Financial Times. Se già a livello locale non riescono a farlo, figuriamoci cosa potrebbe accadere sul piano nazionale. La verità è che il M5s non ha una ancora una classe dirigente degna di questo nome. I suoi parlamentari sono a stento capaci di fare buona opposizione. Non si potranno certo improvvisare ministri e sottosegretari. Sicuramente hanno compreso alcune dinamiche e hanno scelto buoni collaboratori. Ma da qui a poter governare una nazione come la nostra li separa un abisso».

Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi con Giovanni Bucchi su. “Formiche” del 5 gennaio 2016. L'affondo dell'ex ideologo dei grillini: "Il Movimento si sta trasformando in un partito ibrido e ha stretto con il Pd un nuovo patto dopo quello del Nazareno facendo da stampella al governo Renzi". Ecco la conversazione di Formiche.net con il docente universitario di Filosofia del diritto. A Roma si profila un nuovo accordo in stile Patto del Nazareno, questa volta tra Pd renziano e Movimento 5 Stelle. Scaricato Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia alla deriva, il premier Matteo Renzi ha capito che sui singoli temi può trovare una sponda favorevole nei tanto avversati grillini. A differenza del precedente, il nuovo patto non viene annunciato, anzi è ripetutamente negato a gran voce e protetto dalle contrapposizioni di facciata. Si potrebbe sintetizzare così l’analisi sulla situazione del Movimento 5 Stelle fatta da Paolo Becchi in questa conversazione con Formiche.net, nella quale il professore annuncia l’addio ufficiale al Movimento con tanto di cancellazione dell’iscrizione lo scorso 31 dicembre. Un intervento che rientra nell’approfondimento avviato con l’intervista al senatore ex 5 Stelle Luis Alberto Orellana. Docente di Filosofia del Diritto all’Università di Genova, descritto in passato come l’ideologo dei 5 Stelle prima che avanzasse alcune critiche e che Beppe Grillo ne prendesse le distanze sul blog, Becchi ora parla della delusione per la piega presa dal Movimento, anticipando alcuni contenuti di un suo intervento in uscita a febbraio su Mondo Operaio dopo quello di qualche mese fa.

Professor Becchi, lei qualche mese fa ha dichiarato che il Movimento 5 Stelle si sta trasformando in un partito vero e proprio, sul modello del vecchio Pci. Ne è ancora convinto?

«Quel processo è progredito, al di là della battuta fatta. Oggi preciserei che il Movimento si sta trasformando in un partito ibrido, nel quale si cerca di fare convivere diversi aspetti. Prendiamo le elezioni amministrative: dove si può vincere ma si ha paura di farlo e magari non lo si vuole proprio, come a Roma, si sceglie di seguire l’intero e impegnativo percorso democratico per la selezione delle candidature con non so quanti passaggi in rete, facendo mostra di questo dispiegamento di energie per la democrazia diretta. Dove invece si vuole lottare per vincere davvero, il candidato e la lista vengono blindati e imposti dall’alto come accaduto con Massimo Bugani a Bologna. Questo è il partito ibrido che da un lato acchiappa chi ancora crede negli ideali di rottura del vecchio Movimento e dall’altro si avvicina alla logica partitica».

L’elezione dei giudici della Corte costituzionale rientra in questa logica?

«Certamente. Lì si è capito come il Patto del Nazareno tra Pd e Fi sia finito del tutto e ne sia nato un altro tra Pd e M5S, tenuto segretissimo tanto che chi ne parla viene ricoperto di insulti in rete, ma questa è la sostanza. Basta andarsi a leggere cosa ha scritto il blog di Grillo nel giro di due settimane: prima si critica il costituzionalista del Pd Augusto Barbera ricordando alcuni scandali concorsuali nei quali è spuntato il suo nome, poi si sposta l’attenzione sull’avversione al berlusconiano Francesco Paolo Sisto e infine si dice di aspettare le proposte di Renzi avanzando la candidatura di Franco Modugno e votando Barbera in accordo con Renzi. Tutto ciò per il sistema dei partiti è perfettamente normale, rientra nella loro logica, ma non per un Movimento che si dichiarava anti-sistema. Perché i parlamentari 5 Stelle non hanno tenuto la linea di opposizione sulle votazioni dei giudici della Consulta? Dopo 30 fumate nere sarebbe dovuto intervenire il Presidente della Repubblica, si sarebbe creato un caos istituzionale, invece loro hanno tolto le castagne dal fuoco a Renzi. Da mesi si discute su questa elezione, e Gianroberto Casaleggio va invece a dire al Corriere della Sera che non c’era tempo per coinvolgere la rete. Ma vogliamo scherzare?»

Quali altri passi prevede?

«Il prossimo sarà quello sulle unioni civili. Sulla votazione del ddl Cirinnà ci sarà l’accordo tra Renzi e l’M5S, il quale finisce così a fare nuovamente da stampella al governo, quando invece sarebbe andato incontro a grosse difficoltà. Poi la legge sullo ius soli, anche qui sconfessando Grillo. E magari per finire anche l’eutanasia. Non rendendosi conto che in questo modo si fa soltanto il gioco di Renzi».

Grillo non ha più il controllo?

«E’ stato sconfessato dal vicepresidente della Camera addirittura sul Financial Times, al quale Luigi Di Maio ha detto che loro non sono favorevoli all’uscita dell’Italia dalla Nato come invece ha sostenuto Grillo. Agli inizi del Movimento se qualcuno si fosse azzardato a dire una cosa del genere, peraltro su un giornale così importante, sarebbe stato radiato, ora invece l’intervista viene ripresa dal blog di Grillo».

E invece adesso comanda Casaleggio?

«Guardi, il mio nuovo intervento per Mondo Operaio l’ho proprio titolato “Dal Movimento liquido di Grillo al partito ibrido di Casaleggio”. Si apre però il problema del garante; Grillo ha detto che è “un po’ stanchino”, ma che sarebbe rimasto il garante delle regole. Peccato però che qui non venga rispettata nessuna regola, come sull’espulsione della senatrice Serenella Fucksia: indubbiamente c’erano motivazioni valide e l’obiettivo sarebbe stato raggiunto ugualmente, ma non c’è stata nessuna assemblea dei parlamentari con voto poi ratificato dalla rete. Ormai regna l’arbitrio, al posto del rispetto delle regole. Si critica chi non rispetta le regole e ci si comporta allo stesso modo».

E dietro l’angolo ci sono le comunali, per le quali però i sondaggi danno l’M5S in forte crescita.

«Sono convinto che alle amministrative il Movimento avrà un risultato favorevole, ma ritengo che ai vertici queste elezioni interessino poco. Ciò che conta per loro è andare al governo, ma non si sa bene per fare cosa, tranne le politiche anti-casta. Il M5S aveva una visione il nuovo partito deve ancora costruirsela».

Sono state abbandonate alcune battaglie politiche? Ad esempio quella sull’euro?

«Grillo aveva promesso agli italiani che entro il dicembre 2015 o al massimo nel gennaio 2016 ci sarebbe stato il referendum sull’euro. Ora più nessuno ne parla, salvo per i banchetti fatti in estate quando il tema appassionava di più e c’era da soffiare qualche voto alla Lega. Ma cosa pensa il Movimento sull’euro? Perché non si porta avanti con convinzione in Parlamento la legge di iniziativa popolare per il referendum? E sulla politica estera, in particolare sul tema della Nato, qual è la posizione? Grillo o Di Maio? Perché non si lancia una forte campagna di opposizione alla riforma costituzionale in vista del referendum sul quale Renzi punta tutto quest’anno? Si pensa troppo a fare opposizione di facciata, come nel caso della mozione di sfiducia alla Boschi su Banca Etruria. Insomma, il Movimento sta diventando opportunistico, nel senso che cerca di guadagnare qualcosa in ogni situazione. E per la verità al momento ci riesce benissimo. La democrazia diretta è stata da tempo accantonata e sostituita dalla democrazia eterodiretta da Casaleggio».

Becchi, è deluso?

«Sì, tanto che il 31 dicembre ho cancellato la mia iscrizione al Movimento al quale avevo aderito con grande convinzione e entusiamo; l’ho fatto perché non corrisponde più a quella speranza dell’inizio. Non sono nella testa di Beppe, e non so se questo suo progressivo farsi da parte sia sintomatico di un po’ di delusione anche da parte sua, ma è sempre più politicamente assente. Ha fatto un discorso di fine anno che era uno spot pubblicitario al suo spettacolo, un intervento teatrale nel quale dice che tutti siamo ologrammi ma, ahimé, è diventato un ologramma pure lui. Forse era inevitabile che il Movimento si istituzionalizzasse, ma il sogno è finito».

Fatti, tesi e bufale...Tutte le ultime panzane a 5 stelle del blog di Beppe Grillo, scrive Simona Sotgiu il 4 gennaio 2016 su "Formiche". Lo smog che uccide 68mila vittime in più all’anno, l’endorsement del Financial Times che definirebbe il Movimento 5 stelle “maturo per il governo”, le espulsioni e le parole di Gianroberto Casaleggio al Corriere della Sera hanno riportato i pentastellati sulle prime pagine dei giornali. Sul sito dei 5 stelle negli ultimi giorni sono apparsi alcuni articoli che si sono rivelati incompleti (nessuno studio individua lo smog come unica causa della crescita dei decessi in Italia) o falsi (il Financial Times non ha scritto che il Movimento 5 stelle è maturo per il governo, ma che vuole essere preso sul serio). “L’incremento delle morti c’è stato eccome. Ma di qui a imputare la causa solo all’inquinamento ce ne vuole”. A parlare è Gian Carlo Blangiardo, demografo, citato sul blog di Beppe Grillo a sostegno di un post in cui si legava l’aumento dei decessi in Italia allo smog. “Ci sono invece un mix di motivi – ha spiegato il docente dell’Università di Milano Bicocca – tutti fondanti. Primo, l’invecchiamento della popolazione”. Lo smog, dunque, è sì tra le possibili cause dell’aumento dei decessi, ma non certamente l’unica. Tra le cause individuate da Blangiardo e pubblicate nello studio di Neodemos ci sono l’invecchiamento della popolazione, il crollo delle vaccinazioni e, ha spiegato Blangiardo al Mattino, “a questo aggiungiamo la forte crisi del sistema sanitario: a furia di tagliare, risparmiare e spostare si è finito col costringere i pazienti a pagare di tasca propria gli esami in strutture private”. Una traduzione italo-grillesca, ha svelato l’economista Giampaolo Galli sul suo blog, quella comparsa sul blog di Grillo relativa all’articolo del Financial Times dedicato ai pentastellati, in cui il Movimento sarebbe stato definito “Maturo”, “Un partito dal passato eccentrico” che “si reinventa come seria alternativa a Renzi”. Ma la traduzione, sottolinea il deputato Galli, già in Bankitalia e alla direzione generale di Confindustria, non è troppo fedele. Sul FT, infatti, si legge: “Protest group has come a long way since its eccentric start and is now the country’s second party”. Il FT, spiega Galli, non definisce il M5s né maturo né serio, ma prende atto del percorso politico che l’ha portato dall’essere un partito eccentrico alla seconda forza politica in Italia. Nella traduzione del FT si dimentica, poi, l’aggettivo “populista” usato da giornalista James Politi proprio nelle prime righe dell’articolo, di cui Di Maio sostiene che il movimento sia l’antidoto e non la tossina. Ma è vero che il movimento di Grillo e Casaleggio aspira a governare l’Italia e così anche le principali città, come Milano e Roma. “Roma è una tappa obbligata prima del governo  ha dichiarato Casaleggio al Corriere della Sera  Un banco di prova. Se avessimo paura di governare Roma non potremmo neppure pensare di voler governare il Paese”. Ma secondo il senatore ex grillino Luis Alberto Orellana sentito da Formiche.net La verità è che il M5s non ha una ancora una classe dirigente degna di questo nome. I suoi parlamentari sono a stento capaci di fare buona opposizione. Non si potranno certo improvvisare ministri e sottosegretari. Sicuramente hanno compreso alcune dinamiche e hanno scelto buoni collaboratori. Ma da qui a poter governare una nazione come la nostra li separa un abisso”. Il blog di Beppe Grillo ha ospitato, nel corso del tempo, numerose “notizie” considerate bufale, soprattutto relative a temi scientifici. Un articolo del 2014 di Wired ne ricorda le più rilevanti: scie chimiche, campagne contro la vivisezione che hanno rischiato di bloccare la ricerca in Italia, sostegno al metodo Stamina di Davide Vannoni, campagne anti vaccini considerati causa dell’autismo (il calo dei vaccini, peraltro, sostiene lo studio di Blangiardo, è proprio una delle cause dell’aumento dei decessi in Italia nell’ultimo anno). Le bufale a 5 stelle sembrano avere tutte un punto in comune: la critica e messa in discussione del sapere riconosciuto dalla comunità scientifica che, per quanto criticabile, viene in alcuni casi messo da parte a favore di un sapere ancora in costruzione, che per gli esperti è privo di fondamento e metodo.

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

I FORCAIOLI SI DELEGITTIMANO DA SOLI.

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

Il disco rotto dell'Anm: "Politica ci delegittima". "Come Associazione magistrati, in questi anni ci siamo mantenuti fedeli alla missione indicata nei principi del nostro statuto: tutela dell'indipendenza, dell'autonomia, del prestigio e delle prerogative della magistratura e contributo di pensiero nella fase di elaborazione delle riforme legislative e nei progetti di innovazione. Lo abbiamo fatto con una passione pari al rispetto che proviamo per la nostra funzione anche quando essa ci ha indotto a rivolgere critiche forti ma sostenute da null'altro che dal desiderio di essere ascoltati, per sostenere una giustizia in grave affanno". Così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nella sua relazione di apertura del XXXII Congresso dell'Anm, a Bari il 23 ottobre 2015. Secondo Sabelli "un maturo sistema penale dovrebbe mirare anzitutto a realizzare il principio della durata ragionevole del processo, a recuperare l'efficacia del dibattimento, a restituire alle impugnazioni la loro funzione esclusiva di approfondimento e di verifica e a rendere pienamente alla Cassazione il suo ruolo di giudice della legittimità e la sua preziosa funzione di nomofilachia. La via intrapresa, purtroppo, va in altra direzione". Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati sottolinea come debba essere "introdotto un meccanismo di decisione anticipata sulle questioni di nullità e di competenza, accompagnato da termini più rigorosi per la loro eccezione. La rinnovazione dell'istruttoria per il caso di diversità del giudice andrebbe disciplinata in forma più aderente alle necessità realmente imposte dal principio di oralità. Va prevista la domiciliazione necessariadell'imputato presso il difensore di fiducia, per non vanificare i benefici della notifica telematica. Il ruolo della Cassazione andrebbe definito in misura più rigida, sull'esempio dell'esperienza europea. Sono solo alcuni esempi. I rapporti fra magistratura e politica, oggi sono restituiti a una dinamica meno accesa nella forma ma più complessa. Il principio di indipendenza e autonomia dei giudici che nessuno in astratto mette in discussione, costituisce uno dei cardini degli equilibri istituzionali, ma l’indipendenza non si alimenta di ossequio formale ma di una cultura fondata sul rispetto. Sono i temi sui quali oggi si sviluppano tensioni nuove o si riaccendono altre antiche e mai davvero sopite, che alimentano delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario. Sul tema della prescrizione - prosegue Sabelli - è deludente il disegno in esame al Senato, che si limita timidamente a prevedere un aumento dei termini per le fasi di Appello e Cassazione, senza affrontare l’esigenza di una riforma strutturale dell’istituto, che ponga rimedio ai guasti prodotti dalla legge del dicembre 2005 e accolga i richiami che da tempo giungono dall’Europa, fino alla recente sentenza della Corte dell’Unione sulle frodi Iva". Insomma, il solito disco rotto dell'Anm.

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Scuola pubblica: professionisti di che? Scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Bisogna correre a sfatare un mito, un’idea errata, o meglio la presunzione che gli insegnanti della scuola pubblica italiana possano definirsi, sentirsi “professionisti” del mondo del lavoro vero. Non è così. Bisogna dire chiaramente che sono elemosinati degli italiani, parassiti elemosinati dai nostri soldi, quegli stessi soldi estorti a noi con la tassazione erosissima che, difatti, non esiste in nessuna parte del mondo. Un professionista è un libero professionista cioè colui (colei) che risponde di ciò che fa. Se sbaglia paga di suo. Come succede a tutti i professionisti, liberi professionisti italiani, dal corniciaio al fabbro, dall’avvocato all’imprenditore. Il tempo indeterminato, ovvero a vita dell’impiego pubblico, specificamente nella scuola pubblica, insieme alla inamovibilità pratica, effettiva, dallo stesso, insegnante pubblico, professore universitario statale o maestro di scuola pubblica che sia, magistrato o giudice pubblico, politico o avvocato dello Stato cioè pubblico, rendono il posto cosiddetto “pubblico” vale a dire stipendiato con i soldi di tutti noi italiani, ma guarda caso, ha come ulteriore requisito l’irresponsabilità verso tutti, verso tutti noi, i reali, effettivi datori di lavoro. Pertanto credere o sentirsi “professionisti” nell’apparato pubblico difetta gravemente del requisito essenziale, la responsabilità. Che porta con sé la “amovibilità” ovvero il cambio di lavoro quando non si ha funzionato nella scuola così come da giudice, e porta con sé così anche la determinatezza dell’occupazione e del lavoro, a maggior ragione quando incapaci di farlo. In Italia da una settantina d’anni si sono immesse masse di pecoroni irresponsabili pubblici, per carità persone tra cui, soprattutto nei primi trenta anni, si distingueva una loro maggioranza, financo la quasi totalità, di soggetti che hanno ritenuto “sacra” la propria funzione nel settore pubblico, ritenendo la responsabilità un optional, andava cioè da sé ritenere di risponderne non solo lavorativamente ma anche e soprattutto personalmente, si pensi solo al disdoro sociale dato dalla incapacità cui difatti era la stessa società, più stretta nelle sue maglie e moralmente pochissimo lasciva, a richiamare e fare rispondere delle conseguenze; nei successivi quaranta anni le maglie sociali si sono allargate e con la libertà sociale il posto pubblico è diventato il “lavoro” degli italiani, dai ministeri alle corti, dalle province ai comuni alle regioni, dalle pubbliche amministrazioni e così via fino ad avere più o meno in ogni famiglia un soggetto almeno a carico delle finanze pubbliche. E’ diventato cioè, per quanto potesse essere stato l’“agguanto” al concorso pubblico truccato, convenientissimo occupare il posto pubblico, perché in cambio di poche ore “lavorate”, ovvero di sola presenza fisica nell’odiato ufficio tra gli odiati colleghi uguali a sé, si è ricavato l’obolo pubblico con cui si è, come dicono al sud, “campata” la famiglia. Ecco quindi il posticino a Ferdinando Esposito in magistratura, con concorsino “pubblico” a hoc stante papà e zio Esposito (quello della Cassazione e della sentenza annunciata contro Berlusconi, altro che professionista della giustizia! la giustizia piuttosto come arma per “regolare i conti” e le acrimonie di un’intera classe, quella giudiziaria pubblica contro l’imprenditore privato resosi ricco e con l’arlìa di essere sceso in politica). O ecco il posticino a papà di Giulio Napolitano nell’università pubblica, come tutti gli altri nessuno escluso. Ecco il posticino pubblico al ministero: un esercito di italiani e di italiane acrimoniosi e insoddisfatti “da sistema”, lagnanti e mal mostosi negli improduttivi ministeri pubblici italiani. Ed ecco il folto popolo della scuola pubblica, tra cui svetta, arrivata vicino casetta sua, la moglie dell’imbroglione al governo rubato Renzi: una folla di rosiconi della scuola pubblica in grado di insegnare spesso la sola propria ignoranza condita della supposizione di sapere qualcosa ai poveri ragazzi italiani che, inseriti in un sistema nefasto siffatto, di fatto, non solo non imparano o si “arricchiscono” di quasi nulla, ma sono il bersaglio e lo sfogatoio della depressione e del disagio che mostrano i loro insegnanti. Ma ecco ancora i raccomandati ai “concorsi” pubblici nelle Regioni che vivono oggi, per la scemenza e l’insipienza di Renzi illegittimo al governo, un nuovo revival, dato che il beota con il suo governo di non eletti cerca di dare più rappresentanza e potere escludendo noi italiani. Ecco l’impiego pubblico degli italiani nell’intero apparato pubblico, vale a dire il regno dell’improduttività. Del parassitismo a nostre spese. E, ancora, gli impiegati pubblici dell’Agenzia delle entrate che tuttora immette altri mille a controllare chi non si sa, dato che chi ha potuto e che produceva qualcosa autonomamente è fuggito all’estero. Ecco i giudici e la giustizia pubblica, una mannaia ad orologeria prona e indifesa di fronte alle lerce ambizioni personali dell’ultimo venuto, e da ultimo sono venuti difatti Di Pietro, o Ingroia, De Magistris, i quali forti della inamovibilità e soprattutto dello stipendio a vita hanno dettato legge in un Paese letteralmente violentato dalla loro stolta cupidigia. Quando si vede un lavoro pubblico in Italia, in definitiva, bisogna dire ed avere ben presente che sono gli italiani ad esserne i datori di lavoro, si pensi alla Camera e al Senato, al Parlamento e a tutto l’apparato politico, e oggi è finalmente necessario chiamare tutto a risponderne, alla responsabilità. A cominciare con Napolitano il quale da presidente della Repubblica ha violato la nostra regola democratica di avere quali rappresentanti gli eletti, cosa che non è avvenuta né con Monti né con Letta e che non sta avvenendo neanche tuttora con Renzi. Monti, Letta o Renzi non sono mai stati eletti per rappresentare l’Italia da nessun italiano, è Napolitano ad avere, contrariamente ad ogni regola della nostra democrazia, “scelto” ed eseguito, dandoci i pensi incapaci di cui è necessario liberarsi. Rappresenta chi legittimato con voto a rappresentarci. Solo rappresentanti eletti spingeranno infatti il Paese a razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche, non altri. Renzi getta fumo negli occhi, come pare abbia fatto tutta la vita, e i più c cascano, vedi Berlusconi o il popolo di destra che lo ha creduto suo erede, quando sarebbe bastato osservare bene da dove Renzi venisse, cioè dal veterocomunista Napolitano, per capire da subito chi è e sotto lo schiaffo di chi è, qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri. Si ripete, “qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri”. Questo Paese si deve dare una svegliata! Il non lavoro pubblico va trasferito e fatto diventare lavoro produttivo privato nel mercato globale vero. Ci vuole produzione, investimenti produttivi, nuove industrie per il lavoro produttivo degli italiani improduttivi.

 “LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.

Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre.  Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!

Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.

Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori,assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto.  Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle.  “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta.Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.

Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici.  Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni.  E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero.  Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto -  che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.

La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia. L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei. Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia. Cosa più falsa non c’è. Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano. Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione. Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è. Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione. Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione. Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.

Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano

Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste. La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Quando? Mai! Perchè gli anni passano. le leggi si riformano, ma tutto rimane fermo ed immobile.

E' stata definitivamente approvata, giovedì 17 luglio 2003, la legge di conversione del Dl 112/2003 relativa agli esami per l'accesso alla professione di avvocato. Il Senato ha stabilito che le nuove regole troveranno applicazione dalla prossima sessione di dicembre 2003. Nel provvedimento è stata individuata una nuova causa di incompatibilità per la designazione dei componenti. L'avvocatura infatti, nell'espressione dei nominativi dovrà tener presente l'articolo 1-bis comma 6 di tale Legge che stabilisce che non possono essere designati come commissari di esame, gli avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Il principio affermato tende a impedire che i commissari di esame facenti parte di tali organismi, possano maturare crediti verso i candidati, sfruttando la benevolenza in occasione di nuove elezioni al Consiglio dell'Ordine o alla Cassa di previdenza. E' stato inoltre precisato che per le stesse ragioni gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni, una volta espletati gli esami, non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell'Ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto. La nuova legge precisa inoltre che rimangono in vigore le altre incompatibilità previste per la nomina di commissari, come ad esempio l'astensione per chi ha un parente (o coniuge) tra i concorrenti o per chi versa in stato di forte contrapposizione di interessi o, viceversa, chi è stato collega (come praticante) di studio. In questo ultimo caso, il limite alla possibilità di esaminare i propri ex praticanti, è circoscritto unicamente all'obbligo, per il commissario, di astenersi dal prendere parte alle prove orali, in quanto l'anonimato delle prove scritte è sufficiente garanzia di imparzialità nella correzione. Anonimato per la legge, di fatto conosciutissimi gli autori dell'elaborato.

In caso di naturale violazione penale delle norme concorsuali, tra cui l'abuso di ufficio o o la legge del 1925, il nuovo codice deontologico della professione forense presenta l’innovativo carattere della (tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e delle sanzioni correlativamente applicabili. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 72, la condotta dell’avvocato che, prima o durante la prova d’esame per l’abilitazione, faccia pervenire ad uno o più candidati testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un periodo compreso tra due e sei mesi. (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza n. 3023/15; depositata il 16 febbraio).

Questo è quello esistente sulla carta, ma di fatto l'indicibile avviene perennemente ed impunemente.

Esami di avvocato con il trucco. Commissario scriveva compito a candidato: scatta l'inchiesta, scrive “Il Mattino di Napoli”. La scena è più o meno questa: scriveva il compito sul foglio di un candidato, poi quando è stato scoperto non si è perso d’animo. Ha strappato il compito, lo ha ridotto in mille pezzi, poi ha pensato bene di ficcarsi in tasca l’elaborato. Poi è scappato. È fuggito via, in un altro padiglione, provando a mimetizzarsi nel caos di quegli stand dove erano in corso le prove scritte. Brutta scena avvenuta lo scorso dicembre nel corso delle prove scritte dell’esame per diventare avvocato, tanto da rendere necessario un accertamento di natura penale. La Procura ha infatti deciso di aprire un fascicolo sugli esami di avvocati, a partire da una dettagliata relazione indirizzata da uno degli esponenti della commissione di esame. Mesi dopo l’episodio denunciato, c’è anche una sorta di svolta di natura investigativa: l’avvocato-commissario protagonista dell’impresa è stato infatti individuato, interrogato e indagato. Ora deve rispondere di falso per soppressione, in una storia che potrebbe riservare non poche sorprese. Ma andiamo con ordine, a partire da lontano, da quel giorno di metà dicembre in cui migliaia di praticanti avvocati si riversano negli stand della Mostra d’Oltremare per sostenere la prova della vita. Lo scritto poi è l’incubo di sempre. Si parte dalla trascrizione delle tracce, poi inizia il countdown. Tra i commissari però ce n’è uno che non passa inosservato: al telefono è riuscito ad avere il contenuto della traccia dopo aver contattato qualcuno in un altro distretto e non si è perso d’animo. Si è avvicinato ai banchi degli alunni e ha iniziato a scrivere sul foglio che recava il timbro del ministero e la firma delle commissioni di vigilanza. Una scena che non passa inosservata. Scrive, riempie almeno una facciata, quando un collega commissario se ne accorge e decide di vederci chiaro. A muoversi è un pm della Procura di Napoli, prestata per comporre la commissione di esame. Si avvicina e chiede spiegazioni: che cos’è questo industriarsi con quel foglio in mano? E cos’è quel foglio? Basta un’occhiata e appare chiaro che non si tratta di un appunto manoscritto, ma del documento con il timbro del Ministero, quindi si tratta di un elaborato originale destinato ad essere imbustato e presentato con la firma di un candidato alla commissione di esame. Colto sul fatto l’avvocato-commissario però non si perde d’animo e fa una cosa elementare: strappa il lembo del figlio con la firma del ministero, poi ci pensa su e fa a pezzi tutto il documento e se lo ficca in tasca. Momenti di caos. Mentre gli altri colleghi gli chiedono spiegazioni, lui arretra, volta le spalle e scappa. Fugge, se ne va in un altro padiglione, si cala nell’anonimato. Un episodio destinato a rimanere inesplorato, se non fosse per la decisione di un commissario-magistrato di mettere tutto nero su bianco, di denunciare quanto assistito. È l'inizio di una inchiesta condotta dal pool reati contro la pubblica amministrazione del procuratore aggiunto Francesco Greco, fascicolo affidato al pm Valter Brunetti. C’è un’ipotesi di reato abbastanza chiara: falso per soppressione, in relazione alla capacità del commissario di far sparire l’elaborato, nel tentativo di cancellare le tracce. Qualche mese di indagine e l’avvocato viene identificato e interrogato. Vicenda per molti versi amara, che ripropone il tema della correttezza delle prove di esame, mentre il presidente del Consiglio degli avvocati Francesco Caia assicura: «Speriamo sia un fatto isolato, appena avremo notizie ufficiali, interverremo in modo deciso».

Ed ancora.

Esame avvocato a Bari, la nipote candidata e lo zio commissario, scrive Giovanni Longo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 settembre 2015. La nipote candidata. Lo zio in commissione. Nulla di penalmente rilevante. Ma quella che appare una evidente incompatibilità, sancita dallo stesso bando, rappresenta, almeno in termini d’immagine, un’altra tegola sull’esame d’avvocato edizione 2014-2015. La candidata era tra i banchi della Fiera del Levante, insieme a centinaia di aspiranti avvocati, mentre suo zio (un magistrato in pensione), fratello di suo padre, faceva parte della Commissione. Già l’anno prima si era verificata la stessa situazione, nonostante l’incompatibilità per i parenti sino al quarto grado. Ma non finisce qui. Perché dagli atti interni alla Commissione d’esame che la «Gazzetta» ha potuto consultare, risulta che per entrambe le prove, il commissario ha fornito per le comunicazioni interne, un indirizzo di posta elettronica con il nome e cognome della nipote candidata. Questo non vuole dire che le comunicazioni interne fossero lette dalla candidata, sia chiaro, ma, all’interno della Commissione, la circostanza non è sfuggita. Tutte vicende che non sarebbero finite nel fascicolo aperto dalla Procura di Bari per fare luce sui presunti aiuti che alcuni candidati (tra loro non figura la candidata che aveva suo zio in commissione) avrebbero ricevuto. Sul fronte penale (ribadiamo zio commissario e nipote candidata non risultano coinvolti), l’estate che volge al termine, è stata di grande lavoro per i Carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Bari. I telefonini del cancelliere della Corte di appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell’Università di Bari Tina Laquale, indagati dalla Procura di Bari, iniziano a «parlare». Tracce delle prove scritte inviate via WhatsApp. Elaborati redatti in uno studio legale e poi consegnati a mano. Tecnologia e tradizione vanno a braccetto. L’inchiesta sui presunti «aiutini» che almeno una decina di candidati all’ultimo esame d’avvocato avrebbero ricevuto, si arricchisce di nuovi particolari. Santamaria e Laquale, ricordiamo, erano stati sorpresi durante la terza prova d’esame mentre nel quartiere fieristico si passavano di mano un plico contenente lo svolgimento del tema assegnato: la redazione di un atto giudiziario. Nella busta, pure un biglietto con nomi e destinatari. Dall’accertamento tecnico irripetibile disposto dal pm Luciana Silvestris, che coordina le indagini, sono giunte altre indicazioni utili per capire quali sarebbero state le modalità utilizzate per truccare la prova. Nel padiglione della Fiera del Levante ci sarebbe stato chi ha fotografato le tracce per poi inviare le foto all’esterno. Tramite WhatsApp. In uno studio legale, almeno Laquale, una sua stretta parente e un professionista avrebbero avuto il compito, codici alla mano, di scrivere gli elaborati. Da consegnare poi a domicilio. Nel mirino il ruolo che l’avvocato avrebbe avuto nella vicenda. Laquale si sarebbe messa in ferie proprio in concomitanza con la tre giorni di metà dicembre. Le ipotesi di reato, a vario titolo, sono: tentato abuso d’ufficio, violazione di una vecchia legge del 1925 sullo svolgimento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, e corruzione. Gli inquirenti sono al lavoro per capire se la presunta «collaborazione» rientrasse «solo» in un sistema più ampio di scambi di favori o se, come sospettano, fosse stata retribuita. Ovvero soldi in cambio di una prova impeccabile per superare l’esame.

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

Corruzione: ecco i dipendenti "infedeli" dell'Agenzie delle Entrate. Negli ultimi tre anni decine di impiegati e dirigenti sono finiti in carcere o ai domiciliari. Le operazioni più importanti delle Finanza, scrive Nadia Francalacci su “Panorama” il 24 settembre 2015. L'ultimo caso in Piemonte. Un commercialista, un dipendente dell'Agenzia delle Entrate, un funzionario di Equitalia. Come i Tre moschettieri, i tre professionisti erano uniti dall'idea di aiutare i contribuenti nei guai con il fisco ma solo in cambio di denari e favori. Così sono scattate ieri mattina, nei loro confronti, le tre ordinanze di custodia cautelare per corruzione, eseguite dalla Guardia di Finanza a Torino. Il terzetto è stato messo agli arresti domiciliari nelle stesse ore in cui le Fiamme Gialle del nucleo di polizia tributaria hanno eseguito 28 perquisizioni a carico di persone fisiche, aziende e studi professionali che a vario titolo avevano beneficiato dell'"aiutino". Gli indagati a piede libero sono diciassette. I contribuenti alle prese con le cartelle esattoriali o dei contenziosi con l'Erario si rivolgevano a uno dei componenti del gruppo, e in qualche modo riuscivano a chiudere la partita a loro favore. A dare il via all'indagine dei finanzieri è stata una segnalazione dell'Agenzia delle Entrate che parlava di dipendenti che si dedicavano a un "secondo lavoro" anche durante le ore d'ufficio. È così che, monitorando il tenore di vita degli indagati, gli investigatori hanno scoperto anche una serie di accessi anomali alle banche dati dell'amministrazione finanziaria scoprendo che erano tutti concentrati sui i clienti di uno studio di consulenza intestato alla sorella di uno degli indagati. Al centro di questa vicenda c’è un dipendente dell'Agenzia delle Entrate in servizio a Moncalieri (Torino), un funzionario Equitalia Nord e un commercialista. Ma negli ultimi tre anni sono decine i dipendenti o i dirigenti delle Agenzie delle Entrate ad essere arrestati per corruzione. Ecco le inchieste e gli arresti più importanti dal 2013 ad oggi.

Gli uomini del Comando Unità Speciali della Guardia di Finanza di Roma hanno arrestato, in flagranza di reato, per concussione, un funzionario dell'Agenzia delle Entrate della Direzione Provinciale di Roma 1 Trastevere e un noto commercialista della Capitale. Alle indagini ha collaborato la stessa Agenzia delle Entrate. Il commercialista, d'accordo con il funzionario, aveva preannunciato ad un imprenditore un controllo fiscale, e chiesto, in via preventiva, 12 mila euro per «ammorbidire» l'attività. La verifica, come da accordi, è stata effettuata da due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, con un accertamento che si è concluso con un verbale per violazioni amministrative per un importo di 258 euro.

10 dicembre 2014. A Ferrara si spartivano le tangenti. Li hanno arrestati in flagranza, con le mani su una tangente da 10.000 euro che si sarebbero dovuti spartire, un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Ferrara e un'altra persona che aveva fatto da intermediario con un imprenditore ricattato. Sono stati arrestati dalla Guardia di finanza per concussione, per aver preteso la tangente in cambio di un controllo blando in materia di studi di settore. L'imprenditore ha però denunciato le richieste.

17 ottobre 2014. 50 mila euro per non fare le verifiche fiscali. Mazzette dai ristoratori. È così che sono finiti in carcere funzionari dell'Agenzia delle Entrate di Roma. "50 mila euro per ammorbidire una verifica fiscale". Da mesi erano sotto indagine e già erano stati raggiunti da provvedimenti restrittivi ma solo dopo alcuni mesi i due ispettori sono stati arrestati dalla Guardia di finanza in esecuzione di un'ordinanza di custodia emessa dal gip, Simonetta D'Alessandro. All'operazione ha collaborato anche la Direzione generale del Lazio dell'Agenzia delle Entrate.

29 luglio 2014. 8 mila euro ogni 100 mila euro di tasse. Agenzia delle Entrate, arrestati due ispettori. Mazzette per “sconti” sulle tasse. Hanno chiesto una tangente tra i sette e gli ottomila euro a un ristoratore di Roma per ogni riduzione da 100mila euro sulla somma da versare al fisco. Erano intercettati da diverso tempo...

15 marzo 2015. Manette anche in provincia di Pesaro-Urbino. Ad Urbino un impiegato delle Agenzie delle Entrate finisce nei guai accusato di aver abusato della sua qualifica e delle sue funzioni. Le Fiamme Gialle di Urbino, in collaborazione con la Stazione di Acqualagna dell’Arma dei Carabinieri, hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di un impiegato dell’Agenzia delle Entrate che chiedeva tangenti per sistemare le 'pratiche'. L'impiegato aveva abusato della sua qualifica e delle sue funzioni, talvolta incutendo soggezione e timore, per ottenere vantaggi economici. In un’occasione aveva tentato di ostacolare un controllo fiscale che una pattuglia della Guardia di Finanza stava per fare nei confronti di un ristoratore, asserendo di aver eseguito lui, poco prima, un controllo con esito regolare.

16 luglio 2015. Due dipendenti coinvolti nelle truffe auto: E' successo a Castellammare. Truffa delle auto con 15 indagati, due sono funzionari dell'Agenzia delle Entrate. Si è trattato di una maxi truffa ai danni dello Stato che utilizzando il traffico di auto dall'estero per evadere l'Iva, permetteva all'organizzazione di rivendere vetture usate a prezzi più competitivi. Un giro di automobili acquistate all'estero da società di noleggio - dunque esenti da Iva - che poi le rivendevano immediatamente a concessionarie della zona, evadendo due volte le imposte. L'ipotesi è che la truffa avvenisse con la complicità e la corruzione di due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, in collaborazione con finte società e reali concessionarie auto, con basi a Castellammare e ramificazioni nel Lazio e in Veneto.

15 settembre 2014. Impiegato corrotto condannato a risarcire. Mazzette all'Agenzia delle Entrate, impiegato condannato al risarcimento. Il dipendente era riuscito a creare un sistema grazie al quale "cancellare" i debiti con il fisco, attraverso il pagamento di una quota pari al 30%, di numerosi imprenditori. La Corte dei Conti lo ha condannato al pagamento di 50 mila euro.  Il protagonista della storia è Umberto Giambertone, 66 anni, finito nel 2007 al centro di un'operazione della guardia di finanza che aveva accertato un sistema volto alla cancellazione dei debiti con il fisco a seguito del pagamento di una quota pari al 30% dell'importo dovuto.

23 luglio 2013. Cesti natalizie e denaro per chiudere gli occhi. San Severo viene arrestato impiegato Agenzia delle Entrate. L'uomo avrebbe intascato denaro contante per 500 euro per non comminare una sanzione. Protagonista un impiegato dell’Agenzia delle Entrate di 63 anni che dovrà scontare un anno ed un mese di detenzione domiciliare perché responsabile di concussione. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, a seguito di una verifica ad un commerciante di Apricena, era emerso che questi aveva impiegato la moglie irregolarmente e pertanto era incorso in una sanzione di 15mila euro per evitare la quale, l'impiegato ed il suo collega, avevano ricevuto la somma di 500 euro e due cesti natalizi.

14 aprile 2014. L'impiegata "cieca" di Padova. Per tangenti viene arrestata dipendente dell'Agenzia delle Entrate a Padova.  L'impiegata, 60enne in servizio nella sede di via Turazza, avrebbe promesso a un imprenditore della provincia di rallentare l'iter delle cartelle esattoriali.  Per questo avrebbe intascato 16mila euro. L'accusa è di concussione.

Taormina 4 gennaio 2013. Incastrato mentre chiedeva tangenti alle palestre. Impiegato di Taormina dell'Agenzia delle entrate chiede mazzetta e viene arrestato per concussione. L'uomo è accusato di avere chiesto e ottenuto 800 euro (200 di anticipo, 600 a scampata denuncia) dal proprietario di diverse palestre. Gli è andata male. A incastrarlo sono state le immagini registrate da una telecamera nascosta.

A Caserta "cancellava" le tasse. Un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Caserta, è stato arrestato dai militari della Guardia di Finanza con l'accusa di essere entrato abusivamente nel sistema informatico della stesa Agenzia delle Entrate per "provvedere" alla regolarizzazione di omessi versamenti o azzerando sanzioni di un imprenditore. L’impiegato avrebbe arrecato un danno all'erario pari a 115 mila euro.

I casi di assenteismo dei dipendenti pubblici. Il malcostume di assentarsi dal luogo di lavoro per dedicarsi a fatti propri o addirittura per svolgere una seconda attività lavorativa risulta più facile da essere smascherato grazie ai sistemi di telecamere e videosorveglianza. Sono una consuetudine positiva le denunce delle forze dell'ordine che mirano a difendere i contribuenti sia dal punto di vista economico sia da quello dell'efficienza del servizio pubblico. Ricordando che l'assenteismo è un reato indicato dal codice penale come truffa più o meno aggravata ai danni dello Stato punita con la reclusione fino a cinque anni.

Ma a quanto ammontano le assenze dei dipendenti pubblici? Nel 2013 i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenza retribuita, 6 in più rispetto a quelle stimate nel mondo Confindustria per gli impiegati nelle aziende con più di 100 addetti (il gruppo più comparabile al pubblico impiego). Dai dati del Conto annuale della Ragioneria dello Stato riferiti al 2013, si evince inoltre che nel settore pubblico ai 10 giorni di assenza pro capite per malattia, se ne sono aggiunti 9 di assenze retribuite. Un assenteismo pubblico che in totale tocca la soglia del 46,3%, ben più alto dei 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine di Confindustria. Ma se il livello di assenze del settore pubblico venisse portato al pari di quello del privato si potrebbero risparmiare oltre 3,7 miliardi per minore fabbisogno di personale. Stima ottenuta dal Centro studi di Viale dell’Astronomia, applicando alle uscite pubbliche per costo del lavoro nel 2013 il differenziale di assenze pubblico-privato, in rapporto al monte giornate lavorative. A parità di costi quindi un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza dei servizi.

Dipendenti pubblici, 220 i licenziati in un anno: la metà per assenze. Quasi 7mila i procedimenti disciplinari avviati nei confronti del personale. In tanti (35%) cacciati per reati, scrive TGcom24. Duecentoventi dipendenti della Pubblica amministrazione sono stati licenziati nel 2013 in seguito a procedimenti disciplinari avviati nei loro confronti, 6.900 in tutto. Secondo i dati riportati sul sito della Funzione pubblica, quasi la metà dei provvedimenti sfociati appunto nel licenziamento sono dovuti ad assenze ingiustificate o non comunicate nei tempi previsti. Tra le motivazioni, ai 99 licenziamenti legati alle assenze seguono i 78 connessi a reati (il 36%), i 35 causati da comportamenti non corretti verso i superiori o i colleghi, da negligenza e inosservanza degli ordini di servizio (il 16%). Completano il quadro le uscite dovute al fenomeno del cosiddetto doppio lavoro, attività extralavorative non autorizzate (7, pari al 3%). Se si guarda, sempre con riferimento all'operazione dell'Ispettorato, ai diversi settori, il maggior numero di licenziamenti si osserva per scuole (81) e ministeri (66). Rispetto all'anno precedente la cifra complessiva risulta pressoché stabile (223 erano stati i licenziamenti nel 2012), ma allora la ragione principale per l'interruzione del rapporto di lavoro era collegata ai reati, che spiegavano il 47% dei licenziamenti (le assenze dal servizi erano al 29%). Sempre i reati erano il motivo di quasi la metà delle interruzioni del rapporto di lavoro nel 2011, quando però il numero complessivo di licenziamenti disciplinari risultò più alto (288). I procedimenti non sfociano comunque soltanto nei licenziamenti. Si possono concludere anche con una sospensione: di giorni, ma anche di mesi, in cui il dipendente viene privato della retribuzione. In tutto le sospensioni sono state quasi 1.400 nel 2013, sempre stando ai dati del sito della Funzione pubblica (aggiornati a gennaio). Il totale dei procedimenti disciplinari (6.935 quelli avviati e 6.302 quelli conclusi) si chiude quindi in un quarto dei casi con l'adozione di sanzioni gravi, quali sono considerate il licenziamento o la sospensione, fa notare l'Ispettorato nella sua relazione sull'attività condotta nel 2013. I dati emersi, sottolineano all'Ispettorato, segnalano un numero di procedimenti conclusi con sanzione grave, appunto circa il 25%, "stabile" nell'ultimo triennio (con la stragrande maggioranza corrisponde a sanzioni piuttosto che a licenziamenti).

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Dipendenti pubblici, l’insopportabile scandalo dell’assenteismo, scrive Giancarlo Marcotti. La notizia la conoscete tutti, diciassette persone, dipendenti del servizio ospedaliero di Pizzo Calabro denunciate per assenteismo, ufficialmente erano al lavoro, nella realtà …Ma la cosa più scandalosa non è tanto che le persone timbravano il cartellino e poi se ne andavano per i fatti loro, questo succede ogni giorno a Pizzo Calabro come in tutte le strutture ospedaliere d’Italia. La cosa più scandalosa è che tutto ciò viene alla luce perché cittadini esasperati per le inefficienze del servizio pubblico protestano e dopo aver portato le loro istanze alla dirigenza della struttura pubblica coloro che hanno responsabilità dirette cosa fanno? Nulla! Non fanno nulla probabilmente per paura, perché se si fossero azzardati a prendere qualche provvedimento avrebbero rischiato la loro pelle, e perché “da sempre va così”. La cosa più scandalosa è che le misure cautelari “sono frutto di una complessa attività d’indagine coordinata dal sostituto procuratore Vittorio Gallucci”, ma quale “complessa”? Riflettete un attimo, cosa c’è di “complesso” nell’accertarsi che delle persone che dovrebbero essere al lavoro, dopo aver timbrato il loro cartellino vanno invece per fatti propri? Anzi la maggior parte delle volte non si sono neppure presi la briga di andare a timbrare il cartellino perché ci ha pensato un collega! Lo scandalo è che si viene a sapere (anzi ce lo dicono gli stessi Carabinieri!) che le indagini sono iniziate nel giugno del 2012!!! E cosa ci son voluti? Due anni? Due anni per vedere che le persone non andavano al lavoro? Ed a noi quanto ci son venuti a costare due anni di indagini dei Carabinieri? Quanto ci è costato in personale dell’Arma impiegato per queste “indagini” e quanto in telecamere ed attrezzature varie? Lo dico perché sapete come va a finire nella migliore delle ipotesi? Va a finire che tutte le persone denunciate rischiano “al massimo” la “sospensione di due mesi dal lavoro”, avete capito? Non il carcere, non il rimborso di tutto quanto truffato allo Stato e sarebbero decine di migliaia di euro in stipendi percepiti senza prestare alcuna attività, non il licenziamento! No nulla di tutto questo! Soltanto la sospensione per due mesi e poi di nuovo tutti al loro posto a riprendere a fare (cioè a non fare) quel che facevano prima!!! Questo è lo scandalo!!! Queste persone, invece, dovrebbero finire in galera, e poi, una volta usciti, avere il divieto assoluto di venire impiegati nuovamente in una struttura pubblica, se c’è un privato che li vuole assumere … buon per loro, altrimenti che vadano a trovare un posto all’estero, capiranno così che da altre parti si incassa uno stipendio soltanto dopo aver lavorato. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica, cari lettori, bisognerebbe riferirsi soprattutto a questo, quante persone in Italia “rubano” uno stipendio? I tagli alla Sanità sono un tabù? Macché! Se tagliassimo metà del personale nessuno se ne accorgerebbe! E cosa dire degli sperperi? Dei pasti per i degenti che in alcune strutture ospedaliere costano dieci volte di più che in altre? Questo è il vero scandalo in Italia. Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Funzionari pubblici, tutti gli illeciti. Il caso degli affitti a sette euro. Il rapporto della Guardia di Finanza sui primi sei mesi del 2015: un buco da oltre tre miliardi di euro su sanità, Ferrovie e corsi di formazione, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In appena sei mesi hanno sottratto allo Stato oltre tre miliardi di euro. Sono 4.835 dipendenti pubblici che hanno rubato o sperperato i soldi della collettività. Funzionari, medici, politici, impiegati di primo livello: tutti citati adesso in giudizio dalla Corte dei conti, chiamati a restituire il maltolto. È il rapporto della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015 a rivelare quanto profondo sia il «buco» nei conti causato dai lavoratori infedeli. Con un dato che fa impressione: più di un miliardo di euro è stato perso con la cattiva gestione del patrimonio immobiliare. Case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti rappresentano la voce più consistente della relazione. Sono 1.290 le segnalazioni inviate dalla magistratura ordinaria o direttamente dagli stessi finanzieri ai giudici contabili. I numeri dimostrano come nei primi sei mesi di quest’anno ci sia stata una vera e propria impennata con contestazioni pari a un miliardo e 357 milioni di euro, il 13 per cento in più di tutto il 2014. Vuol dire che aumenta il malaffare, ma anche che l’attività di controllo delle Fiamme gialle diventa più incisiva, si concentra in quei settori ritenuti maggiormente a rischio rispetto alla possibilità di un arricchimento personale. Le accuse per i dipendenti pubblici sono corruzione, concussione, truffa, ma anche turbativa d’asta, appropriazione indebita, abuso d’ufficio. Nell’elenco compare anche chi, per inerzia o incapacità ha provocato un disservizio e quindi deve essere sanzionato. Sono migliaia gli immobili dai quali lo Stato potrebbe ricavare guadagno e invece si trasformano addirittura in un costo. Un capitolo a parte riguarda le case popolari. Da Lecce ad Aosta i finanzieri sono impegnati in indagini e verifiche per stanare i morosi e tutti i privati che versano canoni irrisori. Perché in questi casi bisogna accertare se si tratti esclusivamente di cattiva gestione o se, come è stato scoperto in Puglia, la concessione dell’immobile sia in realtà una contropartita, ad esempio per ottenere voti alle elezioni. I casi sono diversi, la somma provoca una voragine nei conti. C’è il Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro, ma c’è anche il direttore dell’Agenzia territoriale di Asti noto per l’accusa di aver sperperato 9 milioni di euro. È ancora in corso la verifica sulle case del Comune di Roma affittate a sette euro al mese, e quella sul patrimonio dell’Inps, ma è già finita l’indagine sul Comune di Nepi, in provincia di Viterbo, dove «reiterati episodi di “mala gestio” tramite una serie di artifizi, raggiri e ammanchi di cassa al patrimonio» avrebbero causato un danno di un milione e 200 milioni di euro». Quello della sanità si conferma un settore dove continuano sprechi e abusi, non a caso in appena sei mesi il danno contestato supera gli 800 milioni di euro. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno aperto 264 pratiche, 2.325 sono le persone denunciate o arrestate. Un accertamento svolto in 18 Regioni dal «Nucleo speciale spesa pubblica» della Finanza ha consentito di individuare 83 dirigenti medici che hanno provocato un danno al servizio sanitario di 6 milioni di euro. Due le contestazioni principali: «Mancato rispetto degli obblighi di esclusività delle prestazioni da parte dei dirigenti medici per aver accettato incarichi extraprofessionali non autorizzati preventivamente dall’ente di appartenenza e impiego presso altre strutture private convenzionate». All’ospedale di Gallarate, in provincia di Varese, è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro a ben 36 milioni per poter - questa è l’accusa per i manager dell’azienda sanitaria - ricavare una sostanziosa «cresta». La creatività nel settore della Pubblica amministrazione evidentemente non ha limiti. E così è diventato un caso da manuale quello del dipendente di un ente di Catanzaro che per sette anni ha percepito stipendio e pensione. Pochi giorni dopo essere stato congedato per limiti d’età e aver cominciato a incassare l’assegno dell’Inps «ha presentato domanda di riammissione in servizio presso la sua azienda confidando che le esigenze di organico gli avrebbero consentito di tornare immediatamente al proprio posto, cosa che è effettivamente accaduta». Il problema è che nessuno tra i dirigenti si è preoccupato di segnalare la nuova assunzione all’Istituto previdenziale e l’uomo ha incassato illecitamente ben 700 mila euro. Quello dei mancati controlli è uno dei problemi che emerge con evidenza nel dossier della Guardia di Finanza perché provoca danni immensi. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia con 47 milioni di euro sprecati tra il 2006 e il 2011 per corsi di formazione finanziati con soldi pubblici e in realtà mai svolti. Emblematico è il caso scoperto a Bari dove i manager delle Ferrovie Sudest hanno speso 912 mila euro per l’acquisto di 25 carrozze passeggeri, le hanno rivendute a una società polacca «incaricata di eseguire interventi di ristrutturazione per 7 milioni di euro» e qualche tempo dopo hanno deciso di riacquistarle a 22 milioni e mezzo di euro provocando un danno alla società pubblica che la Corte dei conti ha stimato in oltre 11 milioni di euro. 

Il ministro dell'Economia, critica i sindacati: "Mi pongo una domanda. Cosa ha bloccato il Paese? Sono due decenni che questo paese è bloccato. La responsabilità è diffusa, forse anche dei sindacati. Il Governo sta sbloccando il Paese che va sbloccato altrimenti rischiamo grosso". Lo ha detto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan nel corso di "In mezz'ora" su Rai tre del 19 ottobre 2014.

“Il sindacato in Italia mediamente è stato un fattore di ritardo: ha fatto ritardare tanto l’efficienza e la competitività complessiva del Paese”: l’ultimo affondo ai rappresentanti dei lavoratori arriva dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Rispondendo ad una domanda sulla richiesta di lavoro a Ferragosto da parte dell’Electrolux alla Festa dell’Unità di Milano il 28 agosto 2015, il numero uno degli industriali italiani ha detto: “Un sindacato moderno dovrebbe avere la capacità di rispondere in tempi utili perché non si perdano opportunità di lavoro”, in riferimento allo stabilimento dei frigoriferi che ha faticato a trovare operai per aprire le linee produttive in pieno periodo di ferie. Ma quella sull’Electrolux non è l’unica critica che Squinzi muove alle sigle sindacali. “In un’epoca in cui l’economia si muove a una velocità supersonica il fatto che ci si possano mettere quasi due anni per poter scrivere un accordo specifico sulla rappresentanza, che è un fattore di democrazia, non è il modo giusto di fare le cose”.

Siamo ostaggio dei sindacati. Roma e Pompei, le rovine d'Italia. Disagio nei trasporti e assemblee sindacali bloccano il turismo, scrive Laura Eduati su L'Huffington Post del 24/07/2015. Cittadini esasperati nella lentezza dei trasporti romani, turisti impossibilitati ad ammirare le bellezze di due perle della storia dell'arte mondiale, Pompei e il Colosseo, a causa di una assemblea sindacale improvvisata che ha lasciato i visitatori sotto il sole, increduli.

Dopo la Grande Bellezza, il grande caos. In primo luogo il caos urbano di Roma, una città provata dopo settimane di disservizi dell'Atac, la rete dei trasporti che Ignazio Marino vuole ora privatizzare nella speranza di evitare il fallimento e nell'ottimismo di migliorare un servizio ormai colabrodo, africano. Dopo scioperi bianchi, vagoni bloccati nel tunnel senza aria condizionata, treni della Roma-Lido che sono ridotti a 3 su 12 per i guasti e la mancanza di manutenzione, questa mattina è esplosa l'ultima rivolta dei passeggeri contro un macchinista che stava tenendo fermo il treno lungo la linea B della metropolitana, all'altezza di San Paolo. Nelle stesse ore, a Pompei, i turisti trovavano le porte chiuse per tutta la giornata. Causa: assemblea sindacale. Una "assemblea selvaggia", ha ammesso in serata la Fp Cgil nazionale. E difatti nessuno era stato avvisato: né i tour operator, né i duemila visitatori arrivati con la canicola sognando di ammirare uno dei siti archeologici più affascinanti del pianeta. "Un danno incalcolabile", tuona il ministro Franceschini. Non è la prima volta che succede, e l'effetto è boomerang: difficile trovare qualcuno che simpatizzi con i lavoratori di Pompei, così come è impresa ardua scovare un moto di simpatia per i dipendenti dell'Atac. Soltanto 24 ore prima, il Colosseo era rimasto chiuso per tre ore, sempre per una assemblea sindacale: i dipendenti sono scontenti del fatto che l'organico è stato ridotto da 27500 a 17500 unità, "siamo al di sotto della spending review" e le ragioni per organizzare una lotta sindacale non mancano, eppure anche questa chiusura è parsa all'opinione pubblica un capriccio, un uso privato di luogo pubblico. A sentire gli autoferrotranvieri romani, nemmeno a loro mancano le ragioni dello scontento. "Prima dell'inserimento del badge potevamo fare straordinari coprendo le mancanze di personale, ora siamo costretti a fare un lungo turno di lavoro senza pause e dunque forzatamente mancano corse, non ci sono bagni nel capolinea, l'Atac ha acquistato nuovi treni che rimangono nel deposito perché mandano in black out la linea, succhiano molta più energia dei treni vecchi che comunque sono malandati", ci dice tutto d'un fiato un macchinista della linea B della metropolitana che naturalmente preferisce rimanere anonimo. È uno sfascio, soprattutto quello del trasporto romano, che riflette la malagestione di decenni e la penuria di soldi per un solido investimento: l'azienda è sull'orlo del fallimento. Eppure la rabbia dei cittadini si scarica, unicamente, sul singolo macchinista che in quella tratta guida un treno improvvisamente fermo: non è mai chiaro se si tratta di un guasto, di un sottile sabotaggio, di un "atto di pignoleria" come lo chiama il macchinista intervistato, e cioè "siccome l'Atac fa la pignola con il badge, allora noi siamo pignoli con i turni di lavoro e lo stato dei mezzi che guidiamo". Il New York Times è soltanto l'ultimo di una serie di prestigiosi quotidiani che mette il dito nella piaga: Roma, la bellissima Roma, è prigioniera della spazzatura, della protesta dei macchinisti e del malgoverno. Ma basta sfogliare qualsiasi giornale romano per leggere costantemente titoli che portano a uno sconforto estremo: "Mafia capitale, altri 2 arresti: erano fuggiti a Santo Domingo" oppure "Toppe per le buche: la procura indaga sulla truffa del bitume". O anche: "A Trastevere la raccolta differenziata è un flop". Non c'è molto altro. Non è soltanto sciopero selvaggio ma è la sfaldatura di un patto sociale, anche nel conflitto. Ognuno per sé, a volte con ottime ragioni, ma utilizzando modalità personalistiche, incuranti delle conseguenze, senza regole. Si salvi chi può.

Ora Renzi attacca i sindacati: "Scioperi fanno male all'Italia". Il premier (finalmente) all'attacco: "Nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea o allo sciopero, ma bloccare vacanze e turisti fa male all’Italia". Ma cosa intende fare per disarmare i sindacati? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. "Vedere che dopo tutto il lavoro fatto per salvare il sito e quindi i posti di lavoro a Pompei un’assemblea sindacale blocca all’improvviso migliaia di turisti sotto il sole o vedere che dopo le nottate insonni per coinvolgere Etihad e evitare il fallimento di Alitalia, gli scioperi dei lavoratori di quell’azienda rovinano le vacanze a migliaia di nostri concittadini, fa male". Matteo Renzi (finalmente) alza la voce e si scaglia contro i sindacati che sabotano le vacanze degli italiani e il mercato del turismo italiano. Alitalia e Pompei sono lo specchio di un Paese disastrato. Da una parte i cancelli chiusi agli scavi di Pompei per un'assemblea dei sindacati che ha provocato danni economici gravissimi per turisti e tour operator non avvisati dell'improvviso cambio di programma delle rappresentanze sindacali. Dall'altro lo sciopero di 24 ore dei piloti e assistenti di volo Alitalia proclamato dall'Anpac che ha provocato decine di voli cancellati e l'ira dei viaggiatori, da Linate a Fiumicino. Due gravissimi disagi che vanno a colpire indiscriminatamente il settore turistico, che dovrebbe essere uno dei veri motori della nostra economia. "Intendiamoci, per evitare le polemiche di domani - dice il premier sulla E-news - nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea sindacale o allo sciopero. Sono diritti sacrosanti. Ma c’è anche bisogno di buon senso e di ragionevolezza, di responsabilità e di rispetto". E passa all'attacco: "In un momento come questo tenere migliaia di turisti venuti da tutto il mondo, sotto il sole per un’assemblea sindacale a sorpresa significa volere il male di Pompei. Significa fare il male di Pompei". "Io non ce l’ho con i sindacati - incalza - ma se continua così dovremo difendere i sindacati da se stessi. L’assemblea di ieri a Pompei, in quelle modalità, in quelle forme, è semplicemente scandalosa. Continueremo a lavorare per Pompei, nonostante loro". In realtà, davanto a una sindacatocrazia che sta uccidendo il Paese, Renzi parla ma non muove un dito.

Colosseo e Fori chiusi per assemblea. Marino: "Uno sfregio", Renzi: "No alla cultura ostaggio a sindacalisti". Scontro con la Camusso. Migliaia di turisti delusi. Il ministro Franceschini: "La misura è colma. Oggi in Cdm proporrò di inserire musei nei servizi pubblici essenziali". Scontro con la leader Cgil: "Si vuole togliere democrazia ai lavoratori?". Poi nel pomeriggio il titolare dei Beni culturali chiarisce: "Nessuno toccherà i diritti dei lavoratori". Verso sciopero nazionale su vertenza Beni culturali, scrive Viola Giannoli su "La Repubblica" del 18 settembre 2015. "Ora basta, la misura è colma". "Non lasceremo la cultura in ostaggio dei sindacalisti contro l'Italia". "Uno sfregio per il nostro paese". E' dura la reazione del ministro della Cultura Dario Franceschini, del premier Matteo Renzi e del sindaco di Roma Ignazio Marino dopo il nuovo stop, stamane, dei siti archeologici più importanti della Capitale per un'assemblea sindacale. E si accende lo scontro con le sigle dei lavoratori. A Roma sono rimasti chiusi per tre ore Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica con l'apertura slittata dalle 8.30 alle 11.30, al termine della riunione del personale di custodia, e migliaia di turisti rimasti a bocca asciutta. "Non si è trattato di chiusure ma solo di aperture ritardate. Siamo dispiaciuti per i disagi ma era impossibile vietare l'assemblea" convocata in maniera legittima, precisa la Soprintendenza. Il caso è arrivato nel pomeriggio in Consiglio dei Ministri. D'accordo con Renzi, il titolare dei Beni culturali proporrà all'esecutivo di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali. E Renzi twitta:"Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l'Italia. Oggi decreto legge #Colosseo#lavoltabuona".

Il primo cittadino. "Sono arrabbiato quanto il ministro Dario Franceschini - dice sulla sua pagina Facebook, il sindaco di Roma Ignazio Marino - E' vero la gestione del Colosseo dipende dallo Stato ma il Comune ha fatto tutti gli sforzi possibili per migliorare l'immagine nei confronti dei romani e nei confronti dei turisti. Lo abbiamo liberato dalle auto, da quella brutta immagine dei camion bar. Adesso lo dobbiamo liberare anche dai ricatti. E' il singolo monumento più visitato di tutto il nostro Paese. Il fatto che sia chiuso e che una persona che arriva da Sydney o da New York e aveva solo quel giorno per poter vedere il monumento millenario, è uno schiaffo in faccia alle persone e uno sfregio per il nostro Paese. Intollerabile".

Il sindacato. A rispondere è la leader della Cgil Susanna Camusso: "Strano paese quello in cui un'assemblea sindacale non si può fare. Capisco che uno possa dire di fare attenzione nei periodi di maggiore presenza turistica - ha spiegato il segretario generale - ma se ogni volta si dice che l'assemblea non si può fare allora si dica chiaramente che non si può avere uno strumento di democrazia. Servizio pubblico - ha concluso - non vuol dire che non si può avere la possibilità di fare assemblee o scioperi". "Lo abbiamo detto e lo ripetiamo - aggiunge il segretario generale della Cisl Annamaria Furlan - è sbagliato prendere in ostaggio i turisti come è accaduto oggi a Roma a causa di un'assemblea sindacale, tra l'altro autorizzata dalla dirigenza". Il problema "non si risolve con un decreto legge" o sollevando "polveroni mediatici contro il sindacato e contro i lavoratori". Cgil, Cisl e Uil, anzi, annuncia Claudio Meloni, coordinatore nazionale Cgil per il Mibact, preparano già una "serrata", stavolta nazionale, che certo riguarderà anche Roma, dove potrebbe sovrapporsi a quella dei dipendenti comunali in agitazione: "La vertenza sui beni culturali potrebbe portare ad uno sciopero nazionale e le dichiarazioni odierne del ministro Franceschini certo non aiutano. Cgil, Cisl e Uil hanno già avviato le procedure previste dalle legge. Iniziative analoghe avvengono in tutta Europa. Solo in Italia i diritti sono negati". E il sindacato romano aggiunge: "Tentano di stringere i diritti sindacali non riconoscendo ai lavoratori neanche la possibilità di riunirsi in assemblea autorizzata e comunicata secondo le norme. Vogliono chiuderci in servizi essenziali in cui non ci sono diritti dei lavoratori, che da mesi attendono invano. Diciamo che la misura è colma per noi".

Il Colosseo chiuso. Questa mattina intanto erano in migliaia davanti ai cancelli del Colosseo: un coda di visitatori che si è andata ingrossando di ora in ora. Alla riapertura dei cancelli c'erano più di tremila persone in fila o sedute a terra a bivaccare in attesa di poter visitare l'Anfiteatro Flavio. Altri turisti invece arrivati davanti all'ingresso hanno deciso di tornare indietro. L'unico avviso al Colosseo si trovava praticamente oltre il cancello. E su quello in inglese campeggiava anche un errore. La traduzione, infatti, parlava di chiusura "from 8.30 am to 11 pm", cioè le 23 di stasera. E tra i turisti è nata un po' di confusione. Altri, avvisati per lo più dai centurioni presenti sulla piazza per le foto, se ne sono andati rassegnati: "Ok, we have to come back later". Nessuno, prima di arrivare lì davanti, sapeva nulla, nonostante gli annunci anche sulla stampa. Un gruppo di turisti inglesi ha comprato ieri il biglietto sul sito internet per saltare la fila: "Potevano scriverlo almeno lì, ci saremmo organizzati", dicono. "Abbiamo giusto due giorni, Roma è grande, avremmo fatto altre scelte", lamenta una donna polacca. Colte di sorpresa anche le guide turistiche: "Certo, è una bella delusione per i turisti". Qualche confusione anche tra le forze dell'ordine, che lamentano di "non essere state avvertite".

Le ragioni della protesta. Le rappresentanze sindacali unitarie avevano annunciato la protesta per "discutere della gravissima situazione in cui si trovano i lavoratori del Mibact". In particolare, tra le denunce snocciolate oggi nell'assemblea che raccontano altamente partecipata: il mancato pagamento delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le centinaia di aperture straordinarie (dal primo maggio a quelle notturne) che rappresentano il 30% del salario; la mancata apertura di una trattativa per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici bloccato per la parte economica da molti anni; la decisione tutta politica di costituire, in accordo con il Comune di Roma e senza un minimo confronto con le parti sociali, una sovrastruttura burocratica come il Consorzio per la gestione dell'area centrale; la mancata apertura di un confronto sulla organizzazione del lavoro all'interno della Soprintendenza in grado di ristabilire un benessere organizzativo che possa riqualificare il lavoro, innalzare la qualità dei servizi offerti non trascurando la sicurezza del personale che vi opera e dei visitatori che affollano i nostri siti". Un problema nazionale secondo la Uil che racconta di riunioni sindacali in diverse parti d'Italia: "A Firenze per esempio hanno ritardato l'apertura tutti i musei di Palazzo Pitti. Ci è stato attribuito un organico totalmente insufficiente e stiamo chiedendo assunzione di personale che manca dappertutto".

"Assemblea legittima". Inoltre l'assemblea sindacale "era perfettamente legittima, richiesta l'11 settembre scorso e svolta nel pieno rispetto delle norme che regolano i servizi essenziali, preceduta da un comunicato stampa della stessa RSU che segnalava possibili disagi per i visitatori", dichiarano in una nota congiunta Claudio Meloni (Fp Cgil), Giuliana Guidoni (Cisl Fp) e Enzo Feliciani (Uil PA). "L'assemblea, proprio per ridurre al minimo i disagi dei visitatori, è stata calendarizzata ad inizio turno, ha comportato la chiusura per due ore e mezza al pubblico e alle 11 i cancelli sono stati regolarmente riaperti", spiegano i sindacati.

Le reazioni. "Per ovviare a questi problemi nel tempo adottammo soluzioni diverse, come affidarci ad un'associazione di ex carabinieri volontari" commenta Adriano La Regina, per 28 anni soprintendente archeologico a Roma. Una proposta a cui il Soprintendente speciale per il Colosseo Francesco Prosperetti replica: "Tutto è fattibile, ma vorrei evitare misure che abbiano un sapore provocatorio nei confronti dei lavoratori". Concordi Federalberghi e Assoturismo nel giudicare la chiusura dei monumenti un "grave danno di immagine alla città e al Paese". Mentre il Codacons spara alto: "In questi casi dovrebbe intervenire l'esercito per garantire l'apertura di siti e musei". "Non dubitiamo che le rivendicazioni dei lavoratori del settore siano legittime, ma le chiusure sono inaccettabili, uno schiaffo a chi visita il Paese e la capitale, che fatalmente si riproporrà" dicono in una nota congiunta Fabrizio Panecaldo dicono, capogruppo Pd di Roma Capitale, e Gianni Paris, delegato bilancio Città Metropolitana, che poi spiegano: "Oggi, però, per le carenze in organico del personale dei musei, che danno poi la stura al conflitto e alla chiusura della cultura, si potrebbe giocare un jolly: i dipendenti delle ex province a rischio esuberi possono essere formati e reimpiegati proprio presso i musei e le aree archeologiche. Senza dover assumere, e con personale che già percepisce stipendio, cioè a costo zero, l'Italia, il più grande museo a cielo aperto del mondo, non vivrebbe più simili figuracce periodiche".

La replica del ministro. "Nessuno vuole limitare il diritto dei lavoratori" a fare assemblee o scioperi. "Ma servono delle regole chiare". Lo ha detto il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, entrando a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri, in merito al decreto annunciato oggi dallo stesso ministro e dal premier Renzi.

Colosseo, i giornali non fanno sconti ai sindacati. Le notizie più importanti sui quotidiani di oggi, una breve rassegna della stampa nazionale. La chiusura del Colosseo e dei Fori Imperiali per un’assemblea è una delle principali notizie che spiccano sui giornali di oggi. Tutti risultano concordi nel condannare l’iniziativa sindacale che ha costretto migliaia di turisti a lunghe code. “Colosseo chiuso, interviene il governo” titola La Stampa evidenziando la reazione di Palazzo Chigi che tramite un decreto, di fatto, limita la possibilità di scioperare nei beni culturali, equiparandoli a servizi pubblici essenziali. La misura, approvata dal governo a poche ore di distanza dalla polemica, viene sottolineata anche dall’apertura de Il Messaggero "Colosseo chiuso, il pugno di Renzi". "Tutto il mondo politico applude, la Cgil parla di attacco alla democrazia", recita invece l’occhiello dell’apertura del Manifesto. Un gioco di parole poi, ispirato dalla frase con cui i gladiatori si rivolgevano dal centro dell’arena del Colosseo, emerge dalle colonne del Tempo “Morituristi te salutant”. E ancora, la scelta del Resto del Carlino: "Musei, scudo anti scioperi".

MORITURI(STI) TE SALUTANT. Custodi «imboscati». Ecco il Colosseo dei sindacati. Assunti come assistenti a vigilanza e accoglienza lavorano metà del tempo nell’amministrazione Alcuni sono sindacalisti: «È previsto dagli accordi», scrive Dario Martini il 20 settembre 2015 su “Il Tempo”. Il Colosseo due giorni fa è rimasto chiuso perché i custodi erano in assemblea sindacale. Tutto autorizzato e perfettamente in regola. Da un anno non prendono straordinari, il 25% dello stipendio. Accolgono fino a 30mila turisti al giorno e a turni di sette operatori alla volta. Ma i sindacati, che hanno organizzato e supportato la protesta, dimenticano un particolare. Un custode su quattro, assunto e inquadrato come «assistente all’accoglienza e alla vigilanza», ha scelto di svolgere mansioni amministrative per il 50% dell’orario di servizio. Semplificando, possiamo dire che hanno preferito la scrivania al gabbiotto. Ma partiamo dai numeri. In tutta la Soprintendenza ai Beni archeologici di Roma lavorano 650 persone, dagli archeologi ai tecnici, dagli impiegati fino ai custodi. Questi ultimi sono circa 300. Una settantina, come detto, ha optato per la migrazione verso una comoda poltrona. Restringendo questa fotografia al solo Colosseo, su 28 custodi sono 7 quelli che hanno scelto di lavorare al 50% in ufficio. Tre di loro sono sindacalisti mentre gli altri quattro sono iscritti al sindacato. Ovviamente, tutto nel rispetto delle regole, in base all’accordo tra sindacati e Soprintendenza siglato nel luglio 2009. Ecco cosa dice: «Il personale con profilo di "Assistente alla vigilanza, sicurezza, comunicazione, accoglienza e servizi al pubblico" ex Atm che su base volontaria aderirà all’innalzamento dell’orario di servizio al 71% svolgerà il proprio servizio con rotazione... su quattro turni settimanali» e «le attività svolte nell’ambito del progetto nazionale "utilizzazione assistenti tecnici museali oltre l’orario di lavoro per una migliore gestione dei modelli museali, archivisti e librari" verranno svolte per il 50% dell’orario di servizio». L’accordo permette che sia coinvolto «tutto il personale» e non solo gli ex atm. Inoltre, se si analizzano i curricula dei vincitori dell’ultimo concorso del 2009 (che nel Lazio infornò 80 custodi), si scopre che gran parte degli assunti è laureata in archeologia e conservazione dei beni culturali ed ha specializzazioni post-laurea. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che abbiano chiesto di essere spostati altrove. Irene Baroni è una di queste lavoratrici ed è anche rappresentante Rsu. Lavora al Colosseo e spiega i motivi della protesta: «Ritado dei pagamenti (le indennità di turnazione non retribuite), carenza di personale e mancato rinnovo del contratto». Baroni svolge, appunto, il 50% del suo lavoro negli uffici per la tutela del territorio. E lo rivendica: «Ci sono accordi sindacali che lo permettono. Molti di noi si "sdoppiano" in entrambi i compiti. Il problema non è questo, ma il fatto che l’organico è troppo basso. Al Colosseo siamo 28, dovremmo essere almeno il doppio». C’è anche chi propone di cambiare questa situazione. Sidney Journo, storico addetto alla vigilanza del Foro e iscritto all’Associazione Beni culturali, sottolinea come non «ci si possa più permettere dipendenti gestiti in maniera improduttiva, come i custodi che lavorano in uffici o che fanno le segretarie ai funzionari». Ciò non toglie, aggiunge Journo, che «il diritto del personale di riunirsi in assemblea sia sacrosanto. Il mancato pagamento delle turnazioni e le carenze di personale non sono più tollerabili». E i sindacati, intanto, cosa fanno? Cgil, Cisl e Uil proprio ieri hanno annunciato uno sciopero da attuare entro ottobre. I turisti sono avvertiti.

«Il problema? Scippatori guide abusive e bagarini». Il viaggio tra i lavoratori dell’Anfiteatro Flavio, scrive Alessio Buzzelli il 20 settembre 2015 su “Il Tempo". «Are you kidding me?» («mi state prendendo in giro?»), è ciò che ha esclamato ieri mattina Kate, turista americana di 27 anni, davanti al cartello che informava i turisti della chiusura del Colosseo, causa assemblea sindacale. In fila con Kate, oggi, ci siamo anche noi de «Il Tempo», novelli “turisti per caso”, con l’obiettivo di raccogliere le impressioni e i racconti di turisti e lavoratori sulla concitata giornata di ieri. E Kate è ben lieta di dirci la sua: «Sono venuta New York - racconta - per vedere il Colosseo e non potevo credere ai miei occhi. È incredibile che nessuno abbia informato i turisti con l’anticipo dovuto. Fortunatamente ho avuto la possibilità di tornarci, ma non tutti possono dire la stessa cosa». La fila per entrare nell’anfiteatro simbolo di Roma, oggi, scorre veloce e il clima è rilassato. Niente a che vedere con il caos di ieri, come ci racconta Carlos, uomo di mezza età originario di Siviglia, che come Kate è tornato al Colosseo dopo aver subito anche lui la beffa della chiusura “improvvisa”: «Ieri c’erano migliaia di turisti increduli e tra loro c’ero anch’io. Ho chiesto come fosse stato possibile che la chiusura non fosse stata comunicata per tempo e mi hanno risposto che su alcuni giornali italiani, invece, la notizia era stata data. Il problema è che un turista straniero, di solito, i giornali italiani non li legge». Un discorso che non fa una piega. Ma non tutti, ovviamente, la pensano così. È il caso di chi nel Colosseo ci lavora e ha partecipato alla tanto criticata assemblea sindacale. «Bisogna innanzitutto chiarire - spiega Cristina (nome di fantasia, come i seguenti), assunta da due anni - che quello di ieri non è stato uno sciopero, come erroneamente riportato da molti media, bensì una regolare e autorizzata assemblea sindacale di tre ore». Cristina dice il vero, perché in effetti l’assemblea era stata comunicata al Ministero una settimana fa e autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area archeologica. «Bisogna anche precisare che - puntualizza Francesco, addetto alla sicurezza - non si è trattato di chiusura ma di apertura ritardata, che è una cosa molto diversa. Tanto è vero che alle 11.30 tutto è stato riaperto». Più critico è Massimo, che al Colosseo ci lavora da venti anni: «I politici si sono scagliati contro di noi, ma hanno sbagliato obiettivo. Fuori da questi archi è una terra di nessuno, tra guide abusive, bagarini che vendono al turista ignaro biglietti a prezzi maggiorati e borseggiatori che imperversano. Tutte cose arcinote che vanno avanti da anni. Non mi risulta però che chi oggi ci critica tanto abbia mai fatto nulla in proposito». Sulle responsabilità circa la mancata comunicazione della chiusura interviene invece Patrizia, la quale sostiene che «l’obbligo di comunicare cose come queste spetta ai funzionari della Soprintendenza e non alle rappresentanze sindacali, che hanno comunque comunicato l’assemblea con i mezzi a disposizione. Cioè con cartelli e affissioni varie. Noi lavoratori - chiosa la donna - non possiamo occuparci anche di questo». «Non ci pagano il salario accessorio da gennaio! – rincara la dose Fabrizio. Capite? Da ben otto mesi non percepiamo il salario che ci spetta e non avremmo nemmeno il diritto di fare una legittima e regolare assemblea?». La domanda è chiaramente retorica, come lo è quella di Silvia, che, unendosi alla discussione si chiede: «Perché tutto quello che riguarda il Colosseo diventa sempre un caso enorme? Tutti i lavoratori d’Italia indicono le proprie assemblee sindacali, non capisco perché noi non potremmo. So bene che parliamo di uno dei monumenti più famosi del mondo, ma non facciamo queste cose per nuocere a qualcuno. Vogliamo solo informare le istituzioni dei problemi che riguardano il sito». Quali siano questi problemi lo spiega bene Massimo: «Quello principale è che l’organico non è sufficiente per gestire le migliaia di turisti che vengono qui tutti i giorni di tutto l’anno. Siamo pochi e male organizzati. Tra poco ci sarà il Giubileo e i visitatori saranno ancora di più: per questo chiediamo un nuovo piano di assunzioni». «Noi lavoratori - prosegue - siamo i primi a ribadire la grande importanza che il patrimonio storico-archeologico ricopre per una città come Roma. E questo lo dimostriamo ogni giorno lavorando con serietà e professionalità. Un’assemblea di tre ore non può svilire il nostro lavoro quotidiano».

Il caravanserraglio del Colosseo. Altro che sindacati, il monumento è a tutte le ore ricoperto di abusi di ogni risma, scrive “Roma fa Schifo”. Il sindaco Ignazio Marino dice: "abbiamo fatto tanto per rendere più bello il Colosseo, ora non possiamo subire il ricatto dei sindacati". Belle parole. Ma è tutto vero? L'amministrazione ha fatto tanto, questo va ammesso. Dopo decenni non c'è più una bancarella di monnezza di fronte all'Arco di Costantino, non c'è più un banchetto di paccottiglie cinesi di fronte alle Colonnacce del Foro di Nerva, non c'è più un fruttarolo in mezzo ai Fori Romani. Ma proprio per questo, proprio per essere riusciti a togliere dalle palle cotanta schifezza, che è assurdo poi cedere a tutto quello che è venuto dopo. Già, perché al di là delle proteste sindacali, al Colosseo e ai Fori una volta mandata via una anomalia (camion bar e urtisti, oltre che macchine di passaggio), si sono sostituite altre anomalie. Ancor più gravi perché per lo più abusive, aggressive. Rimane l'annoso problema dei gladiatori, ma sempre più brutti, sempre più aggressivi, sempre più fastidiosi, sempre più di cattivo gusto e fuori luogo. C'è la faccenda dei venditori di acqua. Ci sono i risciò, un autentico cancro criminale che opera (la scusa delle cooperative per reinserimento di detenuti) con le stesse modalità che hanno reso Buzzi un gigante dell'imprenditoria. C'è poi lo scempio notturno, quando i controlli (serrati durante il giorno, ma solo rivolti ai vucumprà visto che le altre modalità - gladiatori e risciò appunto - sono sul crinale tra legale e illegale) praticamente scompaiono. Il Colosseo diventa sfondo di una squallida discoteca a cielo aperto. Il ritmo tuzzettaro degli stereo dà il ritmo a improvvisati pittori che con velenosissime bombolette spray performano su pezzi di carta acetata realizzando paesaggi trash da vendere a 10€ cadauno. Di fronte alla metro, sotto l'Anfiteatro, negli slarghi del cantiere della Linea C. Almeno tre postazioni, seguitissime. Ci sono poi i lanciatori di girandole luminose, i venditori di stick di selfie sempre più lunghi e pericolosi (ne riparliamo al primo spiedino). E poi i risciò stessi, che non mollano neppure dopo il tramonto. Questo sarebbe il Colosseo pronto per il Giubileo? Il Colosseo che l'amministrazione Marino ha riconsegnato ripulito alla città? Non basta, caro sindaco, l'aver eliminato i camion bar (sperando che il Tar ad ottobre non faccia scherzi). Non basta affatto se poi non riesci, in mesi e mesi, a sistemare uno scempio come quello ad esempio dei risciò. Non basta se poi non presidi il cambio della normativa per quanto riguarda i venditori di opere "del proprio ingegno". Normativa atroce che permette a chiunque di vendere e realizzare proprie opere in mezzo alla strada occupando suolo pubblico. 

Me lo merito un Rolex?”. Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa.

In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e,  distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara.  E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.

Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.

Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.

Delitto Meredith, così la Cassazione: «Mancano prove oltre ogni dubbio». Le motivazioni che hanno portato all’assoluzione di Knox e Sollecito: «Frutto di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni», scrive la Redazione online de “Il Corriere della Sera” il 7 settembre 2015. A carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito - accusati dell’omicidio di Meredith Kercher - manca un «insieme probatorio» contrassegnato «da evidenza oltre il ragionevole dubbio». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione dei due ex fidanzati depositate stamani dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte. «Il processo - è scritto nelle motivazioni - ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine». È un dato «di indubbia pregnanza» a favore di Knox e Sollecito - «nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola» - la «assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. I Supremi giudici - nella sentenza 36080 di 52 pagine - rilevano che sul luogo del delitto e sul corpo di Meredith sono «invece state rinvenute numerose tracce riferibili al Guede», il giovane ivoriano condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l’omicidio «in concorso», con il rito abbreviato. Per quanto riguarda il gancetto del reggiseno della vittima, i Supremi giudici rilevano che la «sola traccia biologica» rinvenuta su tale gancetto non offre «certezza alcuna» in ordine alla sua «riferibilità» a Raffaele Sollecito «giacché quella traccia - sottolinea la Cassazione - è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talché si tratta di elemento privo di valore indiziario». Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali defaillance investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali «colpevoli omissioni», si sarebbe «con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità» di Knox e Sollecito rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia il 1 novembre 2007. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l’omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza rileva che la calunnia è stata confermata dalla stessa Knox in un contesto «immune da anomale pressioni psicologiche». Per questo «una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea favorevole» al ricorso nel quale la Knox ha denunciato «un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti», non potrebbe «in alcun modo scalfire» il definitivo passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza per la calunnia, «neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al Lumumba, per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche». Inoltre tali accuse - prosegue la Cassazione - «sono state confermate anche nel memoriale» firmato dalla Knox «in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con se stessa e la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da condizionamenti ambientali».

Meredith, la Cassazione. «Tanti errori nelle indagini», scrive Margherita Nanetti su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L'inchiesta sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è afflitta da "colpevoli omissioni" nelle indagini, condotte con "deprecabile pressapochismo", ed inoltre le prove genetiche – nel processo indiziario imbastito a carico della giovane americana di Seattle Amanda Knox e del suo ex fidanzato pugliese, Raffaele Sollecito - sono state "acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali". Nulla di quanto raccolto è in grado, dunque, di provare la colpevolezza "oltre ogni ragionevole dubbio". E’ questo il giudizio severo della Cassazione sull'operato degli inquirenti che si sono occupati del delitto – che rimane un caso irrisolto – avvenuto a Perugia il primo novembre del 2007, nell’abitazione di Via della Pergola dove quattro ragazze, due italiane e due straniere, convivevano quando Metz venne uccisa da più colpi di arma da taglio, soffocata dal suo stesso sangue mentre qualcuno, rimasto senza nome e a piede libero, le tappava la bocca mentre infieriva. Ad avviso della Suprema Corte, non è possibile altra soluzione che assolvere Amanda e Raffaele, come deciso lo scorso 27 marzo, dopo una altalena di verdetti. "Sono molto sollevata e contenta", ha detto a botta calda la Knox. "Emerge chiaramente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario", ha dichiarato Sollecito. Vincitrice della partita è senz'altro Giulia Bongiorno, il legale di Raffaele, alla quale la Cassazione riconosce di aver fornito "analisi ben più affidabili, ancorate a dati fattuali incontrovertibili" rispetto alle "approssimazioni" degli inquirenti, ad esempio sull'orario del delitto. E’ probabile – ricostruisce la Cassazione – che Amanda fosse in casa e che abbia sentito il terribile urlo di Metz, per poi essere raggiunta da Raffaele. Ma non si può andare oltre questa ipotesi dato che non c'è nessuna loro impronta genetica sulla scena del crimine. Anche se i loro alibi sono un pò pasticciati, sarebbe inutile un ennesimo processo: le perizie non possono essere ripetute per l’insufficienza del materiale genetico e i pc sequestrati sono andati distrutti per le "improvvide manovre degli inquirenti". L'unico condannato con rito abbreviato per omicidio in concorso con ignoti, resta l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando sedici anni. Tra le tante pecche, la Cassazione segnala che i due oggetti di "maggiore interesse investigativo", un coltello da cucina e il gancetto del reggiseno della vittima, sono stati il primo conservato "in una comune scatola di cartone", di quelle che contengono le agende che si regalano a Natale, mentre l’altro è stato raccolto da terra dopo essere stato lasciato, dai detective, sul pavimento della stanza di Metz per 46 giorni. E il giudice del rinvio – la Corte di Assise di Appello di Firenze - è incorso in "errore" nell’assegnare, invece, "valore indiziario" a elementi raccolti e repertati in tal modo. Questo processo – rilevano gli ermellini – ha avuto "un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative". Se non ci fossero state, si sarebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità" al delitto di Knox e Sollecito. Nel "percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio" di questa vicenda c'è un "solo dato di irrefutabile certezza": la colpevolezza di Amanda per aver accusato del delitto, calunniosamente, Patrick Lumumba. L’ex proprietario del pub dove Amanda lavorava ha ricordato di aver avuto la vita e la salute rovinata da quella menzogna. "L'inusitato clamore mediatico" e i "riflessi internazionali" del caso non hanno "certamente giovato alla ricerca della verità" perchè hanno provocato una "improvvisa accelerazione" delle indagini "nella spasmodica ricerca" di colpevoli "da consegnare all’opinione pubblica internazionale", osserva infine l'alta Corte mettendo anche l’informazione tra gli imputati di questa debacle investigativa e della giustizia.

I «pasticci»: dai pc bruciati al dna sul coltello, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sarebbe inutile processare nuovamente Knox e, per il delitto Kercher dato che è "negativa" la risposta sulla "possibilità oggettiva" di condurre ulteriori accertamenti che "possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza". Lo sottolinea la Cassazione rilevando che i pc della Knox e della vittima "che forse avrebbero potuto dare notizie utili, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti" e le tracce biologiche sono di "esigua entità" per essere rianalizzate. Ad avviso della Cassazione "per discutibile scelta strategica dei genetisti della Polizia Scientifica" si ritenne "di privilegiare l’indagine volta all’individuazione del profilo genetico nelle tracce repertate sul coltello, piuttosto che accertarne la natura biologica, dato che l’esigua quantità dei campioni non consentiva un doppio accertamento". Questa scelta, per la Suprema Corte, è stata una "opzione assai discutibile, in quanto l'individuazione di tracce ematiche, riferibili alla Kercher, avrebbe consegnato al processo un dato di formidabile rilievo probatorio, certificando incontrovertibilmente l’utilizzo dell’arma per la consumazione dell’omicidio". Ad avviso degli Ermellini, invece, "la riscontrata imputabilità delle tracce a profili genetici della Knox si risolve in un dato non univoco ed anzi indifferente, dato che la giovane statunitense conviveva con il Sollecito, dividendosi tra la sua abitazione e quella di via della Pergola", spiega la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Knox e Sollecito.

Omicidio di Perugia, Corte di Cassazione: "Colpevoli omissioni nelle indagini, bruciati pc di Amanda Knox e Mex", scrive “Libero Quotidiano”. Amanda Knox e Raffaele Sollecito lo scorso 27 marzo 2015 sono stati assolti dall'accusa di omicidio di Meredith Kercher perché contro di loro manca un "insieme probatorio" contrassegnato "da evidenza oltre il ragionevole dubbio". Queste le motivazioni dell'assoluzione depositate oggi, lunedì 7 settembre, dalla Corte di Cassazione, che sottolinea: "Il processo ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". Ma è quando la Suprema Corte entra nel dettaglio delle "colpevoli omissioni" che si scoprono particolari inquietanti. I pc di Amanda e di Meredith, "che forse avrebbero potuto dare notizie utili - recitano le motivazioni -, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti". E se tutto si fosse svolto con rigore e puntualità che cosa sarebbe successo? La Corte rimarca le pesanti responsabilità degli inquirenti, affermando che un accurato lavoro di indagine avrebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell'estraneità" dei due ex-imputati. Nelle 52 pagine della sentenza i Supremi giudici rilevano la "assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili" sia sul corpo della vittima sia nel luogo dell'omicidio, mentre ne sono state trovate numerose "riferibili al Guede", l'ivoriano condannato a 16 anni in via definitiva per l’omicidio "in concorso". Anche la tristemente famosa traccia sul gancetto del reggiseno della vittima non offre "certezza alcuna", poiché, "stante la sua esiguità" è un "elemento privo di valore indiziario".

Errore che rimarrà nella storia, scrive Claudio Sebastiani su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Raffaele Sollecito non ha dubbi che a coinvolgerlo nell’indagine sull'omicidio di Meredith Kercher sia stato "un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia". Lo ha detto dopo avere letto le motivazioni con le quali la Cassazione ha definitivamente assolto lui e Amanda Knox dall’accusa di avere ucciso a Perugia la studentessa inglese. Mentre dall’altra parte dell’oceano la sua ex fidanzata ha sottolineato di essere "molto contenta e sollevata". Nonostante le 52 pagine depositate dalla Cassazione siano arrivate via mail a Seattle quando nella città americana era ancora prima mattina, la Knox le ha subito lette tutte. "Grazie..." ha ripetuto ai suoi difensori, gli avvocati Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. "Sono contenta – ha aggiunto - perchè in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto". Motivazioni che ha subito esaminato anche Sollecito. "Da quello che ho letto – le sue parole – emerge chiaramente e definitivamente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Le indagini sono state estremamente lacunose e piene di errori. Grazie a tutto ciò ho trascorso quattro anni in carcere più altri quattro di tormento per nulla". Per il periodo passato in cella Sollecito "sicuramente" chiederà di essere risarcito per ingiusta detenzione, come annuncia l’avvocato Luca Maori. Mentre per l’altro difensore, l'avvocato Giulia Bongiorno la Cassazione conferma "una volta di più" che il suo assistito "è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente". E lo ha fatto con una motivazione che "prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini". Per Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’assise d’appello di Perugia che aveva assolto i due giovani dopo la condanna in primo grado "i giudici della Cassazione sono stati più cattivi di noi parlando del modo in cui la polizia ha condotto le indagini sul delitto". "L'unico responsabile – ha aggiunto – è Rudy Guede (definitivamente condannato a 16 anni con l’abbreviato – ndr) e se con lui c'erano altre persone non si può verificare perchè le indagini sono state condotte male". "A distanza di anni – ha sottolineato ancora Pratillo Hellmann - confermo che l’unico elemento certo in questa vicenda giudiziaria è rappresentato dalla morte di Meredith". Secondo i Supremi giudici rimane però certa anche la colpevolezza della Knox per "le calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba". Che ora si chiede: "perchè lo ha fatto?". "Mi ha distrutto la vita – ha aggiunto – in tutti i modi, moralmente ed economicamente. Mi deve risarcire e mi deve chiedere scusa". Di "volontà da parte della giustizia italiana di mettere la parola fine su questa vicenda in ogni modo" ha parlato l'avvocato Francesco Maresca, parte civile nel processo per la famiglia Kercher. Che ha evidenziato "incertezze e dubbi". "Ma le sentenze – ha concluso – si rispettano. E noi rispetteremo questa sentenza tenendoci i nostri dubbi".

"L'Inchiesta Meredith fatta male". Le motivazioni della Cassazione e le dure accuse agli investigatori: "Su Amanda Knox e Raffaele Sollecito prove scarse e contraddittorie", scrive Ang. D. Pie. su “Il Tempo". Il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso la coinquilina di lei, Meredith Kercher, il primo novembre 2007 a Perugia, ha avuto un iter "obiettivamente ondivago". Nessuna prova, accertamenti incongrui, risultanze investigative approssimative. Inchiesta fatta male insomma. Anzi malissimo. Nessun accento intriso di diplomazia nella motivazioni che ieri mattina ha depositato la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, quella stessa Corte che il 27 marzo scorso aveva assolto definitivamente gli ex fidanzatini dall'accusa di essere gli autori del delitto insieme all'ivoriano Rudy Guede, condannato a sedici anni di reclusione. Dopo otto anni di incertezze giudiziarie, epiloghi che si sono susseguiti smentendosi a vicenda, dopo le grasse risate che la stampa estera ha riservato ad un’Italia giuridicamente ritenuta poco autorevole, un finale che è l'equivalente di una frenata a secco. Di più: è una bacchettata a tutti, giudici e investigatori. La Cassazione non palesa incertezze: «Si può escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell'ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola, in virtù della assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. Sconfessate le analisi sul gancetto del reggiseno della vittima e sul coltello trovato in casa di Raffaele Sollecito. La Cassazione ha smentito con cinquantadue pagine le accuse di altri cinquanta giudici che avevano invece giudicato colpevoli i due ragazzi. Che l’inchiesta abbia avuto un percorso talvolta obliquo è vero. Troppa attenzione da parte dei media e soprattutto, troppa attenzione da parte degli Stati Uniti che si è mobilitata in favore di Amanda Knox arrivando a scomodare persino Hillary Clinton, all'epoca in piena campagna presidenziale. Inchiesta lacunosa, accertamenti svolti con piglio discutibile. Poca perizia utilizzata per un caso così delicato: un delitto che dispone di un movente poco solido e di una vittima che è morta sgozzata dopo aver ricevuto 47 coltellate. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l'omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Patrick Lumumba era (è) il gestore del bar in cui lavoricchiava la Knox. Lei lo aveva accusato dell’omicidio in maniera trasversale ma efficace, subito dopo la scoperta del corpo di Meredith, sgozzata, nella camera da letto della casa presepiale in cui viveva con altre studentesse fra le quali proprio Amanda Knox. Lumumba ieri ha reiterato i suoi dubbi: «Non riesco proprio a capire per quale motivo Amanda mi abbia accusato. Questa storia mi ha rovinato professionalmente, umanamente, psicologicamente». E c'è da stare certi che i suoi legali stiano preparando una richiesta di risarcimento congrua. Le motivazioni depositate nella giornata di ieri dalla Cassazione puntano il dito contro Rudy Guede, la cui impronta intrisa di sangue fu trovata sotto il corpo della vittima. Restano sparsi qua e là i punti interrogativi e qualche dubbio sul movente ma la storia si chiude senza altra possibilità. «Sono sollevata e contenta» - ha detto la Knox dagli Stati Uniti, parole di felicità avallate dal suo avvocato che ha dichiarato: «In queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto». Il legale ha anche parlato di "bacchettata" dei giudici e di "biasimo solenne". Una volta tanto, devono aver pensato i rigorosissimi americani, anche in Italia è stato usato, sia pur verbalmente, il pugno di ferro. Raffaele Sollecito conta i danni, anche lui: «Rimarrà alla storia il fatto che io sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Quattro anni in prigione e quattro anni di tormenti per niente e tutto a causa di indagini lacunose e piene di errori». La famiglia Kercher vive il suo dolore, immutato, in Inghilterra. Già nel marzo scorso, il ventisette, giorno della sentenza della Corte di Cassazione, i genitori si erano dichiarati distrutti ed avevano palesato un dolore mai guarito. «Noi cerchiamo la verità, solo la verità» dissero. Quella verità è arrivata ieri in maniera definitiva, nonostante l’Italia resti mediaticamente divisa fra innocentisti e colpevolisti.

Meredith, un’inchiesta sbagliata che sconvolge tante vite. Gli errori nell’indagine hanno compromesso la possibilità di arrivare alla verità, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Sono impietosi i giudici della Corte di Cassazione nella scelta dei termini per descrivere le indagini sul delitto di Meredith Kercher e motivare l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Perché arrivano a parlare di «amnesie investigative» e di «colpevoli omissioni», ma soprattutto perché chiaramente evidenziano come un’attività seria e accurata avrebbe consentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia. I genitori e i fratelli di Mez non sapranno mai perché la loro ragazza bella e solare, venuta in Italia per studiare, abbia trovato la morte in una maniera tanto assurda. Quegli «errori gravi» e quelle «scelte discutibili» dei pubblici ministeri e degli investigatori hanno compromesso per sempre il loro diritto a conoscere l’identità dell’assassino e dei suoi eventuali complici. Eppure un appiglio era stato fornito proprio da Amanda, durante la famosa notte trascorsa in questura quando nulla ancora si sapeva dell’omicidio, e lei descrisse le fasi del delitto accusando ingiustamente Patrick Lumumba «in un contesto immune da anomale pressioni psicologiche», mettendolo al posto di Rudy Guede. È bene tenere a mente l’evoluzione di questo processo per comprendere che sbagli, anche apparentemente non gravi, rischiano di compromettere l’esito di un’intera inchiesta. Le moderne tecniche scientifiche possono fornire un supporto formidabile, ma deve appunto trattarsi di un supporto. Credere che tutto possa essere affidato ai risultati di test e analisi è un’illusione che può generare gravissime conseguenze. Bisogna ricordarsi che la ricerca della verità coinvolge tutti i protagonisti: parti lese, imputati, semplici testimoni. E dunque bisogna essere cauti, evitando di travolgere, spesso irreparabilmente, le loro esistenze.

Ciò, nonostante, il 27 marzo 2015, esattamente come il 3 ottobre 2011 fuori dal tribunale dopo la seconda sentenza che li aveva assolti, la città di Perugia si ribella ancora all'assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Un'attesa, per la decisione della Cassazione, che è cresciuta in città di ora in ora. Perché la ferita di quell'omicidio della giovane studentessa inglese è ancora avvertita viva nel capoluogo, e sette lunghi anni non sono riusciti a cicatrizzarla. Così, quando le agenzie e i giornali hanno iniziato a battere e condividere sui social network la notizia che i due ex fidanzati sono stati assolti, immediata è stata la reazione rabbiosa dei perugini: «E' una vergogna» è il commento lapidario e sdegnato, il sentimento più diffuso. «Che schifo». «Siamo un Paese allo sbaraglio».

E di questi scemi ne è pena l’Italia. Poveri italioti allo sbaraglio.

Il delitto Meredith e la Cassazione Amanda: mi sento come Alice fuori dal Paese delle Meraviglie. L’americana in lacrime al telefono con gli avvocati: «È tutto quello che sostenevamo» Lei e Raffaele Sollecito annunciano: pronti a chiedere i danni, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. «Io e Colin ci siamo scambiati uno sguardo di sollievo, come Alice quando si sveglia fuori dal Paese delle Meraviglie...». È il sollievo di Amanda Knox, nel giorno in cui la Cassazione - quasi otto anni dopo - fa a pezzi l’inchiesta sul delitto di Perugia, il delitto di Mez. Amanda lo scrive sul West Seattle Herald, il giornale della sua città, poche ore dopo l’uscita delle motivazioni della Suprema Corte. Il suo articolo è pubblicato sul sito del giornale in prima pagina, perché questo è il suo giorno ed è lei è la protagonista assoluta. L’avvocato romano Carlo Dalla Vedova le ha già mandato la mail con tutti i dettagli. La ragazza non sta nella pelle, l’incubo è svanito per sempre, allora parla e piange al telefono con lui e con l’altro legale, Luciano Ghirga: «Mi sono fatta quattro anni di carcere, quattro anni precisi, anzi quattro anni meno due giorni e questi di sicuro non me li ridarà indietro più nessuno. Ma è l’unico cruccio. Per il resto oggi sono contenta, contentissima e voglio dire grazie, grazie, grazie a lei avvocato Ghirga come ho già detto grazie all’avvocato Dalla Vedova. Sì, sono felice». E allora si mette a scrivere, Amanda. Collabora col West Seattle Herald ormai da quasi un anno e il suo articolo è pieno di sensazioni. Racconta di un viaggio, sabato scorso, da Seattle a Tacoma in compagnia del suo fidanzato, Colin Sutherland, un giovane musicista (27 anni come Amanda) che suona la chitarra basso in un gruppo rock e lo chiamano per questo Rombo di tuono. Amanda parla del viaggio, ma è come se parlasse del suo processo. Colin ha vissuto vicino a lei tutto il travaglio dell’ultimo periodo, l’ansia terribile, la paura di essere estradata in Italia in caso di condanna definitiva e, invece, a marzo scorso, la liberazione. Assolta. Forse un giorno lei e Colin si sposeranno, anche se l’avvocato Dalla Vedova dice che per ora non ci sono progetti matrimoniali all’orizzonte. Col gatto Picard acciambellato in grembo, Amanda Knox si gode ora ciò che ha scritto la Cassazione. Colpi di maglio sui metodi utilizzati da chi ha fatto le indagini. «Sono molto sollevata, perché in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto», dice all’avvocato Dalla Vedova. Naturalmente, ma ci sono 18 mesi di tempo, verrà il giorno in cui gli avvocati di Amanda chiederanno i danni allo Stato per i 4 anni di carcere ingiusto. Anche l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’altro grande imputato di questa storia, Raffaele Sollecito, dice che la sentenza «prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini» e che Sollecito «è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente». La richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, così, è dietro l’angolo. Lo stesso Sollecito lo fa capire: «Sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia. Grazie a tutto ciò, ho trascorso 4 anni in carcere più altri 4 di tormento per nulla». Già, ma adesso è davvero finita: «Qui piove a dirotto - scrive Amanda da Seattle - ma io amo la pioggia». 

Raffaele Sollecito dopo le motivazioni della Corte di Cassazione: "Chiederò un risarcimento danni per ingiusta detenzione", scrive “Libero Quotidiano”. "Io vittima di un clamoroso errore giudiziario, che resterà nella storia". Così Raffaele Sollecito, dopo aver letto le motivazioni depositate dalla Corte di Cassazione, che ha assolto lui e Amanda Knox, accusati dell'omicidio di Meredith Kercher, sostenendo che nel l'indagine è stata compromessa da numerose defaillance. Sollecito ha detto di aver trascorso quattro anni in carcere per colpa delle lacune nelle indagini evidenziate nella sentenza della Corte. Anche l'avvocato del ragazzo, Giulia Bongiorno, ha commentato la vicenda, affermando che le motivazioni raddoppiano la soddisfazione per l'assoluzione. Secondo la Bongiorno la sentenza "dipinge il quadro di un clamoroso errore giudiziario", a causa del quale, Sollecito è stato in carcere quattro anni da innocente. La Bongiorno ha annunciato che sarà presentata una richiesta di danni per ingiusta detenzione.

"Una sentenza netta Passerà alla storia". L’intervista a Giulia Bongiorno, l'avvocato che ha difeso Raffaele Sollecito, scrive An. D. Pie su “Il Tempo”. L’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito aiutandolo ad attraversare questi otto anni di contraddittorietà processuali con il consueto piglio, è visibilmente soddisfatta. Di più: la sua voce tradisce appena appena una emozione profonda che non ha niente a che fare con l’orgoglio professionale. Aver stravinto, dopo aver vinto, sembra costituire un dettaglio che amplifica ma non rappresenta l’essenza di una gioia che appare tutta personale. Dal momento in cui sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha assolto al di là di ogni ragionevole dubbio gli ex fidanzatini accusati dell’omicidio dell’inglese Meredith Kercher, è stata investita da una valanga di richieste di interviste. Dall’Italia e dall’estero.

Una sentenza che è motivata con una serie di "bacchettate" contro tutti, è d’accordo?

«Questa è una sentenza che passerà alla storia per la nettezza delle sue affermazioni. Le risultanze di un processo lasciano ombre, lasciano grigiori: in questo caso la Corte di Cassazione ha utilizzato una clava nei confronti degli investigatori, tale era l’evidente innocenza di Raffaele Sollecito e Amanda Knox».

Avvocato, ha già sentito Raffaele Sollecito? Siete ancora decisi a chiedere un risarcimento allo Stato italiano?

«No, non ho ancora sentito Raffaele Sollecito. Non ne ho avuto il tempo, voi giornalisti mi avete letteralmente subissata di chiamate. Sicuramente chiederemo un risarcimento allo Stato. Non subito, almeno tra due settimane. Sollecito è stato arrestato ed ha subìto una ingiustizia enorme, era innocente e ha passato un inferno. Il carcere, i dubbi della gente, i problemi di varia natura. Anni orribili per lui e per la sua famiglia».

La Giustizia italiana esce a pezzi da questa inchiesta: la stampa estera è stata molto severa fino ad oggi riguardo agli sviluppi del caso...

«Quando l’epilogo è di questo tipo significa che il meccanismo ha funzionato, tuttavia è vero che il tema della qualità delle investigazioni va affrontato e forse giudicato severamente. Niente è stato analizzato come avrebbe dovuto: dall’ora del delitto agli accertamenti scientifici».

Ci si chiede allora perché l’accanimento contro l’americanina dagli occhi di ghiaccio e l’ex fidanzato forse a quei tempi succube della sua amica del cuore spregiudicata e indubbiamente sfrontata. Sono state due vittime, insomma?

«Accusare loro due significava rassicurare Perugia. In giro non c’era un mostro, ma il delitto era la tragica conseguenza di un gioco erotico fra ragazzi. Diciamo che i due ragazzi sono stati messi in mezzo perché erano la soluzione più facile, quella semplice in grado di chiudere il caso velocemente, con buona pace di tutti. Non ha contribuito ad aiutarli l’atteggiamento in aula di Amanda Knox, che ai media sembrava sfilare più che partecipare a un processo, le telecamere indugiavano sulle sue magliette aderenti».

Il sistema giudiziario italiano meriterebbe una riforma?

«Io sono molto critica nei confronti di questo Governo. Renzi non ha fatto proprio niente per la Giustizia, la svolta che si attendeva non c’è stata. Non dico che sia necessario eliminare i gradi di giudizio, questo no, ma sicuramente c’è bisogno di una riforma. C’è inoltre una scarsa attenzione verso l’errore giudiziario, sono necessari nuovi meccanismi per l’effettuazione di indagini più celeri».

Già. Chi lo dice ai voltagabbana dei media giustizialisti che loro fanno schifo? Ora tutti a battere la notizia clamorosa dettata dalla Cassazione. Fino a ieri, invece a stilare gocce di dubbio sull’assoluzione di Amanda e Raffaele.

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Chi sventola cappi finisce impiccato sui suoi patiboli. Il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso. È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'intolleranza, scrive Arturo Diaconale su “Il Giornale”. A differenza di quanto ha sostenuto Raffaele Cantone non trovo per nulla meritoria la decisione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi di emettere liste di proscrizione di presunti «impresentabili» alla vigilia delle elezioni regionali di domenica prossima. E, sempre a differenza di quanto affermato dal presidente dell'autorità Anticorruzione non considero soltanto «pericoloso» che a dare patenti di presentabilità sia una autorità politica e non una autorità giudiziaria. In realtà il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso (ma Cantone si rende conto della contraddittorietà delle sue affermazioni?). È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'arbitrio, della prevaricazione, dell'intolleranza. In una parola verso il trionfo di un giacobinismo terroristico incompatibile con il sistema democratico e funzionale ad ogni tipo di avventura autoritaria. La Costituzione stabilisce che la linea della presentabilità o meno di un cittadino nella vita pubblica è fissata dalla presunzione d'innocenza. Se si è condannati in via definitiva si è «impresentabili». Prima di questa condanna si continua ad essere titolari dei diritti civili e politici. Ma questa linea, che è quella della verità giudiziaria, è stata superata da tempo. L'egemonia giustizialista degli ultimi vent'anni l'ha ridotta a reperto archeologico, da considerare abrogata di fatto dalla Carta costituzionale. Ad essa è stata sostituita prima quella della incensurabilità delle persone. Che stabilisce la presentabilità o meno a seconda se si sia incensurati o no a prescindere dalla gravità dei reati. Una linea che è sempre legata alla «verità giudiziaria». E, successivamente, quella della eticità e della moralità del comportamento delle persone. Linea che supera il confine fissato dai giudizi della magistratura, che comunque debbono rispondere ai criteri della equanimità, della terzietà, dell'oggettività, e stabilisce che la presentabilità debba discendere dal giudizio etico e morale dato da una opinione pubblica normalmente influenzata dal circuito mediatico-giudiziario. Con la presentabilità dipendente da un giudizio etico e morale siamo già ampiamente fuori del perimetro costituzionale. Ma con la scelta della commissione Antimafia di stilare liste di proscrizione si compie un salto più lungo e decisivo. Si stabilisce che la linea della presentabilità è data dalla verità politica. Una verità che non risponde mai ai valori ma sempre alle convenienze. Che per definizione non può mai essere equanime, terza, oggettiva ma sempre di parte. Che dipende da maggioranze variabili, occasionali, aleatorie. E che, soprattutto, viene regolarmente imposta da chi urla più forte e sventola più minacciosamente cappi, forche e manette per suggestionare una opinione pubblica naturalmente portata, in tempi di crisi, a scaricare le sue paure e tensioni sui facili capri espiatori. È dai tempi di Gesù e Barabba che la verità politica provoca aberrazioni. Rosy Bindi, che si dice cattolica, dovrebbe ricordarlo. E chi lo ha dimenticato dentro la commissione Antimafia in nome di un giacobinismo strumentale e da operetta non solo dovrebbe tenerlo a mente ma anche non dimenticare mai che a lungo andare i giacobini intolleranti finiscono con salire sui patiboli da loro stessi impiantati. I puri hanno sempre in sorte di trovare i più puri che li epurano!

Una legge contro la proscrizione, scrive Maddalena Tulanti su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Brutta giornata ieri per i candidati presidenti alla regione Puglia. Rosi Bindi, presidente della commissione antimafia, ha reso noto (per la verità nel suo staff dicono che c’è stata la solita fuga di notizie) i nomi dei candidati pugliesi che sarebbe stato meglio non mettere in lista, i cosiddetti “ impresentabili”, e sono stati dolori per Emiliano, Schittulli e Poli Bortone. Ne sono stati individuati 4, due sono schierati nel movimento di Schittulli, 1 per Poli Bortone e 1 per Emiliano. I soliti malpensanti si sono chiesti come mai sono usciti solo i nomi dei candidati pugliesi e qualcuno addirittura ha lasciato intendere che dopo la sparata di Emiliano contro la presidente Bindi di qualche giorno fa era il minimo che il quasi governatore si potesse aspettare. Noi non ci crediamo, riportiamo il pettegolezzo solo per far comprendere quanto il clima si stia avvelenando mano a mano che ci avviciniamo alla giornata del voto. I nomi degli “impresentabili” li avrete letti nelle cronache, evitiamo di farli di nuovo e non a caso. A noi le liste dei cattivi non sono mai piaciute, nemmeno a scuola quando la maestra ci chiedeva di farlo mentre lei si assentava. Come quelle di proscrizione, queste liste sono sempre fatte a fin di bene, per mantenere o un ripristinare l’ordine costituito, e abbiamo imparato da tempo quanto inferno può nascondersi dietro a un bisogno di paradiso. Detto questo, non è che ci piaccia che le liste, quelle elettorali stavolta, siano formate senza badare a chi ci fa parte, contando soprattutto sulla “quantità” dei voti che un candidato/una candidata è capace di portare invece che sulla “qualità” di quello che egli/ella rappresenta. Che si fa allora? Si fa finta di niente o si accetta il disonore pubblico? Non si può fare finta di niente, è evidente. Se la commissione antimafia si è messa a spulciare ogni lista presentata in tutte le regioni in cui si vota è probabile che il sospetto che si eleggano persone colluse con poteri criminali o semplicemente che hanno avuto a che fare con la legge, esiste eccome. Quindi ben venga la ricerca delle pecore nere. Ma non per questo si deve agire con l’accetta. Siamo di fronte a un equilibrio delicatissimo, da una parte c’è il diritto a essere considerato una persona perbene fino all’ultimo grado di giudizio; dall’altro bisogna garantire a chi si reca alle urne la certezza che su nessuna delle persone scese in campo possa essere sollevato un dubbio di nessun genere. Insomma se ne esce in un unico modo, attraverso la legge. Si cambino le regole, si decida chi può essere candidato e chi no in maniera più severa. E poi solo silenzio.

Le liste di proscrizione. La bomba illegale della Bindi sulle elezioni amministrative 2015, scrive Magazine Donna. Con una scelta che dire grottesca è poco, Rosy Bindi e la sua commissione parlamentare antimafia venerdì 29 maggio 2015 – a quarantotto ore dalle elezioni regionali – compileranno una lista di proscrizione elencando i politici inseriti in lista dai vari partiti e accettati dagli organi di controllo che invece sarebbero «impresentabili» in base a un fragile codice di buona condotta. La Bindi e i suoi avrebbero dovuto rendere nota quella lista ieri, ma hanno litigato un bel po’ in ufficio di presidenza e dopo ore hanno offerto due sole sentenze: in Liguria nessun candidato è risultato «impresentabile», e in Puglia invece ce ne sarebbero 4, rigorosamente bipartisan: Giovanni Copertino (Forza Italia, circoscrizione Bari); Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano, circoscrizione Bari); Massimiliano Oggiano (Oltre con Fitto, Schittulli presidente, circoscrizione Brindisi) e Enzo Palmisano (Movimento politico per Schittulli, area popolare, circoscrizione Brindisi). I soli quattro nomi apparsi nella prima bozza della lista di proscrizione fan ben capire come l’operazione sia squisitamente politica, probabilmente mira a Matteo Renzi e ai suoi candidati (la Bindi fa parte della minoranza del Pd), e di tecnico abbia ben poco. Tutti e quattro i candidati pugliesi ritenuti «impresentabili» hanno effettivamente avuto problemi con la giustizia in passato. Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali. Siccome la legge c’è, e viene applicata, la Bindi e l’ufficio di presidenza dell’antimafia sanno benissimo che qualsiasi candidato bolleranno come «impresentabile» venerdì prossimo (con un pessimo servizio anche agli elettori, visto che glielo dicono a cose ormai fatte), non lo sarà affatto: per la con-testatissima e dura legge vigente, saranno tutti sia presentabili che eleggibili. Senza stare a girare troppo intorno, c’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale: perchè mai Renzi ha accettato quella candidatura e si è speso addirittura a fare campagna elettorale per un candidato-fantasma? Questa è l’unica domanda lecita che si potrebbe fare, tutto il resto fa parte di un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. E per fortuna è così, visto il tipino peperino. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione: i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire e fermare quello che sembra più che altro un regolamento di conti interno ai vari partiti politici. Si può giudicare «politicamente» impresentabili dei candidati anche incensurati, o che abbiano su di loro il sospetto di una inchiesta allo stato iniziale. Questa è scelta legittima se fatta in una polemica politica, in un editoriale, in una battaglia giornalistica. Non da una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone che fa diventare «impresentabile» qualcuno il reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, si faceva prima a buttare via tutte le liste e rinviare le regionali a migliore occasione…

Precedenti da far rabbrividire, scrive Mattia su "Butta". Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. (art. 49 della costituzione italiana). Mi sa che questa cosa degli impresentabili sia un po’ sfuggita di mano. Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto. Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi. Ma fin tanto che è la parola di alcuni privati cittadini, per quanto scorretta, tale rimane. Dove hanno perso la testa è stato alla commissione anti mafia. Dicono che entro venerdì usciranno con una lista di candidati impresentabili. Ohi, non sto parlando di privati cittadini, ma di una istituzione. Un pezzo del parlamento che si riunisce e fa la lista dei candidati che sono degni e dei candidati che sono non degni. Una roba da far rabbrividire i capezzoli. Ah, ma dicono, le indicazioni non sono vincolanti! E ci mancherebbe altro. Figuriamoci se un organo politico come un pezzo di parlamento avesse il diritto di decidere di espellere dalle liste chi non gli garba. Eh, però – aggiungono – si limitano ad applicare il codice di autoregolamentazione dei partiti. Che però ha il valore legale di un peto. I partiti (o meglio, alcuni partiti) possono anche trovarsi un pomeriggio sotto un albero e fare un pinchi suee decidendo di non candidare chi si trova in certe condizioni. Ma  tutto il resto del paese non è tenuto a rispettarlo. Se i partiti vogliono che chi si trova nelle condizioni di Caio non sia candidabile approvino una legge in parlamento che dice proprio questo. Quando sarà legge dello Stato tutti saremo obbligati a rispettarla, ma finché rimane un pinchi suee dei partiti no. Forse non percepite la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, una istituzione, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni. Oggi fanno la lista di proscrizione in base al loro patto tra partiti (senza valore giuridico), domani si allargheranno e diranno che sono impresentabili quelli che hanno fatto un provino per il Grande Fratello o che nella vita fanno gli operai. Se ci fosse un presidente della repubblica degno di questo nome avrebbe già preso il telefono, avrebbe chiamato la Bindi e le avrebbe detto “senti Rosaria, adesso tu prendi un quaderno, penna e calamaio e scrivi 500 volte l’art. 49 della costituzione. Poi quando hai finito me lo porti al colle e mi prometti di non fare più certe stronzate, ok? Piesse: e non dico niente su quello che dovrebbe fare la Boldrini perché quella mi sa che la costituzione non l’ha neanche mai letta.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

TUTTI I GUAI DI BEPPE GRILLO.

Grillo condannato per diffamazione, "Io come Mandela e Pertini". Un anno per le parole pronunciate contro un professore modenese in un comizio sul nucleare del 2011. "Il giudice mi ha tolto la condizionale", scrive “La Repubblica” il 14 settembre 2015. Un anno di reclusione per aver diffamato un docente dell'Università di Modena: è la condanna inflitta oggi dal Tribunale di Ascoli Piceno a Beppe Grillo. Il leader di M5S doveva rispondere di diffamazione aggravata nei confronti del professor Franco Battaglia, docente del Dipartimento di Ingegneria dell'Università di Modena e Reggio Emilia. In un comizio per il referendum sul nucleare tenuto l'11 maggio 2011 a S. Benedetto del Tronto, Grillo si era scagliato contro un intervento di Battaglia ad Anno Zero. Denunciando quanto accaduto sul suo blog, Grillo attacca: "Forse fa paura che il Movimento 5 Stelle si stia avvicinando al governo? Se Pertini e Mandela sono finiti in prigione potrò andarci anch'io per una causa che sento giusta e che è stata appoggiata dalla stragrande maggioranza degli italiani al referendum". Grillo ricorda che la condanna deriva dalle parole da lui pronunciate in un comizio contro il nucleare: il leader M5s disse "che il professor Franco Battaglia, docente di Chimica ambientale del Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari dell'Università di Modena e Reggio affermava delle coglionate in merito al nucleare". "'Vi invito a non pagare più il canone, io non lo pago più perché - dissi davanti al pubblico del comizio - non puoi permettere ad un ingegnere dei materiali, nemmeno del nucleare, parlo di Battaglia, un consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire, con nonchalance, che a Chernobyl non è morto nessuno. Io ti prendo a calci nel c...o o e ti sbatto fuori dalla televisione, ti denuncio e ti mando in galera", dissi riferendomi alla partecipazione di Battaglia ad una puntata di Anno Zero", riporta Grillo. "Il Pm aveva chiesto una multa di 6.000 euro. Il giudice mi ha invece tolto la condizionale condannandomi a un anno di prigione e a 50.000 euro di risarcimento. Io sono fiero - rivendica Grillo sul suo blog - di aver contribuito a evitare la costruzione di nuove centrali nucleari in Italia. E' un'eredità che lascio ai nostri figli che potranno evitare incidenti come Chernobyl e Fukushima". A Chernobyl non è morto nessuno?", chiede il leader M5s. Segue un post scriptum in cui Grillo puntualizza come, "contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di informazione, la pena non è stata sospesa". Quella stabilita dal tribunale piceno non è la prima condanna per diffamazione per Beppe Grillo. Risale a 12 anni fa il patteggiamento in una causa intentata contro di lui dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini, definita dal leader una "vecchia p...", insinuando che la scienziata avesse ottenuto il premio grazie a una ditta farmaceutica. Nel 2012 è arrivata la condanna in appello per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo di otto anni prima sulla testata Internazionale (50mila euro di risarcimento del danno patrimoniale). Due anni fa la condanna definitiva in Cassazione per diffamazione nei confronti di Giorgio Galvagno, ex sindaco di Asti e parlamentare di Forza Italia: Grillo, durante uno spettacolo nel teatro cittadino, lo definì "un tangentista". Ancora, sempre nel 2013 la condanna in primo grado per la causa indetta dal tesoriere del Pd Antonio Misiani: la sua faccia compariva sul blog in una foto segnaletica sul blog del comico ligure.

Tutti i guai giudiziari di Beppe Grillo. La procura di Torino oggi ha chiesto la condanna a 9 mesi nel processo sulle proteste dei No-Tav. Ed altre procure lo indagano per istigazione alla disobbedienza, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. La procura di Torino ha chiesto per Beppe Grillo la condanna a 9 mesi di reclusione nel processo sui disordini al cantiere della No-Tav in Piemonte. Una richiesta arrivata nel corso di una giornata caotica per il leader del Movimento 5 Stelle. Da diverse procure d'Italia arrivava infatti la conferma dell'iscrizione nel registro degli indagati per il reato di "istigazione alla disobbedienza" in merito al famoso invito rivolto agli agenti di Polizia di non proteggere più i politici ed i palazzi della politica.

Ma la lista dei suoi guai giudiziari è lunga.

- Omicidio Colposo. Il giorno più nero per Grillo è quello del 7 dicembre 1981 quando perse il controllo del suo fuoristrada mentre percorreva la strada militare che da Limone Piemonte porta sopra il Colle di Tenda. Il veicolo scivolò su un lastrone di ghiaccio e cadde in un burrone profondo ottanta metri. A bordo con Grillo c'erano quattro suoi amici genovesi con i quali stava trascorrendo il fine settimana dell'Immacolata. Grillo si salvò gettandosi fuori dall'abitacolo prima che l'auto cadesse nel vuoto e, contuso e in stato di choc, riuscì a chiamare i soccorsi. Tre dei suoi amici rimasti nell'auto persero la vita: i coniugi Renzo Giberti e Rossana Guastapelle, rispettivamente di 45 e 33 anni, e il loro figlio Francesco di 9 anni. Il quarto, Alberto Mambretti, 40 anni, fu ricoverato con prognosi riservata a Cuneo. Tre settimane dopo l'incidente, per Grillo scattò l'incriminazione per omicidio plurimo colposo. Nell'ottobre 1982 la perizia ordinata dal giudice istruttore suggerì che Grillo era colpevole di non aver fatto scendere i suoi passeggeri prima di affrontare il tratto di strada più pericoloso. Per questo il 28 settembre 1983 il comico genovese viene rinviato a giudizio. Il processo di primo grado si concluse con l'assoluzione di Grillo per insufficienza di prove. Poi, in appello, il 14 marzo 1985 Grillo fu condannato per omicidio colposo a quattordici mesi di reclusione con il beneficio della condizionale.

- Abuso edilizio. Poi c’è l’abuso edilizio. Questo risale al periodo in cui Beppe Grillo decise di andare a vivere a Sant’Ilario, zona lussuosissima di Genova, in una bellissima villa rosa salmone che si affacciava sul Monte di Portofino, con ulivi e palme. Ma alla villa del comico mancava la piscina. Così Grillo non ne fece scavare una ma ben due. La cosa piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa che era già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che il futuro leader del Movimento 5 stelle fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi.

Condanne per diffamazione. Nel 2003, patteggiò una causa per diffamazione aggravata intentata contro di lui da Rita Levi Montalcini. Durante uno spettacolo, Beppe Grillo chiamò "vecchia puttana" la Montalcini, all'epoca 94enne, vincitrice del Premio Nobel 1986 in Medicina, insinuando che la scienziata torinese avesse ottenuto il Nobel grazie a una ditta farmaceutica che materialmente le aveva comprato il premio.

Nel 2012 in appello Grillo viene condannato nuovamente per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista "Internazionale". Il risarcimento del danno patrimoniale, pari a 50.000 euro, oltre alle spese processuali, è stato stabilito dai giudici della prima sezione della corte d'appello del tribunale di Roma.

Nel settembre 2013 viene condannato in Corte di cassazione per avere diffamato l'ex sindaco di Asti, e parlamentare per Forza Italia, Giorgio Galvagno. Nel 2003, Grillo aveva definito l'ex primo cittadino "un tangentista", durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti. Grillo dovrà versare a Galvagno 25.000 euro e gli interessi a partire dal 2003, come risarcimento del danno, oltre al risarcimento per le spese legali.

Il 12 dicembre 2013 è stato condannato dal Tribunale di Genova in primo grado per diffamazione nei confronti di Antonio Misiani, in qualità di Tesoriere del Partito Democratico. La vicenda risale al maggio 2012, quando Grillo pubblicò sulla home page del proprio blog un mosaico di immagini con le foto stile "segnaletiche" degli amministratori di PdL (Rocco Crimi), PD (Antonio Misiani) ed UDC (Giuseppe Naro), insieme a quelle degli ex di Lega Nord (Francesco Belsito) e Margherita (Luigi Lusi). Il giudice ha riconosciuto a titolo provvisorio un risarcimento di 25.000 euro in favore di Misiani ed un risarcimento in favore del Partito Democratico di 5.000 euro.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

Chi gode delle disgrazie altrui certamente è Marco Travaglio, che ha sempre un giudizio su tutti.

Travaglio dà i voti al 2013: Napolitano, Renzi e Letta, sfottò per tutti. Il vicedirettore del Fatto: "Che emozione questo anno quasi finito, che svolta generazionale. E nel 2014 arrivano le riforme...", scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è mai stato anno più bello di questo 2013. Anzi, forse solo il 2014 potrà batterlo. Usa il sarcasmo, Marco Travaglio, per compilare il suo pagellone sull'anno che si sta chiudendo. Naturalmente, insufficienze per tutti tranne che per "quei brubru antipolitici dei 5 Stelle". Il vicedirettore del Fatto quotidiano si mette nei panni di un simpatizzante di Enrico Letta, finge di abboccare alle promesse del premier su "svolte generazionali" e "riforme in arrivo" e parte con la contraerea. Tanti bei finti complimenti al "pischello Napolitano", che ha messo l'Italia "alla pari dello Zimbabwe di Mugabe", al Letta nipote di Gianni ("unico caso di nipote più anziano dello zio"), ad Alfano "maggiordomo di B.", al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ("la colf dei Ligresti"), al "frugoletto Amato alla Consulta", ai presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, "pronti a zittire chiunque osi nominare Napo invano". Il sospetto che, tra un'ironia e una velenosa battuta, il 2013 sotto sotto sia un po' piaciuto a Marco Manetta viene quando, naturalmente, si finisce a parlare di Silvio Berlusconi. "Il 1° agosto i soliti giudici che non si fanno mai i cazzi loro han rischiato di far saltare tutto con quell'assurda condanna". E invece, finge di gioire Travaglio, le larghe intese hanno resistito. Risultato: il governo dei favori e delle stangate. "L'Imu non la pagheremo più perché ora si chiama Tasi e ci costa di più". "I concessionari di slot dovevano 98 miliardi al fisco, ma il governo gli farà pagare 400 milioni, così imparano ad evadere. In compenso, un sacco di fondi neri per finanziare la politica, soprattutto dal 2017". E poi arriva Matteo Renzi, che attacca l'articolo 18 come avevano fatto Berlusconi, Monti, Fornero: "Ma loro, quando lo aggredivano, non avevano mica 38 anni". Se il rinnovamento dei quarantenni promesso da Letta è questo, suggerisce Travaglio sfregandosi le mani, ci divertiremo ancora per qualche anno. Gli italiani decisamente meno.

Ed ancora, Travaglio contro Liguori: "Alla tua scuola di giornalismo imparano a leccare". Marco Manetta attacca il master in giornalismo di Mediaset. Ma scorda qualcosa...scrive “Libero Quotidiano”. A poche ore dalla sentenza per il processo Mediaset, gli attacchi di Marco Travaglio al Cav percorrono strade mai battute prima. Marco "Manetta" non risparmia nessuno pur di mettere nel mirino Silvio Berlusconi (e la sua azienda). Nella mattinata di lunedì 29 luglio, Travaglio, con un editoriale tra il serio e il faceto, ha puntato il dito contro la scuola di Giornalismo dell'Università Iulm di Milano che è in consorzio con Mediaset e che ogni anno sforna 15 giornalisti professionisti da inserire nel mercato del lavoro. Travaglio citando un'intervista a Panorama dell'amministratore delegato della scuola, Paolo Liguori,  tra le righe, ma nemmeno troppo, lascia intendere che la scuola di Mediaset-Iulm crea dei giornalisti che sanno "usare la lingua". Imparano "tutto con la lingua", scrive il vicedirettore del Fatto Quotidiano.  Ecco il virgolettato dell'editoriale: "Li(n)guori afferma: 'Un giornalista oggi deve saper fare tutto. Noi formiamo giovani giornalisti 2.0, nella teoria e nella pratica. I partecipanti al master imparano ad adattare la prosa e il linguaggio a seconda del media su cui devono comunicare". Qui arriva la prima bacchettata del professor Travaglio, che sottolinea come al singolare si dica "medium" e non "media". La consueta superbia di chi immaginia di essere infallibile. Non finisce qui. Travaglio prosegue e continua con la citazione di Liguori: "I partecipanti al master imparano a condurre notiziari, montare servizi per la tv, come pure a scrivere per quotidiani, portali internet o uffici stampa". Fin qui le parole di Liguori. A questo punto arriva la stoccata al veleno di Travaglio che aggiunge: "Sì, i ragazzi imparano tutto con la lingua". Per Travaglio chiunque faccia il giornalista dopo aver studiato per due anni alla scuola Mediaset-Iulm sarebbe con un doppio senso, un "lecchino di professione". Peccato che proprio al Fatto Quotidiano, sia alla redazione web sia a quella del cartaceo di Roma, arrivino ogni anno stagisti proprio dalla scuola dello Iulm-Mediaset. Ragazzi che comunque fanno il loro mestiere onestamente e usano la lingua solo per parlare. Ma non è tutto. Alcuni di questi ragazzi - di cui per ovvie ragioni non facciamo i nomi - hanno ottenuto un contratto di collaborazione al sito e all'edizione cartacea del Fatto, e qualcuno addirittura è in lizza per un'opportunità lavorativa a Servizio Pubblico, il quartier generale del giornalismo "travaglino", dove "regna" il comandante Michele Santoro. Il chiodo fisso di attaccare il Cav è storia vecchia per Travaglio. Ma per farlo ormai non guarda in faccia nessuno. Nemmeno qualche ragazzo che ha speso soldi e ha fatto sacrifici per riuscire a scrivere. Magari proprio sul Fatto Quotidiano. Travaglio lo sa, o fa finta di niente?

Il tengo amici di Travaglio continua... Lo “strabismo ammiccante” da Di Pietro ad Ingroia, arrivando a Grillo, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità e della Cultura”. Marco Travaglio continua nella sua pratica di giornalista di parte, piega e mistifica realtà e fatti, non per informare i cittadini ma per tutelare gli amici, quindi, indirizzare l'opinione pubblica nel "credo" da lui amato. Comportamento legittimo, per carità... ma che ben poco ha a che fare con la veste di giornalista indipendente che vorrebbe incarnare. Così c'è la volta che parte alla carica di chi osa toccare i suoi amici, c'è la volta che si sovverte la realtà per giustificare certi comportamenti o atti, c'è la volta che indossa la divisa del pompiere... basterebbe che lo dicesse: tengo amici, e gli amici miei non si devono toccare. Ed invece no... lui che ci ha abituati a dire cose serie su molti protagonisti e misfatti della politica italiana, poi, quando si tratta dei suoi amici, di coloro per cui gode di simpatia politica, si mette a fare propaganda e contropropaganda, a seconda del bisogno, così che in tanti, troppi, ci cascano e pensano che anche in quel caso, di giornalista militante e non quindi di giornalista indipendente, lui parli con obiettività. Ed ora, sulla questione Grillo, ha superato se stesso, oltre ogni limite di decenza, assumendo quella veste di amico avvocato difensore, che non solo non guarda ai fatti, ma che attacca senza freno chi osa guardarli ed indicarli, come avviene con l'editoriale odierno contro Antonio Amorosi ed il Tg3. Ed allora parliamone un attimo...Marco Travaglio è stato, per anni, il miglior ufficio stampa e propaganda (non pagato, bisogna dirlo) di quel che fu l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quello che se lo facevano gli altri era uno scandalo indecente e intollerabile, quando veniva fatto da Di Pietro ed i suoi era invece irrilevante, giustificabile, una “bazzecola”, quasi quasi un merito. A Di Pietro era sempre tutto da perdonare, agli altri no. Un normale atteggiamento da giornalista schierato politicamente, quello di Travaglio... soltanto che Travaglio faceva (come fa ancora oggi) intendere che lui lo diceva dall'alto della propria indipendenza, così da mascherare e nascondere quello strabismo, dei due pesi e delle due misure, adottato nelle proprie valutazioni. E così se Di Pietro gestiva il partito con moglie ed amica tesoriera, alla faccia della democrazia che deve avere un partito, andava tutto benissimo così... (partiti antidemocratici e familisti lo sono altri, Di Pietro aveva una sorta di lasciapassare per contraddire nei fatti ciò che predicava). E così se massoni e piduisti approdavano nell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, come nel caso di De Iorio, si muoveva in prima persona per la difesa assoluta) sono massoni e piduisti buoni, mica come i massoni e piduisti che stanno con gli altri, che sono brutti e cattivi. E così, ancora, quando la 'ndrangheta stringeva patti con esponenti dell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, anche in questo caso, scendeva in prima persona nel difendere l'indifendibile) sono cose che capitano, probabilmente – addirittura - ordite proprio per danneggiare il povero Di Pietro, come se gli amici dei mafiosi li selezionasse e sostenesse lui, ma a propria insaputa). E così, inoltre, per fare un altro esempio, quando i suoi uomini (scelti da lui, nel partito personale) finivano in scandali ed inchieste, bisognava lasciare correre, perché i faccendieri degli altri son brutti e cattivi, ma quelli con Tonino erano devoti alla causa, quindi, immuni da critiche e valutazioni etiche e politiche... e certamente vittime di attacchi giudiziario-mediatici. E, in ultimo, se per gli altri partiti (la nota kasta) era scandaloso il prendere e sperperare i noti “rimborsi elettorali”, quelli che prendeva Di Pietro (e che gestiva con moglie ed amica tesoriera), erano soldi santi, necessari, gestiti benissimo... anche quando entrati nelle casse dell'Italia dei Valori venivano girati come affitti alla società personale di Antonio Di Pietro (l'Antocri) che, così, pagava i mutui degli immobili che poi andavano a consolidare il patrimonio immobiliare di Antonio Di Pietro (non dell'Italia dei Valori). Tutto giusto, santo e pure pio secondo Travaglio che, in ogni circostanza difendeva a spada tratta il Di Pietro ed il suo partito, contribuendo, così, nei fatti, alla degenerazione totale di quel partito che alla fine è imploso su se stesso, sotto il peso di quelle contraddizioni di indecenze dilagati che il Travaglio contribuì a minimizzare, giustificare, quando non a negare. Di Pietro, per Travaglio, era solo vittima delle circostanze, del fato... Un fato cinico e baro che valeva, ovviamente, solo per Tonino, perché per gli altri non c'era possibilità di appello, condanna definitiva, anche se, in molti casi, così come la storia dell'Italia dei Valori, di penalmente rilevante vi era ben poco. Un destino cinico e baro che il buon Travaglio, palco dopo palco, uscita dopo uscita, palco dopo palco (pagato dall'IdV nelle grandi mobilitazioni spacciate da "società civile") cercava di esorcizzare facendo incontrare Grillo a Di Pietro, e facendo sì che il primo appoggiasse il secondo, mentre entrambi idolotravano lui, il sommo maestro del giornalismo (di partito, senza giornale di partito). Mai una parola, ad esempio, ancora, da Travaglio, sul fatto che al pool di Milano, quello di Mani Pulite, di fatto, ad un certo punto, “commissariarono” il Di Pietro perché lo stesso aveva una particolare “amicizia” che lo avvertiva pure di ispezioni. Quell'amicizia era quella di Cesare Previti (lo stesso che poi, nel suo studio, ospitava gli incontri tra Di Pietro e Berlusconi)... ma se per altri i contatti con Previti o, faccendieri come Paccini Battaglia, erano ingiustificabili e senza appello, per Di Pietro non contavano nulla... lui era benedetto, più che da Dio, da Travaglio, e scusate se è poco.  Marco Travaglio ha un altro amico, Antonio Ingroia. Così, come per Di Pietro, tutto ciò che è gradito all'amico è giusto, da sostenere, anche quando certi teoremi e certe valutazioni non stanno in piedi. Nel caso di assecondare l'Ingroia pensiero Tavaglio di prodiga su più fronti... perché una difesa semplice gli pare poco, probabilmente, o, sa benissimo, si scioglierebbe come neve al sole. Ed allora eccone una rassegna...
Si parte con l'ultima intervista di Paolo Borsellino, quella ai francesi. Per Travaglio l'intervista vera è quella della videocassetta “sintetica”, poco conta che quella sia una versione “manipolata” dell'intervista di Paolo Borsellino, dove al magistrato di Palermo vengo messe in bocca, con taglia e cuci, parole che non ha mai detto. Con la “manipolazione” a Borsellino viene fatto dire che c'era una telefonata tra Mangano e Dell'Utri, intercettata, in cui parlano di consegna di “cavalli”, cioè droga, in un albergo di Milano. Nella versione reale, integrale, invece, Borsellino non solo non dice quello ma lo smentisce, affermando che in quella telefonata Mangano parla con un'esponente della famiglia Rinzevillo e non, quindi, con Dell'Utri. Arriva una sentenza che accerta che quella della cassetta aveva un contenuto manipolato, ma Travaglio parte in quarta: è uguale! Ma come: è uguale? E poi, come se nulla fosse, pubblica e diffonde con il Fatto (a pagamento) la versione integrale dell'intervista, quella dove Borsellino smentisce, di fatto, con le sue parole, quel “è uguale” di Travaglio, ma il dettaglio sfugge! Si passa all'attacco a Pietro Grasso. Anche qui, con una serie di illazioni e mistificazioni senza ritegno, smentite dai fatti. Come quando, si affretta, Travaglio, ad affermare che quella della “non firma” dell'appello su Andreotti da parte di Grasso perché questi era stato testimone in primo grado, era null'altro che una balla. Peccato che quella di Grasso non fosse una balla ma la verità, comprovata dagli Atti del processo (come abbiamo recentemente documentato). Ma Grasso non condivide i teoremi di Ingroia ed allora per aiutare l'amico occorre attaccare chi non lo asseconda: Grasso. E così giù altre mistificazioni, come quella del far apparire Grasso come quello che “graziò” Cuffaro, quando invece, con la scelta compiuta da Grasso, di contestare i reati provati, senza buttarsi in un campo incerto senza adeguate prove, ed arrivando al risultato di far condannare (si badi: far condannare!) Cuffaro, allora potente Presidente della Regione Sicilia, si dimostra che la tesi di Travaglio non è solo debole, ma ridicola... tanto che, per rinforzare la tesi “Grasso cattivo, Ingroia bravo” deve chiamare in causa uno che la verità (sic) la dispensa a destra e a manca e che, per curriculum, ha sempre avuto a cuore la Giustizia: Marcello Dell'Utri. Si passa alla fabbricazione del nuovo simbolo dell'antimafia: il Ciancimino jr. Un mafioso figlio d'arte, che occulta e ricicla soldi sporchi, di quel tesoretto di papà “don Vito”, che cerca di screditare lo Stato, producendo cosiddette prove tarocche, fa identikit di tal “signor Franco” che però non si trova da nessuna parte, racconta di tutto e di più, in contraddizione con se stesso e con le risultanze certe di altri procedimenti e persino di sentenze definitive, se la ride di aver in mano i pm di Palermo e di riuscire così a salvare il malloppo marchiato Cosa Nostra. Viene smascherato per le calunnie, per i soldini (tanti) occultati e riciclati... gli trovano anche la dinamite, a sua insaputa, nel giardinetto di famiglia... Ma se piace ad Ingroia, Ciancimino jr, piace anche a Travaglio... Se è bocca della verità per il primo, lo diviene anche per il secondo, in automatico, alla faccia dei fatti e delle prove che, dovrebbero essere l'unico elemento per stabilire l'attendibilità di certe dichiarazioni e che, nel caso del figlio di “don Vito”, dimostrano che questi mente con la stessa naturalezza del respirare. Si giunge all'apoteosi del “complottone” per fermare il processo sulla fantomatica “trattativa”. Qui davvero Travaglio ha mostrato di essere capace anche di ciò che appare impossibile. Davanti ad un'indagine che si fonda, come prove, sulle dichiarazioni del già citato Ciancimino jr, e che richiama l'inchiesta “Sistemi Criminali”, che se uno la legge si rende conto che smentisce totalmente i pilastri della c.d. inchiesta sulla “trattativa Stato-Mafia” che ora va a processo a Palermo, Travaglio non ha dubbi: colpevoli. Non ci sono le prove, non conta. Conta che l'indagine, quell'indagine, senza prove, è uno dei prodotti dell'amico Ingroia. Ma se appare impossibile offrire una percezione di realtà così tanto difforme dai fatti reali, Travaglio va oltre e, con una serie di illazioni, di urli al “compottone”, che riesce nel far credere l'opposto della realtà. E siamo, qui, nel capitolo delle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino. Travaglio vuol far credere al popolo che in quelle intercettazioni c'è la prova del “peccato”. E, essendo lì la prova chiave della colpevolezza degli indagati da Ingroia, è evidente che le si vuole distruggere, quelle intercettazioni, per negare la prova-madre. Travaglio quindi indica un complotto che va dal Csm al Parlamento, passando per Corte Costituzionale, Quirinale e Governo. Praticamente il mondo intero è parte di un complotto, tutti tranne Ingroia e chi sostiene il suo teorema. Ed in tanti ci cascano... vedono lì, materializzato il complotto universale disegnato da Travaglio. Peccato che la verità, i fatti, smentiscano – già a priori – questa tesi dell'avvocato difensore dell'amico Ingroia. E, si badi, non fatti prodotti dagli attori e partecipi del presunto “complottone”, ma fatti indicati dalla stessa Procura di Palermo, dove c'è il suo amico Ingroia! Infatti è la stessa Procura di Palermo che, nero su bianco, scrive che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino sono prive di qualsiasi rilievo penale e non rappresentano nemmeno alcuno spunto investigativo! Ecco: questo dice la Procura di Palermo! Non basta. Quella stessa Procura dice che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino potrebbero essere utili solo per la Difesa di Mancino, ovvero il principale imputato! Questi i fatti. Ma Tavaglio li capovolge e fa credere che invece la distruzione di quelle intercettazioni sia un aiuto a Napolitano e Mancino per fermare l'inchiesta! Un delirio totale. Una mistificazione radicale che però, nell'opinione pubblica fa breccia. Così come si vorrebbe capovolgere lo Stato di Diritto e quei principi costituzionali, di cui Travaglio e amici si dichiarano grandi difensori. Infatti ecco lì che si mette in discussione che una regola (per cui il Presidente della Repubblica non possa essere intercettato) bisogna ignorarla e visto che la Corte Costituzionale dice che le norme ed i principi della Costituzione non possono essere calpestati, così, come già aveva abituato Berlusconi, ecco che parte l'urlo, questa volta da Ingroia & C: sentenza politicizzata!  Marco Travaglio ha ora, sullo scacchiere politico, un solo amico, Beppe Grillo. Di Pietro, così come Ingroia, sono rimasti fuori dal Parlamento e quindi gli resta solo il M5S ed il suo amico padre-padrone. Grillo lo ha ospitato con il “passaparola” dandogli un palcoscenico nei momenti di stanca dal piccolo schermo. Grillo, con la Casaleggio, ne ha prodotto i Dvd. La base “grillina” è un buon mercato che, si sa, se osi non chinarti al “verbo” di Grillo (lo chiama “il verbo” da diffondere lui stesso, molto umilmente), sei un traditore e cadi in disgrazia, che se devi vendere giornale e libri non è una bella prospettiva. Ed allora ecco che, ancora una volta, tutto ciò che per gli altri sarebbe “peccato” quando riguarda Grillo e pentastellati diviene un “pregio”, anzi una garanzia!
Travaglio, che ha tanto a cuore la questione “legalità”, non si è nemmeno accorto che nel programma (e nemmeno nelle “stelle”) del movimento del suo amico Grillo, questo punto è latitante! Non c'è una proposta che sia una in materia di anticorruzione, antiricilaggio... nemmeno su prevenzione e contrasto delle mafie, così come nulla sulla necessaria riforma della Giustizia. Il silenzio colpevole degli altri, quando è silenzio di Grillo e dei “5 stelle” diventa un bello... E così un “sacco bello” diventa anche il negazionismo e le sortite deliranti sulla mafia che Grillo dispensa e che i “grillini” assimilano. Anche qui, se mai l'affermazione “La mafia non uccide” l'avesse fatta un Berlusconi o un chicchessia qualsiasi di altri partiti, apriti cielo (giustamente), ma visto che l'ha fatta Grillo ed i “grillini” l'hanno assunta a “verbo” allora va bene, è giusto così, “la mafia non uccide”. Ed ancora se mai un Casini, un Crisafulli o Dell'Utri avessero detto che ormai la mafia non ricicla più nel cemento si sarebbero aperte (giustamente) le critiche più pesanti, ma visto che lo sostiene Grillo allora è vero, la mafia nel cemento non ci azzecca più nulla... anche se la realtà dice l'esatto opposto. E poi, i programmi, la credibilità dei candidati e della loro azione, che tanto sta a cuore in generale a Travaglio, per il movimento di Grillo, sono bazzecole che non occorre valutare. Ed allora, quando ti trovi in realtà dove, ad esempio, la 'ndrangheta condiziona pesantemente economia, politica e pezzi delle istituzioni e pubbliche amministrazioni, e i partiti della “kasta” tacciono, negano o minimizzano, si deve (giustamente) denunciare tale scellerato atteggiamento, ma se a tacere, negare o minimizzare sono Grillo ed il M5S allora va bene così, di certe cose non è poi mica necessario parlare! E, di esempi, ce ne sono. Guardiamo alla terra della Liguria, quella di Grillo. Ebbene qui a Genova, delle collusioni tra 'ndrangheta e pezzi determinanti dell'economia locale, così come della politica e delle pubbliche amministrazioni, ce ne sono quanti se ne vuole, ma il M5S su questo “dettaglio” tace. A Bordighera, Comune la cui amministrazione è stata sciolta per mafia e che vede l'ex sindaco indagato per concorso esterno, si è andati ad elezioni ma sul punto 'ndrangheta dal M5S il silenzio è stato assoluto, anche davanti alle sparate di Vittorio Sgarbi che, nostalgico di Niscemi, è giunto per sostenere che il problema a Bordighera non è la mafia, bensì l'antimafia. E così a Imperia, la città di Scajola e del Porto di Caltaggirone, costruito con le ditte di 'ndrangheta, silenzio sul punto, così come a Sestri Levante dove grande imprenditore e consigliere comunale uscite è il Santo Nucera che, dagli atti, risulta affiliato alla criminalità organizzata calabrese... e poi, ancora più a levante, a Sarzana, dove ha sede uno dei “locali” della 'ndrangheta, di nuovo, sempre, costante, silenzio sul tema! A Grillo ed al suo movimento è perdonato tutto ciò che agli altri non sarebbe lasciato passare nemmeno per sbaglio. Travaglio è così, gli amici sono amici e vanno difesi, a prescindere. Si può modificare la realtà, offrendone una percezione radicalmente difforme, pur di difendere l'ultimo amico sullo scacchiere politico. Ed allora alla propaganda di Travaglio per Grillo, come di prassi, come già accaduto per Di Pietro e per Ingroia, si indossano gli abiti di avvocato difensore che mostra i denti a chi osa toccar l'amico. Già davanti ai risultati elettorali si è potuto assistere al salto mortale del tramutare, da parte di Travaglio, una sonora sconfitta in una gloriosa vittoria, ma visto che non bastava, e visto che occorre serrare le fila nella difesa dell'amico in difficoltà, Travaglio supera, ancora una volta, se stesso con l'ultimo editoriale, quello di oggi. Travaglio attacca Antonio Amorosi reo di aver parlato della nostra articolata e documentata inchiesta sulla gestione dei fondi da parte del M5S. Travaglio si guarda bene dall'entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo pubblicato ed inviato alle Autorità competenti Non lo fa perché sarebbe dura smentire le fonti di questa inchiesta che sono, tutte, una dopo l'altra, tutte fornite dai vari siti del M5S e quindi, ovviamente, non considerabili “ostili” allo stesso. Non lo fa perché Travaglio sa bene che un partito non può gestire i propri fondi (siano quelli derivanti dai rimborsi elettorali, quelli derivanti dai fondi pubblici a cui attinge o quelli derivanti da donazioni e sottoscrizioni) su conti privati di terzi, eludendo ogni contabilizzazione da parte del partito e quindi ogni tracciabilità dei movimenti in entrata ed in uscita. Se si leggesse un articolo di Travaglio che dice “gestire i fondi del partito su miriadi di conti privati, senza iscriverli a bilancio e usandoli facendo fatture intestate ad altri è bello e giusto” è ovvio che si sobbalzerebbe sulla sedia e il strabismo sarebbe evidente ai più... e quindi lui evita di entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo fatto e attacca chi osa parlarne, reo, come detto, di lesa maestà, cioè il portatore del “verbo”, l'amico Beppe Grillo. Travaglio attacca Amorosi che riporta un passaggio della nostra inchiesta (che nemmeno Grillo ed alcuno del M5S ha smentito, né nelle anticipazioni, né nella sua pubblicazione (anche sulle bachece facebook di Grillo, anche se in diversi gli hanno postato sul blog la questione ed i link). Grillo non risponde, il M5S non risponde... anche perché è dura dare smentita ai fatti... ma parte all'attacco Travaglio, così da porre il suo "bollino di qualità" che, senza smentire, fa dire: smentita è fatta!
Travaglio crea, come sempre, il paradosso affermando che si accusa Grillo di “rubare” per esorcizzare e nascondere una verità di fatti documentata: una gestione del M5S, il secondo partito italiano, inquietante e fuori da qualsivoglia norma. Poi per cercare di rappresentare al meglio la sua illazione-difensiva la butta sul “giudiziario”... ovvero se non c'è un'inchiesta della magistratura (e poi chi lo dice, con certezza, che non ci sia?) allora va tutto bene, dimenticando che c'è una questione politica grande come una casa: un politico - il suo amico Grillo - che sbraita di trasparenza, democrazia e di politica senza soldi, e che ha un movimento - il M5S – che di trasparenza non ne ha nemmeno l'ombra, di democrazia non ne parliamo visto che è un partito in mano a Grillo, nipote e commercialista (unici tre soci e dirigenti), in cui ogni decisione è presa da Grillo (e staff, alias Casaleggio), e di soldi ne ha quanti ne servono per le proprie attività, ma gestiti come “fondi neri” (in quanto non contabilizzati e gestiti in entrata ed uscita su conti correnti personali e non quindi del M5S), tanto che pubblica persino un rendiconto falso dello Tsunami Tour. Immaginate se una gestione così l'attuassero gli altri partiti, quelli della “kasta”? Sarebbe il finimondo. Sarebbe un giusto attacco ad una gestione inquietante della democrazia interna, delle scelte e della gestione dei fondi... ma già come fu per il partito familiare dell'amico Di Pietro, anche in questo caso, per Travaglio, essendo in causa l'amico Grillo, non solo propaganda, ma difende a prescindere dai fatti e attacca chi osa criticare il suo ultimo uomo nello scacchiere politico.
Non si chiama come Fede, ma anche lui si dimostra “fido” agli amici... E' ammiccante e accattivante, con il suo sguardo e la sua battura ed il falso detto bene diventa verità, in Italia... vale per gli altri e vale per il popolo fedele di Travaglio che, non guarda ai fatti, ma si affida alla loro libera interpretazione del vendicatore dalla penna pungente. In Italia ci sono le tifoserie, si sà... e non conta la verità, anzi non la si vuole la verità. Si vuole quella percezione di verità che ci fa stare bene, ad ogni tifoseria la propria, quella che avvalla il dogma, il credo, la fiducia nel "salvatore". E Travaglio ha la sua curva di tifosi, non può tradirla e quindi l'asseconda dicendo ciò che vogliono sentire, difendendo l'amico, tanto i fatti non contano, siamo nel campo della propaganda! E' così da tempo, purtroppo e guai a ricordarlo, è molto permaloso, perché per lui la verità è ciò che si presta a darli ragione, ma se una verità lo smentisce allora questa è deve essere cancellata, senza se e senza ma, perché nell'ambito della fede non conta la logica ma solo l'acquiescenza anche alle bufale più conclamate. Non a caso, come il suo maestro Montanelli, anche lui – come ha avuto modo di ricordare anche pubblicamente – votava DC turandosi il naso, perché la DC era il meno peggio... infatti nella DC del meno peggio c'erano persona per bene, come il buon vecchio “don Vito”, papà del nuovo eroe dell'antimafia, e tanti altri personaggi che ben conosciamo, mentre dall'altra parte, quella "del peggio" c'erano gente come Enrico Berlinguer che, per carità, era il demonio.  L'Italia è il Paese del "tengo famiglia", ma anche quello del "tengo amici"... e noi di amici ne abbiamo pochi ed anche con questo pochi, quando c'è qualcosa di dire, la diciamo. Ecco, noi l'opportunismo e la convenienza personale, così come la pratica del piegare i fatti per agevolare qualcuno nello scacchiere politico, non ce l'abbiamo. Altri, come Travaglio, dimostrano, giorno dopo giorno, di stare bene, invece, in questa Italia, del tengo famiglia e del tengo amici... Lui si dice indipendente ma poi ci casca sempre nello smentirsi con le dichiarazioni di voto, lo fa per il popolo che pende dalle sue labbra... per lui informazione è propaganda, non è fornire gli elementi oggettivi perché poi ognuno, in propria coscienza e ragionamento, valuti e decida. E' un Ufficio Stampa gratuito per gli amici, ed in tempo di "crisi" non conosce crisi, anche questa, in Italia, è una "qualità"! P.S. Ma perché Travaglio non dice apertamente di essere un giornalista militante, ovvero uno che fa il giornalista e presta questa sua penna alla difesa degli amici? Sarebbe più corretto del mostrarsi “indipendente” quando questa indipendenza non c'è manco di striscio.

In contrapposizione a Travaglio ci troviamo Grasso. Aldo Grasso: "Per il 2014 meno talk show e più X-Factor". Il critico del Corriere elenca i suoi desiderata per l'anno nuovo: "Basta talk show che non approfondiscono nulla. Meglio Fiorello e il talent per chi canta", scrive “Libero Quotidiano”. "Meno Santoro e più X Factor". E' questa la tv che sogna Aldo Grasso per il 2014. In un editoriale su Oggi, il critico televisivo del Corriere della Sera fa l'elenco dei suoi "dieci desideri per la televisione del 2014". Grasso mette nel mirino subito i talk show che ormai affollano i palinsesti dal lunedì al sabato. Grasso critica soprattutto quelli d'approfondimento politico ed è facile leggere oltre le righe un riferimento a Servizio Pubblico di Michele Santoro e Ballarò di Giovanni Floris: "Mi piacerebbe che ci fossero meno talk di approfondimento, che tanto non approfondiscono più niente, sono solo passerelle per i politici o gente che si vuole mettre in mostra". Insomma Grasso vuole un palinsesto libero dai santorini di turno e spinge per una tv che sappia riscoprire "X Factor e Fiorello": "Verrà mai il giorno in cui la Rai, il Srvizio Pubblico farà un varietà bello come X Factor? Tornerà Fiorello?", scrive Grasso. Infine il critico mette nel mirino Vespa: "Non vorrei più vedere, per fare un esempio, un Matteo Renzi in un programma di Bruno Vespa. Il nuovo esiste solo quando si confronta con il nuovo".

E poi ci sono i giustizieri della rete. Ragazza malata pubblica messaggio a favore della sperimentazione animale, coperta d'insulti: "Dovevi morire bambina". Caterina ha 25 anni e studia Veterinaria. Ma ha 4 malattie genetiche e senza ricerca scientifica sarebbe morta a 9 anni. Ma per il popolo del web questa è una colpa, scrive “Libero Quotidiano”.

"Dovevi morire a 9 anni, meglio gli animali di te, crepa" e giù insulti. Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria a Bologna afflitta da quattro malattie genetiche, è stata raggiunta da oltre 30 auguri di morte e 500 offese personali per aver pubblicato su Facebook un messaggio a favore della sperimentazione animale dei farmaci. Caterina ha avuto la colpa, a giudizio di quelli che lei stessa, con una certo ironia, ha definito i "nazianimalisti", di fotografarsi attaccata a un respiratore e con il cartello: "Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro". Le reazioni - "Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te" scrive tale Giovanna. "Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose", rincara la dose un altro utente, "Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta" rilancia un terzo. E' questo il tenore dei messaggi ricevuti da Caterina, tutti finiti in un dossier presentato alla Polizia Postale per avere ragione delle violenze verbali subite. Il linciaggio mediatico della ragazza  è partito dopo la sua foto è stata rilanciata sui social dal gruppo "A favore della sperimentazione animale", cosa che le ha dato maggiore visibilità. "Non capisco il perché di tanta cattiveria - si chiede ora che l'incidente è avvenuto -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali". La Simonsen ora chiede che Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e l'ex ministro Michela Vittoria Brambilla prendano le distanze e stigmatizzino l'incidente. Nel frattempo si gode i 14mila like che comunque il web le ha tributato.

«Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te»: firmato Giovanna. E’ solo uno degli oltre 30 auguri di morte e 500 offese ricevuti su Facebook (e denunciati) da Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria all’Università di Bologna, colpita da quattro malattie genetiche rare, e divenuta il bersaglio di estremisti animalisti sul social network dopo avere pubblicato una foto che la ritrae con il respiratore sulla bocca e un foglio in mano, scrive invece “Il Corriere della Sera”. «Io, Caterina S. - recita la scritta - ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro». Il post, rilanciato su Facebook dal gruppo «A favore della sperimentazione animale», ha ricevuto oltre 13mila «mi piace», ma ha suscitato anche una pioggia di «insulti, apprezzamenti, di tutto e di più», spiega la ragazza che con due video risponde a chi la attacca e lancia un appello a Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e Michela Vittoria Brambilla, affinché si dissocino dagli auguri di morte e prendano provvedimenti. «Se crepavi anche a 9 anni non fregava nulla a nessuno, causare sofferenza a esseri innocenti non lo trovo giusto», è il messaggio di Valentina. Concorda Mauro: «Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose». Insulti anche da Perry: «Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta». Materiale che Caterina ha consegnato alla polizia postale, con nomi e cognomi degli autori dei post. «Non capisco il perché di tanta cattiveria - replica la giovane -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali». Caterina non mangia carne e il suo sogno è laurearsi in Veterinaria per «salvare gli animali». Seduta sul letto, circondata dalle decine di farmaci che deve assumere e dai macchinari che le permettono di respirare, la ragazza spiega a chi la attacca come trascorre la sua giornata tipo. Una lotta quotidiana contro quattro malattie rare (immunodeficienza primaria, deficit di proteina C e proteina S, deficit di alfa-1 antitripsina, neuropatia dei nervi frenici), abbinate al prolattinoma, un tumore ipofisario, e a reflusso gastroesofageo, asma allergica e tiroidite autoimmune. Per poter sopravvivere passa dalle 16 alle 22 ore al giorno attaccata a un respiratore, deve utilizzare un’apparecchiatura che le fa vibrare i polmoni aiutandola a eliminare muco, assume montagne di medicinali spray, per bocca e in vena. Tra i quali, tiene a evidenziare, anche alcuni indicati per curare cani, gatti, furetti, rettili e uccelli. Quattro volte Caterina è finita in rianimazione, a un passo dalla morte. Solo nell’ultimo anno ha accumulato 12 settimane di ricovero e 20 di terapia endovena, e per poter dare gli esami all’Università segue un programma studiato appositamente per lei. «Mi dicono “meglio 10 topi vivi di te viva”, ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere», dice la giovane nei video. Questo è il suo appello: «Invito Brambilla, Lav e Partito animalista europeo a combattere contro l’utilizzo degli animali dove non è fondamentale per l’esistenza umana: la caccia, i macelli, gli allevamenti di pellicce. Anziché fare tanto rumore mediatico, e ostacolare il lavoro dei ricercatori potreste raccogliere fondi e investire soldi per cercare un metodo alternativo valido agli esperimenti sugli animali. Una volta trovati questi metodi, per legge dovranno sostituire i test sugli animali. Vi chiedo di chiedere all’Aifa di mettere grande sulle confezioni dei farmaci che il medicinale è testato sugli animali a norma di legge, così che chi si cura possa fare una scelta consapevole». A chi vorrebbe fosse morta, infine, la ragazza augura «il meglio», e «buona domenica». «È una vergogna quello che sta succedendo a Caterina. Non è ammissibile che persone disinformate e prepotenti si permettano di minacciare e augurare la morte a una persona gravemente malata». Così Dario Padovan, presidente di Pro-Test Italia (associazione non profit per la difesa della ricerca bio-medica), che bolla come «inaccettabili» gli insulti diretti alla ragazza. «Chiediamo che le associazioni animaliste prendano pubblicamente le distanze da questi comportamenti vergognosi e incivili di chi si professa sostenitore della loro stessa causa» conclude.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se dànno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza riguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Moralisti e manettari. Provare a spiegare a uno straniero che cosa sia il rapporto tra certa magistratura è certa stampa in Italia è impossibile, scrive “Il Giornale”. Come si fa per esempio a raccontargli ciò che sta accadendo in queste ore sul cosiddetto «caso Panama». C'è Valter Lavitola al quale hanno notificato un altro provvedimento di arresto per un tentativo di estorsione ai danni di Impregilo. Ma non è questa la notizia, ovviamente. E la notizia non è neanche un'altra: cioè che lui avrebbe danneggiato Silvio Berlusconi, usato come esca inconsapevole per la grande azienda di costruzioni che voleva fare affari a Panama. No, per i giornali la notizia sarebbero i presunti filmini hard che lo stesso Lavitola avrebbe girato dopo aver procurato - dice lui - delle prostitute a Berlusconi. Così ieri i giornali erano tutti pieni di questa notizia condita con intercettazioni senza alcuna rilevanza processuale e penale che però sono stati sbattuti nell'ordinanza di arresto e che a quel punto sono finiti alle redazioni. È la vergogna che si ripete: le vittime di possibili reati trattate come colpevoli, la privacy e il rispetto stracciati, l'ossessione delle altrui vicende sessuali che porta a spiattellare tutto senza distinguere ciò che è notizia vera da ciò che invece non lo è. La cosa più grave, come sempre, è il silenzio: nel Paese dei moralisti a gettone, dei garantisti a chiamata nessuno che si sia alzato in piedi per dire che questo è uno scandalo. Una vergogna della quale l'Italia si macchia da vent'anni e della quale non si riesce a liberare. I verbali contengono il nulla su Berlusconi, ma non importa. Non appena compare il suo nome in un'inchiesta, anche come vittima, viene trasformato in autore di misfatti dei quali neanche è a conoscenza. Chi li ha letti dovrebbe essere indignato per il solo fatto che quegli atti siano stati pubblicati. Di più: per il fatto che siano stati inseriti nell'inchiesta. Ecco, se quello straniero ha comprato Repubblica o il Fatto Quotidiano avrà pensato che Berlusconi sia stato considerato responsabile di chissà quale nefandezza. Il numero di pagine dedicate dai giornali al fatto è talmente sproporzionato da far dedurre al povero forestiero che la cosa sia grossa e molto importante. Neanche la lettura degli articoli può averlo aiutato, tanta e tale la bile sprigionata dalle gazzette delle procure. Vagli a spiegare che se qualcosa di vero c'è, Berlusconi è la vittima. Non è possibile perché la militanza di magistrati e giornalisti manettari è così forte da uccidere la verità. E poi parlano di giustizia.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I nuovi moralisti manettari e i frignoni italici .

"Qui piove e gli italiani si lagnano". Vittorio Feltri è una furia contro i piagnoni di casa nostra. Questa volta a far sbottare il fondatore di Libero è il meteo. In un editoriale su il Giornale, Feltri attacca chi si lamenta del freddo e della pioggia sotto le feste. Feltri guarda in Europa e afferma che in altri paesi come Inghilterra, Francia e Germania non c'è nessuno che "piange per il maltempo". "Siamo portati a dare una valenza politica a tutto, perfino ai fenomeni naturali, come se dipendessero dagli umani, in particolare se eletti e seduti in poltrona. Da quando non crediamo più in Dio, crediamo all'onnipotenza degli uomini. Siamo ridicoli", scrive Feltri. Insomma per Vittorio il motto "piove, governo ladro" è roba del secolo scorso. E così rincara la dose sugli italiani: "Per quanto riguarda la tempesta di Natale non si segnalano invece manifestazioni di protesta degli inglesi e dei francesi che hanno fatto i conti con tragedie non certo inferiori a quelle che periodicamente ci toccano". Infine la stoccata: "Vi sarà pure un motivo per cui il nostro popolo è incline a trovare un capro espiatorio al quale addossare la responsabilità di ogni guaio grosso o piccolo che sia. Probabilmente siamo talmente sospettosi nei confronti di qualunque autorità da temere che anche la furia degli elementi sia manovrata dal palazzo allo scopo di dimostrare che siamo ancora sudditi...". 

Politici postdatati vs cittadini retroattivi, scrive Nicola Porro. Per capire l’innesco, la sceneggiatura, di una rivoluzione borghese, o se preferite della classe media impoverita, basta tradurre in pagina il comportamento della nostra classe dirigente. Per se stessa applica il principio del «postdatato», mentre per il resto del mondo quello del «retroattivo». Andiamo al dunque. Si chiede a gran voce la riduzione (non fosse altro che per motivi di sobrietà istituzionale) dei costi della politica. I nostri geni si adeguano, producono una legge che avrà effetti nel prossimo futuro. Con il retropensiero che, passata la nottata, si possa sempre cambiare la norma al momento della sua esecuzione. Si taglia il finanziamento pubblico ai partiti, per dirne una, ma a partire dal 2017. Quando però la norma riguarda la gente comune, l’esecuzione è retroattiva. Altro che postdatata. Si applica una patrimoniale sui conti di deposito, ma a valere da ieri. Quindi è impossibile scappare. Si alzano le aliquote dell’Imu a dicembre, ma riguardano l’anno appena trascorso. Sono riusciti a inventarsi un acconto sulle imposte future superiore al 100 per cento di quanto presumibilmente dovuto. Le norme fiscali, nonostante lo Statuto dei contribuenti, sono spesso retroattive. Inchiodano al passato, senza dare la possibilità ai contribuenti di mutare, anche opportunisticamente, i propri comportamenti. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui una norma fiscale restrittiva si applica anche per il periodo in cui essa non era ancora vigente. Ecco, non c’è bisogno di scomodare lo scrittore Ballard per capire i motivi dell’insofferenza e della rabbia che ci invade, basta fare una telefonata al commercialista.

I voltagabbana. ''Marco Pannella dice che non andrà in piazza. Ma ci andrà comunque la Bonino, insieme al giustizialista Di Pietro. Se i radicali oggi fossero davvero liberi e capaci di fare una cosa liberale, dovrebbero molto semplicemente rompere l’alleanza (anche nel Lazio) con Di Pietro e con le liste di sinistra comunista e massimalista. Ma non lo faranno. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie, nel vano tentativo di nascondere l’alleanza sempre più strutturale di Bonino e Pannella con forze illiberali, giustizialiste e manettare''. Lo dichiara Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, sottolineando che è un ''triste epilogo della storia radicale: si passa da Sciascia a Travaglio, da Tortora a De Magistris, da Pannunzio a D’Avanzo, da Ernesto Rossi a Gioacchino Genchi. Auguri''.

In politica la tattica è (quasi) tutto, scrive “Libero Quotidiano”. Pertanto, la sterzata manettara di Matteo Renzi non stupisce. Da essa, il rottamatore deriva una triplice utilità nell’immediato: a) vellica i settori di elettorato più buttachiavi presenti sia a destra sia a sinistra; b) picchia sul nervo scoperto del rapporto tra piani alti del Pd e Giorgio Napolitano; c) costruisce un altro tassello della propria persona congressuale di strenuo avversario delle larghe intese (e del Pd che, Enrico Letta in testa, nelle larghe intese sguazza vieppiù apparecchiando le inconfessabili pastette col Caimano). Un politico, specialmente uno attento alla propaganda come Renzi, che non cogliesse al volo un’opportunità tanto evidente sarebbe un politico dalle discutibili abilità e scaltrezza. Detto questo, la giravolta forcaiola di Renzi una certa tristezza riesce comunque a metterla. Prima di tutto perché certifica che il sindaco di Firenze sarà innovatore finché si vuole ma non lo è al punto di sapersi sottrarre alla dittatura dei sondaggi che tanto piagò la seconda repubblica: i contrari a indulto e amnistia sono al 60%? Ebbene, sia dia loro contrarietà a indulto e amnistia, e per pensare al resto il tempo si troverà.

Il motivo vero per cui la folgorazione mozzorecchi del rottamatore arreca il magone, però, è un altro. E cioè il tradimento plateale di uno degli elementi del renzismo primigenio che meglio avevano fatto sperare: la possibilità di dare vita ad una nuova sinistra in grado di fare politica senza sventolare manette e brogliacci di tribunale. Prometteva benissimo, Renzi, al punto da fare intravedere la rivoluzione copernicana persino nei confronti del nemico numero uno (quante volte l’avrà ripetuta la famosa frase su Berlusconi «che va battuto alle elezioni e non nei tribunali»?). E invece niente da fare, tutto buttato alle ortiche in nome della convenienza del momento. Purtroppo per il sindaco, le tracce della piroetta sono ben visibili. Una, bellissima, l’ha trovata ieri Blogo.it: è una schermata dell’account ufficiale di Renzi su Twitter risalente al 18 dicembre 2012. C’è scritto solo «#iostoconMarco». Il Marco in questione era Panella, il quale era impegnato in uno dei periodici scioperi della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inferno delle carceri e chiedere adeguati provvedimenti di clemenza. E Renzi stava con lui.

Un radicale fiorentino tira fuori la lettera di Renzi che nel 2005 scriveva: “Aderisco alla battaglia di Pannella per l’amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana”. Anche nel 2012 appoggiava le battaglie di Marcolone - Ma non era diseducativa? - Idem per Grillo, che nel 2005 firmava appelli…

1. QUANDO MATTEO RENZI VOLEVA L'AMNISTIA, tratto da  giornalettismo.it. Matteo Renzi dice di non essere contrario all'amnistia per ragioni elettorali, e non si fa fatica a credergli. Perché soltanto uno che se ne frega totalmente del ridicolo in cui potrebbe finire direbbe oggi di essere contrario all'amnistia quando appena qualche tempo fa - mentre era presidente della Provincia di Firenze - era invece favorevole, come ricordano i radicali fiorentini. Questo il testo della lettera inviata da Massimo Lenzi nel 2005: Caro Presidente, l'auspicio a Lei caro "il futuro non può attendere" spesso impone una pronta attenzione al presente. Ed oggi l'auspicio di un futuro migliore si incarna nella decisione di Marco Pannella di attuare una forma estrema di lotta nonviolenta, lo sciopero totale della fame e della sete, per chiedere alle nostre istituzioni un'amnistia generalizzata per la popolazione carceraria. Giunto ormai al nono giorno della sua drammatica iniziativa, Pannella ha ribadito pubblicamente il senso di questa sua ennesima forma di lotta nonviolenta: «A queste istituzioni che si genuflettono dinanzi al Pontefice mi rivolgo chiedendo loro un atto di coerenza, di riconoscenza nei confronti del Papa. Un risarcimento, perché no?, con un fatto concreto. Mi chiedo: quale dev'essere l'atto di compassione nei confronti di quest'uomo? Tutte le nostre istituzioni - ha spiegato Pannella - hanno avuto parole di riconoscenza nei confronti del Papa. Sarebbe davvero un atto di riconoscenza varare l'amnistia. E' tradizione un atto di clemenza per festeggiare i nuovi re e i nuovi papi. Un'amnistia in ottemperanza a quello che lui chiese. Sarebbe anche un momento di dolcezza...». Come Lei sa, un deciso e straordinario provvedimento di amnistia e indulto, oltre a raccogliere la richiesta di clemenza reiterata dal Pontefice, consentirebbe di ripristinare l'esercizio effettivo della amministrazione giurisdizionale e giudiziaria, ponendo un argine contro la degenerazione in atto nella giustizia italiana, che, con sempre maggior evidenza, si traduce in ingiusta discriminazione di classe. Per questa ragione, caro Presidente, Le chiedo di schierarsi a favore dell'iniziativa di Marco Pannella, manifestando un significativo segnale di attenzione da parte dell'istituzione che Lei rappresenta. Caro Lenzi, la richiesta di Marco Pannella di ricordare Giovanni Paolo II, non coi manifesti celebrativi ma con un gesto concreto, nobile e giusto, mi sembra doverosa e bella. Conosci le mie opinioni e sai che sono spesso distanti da alcune delle battaglie storiche che Marco Pannella ha condotto e conduce. Ma sono pronto, nel mio piccolo, a fare la mia parte perchè la sete di giustizia che anima il leader radicale trovi una fonte soddisfacente. Aderisco, allora, alla battaglia di Pannella per l'amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana. Un caro saluto, Matteo Renzi. Ah, il tempo che passa. A questo punto, voi direte: «Ma Renzi ha detto che non bisogna fare un'altra amnistia dopo quella del 2006, mica che è pregiudizialmente contrario». Ebbene, non è passato molto tempo, invece, dal dicembre 2012, quando Renzi, insieme ad Enrico Rossi, scriveva a Marco Pannella: Le tue richieste sono giuste e legittime, nella loro immediatezza oltre che nel loro contenuto." Da dieci giorni seguiamo con seria preoccupazione i bollettini medici sul tuo stato di salute e proprio per questo vogliamo farci carico della lotta per l'amnistia, per la giustizia e per la libertà, per il ripristino della legalità e del rispetto della dignità all'interno delle nostre carceri, per interrompere una violenza che riguarda tutti i cittadini, non solo i detenuti; per ristabilire i principi della Costituzione, depredati nella loro completezza laddove prevedono che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e ne sancisce la funzione rieducativa; convinti che laddove siano stati violati o ignorati dei diritti, laddove venga meno la legalità, lo stato di diritto, esista anche, e tu lo sai bene, strage di popoli. Con grande apprensione e la piena solidarietà, da oggi introdurremo nelle nostre priorità istituzionali le necessarie misure affinché si possa limitare e riparare al collasso della giustizia e della sua appendice ultima delle "catacombe" carcerarie, luoghi di sofferenze atroci, di tortura e di morte quotidiana. Armati di nonviolenza, con i nostri corpi, con il ruolo che ricopriamo, intraprenderemo, a staffetta, uno sciopero della fame, sperando, con forza e caparbietà, che il Parlamento italiano conceda un provvedimento di amnistia e si attivi con atti urgenti per porre rimedio all'emergenza carceraria, al vergognoso sovraffollamento delle nostre strutture penitenziarie, non come soluzione ma come punto di partenza per una riforma strutturale della giustizia, con misure alternative alla carcerazione, in primis per i tossicodipendenti. Il testo è tratto da una lettera aperta a Marco Pannella scritta dal consigliere regionale della Toscana Enzo Brogi. Tra le prime adesioni quelle del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del sindaco di Firenze Matteo Renzi, del consigliere regionale Marco Taradash, di Sergio Staino, Alessandro Benvenuti e dei cantanti Dolcenera e Erriquez (Bandabardò). E insomma: all'epoca Renzi prometteva anche uno sciopero della fame. O tempora, o mores.

2. QUANDO BEPPE GRILLO PARLAVA DI AMNISTIA (OSPITANDO PANNELLA SUL SUO BLOG) - E FIRMAVA L'APPELLO DEL 2005 PER L'AMNISTIA, tratto da giornalettismo.it. Oggi Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle protestano con veemenza contro l'amnistia o l'indulto chiesti esplicitamente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per risolvere la «questione scottante» dell'emergenza carceri. Alcuni esponenti del partito del comico genovese hanno prontamente bollato la proposta del capo dello Stato come un provvedimento salva-Berlusconi. Qualcuno, come il deputato Manlio Di Stefano, ha chiesto addirittura le dimissioni di Napolitano. Il vicepresidente della camera Luigi Di Maio, invece, ha sostenuto che il presidente della Repubblica «se ne frega» delle opposizioni. Eppure qualche tempo fa era proprio Grillo a difendere la battaglia di Marco Pannella contro le morti in carcere e il sovraffollamento dei penitenziari, a favore dell'amnistia. Scriveva il leader 5 Stelle sul suo blog il 24 giugno 2011: Marco Pannella si sta battendo per una causa giusta, contro le morti in carcere, ogni anno più di 150, molte di queste oscure e riportate purtroppo con regolare cadenza su questo blog. Non ci vogliono più carceri, ma meno detenuti. Va abolita la legge Fini-Giovanardi che criminalizza l'uso delle marijuana. I reati amministrativi vanno sanzionati con gli arresti domiciliari e un lavoro di carattere sociale. Inoltre, quando questo sia possibile, gli stranieri, extracomunitari o meno, devono poter scontare la pena, qualunque essa sia, nel loro Paese di origine, vicino alla famiglia. Il carcere in Italia non serve a riabilitare nessuno, ma a uccidere. E', di fatto, una scuola di criminalità. Basta nuove carceri e che le istituzioni (ma quali? questo è il problema) ascoltino Marco Pannella. Grillo, nello stesso post, pubblicava poi una lettera dello staff di Pannella in cui si faceva chiaro riferimento all'amnistia. Si leggeva tra le righe: Marco Pannella è dovuto arrivare, dopo due mesi di sciopero della fame, al digiuno totale della fame e della sete, per richiamare l'attenzione delle istituzioni su due questioni: la necessità e l'urgenza di una amnistia quale primo passo per affrontare la crisi della giustizia (tempi lunghi e prescrizioni la rendono di fatto inesistente) e l'emergenza del sovraffollamento delle carceri (solo negli ultimi 10 anni ci sono stati più di 650 suicidi in carceri che oggi contengono oltre 68 mila detenuti a fronte di 44 mila posti regolamentari!); il silenzio dell'informazione e l'assenza di ogni confronto democratico su questa come su ogni altra questione che interroghi la coscienza dei cittadini e richieda importanti decisioni politiche e gravi scelte legislative. Come si cambia, è il caso di dire. Edit: come ci fa notare Francesco nei commenti, Beppe Grillo firmò nel 2005 un appello per l'amnistia proposto dai radicali. Il suo nome figura tra gli artisti.

Segreteria Pd, i giovani di Renzi sono un'Armata Brancaleone. Gaffe, bocciature, vizi da vecchia Casta: le prime settimane della nuova segreteria democratica sono tutte da ridere...scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.  Sarà che con Matteo Renzi l’Italia cambia verso, ma qua si odono sempre gli stessi ragli. La nidiata di renzini giovani e carini in pochi giorni ha già dato prova del proprio valore, dimostrando di non avere nulla da invidiare ai ferrivecchi in stile Massimo D’Alema. Il Divino Matteo promette battaglia sui costi della politica e mena fendenti alla Casta? Ecco che Debora Serracchiani - presidente della Regione Friuli - Venezia Giulia, uno dei volti più noti del suo esercito - inaugura la nuova era di sobrietà salendo su un volo di Stato da Trieste a Roma. Per fare cosa? Per andare a Ballarò. Doveva accomodarsi nel salotto di Giovanni Floris e ha pensato bene di scroccare un passaggio a Enrico Letta sul suo aereo. Probabilmente, la simpatica Debora ha preso molto sul serio l’esempio di Laura Boldrini, che si è fatta accompagnare dal fidanzato ai funerali di Mandela in Sudafrica, ovviamente a bordo di un velivolo gentilmente sovvenzionato dai contribuenti. Mica si è scusata, la Serracchiani. Anzi, ha detto che le sembrava tutto normale. Brava, così si fa: nel pieno solco della grande tradizione politica italiana. A quanto pare, l’Italia cambia verso: sì, quando prende il volo di ritorno. Poi c’è Marianna Madia, a cui va il premio «Fulmine di guerra» 2013. La riccioluta signorina (ex veltroniana, ex bersaniana, ex lettiana) è da poco entrata nei magnifici dodici della segreteria del Pd. Non avendo lavorato un giorno un vita sua, giustamente le hanno affidato l’incarico di responsabile del lavoro. L’altro giorno, come rivelato dal Tempo, doveva recarsi in via Veneto per incontrare il ministro Enrico Giovannini, che appunto di lavoro si occupa. Che ha fatto la Madia? Si è presentata al cospetto di Flavio Zanonato, al ministero dello Sviluppo economico. Si è seduta e si è messa a ripetere il compitino che si era attentamente studiata. Zanonato l’ha ascoltata per parecchi minuti, poi le ha fatto timidamente notare che si era sbagliata: la sede del ministero del Lavoro, le ha detto, sta dall’altra parte della strada. Ecco la soluzione: bastava cambiare verso, guarda un po’. Già ci vuole un bel coraggio a guardare in faccia Flavio Zanonato e a pensare che sia un ministro. Ma parlargli per venti minuti pensando che sia un’altra persona è un colpo di genio. La Madia avrebbe potuto cavarsela con una scusa: «Lo so che sei Zanonato, volevo solo provare il mio discorso, adesso vado a riferirlo al ministro vero». E invece  pare che se ne sia uscita balbettando: «Ma ministro, tu non ti occupi di lavoro?». No, e  a quanto vediamo dai risultati, non se ne occupa neppure la Madia. Ma non dimentichiamo Filippo Taddei, scelto da Renzi come responsabile economico del Pd. Lauree e master come se piovesse, poi l’hanno bocciato al concorso per diventare professore associato di Politica economica. La commissione ministeriale ha stabilito che le sue pubblicazioni non erano sufficienti. Fortuna che dovrebbe essere una delle menti che ridaranno impulso all’economia italiana.  A questo punto, tanto valeva tenersi Romano Prodi. O Piero Fassino, visto che Renzi sta già pensando a come salvare il potere del Pd dentro Mps. L’Italia cambierà anche verso, ma nel Pd vanno sempre nella stessa direzione. Ci permettiamo solo un consiglio a Matteo e soci. Magari, invece di convocare le riunioni alle sette di mattina, converrebbe svegliarsi un paio d’ore più tardi onde evitare il rincoglionimento nel corso della giornata. Con un po’ di sonno in più, forse la Madia avrebbe riconosciuto Zanonato. Per la Serracchiani, invece, non ci sono problemi: se è stanca, si appisola in aereo.

IL NUOVO CHE AVANZA.

 “Io e Marco (Travaglio) siamo stati tenaci. C’è stato un periodo in cui eravamo soli contro tutti, guardati male anche all’interno dei nostri giornali perché eravamo quelli sommersi dalla querele dei potenti e di Berlusconi in particolare“. Lo rivela Peter Gomez in un ritratto a tutto tondo reso ad Andrea Scanzi nel suo programma “Reputescion”, in onda su La3, scrive Gisella Ruccia. “Eravamo visti come dei pazzi che scrivevano libri” – continua il direttore de ilfattoquotidiano.it – “e venivamo accusati da destra e da sinistra di essere dei giustizialisti. Poi le cose sono cambiate”. Gomez nega la definizione di “house organ di Beppe Grillo” affibbiata al “Il Fatto Quotidiano”: “A differenza di altri, noi non attacchiamo Grillo a prescindere. Tutte le notizie negative sul Movimento 5 Stelle o il 90% di queste sono state date in anteprima dal fattoquotidiano.it”. E cita qualche esempio: “Dal caso Tavolazzi ai referendum sulla democrazia interna al M5S fino alla decisione di Beppe di mettere sul suo blog in maniera piuttosto maleducata il mio indirizzo email privato, sperando in un mail-bombing che poi non ci fu”. A Scanzi che gli chiede se Il Fatto sopravviverà a un’uscita di Berlusconi dalla scena politica risponde: “È scientificamente dimostrato, ci siamo occupati talmente tanto degli altri, siamo abbastanza bravi ad occuparci di tutti per cui il pubblico è in grado di accorgersene. La nostra differenza” – continua – “è che non abbiamo né padrini né padroni, L’unico modo per vendere i giornali e far frequentare i siti internet è avere le notizie. E finchè avremo le notizie, noi vivremo”. Gomez poi esprime il suo personale giudizio sui alcuni colleghi: “Santoro è un fuoriclasse, come Maradona: il più bravo di tutti. Formigli ha tanto talento, le sue ultime trasmissioni, in particolare quest’anno, sono giornalisticamente perfette, però non è Maradona. Marco Travaglio è una rockstar del giornalismo. Calcisticamente è Messi. Io sono Oriali”. E su Alessandro Sallusti svela: “E’ come Darth Fenner, l’ho conosciuto sulla strada, era uno dei più bravi cronisti che ci fossero in circolazione. Poi ha conosciuto il Lato Oscuro della Forza e si è fatto riprendere. Con Vittorio Feltri” – continua – “ho buoni rapporti. Ma entrambi hanno fatto delle scelte che sono in antitesi con il giornalismo. Sono dei grandi professionisti, Feltri è bravo a vendere i giornali, ma il giornalismo non è vendere i giornali”.

Ma proprio dal Fatto “Quotidiano arriva uni scoop: Oggi fanno i moralisti, ma ecco cosa facevano Peter Gomez e Marco Travaglio solo pochi anni fa: un filmato in Rete dimostra in maniera inequivocabile la militanza dei due cronisti fra le file di Forza Italia. Il Fatto Quotidiano non esisteva ancora e Silvio Berlusconi, come ama ripetere Daniela Santanchè, non era il loro “core business” come oggi. Ma questo video, complice la band milanese Elio e le storie tese, getta una luce inquietante sul passato del direttore del sito e del vicedirettore del giornale. Che siano sempre stati tutti d’accordo? Altro che larghe intese, altro che inciucio, Travaglio, Gomez e Berlusconi sono stati protagonisti di una trattativa ancora più indecente di quella fra lo Stato e la mafia. La redazione del fattoquotidiano.it è entrata in stato di agitazione.

Ho cominciato la mia carriera di giornalista come cronista giudiziario all'Avanti! di Milano nei primi anni Settanta, scrive Massimo Fini. Ogni giorno vedevo passare nei grandi androni del Palazzo di Giustizia non solo qualcuno in manette ma file di detenuti tenuti insieme dagli "schiavettoni" e da catene sferraglianti come dei deportati alla Cajenna. Ogni tanto quando c'era un delitto particolarmente importante, in genere rapine perché allora la classe dirigente non si era ancora così corrotta come sarebbe stato negli anni Ottanta e dimostrato nei Novanta con le inchieste di Mani Pulite, arrivavano, oltre ai fotografi, anche le Televisioni. Da neofita me ne stupivo. Non tanto delle manette, che soprattutto nei trasferimenti di più detenuti sono necessarie, ma dell'esposizione pubblica di queste persone, senza alcun rispetto, senza ritegno, senza protezione (anche quando non ci sono le tv non deve essere piacevole farsi vedere in manette dalle centinaia di persone che transitano ad ogni ora in un grande Palazzo di Giustizia qual è quello di Milano) ma allora nessuno sembrava curarsene, tantomeno i politici e gli opinionisti. In fondo la cosa non riguardava che degli stracci. Il 4 marzo del 1993, in piena Mani Pulite, ci fu l'episodio di Enzo Carra, l'ex portavoce di Forlani, fotografato in manette. I più feroci furono Bibì e Bibò, alias Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttore e vicedirettore dell'Indipendente, che spararono la foto in testa alla prima pagina, ingrandendola il più possibile e indicando Carra al ludibrio della folla inferocita di quei giorni. Il più pietoso fu il "giustizialista" Antonio Di Pietro, ai tempi pubblico ministero, che ordinò agli agenti penitenziari di togliere immediatamente le manette a Carra. Del resto allora Bibì e Bibò erano dei forcaioli assatanati, sarebbero diventati dei "garantisti" a 24 carati quando passarono nella scuderia di Silvio Berlusconi. Se la prendevano anche coi figli degli imputati. Per esempio quelli di Craxi. Toccò a me scrivere sull'Indipendente una lettera aperta a Vittorio ("Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi", 11/5/1993) ricordandogli che i figli non hanno i meriti ma neanche le colpe dei padri. Così come toccò a me, nel momento della caduta, mentre una legione di improvvisati fiocinatori si accaniva sulla balena ferita a morte, scrivere, sempre sull'Indipendente, un articolo intitolato "Vi racconto il lato buono di Bettino" (17/12/92), in cui, benché tempo prima Craxi mi avesse definito, nientemeno che dagli Stati Uniti dov'era in visita, "un giornalista ignobile che scrive cose ignobili", ricordavo che oltre all'uomo sfigurato, sconciato che vedevamo, con orrore, in quei giorni drammatici, ce n'era stato anche un altro che aveva suscitato speranze in molti. Passata la stagione euforica di Mani Pulite, l'immagine di Enzo Carra in manette è passata alla storia come l'emblema della "gogna mediatica" che non avrebbe dovuto ripetersi mai più (come dopo il "caso Valpreda" si giurò che mai più nessuno sarebbe stato chiamato "mostro"). Il Garante della privacy emanò alcune regole di comportamento per i media e parve affermarsi una maggior sensibilità per il rispetto della dignità dei detenuti. Ma solo per alcuni. Lo dice il recente episodio che ha visto protagonista Fabio De Santis, l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane, uomo di fiducia di Angelo Balducci, insomma uno della "cricca". Con un cellulare De Santis è stato portato in manette, come gli altri quattro detenuti che erano con lui (due spacciatori di droga, un ladro, un rapinatore) dal carcere fiorentino di Sollicciano al Tribunale del Riesame. Quando è sceso dal cellulare De Santis ha dovuto percorrere una ventina di metri sotto l'occhio delle telecamere. Solo due telegiornali però hanno mandato in onda quella scena. La giustificazione più farsesca e farisaica è stata quella di Mauro Orfeo, direttore del Tg2: "Volevamo denunciare una gogna che ricorda certe immagini di Mani Pulite". Denunciava la gogna mentre lo stava mettendo alla gogna. Il Garante della privacy è intervenuto, molti politici e opinionisti si sono indignati. Molto giusto. Ma nessun Garante della privacy ha battuto ciglio e nessun politico si è indignato, nessun opinionista ha alzato il dito quando tutti i telegiornali, solo per fare, fra i tanti possibili, l'esempio ricordato ieri da Travaglio, mostrarono, con evidente compiacimento, le immagini di tre rumeni in manette accusati di stupro (e poi assolti). Molti politici, in particolare donne, dichiararono: "Per questi soggetti ci deve essere la galera subito e poi, processo o non processo, buttare via la chiave". Che cosa significa tutto ciò? Che si sta sempre più affermando in Italia un doppio diritto, di tipo feudale e peggio che feudale. Quello per i "colletti bianchi", per i vip, per "lorsignori", che oltre ad essersi inzeppati il Codice di procedura penale di leggi talmente "garantiste" da rendere quasi impossibile l'accertamento dei reati loro propri (fra poco non potranno nemmeno essere intercettati se non con mille limitazioni - parlo dei limiti posti alle indagini della polizia giudiziaria e della magistratura, non di quelli, a mio parere sacrosanti, alla loro divulgazione), van sempre trattati con i guanti. Per tutti gli altri, per coloro che commettono reati da strada, che sono quelli dei poveracci, non vale nemmeno la presunzione di innocenza. C'è la "tolleranza zero". Ma questa è la vecchia, cara e infame giustizia di classe.

Giorni a sentire di quanto è legittima la protesta della piazza, settimane a ripetere ossessivamente che anche le gente che manifesta ha le sue ragioni… e poi? E poi alla prova dei fatti tutto s’è concluso con una manciata di manifestanti che non sapevano neppure quel che volevano sullo sfondo di una Piazza Plebiscito vuota, scrive Conte Zero su “Il Movimento dei Caproni”. Secondo la questura (cito i dati riportati da Repubblica) in piazza sono circa tremila persone: per loro lo stato ha stanziato duemila agenti, in pratica ogni manifestante avrà il suo poliziotto personale. A pensarci ora viene da ridere… nel passato le proteste in Italia (ed in Italia si manifesta con una certa regolarità) sono state ben più consistenti eppure mai s’è dato così tanto peso a questo genere d’operazioni, anzi spesso e volentieri gli organizzatori si sono seccati perché le loro proteste non hanno avuto risalto mediatico mentre in questo caso c’è stata più ribalta che fatto in sé. Questa volta sembra che i giornali ed i giornalisti non avessero altro di cui discutere. Eminenti politologi, commentatori politici, talk show e tribune politiche hanno fatto a gara per accaparrarsi almeno un “forcone” da esporre e far parlare. Ovunque era il festival del “alla fine anche loro hanno le loro ragioni”… una specie di messa quotidiana in cui, girando da un canale all’altro (o da un giornale all’altro) la litania era sempre la stessa : “la gente non ce la fa più”. Andiamo ai fatti: quanti erano? Perché quando i sindacati manifestavano per motivi oggettivamente più sensati non se li filava nessuno mentre qui tizi come Calvani hanno collezionato apparizioni in TV in cui hanno ribadito fino alla nausea luoghi comuni ed ovvietà misti a discorsi che non stanno né in cielo né in terra ?

Possibile che nessuna trasmissione (da Agorà a La gabbia) si sia accorta di quanto sconclusionati, vacui ed approssimativi sono questi manifestanti e le “idee” (ma c’erano delle idee ?) che portavano avanti ? Possibile che nessuno si sia accorto che questi qua non se li filava nessuno ? Nessuno ha visto che quelli fermati per il volantinaggio tutto volevano tranne che “fraternizzare”? Il discorso va fatto seriamente perché il problema non sono solo i forconi in sé, nel computo ci sono anche e soprattutto i media che hanno provato a “montarli” come fossero qualcosa di serio e sensato (fallendo miseramente per questioni di scarsità del materiale umano). Probabilmente è credibile che qualcuno, preso alla sprovvista dall’emergere del “gentismo” (populismo becero) ora ecceda nel senso opposto ma il grosso dell’informazione non può cavarsela così a buon mercato. Qualcuno ha provato a manipolare l’opinione pubblica per far crescere l’idea del forcone, per creare il caso e per alimentare l’idea che il malessere sia diffuso e che ci fosse il rischio di ribellismo (cit.Alfano). Qualcuno voleva che i forconi fossero rilevanti ed ha provato a gonfiarli per sfruttarli per i propri fini. “Chi” possiamo immaginarlo, ma a questo punto il “chi” non ha alcuna importanza. La rivelazione, di un certo peso, è che oramai la TV non è più in grado d’incanalare e legittimare alcunché (con buona pace di quelli che ci vanno per sponsorizzare i propri referenti), oggi in pochi hanno fiducia nel messaggio televisivo e se è vero che molti ascoltano la TV è altrettanto vero che sempre meno gente è disposta ad accettare passivamente notizie ed opinioni, con buona pace di tribune politiche e talk show in cui eminenti nulla a gettone presenza vengono invitati per dare la loro inutile opinione sulle cose (nella speranza che l’elettore “fidelizzato” riconosca il membro del suo “branco” e copi il messaggio). Ci siamo francamente stufati dei vari Cacciari, degli Emiliano, dei Feltri, dei Belpietro, dei Travaglio, dei Gomez e dei Panebianco che ci dicono cosa pensano di ogni argomento dello scibile umano anche quando, è evidente oggi, ne sanno ancora meno di noi e toppano clamorosamente nel percepire gli umori ed i sentimenti della gente. Se non sono bravi neanche a rendersi conto di cosa pensa e cosa vuole l’italiano allora che senso hanno ? a chi si rivolgono sui loro giornali e nelle trasmissioni se non riescono neppure a percepire il vero stato del paese, le sue necessità, i suoi bisogni e quel che realmente pensa? La domanda sorge spontanea… erano lì a cercare d’interpretare l’opinione pubblica o cercavano di dare loro, al pubblico, un opinione che la gente avrebbe dovuto far propria? Voglio dire… io quando sentivo la signora che dice “non ce la si fa più, troppe tasse. devono andare tutti a casa, vogliamo eleggere gente pulita” lo capivo che ‘sta qua non sapeva manco di che parlava, perché non ci voleva molto ad accendere il cervello ed arrivare alla conclusione che chi sta in parlamento oggi è stato eletto da tutti (pure da lei) pochi mesi fa. Quando vedevo gente con la mimetica e lo stemmino dell’Italia (il tizio di Casapound andrebbe arrestato anche solo per le fesserie che ha osato dire indossando la bandiera del paese) che diceva “devono dimettersi, devono farsi processare, al loro posto dobbiamo metterci gente competente nei rispettivi campi” lo capivo anch’io che il tizio non aveva la benché minima idea del perché manifestava al di fuori del “annamo a menà”. Quando ho sentito la diretta TV con un tizio col megafono che se la prendeva con chi da i permessi per i parcheggi riservati ai disabili a chi disabile non è ho pensato pure io “si ma che c’azzecca ? (c) 1997 Antonio Di Pietro. Poi Calvani che parla dei cavoli suoi perché gli hanno pignorato l’impresa, quell’altro che “lavoravo. mi hanno licenziato, quindi lo stato deve dimettersi perché nessuno ci tutela”, l’inno italiano a sproposito, la bandiera italiana (poverina) trascinata suo malgrado in questa pagliacciata… troppo per una persona mentalmente normodotata. Ma dico io… non s’è accorto nessuno che questi hanno la lucidità mentale di un pesce rosso che nuota nell’olio d’oppio? Possibile che la massima parte di giornalisti, opinionisti, politologi e politici si sia fatta prendere per il naso per giorni mentre io dal basso delle mie basse capacità mentali ho subito subodorato che si trattava solo di una palese azione fatta per far casino e montata ad arte. Voglio dire, io sono un semplice cittadino seduto davanti al PC, loro (politologi, esperti televisivi e via dicendo) no, loro sono PAGATI con gettoni presenza, percepiscono lauti stipendi per scrivere su giornali a tiratura nazionale, hanno trasmissioni in prima serata e si fregiano continuamente d’avere il polso del paese… questi in un giorno prendono cifre superiori al mio stipendio di un mese per andare in TV a SPIEGARCI le cose… e non sono in stati in grado di rendersi conto di quello che a me che sono un povero terrone era evidente fin dal primo giorno? Avessero un minimo di coraggio dovrebbero restituire tutti i gettoni presenza nei vari talk (e, nel caso dei conduttori, il loro stipendio) perché, manifestatamente, guadagnati ingiustamente. Questa sarebbe una giusta restituzione: ridate i soldi che si sono presi per ammorbarci (peraltro contro la nostra volontà) di notizie false e pareri del tutto sbagliati. Tuttavia non tutti hanno sbagliato in buona fede. La verità è che almeno qualcuno un po’su queste cose cerca di viverci, è il caso di referenti di certe “entità politiche” che si presentano a tutti gli spettacoli e, fingendo di commentare una manifestazione, recitano invece precise litanie tese a favorire i propri referenti: per anni, con Berlusconi al potere, qualcuno recitava “la crisi non esiste” o “la crisi ce la siamo lasciata alle spalle”, ora invece va di moda il “va tutto male” e si campa d’ingigantimenti. Ad esempio c’era Barbara Spinelli: Ora lo vediamo faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano anziché risanare.…come c’era Marco Travaglio: Governo e partiti fanno gli stupidi e gli indignati: dopo aver trasformato un popolo tranquillo e paziente, a volte rassegnato e disperato, in una polveriera pronta ad esplodere alla prima scintilla si meravigliano se centinaia di migliaia di cittadini protestano.…beh, erano 0.02 centinaia di migliaia, un insurrezione della magnitudo di quando alla sagra del cinghiale di Chianni finisce il cinghiale (mortacci loro!). Oh, ma non sono solo loro, loro sono solo quelli più rappresentativi, ma il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi. Li abbiamo visti, in questi giorni, perdersi in profonde discussioni sul “questo governo ha fallito” (infatti è noto che se la gente se la passa male è solo per gli eventi dall’inizio del 2013 ad oggi, prima era “tutta salute”) al “la gente sta sempre peggio”, il tutto senza uno straccio d’analisi in merito, solo il trito e ritrito ripetere gli slogan (di plastica) delle piazze, un “se ne devono andare tutti a casa” che a sua volta è riciclato dal Movimento 5 Stelle, un partito di rivoluzionari con tendenze poltroniste. Non che i commentatori siano stati i soli, anche alcuni conduttori hanno provato a montare la cosa per guidare precisi attacchi (sempre agli stessi), ed i perché sono fin troppo evidenti e riassumibili in una sola parola: audience. Questa storia dei forconi ci dice molte cose, intanto che pochi disgraziati se vogliono possono fare molti più disagi di quanti non si creda, e che spesso le forze dell’ordine per tutelare il legittimo diritto alla protesta si scordano che ci sarebbero anche i diritti di chi protestare non vuole e c’ha sicuramente di meglio da fare, a dicembre inoltrato, che essere fermato in autostrada per ricevere un volantino da chi s’immagina i colonnelli al potere. La notizia principale è comunque quella che finalmente la TV non è più in grado di polarizzare e montare l’opinione pubblica: per giorni qualcuno ha cercato di spingere la gente in piazza a manifestare con un persistente innuendo di negatività e rilanci televisivi… e nonostante tutto in piazza non c’è voluto andare nessuno (fatta eccezione per alcuni centri sociali ed i soliti universitari trentacinquenni di sinistra che, provvidenzialmente, si sono presi le manganellate diligentemente schivate da quelli di Casapound: e questa volta se le sono cercate). Dall’alto delle foto di quella piazza vuota la gente ha parlato, non vogliono più essere manipolati dai mass media e dalla volontà di danneggiare questo o quel governo… specie quando queste azioni hanno lo stampo ed i modi dell’estrema destra: se c’è da fare politica fatela in parlamento, non rompete le scatole alla gente normale che ha una vita da portare avanti. Con gli eventi di questi giorni qualcuno dovrà accettare (con buona pace di chi campa di piazze e prove canotto) che la politica non si fa nelle strade ma nei palazzi, non con urli e slogan ma con proposte di legge, discussioni ed accordi… coi FATTI e non con le URLA. La pietra dei due milioni ed ottocentomila elettori alle primarie del PD è ancora lì, monito di come non è vero che la gente non è interessata alla politica, semplicemente non è interessata alle sceneggiate ed al casinismo fine a sé stesso. Per anni ci siamo fatti condizionare da una TV che imponeva argomenti del giorno, discussioni, posizioni e soluzioni, ora non funziona più; la gente famosa ed annoiata che discute di problemi del paese che non conoscono oramai ci suggerisce solo noia, ne abbiamo piene le scatole degli emicicli delle tribune politiche in cui i rappresentanti sono chiamati secondo logiche precise e siamo francamente stufi dei tribuni che parlano senza contraddittorio e dei giornalisti chiamati perché “in quota” a questo o quel partito. Perché sì, i giornalisti vengono chiamati su indicazione dei partiti, per cercare di mantenere una specie di “par condicio” nei talk… ora sapete perché giornali con tirature striminzite hanno sempre quattro o cinque giornalisti chiamati qua e là a fare bella mostra di sé (e, in certi casi, della propria chincaglieria): perché ufficiosamente chi fa i palinsesti chiama le figure deputate dei partiti e queste indicano chi invitare, giornalista o politico. Per cui ora che vi abbiamo scoperto ed abbiamo capito chi siete e cosa volete ci siamo immunizzati dalle vostre “opinioni” e dai vostri “ragionamenti”. C’è voluto un trentennio, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. A questo punto il problema è per chi ha pensato di poter continuare a dettare l’agenda (e guadagnare consenso) sfruttando TV e giornali perché non glielo lasceremo fare di nuovo. Abbiamo capito che i media (tutti i media, anche internet) non sono fonti della verità e che bisogna ragionare anziché farsi passare la verità infusa da questo o quell’opinionista: ora se volete il nostro interesse ed i nostri voti smettetela con questo circo itinerante di gente che cerca di dirci di cosa e come pensare ed iniziate a lavorare davvero e seriamente per il paese. Non che i forconi non abbiano aiutato a riconoscere la “sola”, uno che fosse credibile in TV o nei giornali non c’era, dal sufi del “respiro consapevole” a Calvani passando per il tizio in mimetica che parla in piazza di tribunali per i politici, viene il dubbio che in questa manifestazione (il cui vero leit motif era probabilmente “ridateci Berlusconi, è per il nostro interesse”) nessuno abbia voluto metterci la faccia col risultato che hanno dovuto mandare avanti gli impresentabili. Ora però la questione è chiusa, i forconi si sono estinti (e non ne sentiremo la mancanza) ed a piangerli rimangono solo quelli della jihad via web, i tantissimi urlatori da tastiera che in queste settimane sono stati lì a tifare rivolta. Chi sono ? Sono quelli che non riescono a convivere con la loro mediocrità, gente che per non accettare il fatto che questa è la vita continua a sperare (ed in alcuni casi a pregare) che fra poco ci sarà “l’evento” che farà tabula rasa di tutto (Grillo lo profetizzava come il default, i forconi come la rivolta, a loro va bene uno qualsiasi). Sono dei poveretti insoddisfatti che trovano sollievo dalla loro grama vita semplicemente scrivendo su internet, credendosi rivoluzionari da tastiera e precursori del nuovo ordine che profetizzano dietro l’angolo… convinti che essendo i primi a profetizzarlo saranno quelli che più godranno di un eventuale “rivoluzione”. Sono convinti che la normalità come la conosciamo stia per finire, un comodo escamotage per liberarsi di una quotidianità grigia ed insipida… e non si rendono conto che il mondo che li circonda è grigio e opprimente anche perché la maggior parte della loro vita è passata davanti ad una tastiera a leggere, scrivere e sperare in cataclismi prossimi venturi. Ora questi dovranno fare i conti, un altra volta, con il fatto che il default di fine anno (il classico di Grillo) non c’è stato, il governo è ancora in carica (e pare che ci rimarrà per un bel po’) e la rivolta popolare “coi forconi” a volerla sono solo quelli collegati in streaming (lì dove le manganellate non arrivano), non sarà una bella giornata.

20 anni di studi sociologici su disfunzioni e vizi del sistema che nessuno osa sanare. Libertà e democrazia paralizzati da privilegi e poteri intoccabili di una casta fossilizzata. Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla la giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all’apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati L’ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa). Livadiotti è anche l’autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L’altra casta. La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati-L’ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d’interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all’epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta». Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale? «L’attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall’aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all’apice dell’inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica». E come si spiega? «Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell’anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!». Tutto questo indipendentemente dagli incarichi? «Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani». Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia. «Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più». Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? «Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano». Quali dati? «Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c’è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 – un dato che fa impressione – sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm». Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no? «Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati… nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio». Ma c’è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito! «In teoria sì, è la legge 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati». E com’è andata, questa legge? «Nell’arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l’1 per cento delle pochissime domande di risarcimento». Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano? «Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all’anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo». TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI. MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO. Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: “Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine”. «E’ una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo – ha proseguito la Boccassini – ha accomunato la minore “con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate – afferma il pm – si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo». Fino prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo. La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d’incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: “Non si può considerare la Tumini un cavallo di ….”, ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell’accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi. “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati. “Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. – Ricorda: riordina. – La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO’ NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL’OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA’ IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

Due indizi non fanno una prova neanche dalle parti - sbrigative - dell’Italia dei valori, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Il primo indizio l’ha raccontato ieri l’Espresso: una 31enne ha denunciato d’esser stata vittima di avances e ricatti da parte del senatore Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all’Idv. Una storia che ne ricorda un’altra che Libero teneva nel cassetto da un po’: una denuncia per «mobbing e stalking» che venne mossa al senatore Stefano Pedica da parte di una ragazza che però ha un nome e un cognome: si chiama Monia Lustri ed è una 35enne originaria di Avezzano (Abruzzo) che ora vive a Roma dove milita nell’Udc, che l’ha delegata alle politiche femminili e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, questo dopo aver ricoperto gli stessi incarichi anche per l’Udeur di Clemente Mastella. Dal febbraio 2008 e per un anno circa, però, aderì all’Italia dei valori che la candidò alla Camera (collegio Lazio 1) e in maggio la fece «responsabile organizzativa regionale». Poi, a fine marzo 2009, è successo qualcosa. «Quando cercai di rinnovare l’iscrizione all’Idv,  mi tornò indietro un fax con scritto “rifiutata”. Senza altre motivazioni».

Parliamo dell’Associazione Italia dei valori o del Partito?

«Del Partito. Ho scoperto solo in seguito che c’era una differenza tra la scatola vuota a cui venivano iscritti tutti e il soggetto economico retto dai tre soci fondatori, cosa che trovo scandalosa».

Bene, ma che problema c’era stato?

«Ho militato nell’Idv romana dal 13 febbraio 2008, invitata dall’onorevole Gabriele Cimadoro; poi diciamo che ho avuto dei problemi col senatore Pedica, col quale ho avuto un rapporto strettamente confidenziale».

Allora. Stefano Pedica è un senatore, sposato, separato con figli, che è un ex qualsiasi cosa (Dc, Ccd, Udeur, Democrazia Europea, Dc di Rotondi, ora Idv) e che è balzato agli onori delle cronache anche perché ottenne un alloggio del Vaticano tramite Angelo Balducci. Questa almeno è stata l’accusa, secondo la quale l’appartamento doveva spettare a Di Pietro - in via Paolo Emilio 57, quartiere Prati, in un palazzo umbertino che risulta nell’elenco dei lavori fatti da Diego Anemone nel 2007 - anche se alla fine ci andò Pedica, appunto.

«Pedica, sul Fatto quotidiano, ha dichiarato che in quell’appartamento non ci ha mai vissuto: ma non è vero, ci ha vissuto con certezza almeno dal marzo all’agosto 2008. Lo so perché ci sono stata un sacco di volte».

Quando avevate una relazione?

«Sì».

Si parla dell’appartamento pluri-restaurato con vetri blindati, telecamere interne ed esterne, finiture di lusso.

«Confermo. Lui mi disse che gli era stato dato completamente arredato e sistemato da uno studio di architetti, e che per spese varie, affitti e trasloco compresi, non aveva speso un centesimo. Lui poi ha cambiato casa».

Lei nel novembre 2008 ha presentato una querela, assieme al suo avvocato, contro il senatore Pedica.

«Io, ufficialmente, ho sporto una querela contro ignoti».

Sì, ma nella seconda pagina della querela lei allega l’indirizzo web del senatore Pedica dell’Idv, «cioè colui», mi ha scritto, che mi ha perseguitata perché a maggio 2008 l’ho lasciato, una sorta di mobbing con un pò di stalking».

«L’ho fatto per evitarmi una contro-querela immediata. Ho pensato che Pedica, semmai, l’avrebbero messo in mezzo i magistrati».

Senta, ma che cosa intendiamo per mobbing e stalking?

«Io sono stata insieme a Pedica appena entrata nel partito, precisamente dal 27 marzo 2008. Abbiamo cominciato a uscire insieme e a fare vari giri per il Lazio. Fu un errore mio».

Perché?

«Perché a me in realtà non interessava granché. Però pensai che, se l’avessi respinto, mi avrebbe buttata fuori dal partito. Ci siamo visti per un paio di mesi, poi a maggio ho scoperto che tipo di persona era e allora gli ho detto, per telefono: lasciamo stare la parte privata, vediamoci solo, come dire, politicamente. Lui mi disse che mi avrebbe fatto terra bruciata, che avevo finito di fare politica. Da quel giorno lui ha cominciato a spedire email con ingiurie e diffamazioni contro di me».

Tutto perché lei l’aveva lasciato ?

«Sì, ma mi risulta che non sia nuovo a certi comportamenti. Ha fatto cose del genere anche con chi gli aveva chiesto più trasparenza nella gestione del partito a livello regionale».

Da capo: e il mobbing? Lo stalking?

«Nel 2008 io ero iscritta nell’Idv, poi nel 2009 non mi hanno più voluta iscrivere: fecero un atto di sospensione “necessario e urgente” solo perché avevo proposto la mia candidatura alla regione Abruzzo. Fece tutto Pedica, dopo che l’avevo lasciato. Un venerdì sera mi arrivò un suo sms : “Ti sto diffidando”, “stai per ricevere una sospensione”. Io feci subito subito ricorso, allora lui mi convocò e mi disse che se avessi ritirato la candidatura lui avrebbe ritirato l’atto di sospensione».

E poi?

«Poi ho frequentato privatamente alcuni parlamentari dell’Idv che mi hanno avvicinata, inizialmente, con la scusa di aiutarmi a risolvere i miei problemi causati da Pedica. Risultato: mi hanno portata a letto passando da un invito a cena, poi più nemmeno da quello».

Di chi parla?

«Di due persone molto in alto, anche più in alto di Pedica. Con uno andai a cena solo la prima volta. Lo vidi altre due volte, dopodiché rifiutai i suoi inviti. L’altro, con cui andavo a cena prima di passare a casa sua, lo frequentai dalla sera del 22 dicembre 2008 sino a fine febbraio-inizio marzo 2009, quando presi atto, dopo avergli parlato degli abusi di Pedica, che non avrebbe fatto nulla. Diceva sempre che Pedica aveva molti limiti, “però lavora”. Litigammo. Mi disse che Pedica non doveva sapere di noi due, una frase che non mi piacque. Da una parte difendeva Pedica, anzi, se gli parlavo male di Pedica diventava una bestia; dall’altra frequentava di nascosto la sua ex ragazza. Alla fine decisi di dire tutto a Pedica. Fatto questo, l’altro non mi ha più chiamata, non ha più risposto agli sms, appena dicevo “Monia” chiudeva il telefono».

Chi di morale ferisce di morale perisce, questo il detto che si appropria di più al caso di giornata: i deputati  del movimento 5 stelle di Grillo, i duri e puri della politica che si sollevano indignati contro gli incalliti protagonisti della casta, aggrappati, anzi incollati ai loro privilegi, al centro di una bufera per una presunta (?) parentopoli in cui vengono assegnati incarichi e stipendi da collaboratori a compagni, fidanzati e figli di essi. Il tutto proprio adesso che i maggiori sondaggisti davano di nuovo il Movimento al di sopra del 20%, scrive Giuseppe Bini. Ma andiamo nello specifico: Barbara Lezzi e Vilma Moronese finiscono agli onori delle cronache non per qualche illuminata iniziativa parlamentare ma bensì perchè in quanto la prima assume come collaboratore la figlia del compagno, la seconda invece non va tanto per il sottile e assume direttamente il fidanzato. Ma non era stato firmato un codice etico stilato appositamente per la questione in oggetto, che vietata l'assunzione di parenti fino al quarto grado? Fatto sta che ai vecchi vizi della politica ancora rimedio efficace non è stato trovato, e il vaccino a cui i pentastellati sono stati sottoposti dal focoso leader sembra non garantire una efficiente immunità. Quindi punto e a capo, il nuovo assume le terribili incaccellabili vesti del vecchio e la politica italiana continua il suo cammino verso un imputridimento etico e morale degno delle più olezzose paludi agropontine e maremmane di fine ottocento. Chissà se ci sarà bisogno di un nuovo Mussolini per provvedere alla bonifica? Ai posteri l'ardua sentenza. Beppe Grillo intanto si infuria, grida, sbraita e avvalla la decisione di non divulgare via streaming la riunione che ha visto volare gli stracci in casa 5 stelle, con tanto di pianti, smentite e richieste di perdono. Ammissione di colpa per la senatrice Barbara Lezzi che licenzia immediatamente lo scomodo collaboratore, del resto, come qualcuno pignolamente osserva, essere fidanzato (o compagno che dir si voglia) non prefigura un legame di parentela. Senza dubbio, come senza dubbio appare la cavillosa ricerca di giustificazioni e scusanti da prima Repubblica, che ormai la travolgente onda moralizzatrice portata avanti proprio dai pentastellati non riesce più a concepire e sopportare. A noi cittadini, elettori, pennivendoli e subalterni di ogni tipo non resta che osservare e metabolizzare (o per lo meno cercare di farlo), attoniti, stupiti e disgustati. 

Lettera aperta. I Grillini in Parlamento e la restituzione del finanziamento Pubblico. L’Italia è retta da un sistema di disinformazione e di discultura che rincoglionisce gli italiani. Le lobbies finanziano la politica e la politica finanzia le lobbies. In ogni caso i canali editoriali sono in mano loro. Informazione e cultura corrotta. Poi c’è un movimento politico ad ideologia indefinita che ha solo una fonte di informazione: quella del suo “Guru” e dei suoi “Paraguru”. Quel movimento è quello dei “5 Stelle” di Beppe Grillo. Un marasma di soggetti con pensieri indotti da teorie complottistiche dedotte dai siti web del loro Guru. Soggetti provenienti dalla Rete. E la Rete si sa, che dietro l’anonimato, nasconde menti contorte ed inconsistenti, propensi alla polemica fine a se stessa, ovvero, ove anonimato non vi sia, lì si dissimula lo spirito di protagonismo. Proprio il Movimento 5 Stelle, a detta dei loro detrattori, ha posto una lista di proscrizione per i giornalisti ostili e corrotti. Bene, detto questo, parliamo del finanziamento pubblico ai partiti che i penta stellati aborrono. Finanziamento pubblico e privato che serve altresì a sostenere censura e disinformazione a vantaggio del sistema politico esistente. Solo nel 2013 sono stati già spesi 120,45 milioni di cui 40 erogati da privati e circa 80 dai rimborsi. Pdl e Pd hanno ricevuto rispettivamente 37,16 milioni e 25,34 milioni, mentre il Movimento 5 Stelle ha rifiutato i 9,29 milioni di euro cui aveva diritto. Una domanda sorge spontanea. I Grillini in Parlamento anziché restituire il finanziamento pubblico a quello Stato che molti definiscono ladrone, ovvero a quelli italioti che sperperano e spandono a danno di altri italioti ignavi, perché con quei fondi non sostengono l’informazione e la cultura libera asfittica in modo che gli italiani non siano più i coglioni che sono stati fatti diventare? O il Guru non vuole che si finanzi altra fonte che sè?

ANCHE I MANETTARI PIANGONO.

Beppe Grillo attacca Pd e Pdl dal suo blog, ribadendo che i 5 Stelle non vogliono condannati in Parlamento, ma prontamente gli risponde il senatore Pd Francesco Russo, che in una lettera aperta lo invita a non parlare più a nome del suo movimento: "Quello condannato in via definitiva sei tu, non i parlamentari del Pd", scrive TMNews. Nel suo blog l'ex comico ha scritto: "Ieri, alla Camera, alla richiesta del M5S di espellere i delinquenti, si è levato alto il grido 'moralisti del cazzo'. I nominati del pdl e del pdmenoelle si sono indignati. E' un paradosso che invece di accompagnare alla porta Berlusconi, un delinquente condannato in via definitiva, i nominati dai capibastone del pdmenoelle e dal truffatore fiscale, volessero buttare fuori noi, i cosiddetti moralisti (del cazzo). Siamo fieri di essere moralisti del cazzo e soprattutto di starvi sul cazzo". Diretta la replica del senatore Russo: "Io mi sono tagliato lo stipendio, vengo in Aula in metropolitana, porto i miei figli a scuola in autobus, ho il 96% di presenze in Parlamento, non rubo, non ho conflitti d'interesse, non sono in Parlamento da 20 anni, mantengo la parola data, ho vinto la battaglia per abolire i fax alla pubblica amministrazione, non voglio tornare a votare con il Porcellum", ribatte nella lettera aperta inviata a Grillo. "Eppure - aggiunge Russo - sono un senatore del Pd e non del M5S. E ne vado fiero, sono orgoglioso di appartenere a un partito in cui: il pluralismo è un valore e non un virus da debellare, i processi decisionali sono chiari e trasparenti, il candidato premier viene eletto da 3 milioni di persone, il mio leader non è né pregiudicato né condannato in via definitiva. Perciò, se credi davvero che l'onestà debba tornare di moda e il Parlamento riconquistare la centralità decisionale perduta, allora comincia a dare il buon esempio: smettila di parlare sempre tu a nome del Movimento e passa il testimone. Perché tu in Parlamento non ci sei. E perché, fino a prova contraria, quello condannato in via definitiva sei tu, non i parlamentari del Pd".

E anche Grillo resta sotto i colpi della Cassazione. Beppe, che nei giorni scorsi ha ripetuto con ossessione e vanto "Berlusconi è un delinquente", "il Cav è un pregiudicato", ora si trova nella stessa condizione di Sivio: pure lui è stato condannato in via definitiva. La Cassazione lo ha condannato a risarcire l'ex sindaco di Asti Giorgio Galvagno per "danni da lesione alla reputazione". A stabilirlo è stata la sesta sezione civile della Suprema Corte, rigettando il ricorso presentato dalla difesa di Grillo contro la sentenza della Corte d'Appello di Torino. «Danni da lesione alla reputazione». Per Beppe Grillo è arrivata la condanna definitiva per le accuse contro l''ex sindaco di di Asti Giorgio Galvagno fatte durante uno spettacolo nel 2003, scrive “Il Corriere della Sera”. Per i giudici non si trattò di satira ma di diffamazione. Per questo la sesta sezione civile della Cassazione, rigettando il ricorso presentato dalla difesa di Grillo contro la sentenza della Corte d'Appello di Torino, ha stabilito che il comico genovese dovrà risarcire con 25 mila euro l'ex sindaco di Asti Giorgio Galvagno per avergli attribuito comportamenti dei quali non era responsabile. I fatti risalgono al 2003, quando durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti, Grillo diede del tangentista a Galvagno, all'epoca parlamentare Pdl. In particolare il comico lo accusò di «aver ricevuto indebitamente denaro o altre utilità da smaltimento illegittimo di rifiuti tossici». Nella sentenza depositata dalla Suprema Corte si ricorda che «uno dei limiti che la satira non può travalicare concerne proprio, come nel caso di specie, l'attribuzione ad altri di un fatto illecito». «Viene fatta giustizia. Grillo quella volta offese senza fare satira perché la frase venne detta senza un contesto grottesco - spiega l'avvocato Luigi Florio che ha difeso Galvagno - la Cassazione ha confermato così le sentenze di primo secondo grado che non avevano mai accolto la tesi difensiva di Grillo». Il leader penstastellato sul caso prima aveva negato di aver dato del tangentista a Galvagno, poi dopo alcune testimonianze aveva invocato la discriminante del diritto di satira. Ora Grillo dovrà versare come risarcimento 25mila euro, oltre alle spese legali di tutti e tre i gradi di giudizio.

Incidente Grillo, sopravvissuta rompe il silenzio: "Dimmi come è morta la mia famiglia". Cristina Gilberti perse i genitori e il fratello nell'auto guidata dal fondatore del M5s finita in un dirupo. Per quell'incidente Grillo venne condannato per omicidio colposo. Dopo 30 anni, la donna fa un pubblico appello a "Vanity Fair", scrive “TGCOM 24”. Cristina Gilberti, che all'età di 7 anni perse i genitori e il fratello che si trovavano in un'auto condotta da Beppe Grillo, oggi chiede di incontrare il leader del M5s. Dalle pagine di Vanity Fair rompe il silenzio di una vita chiedendo solo di conoscere la verità su quella tragedia per la quale Grillo venne condannato per omicidio colposo. Lo fa pubblicamente perché lui in privato non le ha mai risposto e non ha mai chiesto scusa. Cristina Gilberti continua a pensare a quel 7 dicembre 1981 quando Beppe Grillo è a Limone Piemonte, ospite dei Giberti. Renzo, suo vecchio amico, e la moglie Rossana con i figli Francesco, 9 anni, e Cristina, 7. Dopo pranzo decidono di andare a prendere il sole, per un paio d'ore, in quota, al Duemila, una baita raggiunta da una strada stretta e non asfaltata. Tutti salgono sulla Chevrolet di Grillo. Solo Cristina resta a casa per vedere un cartone animato a casa di un'amica. Quasi a destinazione, dietro una curva, un lungo lastrone di ghiaccio è la trappola mortale per la famiglia Gilberti. L’auto slitta all’indietro, diventa ingovernabile, urta una roccia, si gira, cade con il muso nel burrone. All’ultimo momento Grillo riesce a spalancare la portiera e a buttarsi. Per i tre Giberti non c’è niente da fare. Il comico verrà infine condannato per omicidio colposo, e per questo non si candiderà, sulla base del regolamento del Movimento 5 Stelle che esclude i condannati. Oggi, Cristina - come riporta Vanity Fair in edicola mercoledì 6 febbraio - ha un altro cognome: quello del marito della sorella della madre, che la adottò dopo la tragedia. È diventata madre, ha 38 anni, fa volontariato per l’infanzia. Trentun'anni dopo chiede di incontrare Grillo. "Fra tutti quelli che in questo periodo sentono continuamente parlare di lui e vedono la sua faccia e leggono ovunque le sue parole ci sono anche io, e lui dovrebbe ricordarselo, e dovrebbe capire l’effetto che mi fa. Ogni giorno penso a come sarebbe la mia vita se i miei genitori e mio fratello fossero ancora con me", dichiara al settimanale. La donna chiede anche, d'ora in poi, di essere lasciata in pace da stampa e fotografi. Poi spiega di aver parlato pubblicamente in questo caso dopo tanti tentativi di contattare Grillo privatamente. Solo un nipote del fondatore del Movimento 5 stelle le ha risposto: "Mi ha spiegato che tutta la sua famiglia aveva sofferto per l’incidente, che non era il momento di ritornare sull’argomento. Ma per me il momento è questo: sono cresciuta, sono mamma, sono pronta per sapere e per parlare". "Non ho mai avuto occasione di sentirmi raccontare come sono andate le cose direttamente da lui, l’unico che possa davvero farlo. Mi conosceva bene, era amico dei miei, frequentava la nostra casa: come è possibile che in tutti questi anni non abbia mai sentito l’esigenza di vedermi, di chiedermi scusa, almeno di telefonare ai miei genitori adottivi per sapere come stavo?", si chiede la donna.

Il cavillo non salva Travaglio: diffamò Previti, condannato, scrive “Il Giornale”. La prescrizione non salva Marco Travaglio: il vicedirettore del Fatto Quotidiano è stato condannato ieri in via definitiva per diffamazione ai danni di Cesare Previti: accusandolo di avere partecipato a un summit dove non aveva messo piede. Il processo sembrava destinato a svanire nel nulla, grazie ai tempi lumaca: articolo del 2003, cinque anni per la prima sentenza di condanna, altri due per l'appello. Il giudice impiega un anno a scrivere le motivazioni e il reato si prescrive: anche perché Travaglio non rinuncia al beneficio. Ieri in Cassazione la sorpresa: Previti, difeso dall'avvocato Salvatore Pino, ottiene che il ricorso sia dichiarato inammissibile. E la condanna torna definitiva.

Minzolini vince: Travaglio va processato. La Cassazione dà ragione al senatore Pdl e pungola i giudici che hanno graziato il vicedirettore del "Fatto, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Trascinare in tribunale Marco Travaglio con una querela per diffamazione è davvero dura. La Cassazione è dovuta intervenire per ben due volte, bacchettando i giudici che si opponevano alla richiesta di Augusto Minzolini di avere giustizia dopo essere stato accusato dal fustigatore de Il Fatto, con la giornalista del Tg1 Grazia Graziadei, di aver «sparato cifre a casaccio», «dati farlocchi», «balle sesquipediali», «truffaldine» e «ridicole», in un servizio tv sulle intercettazioni. Solo 3 anni dopo, grazie alla pronuncia della Suprema Corte di venerdì scorso, si torna al punto di partenza. Con un giudice che, forse, rinvierà a giudizio l'intoccabile Travaglio. E lui, dopo una lettera di Minzolini a Dagospia sulla vicenda, che fa? Annuncia: «Con le sue insinuazioni calunniose e false, il cosiddetto onorevole Minzolini, detto Mazzancolla, si è guadagnato un nuovo processo. Sarà un piacere ritrovarlo in tribunale, cioè nel suo habitat naturale». Che finisca dritto in tribunale per Travaglio non c'è dubbio: è sicuro che per lui non ci sarà bisogno di due gup e due ricorsi in Cassazione. Ma partiamo dall'inizio. Luglio 2010: l'attuale senatore Pdl dirige il primo telegiornale Rai quando Travaglio si scaglia contro il servizio firmato dalla Graziadei. Ma i dati contestati dal Fatto sono quelli ufficiali del ministero della Giustizia su numero e costi delle intercettazioni e parte la querela. Il pm è convinto che ci voglia il processo, ma il giudice non la pensa così. «Le richieste di rinvio a giudizio presentate dalla pubblica accusa vengono accolte nel 93 per cento dei casi- fa notare Minzolini nella lettera a Dagospia - ma con Travaglio è quasi impossibile avere giustizia». Più di un anno fa il gup di Roma decide il non luogo a procedere. Non dice che il reato non c'è, anzi riconosce il contrario citando frasi manifestamente diffamatorie. Però, cavilla sul fatto che il pm non ha citato proprio quelle frasi ma altre, nella sua richiesta. Anche se c'è allegato tutto l'articolo. Un altolà eccezionale, ma la cosa non finisce qui. Con caparbietà il pm e il legale di Minzolini e Graziadei, Viglione, si rivolgono alla Cassazione. E vincono: dichiarato illegittimo il non luogo a procedere, perché il giudice è «effettivamente incorso in un errore di interpretazione del capo di imputazione», visto che il pm aveva ritenuto diffamatorio l'intero articolo, nessuna frase esclusa. Ma non si va in tribunale neppure stavolta. Perché un secondo gup fa muro in difesa di Travaglio. Altro non luogo a procedere e secondo ricorso in Cassazione. Con la stessa conclusione a favore di Minzolini e Graziadei, arrivata due giorni fa. «Per ottenere il rinvio a giudizio del beniamino dei magistrati di un certo tipo - scrive Minzolini - bisogna chiederlo a due gup e rivolgersi due volte in Cassazione. Ancora non basta. Intanto però (Travaglio è ferrato sull'argomento, ma solo quando riguarda gli altri) maturano i tempi di prescrizione». La bacchettata bis degli ermellini deve aver dato molto fastidio all'editorialista del Fatto. Per Minzolini, un segnale di tanta irritazione sta in una strana coincidenza: il suo quotidiano, infatti, all'indomani della sentenza della Cassazione riaccende i riflettori sulla controversia giudiziaria dell'allora direttore del Tg1 con la Rai per la questione delle note spese e dei pranzi a base di pesce. Lo fa con un servizio in prima pagina, con «tutti i menu», sul ricorso in appello dopo l'assoluzione di Minzolini a febbraio dall'accusa di peculato. «Perché Il Fatto pubblica oggi (sabato, ndr) - chiede il senatore Pdl - un ricorso che la Rai ha presentato a giugno? La spiegazione è nella natura di quel giornale».

Giornalisti del Fatto Quotidiano perquisiti per scoop su Riina. Le abitazioni di tre giornalisti palermitani, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza e Riccardo Lo Verso, sono state perquisite alle 7.30 dai carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Catania che hanno eseguito un provvedimento del sostituto procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, scrive “Live Sicilia”. La perquisizione sarebbe scaturita da una presunta fuga di notizie relativa ad una indagine sul capomafia di Corleone, Salvatore Riina che  dal carcere continuerebbe a guidare Cosa nostra. L’articolo firmato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza è stato pubblicato sul “Fatto Quotidiano”, mercoledì 9 ottobre, mentre Lo Verso ha riportato la stessa notizia sul sito d’informazione “Live Sicilia”. I carabinieri hanno perquisito le abitazioni dei tre cronisti, e hanno analizzato i personal computer, gli smartphone, le memorie digitali, i tablet e le agende dei giornalisti. Il Fatto Quotidiano aveva titolato lo scoop così: “La Juve è una bomba. Totò Riina lancia nuova stagione di stragi”.

Violazione del segreto d'ufficio con l'aggravante di aver favorito la mafia. E' contro ignoti, ma ha un titolo di reato pesantissimo il fascicolo della Procura di Catania ha aperto per la pubblicazione di notizie relative al boss Totò Riina. L'ordine dei giornalisti: "Vittime di contrasti e contrapposizioni tra i diversi uffici giudiziari", scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. Sono arrivati alle prime ore del mattino e per quattro ore hanno passato al setaccio gli appunti, i personal computer, i telefoni cellulari e le agende. È scattata di prima mattina la perquisizione a tappeto nella abitazioni di tre giornalisti palermitani: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza del Fatto Quotidiano e Riccardo Lo Verso di livesicilia.it. A suonare il campanello dei tre cronisti sono arrivati intorno alle sette e trenta del mattino i carabinieri del nucleo investigativo di Catania, su ordine di Carmelo Zuccaro, procuratore aggiunto della città etnea. La perquisizione nelle abitazioni dei giornalisti è scaturita da un’inchiesta aperta nei giorni scorsi dalla procura di Catania su una presunta fuga di notizie. Perno centrale dell’indagine è la notizia esclusiva, pubblicata dal Fatto Quotidiano il 9 ottobre scorso, di un possibile nuovo attentato progettato dal superboss di Cosa Nostra Salvatore Riina. “La Juve è una bomba” avrebbe detto il padrino corleonese durante un colloquio in carcere con i figli. Parole che potrebbero contenere un ordine di morte per il pm palermitano Antonino Di Matteo, destinatario nel marzo scorso di una lettera anonima in cui si delineava il progetto stragista di Riina. La notizia era comparsa sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di mercoledì scorso a firma di Lo Bianco e Rizza, nella stessa giornata in cui Lo Verso aveva riportato la medesima cronaca sul quotidiano on line livesicilia.it. Secondo la procura di Catania, che indaga sui reati commessi e subiti da magistrati della procura di Caltanissetta, la fonte che avrebbe fornito la notizia ai cronisti si sarebbe macchiato di violazione di segreto d’ufficio, con l’aggravante di aver favorito la mafia. I giornalisti non sono indagati dato che l’inchiesta è a carico di ignoti, ma gli inquirenti hanno provveduto a far scattare la perquisizione a sorpresa per cercare di rintracciare indizi che potessero condurre alla fonte. È per questo che hanno passato ai raggi X ogni angolo delle abitazioni dei cronisti: dai supporti elettronici, agli appunti, fino alle automobili e qualsiasi altro luogo di pertinenza dei tre giornalisti. Pronta è arrivata la nota di solidarietà dell’Unci, l’unione nazionale dei cronisti italiani, che ricorda come “appena ieri il commissario per i diritti umani della Unione Europea, Nils Muiznieks, ha direttamente criticato l’Italia per l’arretratezza delle sue norme sul diritto all’informazione e per non essersi ancora uniformata alla giurisprudenza che promana dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Il Governo italiano se vuole cancellare questo primato negativo deve allineare subito la legislazione alle più civili e liberali norme europee”. L’Ordine dei giornalisti pone invece l’accento sulle uniche colpe di cui si sarebbero macchiati i cronisti, ovvero “aver pubblicato notizie di rilievo, ma probabilmente sono anche vittime di contrasti e contrapposizioni tra diversi uffici giudiziari”. Tanto basta però per subire una minuziosa perquisizione di prima mattina.

Travaglio si arrabbia ogni qualvolta viene ritirata fuori la vicenda della sua vacanza con un personaggio condannato per vicende di mafia, l’ex maresciallo della Guardia di Finanza Ciuro, scrive “Il Fazioso”. Il caso esplode nel 2008, quando D’Avanzo racconta su Repubblica quella villeggiatura comune del giornalista con il finanziere che nel novembre del 2003 sarà poi arrestato con l’accusa di essere una talpa a servizio di uomo legato alla mafia, Michele Aiello. Si parlò addirittura di vacanza pagata al giornalista poi come sempre quando si parla di vicende legate a “campioni della sinistra” il tutto si sgonfiò velocemente. Resta il fatto che Travaglio fu protagonista del primo caso di “a sua insaputa”, una vacanza pagata/non pagata con un semimafioso. E questo lo fa terribilmente arrabbiare, uno come lui che è esaurito con il controllo preventivo dei fatti che si fa beccare sotto l’ombrellone con un criminale non è proprio il massimo…

Il metodo Travaglio applicato a Travaglio, scrive Alessandro Spanu su “The Front Page”. Se, per assurdo, dovessimo applicare il “metodo Travaglio”, basato su allusioni, sospetti e menzogne, allo stesso Travaglio, forse potremmo processare anche lui, al pari di Dell’Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato molto fumoso, simile alla stregoneria, poco suscettibile di essere provato in un dibattimento, ma efficace per mettere alla gogna l’indagato per anni in tv e sui giornali come “mafioso” o supposto amico di mafiosi. Infatti il Nostro, nonostante attacchi l’odiato Cainano per fatti avvenuti 30 o 40 anni fa come l’assunzione di Mangano, pare abbia trascorso le vacanze del 2002 e del 2003 (non nel secolo scorso!) col maresciallo Ciuro, componente della polizia giudiziaria di Palermo, condannato per favoreggiamento, e pare (dico: pare) che il conto delle ferie del 2003  sia stato pagato direttamente dall’imprenditore Aiello, condannato per mafia a 14 anni, il quale, verosimilmente, do ut des, voleva fare un favore al suo amico Ciuro (il quale, secondo il Tribunale, era una talpa della mafia al palazzo di giustizia, in quanto informava su cosa stessero facendo i magistrati). Ma che frequentazioni discutibili, per dirla con un eufemismo, ha il Robespierre di Servizio Pubblico: secondo il “metodo Travaglio” anche lo stesso Travaglio sarebbe amico dei mafiosi…P.S. E pensare, inoltre, che lo stesso Ciuro al palazzo di giustizia di Palermo divideva la stanza col procuratore Ingroia! Sì, proprio lui, il persecutore di Dell’Utri, il barbuto magistrato spesso ospitato in tv per inveire contro il “Giaguaro” e le sue torbide trattative con la mafia. Ma come possono pretendere di essere credibili nel fare la lotta alla mafia questi pm, oggi per fortuna lontani dalla Sicilia, in centramerica oppure ad Aosta, se, per tanni anni, non si accorgono nemmeno di avere tutti i giorni un amico di mafiosi a pochi metri dalle loro poltrone?

Il matrimonio tra il vice direttore del Fatto Quotidiano e il leader del Movimento 5 Stelle si chiude sull'emendamento sul reato di immigrazione clandestina, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. "Siamo amici da vent'anni, non è certo un mistero". Era giugno 2012 e Marco Travaglio, ospite de L'intervista su SkyTg24, certificava e rivendicava il sodalizio con Beppe Grillo. Il tutto pochi giorno dopo l'intervista realizzata dal vicedirettore del Fattoquotidiano al leader del M5S. Intervista che destò numerose polemiche per il grado di benevolenza mostrato dal semprecinico Travaglio. Che però quando si trovò di fronte l'ex comico genovese preferì deporre la penna affilata sostituendola con una dolce di piuma. Nessun quesito scomodo, nessuna domanda sull'ambiguo ruolo di Casaleggio. Niente di niente. Roba che se l'avesse fatto qualcun altro sarebbe subito stato tacciato di servile genuflessione. Ma il Fatto quotidiano è l'organo ufficiale del Movimento 5 Stelle? Alla domanda posta da molti lettori ha dovuto scendere in campo Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del quotidiano: "Non l'ho trovata un'intervista-zerbino, non siamo e non saremo l'organo di Grillo", tuttavia, "se mai l'avessi scritta io, quell'intervista, forse avrei pubblicato qualcosa di diverso. Magari ho qualche punto interrogativo in più". Insomma, il matrimonio tra Grillo e Travaglio andava a gonfie vele (il giornalista ha pure ammesso candidamente di aver "votato due volte Grillo"). Ma oggi la storia è cambiata. "C'eravamo tanto amati", si potrebbe intitolare il nuovo capitolo. Perché la tirata d'orecchi di Grillo ai senatori del M5S sull'emendamento che prevede l'abolizione del reato di immigrazione clandestina nel rapporto tra i due ha allargato una crepa già aperta da tempo. "Grillo e Casaleggio hanno perso una buona occasione per stare zitti. Male hanno fatto a bacchettare i loro senatori, disconoscendo il disegno di legge per l'eliminazione del reato. I parlamentari hanno obbligato Pd e Sel a votare con loro un provvedimento perfetto per tempistica rispetto a quanto è accaduto in questi giorni", si legge nell'editoriale di Travaglio di oggi. E manco a farlo apposta, sempre oggi sul blog di Grillo va in scena un vero e proprio attacco al Fatto quotidiano, giornale considerato  - almeno fino a qualche tempo fa - vicino al Movimento: "Possente campagna sul Fatto Quotidiano, che ha sostituito l’Unità come organo del PD (menoelle), ricca di battute e insulti contro Beppe Grillo (nuovo leghista...) e parte della rete M5S che non si prostra alle gonnelle piddine e all’ipocrisia del momento sul tema immigrazione". La critica sul blog, firmata da Ernesto Leone Tinazzi, attivista romano, si fa poi più caustica: "Con articoli di basso livello e mediocri ricchi di insulti, velate porcate e accuse di xenofobia, borghezio oriented e invito a mandare a fare in c...o i garanti dell’M5S, nonché sobillare i nostri senatori e deputati. Inutile linkare, potete andare a leggere sul loro sito. Sempre vero: meglio nemici diretti, che falsi amici. Posso solo non acquistare il fatto quotidiano; piu’ serio comprare l’Unità o nulla (come faccio da tempo), giornale di partito non mascherato che non ti prende per il c...o". Insomma, anche i giornalisti del Fatto non sono più amici. In realtà un anticipo di divorzio tra Grillo e Travaglio si era consumato sempre a ottobre, ma di due anni fa, quando in un post apparso sul suo blog Grillo i giornalisti del Fatto venivano considerati "schierati, residuati dell'Unità che ha sempre vissuto di contributi pubblici che attaccano il sistema con la forza di un cane da pagliaio". Lo scontro è molto aspro perché Grillo accusa Il Fatto di ospitare pubblicità a lui poco gradite: "Chi non prende i finanziamenti pubblici e fa paginate di pubblicità dell'Eni, Telecom, dell'Expo è ancora peggio di chi prende i finanziamenti pubblici". Padellaro rispose minimizzando: "Si tratta della battuta di un vecchio comico che non fa più ridere". E adesso Grillo sembra un politico che non ha più seguito, almeno di  Travaglio. Il giornalista, già nel giugno scorso, con un editoriale dal titolo "I grullini", paragonava Grillo a Ceaucescu in merito all'espulsione della senatrice Gambaro: "Intendiamoci: cacciare, o far cacciare dalla “rete", una senatrice che ha parlato male di Grillo, manco fosse la Madonna o Garibaldi, è demenziale, illiberale e antidemocratico in sé, non è nemmeno il caso di esaminare l’oggetto del contendere, cioè le frasi testuali pronunciate dalla senatrice nell’intervista incriminata a Sky, perché il reato di lesa maestà contro il Capo è roba da Romania di Ceausescu". Boom. Un amore finito?

La storia d'amore tra Beppe Grillo e Marco Travaglio finisce sull'emendamento del M5S per l'abolizione del reato di immigrazione clandestina continua “Libero Quotidiano”. "Grillo e Casaleggio hanno perso una buona occasione per stare zitti". Marco Travaglio nell'editoriale di oggi, sabato 12 ottobre, sul Fatto Quotidiano, critica aspramente il leader del M5S e il guru Gianroberto Casaleggio per il loro "no" alla proposta dei parlamentari grillini sull'immigrazione. Il tema è sempre quello del reato di clandestinità, tornato prepotentemente alla ribalta con la tragedia di Lampedusa (e pure con l'affondamento di un altro barcone di disperati ieri pomeriggio). Secondo Travaglio Grillo e Casaleggio hanno fatto male a bacchettare i loro senatori, disconoscendo il disegno di legge per l'eliminazione del reato. Perchè, spiega Travaglio, i parlamentari pentastellati hanno agito con grande tempismo, "obbligando Pd e Sel a votare con loro un provvedimento perfetto per tempistica rispetto a quanto è accaduto in questi giorni". Travaglio stigmatizza la frase con cui Grillo ha censurato i suoi: "Se avessimo incluso l'abolizione del reato di clandestinità nel nostro programma, alle passate elezioni avremmo avuto un risultato da prefisso telefonico". E ce l'ha pure coi 'piani quinquennali' del Movimento: "Va bene - concede - la coerenza nei confronti degli impegni presi con gli elettori, che significa fare le cose scritte nel programma, ma nel corso di una legislatura si possono presentare delle situazioni impreviste, delle emergenze rispetto alle quali una forza politica non può restare passiva. E questo hanno fatto i senatori 5 stelle: agire con tempismo per dare una risposta a una esigenza impellente". Insomma una bocciatura senza se e senza ma della linea dei due leader pentastellati. La risposta di Beppe non si fa attendere. Ma non è il leader a sporcarsi le mani, tanto meno il socio Gianroberto Casaleggio: a coprire di insulti il vicedirettore del Fatto  è il commento di Ernesto Tinazzi Leone dal titolo eloquente: "I falsi amici".  Solo un commento? Non proprio, perchè il testo è stato estrapolato e incastonato in bella vista nella home del sito. Una chiara scelta editoriale. "Possente campagna sul Fatto Quotidiano, che ha sostituito l'Unità come organo del PD (menoelle, ndr), ricca di battute e insulti contro Beppe Grillo (nuovo leghista...)". Il blog di Grillo accusa l'ex amico Marco di insultare anche quella "parte della rete M5S che non si prostra alle gonnelle piddine e al'ipocrisia del momento sul tema immigrazione". La denuncia è quella di una vera e propria campaga stampa (il Fatto usa la macchina del fango?) basata su "articoli di basso livello e mediocri ricchi di insulti, velate porcate e accuse di xenofobia, borghezio oriented". L'intento del Travaglio&co, secondo il blog di Grillo, è sovversivo: rappresenta cioè un "invito" ai sostenitori del 5 stelle "a mandare a fare in culo i garanti dell'M5S, nonchè sobillare i nostri senatori e deputati". Le conclusioni sono spietate: "Sempre vero: meglio nemici diretti, che falsi amici - scrive Tinazzi -. Posso solo non acquistare il fatto quotidiano (sic); più serio comprare l'Unità o nulla (come faccio da tempo), giornale di partito non mascherato che non ti prende per il culo. I giornalisti del Fatto sono falsi, sobillatori e amici del Pd". La base si ribella -  Insomma Grillo regola subito i conti con Travaglio e il Fatto, ma la base dei Cinque Stelle insorge contro il leader e lo fa proprio sul blog di Grillo. "Beppe, Casaleggio, ma un po' di autocritica voi 2 mai?!?" chiede Massimo Melpi. "Bravi, siete fantastici - rimprovera Filippo Gatti -, se volete affossare l'unica speranza contro il monopolio politico degli ultimi 20 anni state operando nella maniera più giusta". Nell'eco dei sostenitori più fedeli della coppia di leader, si stagliano però le voci più critiche: "Travaglio, Scanzi, gli eletti in parlamento, una moltitudine di elettori e di iscritti - ricorda Mauro Caputo -, vi stanno dicendo ( a chiare lettere ): "Sapete che c'è caro Beppe e caro Casaleggio? Avete fatto una minchiata."

TRAVAGLIO. DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Travaglio, senti chi parla: anche lui è un delinquente. Il giornalista insulta di continuo l'ex premier, ma una sentenza lo inchioda: con una condanna definitiva sul groppone è tecnicamente un pregiudicato, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Delinquente. Pregiudicato. Ancora delinquente. Travaglio & co fanno rullare per h24 i tamburi della loro soddisfazione manettara e infarciscono il Fatto quotidiano come e più di un panino dagli ingredienti forti. Da quando Antonio Esposito ha letto la sentenza che coronava i sogni inseguiti per un ventennio, il travaglismo è tutto un rotolare stentoreo di sostantivi questurini. E, diciamo la verità, c'è tutto un giornalismo ebbro che sta affogando nel linguaggio cupo e burocratico dei mattinali. Il 10 settembre 2013, nel corso del programma di Gianluigi Paragone, la Gabbia, in onda su La7, Daniela Santanchè gioca maliziosamente con i punti esclamativi, le manette virtuali e il lampeggiante perennemente acceso di Travaglio e l'attacca usando la stessa moneta. La Pitonessa, più Pitonessa che mai, esibisce davanti alle telecamere un pacco di fogli, si presume una sentenza, poi attacca: «Travaglio chiama sempre il mio leader Berlusconi delinquente. Bene, Travaglio è condannato in terzo grado di giudizio e quindi per me è un delinquente e diffamatore». Poteva pure finire lì. Ma l'idolo del giustizialismo italiano evidentemente va a nozze con un mondo che sta tutto nei verbali, negli interrogatori, nei lunghi corridoi mal spolverati di caserme e palazzi di giustizia. Così risponde alla provocazione, invece di riflettere e fermarsi un istante prima: «Se la Santanchè vuol sapere qualcosa su giornalisti delinquenti si rivolga in famiglia». Allusione chiara al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, punito, pure lui, in via definitiva con 14 mesi. Nello studio volano gli insulti, anzi in studio ci sono solo le stoccate e i colpi proibiti perché i due contendenti sono fisicamente lontani e collegati via video. «Godo da bestia a chiamarlo delinquente», insiste lei. Travaglio diventa puntiglioso e prova a spiegare la differenza fra i reati fiscali, quelli di cui è accusato il Cavaliere, e la diffamazione, una sorta di malattia professionale del giornalismo: «Quella condanna mi è costata mille euro di multa. Mille euro in trent'anni di professione. Mi reputo fortunato». Come no, ma è vero che a voler essere coerenti fino in fondo l'Italia è una gabbia, altro che quella di Paragone, strapiena di pregiudicati, delinquenti e recidivi. Basta poco per essere marchiati. Come è capitato a molte firme nobili del giornalismo e molti personaggi da prima pagina, per i motivi più disparati. Certo, ha ragione Travaglio nel sostenere che non tutti i reati sono uguali: l'omicidio volontario non è paragonabile all'omicidio colposo che è costato un verdetto di colpevolezza ad un altro protagonista della politica italiana, Beppe Grillo. Ma il problema è un altro. L'imbarbarimento del vocabolario e del resto quella sintassi, ingolfata di termini giudiziari e parapolizieschi, esprime l'ideologia di chi a sinistra ha coltivato l'eliminazione di Berlusconi per via processuale. Ora che i risultati sono arrivati ci si accorge anche di come si è degradato l'orizzonte di tante gazzette e gazzettieri: per anni si è parlato solo e soltanto di avvisi di garanzia, inviti a comparire, leggi ad personam, leggi bavaglio e salvacondotti. Ora siamo alle sentenze irrevocabili, ai pregiudicati, ai delinquenti. E alla decadenza del Cavaliere. No c'è nessun tentativo di pesare il valore di una storia politica che ha segnato questo Paese e ha calamitato milioni di voti. Niente. Solo deposizioni. Solo pentiti e stallieri. Solo prestanome. E la complessità del mondo schiacciata nel buco della serratura di una cella. Nient'altro. Poi ricomincia lo scambio di complimenti e spagnolismi per la gioia di Paragone: «Godo da bestia a chiamarlo delinquente. E poi come tratta le donne - rilancia la Santanchè- ho dei dubbi che gli piacciano». «Le assicuro che non avrà mai modo di provarlo con me», contraccambia lui gentilmente. Prima di chiudere in bellezza: «Qui ci vuole il Tso. Mettetele la camicia di forza».

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

MARCO TRAVAGLIO

"SE LI CONOSCI LI EVITI" di Marco Travaglio e Peter Gomez. Peccato si siano dimenticati di scrivere su di loro e i loro amici.

FILIPPO FACCI: A TRAVAGLIO 8 MESI DI CARCERE, LO SALVA L'INDULTO.

Il presunto collega Marco Travaglio è stato condannato a 8 mesi di prigione e 100 euro di multa perché diffamò Cesare Previti, al quale andrà anche un risarcimento di 20mila euro che sarà probabilmente sborsato dall’Espresso. Il settimanale, infatti, il 3 ottobre 2002 ospitò un articolo diffamatorio sicché la direttrice Daniela Hamaui, a ruota, è stata condannata a 5 mesi e 75 euro che è una pena piuttosto elevata, se rapportata al di lei cosiddetto «omesso controllo». Ma siamo solo al primo grado, e la pena in ogni caso è stata sospesa per entrambi.

La diffamazione è il reato a mezzo stampa per eccellenza, spesso fisiologico a chi scrive di cose giudiziarie: nel caso di Travaglio, tuttavia, la condanna lo trasforma in un classico bersaglio del suo stesso metodo. Il reato è del 2002, ma giudicato nel 2008, dunque è presumibile che andrà in prescrizione prima del giudicato; il reato, inoltre, ricade tra quelli coperti dall’indulto approvato nel 2006; il reato, infine, stando al suo gergo da film con Thomas Milian, trasforma Travaglio in un «pregiudicato» poiché in precedenza era stato condannato sì come diffamatore, ma solo in sede civile. Condannato, oltretutto, sempre per azione di Previti: nel 2000, per un suo articolo pubblicato sull’Indipendente nel 1995, il tribunale l’aveva già condannato al pagamento di 79 milioni che gli furono progressivamente decurtati dal reddito mensile.

Nel febbraio scorso, poi, nella sua Torino, Travaglio è stato condannato a risarcire Mediaset e Fedele Confalonieri per alcune ingiurie pubblicate sull’Unità del 16 luglio 2006; la notizia di questa condanna registrò tra l’altro un curioso episodio: un collaboratore dell’Espresso, Daniele Mastellarini, scrisse sul suo blog che «Travaglio, che è sempre molto preciso sulle condanne altrui, scrive che “dovrò pagare 10mila euro più le spese al dottor Fedele Confalonieri”, mentre in realtà sono 12.000 e dimentica la pubblicazione dell’estratto sul Corriere della Sera, che ha un costo non indifferente. Travaglio non riporta anche la condanna a risarcire Mediaset per 14.000 euro, e soprattutto non dice che davanti al giudice ha definito la propria rubrica “di carattere satirico”». Questo scrisse Mastellarini prima che il suo rapporto con l’Espresso, senza nessuna spiegazione, avesse a interrompersi. Altre querele, come una di Antonio Socci, Travaglio le ha scansate chiedendo pubblicamente scusa.

Ma torniamo a ciò che in una botta sola trasformerebbe Travaglio in pregiudicato o prescritto o indultato. L’articolo del 2002 era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa Nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». E già qui il cosiddetto «sottinteso sapiente» pare chiaro. Lo sviluppo, poi, è ignobile: classico copia & incolla a tesi dove un pentito mafioso spiega che Forza Italia fu regista di varie stragi e fece un patto elettorale con Cosa Nostra. Il pezzo di Travaglio farebbe schifo già così, ma la sua disonestà intellettuale deve ancora dare il meglio. Vediamo. Il pentito del caso, Luigi Ilardo, raccontò queste cose che finirono in un rapporto redatto nel 1993. Ma Ilardo venne freddato da due killer nel 1996, talché «quello che avrebbe potuto diventare un altro Buscetta non parlerà più. Una fuga di notizie, quasi certamente di provenienza “istituzionale”, ha avvertito Cosa Nostra del pericolo incombente». Chi ha raccolto le confidenze del pentito, si legge, è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, in seguito coinvolto in un processo su presunti blitz antidroga pilotati. Riccio, nel 2001, viene convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri e al tenente Carmelo Canale, entrambi imputati per concorso esterno in associazione mafiosa. Taormina negherà, ma secondo Riccio in quello studio si predisposero cose losche: aggiustare deposizioni, scagionare Dell’Utri, cose del genere. Poi l’infamia. Travaglio cita un verbale reso da Riccio, sempre nel 2001: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E praticamente finisce l’articolo: l’ombra di Previti si allunga dunque su traffici giudiziari, patti con Cosa Nostra, regie superiori e occulte.

Il dettaglio, l’infamia, è che Travaglio non mette il seguito della frase. Eccola per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Questo è il presunto collega che questa sera arringherà le folle ad Annozero. Questo è Travaglio.

Attacca Vespa: «Marco Travaglio mi scarica addosso la consueta serie di insulti che fanno godere chi dell'antiberlusconismo ha fatto una ragione di vita, ma che costituiscono per il Cavaliere una polizza formidabile per fargli superare il record di durata di Giolitti e Mussolini». Contrattacca Travaglio: «Nel salutare il "dottor Fede", in arte Vespa, mi complimento con lui per essere riuscito a sponsorizzare il suo nuovo libro anche sull'unico giornale che ancora non gli aveva dedicato le consuete raffiche di anticipazioni e recensioni encomiastiche». Schermaglie di contorno in un duro botta e risposta pubblicato sulle pagine dei commenti dell'Unità. Motivo della lite tra i due giornalisti: i processi a Silvio Berlusconi.

Non finisce qui. «Travaglio ricorda che mia moglie era "vicina a Squillante". Mi permetto di ricordare che Renato Squillante era presidente della Sezione Gip di Roma di cui mia moglie era giudice. Travaglio è andato per un paio d’anni in vacanza con Giuseppe Ciuro, maresciallo della Finanza distaccato all’Antimafia (...): sarà poi condannato per violazione del sistema informatico della Procura di Palermo e per favoreggiamento del "re delle cliniche" Michele Aiello, condannato a sua volta (...) per associazione mafiosa. Il legale di Aiello ha detto che il suo cliente, su segnalazione del maresciallo, pagò un soggiorno in albergo di Travaglio. Travaglio ha smentito. Ma alla fine della fiera, giudichi il lettore qual è la situazione più imbarazzante». Risposta: «Quelle vacanze le ho pagate di tasca mia», tanto che ho pubblicato «la ricevuta della carta di credito e i due assegni. Se ho ricordato che la signora Vespa era vicina a Squillante, comunque, non è perché io dubiti dell’onestà della signora Iannini: è perché dubito della serenità di Vespa quando si occupa con grande indulgenza di Previti, Squillante & C., e soprattutto quando invita a «Porta a Porta» i tre Guardasigilli (Castelli, Mastella, Alfano) che hanno nominato sua moglie direttore generale del ministero della Giustizia e, ultimamente, capo dell'ufficio legislativo. Quando Vespa difende le leggi ad personam o nega addirittura che siano ad personam, sta parlando anche del lavoro della sua signora. Il che, in un altro Paese, potrebbe persino configurare un lievissimo conflitto d'interessi».

GIUDICI IMPUNITI.

I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.

Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono  Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare:

Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro. “Non mi pento della scelta fatta, quella di denunciare i miei estorsori”. È la voce di Valeria Grasso, imprenditrice palermitana, donna coraggiosa. Oggi presidente di Legalità è Libertà, associazione antiracket, antiusura e mobbing. Si è ribellata alla mafia, al sistema mafioso, alla prepotenza di gente senza scrupoli. Ha denunciato, ha fatto arrestare i suoi estorsori. Gli appartenenti al clan mafioso dei Madonia. Cosa Nostra siciliana. “Ci sentiamo lasciati soli, il programma di protezione non funziona”. Un concetto espresso da molti testimoni di giustizia. “Più che un programma di protezione – si sfoga Valeria – sembra una punizione, una distruzione per la denuncia”. Valeria, per aver fatto il proprio dovere, continua a ricevere minacce, intimidazioni, avvertimenti. L’ultima ha coinvolto sua figlia, di 11 anni. Alle minacce degli uomini del disonore (o pezzi di merda, come li definisce il collega siciliano, il direttore di TeleJato Pino Maniaci), si aggiungono le strane e discutibili decisioni dello Stato. “Mi sento presa in giro, mi hanno sospeso il contributo di sopravvivenza, senza nessuna comunicazione. Avevano già tolto quello per mia figlia”.

Il presidente di Azione Civile, Antonio Ingroia ha affermato: “Quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione per aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori, non è degno di un Paese civile”. Cosa ti è accaduto?

«Sono nel programma di protezione e vivo in località protetta. Mia figlia, la maggiore, ha avuto gravi problemi di salute e si è dovuta staccare dalla località protetta ed è arrivata a Palermo nel mese di gennaio. Questa sua situazione di salute si è aggravata e a maggio, con regolare autorizzazione, sono dovuta tornare a Palermo, provvisoriamente, per assistere mia figlia. E’ stata ricoverata in ospedale dodici giorni, una depressione causata da tutta una serie di situazioni che abbiamo vissuto in località protetta, come la casa avuta dopo un anno e il vivere in alberghi.»

E cosa succede?

«Il 2 agosto mi accorgo che non mi è stato accreditato il contributo mensile. Il testimone di giustizia che vive in località protetta non potendo più lavorare ha un sussidio che serve alla sopravvivenza del nucleo familiare. Mi dicono, al telefono, che mi era stato sospeso.»

Una questione di soldi?

«Il problema è come viene trattata la gente. Questo programma di protezione sembra un programma di punizione. Tutto quello che deve essere garantito lo devi sudare, devi combattere. Come se la tua famiglia fosse un peso, da punire. Non esiste che al tuo nucleo familiare, improvvisamente e senza preavviso, viene sospeso il contributo di mantenimento. Ma se è previsto dalla legge, che la famiglia ha un sussidio per vivere, come fai il due agosto, senza una comunicazione… c’è malafede.»

Perché parli di malafede?

«La legge non prevede la sospensione del contributo, c’è qualcuno all’interno del Servizio che ha preso una decisione che non è legale. Come dice il dott. Ingroia, determinate decisioni vengono prese in Commissione, la revoca del contributo viene fatta se c’è un motivo gravissimo. Per esempio l’abbandono della località, la fuoriuscita dal programma. Ma non è possibile che a una madre, giù in Sicilia, per motivi gravi della famiglia venga sospeso il contributo. Ma di cosa stiamo parlando?»

Secondo te perché si comportano in questo modo con i testimoni di giustizia?

«Perché non c’è un controllo, nessuno controlla il sistema del servizio di protezione. Non c’è all’interno una volontà di incentivare la figura del testimone di giustizia, sempre costretta ad essere vista come una figura poveretta che deve stare lì ad elemosinare, piuttosto che una risorsa della società civile. In questo modo sei continuamente a gridare allo Stato tutto quello che ti spetterebbe di diritto. E’ una battaglia, mi trovo a lottare contro coloro che dovrebbero aiutarmi a ridare equilibrio a casa mia.»

Tu sei una testimone di giustizia perché hai fatto arrestare degli estorsori del clan Madonia…

«Gestivo una palestra, un bene confiscato di proprietà della famiglia Madonia. Per certi personaggi la parola ‘confisca’ non esiste. Alle prime richieste di estorsione mi ero opposta tassativamente, non volevo pagare, ero molto spaventata. Madre di tre figli e separata. Ci sono momenti molto difficili, soprattutto, sapendo chi sono i personaggi.»

Chi sono?

«Madonia è stato colui che ha ucciso Libero Grassi, ha fatto parte dei mandanti della strage di via D’Amelio. La moglie di Madonia, Maria Angela, è definita il boss in gonnella. Si può ben capire di chi stiamo parlando.»

Quindi cosa succede?

«Ho provato anche a vendere l’attività per cercare di tutelare la mia famiglia, ero riuscita a venderla a un ragazzo di vent’anni. Dei personaggi, mandati da loro e arrestati grazie alle mie denunce, pretendevano che io da vittima diventassi estorsore. Pretendevano che io andavo dalla persone che aveva comprato la mia palestra per ritirare 500euro al mese, diventando un loro esattore. A quel punto è stata inevitabile la scelta, sono andata a denunciare. Oggi ho ripreso la palestra, ho restituito i soldi a quel ragazzo che l’aveva presa e ho tentato di riattivarla. Gli atti di intimidazione sono stati talmente tanti che la Procura di Palermo ha predisposto l’inserimento urgente nel programma per un pericolo imminente di vita.»

Le minacce non sono terminate. Tua figlia di 11 anni, poco tempo fa, è stata "avvicinata".

«È stata minacciata al cellulare dalla voce di un tizio che, poi, si è  presentato come Pietro e che ha detto in siciliano: "So chi sei e so chi è tua madre". Più che un messaggio a lei è stato un messaggio a me.»

Ritorniamo al programma di protezione…

«Un business, un’invenzione. Non ha assolutamente la funzione che dovrebbe avere. Mi sento presa in giro da questo sistema. Smetterò di sentirmi presa in giro quando chi di dovere, dopo le mie continue denunce, si degni di ricevermi così come ha fatto il presidente Crocetta (Presidente della Regione Sicilia, ndr), che alla vigilia di ferragosto, appena ha letto quello che stava succedendo tramite il dott. Ingroia, che è stato il mio magistrato, ha voluto incontrarmi. Garantendo chiarezza su questa storia. Ho scritto alla presidente Boldrini, telefono continuamente alla segreteria del Ministro, ma di che cosa parlano? Come vogliono che l’Italia, la Sicilia cambi o si combatta la mafia quando quelle persone che dovrebbero essere il megafono della legalità diventano il megafono di uno Stato che non funziona.»

Una situazione difficile…

«Che mi stimola sempre di più ad andare avanti per combattere contro questo sistema. Non ci dobbiamo isolare, dobbiamo continuare a denunciare e a combattere questo sistema che non funziona. Mi aspetto che il Ministro intervenga e che qualcuno cominci a volerci vedere chiaro come funziona il sistema di protezione, chi lo gestisce, chi sono i direttori del Servizio e come mai prendono della decisioni che non vengono autorizzate, per esempio, dalla Commissione. È necessario che qualcuno faccia un immediato intervento, perché altrimenti ci si sta prendendo tutti quanti in giro.»

“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss.

Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto.

Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine.

Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura.

La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all'esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi?

Questo basta? No!

Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

Gaffe su Pinochet in Venezuela, Di Maio: "Un lapsus", scrive "Adnkronos" il 13/09/2016. "Un lapsus che ho subito corretto". Lo dice Luigi Di Maio a Politics, a proposito del post su Facebook in cui paragonava Matteo Renzi a Pinochet, citandolo come dittatore in Venezuela e non del Cile. In questi giorni difficili per il M5S, le gaffe - probabilmente dettate dal nervosismo di giornate senza fine - non aiutano. E ascivolare è stato proprio il vicepresidente della Camera, che ha postato un parallelo con cui ha guadagnato presto i titoli delle testate online. Ma commettendo un errore di non poco conto, collocando il dittatore cileno in Venezuela, salvo correggere ben presto l'errore. La Rete però non perdona. Subito su Twitter inizia a rimbalzare la prima versione del testo, prontamente screenshottata da alcuni esponenti del Pd, in prima fila Anna Ascani, che sottolinea con pennarello rosso l'errore. "Magari fra un po' ci parlerà del cileno Chavez - punge David Sassoli - dell'egiziano Erdogan o dello spagnolo Hollande... #DiMaioshow". Intanto nello staff comunicazione dei 5 Stelle lo scivolone crea non poca apprensione. Tanto che, riferiscono fonti del Movimento all'AdnKronos, ben presto a Roma arriva la telefonata dal quartier generale dei 5 Stelle a Milano, la Casaleggio associati, dove c'è nervosismo "per l'ennesima cappellata" trasformatasi in un vero e proprio assist ai dem:"Possibile che prima di pubblicare nessuno ricontrolli con attenzione i post di Di Maio?", chiedono con non poco fastidio i vertici milanesi ai comunicatori in servizio in Parlamento. E mentre l'hashtag #Pinochet entra nei trend topic di Twitter, gli affondi sul vicepresidente della Camera fioccano anche dal centrodestra. "Per Di Maio, Pinochet era venezuelano - cinguetta tra gli altri Massimo Corsaro, di Cor - Ha letto la storia in una mail, ma non l'ha capita. #DiMaioinpeggio".

Parla De Dominicis: "Cinque Stelle? Quattro ragazzacci ignoranti". Intervista al magistrato chiamato come assessore al Bilancio e cacciato nel giro di 24 ore, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo” il 9 settembre 2016. «Sono quattro ragazzetti che non hanno finito nemmeno gli studi». Liquida così, Raffaele De Dominicis, i membri del direttorio che hanno imposto al sindaco Virginia Raggi le sue dimissioni da assessore al Bilancio del Comune di Roma. Una nomina bruciata nell’arco di soli tre giorni. I vertici del Movimento 5 Stelle, infatti, hanno scoperto che l’ex procuratore regionale della Corte dei conti del Lazio risulta indagato per abuso d’ufficio dalla Procura di Roma. Per questo ieri pomeriggio la Raggi ha annunciato con un post su Facebook la sua rimozione: «In queste ore ho appreso che l’ex magistrato in base ai requisiti previsti dal M5S non può più assumere l’incarico di assessore al Bilancio della giunta capitolina, pertanto di comune accordo abbiamo deciso di non proseguire con l’assegnazione dell’incarico».

Contattato da Il Tempo, De Domincis è caduto dalle nuvole. La Raggi l’ha contattato per dirle che non sarà più uno dei suoi assessori?

«Non ancora».

È stato il direttorio a volerlo.

«Sono quattro ragazzacci. Quattro ragazzini che credono di potersi sovrapporre ai codici e alla morale. Non mi interessa il Movimento. Io sono un uomo libero. Ho il pallino dello studio e amo Roma, per questo sono stato chiamato a fare l’assessore. Non l’ho fatto certo per il Movimento, col quale non c’entro nulla».

Cosa mi dice del procedimento penale che la riguarda?

«Sono vittima di un complotto, un’ingiustizia gravissima e senza precedenti. I miei nemici hanno raggiunto il loro obiettivo. Ma non l’avranno vinta, mi difenderò attaccando».

La sua iscrizione nel registro degli indagati però è un dato di fatto.

«Un mio ex collega della Corte dei conti mi ha contestato un atto su cui non era d’accordo. Io non ero d’accordo con lui a presentare appello su una sentenza di assoluzione di primo grado e mi ha denunciato alla Procura penale. Ma so che Pignatone l’aveva archiviato».

In realtà il giudice delle indagini preliminari ha chiesto ulteriori accertamenti e ha disposto l’iscrizione come atto dovuto.

«Denuncerò chi ha diffuso questa voce per violazione del segreto istruttorio. Tra l’altro il collega che mi ha accusato si è anche auto calunniato».

Si parla anche di un’altra denuncia, per «comportamenti non idonei» sul luogo di lavoro?

«Sono tutte calunnie. Nella mia condotta non c’è nulla che possa essere incompatibile con l’etica pubblica».

Ha ricevuto un avviso di garanzia?

«Assolutamente no».

Cosa pensa della Raggi?

«Mi sento preso in giro. Quello non è un partito. Non tornerei a fare l’assessore nemmeno se la Raggi me lo richiedesse in ginocchio. A questo punto ognuno a casa sua».

Il senatore Maurizio Gasparri definisce la sua una nomina fatta "col cappuccio" dalla Raggi, evocando uno scenario massonico che vede legato il sindaco allo studio Sammarco.

«Sono tutte fesserie. Mi ha scelto perché ho delle competenze tecniche sulla materia finanziaria. Querelerò anche Gasparri».

Chi la difende nel procedimento che la vede indagato?

«Un giovane avvocato dello studio Sammarco». 

Gaffe a cinque stelle e l'ignoranza al potere, scrive Alessio Postiglione su "L'Huffingtonpost" il 15/01/2014. L'ignoranza al potere. Per il M5S è il caso di parafrasare la celebre espressione di Herbert Marcuse, poi diventata il motto dei pacifisti sessantottini: l'immaginazione al potere. E abbiamo bisogno dei pacifisti subito, perché siamo sotto un bombardamento incessante di idiozia crassa. Bin Laden vivo o morto o X, Pinochet diventato lo zio Pino, le sirene - forse di qualche ambulanza che ci soccorra per un TSO - fino al delirio sui morti di Nassirya: tristissima e poverissima analisi che, oltre a offenderci tutti, svela quella mentalità complottistica, infantile e ossessiva propria di una parte dei Cinque Stelle. Una mentalità indegna per un rappresentante dello Stato, che dovrebbe almeno sforzarsi di avere una comprensione più realistica delle relazioni internazionali e meno da romanzo di Dan Brown. Forse, se non avessero scelto i collaboratori fra amici, fidanzate e mediattivisti, i "portavoce" del MoVimento leggerebbero in aula cose più serie. Ma tutto torna: la mitologia del Web e l'odio per i pennivendoli propri dei Cinquestelle contribuiscono a creare un'epistemologia del teorema totale dove, fra complotti di Bildenberg e poteri occulti, il signoraggio bancario e i Protocolli dei Savi di Sion, si distilla un fatale mix di fantanarrazione "alternativa" permanente. L'Homo novus pentastellato, con il chip sotto pelle e sempre on line, si forma solo con i video di Youtube dove, dal Risorgimento alla Bce, dai rifiuti ai gasdotti, si irradia una spiegazione "alternativa" a tutto e su tutto: una mitopoiesi che svela come tutti, tranne il M5S, siano in realtà burattini della finanza deviata, delle oligarchie deviate, dei servizi deviati e delle massonerie deviate. Dunuqe, la nuova ortodossia cinquestelle contro il deviazionismo, come ai tempi di Stalin. Non a caso, Grillo - come Stalin e Mussolini - propone impudentemente che il MoVimento debba farsi Stato. Un nuovo Pcus o Pnf, insomma. E pensare che Grillo promise, in campagna elettorale, di mandare al Parlamento una nuova genìa di competenti, fra lauree e PhD. "Il più scemo è ingegnere", sentenziò. Il paese era percorso dalla giusta indignazione verso quei tanti parlamentari che non sapevano rispondere alle più banali domande di cultura generale che le Iene sottoponevano loro. Poi, si è scoperto che il M5S è superato per numero di laureati al Parlamento dal Pd e financo da Scelta civica. Ma anche l'idea che questi simpatici smanettoni web potessero essere "meno peggio" dei Cetto Laqualunque presi in giro dalle Iene si è rivelata vana. In primis, perché le castronerie a cinquestelle sono pericolose: dal negazionismo alle grossolane analisi su di un Mussolini buono e anti-capitalista da contrapporre al Mussolini cattivo perché alleato di Hitler, il M5S dimostra che è quasi meglio non avere idee che avere idee sbagliate in testa. La verità, poi, è che quei tanti parlamentari dal greve accento paesano, oggetto del ludibrio dei Web-guru grillini e anche della stessa intelligencija di sinistra, molte volte, sono ottimi politici. In grado di ascoltare il territorio, risolvere piccoli problemi a un agricoltore o sbloccare il completamento di una strada fra territori collegati da mulattiere. La politica è anche questo. Non servono (solo) filosofi o cruscanti. Non a caso, il Pci si vantava di mandare in parlamento il grosso intellettuale e l'operaio. Solo che, quell'operaio, magari poco trendy e dall'accento non sanbabilino, era stato socializzato in una sezione di partito in cui si insegnava la politica; non su di una pagina Facebook dove si blatera di Bildenberg e della Trilateral. Con il M5S, viene a galla tutta la presunzione degli italiani di essere meglio di chi li rappresenta: perché più colti o più onesti. Falso.Un modo comodo per autoassolversi dai guai compiuti da politici mediocri con la collusione dei cittadini, spesso peggiori dei primi. I partiti, anche quando non funzionano, fanno filtro. Si migliora la politica migliorando questo filtro, non togliendolo. Se no, aspettiamoci altri e più gravi Pino Chet.

Grillini all'arrembaggio: tutte le gaffe a Cinque Stelle. Il comico assicura: "Il M5S è il gruppo parlamentare con il maggior numero di laureati". Ma tra errori, gaffe e ammissioni di ignoranza i neo eletti stanno scatenando l'ilarità del web: ecco gli strafalcioni più celebri, scrive Sergio Rame, Sabato 9/03/2013, su "Il Giornale". Di essere impreparati sono i primi ad ammetterlo. Non se ne vergognano e promettono di fare i compiti rima di approdare dietro ai banchi delle Camere. Eppure certe dichiarazioni rilasciate dai neo eletti del Movimento 5 Stelle lasciano davvero a bocca aperta. Non tanto per le scarse conoscenze rispetto al funzionamento delle istituzioni, quanto alle priorità che si preparano ad affrontare in parlamento. Basta ascoltare le parole del 25enne Paolo Bernini che alla riunione capitolina si è così descritto: "Sono laureato in tecnologie della comunicazione. I temi che mi stanno cari sono la tutela degli animali e la laicità dello Stato. Sono vegano e sono disiscritto dalla Chiesa cattolica". Da una decina di giorni i media si sono riversati sui grillini. Ricercati e descritti come veri e propri marziani che sono calati sulla terra, i neo eletti pentastellati hanno letteralmente bucato gli schermi delle televisioni. Non c'è programma tivvù o trasmissione radiofonica a cui i seguaci di Beppe Grillo non vengano invitati. Dove passano, lasciano il segno. Una prima dose dei "cittadini" (guai a chiamarli onorevoli) con cui sinistra e centrodestra dovranno confrontarsi alle Camere, l'abbiamo testata alla due giorni organizzata dal comico genovese per presentare, via streaming, l'esercito che invaderà i palazzi romani. Uno ad uno si sono presentati (nome e cognome, città di nascita e di residenza) e hanno recitato un breve curriculum. "Mi occuperò di diritti del lavoro perché ho fatto attività sindacale - ha aperto le danze Alberto Airola, torinese eletto a Palazzo Madama - e mi occuperò di cultura perché ho lavorato nel comparto dell'impresa culturale". E così, via via, passato dalla biologa naturalista Fabiola Calidori a Massimo Artini (appassionato di gestione dei rifiuti)."Vorrei portare in parlamento - ha detto Sergio Battelli - la mia passione per il web e per la musica dal momento che sono anche un musicista". Un vortice di dati anagrafici e di attitudini professionali che rasenta i casting dei reality che popolano dal tivù del nuovo millennio. È fuori dalle riunioni autorizzate da Grillo e Casaleggio che i neo eletti danno il meglio di sé: grossolani errori che suscitano l'ilarità, simpatiche gaffe che strappano il sorriso, ammissioni di ignoranza che fanno storcere il naso. La lista si fa sempre più lunga. Nei giorni scorsi, per esempio, Bartolomeo Pepe ha ammesso di non sapere dove si trova il Senato. "Lo trovo su Google - ha scherzato ai microfoni della Zanzara - prenderò un taxi e ci andrò". Non ha fatto meglio La povera Enza Blundo che a Un giorno da pecora è caduta sul numero dei parlamentari. Parlando del taglio agli scranni delle due camere, le è stato chiesto: "Ma quanti senatori basterebbero?". "Trecento", ha risposto la neo eletta al Senato. "E quanti deputati?". "Cinque o seicento". Insomma, un taglio ad hoc per mantenere lo status quo. E che dire di Carlo Sibilia convinto di poter governare anche senza la fiducia delle Camere? O di Paolo Bernini, intimamente convinto che sotto la pelle della gente sono installati dei microchip? Eppure, solo qualche settimana fa, Grillo si vantava che "quello del MoVimento 5 Stelle è anche il gruppo con la maggiore percentuale di laureati: l'88%". In molti, sul web, hanno però fatto notare che possedere un titolo di studio non equivale ad avere una cultura generale, men che meno in educazione civica.

Beppe Grillo e tutte le figuracce dei neo eletti a 5 stelle, scrive l'1/03/2013 Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Viaggio tra i parlamentari del M5S, tra chi non conosce la Costituzione e chi dove si trovi il Senato. Devono ancora entrare in Parlamento, ma alcuni neo eletti del Movimento 5 Stelle lasciano già perplessi molti cittadini. Che la maggior parte fossero inesperti o alla prima esperienza era prevedibile, ma qualcuno ha mostrato lacune imbarazzanti, almeno sulla conoscenza delle istituzioni che li vedranno protagonisti. Come Enza Blundo, neo senatrice eletta in Abruzzo: in diretta ad un “Giorno da Pecora”, ha chiesto che sia dimezzato il numero dei parlamentari, ma non conosce quanti siano in totale i colleghi a Palazzo Madama e a Montecitorio. Oppure c’è anche chi come Carlo Sibilia, neo deputato tra le fila del movimento Cinque Stelle, che ha dimostrato di non conoscere bene come funzioni la Costituzione. Parlando della possibilità che non venga accordata la fiducia ad un eventuale governo Bersani, ha sentenziato: “Puoi ben capire che per governare non c’è bisogno della fiducia di nessuna delle due camere”. E’ vero che gli italiani hanno ancora in mente il passato Parlamento (quello di Razzi e Scilipoti, puntualmente “premiati” con la rielezione), ma si spera in qualcosa di meglio. Ha fatto venire l’orticaria a molti giuristi – ma anche ai normali cittadini che il M5S dovrebbe rappresentare – la performance di Enza Blundo alla trasmissione un “Giorno da Pecora”: Intervenuta in diretta, la neo senatrice ha mostrato un po’ di confusione sul numero di deputati e senatori. Gli stessi che invitava a tagliare, ribadendo la necessità di dimezzare i costi della politica. Una proposta condivisibile, ma che – data la gaffe – sembra essere quasi soltanto uno slogan. Enza Blundo, eletta in Abruzzo, alla domanda dei due conduttori ha dimostrato di non essere proprio a suo agio con le elementari conoscenze del diritto costituzionale. Così la “cittadina portavoce” – come preferiscono farsi chiamare dalla stampa i “grillini”, accusando i giornalisti che li “denigrano” con questo appellativo – chiede che sia dimezzato il numero dei parlamentari. Ma quanti senatori ci sono oggi? «Trecento», risponde. E quanti deputati? “Cinque o seicento”, afferma, in evidente difficoltà, mostrando le sue lacune (per la cronaca la Camera è composta da 630 membri, mentre al Senato i membri sono 315, più i senatori a vita, ndr). Ma non è stata l’unica gaffe della Blundo. Quando è stata chiesta alla neo senatrice una posizione sul matrimonio omosessuale, la parlamentare è apparsa nuovamente in difficoltà: “Sono a favore del registro delle unioni civili”, ha spiegato, senza nominare mai la parola omosessuale e parlando di “chi ama vedere la vita in un altro modo”. L’ha incalzata Paola Concia, in diretta telefonica: “Ma questa è un’altra cosa, dica sì o no”. Ma non è arrivata nessuna posizione chiara. Poi è stata la stessa Blundo a parlare di “strumentalizzazione” ai suoi danni: “Cari amici di Arcigay, sono terribilmente dispiaciuta per quanto emerso ieri dall’intervista rilasciata ai microfoni di “Un giorno da pecora”: è una chiara strumentalizzazione perpetrata nei miei confronti da chi mal sopporta il mio risultato, che mi piace pensare sia più che altro il nostro”, ha spiegato. CHI NON CONOSCE LA COSTITUZIONE – Poi c’è anche chi, come il neo deputato Carlo Sibilia, non conosce invece come funziona il meccanismo della fiducia accordata dalle Camere al governo. Lo raccontano Urban Post e Orticalab. Tutto è partito da un commento su Facebook del neo deputato il quale, parlando della possibilità che non venga accordata la fiducia ad un eventuale governo Bersani, ha sentenziato: “Puoi ben capire che per governare non c’è bisogno della fiducia di nessuna delle due camere. Articolo 94 della Costituzione. E’ semplice e così faremo. Ora calma e gioia, la linea è tracciata e non si torna indietro. Possiamo solo migliorare il Paese…” La frase è stata ripresa anche nell’intervista di Urban Post: “Costituzionalmente è il Presidente della Repubblica che conferisce l’incarico al Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, nomina anche i ministri. Fossi Napolitano premierei la prima forza politica del paese. Ovvero il Movimento 5 stelle. Poi sarà lui a decidere a seguito delle consultazioni previste. Per quanto riguarda la fiducia l’art. 94 parla chiaro: non è scritto da nessuna parte che il Governo debba dimettersi se non ottiene la fiducia di una o entrambe le camere.” Peccato che la ricostruzione di Sibilia sia sbagliata, con il candidato che ha dimostrato di non essere molto ferrato sul meccanismo di funzionamento delle istituzioni. E sull’articolo in questione: infatti un governo per formarsi deve avere il via libera delle due Camere, sia del Senato che della Camera. Poi se dovesse andare sotto può rimanere in sella, o magari sarà delegittimato, ma dipenderà dai singoli casi. Certo se invece dovesse ricevere una mozione di sfiducia le cose sarebbero ben diverse. Ma si può lavorare soltanto se c’è fiducia, altrimenti no. Il governo per insediarsi e lavorare deve avere il via libera sia della Camera sia del Senato e che tale fiducia deve reggere, altrimenti c’è la caduta del governo. Nozioni sconosciute, a quanto pare, al neo deputato eletto. Poi c’è anche chi, come il senatore Bartolomeo Pepe, intervenuto ieri alla Zanzara da Cruciani e Parenzo, ha spiegato di non sapere nemmeno dove si trova il Senato: “Ma non è un problema, lo troviamo!”. Quando poi i due conduttori gli chiedono come si elegge il presidente della Repubblica, il novello Senatore a 5 Stelle fa sapere che ha un’altra telefonata in linea: “Non mi va di essere preso per i fondelli, studieremo e vi faremo sapere”. Perplessità. Forse anche per evitare questi errori clamorosi è previsto un incontro tra eletti, Grillo e lo stesso Casaleggio, per lunedì prossimo come spiega Annalisa Cuzzocrea su Repubblica di oggi. Un summit segreto: una “full immersion” di 60 ore di corsi e di studio su alcuni macrotemi, come il percorso di approvazione delle leggi e un ripasso costituzionale. E per “andare a scuola” di procedure burocratiche. Date le prime performance, sembra che ce ne sia proprio bisogno.

Sgarbi attacca: “I 5 Stelle sono ignoranti e indegni”, scrive venerdì, 31 luglio 2015, “Diretta News”. Il casus belli stavolta è il no del Senato all’arresto di Antonio Azzollini. Vittorio Sgarbi, intervistato da Affaritaliani.it, attacca pesantemente i parlamentari del Movimento 5 Stelle: “Assisto allo spettacolo turpe di un Parlamento indegno. I 5 Stelle sono degli ignoranti e delle teste di c….Ipocriti demagogici. L’immunità, lo sanno tutti, non c’è più. Quindi il processo Azzollini va avanti lo stesso. Il valore più alto di tutti è la libertà individuale e la carcerazione preventiva + la barbarie più grande”. Sgarbi, sin dai tempi di Tangentopoli fiero oppositore del carcere preventivo usato come mezzo di intimidazione e abusato dai giudici anche quando non ci sono le necessità per attuarlo, continua poi la sua invettiva prendendosela ancora coi 5 Stelle e anche con i magistrati: “Non si capisce che diritto avrebbero i magistrati, che spesso sbagliano indagini e rubano lo stipendio, di processare Azzollini con la carcerazione preventiva, che dovrebbe valere solo in caso di flagranza di reato. Se poi dopo si scopre che uno era innocente chi gli ridà la libertà negata? Quando quelli del M5S dicono che sono sicuri della colpevolezza di Azzollini dimostrano tutta la loro ignoranza. Il Senato ha solo impedito che un parlamentare andasse a processo in catene”. Infine la conclusione, lapidaria e senza vie di scampo: “I 5 Stelle, ma anche una parte del Pd come Serracchiani e Gotor, è gentaglia ignorante che non può e non deve stare in Parlamento”.

La sgangherata pattuglia pentastellata non conosce nemmeno il nome dei suoi eroi. La consueta gaffe, questa volta, ce la regala il senatore grillino Nicola Morra, capogruppo a Palazzo Madama. Prende la parola in aula, e nello sventolio di agendine rosse dei movimentisti seduti attorno a lui, ricorda la strage di via D'Amelio. Così Morra: "Dobbiamo ricordare Salvatore Borsellino...". Tra i suoi compagni di "movimento" nessuno dice una parola, nell'emiciclo si leva una voce: "Non sa nemmeno come si chiama...". Quindi prende la parola il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso, che riprende Morra: "Stiamo ricordano Paolo, perché non credo proprio che Salvatore Borsellino sia nelle condizione di essere ricordato". Salvatore, infatti, è il fratello. Vivo e vegeto. Grillini, analfabeti parlamentari: "Non capiamo che cosa votiamo" Che autogol in diretta streaming...I senatori a 5 Stelle si coprono di ridicolo nella loro assemblea: "Emendamenti incomprensibili, qualcuno ce li traduca". Però incolpano gli altri partiti, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Per giorni e giorni fra marzo e aprile avevano tuonato contro la mancata costituzione delle commissioni parlamentari perché così non li facevano lavorare. Ora dopo quattro mesi di lavoro in commissione il Movimento 5 stelle scopre di annegare in quel lavoro che gran parte dei suoi eletti non sanno fare. La gran confusione e l’esteso dilettantismo è emerso durante la riunione (parzialmente trasmessa in streaming) del gruppo parlamentare al Senato giovedì 25 luglio. A sorpresa la conduzione dell’assemblea è stata affidata a Maurizio Buccarella e non al capogruppo pro-tempore Nicola Morra, che pure gli sedeva a fianco silente. A illustrare l’imbuto in cui il movimento si è infilato è stato invece Maurizio Santangelo, il senatore che si è ritagliato un po’ di notorietà a palazzo Madama perché ogni cinque minuti interrompe la seduta per chiedere la votazione elettronica. Santangelo si è lamentato della scarsa incidenza dei parlamentari del movimento, che spesso fanno lunghi interventi «anche di qualità», che però nessuno ascolta. Forse è meglio - ha sostenuto - utilizzare più delle parole gli emendamenti per migliorare i provvedimenti presentati dal governo e della maggioranza. Ed è qui che è nato lo psicodramma interno al gruppo. A prendere la parola è stata infatti la catanese Ornella Bertorotta, membro della commissione bilancio del Senato: «A proposito di emendamenti», ha esordito, «esco un attimo dal tecnicismo per dire che nella commissione bilancio abbiamo molta difficoltà a difendere i nostri emendamenti, perché proprio non li capiamo». Scritti - come quasi tutte le leggi che si vorrebbero cambiare in modo incomprensibile. «Ci vuole tutto uno studio», ha sostenuto la Bertorotta, «per capire il linguaggio giuridico, e con i tempi che abbiamo non ce le facciamo. Forse potremmo approfittare delle nostre segretarie perché prendano appunti da chi conosce le cose e poi redigano una spiegazione in calce ad ogni emendamento».  Semplifica Laura Bignami: «Sì, anche io ho questa impressione: che non capiscono i nostri emendamenti e quindi poi non riescono a difenderli». Di fronte allo smarrimento di gran parte dei senatori a Cinque stelle, va diretto un altro membro della commissione Bilancio, Elisa Bulgarelli: «Guardate, gli emendamenti debbono passare tutti in bilancio. Quando arrivano sono veramente molto tecnici, e non solo a livello giuridico. Gli ultimi che venivano dalla commissione Lavoro erano scritti in modo del tutto incomprensibile. Così non siamo riusciti a difenderli: non capendoli non sapevamo che argomenti trovare con gli altri». Qualcuno fa osservare che gli ultimi emendamenti inviati avevano la loro spiegazione allegata, e la Bulgarelli scuote la testa: «Non dovete scriverci spiegazioni che sono identiche al testo incomprensibile perché ovviamente non capiamo nemmeno quelle». Ai Cinque stelle puoi dire di tutto, salvo che lavorano male. Perché sono molto fieri del proprio presunto sapere e pontificano su tutto. Quindi di fronte alle critiche si offendono. E rigirano la frittata. L’ha fatto subito lo stesso Santangelo: «Loro hanno certo ragione. Però questa problematica nasce dal fatto che il governo e questa maggioranza mettono dei decreti omnibus in cui ci sono delle cose complicatissime e c’è sempre poco tempo per capire e trovare soluzioni. Ecco: quando parliamo di ostruzionismo il vero ostruzionismo è quello che si sta facendo nei confronti dell’unica forza politica nuova, che è la nostra: il Movimento 5 stelle. Noi ancora non siamo pratici, abbiamo bisogno di un po’ di tempo...». Ribaltando la frittata, Santangelo sostiene che «ad esempio nel decreto Iva sia Pd che Pdl avevano presentato molti emendamenti  di buon senso che avremmo votato. Appena l’hanno capito hanno fatto ostruzionismo contro noi,  decidendo di ritirare tutti gli emendamenti». Siamo alla fantasia più sfrenata. Che nasconde una sola verità, poi ammessa nella riunione: «Dobbiamo imparare e farci furbi. Basterebbe essere un po’ più veloci e presentare emendamenti nostri anche all’ultimo, con la firma di otto senatori. Quelli non li possono ritirare…». E il grande complotto alla fine diventò un auto complotto.

POPULISTA A CHI?!?

Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema.

PARLIAMO DEI GRILLINI A 5 STELLE.

Indagati i primi grillini, che ora litigano. Il consigliere Bono: «Distinguiamo dal rinvio a giudizio». Ma la base si ribella, scrive Andrea Rossi su “La Stampa”. «Davide, tu no vero?». A metà pomeriggio Irene Camassa, militante del Movimento 5 Stelle, scrive sul profilo Facebook di Davide Bono, capogruppo in Piemonte. Una domanda che suona come un’implorazione: non sei indagato, vero? Sì, invece: è indagato. Boom. Per la prima volta un esponente della galassia grillina finisce dentro un’inchiesta. E con lui c’è anche Fabrizio Biolè, eletto del 2010 e poi cacciato con lettera dell’avvocato di Grillo, accusato di essersi candidato anni prima come consigliere comunale a Gaiola, nemmeno 600 abitanti in provincia di Cuneo. È un duro colpo. «Davide, puoi chiarire?», chiede Elisa Bevilacqua, un’altra attivista. Poco dopo Bono chiarisce o, almeno, ci prova. «Sì, sono stato raggiunto da un avviso di garanzia anche io (nessun gruppo è stato risparmiato)».

Butta lì una frase che dice tutto sul mito della purezza andato in frantumi: «Un certo effetto lo fa, trovarsi ad essere il primo eletto M5S raggiunto da un avviso di garanzia. Soprattutto pensando ai ragionamenti che tutti abbiamo sempre fatto sui politici indagati. In effetti questo dovrà farci ben riflettere e imparare a distinguere nettamente tra indagini e rinvio a giudizio». Spiega, entra nei dettagli: «A me personalmente contestano 619,91 euro in due anni e tre mesi. E poi 3905,27 di spese per attività dei collaboratori».

Benzina, alberghi, trasporti, bar, ristoranti. A una cosa tiene più che a ogni altra: «Non sono state fatte né spese per fini personali né per finanziamento del “partito”». Dalle pieghe dell’inchiesta emerge una circostanza: per partecipare alle manifestazioni No Tav in Val Susa i consiglieri grillini avrebbero usufruito dei rimborsi chilometrici e per la benzina. Il malumore dei militanti soffoca anche le buone ragioni della lotta contro il super treno: «Potevano o no? Per andare a Chiomonte 4,35 euro si possono spendere di tasca propria... credo». Brutta giornata, per Bono. La base rumoreggia. È vero che la Procura di Torino non ha risparmiato nessuno dei quindici gruppi in Regione. Ma il punto è proprio questo: loro, di fatto, appaiono come gli altri. Biolè, l’espulso cui viene contestato l’uso di 7500 euro, gioca allo scaricabarile: non è colpa mia, ha fatto tutto Bono.

«Purtroppo, su proposta del mio ex capogruppo», da marzo 2011 una quota dei rimborsi sarebbe stata pagata dal conto corrente per il funzionamento del gruppo, non più da quello in cui i grillini raccoglievano l’avanzo degli stipendi (avendo scelto di prendere solo 2500 euro al mese). Errore? Svista? Scelta? «Quando, alcuni mesi fa, analizzando gli estratti conto, ho individuato il totale di queste operazioni non corrette, ho restituito immediatamente la somma al conto corrente del gruppo», racconta Biolè. Bono non replica. Ma annuncia: «Da parte nostra non ci sono stati abusi. Però sono pronto a restituire ogni singola spesa che non possa ritenersi legittimamente rimborsata dal fondo».

Il guru dei cinque stelle Beppe Grillo ora se la prende con Giorgio Napolitano, scrive  “Libero Quotidiano”. Motivo? L'indagine della procura di Nocera Inferiore a carico di 22 persone, colpevoli secondo i magistrati di aver vilipeso il presidente della Repubblica con alcuni commenti sul blog del comico genovese. Nella situazione in cui si trova Beppe Grillo ha bisogno di sparare sempre più in alto. In calo costante nei sondaggi, diviso al suo interno come non mai per la questione della diaria, ridotto all'irrilevanza politica, la bolla mediatica del M5s si sta sciogliendo come neve al sole.

Così, oggi, le stilettate di grillo mirano al Colle più alto di Roma, ossia al Quirinale. Le sue sortite contro Pd, Pdl, giornali e giornalisti, ormai non bastano più a serrare le fila, quindi si scaglia direttamente contro Napolitano. Grillo rievoca il periodo fascista e scrive: "Il reato di vilipendio deriva dal Codice Rocco del periodo fascista. Nel ventennio si tutelava dal delitto di lesa maestà la figura del re e di Mussolini, dal dopoguerra i presidenti della Repubblica. Il reato di vilipendio non è qualcosa rimasto sulla carta, a monito. E' stato invocato innumerevoli volte, spesso dai partiti a scopi politici, e anche applicato". Poi spara ad alzo zero sul capo dello Stato: "Inoltre un cittadino, perché il presidente della Repubblica sarà il primo dei cittadini, ma sempre cittadino rimane, non può essere più uguale degli altri di fronte alla legge. Invito il Presidente della Repubblica a chiedere l'abolizione dell'articolo 278 sconosciuto nella maggior parte delle democrazie occidentali". Insomma, il guru dei cinque stelle proprio non riesce ad abituarsi alla democrazia. Non riesce a capacitarsi che le istituzioni vanno rispettate e fa finta di non conoscere la distinzione tra la persona che incarna l'istituzione e, appunto, l'istituzione stessa. E poichè la situazione gli sta sfuggendo di mano, con il sogno del M5s che si sta disintegrando, non gli resta che alzare i toni e gettare benzina sulla già infuocata situazione politica, economica e sociale. Quindi, dopo aver urlato al golpe, grida alla censura, alla mancanza di libertà d'espressione e d'opinione: "Chi può essere al sicuro di un'eventuale denuncia per una critica al Presidente della Repubblica? Allora, per difendersi, l'unico mezzo è non scrivere più nulla. Bocche cucite. Dita bloccate sulla tastiera. Commenti oscurati". Grillo sa che tutto ciò non corrisponde al vero, sa che nessuno userà la censura per zittirlo, quindi che fa? Si autocensura. Così conclude il suo post-delirio di oggi paventando un'imminente legge pronta a silenziare il web: "Questo post, per evitare denunce a chicchessia sarà, per la prima volta nella storia del blog, senza possibilità di commento. In futuro, magari, diventerà la regola per tutta la Rete in Italia". Una regola del genere non prenderà mai corpo in Italia. A Grillo serve però farlo credere: è l'unico modo che gli rimane per rimanere al centro della scena.

Filippo Facci vi racconta il flop di Beppe Grillo: eccolo servito in 16 mosse.

A due mesi dal voto la rivoluzione a cinque stelle si è impantanata in una palude di gaffe, figuracce, scelte poco chiare, quirinarie fallite, espulsioni e liti.

Primavera 2013, fioriscono i bilanci. A due mesi dalle elezioni politiche ecco un rendiconto della rivoluzione a Cinque Stelle.

1) Appena insediati, hanno eletto un presidente del Senato per sbaglio, aprendo processi interni dilanianti a una decina di inconsapevoli franchi tiratori: una riunione-rissa con urla e lacrime, un auto-denunciato, una scomunica dall’alto, uno scontro tra capigruppo e incidenti vari.

2) Dopo il «casino» e i «passi malfermi» (definizioni loro) hanno esordito due commissari per la comunicazione nominati in fretta e furia da Casaleggio - e incorsi subito in un paio di gaffe - ma questo non ha impedito che i parlamentari grillini si facessero nuovamente infinocchiare dai giornalisti in molteplici occasioni: i capigruppo Crimi e Lombardi finivano definitivamente macchiettizzati come è stranoto a tutti, e su questo non incediamo.

3) Nel tentativo di ovviare ai problemi, hanno inventato le conferenze stampa senza domande.

4) Vari parlamentari sono stati ripresi perché giravano per il transatlantico senza giacca e con bicchieri di Coca Cola, una deputata si è vantata di non aver stretto la mano a Rosy Bindi, un altro è stato fotografato ai tavoli del ristorante della Camera in allegra compagnia: in generale i grillini sono incorsi in grandi e piccole cantonate (lapsus, magre, figuracce) di cui è andata persa la contabilità. Un deputato è giunto a dire «Lei non mi può interrompere» al presidente di turno della Camera.

5) Rimane agli atti lo psicodramma del capogruppo Lombardi coi suoi 250 euro di scontrini andati persi, stesso personaggio che aveva dato del «nonno» a Napolitano.

6) La celebre diretta streaming delle consultazioni Pd-Cinque Stelle, con uscite tipo «sembra di essere a Ballarò» e «siamo noi le parti sociali», ha indubbiamente messo in imbarazzo e restituito un’immagine di arroganza.

7) Alla fine delle consultazioni è risultato, almeno secondo i sondaggi, che i grillini avevano fatto perdere un sacco di tempo a tutti: complici la testardaggine di Bersani e della stampa arrovellati nel tentar di comprendere se i «no» di Grillo fossero strategici o significassero «no» e basta.

8) Intanto Grillo contestava l’articolo 67 della Costituzione e la libertà di voto degli eletti, il tutto in implicita contestazione della democrazia «rappresentativa» a cui si predilige quella «diretta». Di passaggio si sosteneva che il Parlamento, anche senza un governo, potesse iniziare comunque a lavorare istituendo le commissioni che - altra vittoria - alla fine non sono state istituite, facendo fallire l’idea di un assemblearismo spinto a propulsione elettronica.

9) Si tralasciano i dettagli sulla mancanza di trasparenza: dalle nomine sempre decise da Grillo & Casaleggio, al fantasma di «hacker» durante le votazioni interne, alla decisione di non rendere noti i nomi dei finanziatori del Movimento: senza contare gli innumerevoli interventi e commenti rimossi o censurati dal blog di Grillo in tutto questo periodo.

10) La proclamata occupazione della Camera è finita piuttosto ingloriosamente, con discussioni persino sull’accresciuto consumo di energia elettrica. Stesso genere di polemica che ha riguardato la decisione di alcuni parlamentari grillini di viaggiare con treni ad alta velocità.

11) Le «quirinarie» sono state un altro grandissimo punto interrogativo. Esclusa la candidatura di Dario Fo (stessa età di Napolitano) e pure quella di Gino Strada, le votazioni si sono dovute rifare per colpa di hacker misteriosi di cui nessuno ha spiegato nulla, ma la vincente Milena Gabanelli alla fine ha detto di no. Eccoti allora Stefano Rodotà che, pure, aveva definito Grillo come «estremamente pericoloso» e «populista del terzo millennio»: è diventato il candidato «proposto dai cittadini italiani» in virtù di 4.667 voti telematici su 28mila totali, resi noti da Casaleggio dopo giorni di polemiche sempre in virtù della scarsa trasparenza. Il risultato della candidatura di Rodotà è stato bruciare Rodotà.

12) Eletto Napolitano, Grillo ha gridato al golpe, ha invitato a una marcia su Roma («dobbiamo essere milioni») e poi non c’è neppure andato, mentre una folla tuttavia provocava tafferugli e spintonamenti davanti alla Camera. Il giorno dopo, la marcia su Roma è diventata una conferenza stampa e poi un micro-corteo interrotto al Colosseo. Grillo ha chiarito che «golpe» era un modo di dire.

13) Un paio di giorni dopo, hanno espulso un senatore perché andava troppo in tv, tralasciando l’errore - bastava guardarlo - di averlo fatto eleggere.

14) Elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia: due mesi dopo, il 27 per cento delle politiche diventa il 20 (scarso) preso dal candidato grillino, che nel caso della lista diventa addirittura il 13; alle comunali di Udine il candidato sindaco grillino becca circa il 14.

15) Intanto Grillo continua col refrain («è finita», «a casa», «siete morti», «l’Italia fallirà in autunno») ma è andato a cantarlo in Germania.

16) Intanto i parlamentari litigano seriamente sul primo stipendio: chi lo vuole tutto, chi no. Padri di famiglia e single si accapigliano.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: stipendi e programma, Grillo ha già perso il controllo del M5S. Il Movimento è nel caos: dopo le critiche al fondatore e il dietrofront sulla tv, rinnega un altro dei suoi obiettivi simbolo, quello sui rimborsi. Grillini che vanno in tv, che intascano l’intero stipendio, che sfanculano il fondatore: la verità è che nessuno li tiene più. Non li tiene Grillo e figurarsi Casaleggio, che sta sulle palle a mezzo Movimento. Che poi: era previsto e prevedibile che una quota di grillini a un certo punto sbroccasse, perché il potere dà alla testa o alla sua mancanza, insomma era nel conto, c’è una fisiologia e un accomodamento che da sempre accompagnano i partiti che crescono in fretta. Ma qui siamo al rinnegamento dell’abc, all’eresia, al taglio delle radici. Siamo al movimento che snobbava dogmaticamente i giornalisti e che ora invece dice «andate pure in tv», come ha concesso Grillo l’altro ieri.

Siamo al Movimento che ha fatto fuoco e fiamme sull’Alta velocità e poi ha salutato dei senatori a Cinque Stelle che viaggiavano sul Frecciarossa. Il movimento che ha fatto intere campagne sulla bouvette della Camera e poi ha sorpreso qualche loro parlamentare che pranzava proprio lì. Sciocchezze, modeste scosse di assestamento: qualcuna forse sì, di tante cose neppure parliamo, ma i soldi no, i soldi non sono un dettaglio, e neanche la politica lo è. Grillo, proprio ieri, ha ribadito che lo «ius soli» (il principio per cui diventa italiano chiunque nasca in Italia) a lui non è mai piaciuto e continuerà non piacere: e l’ha riscritto su quel vangelo che è il suo blog. Lo ius soli è roba da sinistra in campagna elettorale - dice - e al limite ci vorrebbe un referendum, occorrerebbe parlarne in Europa. Ebbene: non è che un suo parlamentare, ieri, ha detto che dissente; Alessandro Di Battista, ieri, ha risposto «chissenefrega». «Il pensiero di Grillo non è la linea del Movimento Cinque Stelle... Ciò che scrive Grillo sul suo blog equivale a quello che può scrivere Scalfari su Repubblica. La linea Cinque Stelle va decisa dai cittadini con la democrazia diretta». Se anche fosse vero, sa di calcio nei denti: lo sanno anche i sassi che Grillo è il sovrano del suo partito e che al limite, come in tutte le monarchie, c’è un riccioluto vicerè che può farne le veci. Per quanto ridicolo, e per quanto non contempli lo ius soli, il Movimento ha un programma, e certo non l’ha scritto la democrazia diretta: l’hanno scritto i soliti due. Se fosse vero che ciascuno può opinare e sparare ciò che vuole, non avrebbero piazzato due «commissari» per la comunicazione. E comunque il paragone con Scalfari è uno sfregio, considerato che la sinistra non gli ha mai dato retta e che si è regolarmente schiantata quando l’ha fatto. Detto con rispetto: non è un paragone fantastico, quello con Scalfari. Ma è la questione dei soldi che grida vendetta, e che no, non era nel conto, non ora, non subito, non così: la «diversità» in tema di risparmio e morigeratezza è sempre stato un architrave della missione grillina, altroché, e però qui non si tratta di singole eccezioni, non è un senatore vanesio che s’è innamorato di Barbara D’Urso: frotte di parlamentari a Cinque Stelle si sono seriamente accapigliati sul primo stipendio. È successo e succede. C’è ancora chi lo vuole tutto e chi invece no, padri di famiglia contro single, gente che aveva un lavoro ben pagato contro miracolati che non avevano una lira. Poi è chiaro, c’è sempre il caso limite: il grillino siciliano Antonio Venturino è stato espulso perché non osserverà «la restituzione delle somme eccedenti i 2.500 euro più rimborsi spese». Ma, da quanto si è capito, per farsi espellere ormai c’è la fila: e non è gridando «chi si tiene i soldi è un pezzo di merda» che le cose a quanto pare stanno tornando a posto. Dopo un bel «fanculo ai soldi», che detto da lui è suonato un po’ così, Grillo nei giorni scorsi ha dovuto ammettere che «un piccolo gruppo di parlamentari non vuole restituire il rimanente delle spese non sostenute». Poi l’ha messa ancora più morbida: «Chi vuole restituirà la diaria, chi non vuole, no». Non proprio una rivoluzione, insomma. Per Enrico Letta, ieri, è stato uno scherzo metterlo a tappeto: «Io taglierò lo stipendio dei miei ministri, vedo che Grillo fatica a togliere la diaria ai suoi parlamentari». Il comico gli ha risposto ogni cosa e ha tuonato che il suo Movimento è «l’unica opposizione», dimenticando che il molisano che aveva adottato lo stesso slogan è finito fuori dal Parlamento. «Ci sono quattro pilastri guida nel movimento», ha detto Grillo secondo Il Fatto di ieri, «e cioè i soldi, il coordinamento della comunicazione, la circolazione delle informazioni e il rispetto dei capigruppo». Si stanno sgretolando tutti e quattro.

V-DAY PER TUTTI.

Il V-Day di Belle Grillo è diventato argomento di discussione nazionale. A tale proposito, riceviamo e pubblichiamo un'opinione di Antonio Giangrande. Combattendo le mafie e le illegalità, con la cognizione di causa acquisita e con le ritorsioni subite, posso affermare: "il sistema Italia" è marcio in tutte le sue componenti sociali ed istituzionali, nessuna esclusa. Alle denunce penali presentate da giurista è conseguito ingiustamente il reato di calunnia e sempre l'insabbiamento giudiziario. Agli articoli di denuncia redatti da pubblicista è conseguito il reato di diffamazione e di violazione della privacy dei delinquenti. Agli articoli di denuncia redatti da giornalista è conseguito il reato di violazione del segreto istruttorio, quando la notizia non era passata sottobanco dall'ambiente giudiziario. Agli studi sociologici pubblicati da ricercatore è conseguito l'illecito civile del mancato compenso a titolo di diritto d'autore degli articoli di stampa citati. Nonostante tutti gli impedimenti citati, da mie e altre coraggiose inchieste giornalistiche e non giudiziarie, si è provato che i nostri parlamentari sono: pregiudicati, drogati, evasori fiscali, ignoranti, falsi, voltagabbana, vecchi, insabbiatori e puttanieri. Tenendo conto che il Parlamento è lo specchio della società civile italiana e che gli italiani hanno i rappresentanti che si meritano, a questo punto non farei una rivoluzione, che nessuno vuole, nemmeno la massa che prima ti applaude e poi ti lascia solo. A me basterebbe avere in Parlamento non solo tutori di lobby, caste e furbi, ma qualcuno che rappresentasse, veramente e non solo a parole, gli interessi e le aspettative dei disabili, dei disoccupati, dei carcerati e delle vittime del crimine. A me basterebbe che i partiti non fossero proprietà occulta o palese di qualcuno, ma veri strumenti di emancipazione sociale ed economica con perenne ricambio generazionale di competenze. Quindi, il "V. Day", va dedicato a tutti o a nessuno.

LESA MAESTA’ PER I GIUSTIZIALISTI

Ed ecco che l’icona Grillo diventa un simbolo da dileggiare. “La magistratura fa paura”. Beppe Grillo lo ha detto il 15 febbraio 2013, per poi dichiarare di avere sulle spalle 86 processi, scrive il Fatto Quotidiano. Un “record” se confrontato con Silvio Berlusconi, che ne ha 22. La replica di Berlusconi non è mancata, scrive il Fatto Quotidiano: “Non dica sciocchezze, ho 2700 udienze sulle spalle. Nessuno più di me”. Una sfida singolare, se di sfida si può parlare, che accomuna i leader del Pdl e del Movimento 5 Stelle. Entrambi attaccano la magistratura, pur essendo “agli opposti”, come sottolinea Antonello Caporale sul quotidiano. Il Fatto Quotidiano scrive: Doveva capitare che Berlusconi e Grillo iniziassero a competere nella speciale classifica dei "perseguitati" dalla giustizia proprio durante la tramortente settimana delle mazzette, sequel che incrocia e riassume i destini della classe politica e di quella imprenditoriale in un mesto epilogo criminale. Merito di Grillo, questa volta, che da Ivrea si abbandona ad enumerare i processi pendenti sul suo capo: "Sono ottanta e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 meno di me". Il Cavaliere, sensibilissimo al tema, è scattato: "Non dica sciocchezze, ho 2700 udienze sulle spalle. Nessuno più di me". Ecco fatto: primo e secondo. Grillo ieri ha aggiunto: "La magistratura fa paura". Stessa frase che a scadenza regolare l'ex premier non ha mai mancato di pronunciare. Certo i due sono agli opposti e magari la prosa grillina, così densa di approssimazioni, era diretta a contestare questo modello di Stato, implacabile con i deboli ma distratto con i forti. Magari il comico spesso tramortisce anche oltre la propria volontà. Gli accade in ogni comizio, per via di un utilizzo smodato dell'iperbole. Grillo pratica la disinibizione verbale al punto di mettersi fuori anche dalla logica delle cose. Attacca la magistratura allo stesso modo di coloro che dice di combattere. È solo una coincidenza, ma c'è e da sola basta a far presagire un futuro pericoloso corto circuito. Perché in questo cattivo tempo si sovrappongono, in un format oramai indistinguibile, volti di finanzieri arrembanti e capitani d'industria, politici di lungo corso e cravattari di periferia, banchieri collaudati e servi di Cristo. Milano, Siena, Roma, Bari: un tour delle manette segna i giorni che ci separano dalle urne. Questo enorme e diffuso deficit di legalità si somma però a una drammatica crisi economica e si espone a una ferocia di massa finora sconosciuta. La recessione ha condotto migliaia di cittadini a trovare insopportabile quel che fino ad oggi si sono rifiutati di considerare come tale. È quella stessa società immortalata negli anni del berlusconismo che si ribella. Oggi è rivolta. "Il Nord est non esiste più" dice Luca Zaia, presidente leghista del Veneto. Significa che lo smottamento di un intero popolo è in atto e si dirige prevalentemente verso il voto a Beppe Grillo, colui che più chiaramente coniuga alterità al potere, determinazione nella protesta e capacità pervasiva della rivolta sociale. Il ciak dalle piazze è già impressionante: a est come ad ovest è tutto un fuggi fuggi. Corrono da quale disgrazia? E soprattutto verso quale approdo? Sembra pacifico: fuggono via da uno Stato esattore e corrotto, sentono il peso dello spreco e dell'ingiustizia sociale come una bomba ambientale che mina la loro vita e quella delle proprie famiglie. Contestano l'immoralità della classe politica. È il peso dell'illegalità a condurli verso Grillo. Invece ieri il leader del Movimento 5 Stelle riposiziona il suo popolo e lo mette in marcia contro i palazzi di Giustizia. Dopo il voto cambieranno volti e biografie di decine e decine di parlamentari. Palazzo Madama e Montecitorio saranno abitati da inquilini che non avranno esperienze politiche. Sarà cospicuo il numero degli esordienti che gli studiosi di flussi elettorali illustrano come trasversali e mobili nella loro dislocazione ideale. Chi viene da sinistra, chi da destra. Chi è imprenditore e chi studente. Molte donne, molti giovani, molti laureati, secondo le analisi sulle candidature selezionate. L'ingresso di tanti cittadini senza potere nel palazzo del Potere promuove un cambio d'aria benefico per la democrazia, perchè trova persone libere e non già soggiogate dagli apparati e dalle gerarchie. Serviranno però idee da coniugare alla libertà e soprattutto servirà che il leader non eletto (Grillo ha scelto di non candidarsi) abbia chiaro che il suo potere già ora è tale da avergli cambiato i connotati sociali: da uomo comune, benché famoso, a potente. E ieri, magari sovrappensiero, ha appunto fatto un discorso tipico della famiglia allargata dei potenti: guarda che ci sono anch'io, e non permetterti di toccarmi...

All’attacco di Grillo va anche il partito dei giudici. "Sono stupito dalle dichiarazioni di Beppe Grillo che in un momento come questo dice, esattamente come Berlusconi, di avere paura della magistratura. Ma della magistratura non hanno certamente paura i cittadini onesti e perciò noi di Rivoluzione civile stiamo dalla parte degli onesti e della magistratura che li tutela e noi, al contrario di Grillo e Berlusconi, abbiamo le ricette per far pagare finalmente il conto alla casta dei corrotti e degli impuniti". Così Antonio Ingroia, in un post pubblicato sul sito di Rivoluzione Civile, in merito alle dichiarazioni di ieri di Beppe Grillo a Ivrea. "Certo è - prosegue - che la magistratura non dovrebbe spaventare chi non ha nulla da nascondere, ma Beppe Grillo sbraita di trasparenza e alla resa dei conti reagisce come tutti, scrivendo 'Visco infame' nel suo blog quando nel 2008 il ministro propone la pubblicazione on line, provincia per provincia, di tutti i redditi. Per una vera trasparenza fiscale. Come mai?" E poi un attacco alla formazione guidata dal comico genovese. "Il Movimento 5 stelle - scrive Ingroia - è un movimento 'senza'. Senza competenze, senza programma, senza proposte, senza misure contro la corruzione e l'evasione fiscale e senza un leader che abbia il coraggio di candidarsi alle elezioni. Rivoluzione civile invece, è l'unico movimento con i cittadini, con gli onesti, con la magistratura, con il coraggio delle proprie idee e con proposte concrete e definitive che porteremo in Parlamento per abbattere la Casta".

Certo è che per essere onesto e buono devi conformarti al pensiero dei giustizialisti (comunisti), altrimenti diventi come i berlusconiani: brutto, cattivo e disonesto.

GRILLO, L’ARCANGELO DELLA LEGALITA’ TRA CONDANNE E CONDONI.

BEPPE GRILLO.

MARCO CHIOCCI: TRA “VAFFA” E CONDANNE, CAMERE TABU’ PER GRILLO.

 «Vecchia putt...». C’era andato un tantino pesante Beppe Grillo, nel 2001, nell’apostrofare Rita Levi Montalcini durante uno spettacolo a Fossano, nell’hinterland cuneese. Non contento insinuò anche che la scienziata torinese avesse ottenuto il Nobel grazie a una ditta farmaceutica amica che materialmente le aveva comprato il premio. L’azienda tirata in ballo dal comico genovese era la Fida, della quale la Levi Montalcini era stata testimonial per il lancio di un prodotto farmaceutico (il Croniassial) dagli effetti neurotossici.

Era una sera di luglio del 2001 quando, di fronte a migliaia di spettatori, dalla piazza della città degli Acaja, Grillo scandì quelle parole, ritenute «gravemente offensive» dalla senatrice a vita che di lì a poco ordinò ai suoi avvocati di sporgere querela per diffamazione aggravata. Ne scaturì un processo dai risvolti imbarazzanti che si concluse anzitempo poiché Grillo, nell’udienza del marzo 2003 al tribunale di Cuneo, preferì non rischiare una condanna e patteggiò davanti al giudice Luca Solerio, la multa di 4mila euro. Grillo pagò ma poi fece ricorso in Cassazione per quanto concerne la liquidazione e le spese legali che il pubblico ministero di Cuneo - Guido Bissoni - aveva fissato in seimila e 100 euro. Le spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di primo grado, da porre a carico dell’imputato Grillo, furono quindi calcolate «in complessivi 4mila e 400 euro più Iva». Dare della «vecchia putt..» alla Levi Moltalcini è costato al Masaniello ligure oltre 8mila e 400 euro. I legali della senatrice preannunciarono anche la richiesta, davanti al tribunale civile, di 500 mila euro quale risarcimento dei danni subiti.

Andrà a sentenza solo nel 2010, invece, la causa civile intentata dall’ex sindaco di Asti, Giorgio Galvagno. Il primo cittadino se la prese con Grillo perché, durante un’altra serata, lo tacciò di essere un tangentista. Era il 2004, il luogo del misfatto, il Teatro Alfieri. Galvagno era in sala, provò a replicare in diretta, chiese di salire sul palco, ma Grillo preferì proseguire oltre senza soddisfare la richiesta. Così, al pari della Montalcini, l’ex sindaco ordinò ai suoi avvocati di trascinare Grillo in tribunale chiedendo 500mila euro di risarcimento. Col tempo si arrivò, da parte di Galvagno, a un tentativo di transazione: «Non voglio niente per me, chiedo che almeno l’incasso della serata sia devoluto in beneficenza». Grillo si oppose sostenendo di non aver mai detto una cosa simile. A smentirlo, secondo Galvagno, centinaia di testimoni.

Il tribunale di Cuneo ha processato Grillo anche per un episodio che certamente gli ha segnato la vita. Era il 1981 quando su un tratto sterrato di montagna a Limone, il suo Chevrolet scuro, finì in un burrone. Lui riuscì a salvarsi gettandosi fuori dall’auto mentre tre dei quattro amici che viaggiavano con lui (tra cui un bambino di 9 anni) morirono sul colpo. In primo grado Grillo venne assolto con formula dubitativa, ossia per mancanza di prove. Il 13 marzo 1985 la sentenza venne ribaltata in appello e il comico fu condannato a un anno e 4 mesi per omicidio colposo plurimo, il risarcimento del danno e sospensione della patente.

Nelle motivazioni della condanna i giudici dissero che era «dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, che l’imputato risalendo la strada da valle, poteva percepire tempestivamente la presenza del manto di ghiaccio (...). L’esistenza del pericolo era evidente e percepibile da parecchi metri, almeno quattro o cinque, e così non è sostenibile che l’imputato non potesse evitare di finirci sopra». Se, dunque, Grillo «disponeva di tutto lo spazio necessario per arrestarsi senza difficoltà» e non lo ha fatto, ciò significa «che ha deciso consapevolmente di affrontare il pericolo e di compiere il tentativo di superare il manto ghiacciato (...). Farlo con quel veicolo costituisce una macroscopica imprudenza che non costituisce oggetto di discussione». L’8 aprile 1988 la Cassazione rese definitiva questa condanna che - seguendo il ragionamento antipolitico ribadito dal comico prima e dopo il V-day - in teoria precluderebbe allo stesso Grillo la sua discesa in campo e la sua eventuale ascesa in Parlamento.

Grillo, l'arcangelo della legalità tra condanne e condoni fiscali, raccontato da Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Vive all’opposto di come predica e pensa il contrario di ciò che dice. Da ragazzo voleva giocare nella Sampdoria, incontra Baudo poi la Rai lo caccia. E si ricicla imbonitore politico. Ora che Beppe Grillo è un leader, abbiamo un altro spiantato che ha trovato rifugio nella politica, oltre a Di Pietro e De Magistris. Poiché vive all’opposto di come predica e pensa il contrario di ciò che dice, Grillo è continuamente costretto ad arrampicarsi sugli specchi e a spararle grosse. Poco male se fosse rimasto quel che era: un comico di cabaret. Ma poiché si proclama coscienza critica e arcangelo della legalità, è il caso di esaminare l’uomo quale si è manifestato nelle sue 64 primavere. Giuseppe Piero Grillo è cresciuto nel quartiere genovese di San Fruttuoso. Il padre, Enrico, aveva un’aziendina di fiamme ossidriche, la «Cannelli Grillo». Ma poiché né il Giuse (suo vero diminutivo, Beppe è un nome d’arte), né il fratello ne seguirono le orme, l’officina fu ceduta ai dipendenti. Giuse, che era ragioniere, piantò economia e commercio dopo due anni e si mise in proprio. Provò a vendere jeans ma restò in braghe di tela e fu a lungo un bighellone. Stazionava al bar e tifava Sampdoria. Da ragazzino voleva diventare calciatore, ma - come raccontò il dirigente di un club - «era una balena e lo chiamavano Porcellino anche se aveva un buon tocco di palla». In squadra - ha scoperto Filippo Facci - giocavano altri due genovesi poi diversamente famosi: Antonio Ricci, l’inventore di Striscia la notizia, e il killer Donato Bilancia (diciassette omicidi, tredici ergastoli). Bilancia pareva così inoffensivo da meritarsi l’appellativo di «belinetta», diminutivo di belin, parola variamente usata a Genova: «Sei un belin!». Giuse intanto suonava la chitarra, aveva la battuta pronta e tirava tardi. Cominciò a fare del cabaret nelle balere con tiepido successo. Nei primi anni Settanta traslocò a Milano in cerca di miglior fortuna. Inalberò l’attuale barbone (pare per risparmiare sulle lamette) e approdò a «La Bullona», night in. Una sera entrò Pippo Baudo con una troupe Rai che cercava talenti da lanciare. Fu la svolta. Grillo piacque, ma altrettanto un suo amico cabarettista. Poiché l’attenzione di Baudo sul rivale si prolungava, Beppe ebbe una crisi di invidia e si dileguò. Più egocentrico della monaca di Monza, Grillo è soggetto a capricci da primadonna. Il regista Dino Risi, che lo diresse in Scemo di guerra (1984), ha raccontato: «Beppe si ingelosì del rapporto speciale che avevo con Michel Coluche. Così, per ripicca, si diede malato. Per due mesi dovemmo sospendere le riprese. Finché gli fu fatta balenare la minaccia di una penale: da buon genovese si ripresentò sul set». Anni dopo, quando già Grillo era come oggi, Risi aggiunse: «La cosa che gli è riuscita meglio è l’antipolitica. Ma è più attore adesso che non al tempo in cui girava il film. Grillo non crede affatto in ciò che scrive quotidianamente nel blog». Sotto l’ala di Baudo, divenne famoso in tv. Poi incappò nell’incidente. Il 15 novembre 1986, mentre presentava Fantastico 7, mise alla berlina Bettino Craxi, allora premier. Bettino era reduce da un mandarinesco viaggio in Cina con la sua corte e vagonate di champagne. Grillo fece lo spiritoso in diretta: «La cena in Cina... i socialisti... mangiavano... A un certo punto Martelli ha chiamato Craxi e ha detto: «Senti un po’, qua ce n’è un miliardo e sono tutti socialisti?». E Craxi ha detto: «Sì, perché?». «Se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Così, fu cacciato dalla Rai e nacque l’imbonitore politico che conosciamo. Niente lo autorizzerebbe a impancarsi, poiché le sue notevoli magagne prevalgono sulle sue scarne virtù. È tirchio, avido, bugiardo e pregiudicato, anche se fa continui gargarismi con la parola legalità. Tutti sanno dell’incidente che causò alla vigilia di Natale 1981, correndo con un fuoristrada su una mulattiera ghiacciata delle Marittime. Tre morti: una coppia di amici e il figlioletto di nove anni. Nei tre gradi di giudizio cercò sempre di sminuire le sue responsabilità. Ebbe un anno e 4 mesi per «macroscopica imprudenza». Chiunque sarebbe rimasto annichilito, evitando per l’eternità di fare le bucce agli altri. Grillo invece, come si sveglia, insulta. Ha trattato da «vecchia puttana» Rita Levi Montalcini; ha dato del «coglione» a Maurizio Lupi; ha minacciato di prendere «a calci in culo» Franco Battaglia, nostro illustre collaboratore, reo di essere nuclearista e denunciare gli inganni ecologisti. Già, l’ecologia. Grillo se ne riempie la bocca ed è al centro del suo M5S. Ma gratta gratta, trovi il saccheggiatore. Il comico, che abita una satrapica villa a Sant’Ilario, vista Tigullio, ha sempre detto di usare poca energia e quel po’ solare. Su queste basi, attaccò l’Enel e l’allora presidente, Chicco Testa, un verde convertito al nucleare. Testa reagì in un’intervista: «Grillo non mi piace. Il suo blog è un concentrato di leggende metropolitane e populismo». Alludeva alle bufale ecologiste che Beppe spaccia ogni giorno via internet. Una volta scrisse che le onde di una coppia di cellulari avevano fatto cuocere delle uova. Un’altra, prendendosela con i detersivi, reclamizzò il biowashball, pallina di ceramica in grado di fare il bucato in lavatrice senza detergenti. Giurò che l’aveva sperimentata con successo. Ma era una bubbola dell’accidente. La biopalla, infatti, non è mai esistita perché era l’invenzione di un articolo satirico inglese per ridicolizzare le fisime ambientaliste. Grillo o ha abboccato da pirla o ha ingannato con dolo i seguaci del blog. Aggiungeva Chicco Testa di avere ordinato una verifica dei consumi di Grillo nel villone. «Diceva che a casa sua con il solare - raccontò Testa, citando la relazione tecnica - produceva tanta energia da vendere quella in eccesso. Venne fuori invece che da solo consumava come un paesino». La sua presunta autonomia energetica si riduceva a un paio di pannelli capaci di fornire al massimo due kilowatt, buoni per l’asciugacapelli. Il tenore di Beppe fa a pugni con lo sviluppo sostenibile di cui si proclama seguace. Ha avuto Ferrari, Porsche, Chevrolet, Maserati, yacht. Ha immobili a Genova, in Sardegna, Torino, Valle d’Aosta, una villa da milord in Toscana. È ricorso due volte al condono edilizio (1997 e 2002) e una a quello fiscale (2003). Ma, a ogni varo di condono, ha condannato con indignati proclami una «pratica che premia i disonesti». Col denaro Beppe non scherza. Ne sa qualcosa la seconda moglie, Parvin Tadjk, che dopo la spesa subiva dal marito controlli di tipo doganale sugli scontrini, al limite della perquisizione corporale. Antonio Ricci ha raccontato che dopo un pranzo «io sparecchiavo, e se buttavo delle briciole, Beppe le recuperava dalla spazzatura e ci impanava la milanese». Da quando ha aperto il blog, cuore del M5S, i suoi redditi sono balzati da 2.133.720 a 4.272.591 euro annui. Attira allocchi a migliaia e lucra con gadget, video, opuscoli ideologici sul «Vaffa Day» (pagamento cash e in dollari), in un sapiente intreccio tra ideali e pecunia. Grillo è ragioniere e i conti li sa fare bene.

Ecco alcune domande a cui Grillo non ha risposto e che Travaglio non ha fatto poste da Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dopo l'intervista a Grillo, Travaglio bacchetta chi ha osato criticarlo: "Dicono che le domande erano sbagliate, senza però suggerirci quelle giuste". Eccone alcune. In ginocchio o a schiena dritta? Questione di punti di vista. Per alcuni è stata un'intervista "zerbino", per altri un vessillo giornalistico da sfoggiare. Beppe Grillo concede due paginate di colloquio (così lo ha definito il vicedirettore del Fatto) a Marco Travaglio. E più che il contenuto delle affermazioni del leader del Movimento 5 stelle, stupisce la repentina metamorfosi di Travaglio: da fustigatore di ogni tipo di servilismo a interlocutore docile e mansueto. Tutta un'altra cosa rispetto a quello a cui ci ha abituato. Persino ai lettori del Fatto e ai grillini il colloquio non è andato giù. Sarà mica la prova che il giornale di Padellaro ha sposato le tesi del nonpiùcomico? Illazioni. E per assicurarlo è scesa in campo, prima, l'ad del quotidiano Cinzia Monteverdi (che tuttavia ha ammesso che forse avrebbe fatto qualche domanda in più a Grillo) e poi il diretto interessato (non prima di aver rivelato di aver votato due volte il Movimento 5 Stelle). Travaglio nel suo editoriale al vetriolo di ieri (eccolo rivestire finalmente i panni dell'implacabile accusatore) se l'è presa con i "migliori servi di regime" che impartiscono "lezioni di giornalismo" spiegando che le "domande erano sbagliate, senza però suggerirci quelle giuste". Eccole qui, ti aiutiamo noi. Ma non noi del Giornale, ché poi ci dici che siamo i soliti lacché. Basta che ti fai un giro in rete e cerchi "le domande che Travaglio non ha fatto a Grillo". Noi le raccogliamo e le giriamo al leader del M5S. Nella speranza che qualcuno le faccia e magari Grillo le raccolga. Non si sa mai...

1. I sondaggi vi indicano come seconda forza del Paese. Alle elezioni politiche, chi sarà il vostro candidato premier e con quali logiche verrà scelto?

2. Gianroberto Casaleggio, in una lettera al Corriere della Sera, si è definito il cofondatore del Movimento 5 Stelle, di cui ha scritto le regole, e ha ammesso di dare ai candidati consigli sulla comunicazione elettorale. Qual è il suo vero ruolo all'interno del Movimento?

3. E’ vero che Pizzarotti, neosindaco di Parma, ha telefonato a Casaleggio per chiedere il nulla osta sulla nomina di Tavolazzi (epurato da Grillo) a direttore generale?

4. Lei parla di trasparenza, ma poi (come lamentano alcuni militanti) le riunioni per decidere linee e strategie del M5S vengono fatte a porte chiuse e in forma privata. Non è un controsenso?

5. Lei collega internet alla democrazia diretta, ma poi i suoi interventi sul blog sono unidirezionali e sul web non risponde mai a nessuno, se non per emanare quelli che sembrano veri e propri editti (come quello di non andare in tv o come la minaccia di revocare l’utilizzo del simbolo del M5S). Un altro controsenso?

6. Lei parla di demolizione dei partiti e invoca un processo alla Norimberga. Ma perché nel luglio del 2009 ha annunciato la sua candidatura alla primarie del Partito Democratico?

7. Pensa ancora che lo ius soli (il diritto alla cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri) sia una questione priva di senso?

8. Nel Non Statuto sul tema del lavoro c'è solo il punto che prevede l'abolizione della legge Biagi. Avete altre ricette per contrastare la disoccupazione?

9. Facevi gli spot per le multinazionali e ora le critichi, come mai?

10. Credi ancora che l'Aids sia una bufala?

11. Perché nel 2000 spaccavi pc durante i tuoi spettacoli e ora veneri la tecnologia?

12. Il M5S è contrario alle coppie di fatto? 

IL PARTITO DEI MAGISTRATI.

A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura. (ammonimento ai giovani socialisti attribuito a Pietro Nenni da Ugo Intini). Un detto da applicare ai manettari di turno genuflessi a quel potere giudiziario in mano ai potentati occulti.

Il progetto di Grillo: uno Stato dei pm con Ingroia premier.

Dopo aver candidato Di Pietro al Colle, il magistrato entra nei piani del M5S. E lui non smentisce: "Ci saranno sempre cose da fare per me". Così le toghe vanno al potere, scrive Emanuela Fontana su “Il giornale”.  Quando si dice le coincidenze. Antonio Ingroia si è trovato nello stesso giorno possibile candidato della coalizione del Movimento 5 stelle (con Di Pietro e la Fiom Cgil), secondo una ricostruzione del quotidiano Il Messaggero, e protagonista di un dibattito all'università di Pavia che avrebbe dovuto essere il suo addio all'Italia prima della trasferta di un anno in Guatemala, l'ultimo intervento pubblico sul suolo patrio. Chi pensava che il magistrato antimafia, sempre più appassionato alla vita politica, fosse già volato dall'altra parte dell'Oceano per l'incarico dell'Onu è rimasto deluso. I suoi sostenitori, invece, hanno seguito la diretta video dall'università, con la suspance dell'indiscrezione che lo vorrebbe candidato premier. Tra previsioni funeste per il futuro immediato («La seconda Repubblica è al tramonto, è peggio della prima. Le mafie faranno di tutto per trovare referenti stabili») e le rivendicazioni del lavoro svolto nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, Ingroia non ha smentito niente. Solo alla fine, a domanda ha risposto. Si candida? Sorriso: «Sono scenari giornalistici, ci si esercita su tante cose, non mi sembra che sia realistico. A me non ha proposto niente nessuno. Anch'io leggendo ho detto: mah». Su Twitter intanto imperversava l'ironia: adesso entreremo nello «Stato dei pm», era una delle battute, in riferimento all'ipotesi assurda di avere due magistrati alla presidenza della Repubblica e a Palazzo Chigi, dopo che proprio Beppe Grillo ha lanciato Di Pietro per il Quirinale. Il procuratore aggiunto di Palermo dice che è concentrato sul Guatemala, dove andrà «per capire meglio le mafie, che sono sempre più network internazionali», ma «se non dovessi appassionarmi all'America Centrale tornerò in Italia, dove ci sarà sempre qualcosa da fare per me». Il biglietto di ritorno si può staccare in quattro e quattr'otto, insomma. Poco prima, aveva sottolineato come il momento attuale ricorda «molto quello che è avvenuto nel '92. La mafia si stia muovendo dietro le quinte per nuovi patti politici mafiosi di lunga durata». La «crisi d'identità dei partiti ricorda molto il viale del tramonto della prima Repubblica». C'è quindi bisogno di «una politica diversa. Abbiamo bisogno di cittadini che si appassionino alla politica in prima persona». E in effetti queste sono proprio le idee di Grillo, sul cui blog, del resto, Ingroia era già intervenuto la scorsa estate con un videomessaggio, che aveva trovato anche parecchi apprezzamenti dei grillini. Qualcuno, già allora, gli aveva proposto online di farsi avanti. La sua candidatura sarebbe un affronto esplicito al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che già sorveglia con apprensione la cavalcata di Grillo. Ingroia o non Ingroia, il problema della leadership comunque per il Movimento 5 stelle esiste. Il comico non si può candidare perché, paradosso, non ha i requisiti previsti dal non-statuto del Movimento. Ha subito infatti una condanna della Cassazione a quattordici mesi per omicidio colposo negli anni Ottanta. Formalmente non potrà essere quindi lui l'aspirante premier. Ha bisogno di un volto, di un nome credibile, che faccia volare il Movimento verso la campagna elettorale. Di Pietro è improponibile per il Movimento e infatti Grillo lo pensa al Quirinale. Le pedine da giocare rimangono poche. Per azzardo Roberto Saviano sarebbe il candidato perfetto, ma magari non piacerebbe al Fatto Quotidiano, che nell'ottica della coalizione sarebbe il quotidiano di riferimento (già lo è per l'Italia dei valori e Ingroia). Oppure si potrebbe pescare dalla Fiom Cgil, che paga però l'assenza di visibilità a livello mediatico. Il segretario generale Maurizio Landini era intervenuto, come Ingroia, sul blog di Grillo, ma in Italia, con tutto il rispetto, non lo conosce quasi nessuno. L'asse Grillo-Di Pietro è intanto confermato da un fedele di Tonino, il senatore Luigi Li Gotti: «Penso che il Movimento 5 stelle vuole fare politica. Questa opzione è la base principale utile per il futuro del Paese. Con questa gente noi parliamo». L'Idv, comunque, non sta morendo. Nascerà un partito nuovo: «È morto un certo modo di intendere il partito, serve un reclutamento diverso e l'allacciamento alla società civile. Ci apprestiamo a fare un partito nuovo con regole diverse», annuncia Li Gotti.

Vi svelo le manovre della lobby di Casaleggio.

Grillo, Di Pietro, Travaglio e De Magistris: ecco tutti i volti della cerchia. L'sms di Giggino a Travaglio: "Vulpio contro Santoro, io mi dissocio", scrive Carlo Vulpio su “Il Giornale”.

Caro direttore, era il 5 maggio 2009 e io - candidato indipendente con l'IdV al Parlamento europeo - rilasciai al Giornale un'intervista in cui affermavo letteralmente che l'Idv era un partito pieno di banditi, che andavano cacciati a pedate. Nota bene: lo dicevo il 5 maggio, cioè «prima» del voto (6 e 7 giugno), consapevole di farmi molti nemici non soltanto all'interno del partito con cui mi ero candidato, ma anche in tutta l'area (stampa, magistratura, associazioni) a esso «collaterale», in alcuni casi in buona fede, in molti altri no. Il giorno della pubblicazione di quella intervista, ecco, puntuale, la telefonata. Non di Di Pietro, ma di Grillo. Di Pietro mi chiamò, lamentandosi della «inopportunità» delle mie parole, ma lo fece subito dopo il comico genovese. Grillo mi disse che non avrei dovuto parlare di quegli argomenti, men che meno con il Giornale.

Ovviamente, come sa chi mi conosce un po', né Grillo né Di Pietro mi impressionarono più di tanto. Anzi, diciamo che non mi fu difficile zittirli, portando esempi concreti di «banditismo dei Valori» che i due conoscevano benissimo e che dimostravano quanto fosse fondata la mia denuncia del doppiopesismo e dell'ipocrisia sui quali essi lucravano moralmente, politicamente ed elettoralmente. Non ce n'era bisogno - poiché la mia stroncatura elettorale era stata decisa fin dall'inizio dalla premiata ditta Casaleggio (che gestiva contemporaneamente forma e contenuti del blog di Grillo, di Di Pietro e dell'Idv) - ma così facendo firmai la mia condanna. Non solo non fui eletto per un paio di centinaia di voti, ma al momento delle «opzioni» il duo Alfano Sonia-De Magistris Luigi, obbedendo al diktat del padrone, scelse in maniera tale da tenermi fuori, così da far scattare il candidato sardo Uggias (sì, uno dei Batman dell'Idv, oggi indagato per peculato), noto anche per essere il difensore del fotografo Zappadu (quello delle foto rubate degli ospiti di Berlusconi a Villa Certosa). Questo non è un racconto «vendicativo» di una persona «tradita». Avrebbe potuto esserlo, se avessi detto queste cose solo oggi. Invece le ho dette «prima», addirittura durante la campagna elettorale (nessun «matto» ha fatto una cosa del genere dalle elezioni del 1948 a oggi) e non una volta soltanto. Il 7 maggio 2009, per esempio, a Ferrara mi capitò una cosa simile e ancor più singolare. Parlavo di libertà di stampa e con me c'erano De Magistris e Nanni (sì, l'altro Batman dell'Idv dell'Emilia Romagna, anch'egli indagato per peculato). Mi permisi di criticare Santoro e le finte battaglie dei «paladini» della libera informazione. Nanni si agitava sulla seggiola, De Magistris addirittura insorse. Io lo mandai al diavolo. Lui si giustificò così: «È che poi Di Pietro, Grillo e Travaglio chiamano me e rompono le palle a me per le cose che dici tu!». Incredibile, De Magistris mi stava dicendo che lo avevano messo a fare il mio cane da guardia. Due giorni dopo, a Pescara, incontrai Travaglio e gliene chiesi conto. Messo alle strette, Travaglio mi mostrò un sms sul suo cellulare: era De Magistris che lo avvertiva: «Vulpio sta attaccando Santoro, ma io mi sono dissociato». Potrei continuare. Su Vendola, per esempio, del quale Grillo, Di Pietro e De Magistris sono diventati alleati nonostante ne conoscessero le imprese di malgoverno. Ma credo che possa bastare, per ora. Altrimenti il Giano bifronte Grillo/Casaleggio potrebbe rilanciare: Di Pietro non più al Quirinale, ma direttamente al vertice dell'Onu.

GOGNA E MANETTE. I 5 STELLE: IL PARTITO DELLE TOGHE. PRIMA DEI PM E POI DI TUTTI GLI ALTRI MAGISTRATI.

I 5 stelle e il partito dei giudici, scrive Jacopo Iacoboni il 10/04/2017 su “La Stampa”. Ci sono un paio di fotografie - opposte - che vanno isolate dalla convention di Ivrea in ricordo di Gianroberto Casaleggio. La prima è l’istante in cui è salito sul palco Sebastiano Ardita, il procuratore aggiunto a Messina, autore di inchieste importanti, spesso concluse con condanne, non con dei nulla di fatto, come altri pm. Pochi hanno notato che Beppe Grillo è arrivato esattamente in quel momento, per sentire proprio quell’intervento. La seconda fotografia è Antonio Di Pietro che diceva in giro «sono qui perché tanti anni fa ho collaborato con Gianroberto Casaleggio», e si è fermato a lungo a parlare con Luca Eleuteri, esecutore di Gianroberto a cui fu demandata - in Casaleggio - la pratica Italia dei Valori. Due vecchi amici, ma nulla più. Ecco: la seconda foto è l’immagine, ormai sbiadita, della Casaleggio che progetta il «partito dei giudici», che fu poi incarnato dall’allora pm più famoso d’Italia. La prima invece è l’immagine della Casaleggio che sta maturando una svolta nel rapporto tra Movimento e giustizia: non più il «partito dei giudici», ma un «partito nei giudici». L’espressione è di una fonte che conosce esattamente le cose di cui si è parlato in alcune chiacchierate riservate a Ivrea. Attorno a un tema centrale: che posizione dovrà assumere il Movimento sulla giustizia, e sui giudici? È noto che il sogno M5S sarebbe poter presentare il nome di Piercamillo Davigo (in caso di vittoria elettorale) come il preferito in una ipotetica rosa da sottoporre al Quirinale. Ma chi lo conosce sostiene: «Non accetterà, quasi al cento per cento». A parte quel quasi, qual è allora l’opzione subordinata dei grillini? Il partito di Davide Casaleggio potrebbe assumere, a breve, una posizione molto forte sul tema: separazione - drastica, assoluta - tra magistratura e carriere in politica. Guarda caso, è la linea che sta cercando di imporre - nella corsa lunga per il Csm - la corrente «Autonomia e Indipendenza», dove tra l’altro militano Davigo e Ardita. Questa presa di posizione sarebbe in forte contrasto con un altro partito trasversale, in magistratura, più disposto agli scambi con la politica (in doppia direzione). Scambi che hanno visto esperienze anche diversissime, ma non sempre brillanti, da Di Pietro a Ingroia, da De Magistris (lanciato sul blog di Grillo assieme a Sonia Alfano) a Piero Grasso. Se questo piano B si realizzerà, il M5S passerebbe dal «partito dei giudici» (quella era l’Idv) al «partito nei giudici», una nuova forma di collateralismo che assicurerebbe, a un tempo, controllo di palazzo Chigi e legame - c’è chi dice addirittura subalternità vera - con un gruppo di toghe amiche. 

Ma nel toto governo è sfida tra pm e avvocati. L'ala manettara vuole una toga in via Arenula, i garantisti frenano, scrive Giampiero Timossi, Venerdì 02/06/2017, su "Il Giornale".  Nascondere un altro polverone sotto la toga, ora il rischio è concreto. Il Movimento Cinque Stelle spinge per chiudere sulla legge elettorale e uno dei suoi leader, Luigi Di Maio, sembra ormai il candidato premier. Così è partito il toto-ministro pentastellato. E già ci si spacca su un dicastero chiave, quello della Giustizia. Da una parte c'è la fazione più «manettara», quella dei grillini della prima ora, dei «vaffà» e dei tutti a casa. Loro sognano un magistrato in via Arenula. E poi c'è quella più garantista, nata decisamente dopo, ma ormai in forte crescita, venuta allo scoperto dopo le vicende giudiziarie che hanno iniziato a coinvolgere anche gli amministratori pubblici del Movimento, in particolare la sindaca di Roma Virginia Raggi e il suo collega livornese Filippo Nogarin. Loro preferirebbero un politico, magari un avvocato. Ai manettari i candidati non mancano. L'ultimo si è proposto due giorni fa, è Nino Di Matteo, pubblico ministero palermitano. Che si candida ufficialmente per il ministero di via Arenula. O in alternativa potrebbe finire all'Interno. La sua adesione arriva mercoledì pomeriggio al convegno sulla giustizia, organizzato dal M5s alla Camera. Un appuntamento utile anche per capire aspirazioni e scontri interni. Le parole dell'arruolabile Di Matteo arrivano subito dopo il no deciso di Raffaele Cantone, un altro magistrato caro ai discepoli di Beppe Grillo. Più da decifrare la risposta di Piercamillo Davigo, che 25 anni fa fu il «Piercavillo» del pool Mani Pulite e ha da poco lasciato la poltrona di presidente dell'associazione nazionale magistrati. Davigo non farebbe il Guardasigilli del primo governo Di Maio. Andrebbe oltre: sostituendo all'esecutivo Di Maio un primo governo Davigo. In questo caso al ministero della Giustizia potrebbe finire un'altra toga graditissima a Grillo, il magistrato antimafia Sebastiano Ardita, già ospite l'8 aprile scorso al Gianroberto-Day di Ivrea, estensore di articoli sul blog del comico leader. Ipotesi, perché il percorso è più complicato, il «grosso guaio al Campidoglio» fa pendere qualche forcaiolo verso un nuovo approccio più garantista. Che vedrebbe così un altro candidato, guarda caso seduto al fianco di Di Maio, al solito convegno di mercoledì: è Alfonso Bonafede, deputato, avvocato, l'uomo che ha messo in riga la giunta Raggi. Bonafede sarà Guardasigilli, non più ministro delle Riforme Istituzionali, dove invece potrebbe finire Danilo Toninelli, deputato. «Ma se non ci sarà questo ministero nel nostro governo», ammonisce Toninelli. Non ci sarà, pare, neppure il dicastero della Democrazia Diretta. E allora Riccardo Fraccaro, altro grillino in costante ascesa, potrebbe finire al ministero dello Sviluppo Economico. Con Manlio Di Stefano alla Farnesina e ovviamente Alessandro Di Battista vicepremier. «Entro l'estate ci saranno le primarie per scegliere il candidato premier e pure le parlamentarie e la squadra di governo sarà presentata e votata prima», dice Di Maio. Che crede nella sua investitura ufficiale e spera così di superare un grosso problema della prima importante esperienza di governo grillino: l'incapacità di costruire una squadra di governo. Quella che si continua a verificare a Roma, spaccata tra mille correnti, in cerca di un assetto definitivo e che presto potrebbe sostituire Massimo Colomban, assessore alle Partecipate. Quella che si sta vedendo già oggi sul caso Guardasigilli.

Quei pentastellati a lezione di Giustizia, scrive Giulia Merlo l'1 giugno 2017, su "Il Dubbio". Un dibattito? No, un corso per futuri ministri. Standing ovation per Davigo, Di Matteo non disdegna la candidatura. Non un pubblico, quasi una classe. La nuova aula dei Gruppi parlamentari diventa per un giorno la sede della scuola di formazione politica del Movimento 5 Stelle: tra le fila di banchi nell’emiciclo siedono ordinatamente quadri e dirigenti del movimento. Al tavolo dei relatori, invece, gran spolvero di firme illustri e alti funzionari dell’amministrazione pubblica e della magistratura. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, apre i lavori con piglio istituzionale e completo blu d’ordinanza, chiarendo senza equivoci le ragioni del convegno: «Noi vogliamo ascoltare e capire, in un’ottica di governo». A “spiegare” la galassia giustizia ai 5 Stelle con tanto di slides, il presidente emerito della Corte costituzionale e attivo sostenitore del no al referendum; Gioacchino Natoli, capo dipartimento Organizzazione giudiziaria di Via Arenula; alti magistrati della giustizia amministrativa e contabile; la dirigente Istat Daniela Marchesi, ma soprattutto Piercamillo Davigo. Per l’ex presidente di Anm e oggi presidente della II Sezione Penale della Corte di Cassazione, si è levata più di una standing ovation. A intervistarlo sui mezzi di contrasto alla corruzione in politica dandogli del tu, la cronista di giudiziaria di Repubblica, Liana Milella, che ha concluso la sessione «accodandosi idealmente» all’applauso a scena aperta. Del resto, nonostante lui rifiuti ogni lusinga con piglio severo, non è un mistero la fascinazione che esercita sui 5 Stelle. A guastare il clima, l’intervento dell’avvocato Ester Perifano, che polemizza proprio con l’ex presidente dell’Anm, ricordando come, «anche se il dottor Davigo scalpita, il processo si chiama giusto proprio perchè ha le garanzie, soprattutto per gli innocenti». Che i 5 Stelle, però, abbiano trovato una buona sintonia con l’amministrazione giudiziaria lo dimostrano le parole del presidente Anac, Raffaele Cantone, intervistato dall’editorialista del Corsera Gian Antonio Stella: «I 5 Stelle sono i nostri principali datori di lavoro con le loro segnalazioni». A chiudere con i fuochi d’artificio, il sostituto procuratore della Dna Nino Di Matteo dialoga delle nuove prospettive di lotta contro le mafie con un insolitamente silenzioso direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio, suggerendo un vero e proprio programma di governo per la prossima legislatura. Del resto: «La politica può rappresentare, per un magistrato, una ideale prosecuzione del suo impegno in toga», parola di Di Matteo. Applausi scroscianti: la nuova classe dirigente dei 5 Stelle si forma, mette a fuoco i suoi intellettuali di riferimento e forse anche i suoi futuri candidati.

Di Matteo studia da Guardasigilli per mollare il processo flop. La scalata ai 5 stelle del pm della trattativa Stato-mafia, scrive Mariateresa Conti, Venerdì 02/06/2017, su "Il Giornale". Sarà un misterioso virus sprigionato dal processo sulla trattativa Stato-mafia. Una sorta di effetto collaterale di quello che si annunciava come il processo dei processi e che ora si avvia all'epilogo, a fine anno, dopo avere incassato qua e là più di una bocciatura e con tutte le caratteristiche del flop. Ad Antonio Ingroia, il papà di quel processo, il passaggio alla politica è andato malissimo. Ma al pm Nino Di Matteo, il pm antimafia che quel processo ha ereditato, potrebbe andare meglio. Già solo per il fatto che, contrariamente al collega, lui non sembra intenzionato a crearsi un partito tutto suo, ma sarebbe piuttosto pronto ad accomodarsi in casa M5s, movimento del quale ha benedetto il codice etico, e del quale - è questo il sogno - in un ipotetico governo potrebbe diventare Guardasigilli. Cinquantasei anni, palermitano, vita blindata dal 1993, il pm più minacciato da Cosa nostra deve la sua carriera alle stragi. È con le indagini su quegli eccidi, soprattutto su quello di Borsellino in via D'Amelio, che il giovane sostituto Nino Di Matteo approdato a Caltanissetta nel 1991 diventa l'eroe che i grillini oggi sperano di avere al proprio fianco. Oddio, le indagini su Borsellino non è che alla distanza si siano rivelate un successone, anche per Di Matteo, che era uno dei pm. Il nuovo processo Borsellino nato dalla revisione, scoperti falsi pentiti e depistaggi precedenti, si è appena chiuso. E ha confermato il grande flop della prima indagine. Da Caltanissetta a Palermo, le stragi restano il filo conduttore dell'attività di Di Matteo. Che diventa l'erede naturale di Ingroia. C'è anche lui tra i pm della prova generale del processo sulla trattativa, quello contro il prefetto Mario Mori e l'ex colonnello Mauro Obinu, conclusosi in primo grado e in appello con l'assoluzione. E c'è lui soprattutto nella cabina di regia del processo su cui la procura di Palermo si gioca la faccia, quello sulla trattativa tra i boss e Cosa nostra. Un processo partito tra rulli di tamburo e che a Di Matteo ha già procurato più di qualche grattacapo. A cominciare dal procedimento davanti al Csm (poi archiviato) per avere indirettamente rivelato a Repubblica, confermandone l'esistenza, che le intercettazioni dell'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano al telefono con Nicola Mancino non erano agli atti perché non rilevanti. Non è il solo dispiacere che il processo trattativa gli ha causato. L'ex ministro Calogero Mannino, processato con rito abbreviato, in primo grado è stato assolto. E l'ex caposcorta di Di Matteo, chiamato al processo come teste, andrà a giudizio per calunnia. Sempre in guerra, Di Matteo. Non solo contro la mafia. Anche con il Csm ha avuto le sue battaglie. Come quella per la promozione alla Direzione nazionale antimafia. Negata regnante Napolitano al Quirinale, l'ha ottenuta a marzo. «Sono stato costretto - ha esultato - a conciliare la delicatezza di certi impegni con la necessità di occuparmi di una massa di procedimenti su piccoli furti, truffe e reati comuni». Il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi non ha gradito. E gli ha risposto, con una lettera indirizzata a tutti i suoi pm: «La notorietà è un valore effimero». Però nel frattempo, per sei mesi, lo ha trattenuto a Palermo. Ad occuparsi del processo trattativa ma pure dei disprezzati furtarelli.

Davigo ai Cinque stelle: io sarò la vostra guida, scrive Errico Novi l'1 giugno 2017 su "Il Dubbio". Ovazione per il magistrato al convegno sulla giustizia dei grillini: frecciate a Renzi e al Pd ma anche attacchi agli avvocati sul Ddl penale. Davigo non si candiderà. No. Lo si capisce forse una volta per tutte, proprio grazie ai cinquestelle, il partito che lo vorrebbe a Palazzo Chigi. L’ex presidente Anm ripete il suo cortese rifiuto al convegno organizzato dal Movimento nella sala dei Gruppi parlamentari della Camera. Un super dibattito tra figure di primo piano della giustizia, con rappresentanti di tutte le magistrature. Dice no, dunque, l’ex pm del Pool, alle insistite sollecitazioni dell’intervistatrice Liana Milella. Ma forse è addirittura meglio così per Grillo e peggio per gli avversari. La travolgente oratoria esibita da Davigo di fronte ai suoi fedelissimi, ieri mattina, spiega molte cose. Una su tutte: lui sarà un Savonarola della prossima stagione politica, un castigamatti ancora più onnipresente di quanto lo sia stato da leader del sindacato dei giudici. E nel mirino, più che il solito centrodestra, avrà il nemico numero uno, suo e dei pentastellati: Matteo Renzi. La battuta chiave della mattinata arriva dopo il primo quarto d’ora di requisitoria. Davigo è partito dalla differenza tra le statistiche sulla corruzione, basse, e gli indici di Transparency, che danno l’Italia per corruttissima Repubblica. «Ed è così», premette, «perché la corruzione si regge sul patto di reciproca convenienza. Corrotto e corruttore non hanno interesse a farlo emergere e gli strumenti di legge a disposizione delle indagini non sono sufficienti». Manca, per dire, «l’agente sotto copertura». E fin qui sono teorie note, esposte certo con rinnovata energia. È la conclusione ad essere rivelatrice: «Possiamo dire con la relativa sicurezza tipica delle scienze sociali che l’Italia è un Paese gravemente corrotto, in cui pressoché mai i corrotti vengono scoperti e perciò quasi mai condannati: perciò, evidentemente, spesso si dice "aspettiamo le sentenze"». Boato. Che è uno sberleffo a Renzi. Perché a ripetere spesso «vogliamo le sentenze, non il gossip sui giornali» è il segretario pd. Ha osato farlo di recente su Consip. Davigo il censore lo tiene puntato. Non è un dettaglio. Alle urne si misureranno probabilmente due opposizioni, grande coalizione e populismo antisistema. In termini di leadership, se si esclude per ora la variabile Berlusconi, la partita sembra destinata a giocarsi tra Renzi e Grillo. Comunque finisca, il Movimento ha scelto il suo nemico, il segretario Pd appunto. E ha dalla sua, almeno in termini ideologici, un formidabile procacciatore di argomenti distruttivi. Davigo è impietoso, con il centrodestra e il centrosinistra. Poterlo schierare come ieri mattina senza neppure fargli fare il ministro della Giustizia («non conta niente e comunque non lo farò mai», liquida lui) sarà formidabile. Avere Piercamillo in Parlamento o al governo non avrebbe lo stesso effetto. Diventerebbe un polemista fra tanti. Così sarà la bomba ad alto potenziale da sganciare quando serve. Come ieri mattina. «Prima c’era da una parte Forza Italia e le leggi ad personam, dall’altra il Pd che la contrastava. Ma adesso la distinzione sembra non essere chiara». La premessa è di Liana Milella. Che si dichiara «di parte». È qui che Davigo non solo conferma che non c’è un centrosinistra di cui fidarsi, ma anzi «di non essersi mai fatto illusioni». E sfodera la lama più affilata: «Forse tra centrodestra e centrosinistra c’è una differenza di stile. Entrambi si sono dati da fare per contrastare non la corruzione ma i processi di corruzione. I primi le hanno fatte così grosse che non sempre hanno fatto del male a noi magistrati. Il centrosinistra invece ha assunto iniziative mirate che ci hanno messi in ginocchio». In particolare, ricorda Davigo, «con una legge sottovalutata che approvarono nel 2000 sull’annotazione di fatture per operazioni inesistenti: innalzarono il massimo di pena a 6 anni ma resero la fattispecie applicabile solo quando l’illecito riverberava su dichiarazioni dei redditi oltre una certa soglia». Chiosa: «Hanno introdotto la modica quantità per uso personale… vogliono toglierla per la droga e la mettono per i delitti contabili!…». Applausi anche qui. Seguono invettive contro il centrosinistra attuale: «Non so se mi preoccupa più Renzi o il ministro della Giustizia», che viste le premesse non pare un grosso complimento per Andrea Orlando. Rimprovera a quest’ultimo di aver ritirato le modifiche sulle pensioni dei giudici «perché, si giustificò il guardasigilli, "è cambiato il governo"». Contesta più agli avvocati che all’esecutivo i passaggi sgraditi nel ddl penale: «Inutile spostare un po’ più in là il problema, i comportamenti dilatori dei difensori fanno in modo che il reato si estingua comunque». Sempre la classe forense «ha fatto introdurre ordini dissennato che rischia di aggiungersi ai tanti di questi anni, la norma sull’avocazione obbligatoria: quelli della maggioranza ne parlarono con gli avvocati, e quelli dissero che bisognava porre un limite altrimenti le indagini duravano in eterno». C’è n’è anche per Gratteri e la teoria del procuratore di Catanzaro sulle fughe di notizie quasi sempre addebitabili alle Procure: «Se fosse qui gli chiederei: quante indagini hai aperto per violazione del segreto? Se non ne hai fatte le tue sono solo congetture». All’inizio della trionfale orazione sembra che abbia in mente persino questo giornale quando parla, senza citarne il nome, di «una testata secondo cui la corruzione in Italia è bassa perché gli indici di Transparency, che la ingigantiscono, sono basate sul sentito dire dei sondaggi, mentre le statistiche processuali dicono che i casi sono pochi». Molto, nel discorso dell’ex presidente Anm, ritrae l’Italia come un Paese intrinsecamente voltato al male e al malaffare, cita «le multe sotto il Palazzo di Vetro dell’Onu: venivano annullate in base a un accordo con il Comune di New York, ma quando si misero a contarle si scoprì che i finlandesi non ne prendevano neppure una, che il Kuwait era sempre in divieto e che l’Italia era nella stessa posizione delle classifiche internazionali sulla corruzione». Da lì il discorso sulle riforme davvero necessarie e «gli ufficiali sotto copertura». E ancora, il caso americano degli agenti provocatori, «che ovviamente sono cosa diversa ma funzionano eccome: dopo le elezioni, negli Usa si presentano finti corruttori da ciascun parlamentare e offrono tangenti, chi ci casca viene arrestato e così fanno pulizia periodica». Aggiunge un’altra frase magica: «Poiché tutto viene registrato, le prove sono schiaccianti e nessuno può dire “è un complotto contro di me, è la giustizia a orologeria” e tutte le stupidaggini che si dicono in questi casi». L’uditorio, soprattutto quadri ed eletti grillini, scatta in piedi per una lunga standing ovation. La giornalista al suo fianco vi si associa «idealmente». E gli chiede: «Ma non potresti essere tu uno di quelli che fanno le leggi?». Quelli in sala esplodono in un corale «magari!». Lui pronuncia l’ennesimo no. E scandisce: «Non mi occupo di politica ma di politici quando rubano». Cioè quasi sempre, dal suo punto di vista. Il che fa di Piercamillo Davigo un futuro pervasivo protagonista della scena politica, con o senza candidatura con i cinquestelle.

Sbarramento ai partitini Ma porte aperte ai magistrati in politica. La legge sulle "toghe in campo" ferma in Senato. Davigo insulta tutti, il pm Di Matteo sposa il M5s, scrive Lodovica Bulian, Giovedì 01/06/2017, su "Il Giornale". Dice che a lui la politica «non interessa», ma spara a zero su centrodestra e centrosinistra che «si sono dati da fare non per contrastare la corruzione ma le indagini sulla corruzione». Con una «fondamentale differenza»: il primo «le ha fatte così grosse e così male che di solito non han funzionato. Il centrosinistra le ha fatte mirate e ci ha messo se non in ginocchio almeno genuflessi». Aggiunge che non farà il ministro della Giustizia di un ipotetico governo grillino, ma lancia le sue bordate dal convegno organizzato a Montecitorio dal M5s. L'ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione già presidente dell'Anm, sferra il suo attacco seduto accanto alle altre due toghe invitate dai cinque stelle: Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, e il pm antimafia Nino Di Matteo. Eccolo, l'altro papabile Guardasigilli. Che non scioglie la riserva ma ammette che «l'impegno politico non mi scandalizza», e tanto basta a galvanizzare i grillini. È il binomio che ritorna, quello su magistrati e politica. «Non si può impedirgli di farla», dice Cantone, ma farebbero bene a non buttarcisi, consiglia Davigo, perché «non sono capaci», «sì, a patto che sia una scelta irreversibile» puntualizza Di Matteo. Di certo un tentativo potranno sempre pur farlo alle prossime, forse vicine, elezioni. Perché per il partito delle toghe che sogna Montecitorio e Palazzo Madama non ci sarà alcuno sbarramento. Il ddl che regolamenta la discesa in campo e il rientro in ruolo dei magistrati rischia di essere ricordato come una delle tante leggi soffocate nel limbo delle urne anticipate. Sicché se su partitini e cespugli piomba la tagliola del 5%, Parlamento, comuni e amministrazioni locali resteranno aperti alla corsa dei giudici sedotti dallo scranno. Eppure doveva essere la volta buona, almeno secondo la narrazione renziana. Dopo anni di stallo e polemiche doveva essere la legislatura che avrebbe messo un freno alle porte girevoli tra le aule di giustizia e quelle parlamentari. Stop con i pm che si candidano sotto i riflettori delle inchieste e con giudici che rientrano in ruolo dopo aver respirato l'aria del Palazzo. Ne va dell'imparzialità e credibilità della categoria, ammoniva lo stesso Csm che già nel 2015 chiedeva una stretta, concetto ribadito anche dall'Anm ora guidata da Eugenio Albamonte. Scongelata dopo due anni di fermo in commissione a Montecitorio, la legge è stata approvata dalla Camera il 30 marzo ed è tornata al Senato, dove era già stata votata tre anni fa. Ma lo scenario di elezioni anticipate minaccia ora di far saltare il calendario e di non dare alla luce la norma nemmeno questa volta. I nuovi paletti prevedono che il magistrato non possa candidarsi nella circoscrizione elettorale dove ha svolto le funzioni nei 5 anni precedenti e che debba essere in aspettativa da almeno 6 mesi. Poi, a fine mandato, che sia collocato in un distretto diverso, che per 3 anni non possa ricoprire incarichi direttivi. Ma senza la volontà di un'accelerazione parlamentare e con l'ipotesi urne a settembre, rimarranno sulla carta. Non è bastata la raccomandazione del Consiglio d'Europa di limitare «i giudici in politica», né il caso del governatore Michele Emiliano, in aspettativa e sotto procedimento al Csm per aver violato il divieto di iscriversi ai partiti. A Taranto, alle amministrative, c'è già un ex pm (Franco Sebastio, in pensione da un anno e mezzo) che corre per fare il sindaco nel distretto in cui ha coordinato l'inchiesta sull'Ilva. A Parma Gerardo Laguardia, il pm capo dell'inchiesta che fece cadere l'ex sindaco di centrodestra, farà parte della lista Parma Protagonista a sostegno del candidato di centrosinistra. Porte aperte a tutti. Ancora.

Corruzione, Davigo: «Centrosinistra ostacolo a indagini. Ci ha genuflessi». Al convegno sulla giustizia del M5s: «Tutti i governi ci hanno ostacolati, ma quelli di sinistra l’han fatto in modo mirato». Sull’ingresso in politica: «Non mi candido», scrive il 31 maggio 2017 "Il Corriere della Sera". Salutato da una standing ovation, Pier Camillo Davigo è intervenuto al convegno promosso dal Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati, rinfacciando ai vari governi che si sono succeduti dai tempi di Mani Pulite di aver «reso più difficili le indagini e i processi sulla corruzione». Sono state «cambiate le leggi per fare assolvere gli imputati», l’accusa più volte sollevata dall’ex presidente dell’Anm e giudice della Cassazione. E anche oggi il magistrato ha ribadito il concetto: «Centrodestra e centrosinistra si sono sempre dati da fare non per contrastare la corruzione ma per contrastare le indagini sulla corruzione - ha detto durante il convegno “Questioni e visioni di giustizia” -. Con una fondamentale differenza: il centrodestra le ha fatte così grosse e così male che di solito non han funzionato. Invece il centrosinistra le ha fatte mirate e ci ha messo se non in ginocchio almeno genuflessi». A margine del convegno, il magistrato ha poi escluso un suo coinvolgimento in politica: «Ho dato dimostrazione nella vita che non sono interessato alla politica. Mi occupo dei politici quando rubano. Ritengo che i magistrati non siano capaci di farla. Il ministro della Giustizia? Non lo farò», ha detto, dopo essere stato indicato tra i possibili candidati alle primarie online pentastellate o a un suo ruolo come Guardasigilli nella possibile squadra di governo. «E poi non capisco perché tutti lo vogliono fare visto che non dovrebbe contare niente perché è un ministro senza portafoglio e che non dovrebbe spostare o nominare nessuno». Le promesse del governo sulla riforma della giustizia «sono state disattese tutte. E non so se preoccuparmi di più di Renzi o del ministro della Giustizia», ha poi aggiunto. «Il ministro della giustizia, quando l’Anm disertò l’anno giudiziario per protesta disse che non si poteva incolpare il governo che era cambiato. Gli chiesi cosa avrebbe detto se invece di parlare con noi fosse stato ministro dell’economia e avesse detto ai mercati che non pagava più i titoli di Stato...». Per Davigo, «il ddl di riforma penale per la prescrizione serve a poco o a nulla perché sposta solo più in là il problema» visto che i giudici hanno a che fare con una «serie di comportamenti dilatori che sono finalizzati unicamente a lucrare la prescrizione». E il codice degli appalti «è fantascienza»: «Cosa otteniamo intervenendo con questa normativa molto stringente? Di dare molti fastidi alle imprese per bene e non fare nè caldo nè freddo a quelle per male».

Davigo al convegno M5S si scaglia contro il Pd. “Ci ha messo genuflessi”. Di Maio corteggia le toghe. Di Matteo pronto a candidarsi. Al convegno M5S erano invitati Di Matteo, l’ex presidente della Consulta Ugo De Siervo, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, e Piercamillo Davigo, scrive Francesco Grignetti l'1/06/2017 su “La Stampa”. Se mai esisterà un «partito dei magistrati», questo sarà il M5S. E non per finta. Luigi Di Maio, con postura da aspirante presidente del Consiglio, aprendo un megaconvegno sulla giustizia, ha annunciato un cambio di paradigma della politica italiana, ove mai i grillini vincessero le elezioni: «Negli ultimi 25 anni - spiega - il rapporto tra magistratura e politica è stato sempre più problematico: quando un giudice indagava un esponente politico, la risposta immediata di quest’ultimo era gridare al complotto, screditando l’intera magistratura agli occhi di una fetta purtroppo consistente dell’opinione pubblica», con l’effetto collaterale del crescente «scollamento tra Stato e cittadini». E se con Berlusconi ci sono state le leggi ad personam, con Renzi è arrivato lo scaricabarile. «La classe politica ha avuto gioco facile a scaricare sulla magistratura tutte le responsabilità di un sistema che le statistiche effettivamente non descrivono in buona salute». Un domani, però, con il M5S al potere, si cambierà registro. Il convegno è una prima prova. «Oggi la politica siede nei banchi e ascolta». Una rivoluzione anche nei ruoli. «In questi anni ho imparato che in Parlamento si legifera troppo e male. Si fa una legge ogni 2 giorni e mezzo, ma nessuno si preoccupa poi dell’efficacia. E allora, chi meglio dei magistrati ci può dare un feedback?». Poi, certo, se un magistrato stranoto come il pm palermitano Nino Di Matteo annuncia di essere pronto «ad assumere un ruolo civile», precisando che «l’eventuale impegno politico di un pm non mi scandalizza», per lui in un futuro governo grillino ci sarebbero tappeti rossi (si parla del Viminale). «Una buona notizia - dice Di Maio - . Siamo contenti della sua disponibilità». Ecco dunque il senso di questo convegno - cui erano invitati Di Matteo, magistrati illustri ora dirigenti del ministero quale Giacchino Natoli, l’ex presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, e Piercamillo Davigo, una star dei grillini, il loro sogno proibito. «Non siamo qui a reclutare ministri», dice Di Maio. «Vogliamo ascoltare e capire, in un’ottica di governo, come una politica sana possa aiutare la magistratura a fare il suo lavoro». Come dirà anche l’organizzatore del convegno, il deputato Alfonso Bonafede, uno dei suoi colonnelli: «Ci vuole più attenzione a quello che ci dicono tribunali e procure». Con un’introduzione del genere, non ha deluso l’intervento di Davigo, che è stato per un anno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e ora è tornato a fare il presidente di sezione in Cassazione. «Io non mi occupo di politica, ma di politici che rubano, che è un’altra cosa», il suo esordio fulminante. Davigo ha le idee chiare su come dovrebbe funzionare la giustizia. Chi dice che in Italia ci sarebbe poca corruzione, basandosi sulle statistiche giudiziarie, «è in malafede. Poche condanne non significano poca corruzione, ma che ne hanno presi pochi». A chi si scandalizza perché sui giornali finiscono troppe intercettazioni irrilevanti, risponde che lui «è esterrefatto di come i politici continuano a parlare liberamente al telefono». Il suo cattivo rapporto con i partiti viene da lontano, «tutte le volte che condannavo qualcuno, quello iniziava subito una sfolgorante carriera politica». Condanne ne vengono poche, perché ai magistrati legano le mani. «E poi c’è qualcuno che parla di abuso nella custodia cautelare....». Va da sé che Berlusconi è stato il male assoluto, «quando venne un giudice malese delle Nazioni Unite e scrisse due rapporti di fuoco sul fatto che era a rischio l’indipendenza della magistratura italiana», ma non è che le cose siano andate meglio con il centrosinistra. «Centrodestra e centrosinistra si sono sempre dati da fare non per contrastare la corruzione ma per contrastare le indagini. Con una fondamentale differenza: il centrodestra le ha fatte così grosse e così male che di solito non hanno funzionato. Invece il centrosinistra le ha fatte mirate e ci ha messo se non in ginocchio almeno genuflessi». Con il che ha lanciato anche una frecciata ai suoi colleghi non così battaglieri contro il Pd e contro Andrea Orlando (cui riserva un paio di battute acide). Ne ha avuto anche per il procuratore Gratteri, colpevole di fare «congetture» sulla storia della fuga di notizie da addebitare ai pm. Al termine, standing ovation.  

La lunga marcia del magistrato Piercamillo Davigo. Perché quando il nuovo presidente dell'associazione dei magistrati rilascia un'intervista, la politica deve tremare, scrive Fabio Cammalleri il 30 Aprile 2016 su "La Voce di New York. Il magistrato Piercamillo Davigo (a destra) in una immagine recente col suo collega dei tempi del Pool Mani Pulite di Milano, Gherardo Colombo. Il punto non è il Presidente dell’ANM Piercamillo Davigo, ma l’Ordine Giudiziario tutto che ha presentato un disegno lucido, articolato e coerente. Rappresenta un’organizzazione, l’ANM, consapevole del proprio potere e ampiamente capace di usarlo. La settimana scorsa, il Dott. Piercamillo Davigo, neo Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera. Non sono mancate le analisi “di giornata”, come le uova, suggerirebbe Sciascia. Sarà invece bene prenderlo sul serio. Anche perché, tutto sommato, in Italia un processo penale non si nega a nessuno. Qui, un tentativo di non sprofondare nell’effimero. Cominciamo, allora, col dire che, pur se, parlando di giustizia penale, lo fa nello slang accattivante di un bar in happy hour, come si vedrà, ha presentato un disegno lucido, articolato e coerente. Rappresenta un’organizzazione, l’ANM, consapevole del proprio potere e ampiamente capace di usarne. Non ha voluto proporre un’idea nuova e, così, forzare i toni per imporla all’attenzione generale. Tutte le proposizioni lì esposte costituiscono un repertorio ormai consolidato da oltre vent’anni. Tutte, nessuna esclusa, risalgono agli anni 1993 e 1994, cioè alla svolta di Mani Pulite.

Il 17 Ottobre del 1993, pour case ancora al Corriere, aveva detto: “In Tangentopoli ognuno è parte di un più complesso sistema”. La conseguenza: “Anzichè tenere dentro le persone finchè non è spirato il termine massimo di custodia, quelli che sono arrestati tornano liberi dopo aver confessato”. E spiegava: “Se qualcuno collabora con noi, diventa inaffidabile per gli altri, non è più in condizione di commettere questo tipo di reati. Così egli può e deve essere rilasciato. Proprio come accade con i pentiti di Mafia”. Dunque, quando si tratta di “contesti chiusi”, ci sarebbero solo colpevoli non ancora scoperti: non può esistere presunzione d’innocenza. Come si vede, la stessa tesi ripetuta oggi, compreso lo specifico rilevo attribuito ai “contesti chiusi”, che giustificherebbero la presunzione di colpevolezza. Ma il Dott. Davigo non ha voluto proporre nemmeno un’idea solo sua. L’estensione delle leggi sui c.d. “pentiti di Mafia” ai delitti contro la Pubblica Amministrazione (corruzione, ora anche traffico di influenze ecc.), nemmeno un anno dopo, il 14 Settembre 1994, fu ripresa da Antonio Di Pietro, allorchè, con analoga pacatezza, la espose ad un “incontro di studio” promosso dall’Università Statale di Milano. Il punto, pertanto, non è il Presidente dell’ANM. Ma l’Ordine Giudiziario tutto. Anche perché egli è stato eletto da oltre mille altri magistrati. E poi, se è vero che ha fondato una corrente nuova, “Autonomia e Indipendenza”, essa agisce pur sempre entro l’Associazione, non fuori. Può sembrare un’ovvietà, ma non lo è. Il 10% circa dei magistrati italiani non sono iscritti all’ANM: questo è un reale discrimine. Le “diversità” delle correnti sono solo variazioni su un unico tema. 

Vediamo prima le “variazioni”, e poi il “tema”. La parola “corrente” evoca, assai opportunamente, il modello organizzativo democristiano, colto nella sua fase storica deteriore. Ci si divide per spartire. E, poichè “spartire implica “coprire”, non stupisce che essa parola, “corrente”, susciti falsi pudori. Per es. il dott. Piergiorgio Morosini, di MD, ha affermato: “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. E invece sono proprio quello: correnti. Il 20 Gennaio 2015, rispondendo al Fatto Quotidiano, che gli chiedeva: “Fonda una nuova corrente?”, il dott. Davigo rispondeva, asciutto: “Sì, con tutti quelli che insieme a me sono usciti da MI” (Magistratura Indipendente, un’altra corrente n.d.r). Dunque, casomai qualcuno volesse ancora dubitarne, per bocca del futuro Presidente dell’ANM, veniva confermato che, anche negli anni presenti, le “correnti” in magistratura ci sono. Ed in questo contesto, quello delle correnti, vanno pure inquadrate, e depotenziate, le asserite “distanze” che il Vice-Presidente del CSM, Giovanni Legnini, e qualche altro magistrato (un ex Presidente ANM, Luca Palamara), si vuole abbiano preso. Stanno dialogando tra loro: nessun dissenso reale, su scopi e mezzi reali per conseguirli. Ma se le correnti costituiscono una variazione sul tema, qual’è il tema? E’ la “supplenza” della magistratura, rispetto agli altri Poteri dello Stato. Anche la supplenza è un’idea antica. Anzi, è il fondamento del progetto, lucido e coerente, che il Dott. Davigo ha consegnato, per tutti, e non a titolo personale, a quell’intervista-manifesto.

Infatti, già nel 1983, il Dott. Gherardo Colombo, che sarebbe diventato un altro famoso membro del c.d. Pool Mani Pulite, fissò i termini del progetto, in un saggio breve. Rilevava che a causa della “…mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica…l’ordine giudiziario svolge attualmente, di fatto, l’unica attività di controllo politico stabile, continuativa ed incisiva nel nostro paese…una serie di motivi contingenti rende del tutto impraticabile…una prospettiva immediata di ‘ritorno alla terzietà’…”; sebbene “…chiunque converrebbe sull’abnormità [del fatto] che una funzione delicata e complessa, e che involge necessariamente responsabilità politiche, sia svolta istituzionalmente da dipendenti dello Stato nominati per concorso…”; in prospettiva però, per rimediare all’abnormità, pensava ad una “…redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri, nella quale l’ordine giudiziario sia chiamato a svolgere permanentemente una funzione nuova…”. Fuori l’Abnormità, dentro l’Enormità. Era già tutto lì. Controllo politico stabile ed incisivo. Abnormità di una funzione, di fatto politica, svolta da “dipendenti dello Stato nominati per concorso”. Redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri. Chiamati a svolgere una funzione permanentemente nuova. Motivi contingenti. La supplenza fu solo presentata come transitoria, ma era stata progettata come stabile e durevole. Tutto chiaro, lucido. E consapevole. Ora, qualsiasi mutamento della struttura dello Stato, specie se non dichiarato da un balcone di fronte a folle vocianti, ma insinuato fra le remote pagine di un saggio giuridico, ha necessità di una Storia Edificante che ne giustifichi gli effetti. Altrimenti, per il naturale istinto di conservazione insito nella specie, i mutamenti, una volta divenuti pratica diffusa e visibile, rischiano il rigetto. La Storia Edificante è “L’Emergenza”. Si badi: non il problema, non la questione, non la difficoltà. Ma “L’Emergenza”.

Rispetto alle altre formule che esprimono una condizione complessa e, perciò, capace di anomalie e guasti (problema, questione), l’Emergenza presenta alcuni preziosissimi caratteri: sospende l’analisi, e invece il “problema” la richiede; sopprime la discussione, che invece la “questione” introduce; legittima, infine, la dicotomia amico/nemico, e invece sia il “problema” che la “questione” implicano una cooperazione in uno spazio comune. Vale a dire: l’Emergenza introduce una cornice eminentemente dittatoriale. Il Dittatore non è un Tiranno, nè un Despota, nè un Re. Dictator era un Magistrato (nel senso di Istituzione) dell’antica Roma repubblicana che, per un anno, in ragione di un pericolo posto come imminente e temporaneo, sospendeva le regole ordinarie della vita pubblica: e assommava su di sè ogni potere. Il paradigma Colombo. L’Emergenza dei giorni nostri è la Corruzione. Ma per intenderne i termini, può essere opportuna una minima “Genealogia dell’Emergenza”. Infatti, l’Emergenza-Corruzione costituisce solo un’ulteriore stadiazione di un disegno unitario. Non è un’isolata novità.

Al tempo in cui fu scritto il saggio di Colombo, l’Emergenza era la “mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica”; una condizione di asserito squilibrio che, amputando la dinamica democratica dell’alternanza, avrebbe fomentato inerzie e sclerosi nella vita politica. La medicina: “il controllo di legalità penale”, cioè, le manette.

La relazione Emergenza/Rimedio si è andata evolvendo attraverso un movimento omogeneo e crescente. Ogni passaggio, un nuovo tassello. Alla fine del 1995, su Micromega, questa relazione è ancora esplicitamente richiamata dal Dott. Francesco Saverio Borrelli, il Capo del Pool Mani Pulite: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”. Si può notare che la “Redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri”, già propugnata da Colombo, si è qui ormai esplicitata nel favore verso “restrizioni di diritti individuali”. E’ appena il caso di osservare che, se queste restrizioni alle libertà della persona fossero quelle ordinarie, non sarebbe stata necessaria una simile precisazione.

All’inizio del 2003, i magistrati Ingroia e Scarpinato, di nuovo su Micromega, offrono un altro aggiornamento dell’Emergenza, e scrivono: “La dimensione politica della mafia non è un dato eventuale e aggiuntivo del fenomeno, ma genetico e strutturale…ma… se è la politica il nerbo della potenza mafiosa, come può la stessa politica abbattere la potenza mafiosa?”. C’è un errore, proseguono: si tratterebbe delle “tesi ricorrenti” secondo cui “la democrazia consiste nella dittatura della maggioranza aritmetica...”. Per “…impedire il suicidio della democrazia…” bisogna ricorrere ad Autorità che “…sospendono o relativizzano il dogma del consenso…Bisogna dunque affidare a un’istanza politica superiore il compito di ‘sospendere’ autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica, al fine di salvare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza”. Pertanto, per impedire il suicidio della democrazia, ne veniva formalmente proposto l’omicidio. Dalla Politica carente di Colombo (manca un’Opposizione politica vera), siamo passati alla Politica gravemente criminale, alla Politica che equivale alla mafia. Senza ulteriori limitazioni. Altrimenti, anche qui, sarebbero bastate le regole già vigenti. E se, sia in Colombo che in Borrelli, l’Emergenza era ancora presentata sotto il segno classico della temporaneità, a quest’altezza della “supplenza” si può andare oltre. Si tratta, senza meno, di “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica, al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Non sfugga la clausola operativa: se necessario, anche “contro la stessa volontà della maggioranza”. Per stabilizzare l’Emergenza, occorre stabilizzare un Nemico. La nuova funzione, permanentemente svolta, si consolida. L’attenuarsi della stabilità dell’Emergenza, implicherebbe infatti il rischio dello scolorire del Nemico. L’ultima veste assunta dall’Emergenza, quella dell’Antimafia, a quel punto, mostrava il fiato corto. Nei quattro anni dal 1989 al 1992, in Sicilia c’erano stati una media di 410 omicidi circa per anno, 8.15 per 100.000 abitanti. Poi circa 300, nel 1993 e ancora nel 1994. Ma, sempre calando, erano già 140 nel 1998. Nel 2003, anno dell’articolo di Ingroia e Scarpinato, a dieci anni dalle ultime stragi, saranno poco più di 70, 1.23 per 100.000 abitanti, 1.24 la media nazionale.

Torniamo all’oggi. L’Emergenza, come fattore giustificativo della stabile “supplenza”, deve avere una veste replicabile (i crimini in costante ed ineluttabile crescita), di suggestiva familiarità (il mafioso e il politico vivono accanto a noi), ma, al contempo, anche di indistinguibile identità (“i politici” continuano a rubare, afferma Davigo). Tutti caratteri comuni all’Emergenza Tangentopoli e a quella Antimafia. Allora, per fugare ogni rischio di destabilizzazione, si è perfezionata la seconda e la terza fase dell’Emergenza repubblicana, con la loro fusione. Ed eccone il rilancio, con la lettura sempre più “espansiva” dell’associazione di tipo mafioso: sia valorizzandone i fenomeni di ritenuto collateralismo (il c.d. concorso esterno), sia affermandone la transumanza in Continente (Mafia Capitale, e, in genere ‘Mafia al Nord’). Punto massimo di coaugulo, il Processo sulla c.d. Trattativa Stato-mafia. Coniugando l’una all’altra, il punto finale è, e non poteva che essere, la Corruzione Politica. Intesa ora, però, ben oltre l’area semantica dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, e fatta espandere a generale e onnicomprensiva qualità criminale della classe dirigente elettiva. Tuttavia, c’erano (ci sono?) ancora due punti da rifinire. Primo Punto: le assoluzioni. Per dire, dei 4500 indagati in Tangentopoli, 3700 furono assolti. E oggi Incalza, e Penati e Why Not, Carnevale, Mannino, Mori, Canale, Musotto e tutti quegli altri che qui non nomino nemmeno. Secondo problema: la classe politica elettiva è tendenzialmente criminale; ma viene votata. Almeno in parte, dunque, sono criminali anche gli elettori. Sia pure nella loro crescente vanità per i singoli imputati, comunque distrutti, complessivamente considerate, le assoluzioni, alla lunga, nello spazio abbandonato del processo, hanno infatti sempre smentito la dimensione “politica”, cioè pervasiva, capillare e “costitutiva” di ogni Emergenza; ed hanno del pari sementito la conseguente necessità di poteri straordinari e di un “clima” straordinario. Ma, soprattutto, hanno smentito il valore di verità delle indagini preliminari, fonte esclusiva delle varie Emergenze. Bel problema. Avendo presente questa palese contraddizione, fra una Nazione che si vuole marcia e i risultati, pur solo simbolici, dei processi in generale, possiamo ora intendere a pieno il cuore di quella intervista: la presunzione di colpevolezza, che si è preteso di “limitare” con l’aggiunta che riguarderebbe i “contesti chiusi”. La presunzione di colpevolezza, così clamorosamente affermata, ha uno scopo preciso. Serve a proclamare che il giudizio è superfluo. Il Giudice è superfluo. Se il dibattimento condanna, bene; altrimenti, siamo in presenza di un criminale che l’ha fatta franca. Basta la Pubblica Accusa, perchè, con questo accorgimento sofistico, ha sempre ragione. Inoltre, se le assoluzioni, nei contesti “politici”, rimangono comunque sullo sfondo, l’Accusa basta a sè stessa: e si tratta di un’autosufficienza universale. Vale, cioè, sia per le questioni giuridico-penali, che per ogni altra valutazione. Davigo dice, con estrema coerenza, che la presunzione di innocenza “è un fatto interno al processo”. Dimissioni e non-candidature sono decise dal Pubblico Ministero.

Quanto agli elettori criminali e criminogeni, è presto detto. “L’evasione fiscale in Italia viene annualmente praticata da circa 10 milioni di soggetti”, ancora il Nostro. Quando la dimensione criminale di un comportamento si pretende riguardi, potenzialmente, non i singoli, l’unica dimensione per il cui lo strumento legislativo- reato si giustifica, ma “milioni di persone”, delle due l’una: o la Legge si è scollata dalla realtà, o siamo entrati in una dimensione più vicina ai Gulag che alle prigioni. Peraltro, nella scelta del reato-simbolo che definisce –e la qualificazione criminale definisce in modo inemendabile- non la classe politica (o non solo questa), ma le moltitudini che la sosterrebbero, traspare un’evidente opera di “sartoria politico-criminale”, svolta su ben precisi strati sociali. Gli autonomi e la piccola e media imprenditoria: i grandi, invece, si possono sempre avvalere del Modulo-Romiti: ignorato a Milano, l’ex a.d. della Fiat fu condannato, blandamente, a Torino; Modulo inaugurato proprio dal Pool Mani Pulite. “Se necessario, anche “contro la stessa volontà della maggioranza”. Tout se tien. Tutto questo, però, non è Davigo. E’ l’Italia.

La Commissione Antimafia, sulla base di una ben precisa disposizione di legge, stila liste di “incandidabili”, potendo del tutto prescindere da ogni accertamento giurisdizionale. Il Presidente della Repubblica, labiale ed etereo, dice che “La corruzione dei politici è la più grave”. Il Governo è tutto contento perchè aumenta pene e prescrizione (un residuo di civiltà, per sottrarre la persona all’indefinito potere penale) per “La Corruzione” e lo “Scambio elettorale politico-mafioso”. Le masse, in larga parte, e come sempre nei saturnali, applaudono. La Storia Edificante ha funzionato. Nonostante gli scempi dell’Antimafia; nonostante i commerci disciplinari che, come, per es., nel caso dell’ex Procuratore Aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, puniscono un Pubblico Ministero mandandolo a fare il giudice; nonostante da Palermo, “terra di mafia” a targhe alterne, il figlio del dott. Tommaso Virga, ex CSM implicato nello scandalo insabbiato delle confische e sequestri antimafia (vicenda tutta di magistrati e che, da sola, mette in ombra ogni altro ipotetico scandalo dei “politici”), affermi: “te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro….io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno”. E’ stata una lunga marcia. Davigo ha solo messo il punto.

Di Matteo e la superiorità morale del grillismo, scrive Andrea Romano l'1 giugno 2017 su "L'Unità". “Noi siamo i puri, tutti gli altri no”: questa la geniale idea partorita dagli Stati Generali M5S sulla giustizia. Riformare la giustizia penale, rendere più rapida ed efficiente la giustizia civile, aumentare le risorse umane e finanziarie a disposizione della magistratura? Troppo complicato per i Cinque Stelle, che su questi temi puntano direttamente a privatizzare l’etica pubblica a fini di partito. “Noi siamo i puri, tutti gli altri no”: questa la geniale idea partorita dagli Stati Generali M5S sulla giustizia, che ieri alla Camera hanno celebrato una sorta di ritorno alle origini sul tema primigenio della mobilitazione politica grillina. Come se niente fosse accaduto dai primi VaffaDay, come se un’intera legislatura spesa sui banchi della Camera e del Senato non fosse servita a niente, e soprattutto come se non avesse alcun significato l’avvicinarsi di elezioni politiche per le quali il Movimento Cinque Stelle dovrebbe presentare uno straccio di programma (anche) sui temi della giustizia. Meglio far finta di niente e puntare sul grande classico della naturale (e tutt’altro che argomentata) superiorità morale del grillismo su ogni altro fenomeno politico italiano. E poco importa se la privatizzazione a fini di partito dell’etica pubblica toglie alla collettività il suo valore di bene comune, da rafforzare con leggi e provvedimenti che la rendano concretamente più solida e non con proclami utili solo a coltivare il proprio narcisismo politico. Ma fin qui siamo ai classici del grillismo, nato proprio intorno alla grande finzione del tribalismo moralista e giustizialista (a cui non corrispondono mai, come già insegna la breve storia del governo locale grillino, atti concreti ispirati alla morale o al senso di giustizia). Quello che stupisce anche i più anziani e disincantati tra noi, che pure dovrebbero averne viste di tutti i colori, è leggere le parole pronunciate da Nino Di Matteo in quella stessa occasione. Ascoltare Di Matteo, come riportano le cronache giornalistiche, mentre accusa i colleghi magistrati di complicità in “trionfo dell’ipocrisia” per avere commemorato il sacrificio di Falcone, mentre sobriamente si pone come erede diretto di Pio La Torre, mentre auspica l’ingresso in politica dei Pubblici Ministeri (non dei magistrati in generale, ma dei PM nello specifico) rappresenta un salto di qualità nella storia comunque non luminosissima dell’uso politico della magistratura. Nel nostro piccolo, noi auguriamo ogni bene alla futura carriera politica di Nino Di Matteo. Ma accanto a questo, continuiamo ad augurare agli italiani e alla loro Repubblica una giustizia più solida ed efficiente nonostante ogni tentativo di privatizzarne le bandiere ad uso di partito.

La "superiorità morale" della sinistra è nel mirino, scrive Ruben Razzante il 14-11-2015 su "La Bussola Quotidiana". C’era una volta il mito della superiorità morale della sinistra. Per decenni i comunisti e i post-comunisti hanno inalberato orgogliosamente il vessillo di una loro presunta incorruttibilità, contrapposta alla diffusa disonestà dei loro avversari. Oggi, il susseguirsi di inchieste, anche scottanti e imbarazzanti, a carico di esponenti di primo piano del Pd, sembra smontare quel teorema e finisce per mettere sullo stesso piano destra e sinistra in ordine alle responsabilità nella cattiva gestione della cosa pubblica. Il nuovo “caso De Luca”, dai contorni ancora nebulosi, mette a nudo la trama di un possibile scambio clientelare tra una sentenza (favorevole al governatore campano) e una nomina in ambito sanitario (spettante al marito del giudice Anna Scognamiglio, autrice del verdetto). Ad aggravare il quadro la circostanza che a fare da tramite nello scambio sarebbe stato Carmelo Mastursi, capo della segreteria di Vincenzo De Luca e segretario amministrativo del Pd. Ma questa inquietante vicenda, che rimane tale nonostante le smentite di rito da parte dei diretti interessati, è solo l’ultima in ordine di tempo tra quelle che coinvolgono politici di sinistra. La caduta di Ignazio Marino è stata determinata, non solo da una crisi politica, ma anche dall’apertura di un’inchiesta a carico dell’ex primo cittadino della capitale a proposito degli scontrini relativi alle spese da lui sostenute per cene e altre voci. Eppure Marino fino all’ultimo aveva rivendicato la sua estraneità a Mafia Capitale e la sua “diversità” rispetto a chi l’aveva preceduto. Le carte relative a quell’inchiesta hanno peraltro fatto emergere il coinvolgimento di molti esponenti del Pd romano e l’esistenza di accordi trasversali tra dem e nomi vicini all’ex sindaco Alemanno. E’ del mese scorso anche lo scoppio di un’altra inchiesta per corruzione nell’ambito degli appalti Anas, che vede coinvolti nomi altisonanti del Pd, tra cui Luigi Meduri, l’ex sottosegretario alle infrastrutture del governo Prodi, arrestato per tangenti. Ma anche il governo Renzi non è immune da ombre, viste le recenti dimissioni del sottosegretario ai beni culturali, Francesca Barracciu, rinviata a giudizio per le “spese pazze” in Regione Sardegna. Analoghe inchieste pendono sulla testa di altri tre sottosegretari, che per ora sono ancora al loro posto, in nome di un sacrosanto principio garantista che, tuttavia, dovrebbe assurgere a metodo universale e bipartisan, anziché essere invocato a fasi alterne, in base al colore politico dei soggetti coinvolti. Alcuni settori minoritari della magistratura, probabilmente affascinati dal grillismo come movimento di rottura del quadro politico e di difesa delle prerogative e dell’indipendenza delle toghe, sembrano meno condizionati di un tempo dall’appartenenza politica di indagati e rinviati a giudizio. Tangentopoli appare ormai lontana anni luce. In quegli anni un’intera classe dirigente, quella del pentapartito, venne spazzata via dal pool di “Mani pulite”, che risparmiò quasi del tutto gli esponenti politici del vecchio Partito Comunista Italiano. Lo “strabismo” mostrato in quell’inchiesta dalla Procura di Milano ha peraltro trovato conferme a posteriori, con l’ingresso in politica di magistrati come Antonio Di Pietro e con le frequenti esternazioni in favore della sinistra da parte di alcune toghe protagoniste di quelle inchieste degli anni Novanta. Oggi il clima è profondamente mutato. Il premier Matteo Renzi, pur essendo del Pd, ha inserito tra le priorità del suo governo le riforme nell’ambito della giustizia, che vengono viste come fumo negli occhi dalle frange più estremiste della magistratura. Le chiavi di lettura più dietrologiche accreditano due tesi. La prima ipotizza che queste toghe oltranziste, rivolgendo le loro “attenzioni” all’operato di alcuni esponenti dem, vogliano proprio lanciare messaggi in codice a Palazzo Chigi, affinchè desista dal tentativo di intervenire per legge sul loro status giuridico. La seconda attribuisce analoghe intenzioni bellicose al premier, che ritiene urgente un’azione, anche legislativa, di contenimento dei margini di manovra di certi giudici, spesso inclini ad entrare a gamba tesa nelle vicende politiche italiane, anche quelle del Pd. Forse sono vere entrambe le congetture. Fatto sta che la presunta superiorità morale dei politici di sinistra sembra lasciare gradualmente spazio a un sano realismo. Giudicare situazioni uguali in modo uguale, senza più preconcetti e senza più forzature ideologiche, dovrebbe essere il dogma di una magistratura corretta e realmente indipendente in uno Stato di diritto fondato sull’equilibrata divisione dei poteri. Forse anche in Italia alcune toghe lo stanno imparando.

La solita superiorità morale della sinistra: "L'evasione è di destra". Il democratico ed ex ministro Vincenzo Visco non ha dubbi: "L'evasione fiscale è di destra". Ma Renzi: "È sbagliato", scrive Domenico Ferrara, Venerdì 20/02/2015, su "Il Giornale". La solita superiorità morale della sinistra. La solita sicumera sulle analisi socio-antropologiche. "È di destra": Vincenzo Visco, in una intervista al programma Virus di Rai2, non ha avuto esitazioni quando gli è stato chiesto da che parte stia l'evasione fiscale. La disquisizione dell'esponente democratico si basa sul fatto che siccome "le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile", ecco dunque che non può esserci elusione o evasione che non sia di destra. Non stiamo qui a ricordare gli innumerevoli reati contro il fisco commessi da esponenti o personaggi appartenenti al mondo della sinistra. E neanche a rammentare che Visco è stato ministro delle Finanze nei governi Ciampi, Prodi e Amato. Perché è vero che si è sempre battuto per contrastare questa piaga sociale, ma è altresì vero che ieri ha anche dichiarato: "Il partito degli evasori è sempre al governo, adesso meno di quanto non fosse prima". Seguendo la strada del sillogismo, si dovrebbe allora dedurre che anche negli esecutivi di sinistra ci siano stati e ci sono evasori. E ciò potrebbe pure combaciare con quanto asserì in pompa magna Visco nel 2007, quando disse: "In 5 anni l'evasione non sarà più un problema. Dateci tempo, consentiteci di rafforzare l'amministrazione finanziaria e l'evasione fiscale non sarà più un problema nel giro di 5 anni". Evidentemente qualcosa è andato storto. Ma non è questo il punto. Che la lotta all'evasione sia un cancro da estinguere è fuori discussione. Non si capisce però perché, invece di considerarla una lotta apartitica e incolore (parliamo di quello politico), una parte della sinistra debba continuare a relegarla negli androni della destra e seguiti a ergersi all'unico medico capace di guarire la società dalla peste. Il ragionamento di Visco non è piaciuto nemmeno al segretario del suo stesso partito, nonché capo del governo. "Tu non puoi dire che l'evasione è degli altri e che i tuoi sono bravi. Perché quando dici una cosa del genere stai dando l'idea di una superiorità morale rispetto agli altri", ha tuonato Matteo Renzi. Che poi ha aggiunto: "Dire che l'evasione di destra è sbagliato. L'evasione è di quelli che rubano allo Stato e va perseguita senza pietà". 

La Superiorità Morale della Sinistra non esiste, scrive Nino Pepe venerdì 29 aprile 2016. Il Partito Democratico sta governando, con poche eccezioni a livello locale, l’intera penisola, e ha in mano le leve di quel potere per il quale nel mondo ci si scanna senza pietà. Sta facendo buon uso di questo potere? La nostra democrazia è un vero governo del popolo, oppure siamo governati da una oligarchia autoreferenziale che fa i propri interessi? Confesso che, se da un lato è facilissimo rispondere a questa domanda fondamentale, dall'altro lato la risposta dovrebbe spingerci a tirare le somme e ad agire in conseguenza. Intanto la cosa che in questi ultimi mesi e soprattutto in queste ultime ore tiene banco e dà anche fastidio è una questione morale grande quanto una casa e anche di più. Siamo governati da un partito erede del PCI che alcuni decenni fa sollevò la famosa “questione morale” che risolse in maniera piuttosto manichea, dando una patente di “superiorità” alla sinistra. Adesso che finalmente il partito comunista, per mezzo dei suoi eredi, ha conquistato il potere in Italia, mi sembra quanto mai opportuno farci delle domande. Dov'è la (presunta e mai dimostrata) superiorità morale della sinistra? vista la serie interminabile di malefatte che sta annegando il PD in un mare di inchieste e di processi? La buonanima di Enrico Berlinguer si starà rivoltando nella tomba di fronte alla deriva che sta travolgendo gli eredi del suo vecchio PCI. Bisogna insistere su un punto fondamentale, altrimenti rischiamo di avvitarci in concetti che non hanno riscontro nella realtà: LA SUPERIORITA’ MORALE DELLA SINISTRA NON ESISTE, non è mai esistita nella realtà, ma soltanto nei discorsi di rappresentanti del PCI e dei partiti che ne hanno continuato l’opera e la funzione nella società e nella politica italiana. L’ultimo, l’attuale Partito Democratico, sta letteralmente franando sotto le inchieste delle Procure che stanno evidenziando oltre alla disonestà individuale delle persone anche una pericolosa contiguità con la malavita organizzata. Non è più questione di “compagni che sbagliano” o di “mariuoli” come venivano benevolmente chiamati i disonesti di una volta, di casi isolati, ma, considerato il numero impressionante di inchieste bisogna parlare di un sistema perverso, di un modo di agire in cui sta sprofondando il partito. Vogliamo scendere nei particolari? Lo scandalo più impressionante è Mafia Capitale, quello che ha portato alla caduta di Ignazio Marino, anche lui indagato ma per altri motivi. Il PD vi è invischiato a tutti i livelli, dai presidenti dell’assemblea capitolina agli assessori come Daniele Ozzimo, ai rappresentanti dei Big del partito, e perfino ai semplici portaborse, per non parlare delle coop rosse che si facevano assegnare fior di appalti dietro elargizioni di consistenti mazzette di denaro. Già sono arrivate le condanne di primo grado. Altro gravissimo scandalo per il PD è quello dei rimborsi elettorali percepiti indebitamente, che ha portato alla condanna, sempre in primo grado, dell’ex senatore Luigi LUSI. Vogliamo parlare delle spese pazze delle regioni? Decine e decine di consiglieri regionali del PD sono sotto inchiesta, compresi alcuni che adesso sono diventati parlamentari. Qualcuno è uscito subito da queste inchieste, altri, come, ad esempio, Francesca Barracciu che si è dovuta dimettere dalla carica di sottosegretario alla cultura del governo attuale, finiranno a processo. In Liguria mezza giunta, compreso Claudio burlando, ex governatore nonché ex ministro, è indagata per disastro ambientale colposo nell'inchiesta sull'inquinamento della centrale a carbone di Vado Ligure della Tirreno Power, per tanto tempo di proprietà di quel sinistro ceffo di Carlo De Benedetti. Filippo Penati, accusato di gravissimi episodi di tangenti nel cosiddetto “sistema Sesto” è uscito dal processo per corruzione e concussione grazie alla prescrizione, nonostante avesse promesso che non se ne sarebbe avvalso. Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna si è dovuto dimettere a causa di finanziamenti irregolari ad una Coop presieduta, guarda caso, da suo fratello. Lo stesso Errani è stato processato per falso ideologico nello scandalo “Terremerse”, assolto in primo grado, è stato condannato in appello. Non è finita: Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, è stato arrestato nell'inchiesta sui fondi neri del Mose, il sistema di dighe contro l'acqua alta. Mimmo Consales sindaco di Brindisi è stato condannato agli arresti domiciliari per avere intascato tangenti nella gestione dei rifiuti. Nella città di Firenze (ne sai qualcosa, RENZI?) due assessori più l’ex capogruppo del consiglio comunale sono stati condannati per irregolarità in appalti di opere pubbliche. In Sicilia l’ex senatore Vladimiro Crisafulli è stato indagato per una serie di reati che vanno dall'apertura abusiva di un'università all'abuso di ufficio per il trasferimento di un prefetto. Perfino a Brescello, il comune di Don Camillo e Peppone, il sindaco si è dovuto dimettere perché accusato di contiguità con la ‘ndrangheta. Ricordiamo le recenti dimissioni del ministro Federica Guidi che sono state provocate dall'inchiesta sul petrolio in Basilicata che riguarda anche il sindaco Pd di Corleto Perticara. In Campania quello che sta succedendo in queste ore è sotto gli occhi di tutti. E inoltre i PM stanno facendo emergere pericolosi legami delle giunte rosse di Ischia, Villa Literno, Ercolano, San Giorgio a Cremano, Casavatore e Villa di Briano con il crimine organizzato. Qualche giorno fa è stato arrestato il sindaco di Santa Maria Capua Vetere. Ovviamente non parliamo di tutti gli scandali in cui sono coinvolti esponenti del PD, altrimenti l’articolo sarebbe risultato troppo lungo. Questi sono i nostri governanti, questi sono i parlamentari che abbiamo votato. Quando ci daranno la possibilità di tornare a votare così li mandiamo tutti a casa? DOMANDA FINALE: Dov'è la presunta SUPERIORITÀ MORALE della sinistra? 

Mani Pulite, la madre di tutte le gogne, scrive il 29 Maggio 29 2017 Maurizio Tortorella su "Tempi". La nascita del processo mediatico. La morte (sinistra) del garantismo. La viltà della politica. A 25 anni da Tangentopoli, una conversazione “in attesa di giustizia” con Carlo Nordio e Giuliano Pisapia. A 25 anni di distanza dall’avvio della sarabanda mediatico-giudiziaria di Mani pulite, e mentre su Sky parte lo sceneggiato 1993 (seconda serie di 1992) e su History Channel va in onda l’omonimo documentario, la “giustizia spettacolo” sembra la stessa di allora. Le intercettazioni sfuggono ancora di mano agli inquirenti e finiscono sui giornali; le inchieste continuano a trasformarsi in clave politiche; ci sono perfino procure che ancora si guardano in cagnesco, ognuna sicura d’incarnare una superiore virtù. Insomma, i vizi peggiori di Tangentopoli sono sempre qui, tra noi, e in un quarto di secolo sette diversi Parlamenti sembrano non essere riusciti a fare un passo in avanti. Di certo non si sono esauriti alcuni effetti negativi della stagione di Mani pulite. Al contrario, una politica sempre più stanca (e sempre meno capace) pare masochisticamente felice di subire i morsi avvelenati del populismo giudiziario. E di venirne contagiata, riducendosi a uno zombie. Ai guasti di Tangentopoli, Tempi dedica gran parte di questo numero. E in queste prime pagine mette a confronto due protagonisti di quella stagione. Da una parte Carlo Nordio, 70 anni, nel 1992-’93 pm anticorruzione in Veneto e fino a tre mesi fa procuratore aggiunto a Venezia, dove ha condotto l’ultima grande inchiesta sul Mose, la barriera antimaree. Dall’altra parte Giuliano Pisapia, 67 anni, penalista milanese, deputato indipendente nelle liste di Rifondazione comunista e presidente della commissione Giustizia della Camera, poi sindaco di Milano fino al 2016 e oggi leader di Campo progressista. Rispetto alle polemiche di venticinque anni fa, Nordio e Pisapia hanno un atout particolare: sono stati entrambi dentro quella storia, ma ne sono rimasti al di sopra, per un’onestà intellettuale che viene riconosciuta loro perfino dagli avversari. Lo hanno dimostrato anche con un saggio, pubblicato nel 2010 (In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili, Guerini), dove discutevano delle malattie del sistema. Sette anni dopo, quel dialogo riprende nella redazione di Tempi.

Perché Tangentopoli partì proprio nel 1992-’93? E perché, 25 anni dopo l’avvio di Mani pulite, non riusciamo a scrollarci di dosso tanti dei problemi di allora, a cavallo tra giustizia e politica?

Nordio: Ho visto la fiction 1993, e m’è venuta in mente la Rivoluzione francese: quando nel 1789 cade la Bastiglia, nessuno può pensare che nel 1793 cadrà la testa di Luigi XVI e inizierà il Terrore. Allo stesso modo, con un parallelismo allarmante, due secoli dopo nel 1989 crolla il Muro di Berlino e nel 1993 accade quello di cui stiamo discutendo. Perché con il Muro cade anche il Pci, seppure trasformandosi. A quel punto un sistema che manteneva in piedi la Dc in funzione anticomunista si è trovato privo di giustificazione. Ed è intervenuta la magistratura perché è emerso il sistema delle tangenti, che tutti conoscevano: si finanziavano il Pentapartito e il partito di opposizione. E si è scoperto che ognuno aveva i suoi partiti di riferimento. In Veneto il 40 per cento andava ai socialisti, il 40 ai democristiani, il 20 ai comunisti. Immagino che nelle altre regioni le quote variassero di poco. Ma questo sistema non era più giustificato perché non era giustificata l’esistenza dei due partiti principali. Allora è esplosa a catena questa bomba atomica. Intendiamoci, le indagini contro socialisti, democristiani e qualche coop rossa c’erano state anche prima, ma si erano tutte fermate davanti a un muro di silenzio perché nessun imprenditore avrebbe mai confessato di aver dato soldi ai democristiani o ai socialisti: sarebbe uscito dal mercato. Invece nel ’92 è avvenuto il contrario. E appena sono stati arrestati, hanno cominciato a confessare. Con qualche eccesso…

Nordio: La magistratura ha usato una mano pesantissima. Io sono stato uno dei primi ad ammettere che, qualche volta, eravamo intervenuti anche troppo pesantemente per far parlare gli arrestati. Ma è stato così perché abbiamo scoperto l’inferno. Abbiamo aperto il pentolone e visto una realtà devastante. Tutto era stato “tangentato”, da tutti. Poi era facile scoprirne alcuni e più difficile con altri, però questo era il sistema.

Pisapia: Nordio ha detto che «tutti conoscevano». Non condivido. Perché il livello di corruzione e di finanziamenti illeciti, e soprattutto la spartizione concordata tra i partiti, colpì gran parte dei cittadini, ovviamente a parte i diretti interessati e le persone loro vicine. Chi come me allora era impegnato politicamente, senza alcun ruolo, rimase molto meravigliato di quel che si scoprì. Anche i magistrati milanesi, secondo me, non lo sapevano. Piercamillo Davigo lo ha scritto: «Tutti sapevano… io non sapevo». Condivido pienamente, invece, che quella del 1992-’93 sia una situazione irripetibile: chi fu aggredito da quelle indagini, politici e imprenditori, non se l’aspettava. Poi credo difficile possa ritornare il metodo della “catena”, usato allora dalla magistratura inquirente: «Se non vuoi andare in carcere, devi dirci tutto». Anche i partiti sono in una situazione molto differente per forza, presenza e partecipazione, e le necessità economiche che avevano allora sono cambiate. D’altra parte, forse, anche gli imprenditori hanno avuto una lezione. Quindi si è rotto il sistema di partiti che si finanziavano attraverso corruzione e finanziamento illecito. Io non credo però che gli imprenditori abbiano parlato perché non ce la facevano più a pagare tangenti: hanno parlato perché avevano paura del carcere.

C’è stata una differenza di trattamento nei confronti del Pci-Pds?

Nordio: Un’indagine come quella di Mani pulite va avanti se un imprenditore parla e fa il nome di due politici, se i due politici a loro volta fanno il nome di altri quattro imprenditori, se i quattro imprenditori fanno il nome di otto politici… Così hai una reazione a catena che esplode. A Milano sono state indagate migliaia di persone in pochi mesi. Ma se uno non parla, la bomba non esplode perché non c’è la reazione a catena. È quello che è successo col Pci-Pds: proprio come dice un suo esponente nella fiction 1993, nessuno ha parlato e così l’indagine non è andata avanti.

Pisapia: Che le toghe di Milano fossero “toghe rosse”, è assolutamente fuori dalla realtà. Indagini e processi sul Pci ci sono stati, anche con alcune condanne. Ma condivido che, se le indagini sul Pci in alcuni casi si sono bloccate e non si è creato tutto quel ciclo, è perché quel partito aveva ancora una compattezza che invece gli altri non avevano. Che la procura di Milano abbia avuto un ruolo fondamentale come punto di riferimento, non so se voluto o subìto, è innegabile. Il problema è che da lì sono nati tanti piccoli Antonio Di Pietro, che hanno combinato solo pasticci, che hanno fatto indagini senza alcuna concretezza. Questo, e il fatto che molti magistrati abbiano cominciato a partecipare attivamente alla vita politica, anche candidandosi in Parlamento, ha sicuramente indebolito e limitato la grande fiducia e la delega che in quel periodo era stata affidata alla magistratura.

È però proprio allora che nasce il ruolo “politico” della magistratura: il pool si ribella prima al decreto Conso, che nel 1993 voleva depenalizzare l’illecito finanziamento dei partiti e fu per questo definito «colpo di spugna», poi nel 1994 al decreto Biondi che per il reato di corruzione favoriva gli arresti domiciliari. Perché la politica ha ceduto?

Nordio: La magistratura ha occupato un vuoto di potere che già si era manifestato chiaramente. Quel vuoto raggiunse il suo momento più evidente, con la subalternità se non con la viltà della politica, proprio con quei due decreti che furono entrambi ritirati. Nel secondo caso, i “quattro cavalieri” del pool andarono in tv e proclamarono: «Questo decreto non ha da passare, altrimenti ci dimettiamo». Lì iniziò la frana della politica. Perché la sua reazione fu: «È un’invasione di campo intollerabile, un colpo di Stato delle toghe». Ma il decreto venne ritirato. Una politica seria avrebbe dovuto fare il contrario, e rispondere così: «Voi siete quattro pm che vanno in televisione a chiedere un atto politico, cioè il ritiro di un decreto. Primo: non potreste farlo se foste giudici, ma poiché siete pm noi vi riconosciamo il diritto di farlo e quindi da domani separiamo le carriere. Secondo: avete annunciato che ve ne andrete se il vostro appello non sarà accolto. Benissimo, noi manteniamo il decreto, voi fate quel che volete». Invece è successo il contrario: la politica ha protestato, come certi cagnolini, ma poi si è tirata indietro. Le dighe si sono rotte e i magistrati hanno capito che potevano fare quello che volevano. E lì è iniziata anche la loro discesa in campo in politica, come non era mai accaduto.

Pisapia: La politica allora non seppe rispondere e i motivi sono due: ormai c’era una delega da parte della cittadinanza alla magistratura per cercare di sconfiggere e contrastare la corruzione diffusa e una cattiva politica che mirava soprattutto al potere e non a fare le riforme necessarie. Non è giusto generalizzare, anche perché molti credevano, e credono, nell’impegno politico come servizio. Non dobbiamo poi dimenticare che a molti magistrati del pool venne offerta da quasi tutti i partiti la possibilità di candidarsi nelle loro liste, o addirittura di fare i ministri. Anche il centrodestra, con Silvio Berlusconi, lo propose a singoli magistrati del pool di Milano, ricevendo però risposte negative. Il centrosinistra invece ottenne alcune risposte positive (il primo fu Antonio Di Pietro, che nel 1997 si candidò con l’Ulivo, ndr).

Ma in quel momento la procura di Milano credeva realmente di avere una visione moralizzatrice? Ed era già “politica”, quella missione?

Nordio: Rispondo con una citazione dei lirici greci, che dicono che gli dèi accecano quelli che vogliono fare cadere. E alcuni magistrati, anche a Milano, sono stati accecati; e la loro caduta è stata rovinosa. Ricordo che Di Pietro aveva addirittura evidenziato l’idea di «esportare Mani pulite nel mondo». È vero che in quel momento molti magistrati si sentirono investiti di questa missione salvifica, avevano una tale densità di consenso alle spalle…

Pisapia: Sicuramente è emersa quella visione salvifica da parte della procura, e probabilmente il ragionamento è stato: ora o mai più.

Poi è iniziata la Seconda Repubblica e una fase nuova: con Berlusconi, sulla giustizia e sui magistrati, il paese si è diviso.

Nordio: È successo proprio quando dai partiti storici le indagini si sono spostate su Berlusconi. Il paese si è spaccato. E non solo per motivi di destra o sinistra, ma perché a monte di tutti i processi su Berlusconi c’è un “sacrilegio”, che è la notifica della famosa comunicazione giudiziaria del Pool al presidente del Consiglio, recapitata preventivamente attraverso il Corriere della Sera. Non si è mai scoperto il responsabile. Spedire un’informazione di garanzia in quel modo ha esasperato gli animi. Da quel momento il paese è diviso in due tra chi ha visto in Berlusconi un tycoon chiacchierato e chi un martire, e ancora oggi siamo fermi a quel punto. Inoltre, poiché molti suoi processi si sono conclusi con l’assoluzione nel merito, questo dimostra che probabilmente alcuni di quei processi non erano fondati. Così c’è chi vede in Berlusconi una vittima della giustizia.

Pisapia: Un’altra differenza è che Mani pulite è riuscita a partire da un arresto in flagranza di reato (quello di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, ndr) per poi arrivare alle confessioni di politici e imprenditori. Con Berlusconi invece i pm hanno ripreso a fare indagini, anche con rogatorie internazionali per scoprire conti correnti all’estero e acquisendo prove di condotte illegali. Ho sempre creduto nell’autonomia della magistratura, ma anche nell’autonomia della politica. Un conto è contrastare l’illegalità, altra cosa è l’intervento legislativo contro cui, se non sei d’accordo, tocca ai politici o agli elettori fare quanto è possibile per contrastarlo. Il rischio che l’intervento giudiziario si trasformasse in intervento politico non è stato avvertito da parte della magistratura, ma è stato sentito da parte di alcuni come un “accanimento terapeutico”. Però era cambiato totalmente il clima. Tant’è vero che i processi nei confronti di Berlusconi non riguardavano il suo impegno politico, ma le sue aziende e alcune condotte illegali anche precedenti alla sua discesa in campo. In alcuni processi è stato condannato (quello sui diritti tv Mediaset, nell’agosto 2013, ndr), in altri assolto e altri ancora non sono terminati.

A partire da Tangentopoli è stato fatto molto uso della gogna mediatico-giudiziaria. È “colpa” anche del codice di procedura penale, entrato in vigore alla fine del 1989?

Nordio: In parte sì. L’informazione di garanzia nasce come tutela di chi la riceve. Ma i 25 anni precedenti avevano dimostrato che queste forme di difesa anticipata, di cui continuavano a cambiare i nomi (avviso di reato, avviso di garanzia…), erano in realtà una condanna anticipata. Quindi già il codice, nel momento in cui ha introdotto l’istituto, avrebbe dovuto porsi il problema che, se dopo tanti fallimenti non si era risolto il problema, forse era il caso di evitare di continuare sulla stessa strada.

Pisapia: Nel 1989 si aveva ben chiaro il limite della pubblicazione degli atti. Nella “commissione per la formulazione delle norme di procedura penale”, che aveva lavorato al nuovo codice, l’orientamento era chiaro: il dibattimento è pubblico, le indagini sono segrete. Il codice è chiaro: gli atti d’indagine non sono pubblicabili fino al termine delle indagini preliminari e fino a quando l’indagato non diventa imputato. E questo a tutela anche, se non soprattutto, delle indagini. Non dimentichiamo che, se si escludono i riti alternativi come il processo abbreviato, la prova si forma nel contraddittorio delle parti nella fase dibattimentale.

È un problema che continuiamo a trascinarci ancora oggi. Anche nelle cronache più recenti, con Matteo Renzi e la telefonata intercettata con suo padre Tiziano…

Pisapia: Sì, e credo che su questo l’Ordine dei giornalisti dovrebbe fare molto di più, perché il problema è anche deontologico. Si spera sempre nella professionalità dei pm e nella correttezza dei giornalisti, ma è ovvio che si deve rispettare la dignità dell’indagato e delle persone estranee alle indagini. La soluzione non può certo essere il carcere o una sanzione per il cronista. In caso di fuga di notizie segrete, bisogna fare di tutto per scoprire i colpevoli, anche perché lo prevede la Costituzione: l’azione penale è obbligatoria.

Nordio: È giusto che un giornalista, quando trova una notizia, la pubblichi. Questo salvo eccezioni come il segreto di Stato o la compromissione delle indagini. Ma se un cronista ha le intercettazioni di un tizio che parla con l’amante, la domanda è: perché le ha? Perché il pm o la polizia giudiziaria lo hanno consentito. Ed è lì che bisogna intervenire.

Pisapia: Un passo avanti mi sembra sia venuto dalla circolare dei procuratori di Roma, Milano e Torino, che invita i pm, in caso di richiesta di ordinanza cautelare, a non utilizzare intercettazioni o atti che non abbiano effettiva rilevanza penale o che non siano indispensabili per quella richiesta. Dovrebbe essere recepita dal Parlamento.

Nordio: Sarebbe un altro esempio di subalternità.

Pisapia: Ma è quantomeno un tentativo di limitare i danni.

Nordio: Questo è vero. Del resto, al pm basta inserire virgolettati scabrosi in una richiesta di custodia cautelare. Vi siete mai domandati perché ci siano ordini di custodia cautelare di 700 pagine? Perché il giudice delle indagini preliminari quasi sempre fa un «taglia e incolla» e così ci trovi dentro intercettazioni di ogni tipo, anche sessuali. Perché? Perché ti dicono che anche quelle sono importanti per “capire”.

E perché oggi la sinistra è così poco garantista? È un portato della sua presunta “superiorità morale”, postulata ai tempi del Pci di Enrico Berlinguer?

Pisapia: Io non ho mai creduto alla superiorità morale della sinistra. Però sicuramente quel sentirsi moralmente superiori e quindi “onesti contro disonesti”, ha portato in molti casi, nel momento in cui è scoppiata la bufera giudiziaria, a essere acriticamente dipendenti dall’attività giudiziaria. Credo sia stato un grave errore della sinistra, un boomerang, la delega alla magistratura di questioni reali che riguardavano la politica e che la politica non era in grado di affrontare. E infatti ha avuto effetti negativi proprio con le vittorie di Berlusconi. Perché da un lato la destra ci ha sottratto il garantismo, che dovrebbe essere nostro patrimonio visto che proprio la sinistra è tradizionalmente più attenta ai diritti e alle garanzie: non solo quelle sociali, ma anche individuali. Utilizzare, e spesso strumentalizzare, le inchieste giudiziarie per la lotta politica va contro il mio sentire e, tutto sommato, anche contro la divisione dei poteri prevista dalla nostra Costituzione. In questi ultimi due anni la strumentalizzazione delle inchieste da parte del Movimento 5 Stelle e della sinistra, spesso soltanto davanti a un avviso di garanzia, è stata deleteria. Soprattutto per la credibilità della politica: perché a quel punto l’idea che si forma il cittadino è quella che sono tutti delinquenti.

Nordio: Io non faccio politica e anche se ora sono in pensione non la farò mai.

Pisapia: Mai dire mai!

Nordio: No, non c’è proprio pericolo. Comunque, non sarei nello schieramento di Pisapia. Ma quando parliamo di questi temi noi due apparteniamo, se non allo stesso partito, quantomeno alla stessa area culturale. Sottoscrivo in pieno tutto quello che ha detto lui: sotto il profilo ideale e delle conseguenze politiche. Mi ha sempre stupito il fatto che la sinistra, che non solo per tradizione ma per matrice culturale dovrebbe esser garantista, negli anni sia diventata così forcaiola. In realtà dovrebbe essere garantista perché è sempre stata dalla parte del più debole. E nel processo penale, paradossalmente, davanti a un pm il forte è debole; e più è forte più diventa debole. Perché ha più da perdere. I poveri cristi a volte non si presentano nemmeno all’interrogatorio. Il ricco invece arriva lì, come un cencio: per via dell’immagine.

Nel 1992-93 risultò evidente che i gip, i giudici delle indagini preliminari, erano troppo vicini ai pm. Si capì allora che la mancata separazione delle carriere era un problema centrale. Oggi, 25 anni dopo, i penalisti stanno ancora raccogliendo firme per una riforma costituzionale. Voi che cosa ne pensate?

Pisapia: Il problema è reale, ma non credo che incida sulla celerità o sull’efficienza della nostra giustizia. Bisogna riconoscere del resto che, rispetto al passato, sono stati fatti passi avanti anche rilevanti. Un tema come quello della separazione delle carriere è forse uno di quelli da affidare ai cittadini, soprattutto in un momento in cui la politica è particolarmente debole. Dev’essere chiaro, però, che non può e non deve essere messa in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Non solo quella giudicante, ma anche quella inquirente.

Nordio: La separazione delle carriere avrebbe dovuto essere l’inevitabile conseguenza dell’introduzione del processo accusatorio. Trovo assurdo, peraltro, che nel Consiglio superiore della magistratura i pm giudichino i loro colleghi giudici, magari gli stessi che hanno dato loro torto nei processi. Comunque, nello sfascio generale della giustizia penale, non credo sia il problema più urgente. Non sono sicuro nemmeno che il referendum sia la strada migliore. Si è visto anche con l’ultimo referendum costituzionale, quello del 4 dicembre: il referendum rischia sempre di essere snaturato, come è stato l’ultimo, con personalizzazioni del voto. Indebite o dovute che siano.

Io, ex toga Md vi racconto come i giudici di sinistra sono diventati un partito. Negli anni Settanta i movimenti eversivi rossi trovarono un appoggio nella magistratura. Così i pm avrebbero fatto la guerra alla borghesia, scrive Sergio d'Angelo, Mercoledì 27/11/2013, su "Il Giornale". La magistratura non è più un ordine costituzionalmente riconosciuto, bensì un disordine legato soltanto dalla velleitaria individuazione di quello che appare di volta in volta il nemico comune da combattere. Magistratura democratica nacque nel 1964, coagulando intorno a sé magistrati genericamente «di sinistra» o «progressisti»: i suoi aderenti erano particolarmente motivati dall'affermazione della piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico ed alla struttura gerarchica dei giudici. Il 30 novembre 1969, tuttavia, la formazione si spaccò: ne uscirono tutte le componenti moderate, accusando la frazione di sinistra di essere troppo sbilanciata a favore dei nuovi movimenti operai e studenteschi sorti nel '68. L'occasione della rottura fu rappresentata dal «caso Tolin». Francesco Tolin era direttore del periodico Potere Operaio, che il 30 ottobre 69 pubblicò un articolo dal titolo Sì alla violenza operaia, che portò successivamente alla condanna del direttore a 17 mesi di carcere senza condizionale. Una parte di Md si schierò in difesa dell'articolo contro i reati di opinione, e successivamente criticò con toni molto duri la sentenza di condanna: atteggiamenti che non furono tollerati dalla parte moderata di quel raggruppamento, che diede successivamente vita alla corrente «Impegno Costituzionale». Questi ultimi, dunque, rimasero fermamente ancorati alle regole dello Stato di diritto, pur rivendicando ai giudici il potere-dovere di applicare integralmente i dettami della Carta Costituzionale, e la piena autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto al potere politico, senza mai uscire dai canoni tradizionali della legge: certezza del diritto, generalità ed astrattezza della norma da applicare al caso concreto. Solo in Italia i movimenti eversivi di estrema sinistra trovarono un appoggio nella più conservatrice delle corporazioni: la magistratura. Fu un caso? Certamente no, e in seguito se ne spiegheranno le ragioni. Alla neonata Md era necessario fornire un background politico che le garantisse una forte connotazione di sinistra (anzi, di estrema sinistra): per questo non c'erano eccessivi problemi, in quanto la maggior parte delle teste pensanti di quel gruppo si erano formate - negli anni '67/74 - nei grandi calderoni politico-ideologici che erano in quel periodo le Università, e trovavano un forte supporto nei movimenti antagonisti emergenti. Fu Luigi Ferrajoli, mente finissima e giurista eccellente, poi uscito dalla magistratura per abbracciare la carriera accademica) il cuore pulsante dell'elaborazione politica della nuova Md, che vedeva nei gruppuscoli extraparlamentari di sinistra i portatori del «sol dell'avvenire», i quali avrebbero inevitabilmente abbattuto lo Stato borghese e le sue disuguaglianze di classe. Con il documento Per una strategia politica di Magistratura Democratica Ferrajoli - insieme a Senese ed Accattatis - presentò una relazione al congresso della nuova Md tenutosi a Roma il 3 dicembre 1971, in cui la piattaforma politica del raggruppamento definiva la «giustizia borghese come giustizia di classe» e la stessa Md «come componente del movimento di classe», che avrebbe dovuto far ricorso alle «contraddizioni interne dell'ordinamento: la giurisprudenza alternativa consiste nell'applicare fino alle loro estreme conseguenze i principi eversivi dell'apparato normativo borghese». Il giurista Tarello, nella sua relazione, concludeva l'intervento in termini estremamente preoccupati, affermando che «...questo tipo di analisi politica porta a favorire non una vera indipendenza ma piuttosto una dipendenza e un controllo della magistratura». Nessuno, allora e per molti anni a venire, colse appieno il pericolo (e il segnale) che poteva derivare dalle teorizzazioni di Ferrajoli e del gruppo toscano, e dalla critica aspra di Tarello: nessuno, tranne i membri di Md più vicini al Pci e - molto tempo dopo - i massimi dirigenti di questo partito. Una risposta alla strategia politica messa in campo dai giudici di estrema sinistra fu data da Domenico Pulitanò - giudice di Milano notoriamente legato all'epoca al Pci: «La prassi dei magistrati democratici si pone e vuole porsi come alternativa non già ai valori democratico-borghesi (il che rischierebbe di portarci oltre la legalità) ma alle loro deformazioni autoritarie nella giurisprudenza corrente. Si può definire un uso alternativo del diritto? Il problema è solo terminologico... L'uso alternativo del diritto, là dove praticabile, è per noi un problema politico prima che teorico, e la discussione metodologica non deve far perdere di vista il fine politico». Non servono parole ulteriori per chiarire quale differenza abissale di prospettive vi fosse tra l'estrema sinistra e la sinistra moderata di Md: l'uso alternativo del diritto, infatti, non era per nulla un «problema terminologico». Intorno ad esso si giocava una scelta di campo di dimensioni storiche, perché, a memoria, per la prima volta una parte consistente (e soprattutto ben attrezzata culturalmente) della burocrazia statale si schierava nella lotta di classe, sentendosene pienamente partecipe. Dopo di allora, la frazione filo-Pci di Md praticò una sorta di entrismo: né aderire né sabotare, ma restare in attesa, secondo il vecchio principio leninista pas d'ennemi à gauche («Neanche un nemico a sinistra») nella sua accezione meno truculenta e stalinista. La magistratura milanese - dove pure la frazione di estrema sinistra di Md era la più forte d'Italia - si adeguò pienamente a questa tattica.

"In Italia il partito dei giudici fa e disfa le leggi da decenni". L'ex senatore: «Le continue invasioni di campo non nascono per caso I magistrati si sentono depositari della volontà popolare, un'anomalia», scrive Stefano Zurlo, Sabato 23/04/2016, su "Il Giornale". Prende una sentenza del 2009. E legge il passo decisivo in cui la Cassazione rivendica, testualmente, «la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della cosiddetta giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte di diritto». «Ecco - riprende Giuseppe Valditara, ex senatore di Fli e professore ordinario di Diritto romano all'università di Torino - la Suprema corte ci dice che il giudice è una fonte autonoma di diritto. È sconvolgente, capisce? Perché solo in Italia la magistratura arriva a concepirsi come soggetto normativo che affianca e sostituisce il legislatore. Le leggi, per capirci, le fa il Parlamento, ma la Cassazione si mette sullo stesso piano. Succede solo nel nostro Paese, ma la nostra storia è un susseguirsi di anomalie, una più inaccettabile dell'altra. Tutto si tiene». Tutto si spiega. Anche le feroci polemiche di queste ore. Piercamillo Davigo, neopresidente dell'Associazione nazionale magistrati, parla al Corriere della Sera e liquida la nostra classe dirigente: «I politici rubano più di prima, ma adesso non si vergognano». Scintille e ancora scintille sullo sfondo di un conflitto fra poteri che va avanti da troppi anni. Valditara ha appena scritto il libro Giudici e legge che vorrebbe essere una meditazione scientifica e tecnica sulla magistratura tricolore, ma basta sfogliare quelle trecento pagine dense di citazioni per incrociare l'attualità bruciante, le polemiche chi si ripetono sempre uguali, le esternazioni del partito dei giudici e di tutto l'armamentario del giustizialismo italiano.

Professor Valditara, perché parla di anomalie italiane?

«Perché le continue invasioni di campo delle toghe non nascono per caso».

Più d'uno a sinistra ci aveva spiegato che i giudici alzavano la voce per rispondere alle provocazioni e agli sconfinamenti di Berlusconi.

«Ma no. Quella è una battaglia dentro una guerra molto più lunga e complessa. Bisogna tornare indietro agli anni '50».

No, un attimo, partiamo dalla diagnosi: qual è la malattia?

«Gliel'ho detto: i giudici italiani si considerano in qualche modo i depositari della volontà popolare e di fatto scrivono e riscrivono le leggi, le interpretano, le disapplicano, fanno un po' quello che gli pare».

Non le pare di esagerare?

«Ma no. Sono loro a parlare di tutte queste cose. Prendiamo il testo della norma sulla legittima difesa, modificato nel 2006».

D'accordo, ma che c'entra?

«C'entra perché la modifica è stata di fatto annullata dai giudici che, interpretando le parole, spesso finiscono per rimettere il padrone di casa che si ribella ai ladri sul banco degli imputati. L'esatto opposto di quel che voleva il legislatore».

Ma come è possibile?

«Non solo è possibile, questo è solo un episodio dentro una strategia molto più aggressiva».

Addirittura?

«La sentenza che riguarda il rapporto fra la Renault e le concessionarie arriva ad un punto estremo: il giudice è autorizzato a modificare il contratto fra le parti. Non so se ci rendiamo conto della portata di questa considerazione: c'è un contratto e la toga lo modifica in base a sue valutazioni. Altro che equilibrio fra i poteri. Qua il partito dei giudici fa e disfa a suo piacimento. E d'altra parte, la sentenza numero uno della Corte costituzionale, nel 1956...»

Si fermi, non possiamo tornare all'ormai lontano 1956.

«E invece dobbiamo. Perché già quel lontanissimo verdetto dice che le norme della Costituzione non hanno un valore solo programmatico. E dunque in questo modo si scardina un'altra porta e si apre un varco enorme: gli articoli della Carta, che hanno un indirizzo politico, vengono applicati al caso concreto dal giudice che quindi esce dal recinto tecnico e fa politica, saltando la legge ordinaria. Siamo all'interpretazione costituzionalmente orientata».

In concreto?

«Per fare un esempio paradossale il giudice potrebbe arrivare ad annullare un contratto di affitto».

E perché?

«Perché potrebbe giudicare troppo alto il canone in relazione all'articolo 2 della Costituzione e dunque al dovere di solidarietà politica, economica, sociale».

Dunque, con la sentenza del 1956 i giudici cominciano a fare politica?

«Certo. Si avvia quel percorso perverso che arriva fino al verdetto che ricordavo del 2009. Con tutte le conseguenze che conosciamo».

Sia più esplicito.

«Solo in Italia la magistratura è organizzata per correnti che sembrano clonare i meccanismi e le divisioni del Parlamento».

Siamo a Magistratura democratica, alle toghe rosse...

«In proposito c'è un testo esemplare del 1970 di Franco Marrone. Marx ha affermato - nota Marrone - che il diritto non dà niente, ma sanziona solo ciò che esiste. Che cosa esiste attualmente nella nostra società? Esiste il dominio di una classe, quella borghese, sulle altre. Chiaro? Il resto è solo uno sviluppo coerente di quel programma: un'oligarchia al posto della democrazia».

Chi guida il partito dei giudici. Inchieste che diventano programmi elettorali, pm che scoprono di avere la spalla giusta per provare a governare. Così il 5 stelle da portavoce del popolo è diventato il portavoce delle procure. Giù la maschera, Beppe, scrive Claudio Cerasa su "Il Foglio" il 6 Aprile 2016. Possono mettersi il rossetto, indossare la minigonna, travestirsi da establishment, mascherarsi da imprenditori e dichiararsi maturi ripulendosi il volto, rasandosi bene la barba, indossando vestiti di buona sartoria, parlando un ottimo inglese e mostrandosi al pubblico e agli elettori con un volto diverso, nuovo, rinnovato, maturo, presentabile, direbbe qualcuno. Ma il risultato alla fine non cambia e anche le cronache di questi giorni, legate all’inchiesta della procura di Potenza, ci dicono, senza possibilità di fraintendimento, che, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, esiste un partito che ambisce a essere di governo e ha una caratteristica unica nel suo genere. Una caratteristica che va raccontata per quello che è e che va descritta depurandola dalla cosmetica elettorale delle accattivanti Raggi e Appendino e Associati. Il punto è semplice e vale la pena di spiegarlo in modo chiaro e lineare. Che cosa ci dicono le reazioni del Movimento 5 stelle di fronte a inchieste come quella di Potenza che in un certo modo “sfiorano” la politica? Che lettura bisogna dare al fatto che ogni attacco dell’Anm sia supportato e rilanciato dall’universo grillino (compreso lo schiaffo dato ieri dall’Anm lucana al premier: “Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti”). E infine: che significato ha avere in Italia un partito, potenzialmente di governo, che trasforma sistematicamente indagini, inchieste, sentenze di un magistrato (con tutto il corredo vario di intercettazioni, brogliacci, interrogatori, dichiarazioni dei pm) nella linea ufficiale del proprio movimento?

Il governo degli onesti, diceva Benedetto Croce, è un’utopia per imbecilli, e questo si sa, ma la questione, stavolta, è meno filosofica ed è più politica e si lega a quella che oggi è la vera natura del Movimento 5 stelle, con il suo passaggio da movimento che voleva essere “portavoce del popolo” a movimento che si è affermato invece come “portavoce delle procure” – megafono perfetto di un’Italia che ha imparato a considerare naturale, oltre alla diffusione h24 di letame nei ventilatori di alcuni giornali, la trasformazione di un’indagine in una gogna, di un’intercettazione in una condanna e del processo mediatico in un passaggio normale del processo penale. In passato era già accaduto altre volte che si manifestasse una sovrapposizione plastica tra procure e partiti e in fondo la storia di Antonio Di Pietro (ex pm, che nel 2012 Grillo sponsorizzò per la corsa al Quirinale) è lì a dirci che non è una novità la presenza di un partito (l’Italia dei valori, il cui sito era curato da Gianroberto Casaleggio) costruito a immagine e somiglianza della magistratura politicizzata. La differenza tra ieri e oggi è però altrettanto plastica ed è legata a una possibilità concreta che mai prima d’ora si era manifestata con tanta chiarezza: l’eventualità che un incidente di percorso causato da un’inchiesta capace di sfiorare o infangare il governo possa contribuire a portare acqua nel mulino del partito delle procure. In altre parole, per la prima volta un movimento che fa proseliti tra i magistrati e che si è trasformato nella cassa di risonanza di alcune procure può ambire a diventare un partito di governo anche grazie a una strategia di supporto, chissà quanto involontaria, messa in campo da alcune procure (non certo quella di Potenza, ne siamo certi). Gli elettori, negli ultimi vent’anni, mostrando una certa assennatezza, hanno evitato in più occasioni – Ingroia nel 2013, Casson a Venezia e lo stesso Di Pietro – di premiare più del dovuto il partito dei magistrati (anche se De Magistris ed Emiliano sono comunque lì).

Ma la particolare condizione politica di questo periodo, anche in virtù dell’assenza di un centrodestra non solo credibile ma che dimostri di non essere al traino di Grillo, fa del Movimento 5 sentenze (M5s) il competitor più accreditato nella lotta politica contro il partito della nazione renziano e per questo la sovrapposizione tra grillismo e inchieste della magistratura ha un significato non solo culturale ma anche politico e persino di prospettiva. Per almeno due ragioni. Da un lato l’egemonia grillina sull’opposizione al renzismo ha avuto l’effetto di esasperare gli orrori del circo mediatico-giudiziario (per essere condannati dal tribunale del popolo oggi non serve più neppure essere intercettati ma è sufficiente essere citati da qualcuno in un’intercettazione) e la gran cassa delle inchieste delle procure oggi suona più forte che mai, complice il garantismo farlocco di un pezzo importante dell’universo di centrodestra (vedi editoriale a pagina tre). Dall’altro lato la possibilità concreta che i portavoce delle procure possano essere un domani concorrenziali contro il partito di governo renziano ha fatto sì che lo stesso Pd si sia attrezzato per competere con il Movimento 5 stelle proprio su questo campo (do you know Raffaele Cantone?). Dire che tutti i magistrati italiani siano affascinati dal verbo grillino è ovviamente una sciocchezza, anche perché il processo di rinnovamento nelle procure italiane portato avanti dal Csm sta premiando una nuova e meno interventista e meno ideologizzata generazione di magistrati (occhio a Milano). Dire però che quei magistrati politicizzati che sognano di proiettare sulle inchieste le proprie idee politiche, confondendo i peccati con i reati, abbiano l’occasione di avere un partito competitivo capace di sfruttare fino in fondo il proprio interventismo è dire una cosa vera. Il governo degli onesti resterà per sempre l’utopia degli imbecilli. Ma il governo dei giudici, per la prima volta, non è un’utopia e, tra rossetti, minigonne e travestimenti da establishment, è semplicemente un’alternativa elettorale. Giù la maschera, Beppe.

M5S e magistrati, una storia nata prima di Ivrea, scrive Luca De Carolis il 2 giugno 2017 "Il Fatto Quotidiano".  Il Movimento delle procure, delle manette, garantista solo quando gli serve. L’accusa il Pd l’ha già usata a piene mani, contro il M5S. E adesso riaffiora: perché a Ivrea, al convegno organizzato da Davide Casaleggio “#Sum01 – Capire il futuro” assieme a esperti di vari settori (e a Beppe Grillo), ci sarà anche il procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita. Era previsto anche il procuratore capo di Milano Francesco Greco, che però due giorni fa ha rinunciato, perché a suo dire l’evento ha assunto una eccessiva caratterizzazione politica. Così si riparte da una domanda, quella sul rapporto del M5S con i giudici. E la risposta racconta di un legame stretto. PERCHÉ IL MOVIMENTO ha proposto e votato come presidente della Repubblica un ex pm, Ferdinando Imposimato. Ha come nume tutelare il procuratore antimafia Nino Di Matteo, anche lui nella lista per il Colle. Ospita sul blog di Beppe Grillo interventi dei magistrati più noti: dall’ex presidente emerito della Consulta Valerio Onida a Nicola Gratteri, per arrivare a Piercamillo Davigo. Senza scordare che il M5S è nato anche con i consigli di Antonio Di Pietro, che da leader dell’Idv spiegò a Grillo e Casaleggio senior (che gli curava il blog) come raccogliere le firme e organizzare eventi. I segni si ritrovano nei disegni di legge presentati in Parlamento. Come quelli sulla prescrizione, di cui i 5Stelle inizialmente volevano il congelamento dopo il rinvio a giudizio, per poi attestarsi sullo stop dopo la sentenza di primo grado: ricetta che ricalca quella dell’Associazione nazionale magistrati. Poi ci sono proposte come l’agente provocatore, per stanare i corrotti (sostenuta da Davigo ma anche dal presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone). O il Daspo ai corrotti, ossia il divieto a vita per i condannati per corruzione di lavorare con l’amministrazione pubblica. Ma il M5S e tanti magistrati hanno in comune anche diversi no. Per esempio, alla riforma del processo penale approvata pochi giorni fa alla Camera con il voto contrario dei 5Stelle, osteggiata soprattutto dall’Anm. E sempre a Montecitorio hanno appena dato il via libera anche al ddl sui magistrati in politica, su cui le toghe hanno posizioni variegate. Il M5S invece ha votato contro. Alfonso Bonafede, vicepresidente della commissione Giustizia, spiega: “Il nuovo testo permette ai giudici eletti in politica di fare comunque carriera in magistratura automaticamente, e di poter ripartire a fine mandato direttamente dalla Corte di Cassazione. E non pone limiti al ritorno immediato nelle funzioni giudicanti”. Tradotto, “il M5S vuole un confine netto tra magistrati e politica, e non penalizzare i tanti che lavorano ogni giorno sui territori”. Però rimangono molte domande, sulla giustizia a 5Stelle. Bonafede afferma: “Per noi la separazione delle carriere tra pm e giudici non è un problema, è stato solo un pretesto per attaccare i magistrati. E la legge sulla responsabilità civile dei giudici di due anni fa è fatta male: non servono magistrati timorosi per paura di ritorsioni, se andremo al governo la cambieremo”. Il nodo di fondo rimane però quello della linea del M5S, che per anni ha invocato dimissioni dai politici in presenza di avvisi di garanzia. Poi però, quando gli avvisi sono arrivati ai suoi sindaci (Filippo Nogarin e Virginia Raggi) si è scoperto cauto. UN VARCO per il Pd, in picchiata sul Luigi Di Maio che l’anno scorso infierì sul dem Stefano Graziano, accusato di concorso di associazione camorristica: “Il presidente del Pd campano prendeva i voti dai Casalesi”. Poi però Graziano è stato assolto, e Di Maio ha dovuto scusarsi. E allora, Bonafede, siete forcaioli con gli altri e garantisti con i vostri? “Falso, un’eccezione non cancella la realtà: tutti i partiti scaricano le proprie responsabilità sui giudici, mentre noi siamo gli unici con un codice etico. Valutiamo le carte e se serve chiediamo un passo indietro anche senza avviso di garanzia, come avvenne per la sindaca di Quarto”. Per il blog di Grillo il senatore Nicola Morra ha intervistato Davigo e Gratteri. Un modo per ingraziarsi le toghe e portarne qualcuno al governo? Morra nega: “Noi non vogliamo ingraziarci nessuno, su ogni argomento consultiamo le persone più competenti, e a questi magistrati abbiamo chiesto come si rimette in piedi la macchina della giustizia”. Sarà, ma c’è chi ha parlato di Davigo potenziale candidato premier... Morra sorride: “Conoscendolo si sarà fatto una risata per questa assurdità. Non vogliamo schiacciarci sui magistrati, e non ho mai chiesto a nessuno di loro opinioni politiche”. Però il rapporto c’è... “Dialogare con i magistrati non è certo un disonore. Lavorare con Davigo sulla repressione dei reati o con Colombo sulla loro prevenzione può solo aiutare”. Progetti Bonafede: “Cambieremo la legge su responsabilità civile. No alla separazione delle carriere.

"Non capisco i magistrati che simpatizzano per il M5s". Carlo Nordio va in pensione e ci racconta tutto su gogne mediatiche, intercettazioni e giustizia ingiusta. Dalle Brigate rosse a Tangentopoli, passando per il Mose. Un pm può essere garantista? Sì, scrive Ermes Antonucci il 7 Febbraio 2017 su “Il Foglio”. Carlo Nordio è nato a Treviso il 6 febbraio del 1947 ed è magistrato dal 1977.  Ha indossato la toga per quarant’anni, preferendo il lavoro sodo ai trampolini mediatici, la professionalità alle scorciatoie corporative, la sincerità intellettuale alle comodità del politicamente corretto. Oggi, spente da poche ore le candeline dei settant’anni, Carlo Nordio, celebre procuratore aggiunto di Venezia, va in pensione, complice la riforma voluta nel 2014 dal governo Renzi che ha abbassato l’età pensionabile delle toghe da 75 a 70 anni. In un lungo colloquio con il Foglio, il magistrato veneto racconta le sue sensazioni sull’addio, analizzando i mali della giustizia italiana e ripercorrendo le principali tappe della sua prestigiosa carriera, a partire proprio dalla scelta di rimanere per tutti questi anni procuratore aggiunto. Scelta curiosa in un panorama togato particolarmente attento alle promozioni di carriera, ma anche qui c’entra il tradizionale spirito controcorrente del magistrato veneto: “Credo di essere il magistrato che è stato per più tempo nello stesso ufficio – spiega Nordio – Non mi sono mai interessato a posti direttivi, perché fare il capo significa fare alta amministrazione del proprio ufficio a discapito delle indagini. La posizione ideale, invece, è quella del procuratore aggiunto, perché non hai lo stress della primissima linea, ma continui a fare indagini o quantomeno a coordinarle. Non ho neanche mai guardato i bollettini dei posti per cui candidarsi, perché non mi interessava”.

Tante le indagini importanti condotte da Nordio, a partire da quelle compiute negli anni Ottanta sulle Brigate Rosse venete e sui sequestri di persona: “Quello è stato senza dubbio il periodo più esaltante della mia carriera”, spiega Nordio al Foglio. “Non mi è mai piaciuto usare il termine ‘lotta’, perché il magistrato è chiamato solo ad applicare la legge, ma in quel momento la magistratura era così sola e aveva dato un così alto contributo di sangue che si può parlare effettivamente di lotta”. Basti ricordare che in quattro giorni, tra il 16 e il 19 marzo 1980, caddero sotto i colpi delle Brigate Rosse le toghe Nicola Giacumbi (procuratore a Salerno), Girolamo Minervini (procuratore generale della Cassazione) e Guido Galli (giudice istruttore a Milano): “Sentivamo di avere sulle spalle l’intera nazione e di stare facendo qualcosa di estremamente utile, anche se eri solo”, racconta Nordio. “Nonostante fosse molto pericoloso, posso dire di non aver mai avuto paura, forse perché per carattere concentro tutte le mie paure sulle malattie, essendo un po’ ipocondriaco… Nel mio lavoro ho seguito tutta la colonna veneta delle Brigate Rosse, che era una delle più pericolose d’Italia, composta anche da elementi che venivano da altre città come Roma o Torino. Certamente era la più importante in termini di armi, perché quasi tutte erano state portate e sepolte nel Nord-Est. Alla fine la guerra è risultata vittoriosa. Negli anni successivi ci sono stati dei colpi di coda delle Brigate Rosse, ma questi non hanno più messo in pericolo la democrazia come era avvenuto durante il sequestro Moro”.

Giunsero poi gli anni Novanta. Gli anni di Tangentopoli e della maxi inchiesta veneziana sui finanziamenti illeciti da parte delle cooperative rosse a Pci e Pds. Le indagini finirono per toccare anche i segretari nazionali dei due partiti di sinistra, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, ma alla fine fu lo stesso Nordio a chiedere l’archiviazione per i due: furono raggiunte prove evidenti del finanziamento illecito ai partiti, ma non delle responsabilità penali individuali dei due segretari. Una certa sinistra non perdonò mai a Nordio di aver messo in luce l’insussistenza della propria “superiorità morale”: “Quando le indagini si concentrarono sui democristiani e sui socialisti non ci furono polemiche e fummo anche dipinti come degli eroi. Poi quando iniziai a indagare sulle cooperative rosse e sull’onorevole D’Alema sono scoppiate molte polemiche, anche con i colleghi di Milano”, spiega il pm. L’onorevole Pietro Folena (Pds) dichiarò che Nordio stava usando “metodi fascisti”, ma ci fu tensione anche con l’Associazione nazionale magistrati: “Dopo aver scritto diversi articoli e un libro sulla giustizia molto garantisti fui richiamato dai probiviri dell’Anm a rispondere delle mie idee eterodosse”, ricorda il magistrato. “Io li mandai letteralmente al diavolo, dicendo che non mi sarei presentato neanche dipinto. Di fronte a questa mia reazione poi loro non fecero nulla. La vicenda ebbe poi qualche riflesso, perché quando un paio di anni dopo fui promosso consigliere di Cassazione, nel Consiglio superiore della magistratura alcuni rappresentanti di Magistratura Democratica vollero mettere a verbale le loro riserve, unico caso tra oltre cento magistrati. Risposi che per me era un onore avere le riserve da parte di una corrente come Md”.

Negli ultimi anni, Nordio ha coordinato le indagini sul Mose, l’ambizioso e costoso progetto di messa in sicurezza della laguna veneziana. Anche qui un’inchiesta gigantesca, che ha finito per coinvolgere oltre cento persone, tra cui il sindaco della città Giorgio Orsoni e l’ex presidente della regione Giancarlo Galan: “Mi dispiace abbandonare ora l’inchiesta – confida Nordio al Foglio – perché avrei voluto partecipare almeno in parte alla requisitoria finale, ma comunque il processo è in ottime mani. Abbiamo concluso le indagini in tempi ragionevoli e già sono stati ottenuti importanti risultati, come moltissimi patteggiamenti, restituzioni di maltolto e irrogazione di alcune pene. Pene forse non adeguate alle aspettative forcaiole di molta opinione pubblica, ma secondo noi congrue, tenendo anche conto del rischio della prescrizione”. “Un altro grande orgoglio – prosegue il pm – è che di tante ore di intercettazioni realizzate nel corso dell’inchiesta, neanche una riga è finita sui giornali, a dimostrazione del fatto che se si vuole mantenere il segreto lo si può fare e soprattutto a conferma che le intercettazioni non possono essere concepite come strumento di prova, ma solo come mezzo di ricerca della prova, come peraltro vorrebbe il codice di procedura penale. Le intercettazioni possono essere uno stimolo alle indagini, ma quando quest’ultime sono fondate solo sulle intercettazioni, come è avvento e continua ad avvenire in molti casi in Italia, sono destinate al fallimento totale”. Ciò che preoccupa, però, è il particolare quadro corruttivo emerso dall’inchiesta sul Mose, talmente esteso da coinvolgere non solo politici e imprenditori, ma anche esponenti di organismi di controllo: “Abbiamo incriminato un generale della Guardia di finanza, magistrati contabili, alta burocrazia – spiega Nordio – Si tratta di una corruzione più capillare e più diffusa, che rispecchia anche la distribuzione del potere di oggi. Vent’anni fa il potere era diviso tra alcuni partiti e gli imprenditori, mentre oggi è molto più distribuito e coinvolge anche gli organi che hanno il potere di interdizione, cioè quello di impedire un’opera, e che devono essere ‘addolciti’ affinché l’opera vada avanti. Questa è la ragione per cui la corruzione non sarà mai vinta in Italia finché non si semplificheranno le procedure e non si elimineranno tutte le leggi inutili che abbiamo e che conferiscono a questi soggetti un potere discrezionale e arbitrario”.

Insomma, non piacerà agli indignati di professione e agli oracoli dell’anticorruzione, ma la verità è che per combattere la corruzione nel nostro paese non servono pene più severe, bensì una burocrazia più leggera: “Le leggi penali severe non sono mai servite a prevenire il delitto, ancora meno in Italia dove l’applicazione della pena è molto futura, incerta e platonica – ribadisce il procuratore aggiunto di Venezia – La strategia nei confronti della corruzione non deve essere quella di intimidire il potenziale corrotto, ma di disarmarlo. A me non interessa niente di mandare in galera chi si è fatto corrompere, ma mi interessa togliergli le armi con le quali si fa corrompere. E queste armi sono le leggi: più sono le porte alle quali devi bussare per avere un provvedimento, e più leggi devi invocare per ottenerlo, più è probabile che queste porte restino chiuse e che qualcuno venga a dirti che occorre oliare le serrature per aprirle”. Qual è la soluzione allora? “Il cittadino deve poter bussare a una porta sola, invocando una legge chiara. La parola d’ordine è semplificazione delle procedure e individuazione delle competenze e delle responsabilità. Sotto questo profilo ho trovato disastrosa la legge Severino, che punisce anche chi è concusso per induzione, cioè colui che è indotto con un comportamento concludente a pagare. Questa persona ha tutto l’interesse a tacere, perché se rivela che è stato indotto a pagare la mazzetta finisce a processo anche lui. In teoria non si dovrebbe punire chi dà, ma soltanto chi riceve, perché in questo modo dal punto di vista processuale il corruttore è obbligato a dire la verità, non rischia l’incriminazione”.

Impossibile, a questo punto, non evocare l’altra discutibile norma introdotta dalla legge Severino, cioè quella che prevede l’incandidabilità e la decadenza nei confronti di sindaci e consiglieri locali condannati anche solo in primo grado, con buona pace del principio costituzionale di presunzione di innocenza: “Peggio ancora della legge Severino – commenta Nordio – è stata l’interpretazione che ne è stata data nel caso della decadenza di Silvio Berlusconi, perché in quel momento politico l’interpretazione retroattiva della legge è stata fatta in malam partem e ad personam. La decadenza, essendo una sanzione afflittiva, non poteva essere retroattiva e invece è stata resa tale. A quel punto qualcuno ha detto che non era una norma penale, ma questa è una sciocchezza colossale perché anche le norme amministrative afflittive non possono essere retroattive”. Insomma, probabili sorprese in arrivo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Le vicende giudiziarie che recentemente hanno travolto le giunte comunali a Roma e Milano hanno riportato all’attenzione il tema dello strapotere (soprattutto mediatico) della magistratura nei confronti della politica. Per Nordio si è di fronte alla conferma dell’incapacità della politica di assumersi la responsabilità di difendere il proprio ruolo istituzionale: “Le procure fanno il loro dovere. L’avviso di garanzia e l’iscrizione nel registro degli indagati sono atti dovuti, se poi i politici per farsi la guerra tra di loro strumentalizzano questi istituti che hanno un significato completamente diverso, questo è un affare della politica, non della magistratura. È la politica che deve dire chiaro e tondo che finché una persona non è condannata definitivamente è un presunto innocente. Noto che un po’ di garantismo adesso sta circolando anche tra i Cinque stelle, meglio tardi che mai!”. Ma a proposito dei Cinque stelle, colpisce il sostegno smodato manifestato da molti colleghi magistrati per il progetto politico dei pentastellati. Come spiegarlo? “Il Movimento 5 stelle – risponde Nordio – ha avuto e, nonostante le vicende giudiziarie, continua ad avere successo in virtù della delusione che gli italiani hanno provato nei confronti di tutti i partiti politici. Quando però si arriva alla proposta, il programma politico del M5s può essere definito con le stesse parole che Churchill usò per definire l’Unione Sovietica: ‘Un enigma dentro un indovinello, avvolto in un mistero’. Non so quale sia il programma e non l’ho capito. Meno che mai lo capisco sulla giustizia, e meno che mai comprendo le simpatie di certi miei colleghi per il Movimento. Ma poiché molti miei colleghi hanno dimostrato nel tempo simpatie per le idee più bizzarre, non mi stupisco neanche di questo”.

Ma torniamo alle beghe dell’amministrazione della giustizia. Uno dei temi più caldi è costituito dalla responsabilità civile dei magistrati. Le norme sono state riformate nel 2015, ma il sistema giudiziario italiano è lungi dal conoscere un meccanismo sostanziale di valutazione degli errori delle toghe: “L’errore giudiziario è sempre in agguato perché fa parte della natura umana – afferma il pm – Il problema si pone per l’errore grave, cioè quello dovuto a mancanza di professionalità. La strada non dovrebbe essere far pagare con la responsabilità civile, perché a pagare poi è l’assicurazione, come sta avvenendo regolarmente. Il magistrato, invece, dovrebbe essere rimosso o comunque punito sulla carriera”.

Negli ultimi anni, il procuratore aggiunto di Venezia si è occupato di un’altra questione sempre più attuale, cioè la lotta al terrorismo islamico. Anche qui in modo controcorrente, Nordio è stato tra i pochi – forse l’unico magistrato – a parlare esplicitamente di “guerra santa”. Parole che conferma al Foglio: “Siamo in una situazione di guerra e la riluttanza ad ammetterlo deriva dal fatto che quando la verità è amara si cerca sempre di evitarla. Il fatto che a Capodanno tutte le città d’Italia siano state protette da autoblinde ha dato ragione a quello che dicevo io. Certamente si tratta di una guerra diversa da quella di settant’anni fa”. Ma il compito di combattere questa guerra, tiene a precisare il pm veneziano, non spetta alla magistratura: “In questa guerra la magistratura non c’entra niente. La guerra la deve fare la politica con le sue responsabilità politiche. La magistratura deve soltanto garantire la legalità delle operazioni antiterroristiche, perché tutto deve essere fatto nel rispetto della legge. Già trentacinque anni fa è stato fatto l’errore di devolvere alla magistratura la lotta al terrorismo, perché la politica non sapeva che pesci prendere”.

Insistendo sul rapporto tra politica e magistratura, in conclusione, c’è il rischio di vedere Nordio tra pochi anni candidato in qualche lista elettorale, come spesso avviene tra le ex toghe? “Ho sempre detto che il magistrato non deve fare politica neanche dopo essere andato in pensione – ribadisce Nordio – E soprattutto non devono farlo i magistrati che hanno acquistato notorietà e prestigio da inchieste che hanno colpito personaggi politicamente rilevanti. Ciò sia perché sarebbe estremamente improprio cercare di prendere il posto di coloro che si è indagati, sia perché sarebbe una concorrenza sleale verso gli altri candidati politici, perché approfitteremmo di un prestigio e di una credibilità che abbiamo acquistato facendo il nostro lavoro”. Cosa farà allora l’ex magistrato Nordio? “Con la pensione potrò dedicare interamente il mio tempo alla lettura e alla scrittura, oltre che ai miei hobby sportivi. Vorrei tanto tornare a nuotare e ad andare a cavallo”.

Aiuto, torna il partito delle toghe. Il M5S: noi obbedienti e in ascolto, scrive Francesco Severini giovedì 1 giugno 2017 su "Il Secolo d’Italia". Nulla avviene per caso sotto il cielo azzurro di una Roma dove già fervono le grandi manovre in vista del voto. E certo non è stato un caso il convegno sulla giustizia organizzato alla Camera dal M5S. Con Luigi Di Maio che introduce e promette mai più conflittualità tra toghe e politica, con noi al governo – annuncia – si cambia musica: e vai con le fanfare giustizialiste ad accogliere le parole dei magistrati, parole verso le quali i deputati Cinquestelle sono, deferenti, sempre in ascolto. La ciliegina giunge con l’intervento del pm palermitano Nino De Matteo che lascia intravedere la possibilità di una discesa in campo e si dice pronto ad assumere un ruolo civile, perché l’eventuale impegno di un pm in politica “non mi scandalizza”. Ma che bella notizia! Applaude Luigi Di Maio e con lui tutta la corte grillina, che spererebbero in un “ruolo civile” di Piercamillo Davigo il quale però si è dichiarato (almeno al momento) indisponibile. Ma la platea giacobina del convegno ascolta da Davigo parole che mandano gli astanti in brodo di giuggiole: “Io non mi occupo di politica ma di politici che rubano…”. Ma come? Non dovrebbe occuparsi di ladri e basta, indipendentemente dalla categoria di appartenenza? C’è chi si lamenta delle intercettazioni che finiscono sui giornali? Mica è colpa delle procure alleate con certe testate, ma va… Davigo si dice “esterrefatto di come i politici continuano a parlare liberamente al telefono”. Insomma la colpa è di chi parla al telefono e non di chi fa uscire dai palazzi giudiziari atti che dovrebbero essere coperti da segreto. Davigo compiace i grillini anche su Berlusconi e il Pd. Il centrodestra le ha fatte grosse con i magistrati ma il centrosinistra “ci ha genuflessi”. L’unica speranza sono quelli del M%S, dunque. Loro sì che saprebbero come muoversi senza infastidire le Procure. Non solo, ma Davigo bacchetta anche il procuratore di Catanzaro Franco Gratteri che a suo avviso fa solo “congetture” quando dice un’ovvietà sulla fuga di notizie relative alle inchieste politiche: o escono dalle procure o dalla polizia giudiziaria. Insomma gli ingredienti ci sono tutti per spellarsi le mani. Ed è ciò che i Cinquestelle eseguono estasiati. La notizia del convegno ovviamente oggi è l’apertura del Fatto Quotidiano con annesso editoriale di Marco Travaglio che scrive: ora tocca a noi mandare in Parlamento chi veramente vuole riformare la giustizia. In pratica la campagna elettorale avrà come sottofondo un sinistro tintinnare di manette. Il suono che annuncia, per dirla con Mattia Feltri, il futuro “regno del bene”di cui i magistrati pensano di far parte per diritto di casta. 

Ubbidienti a convenienza…

Grillo sconfitto dai giudici rinnega ancora Cassimatis: "Non è lei la candidata". Riammessa la vincitrice del voto interno a Genova «scomunicata» dal movimento, scrive Matteo Basile, Martedì 11/04/2017, su "Il Giornale". Altro che «fidatevi di me». Di Beppe Grillo possono fidarsi solo e soltanto gli attivisti più convinti che al pari di membri di una setta lo seguono e lo elogiano a prescindere. Ma no, in un partito politico, ancorché ambiguo come il Movimento 5 Stelle, il «fidatevi di me» non fa giurisprudenza, non vale, non può esistere in uno Stato di diritto. Il Tribunale di Genova ha dato ragione a Marika Cassimatis che aveva vinto le comunarie pentastellate per poi essere estromessa da Grillo in persona a vantaggio dello sconfitto, l'orchestrale Luca Pirondini, gradito al leader. Votazione annullata con la scusa di un paio di like su Facebook a post non allineati al Movimento e con accuse pesanti che sono valse a Grillo una querela da parte della stessa Cassimatis. Eppure Grillo non molla e non cambia idea, nonostante la sentenza. Un caos totale e la certificazione, ora anche giuridica, del bluff della democrazia diretta e di tutte le balle assortite spacciate dal grillismo a partire dall'«uno vale uno». Nel suo dispositivo il giudice Roberto Braccialini ha parlato, fra l'altro, di «regole non chiare» e «conduzione del partito a tratti dirigista». Il M5s si conferma quindi un partito autoritario, gestito da un uomo solo al comando, al massimo due, vedi Casaleggio jr, in cui il dissenso non è ammesso né tollerato e dove non si è nemmeno in grado di rispettare le regole autoprodotte. Figurarsi di governare.

«Al momento sono la candidata sindaco del M5S, il marchio è attribuito a chi vince le Comunarie, cioè a me», esulta Marika Cassimatis dopo la sentenza che la rimette in corsa. «È una battaglia di legalità, giustizia e trasparenza, siamo soddisfatti aggiunge la grillina sub iudice Questa sentenza ha anche un valore politico per un movimento che ha come bandiera democrazia e trasparenza e deve garantirla anche al suo interno». Cassimatis spera in una soluzione pacifica assai difficile da prevedere. «Aspettiamo un incontro con Beppe Grillo e il suo staff, vedremo se troveremo una soluzione quando decideranno di incontrarci». Intanto la querela nei confronti dell'ex comico rimane mentre quella a Di Battista, potrebbe venire meno. Ma l'ex comico è tutt'altro che conciliante. In serata, tramite il suo blog, fa capire di voler tirare dritto e di voler ignorare la sentenza: «Marika Cassimatis è stata sospesa e la votazione del 14 marzo è stata annullata, pertanto la stessa non è né sarà candidata con il Movimento 5 Stelle a Genova alle elezioni dell'11 giugno», si legge in un post del sito dove campeggia anche un'intervista a Luca Pirondini che parla della sua idea di Genova. Anche se l'orchestrale ieri sera ha disertato un confronto in tv. Meglio aspettare e tacere. A quanto pare i legali di Grillo stanno studiando la situazione nel dettaglio per capire come uscire dal ginepraio con meno danni possibili. Esiste l'eventualità di un ricorso d'urgenza ma è alquanto improbabile che possa ribaltare la sentenza di ieri. Grillo quindi potrebbe andare avanti con Pirondini, prestando il fianco ad ulteriori ricorsi, o in un'ultima istanza, decidere clamorosamente di estromettere il Movimento dalla corsa al Comune della sua Genova. Una corsa, in ogni caso, ad ostacoli. Grillo, con l'ennesima figuraccia, si è azzoppato da solo.

I mali della Giustizia secondo Saviano: la retorica, la verità. In un'intervista, l'autore di Gomorra si scaglia contro i mali della giustizia, ma dove sono i colpevoli? Scrive Fabio Cammalleri l'1 Giugno 2017 su "La Voce di New York". La durata irragionevole dei processi è segno sicuro di una colpa, ma riguarda altro soggetto: “la politica”. Quindi le considerazioni espresse da Saviano, sul tema Giustizia&Politica, più che un forte e necessario j’accuse, sanno di navigata campagna elettorale. Allora. Roberto Saviano ha annunciato di aver fatto una scoperta, e tanto deve averla ritenuta un inedito, da avergli dedicato un’apposita intervista, su Repubblica: “L’amministrazione della giustizia in Italia è più che un incubo: è un dramma. E forse è il principale responsabile del collasso delle nostre istituzioni e della nostra credibilità internazionale”. Alla grande scoperta è giunto per successive illuminazioni. La prima. Circa nove anni fa, in un processo, venne letta una dichiarazione di due imputati, da parte del loro difensore, l’avvocato Michele Santonastaso. Quella dichiarazione venne ritenuta minacciosa anche verso Saviano e, per questo, quell’avvocato è stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione. “Non mi aspettavo certo che dopo quasi dieci anni da quella lettura in aula fatta da Santonastaso, non ci fosse ancora un giudizio definitivo.”. Ah no? Non se l’aspettava? Che dopo dieci anni, in Italia, possa non compiersi un giudizio penale definitivo?  Non se l’aspettava. Ma non c’è da stupirsene, se passiamo alla seconda illuminazione. Questa indicibile inerzia, sostiene, non c’entra nulla con i magistrati. Anzi, non lo sostiene nemmeno: lo dà per implicito, come è ovvio che se un ponte crolla, il primo da escludere è l’ingegnere che lo ha progettato e costruito; se un paziente muore, fuori discussione che si dubiti del medico; e se c’è un ammanco di cassa, guai a parlar male del cassiere: che poi si offende. Perciò, come non capire che se un processo dura dieci anni, e ancora balbetta di non sapere che dire, è certo cosa cattiva e ingiusta: ma che gli unici a non avere la benchè minima responsabilità sono i magistrati? Perciò, dicevo, Saviano nemmeno lo precisa esplicitamente.

La durata irragionevole è segno sicuro di una colpa, ma riguarda altro soggetto: “la politica”. Eh sì, perché l’originalità dell’analisi, il coraggio di sapersi mettere controvento, costituiscono proprio il carattere fondamentale del Nostro. E’ più forte di lui. “La politica”. E cosa, se no? Lo dicono tutti, e lo dice pure lui. Che male c’è? Nulla. Senonché, e siamo alla terza illuminazione, proprio sotto i suoi occhi ci sarebbe stata la dimostrazione che, se un processo si trascina per dieci anni senza concludersi, farne carico a “la politica” pare affermazione buona solo per i tarocchi. Evocata, la maledetta “politica”, giustappunto, come una sorta di divinità responsabile di tutto e, quindi, di niente.

Sentiamolo ancora: “Prendiamo il processo nato dalle minacce che mi ha rivolto Santonastaso in aula nel 2008: la condanna di primo grado è arrivata a novembre 2014. Quasi tre anni dopo, il processo di appello non è ancora iniziato tra composizioni anomale del collegio giudicante, difetti di notifica, e due diverse richieste di astensione da parte del presidente del collegio, a causa di rapporti di conoscenza con l’imputato. Richieste incredibilmente rigettate dal presidente della Corte di Appello di Napoli. La giustizia è al collasso, questo è il punto.” Siamo messi di fronte ad una ritenuta minaccia pronunciata in un aula di tribunale, e messa a verbale; che da lì, direttamente, viene trasmessa ad una Procura della Repubblica; dalla Procura, posta al giudizio di un altro Tribunale, secondo modi, tempi e ritmi su cui nessun soggetto al mondo, diverso da un magistrato, può mettere il naso: dopo sei anni dalla lettura della dichiarazione incriminata, arriva la sentenza di primo grado; quindi, seguendo gli stessi binari organizzativi (o disorganizzativi) per soli togati, giunge dinanzi ad un altro collegio composto di magistrati ma, questa volta, di Appello; dove vengono sollevate, per due volte, questioni sulla idoneità al giudizio di un magistrato, su cui ha deciso esclusivamente un altro magistrato.

Ebbene: nonostante tutto questo descriva una vicenda di adamantina purezza magistratuale (remore, od ostacoli avvocateschi o d’altra origine, siamo certi, li avremmo conosciuti dalla sua vindice bocca, se ci fossero stati), non solo la colpa è della “politica”, ma questa colpa sarebbe una parte di una maggior colpa: “…c’è anche una marginalizzazione del problema mafie”, perché “…la politica ha come unico obiettivo quello di costringere la cittadinanza a continue elezioni”; d’altra parte, anche “Il Mezzogiorno è completamente sparito dall’agenda, non esiste più”. Quindi, la chiusa meroliana, in crescendo: “Viene voglia di stracciare la scheda elettorale”; tanto più che “non è la politica a controllare le cosche. Sono i cartelli dei boss a controllare la politica”.

Bene. Chiaro. Ma non c’è nessuna ingenuità. E’ tutto lucido. Il registro passional-depresso è solo un accorgimento retorico. E’ evidente il coordinamento con il “ci ha messo genuflessi”, riferito al Centro-sinistra (attuale maggioranza parlamentare), e consegnato stamani alle cronache dal dott. Piercamillo Davigo; come pure con il suo “…ai magistrati legano le mani” ; evidente, l’evocazione dell’indimenticato “è la politica il nerbo della potenza mafiosa”, di Ingroia&Scarpinato, (2003); e, parlando di “eccesso di elezioni”, risuona per lo meno precursore pure il loro “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica… contro la volontà della stessa maggioranza”. Poco fa ho scritto la parola “coraggio”. Può capitare di essere minacciati. Non solo nel Meridione d’Italia; ma diciamo che un certo tipo di minacce, qui da noi, non sono del tutto inconsuete. Dispiace sempre quando accade. Ma c’è un solo criterio sicuro, per stabilire se una o più minacce possano alimentare, oltre che l’umano dispiacere, anche una più meditata stima. Per fissare questo criterio (fedele alla regola che è sempre bene tenere fuori della pagina i casi personali), mi avvarrò di un esempio illustre. Saviano, sempre ricorda di essersi alzato un bel giorno da una sedia, e di avere indicato alla pubblica riprovazione alcuni “malacarne”, presenti ad un’assemblea. Ciò posto, ecco l’esempio.

Dopo aver trascorso 15 anni fra galera e confino; dopo aver preso parte alla guerra partigiana, un uomo tornò in Sicilia; e, appena sbarcato, andò in un paese, Villalba, in provincia di Caltanissetta. Su due piedi, mise su un comizio, nella piazza principale. Parlava dal cassone di un camion. Era il 16 Settembre del 1944. Disse quel che doveva e sapeva dire su gabelloti e latifondo. Dal fondo della piazza, seduto, un vecchio, canuto e dall’aria monumentale, fumando il suo sigaro, osservava e ascoltava. Era Don Calogero Vizzini. Ad un certo punto, ruppe il silenzio che avvolgeva l’oratore, esclamando: “Non è vero! E’ falso. E’ falso”. Nemmeno un secondo dopo, una selva di colpi di pistola e bombe a mano diedero più cruento corpo a quella negazione. Ci furono “solo” quattordici feriti. L’oratore, benché ferito ad una gamba, fortunatamente fu messo in salvo dai suoi compagni. Era Girolamo Li Causi.

Ah!, il criterio. Nacque povero, visse e morì povero.

Il cantico della Brexit e delle creature grilline, scrive Tommaso Cerno il 24 maggio 2017 su "L'Espresso". Il terrore cancella le divisioni della Ue? O nobilita il voto di rabbia? La domanda vale anche in Italia.  Dove il M5S si fa partito. Citando il patrono nazionale. Come in un nuovo cantico delle creature, un inno alla vita che deve andare avanti, le ragazzine morte a Manchester sono diventate il simbolo di un terrore che ci tocca sempre più nel profondo. E ci è sembrato che, almeno per un istante (la nostra indignazione dura sempre meno) eravamo tutti di nuovo uniti, consapevoli di chi siamo e di cosa vogliamo da questi tempi di guerra globale. Le ragioni sono due. La prima è emotiva: la morte ci fa male, figuriamoci quella di un bambino. La seconda è razionale: l’Inghilterra colpita dall’Isis ci ha fatto capire che la Brexit - mettila come vuoi - è cosa piccolissima, insignificante di fronte alla vera guerra di civiltà che l’Europa sta combattendo. Ci sentiamo idioti a litigare per i numeri e per le virgole nei bilanci Ue, quando siamo messi di fronte al “noi contro loro”, la cultura dell’Occidente, la democrazia, il rispetto della vita e degli individui, contro un’organizzazione criminale che agisce per chiuderci in un nuovo medioevo. È così evidente dentro di noi, che addirittura gli inglesi, con le loro idiosincrasie e i loro tic, ci sono sembrati “i nostri”.

Ma attenti al lupo. Perché è solo un effetto ottico. Durerà poco. E poi tutto tornerà come prima. Già all’indomani di Manchester i sondaggi di Theresa May dicevano che oltre la Manica l’Isis ha fatto da comburente alla rabbia già esplosa il giorno del famoso referendum sul no all’Unione europea. Sarà anche vero che l’isola combatte il terrore con le nostre stesse parole d’ordine, ma è pur vero che si allontana, che tratta il conto con Bruxelles, che si tiene la sua guida a sinistra e la sua sterlina slegata dall’euro. È una rabbia che si fa “politica”, ma è pur sempre una rabbia. Così come in Italia, dove a citare (secondo il Vaticano a sproposito) San Francesco è stato Beppe Grillo alla marcia di Assisi. Qui il Movimento 5 stelle dice di presentarsi come una compagnia di fraticelli pronti ad aiutare i nuovi poveri, privandosi dei propri averi in forma di vitalizio, per creare una socialità di cittadini tutti uguali, come il Santo fece con i sacchi di juta dopo avere rinunciato alle ricchezze. Ma il cantico di Frate Grillo ispirato dal patrono d’Italia, e allo stesso modo le creature della Brexit, a parole è una cosa nei fatti un’altra.

Come L’Espresso racconta in questo numero. Due narrazioni solo all’apparenza distanti: un viaggio dentro la mutazione della Gran Bretagna divisa dalla politica e ferita dal terrore, alla vigilia del voto di giugno che dovrà sancire il primato inglese sul Continente. Il voto più difficile anche per la regina. E un altro viaggio, stavolta dentro la mutazione del Movimento 5 stelle. Il tentativo di tramutarsi da forza di lotta a forza di governo di un’Italia che si ribella e si fa largo a spallate. A parole nel nome di un neofrancescanesimo, ma nei fatti costruito pezzo a pezzo attraverso relazioni, rapporti con la finanzia, lobby a fare da sponda al loro progetto politico. Se il buon vecchio Silvio B. (quello che alcuni giornali vorrebbero, povero lui, antipopulista e magari incensurato, interista e pudico) s’era inventato il partito azienda, Davide Casaleggio guida oggi la prima azienda-partito.

Eredità del genio paterno, quel Gianroberto precursore della Rete e della sua forza elettorale, ma anche profeta della sua crisi, proprio quella di cui parlano i big di Twitter alle prese con hater, fake news e Trump. E così i fraticelli a cinque stelle provano a laudare Fratello Sole e al tempo stesso Sorella Enel, cioè la strategia di governo, l’uscita dal guscio, la costruzione di un sistema solido di relazioni in tutto simili a quelle dei partiti. Con l’obiettivo di accreditare il loro progetto nei mondi economici e finanziari. È la fase 2. La più delicata. La più pericolosa. Fa del saio grillino la divisa dei “nuovi” governanti, capaci di mettere insieme empatia e sogno per trascinare alle urne i cittadini, ma poi di non trovarsi come a Roma, impreparati. E scegliere nei ruoli chiave ingranaggi del sistema Italia. Fare cioè, come già la Brexit, da catalizzatori di un impeto e una rabbia elettorale che pochi partiti e leader ormai sanno davvero tramutare (Theresa May ci sta provando) in voto. Con la nemesi di farlo nel nome di San Francesco. Che resta pur sempre il patrono d'Italia.

La nuova Casta, quella che si dimette solo se è il caso, scrive Silvia Gernini il 30 maggio 2017 "L'Unità. A chi le domanda se ha intenzione di lasciare in caso di rinvio a giudizio Raggi risponde di no. E poi richiama il codice etico del Movimento 5 stelle. “Stiamo parlando in questo momento di una cosa che non è attuale e comunque direi di no”. Oggi Virginia Raggi ha detto candidamente che in caso di rinvio a giudizio per la vicenda Marra non si dimetterà. E a farle eco c’è anche il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio che ribadisce che “il codice etico M5s prevede una valutazione caso per caso”. “Gli avvisi di garanzia non vengano usati come manganelli”, aveva detto una volta, ovviamente dopo essere diventata sindaco di Roma. Una Raggi completamente diversa da quella che solo due anni fa avrebbe cacciato anche gli indagati. Improvvisamente il garantismo è diventato la stella polare del Movimento 5 stelle, un garantismo caso per caso, però, anche se quello che si pretende da un codice etico è una serie di regole precise da applicare ciascuna in un determinato caso. Non che un rinviato a giudizio deve dimettersi o può essere espulso mentre un altro può restare al suo posto, caso per caso. Secondo molti, se il sindaco viene rinviato a giudizio dovrebbe dimettersi perché oltre alla questione giudiziaria ci sarebbe una questione politica molto rilevante, dal momento che perderebbe la credibilità per poter amministrare la Capitale d’Italia. Ma evidentemente per i grillini questa regola non vale. Ma cerchiamo di capire meglio la logica che regola il Movimento 5 stelle: se il rinviato a giudizio non è del M5s si deve dimettere (in quel caso vale anche se è indagato), mentre per i pentastellati bisogna valutare esattamente il motivo che lo ha portato a commettere l’errore prima di decidere se conviene farlo dimettere oppure no. La vaghezza all’ennesima potenza. Ma dopotutto che cosa ci si può aspettare da un movimento il cui leader un giorno si sveglia e dichiara che il blog che porta il suo nome a volte esprime il suo pensiero e a volte no?

Così i grillini archiviano la (presunta) superiorità. L'inchiesta romana è un boomerang sul M5s: adesso la Raggi governi oppure si dimetta, scrive Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Boom. Alla fine il famoso botto si è sentito, come Grillo aveva - anni or sono - minacciosamente annunciato. Ma si tratta di un altro botto. Non quello elettorale. È crollata definitivamente al suolo la presunta superiorità morale dei grillini. Le stelle sono cadute. È la notte di San Lorenzo del giacobinismo a Cinque Stelle. L'iscrizione del sindaco di Roma Virginia Raggi nel registro degli indagati (è indagata per falso e abuso d'ufficio nell'ambito della nomina del fratello di Raffaele Marra, ex capo del personale del Campidoglio, poi arrestato) polverizza la verginità giudiziaria dei Cinque Stelle. Insomma: la prima cittadina della Capitale, di stretta osservanza grillina e dunque ayatollah del giustizialismo, avrebbe assunto il fratello del suo chiacchieratissimo braccio destro. Ovviamente è tutto da verificare. Ma nel colorito vocabolario pentastellato tutto sarebbe già stato metodicamente etichettato: familismo, nepotismo, abuso di potere. Diciamolo: casta. E se ci mettessimo gli occhiali del grillismo e squadrassimo dall'alto al basso la bella sindaca, dovremmo - come minimo - chiedere le sue immediate dimissioni. Seguendo alla lettera l'ottusa e rigida disciplina del Movimento 5 Stelle. Per dire: Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo libro testamento - spennellava un mondo ideale nel quale i dipendenti infedeli della pubblica amministrazione venivano «esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città». E invece no. Questa volta no. I Cinque Stelle si sono accorti che il loro fondamentalismo manettaro è un boomerang che gli sta tornando dritto dritto sulla fronte. Ma il grillismo è un camaleonte che si adatta a ogni esigenza e quando il vento della giustizia gira a sua sfavore, impegna un attimo ad assumere le nuance del giustizialismo. Ben vengano, buon ultimi, dalle parti del dubbio. Se non fosse l'ennesima buffonata. Una commedia degli equivoci nella quale tutti fingono di non sapere. La Raggi si finge stupita della convocazione in procura, quando oramai era chiaro a tutti dove sarebbero andati a parare i giudici. Pure Grillo fa il pesce in barile. Anche se proprio lui, con un anticipo da indovino, si era già affrettato a fare una conversione a U da ritiro immediato della patente di circolazione politica, sostenendo che non è necessario dimettersi di fronte a un avviso di garanzia. Ma l'effetto domino di questa commedia degli equivoci è travolgente e scivola in metamorfosi esilaranti. L'ex premier Matteo Renzi, che non aspettava altro che poter inforchettare i grillini - intima ai suoi di essere garantisti e di non infierire sulla Caporetto giudiziaria dei seguaci del comico. Mai nella storia politica recente era stato sguainato tante volte lo scudo del garantismo e della - sacrosanta! - presunzione di innocenza. Persino Marco Travaglio, nel tentativo di rimanere in equilibrio tra giustizialismo e filo grillismo, si mette a parlare a denti stretti di presunzione di innocenza. Probabilmente provocandosi un eczema. Insomma la Raggi, per il momento, come sindaco non ha fatto un bel niente. Ma come politico ha già fatto un miracolo: trasformare grillini e soci in garantisti. Ora c'è da sperare che non dimentichi la lezione. E che magari inizi a governare la Capitale. Giudici nonostante.

Ma tu guarda quanti manettari folgorati sulla via della gogna giudiziaria, scrive il 23 Maggio 2016 Maurizio Tortorella su "Tempi". Dure lezioni per Pd e M5S a Firenze, Livorno, Parma. Ma non si può sempre attendere di subire un’esperienza ingiusta per scoprire la violenza del populismo forcaiolo. «A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono». È bella e illuminante l’intervista che Graziano Cioni ha dato al Foglio. Cioni, 70 anni, era un comunista tutto d’un pezzo. È stato esponente di punta del Pci-Pds-Ds-Pd toscano. Assessore alla Sicurezza di Firenze, nel novembre 2008 si candidò a sindaco, ma venne travolto politicamente e umanamente da un’inchiesta e poi da un processo per corruzione per un grande progetto urbanistico sull’area fiorentina di Castello. Quell’inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d’inferno. Oggi dice: «Ero un giustizialista convinto, che puttanata! Per me la legalità era una bandiera. Le garanzie? la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema: quel che un magistrato fa è giusto per definizione». Cioni ricorda il famoso discorso di Craxi del luglio 1992, quando in piena Tangentopoli in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti, dichiarando «spergiuro» chi avesse negato un finanziamento illecito. «Votai per l’autorizzazione a procedere», dice Cioni. «Oggi non lo rifarei. Pensavo Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi». E oggi cosa dice Cioni della giustizia? «Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?». Un mostro da abbattere subito. Insomma, è un uomo folgorato sulla via di un processo, Graziano Cioni. E induce sincera compassione umana. La vita con lui è stata crudele, non solo dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e intimamente giusto, non stupisce nemmeno più. Anzi, contiene quasi una sconcertante regolarità. Accanto a Cioni, sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario e si fanno garantisti. È così per Filippo Nogarin, sindaco di Livorno, e per Federico Pizzarotti, sindaco di Parma. Indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 Stelle cui appartengono. Non si dimettono, benché il mantra grillino sia da anni “fuori dallo Stato ogni indagato”. In realtà, stupisce che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l’errore è umano, e lo è anche l’errore giudiziario. E pertanto che non c’è alcuna certezza, né una “Verità” insindacabile. Né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale. Il problema è che non si può sempre attendere di subire un’esperienza giudiziaria, magari ingiusta, per comprendere che la presunzione d’innocenza va davvero utilizzata come regola superiore. Che l’arresto in carcere deve essere davvero l’ultima istanza. Che i giornali non possono devastare l’immagine di una persona: possono porre problemi, ma non dare certezze. Il circuito mediatico-giudiziario è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato. Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico. Ma di calcoli politici si può anche soccombere.

Grillini che non sono ancora stati scoperti e grillini cornuti. “Non esistono grillini innocenti”. Che effetto fa? Scrive di Maurizio Crippa su "Il Foglio" il 4 Aprile 2017. Dice il saggio, con frase ormai divenuta brocardo per manettari, che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti”. Gli effetti li sappiamo. Poi ci sono gli effetti collaterali. Sarebbe bello, oggi, vedere gli effetti che il brocardo potrebbe avere sui suoi maggiori beneficiari, i grillini. Messi davanti al fatto che uno di loro, il consigliere comunale di Alessandria Angelo Malerba, è stato condannato in primo grado per il furto di due banconote da 50 euri sfilate a un cliente in palestra. Diranno che l’hanno espulso, certo. Ma, prima, lo avevano eletto. Dovrebbero chiedere al dottore Piercamillo Davigo, che si vocifera vogliano candidare (paraculi come siamo, attribuiamo la news a Iacobo Jacoboni della Stampa: tanto con lui i grillini ce l’hanno già su) se sia il caso di aggiornarlo, il brocardo: “Non esistono grillini innocenti, ma solo grillini che non sono ancora stati scoperti”. Che effetto fa? Che effetto farebbe, intendiamo, sull’autocoscienza dei giustizieri da scatola di tonno, selezionatori della gente dotata di onestà-tà-tà, scoprire che anche tra loro può allignare la mala pianta? Diranno che il reato è stato perpetrato a loro insaputa. E l’avvocato insuffla l’ipotesi (ma va?) del complotto. Perché Malerba avrebbe potuto candidarsi sindaco, quando era esponente del M5s. Forse anche questo all’insaputa di Grillo. Che però, nel caso, potrebbe riadattare a se stesso un altro celeberrimo brocardo di Davigo: “I magistrati sono come i cornuti, sono gli ultimi a sapere le cose”.

Il Movimento 5 Stelle sta facendo il Blue Whale all'Italia. Ci sono persone che non fanno niente di male ma si limitano a dire qualcosa in attesa che i deboli o gli indifesi si facciano del male da soli, scrive Antonio Gurrado il 31 Maggio 2017 su “Il Foglio". Ci sono persone che non fanno niente di male ma si limitano a dire qualcosa in attesa che i deboli o gli indifesi si facciano del male da soli. In questo modo si autoassolvono poiché non agiscono ma parlano, sono responsabili ma non si sentono tali, non arrecano danno diretto ma sfruttano l’autolesionismo altrui. Ad esempio. Dicono che bisogna rispettare la legalità fin nei minimi dettagli, e così qualcuno finisce per bloccare un’ambulanza perché va contromano, col rischio di far morire il paziente. Dicono che i politici devono rispondere di tutto alla volontà generale dei cittadini, e così qualcuno firma contratti con penali ingenti in cui lega mani e piedi a un’azienda privata il proprio ruolo di rappresentante del popolo. Dicono che la politica è un immenso complotto lobbistico ai danni della salute della gente, e così qualcuno finisce per voler legiferare contro l’olio di palma, contro le scie chimiche e contro i chip sottopelle. Dicono che bisogna proteggere a ogni costo i prodotti italiani, e così qualcuno presenta in Parlamento una proposta di legge contro il grano saraceno, convinto che provenga direttamente dalla Mecca. Dicono che bisogna avere per unico faro l’onestà-tà-tà, e così qualcuno crede che l’unico modo di misurare l’azione di un politico sia controllargli gli scontrini. Dicono che la rete è lo strumento privilegiato della democrazia, e così qualcuno si sente in diritto di vilipendere istituzioni e individui su profili social o in commenti sgrammaticati dopo essersi avvelenato su blog e siti organici. Dicono che ci vuole il reddito di cittadinanza, e così qualcuno crede che basti fare i cittadini connessi, arrabbiati e nullafacenti per meritare del denaro. Dicono che ci sono sentenze dei tribunali a comprovare che i vaccini possano causare l’autismo, e così qualcuno minaccia di morte il virologo Roberto Burioni perché sostiene che la scienza comprovi tutt'altro. Il Movimento 5 Stelle sta facendo il Blue Whale all'Italia intera.

M5s shock: Grillo e Casaleggio aprono ai poteri forti. È la fine del Movimento. I vertici pentastellati "rottamano" Di Maio, Di Battista & company e cercano personaggi vicini alla Casta senza "vincolo di militanza", scrive Marco Zonetti su "Affari Italiani" Domenica 28 maggio 2017. Davide Casaleggio lo aveva già lasciato intendere con il Convegno di Ivrea, al quale - con la scusa di celebrare l'anniversario della morte del padre Gianroberto - aveva invitato vari rappresentanti della società civile non esattamente lontani da quei "poteri forti" che, fino a ieri, erano visti come la peste dal M5s. Come scrive Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa, "il M5S cerca docenti, magistrati, imprenditori, manager, scienziati. Una «riserva repubblicana» spendibile in ministeri, Authority, istituzioni di garanzia, enti e aziende pubbliche. Il vincolo di militanza varrà per i candidati al Parlamento, non per la squadra di governo". Un vero e proprio scouting portato avanti quasi all'insaputa dei "poveri" attivisti un po' sgarrupatelli, un po' macilenti, un po' ingenui che continuano imperterriti ad allestire banchetti, a montare gazebo, a diffondere volantini spesso sgrammaticati. Intanto, alle loro spalle, Grillo e Casaleggio coadiuvati da qualche parlamentare - ovviamente del "cerchio magico" - cercano tramite convegni, incontri, presentazioni di libri e così via, avvocati, notai, imprenditori, esponenti cattolici, intellettuali... quelli insomma che venivano poco gentilmente allontanati dai meet-up in quanto legati per titoli o per professioni alla "Casta". La catastrofe Raggi a Roma, che rischia di trascinare nel baratro anche il M5s nazionale, ha accelerato questa procedura (iniziata già molti anni fa in sordina) ed ecco che, come leggiamo sulla Stampa, "Grillo e Casaleggio hanno esautorato la Raggi (i francesi di Suez hanno trattato direttamente con i vertici) collocando alla presidenza Acea l’avvocato di fiducia Luca Lanzalone, genovese. Per l’amministratore delegato, esponenti romani del M5S (gli stessi che si fanno vedere al circolo canottieri Aniene) hanno chiesto consiglio ad Aurelio Regina, già vicepresidente di Confindustria, uomo di raccordo tra i poteri capitolini. Il prescelto è Stefano Antonio Donnarumma, manager noto (arriva dalla multiutility milanese A2A) e gradito a Caltagirone". Gaetano Caltagirone: un nome che fino a ieri rappresentava l'Anticristo per il Movimento Cinque Stelle, mentre ora...Ma, ovviamente, in vista di un futuro governo tutto a cinque stelle, non saranno rottamati solo i semplici attivisti ma anche i "meravigliosi ragazzi", quei parlamentari d'assalto più spendibili come volti televisivi che non come ministri o sottosegretari. Altro che Paola Taverna al Ministero della Sanità o Luigi Di Maio premier o Roberta Lombardi agli Interni. Come riporta Salvaggiulo: "I sogni proibiti si chiamano Tito Boeri, liberal bocconiano presidente dell’Inps nominato da Renzi con cui manifesta distanza; Tomaso Montanari, storico dell’arte e pupillo di Salvatore Settis, alfiere della gestione pubblica dei beni culturali e neo presidente dell’associazione Libertà e Giustizia; Davigo, Onida o Zagrebelsky". E per quest'ultimo si comprenderebbe la battaglia accanita per il No al referendum in chiave antirenziana. Anche il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, con le sue aperture al M5s tramite il suo giornale, può essere visto come aspirante a una poltrona di prestigio in Rai attraverso un governo pentastellato. Ora si tratta di vedere come la prenderanno per l'appunto gli attivisti, che avrebbero buttato alle ortiche anni e anni di banchetti al freddo e al gelo per qualche click in più a eventuali comunarie, parlamentarie, e che dir si voglia, ma soprattutto i vari Di Maio, Di Battista, Ruocco, Toninelli... quelli che si sono spesi in primissima persona e che ci hanno messo la faccia, sognando - dissennatamente - una poltrona di ministro o di sottosegretario e che, con ogni probabilità, si vedranno soffiare l'osso dai personaggi che hanno combattuto fino a ieri. E con l'avallo di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Questa è la fine del Movimento Cinque Stelle com'era stato pensato, o perlomeno "venduto" all'Italia. Ed è l'inizio, o la continuazione, di un partito come tutti gli altri e forse ancor più permeato dai famigerati poteri forti. Gli stessi che, forse, fin dall'inizio ne hanno favorito l'ascesa.

Il piano di Davide Casaleggio e del M5S per accreditarsi tra poteri forti e lobby. In piazza i pentastellati citano San Francesco, ma nelle stanze del potere parlano con poteri economici, enti di stato e apparati di sicurezza. Il regista? L'erede di Gianroberto, scrive Marco Damilano il 25 maggio 2017 su "L'Espresso". Sorrisi. Strette di mano. Uno sferragliare di bigliettini da visita. I gesti tipici che accompagnano l’ingresso del nuovo arrivato in un club ristretto e esclusivo. Una mattinata in prima fila, nella sala conferenze del Maxxi, accanto al ministro Carlo Calenda e al presidente di Confindustria digitale Elio Catania. L’intervento a inizio lavori, da solo sul palco, privilegio concesso solo a lui e al ministro, in piedi davanti al leggio con il telecomando in mano, per parlare di startup, investimenti pubblici e incentivi fiscali per aiutare le imprese che fanno innovazione, compresa la sua. Che spettacolo l’apparizione nella Capitale di Davide Casaleggio, un mese fa, all’Internet day organizzato dall’agenzia Agi, di proprietà dell’Eni. Una giornata da imprenditore della rete, lui, il Davide della piccola Casaleggio associati seduto accanto ai grandi, alla pari con i Golia: Microsoft, Ibm, Airbnb. Riverito e omaggiato da una platea di operatori del settore, giornalisti, il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia che gli stringe la mano e elogia la preparazione dei deputati del Movimento 5 Stelle della sua commissione. In sala, però, di M5S non c’è nessuno: solo il portavoce Rocco Casalino si materializza alla fine per trascinare via Casaleggio dalle telecamere. Camicia bianca, completo scuro, cravatta a fantasia grigia, la divisa impersonale del capo azienda in una convention di colleghi, l’opposto della maglietta del militante sfoggiata alla marcia per il reddito di cittadinanza Perugia-Assisi la settimana scorsa. L’oratoria metallica, schematica come le slides che accende alle sue spalle. Niente potrebbe far immaginare a un osservatore distratto che questo quarantenne è il capo di un movimento considerato da molti in Italia e in Europa populista, sfasciatutto, pericoloso per la democrazia. Nessun segno, almeno visibile. Ma è nell’invisibilità delle relazioni e dei rapporti che Davide Casaleggio sta provando a far cambiare pelle a M5S. Dalla piazza dei Vaffa di Beppe Grillo e delle profezie avveniristiche di Gianroberto Casaleggio alla tessitura riservata di legami con aziende di Stato, apparati, il reticolo dei poteri imprescindibili per chi intende candidarsi a governare. È questa la vera conversione francescana predicata la settimana scorsa da Grillo ad Assisi: il lupo di Gubbio che spaventava con le sue razzie la politica italiana si sta addomesticando, sta prendendo casa nei palazzi del potere che voleva scoperchiare come una scatoletta di tonno. Fratello governo, sorella lobby. A Roma ormai è quasi un intercalare. Non c’è lobbista, responsabile di relazioni istituzionali di un ente qualsiasi, capo di un’agenzia di comunicazione che non cominci il discorso così: «L’altro giorno abbiamo incontrato il Movimento...». Una strategia di doppio accreditamento: M5S verso i poteri romani, i poteri verso il Movimento, perché tra poco si vota, hai visto mai che vincano loro. Davide Casaleggio è il regista della svolta, come si è visto a Ivrea, al meeting organizzato per il primo anniversario della morte del padre. Niente politica e molti relatori non sospettabili di simpatie grilline o di populismo, da Paolo Magri dell’Ispi, l’istituto per gli studi di politica internazionale, a Fabio Vaccarono, amministratore delegato di Google Italia.

I deputati e senatori di M5S accorsi in massa sono rimasti silenziosi in sala, a fare da platea. Come se, in quel caso, i rapporti tra l’azienda di Casaleggio e il partito di Casaleggio fossero invertiti rispetto ad esempio a quelli che ci furono tra Fininvest e Forza Italia agli esordi del berlusconismo in politica. Nel caso del Cavaliere l’azienda del Biscione fu chiamata a convertirsi rapidamente in partito, con gli uomini di Publitalia piazzati ai vertici della nascente formazione azzurra. Nel caso di M5S, il movimento esiste già, è una forza politica che raccoglie tra un quarto e un terzo del consenso degli italiani, e questa forza può tornare utile per far crescere l’azienda Casaleggio, che invece sul mercato ha ancora dimensioni ridotte. Di certo l’idea di entrare in rapporto con il capo di un partito che potrebbe conquistare il governo tra qualche mese permette al suo presidente, il figlio del fondatore Gianroberto, di essere introdotto in mondi e ambienti finora off limits.

L’Eni, per esempio, fino a poco tempo fa era considerata il male assoluto, con Grillo che si era presentato a un’assemblea tuonando contro i vertici, ora è cominciato il disgelo, con un lungo incontro tra Davide e alcuni ambasciatori dell’azienda: tantissime domande e lunghissimi silenzi da parte di Casaleggio, fase di ascolto ma l’incomunicabilità è finita. Con l’Enel i rapporti sono già in fase avanzata: anche in questo caso non è passata un’era geologica da quando Grillo attaccava le centrali a carbone «che uccidono l’Italia», le bollette e i contatori inutili. Ma due mesi fa una delegazione di M5S è volata a Copenaghen per visitare le aziende che stanno compiendo «la rivoluzione energetica danese», come l’hanno definita. C’erano i parlamentari Riccardo Fraccaro, Davide Crippa, Piernicola Pedicini, Gianni Girotto e il più entusiasta della compagnia, Luigi Di Maio: «Abbiamo toccato con mano un progetto stupendo che porta la firma dell’Italia: l’hub dei veicoli elettrici con tecnologia V2G dell’Enel», ha esultato il vice-presidente della Camera e candidato premier in pectore a proposito delle infrastrutture di ricarica per le auto elettriche. Per tutto il viaggio gli esponenti del Movimento 5 Stelle sono stati affiancati dagli uomini dell’Enel. Il senatore Gianni Girotto, l’uomo di M5S che segue le questioni energetiche, ha partecipato il 21 dicembre 2016 al seminario “Energy Perspectives 2017 and beyond” promosso dall’Enel e organizzato dal Centro studi americani presieduto da Gianni De Gennaro, ex capo della polizia oggi presidente di Leonardo Finmeccanica. Nel programma per l’energia di M5S ci sono riconoscimenti espliciti per l’Enel. E a Civitavecchia il sindaco grillino Antonio Cozzolino ha firmato una convenzione con l’Enel con un contributo di 4,5 milioni al comune, dopo anni di battaglie in senso opposto. L’altro uomo di contatto con le aziende partecipate è il deputato veneto Riccardo Fraccaro, molto attivo e molto lodato. «Ho incontrato Riccardo», ripetono i lobbisti intorno ai palazzi di Camera e Senato. «Ho visto Luigi», che sarebbe Di Maio: lui vede e incontra tutti. Di Maio è di casa. Era accanto a Maria Elena Boschi e a Gianni Letta al Centro studi americani, il regno di De Gennaro e dell’onnipresente Paolo Messa, consigliere di amministrazione Rai in quota centrista ma molto trasversale, al punto di aver firmato una lettera pubblicata dal Corriere della Sera che anticipava la sfiducia al direttore generale Antonio Campo Dall’Orto insieme a Carlo Freccero, consigliere eletto con i voti di M5S. Il sito dell’associazione di Messa “Formiche”, ben introdotto nelle ambasciate e nelle forze armate, non si perde un convegno o un seminario organizzato da M5S. L’occasione dell’intervento di Di Maio al centro studi americani era offerta dalla presentazione di un libro di Vito Cozzoli, già capo di gabinetto al ministero dello Sviluppo economico con Federica Guidi. «Vito», come lo chiama confidenzialmente Di Maio, è oggi capo del servizio sicurezza della Camera. Un altro settore, quello della sicurezza e dei servizi, in cui sono in corso manovre di annusamento reciproche. Sorprendenti. Dispensatore di consigli per M5S, quasi un consulente in materia, è il generale dei carabinieri in congedo Umberto Saccone, ex Sismi. Invitato come relatore d’onore un anno fa al seminario “Intelligence Collettiva: Storia dei Servizi Segreti” organizzato dai gruppi parlamentari di M5S con il senatore Bruno Marton che è componente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Uscito dall’Arma, Saccone è stato per otto anni direttore della Security Eni, negli anni in cui nell’ente nazionale idrocarburi dominava Paolo Scaroni (con il faccendiere Luigi Bisignani) e un mese fa è stato nominato amministratore unico della Port Authority Security che gestisce la sicurezza nel porto di Civitavecchia, comune amministrato da M5S, oltre che di Fiumicino e Gaeta.

Il banco di prova, a proposito di nomine, è naturalmente il centro di potere più importante di M5S, il Comune di Roma dove da quasi un anno è arrivata Virginia Raggi. Dopo la prima fase drammatica, quella dei quattro amici al bar, come si chiamava la chat su whatsapp della sindaca con il capo del personale Raffaele Marra, poi arrestato, e del caposegreteria Salvatore Romeo, è arrivata l’ora del reset. Ordinato e eseguito direttamente dalla Casaleggio associati, da Davide in persona. Prima mossa, la nomina dell’imprenditore veneto Massimo Colomban all’assessorato chiave che si occupa delle società partecipate del Comune di Roma: animatore della Confapri e del think tank Group nel cui board di fondatori figurava anche Gianroberto Casaleggio. Seconda mossa, le nomine dei vertici delle partecipate, la multiutility di acqua e energia Acea, l’azienda dei trasporti cittadini Atac, con nomi pescati fuori dai giri romani e dal litigioso raggio magico che circonda la sindaca. Come amministratore delegato dell’Acea è stato scelto il milanese Stefano Donnarumma, già in Acea, poi in Adr (Aeroporti di Roma) e infine direttore reti della A2A. All’Atac un altro milanese, Bruno Rota, l’uomo che ha diretto per anni l’azienda di trasporti meneghina Atm. «Le migliori scelte possibili», esulta un lobbista. Accompagnate da altre nomine: l’avvocato Luca Lanzalone alla presidenza di Acea e Liliana Godino nel cda, genovesi come Grillo, e Gabriella Chiellino, veneta come Colomban. La via pentastellata alla lottizzazione: un mix di competenze e di fedeltà, in ogni caso il tentativo di superare la prima fase dell’uno vale uno, caro a Grillo e Casaleggio senior, con i nomi da reclutare in vista di un’ipotetica squadra di governo per il dopo-elezioni (ma Di Maio giura che sarà presentata prima del voto). Quasi una divisione di ruoli: al partito, ai volti mediaticamente più noti, i Di Maio e i Di Battista, il compito di rappresentare pubblicamente l’anima di lotta di M5S, la diversità grillina dagli altri partiti, sempre più labile. A Casaleggio e ai suoi la gestione delle relazioni di potere che aprono le porte del governo, ma anche a preziose relazioni tra aziende che si occupano di web. «La forza del M5S si basa sull’unione paritaria di due componenti, quella analogica e quella digitale, che non avevano mai trovato prima una sintesi politica così micidiale», scrive Giuliano da Empoli, già consigliere di Matteo Renzi, in “La rabbia e l’algoritmo. Il grillismo preso sul serio”, appena pubblicato da Marsilio. Ma l’evoluzione di M5S va in direzioni inaspettate, anche rispetto ai movimenti populisti europei cui viene comunemente associato. Né il Front National di Marine Le Pen in Francia né l’Ukip in Inghilterra, infatti, hanno potuto godere delle entrature con un pezzo di establishment che Casaleggio e i suoi stanno coltivando. È una storia molto italiana. Un movimento né di destra né di sinistra, con quasi un terzo dei voti, ha interesse a presentarsi come una possibile forza di governo, garantendo che non offrirà posti soltanto ai suoi, a una classe dirigente che continua a non avere. E enti di Stato, apparati e giù giù la pletora di faccendieri, lobbisti, comunicatori, il contesto romano che fa da sfondo a ogni potere, ha interesse a occupare quello spazio vuoto: a proporsi come quella classe dirigente che non c’è. È questa la doppia conversione, il doppio movimento da tenere d’occhio nei prossimi mesi. Fratello governo, sorella lobby.

“Di Maio e Di Battista al massimo hanno fatto hostess allo stadio”, scrive la redazione di "Blitz Quotidiano", il 16 maggio 2017.  Berlusconi è a Monza per sostenere il candidato sindaco di Monza e parla dei parlamentari grillini: “L’80% dei parlamentari del M5s non aveva mai presentato una dichiarazione dei redditi: vuol dire che sono senza né arte né parte. I due più visibili (Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista ndr) sono un fiume in piena perché… ...sono fuori corso, non hanno nemmeno una laurea. E’ dimostrato che si facciano mandare le domande dalle trasmissioni cui partecipano. Per governare l’Italia serve competenza ed esperienza, loro sono bravi a fare le hostess al San Paolo e all’Olimpico per guardarsi le partite”. Silvio Berlusconi ha usato queste parole durante il suo intervento alla conferenza stampa per la candidatura di Dario Allevi. 

M5S: ecco chi sono i casaleggini, i fedelissimi di Davide Casaleggio nel Movimento 5 Stelle. Deputati famosi come Di Battista e Di Maio e, soprattutto, figure della comunicazione abituate a stare dietro le quinte. Nome per nome, tutti i personaggi chiave del controllo di Davide Casaleggio sui pentastellati, scrive Susanna Turco il 30 maggio 2017 su "L'Espresso". Che nel M5S la Casaleggio coi suoi canoni sostanzialmente imperi, lo si capisce persino dal modo con cui vengono fatti i complimenti. Il valore di un parlamentare, ad esempio, più che in lauree ed efficacia politica viene espresso in giga e possesso di dati. «Abbiamo un portavoce che è un pozzo di scienza: nel suo cranio non c’è un normale cervello. C’è un hard disk da novemila giga». Proprio così al raduno di Imola fu esaltata la figura di Carlo Martelli, oggi capogruppo a Palazzo Madama, uno di cui Casaleggio si è sempre fidato: «Ha tutti i codici, tutte le informazioni, apre i file quando vuole», disse per l’occasione Max Bugani, fedelissimo di Davide Casaleggio. Uno che apre i file quando vuole. Qualsiasi cosa questo significhi, applausi dalla platea. Si stendono in effetti su diversi piani, non sempre illuminati o pienamente spiegabili, i fili che dal Movimento Cinque stelle riportano alla Casaleggio Associati, al padre Gianroberto prima e al figlio Davide poi (il necessario passaggio generazionale è stato di fatto un’abdicazione dinastica, peraltro non indolore). Poco visibili sono a volte proprio le persone che incarnano questo link. Parlamentari, comunicatori, spicciafaccende a vario grado, dal peso tutt’altro che sottovalutabile. Al livello del percepibile vi sono le webstar, personaggi il cui ruolo è del tutto squadernato. Come Alessandro di Battista, il cui viaggio anche editoriale dal Sudamerica a Milano con candidatura finale è noto, e quasi simbolico dell’azienda-partito. Vi sono poi parlamentari la cui consonanza con nuovo dominus della Casaleggio è meno evidente ma c’è. Ad esempio Roberta Lombardi, la più fiera avversaria di Virginia Raggi: dopo la fase più dura della guerra sul Campidoglio, la deputata ha superato tutti sospetti e dubbi di “tradimento” recuperando un ottimo rapporto con Casaleggio jr (gli sfilava ostentatamente accanto, alla marcia di Assisi), al punto che da ultimo si è persino permessa di non rispondere a una telefonata di Grillo, lusso che in M5S non si concede nessuno. Del resto, Casaleggio jr nell’ultimo anno è andato a cercare un rapporto coi parlamentari sin qui critici, con un doroteismo che il padre non aveva: per esempio uno come il genovese Sergio Battelli, detto Elvis, licenza media, venditore di canarini in un negozio di animali prima dell’approdo alla Camera. Il ventre molle degli eletti, sempre utile. Nell’ottica del mantenimento dello status quo, sono pure ottimi i rapporti con l’altra star del movimento, Luigi Di Maio, e con tutti i suoi (Toninelli, Fraccaro, Bonafede, fino alla new entry Laura Castelli). Viaggiano nella stessa direzione, certo: per quanto l’accreditarsi di qua e di là come una trottola del vicepresidente della Camera (ultimo lo strombazzatissimo incontro al centro studi americano, con l’ex capo della polizia De Gennaro, a presentare il libro di Vito Cozzoli, apoteosi di establishment) sembri raccontare una armonia necessitata, tesa; e semmai costantemente sul punto di volgersi nel suo contrario. Scendendo dalla scena al retrobottega, i binari dell’era di Casaleggio jr, sono persino più tracciati che nei tempi passati. Sempre allineata, come lo fu al padre, la capa comunicazione alla Camera Ilaria Loquenzi: un paio d’anni fa, tanti nell’assemblea parlamentare avevano votato per farla fuori (si puntava all’epoca anche sul fatto che non avesse competenze specifiche - a differenza per dire dei fratelli Brandi, che collaborano attraverso la loro Web side story, preparatissimi, specie il piccolo che dicono essere una specie di mago degli account social), ma all’epoca Gianroberto si arrabbiò così tanto che ne ottenne la riconferma. Uguale, con Davide. Anzi, nei giorni della sua ospitata a Otto e mezzo, quando qualcuno accennò a lui come «il vostro vero candidato premier», Loquenzi sospirò qualcosa che viene riportato a verbale come un: «Eh, magari». Resta lei, occhi e orecchie casaleggini nel Movimento. Come pure, ovvio, Rocco Casalino, ingegnere, capo della comunicazione al Senato, semidio perché - a seguito probabilmente delle sue esperienze nel ramo - ha facoltà di scegliere chi va in tv o no e dove («me lo segno a matita» è una delle frasi con le quali significa simpaticamente l’arbitrarietà di questo suo potere). Del resto è per statuto facoltà di Grillo e quindi in pratica della Casaleggio decidere da chi debbano essere composti gli uffici comunicazione di Camera e Senato.  Un riflesso che per ragioni ormai stratificate si sente di più nel variopinto gruppo del Senato, dove ci sono figure come Dario Adamo, braccio destro di Casalino, approdato alla Casaleggio dopo la laurea in Promozione e marketing del prodotto audiovisivo e prima della vittoria M5S nel 2013; ma ci sono anche personaggi che d’improvviso sbalzano dallo sfondo, come Nicola Virzì, alias Nick il Nero, saltato in cronaca per il video contro il direttore del Tg1 Orfeo: camionista e videomaker, molto vicino a un casaleggino doc della prima cerchia come Max Bugani - consigliere comunale a Bologna, braccio destro di Davide e membro dell’Associazione Rousseau -, di botto smise la tradizionale t-shirt e indossò giacca e cravatta quando nel 2013 fu chiamato da Casaleggio a fare i video per gli eletti da diffondere, sul blog e oltre. Il terzo pretoriano di Davide Casaleggio, quello che con Casalino (e Loquenzi) si vede puntualmente al suo fianco negli spostamenti è Pietro Dettori: già dipendente della Casaleggio Associati, filo Putin, almeno fino a tempi recenti autore di molti dei post che compaiono sul blog di Grillo, un anno fa è diventato responsabile editoriale dell’Associazione Rousseau, referente della piattaforma. Il suo ruolo, centrale sul blog e negli account, era ricoperto prima da Filippo Pittarello, personaggio chiave dell’universo casaleggino: ex scout, bocconiano, alla Casaleggio dal 2007, nel 2014 è stato spedito a Bruxelles per fare anche lui il dioscuro dei fondatori (in una intervista si definì un “tranquillizzatore”, altri trovarono più adatto il paragone con “Hal 9000”, l’occhio rosso di Odissea nello spazio). Tecnica di comunicazione del genere della Pnl, è stato lui (col fratello) il tramite attraverso il quale Silvia Virgulti si è avvicinata alla Casaleggio per poi entrare al gruppo comunicazione della Camera con un ruolo rasente il sacro; e così pure quello attraverso il quale un’altra donna, Cristina Belotti, è entrata a far parte della galassia. Lei, Belotti, lavorava a Mediaset con Paolo Del Debbio (il giornalista che a cicli triennali Berlusconi sogna di candidare), poi è approdata nel mondo casaleggino scalzando dal canale tv La Cosa il dj Matteo Ponzano, che l’aveva messa su; infine, a Bruxelles ha preso il posto proprio di Pittarello, come responsabile comunicazione, mentre lui sempre più pare si stia costruendo un profilo da funzionario. O da esautorato, non è chiaro. Grillo lo comunicò in uno dei suoi post scriptum, ai tempi dell’eurofiguraccia della mancata adesione all’Alde: quell’operazione gestita dal terzo (su tre) dei casaleggini nella Rousseau, l’europarlamentare David Borrelli, che peraltro - giusto a dire il ruolo di Casaleggio jr - alla fine nonostante il situazionismo sfrenato dei giorni in cui M5S voltò le spalle a Farage per poi tornargli in braccio, da quella vicenda più di tanto non è stato danneggiato.

Tutti gli errori di Di Maio e il M5s sul caso Minzolini. Il Vicepresidente della Camera è tornato sull’argomento durante l’intervista a Di Martedì: “Non dirò mai che sul caso Minzolini è stata rispettata la legge”. Ecco perché sbaglia, un fact checking, scrive Lorenzo Borga il 22 Marzo 2017 su “Il Foglio". È ormai un dato di fatto che il movimento di Beppe Grillo ha scelto, da tempo ma ancor più dopo l’elezione del Presidente americano, la via della delegittimazione dei mass media tradizionali e delle semplificazioni-disinformazioni-bufale, in un climax di gravità. L’ultimo esempio lo fornisce il caso Minzolini, l’ex direttore del TG1 – oggi in Forza Italia - sulla cui decadenza per ineleggibilità il Senato ha votato a sfavore, seguendo le prescrizioni della legge Severino. La votazione si è svolta a voto palese, e 19 senatori del Partito Democratico hanno votato contro la decadenza, evidentemente perché hanno trovato la condanna influenzata dal fumus persecutionis. Purtroppo quasi nessuno di loro ha giustificato la propria scelta sui social network e non siamo perciò in grado di conoscere le motivazioni, ne risponderanno loro stessi agli elettori.

Riepiloghiamo la storia giudiziaria: Augusto Minzolini è stato giudicato colpevole dalla Cassazione per peculato continuato e condannato a due anni e mezzo di reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici; i giudici hanno verificato infatti un uso improprio della carta di credito della Rai con la quale l’ex direttore ha totalizzato spese per 65mila euro. Luigi Di Maio, leader in pectore del Movimento, ha parlato di atto eversivo, aggiungendo che i parlamentari non si dovrebbero più lamentare in caso di “atti violenti, perché i primi violenti che vanno contro la legge sono loro”, scatenando naturali polemiche nei giorni successivi. Il Vicepresidente della Camera, non soddisfatto, è tornato ieri sull’argomento durante l’intervista a Di Martedì (dal minuto 03:51), su La7. Di fronte al tentativo di Floris di ristabilire la realtà giuridica, Di Maio ha sbottato: “Non dirò mai che sul caso Minzolini è stata rispettata la legge perché il Parlamento doveva prendere atto della decisione di un altro potere dello Stato”. Il pubblico in studio è sembrato credergli visti gli applausi calorosi che ormai a La7 non stupiscono più, ma è stato ingannato.

L’articolo tre del decreto legislativo n. 235/2012, conosciuto ai più come legge Severino, prescrive che “qualora una causa di incandidabilità […] sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione.” Verificando il testo costituzionale si scopre che l’articolo citato prevede un “giudizio” da parte dei membri della camera interessata, e non una “presa d’atto” come pare sostenere Di Maio. Il Parlamento ha cioè il dovere di votare, ma non di approvare la decadenza del proprio membro. Ed affermare, come fa il deputato del M5s, che “nella legge Severino c’è scritto che la Camera deve votare perché non poteva scrivere altrimenti” è una banale tautologia che non dimostra in alcun modo l’automatismo della decadenza in caso di condanna passata in giudicato. In diritto le parole contano, per di più se contenute nella Costituzione; Luigi Di Maio, studente (fuoricorso) di giurisprudenza dovrebbe esserne a conoscenza. D’altra parte la sua tesi è smentita dal fatto che nella prima versione del decreto legislativo della Severino, preparata dal governo Monti nel 2012, il testo, come scoperto dall’Huffington Post, si presentava in modo differente: allora l’articolo tre – che sarebbe stato poi modificato – prevedeva la “decadenza di diritto”, senza rimandare all’articolo 66 della Costituzione. Se insomma il legislatore avesse voluto introdurre la decadenza automatica di fronte a una condanna in terzo grado lo avrebbe potuto fare. Gli stessi padri costituenti, evocati fino alla noia dai 5 stelle durante la campagna referendaria per il No, intendevano l’articolo 66 come un giudizio da parte del Parlamento, e non una semplice e più debole verifica o presa d’atto.

Come ricorda il costituzionalista ed ex senatore del Pd Stefano Ceccanti sul Sole 24 Ore, Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente, nel 1946 affermò “la Camera ha una sovranità che non tollera neppure nelle cose di minore importanza una qualsiasi limitazione. Potrà trattarsi di una posizione di carattere simbolico; tuttavia essa significa che ogni intromissione, sia pure della magistratura, è da evitarsi”.  Ma i pentastellati hanno commesso anche un altro errore sulla vicenda: hanno scritto infatti di “quarto grado di giudizio”, sul blog di Beppe Grillo. Il voto delle camere pone tuttavia l’attenzione sull’ineleggibilità e l’incompatibilità dei propri componenti, e non sulla sentenza passata in giudicato che rimarrà operativa e dovrà essere scontata anche da Minzolini.

Luigi Di Maio si confonde nell’interpretazione, in realtà piuttosto chiara, della legge Severino ed arriva addirittura ad affermare – sbagliando, concedendogli il beneficio del dubbio – che il Parlamento è fuori legge. Non sarà che l’esame mancante al giovane studente fuoricorso sia proprio quello di diritto costituzionale?

Fucksia: «Raggi vittima, Di Maio venditore di aspirapolveri…». Intervista di Giulia Merlo del 31 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Serenella Fucksia, eletta nel Movimento 5 Stelle e oggi nel gruppo misto, fa un bilancio di come il movimento sia cambiato. «Un giorno, guardandoci indietro, ci chiederemo come siamo finiti a seguire un comico». Serenella Fucksia, senatrice eletta tra le fila del Movimento 5 Stelle e oggi nel gruppo misto, fa un bilancio di come il movimento sia cambiato, e di come l’amministrazione di Roma ne sia la cartina tornasole.

Senatrice, ma il problema è Virginia Raggi?

«Virginia Raggi è l’espressione del problema che sta alla base del movimento. Lei aveva tutto per essere eletta: bella presenza, curriculum, telegenia. A mancare è stato tutto l’intorno: l’assenza di una classe dirigente, l’inadempienza nello scegliere in base al merito il personale e l’incapacità di produrre una visione per Roma. Gli stessi mali del movimento».

Quindi, dopo la vittoria schiacciante alle urne, è già finito l’idillio?

«La Raggi si è circondata di coccodrilli, iene ed incapaci, persone che non sanno nemmeno fare le delibere e lasciano la Capitale senza un bilancio, sguarnita di fronte alle urgenze. Ora, poi, la sindaca sta subendo un logorante boicottaggio interno, perché ha rivendicato il proprio ruolo, mettendo in ombra alcune primedonne del Movimento e non lasciandosi manovrare a piacere.

Dopo l’arresto di Marra e le indagini sugli assessori, riaffiorano anche i sospetti sull’origine di questo successo…

«Guardi, io sono sempre stata garantista e credo che le polemiche giudiziarie siano il meno, proprio come l’onestà deve essere un requisito scontato. Il punto è un altro: tutti sapevano che lo studio Previti- Sammarco da cui lei proviene le ha fatto da promotore della campagna elettorale, come tutti sapevano che la Raggi era appoggiata dalla destra romana. Lei è stata scelta secondo le logiche di marketing del movimento, secondo cui la sua immagine da ragazza della porta accanto funzionava molto meglio rispetto a quella di Marcello de Vito, con cui avrebbe- ro rischiato di perdere. Risultato: è stata candidata una persona che ha riprodotto le stesse dinamiche della vecchia politica, a partire dall’assunzione in Comune di figli, fratelli e parenti di parlamentari e collaboratori».

Una bocciatura su tutta la linea, quindi?

«Le dico la verità, io e credo anche molti romani ci siamo, tutto sommato, affezionati a Virginia Raggi: la colpiscono da ogni lato e viene l’istinto di proteggerla. Inoltre la considero comunque la meno peggio rispetto alla media dei 5 Stelle. Penso addirittura che potrebbe essere una amministratrice presentabilissima, se solo venisse affiancata da uno staff capace. Io tifo Raggi, ma non vedo la luce in fondo al tunnel».

Per di più Raggi cammina su un filo sottile, almeno stando ai principi del movimento: lei sente aria di espulsione?

«Il Movimento 5 Stelle non è basato sui principi, ma solo sugli interessi. Per questo, Raggi verrà espulsa solo in extremis se proprio la situazione non sarà più salvabile. Probabilmente, poi, decideranno di usarla come capro espiatorio mediatico, scaricando su di lei tutta la responsabilità dell’incapacità gestionale. La decisione, però, verrà presa in base al consenso e ai continui sondaggi commissionati da Casaleggio».

Eppure la parola «onestà» rieccheggia ancora nella sala Giulio Cesare…

«Serve però altrettanta onestà intellettuale per valutarla: Virginia Raggi nasce da un malgoverno indifferenziato di destra e sinistra a Roma, che ha abituato i romani ad una città che non funziona e li ha portati a non fidarsi più della politica. Purtroppo, però, nel movimento l’onestà viene sventolata ma non praticata: i 5 Stelle hanno i difetti della vecchia politica – con lotte interne per poltrone e prebende – ma non i pregi, come l’esperienza amministrativa e una classe dirigente che sa far funzionare una città».

Il suo è un giudizio molto severo, non salva nulla del movimento?

«Per me il Movimento 5 Stelle è stato un grande sogno. Ero stata attratta dall’entusiasmo dei giovani che partecipavano e dallo spirito genuino che riportava le persone ad interessarsi di politica. Pensi che io mi sono candidata perché non riuscivamo a riempire la lista per la mia circoscrizione elettorale. Il successo troppo rapido alle elezioni, però, ha ucciso quello spirito ed evidenziato tutti i limiti: nessuna selezione di classe dirigente, ma soprattutto uno sgomitamento di tutti contro tutti per un posto al sole».

Nonostante questo, l’impressione è che sia un successo destinato a ripetersi anche alla prossima tornata elettorale…

«Il successo si ripeterà di certo, se non nascerà qualcosa di nuovo. Il Movimento 5 Stelle è come le spalline negli anni Ottanta: le mettevamo perchè erano di moda, ma oggi nessuno le indosserebbe più. Le mode senza sostanza passano velocemente, ma vengono sostituite solo da cose di qualità. L’antipolitica di Grillo si combatte solo con una politica alta, fatta di merito e competenza».

Lei vede esempi di questa politica alta?

«Oggi è necessario ricostruire un’identità politica e la crisi attuale ha aperto praterie sconfinate. C’è spazio nella zona moderato- riformista, e il tentativo non completamente riuscito di Stefano Parisi è un esempio. Lì ho rivisto alcune idee iniziali del Movimento, però con competenza. Anche l’esperimento dei sindaci con Giuliano Pisapia ha aperto un campo molto interessante, rielaborando i principi del socialismo e del riformismo».

Lei ha votato la fiducia al governo Gentiloni: rientra in quest’ottica?

«Io credo che il governo Renzi abbia tutto sommato fatto molte cose buone e penso all’occupazione, ai giovani e al sud. Alcuni provvedimenti messi in campo sono ancora da approvare e vanno portati a termine: la direzione imboccata era più che giusta e chiudere ora la legislatura significava buttare tutto. In quest’ottica ho dato la mia fiducia a Gentiloni, di cui ho apprezzato la volontà di riportare al centro il Parlamento, fermo restando che valuterò nel merito ogni provvedimento».

E vede anche qualche leader?

«Io ho nostalgia della prima repubblica. Servirebbe una scuola politica, capace di formare persone anche al di là degli schieramento. Per fare qualche nome, però, Matteo Renzi mi piaceva molto».

E nel Movimento 5 Stelle?

«Luigi Di Maio è poco più di un venditore di aspirapolveri. Alessandro Di Battista invece non è un politico, ma uno proiettato solo ad essere famoso».

Movimento 5 Stelle: chi è Luigi Di Maio, dalla A alla Z, scrive Vanity fair il 13 ottobre 2014. 28 anni, una fidanzata trovata «nonostante il Movimento» e una passione per la storia. Chi è l'astro in ascesa del Movimento 5 Stelle. Se Italia 5 Stelle ha avuto un risultato, è stato quello di far emergere il carisma e la popolarità di Luigi Di Maio (qui l’intervista). Il vicepresidente della Camera è stata la vera star della manifestazione del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma. E’ stato lui l’eletto più fotografato, più abbracciato e più richiesto dai militanti. Più di Alessandro Di Battista o Paola Taverna, entrambi giocatori in casa nella tre giorni romana ed entrambi facenti parte, assieme a Di Maio, del cosiddetto «cerchio magico» del Movimento, quel trio cui è concessa l’esposizione mediatica e che gode della massima fiducia dei leader Grillo e Casaleggio. Con Di Maio prevale l’anima più istituzionale e garbata del Movimento, contrapposta a quella più piacionesca di Di Battista e a quella più istintiva della Taverna. Il segno dell’investitura del 28enne campano è tutto nella scaletta degli interventi al Circo Massimo. Di Maio è stato l’ultimo dei parlamentari a parlare domenica pomeriggio, prima di cedere il microfono a Beppe Grillo per il comizio finale di Italia 5 Stelle. Ecco chi è, dalla A alla Z, il probabile futuro candidato premier del Movimento 5 Stelle.

Avellino: la città di nascita, «ma solo perché lì c’era l’ospedale che funzionava». Luigi di Maio ha sempre vissuto a Pomigliano D’Arco, cittadina di 40 mila abitanti in provincia di Napoli dove si produce la Panda, un tempo soprannominata la Stalingrado del Sud.

Blu: il colore preferito. Composto, inappuntabile, Di Maio veste sempre giacca e cravatta e se ne frega di chi, anche dentro il Movimento, lo chiama «il berluschino dei Grillini». Per Italia 5 Stelle ha fatto un’eccezione: «Visto? Ho messo i jeans».

Consiglio comunale: in quello della sua Pomigliano si candida nel 2010, dopo tre anni di gavetta all’interno del Movimento 5 Stelle. Ma raccoglie appena 59 voti.

Destra: l’area politica del padre Antonio, ex dirigente Msi e An, che neanche in quelle elezioni in cui correva il figlio se la sentì di tradire i suoi ideali politici.

Elezioni: gli va meglio alle Parlamentarie del 2013, nelle quali ottiene 189 preferenze e un lasciapassare per la Camera, di cui qualche settimana dopo diviene vicepresidente.

Fidanzata: l’ha trovata dopo essere diventato deputato e l’ha voluta con sé anche al Circo Massimo. Prima di entrare alla Camera disse che l’impegno politico aveva rovinato la sua vita sentimentale. «Ma si vede che il Movimento mi ha portato bene».

Giurisprudenza: la studia da anni all’Università di Napoli, ma con andamento altalenante. Preso da campagne elettorali e lavoretti come webmaster, Luigi si è lasciato indietro parecchi esami. Adesso pare stia cercando un buon corso online per recuperare.

Hotel: al Forum di Roma in questi giorni ha fatto capolino più volte per incontrare il leader Beppe Grillo, che ha occhi solo per lui e che proprio lui ha scelto per andare in giro per la Capitale nei giorni prima della manifestazione.

Imbriani: è il liceo classico di Pomigliano, alla rappresentanza del quale Luigi si candida, vincendo, nei primi anni 2000, stanco di vedere trionfare sempre i ragazzi di sinistra. Il primo successo non si scorda mai.

Lavoro: difficile dire se adesso ne abbia uno. Si qualifica come webmaster, ma nella dichiarazione dei redditi presentata una volta sbarcato in Parlamento ha dichiarato zero euro. Spiega che ha cofondato un sito di e-commerce di successo, ma una volta eletto ha abbandonato l’azienda per non mettere in difficoltà i soci.

Macchine: adora quelle di Formula 1, da gran tifoso della Ferrari qual è, ma odia quelle blu, che considera il male assoluto. «Se mi doveste mai vedere all’interno di un’auto blu», dice serio ai suoi, «linciatemi».

Nessuna: speranze nel Pd. Al Circo Massimo Luigi Di Maio ne ha approfittato per chiudere l’ultima porta in faccia a Matteo Renzi. «Sono stato al tavolo con Renzi. Ho proposto un mucchio di cose, ma le hanno bocciate tutte. Ho cercato di fare il possibile. Adesso basta».

O sei uscito pazzo, Beppe, o sei invecchiato!: l’sms che mandò a Grillo dopo che questi aveva detto pubblicamente di imparare sempre da Di Maio, «anche quando sta zitto». La risposta arrivò a stretto giro: «Dicevo sul serio».

Pubblicista: lo è stato, regolarmente iscritto all’albo della Campania, nonostante le firme raccolte al V2Day del 2008 per abolire l’ordine dei giornalisti.

Quid: a differenza di Alfano, lui ce l’ha eccome agli occhi di Grillo e Casaleggio.  «Perché abbiamo scelto Luigi?», ha scherzato giovedì il comico genovese davanti ai giornalisti. «Per rovinargli la vita».

Renzi: Di Maio si è conquistato anche la stima del premier, che non esito a definirlo «forte» davanti al leader Grillo. Per tutta risposta, quando alla Camera il premier gli inviò dei bigliettini per invitarlo a un confronto, lui li fotografo e li pubblicò su Facebook.

Storia: ne è un appassionato, come Gianroberto Casaleggio. Da piccolo leggeva quella d’Italia a cura di Indro Montanelli. Da grande, si impegna a farla da sé.

Taverna: Paola, vulcanica senatrice M5S romana, autrice nei giorni scorsi dell’endorsement più di peso nel movimento a Luigi: «E’ bravo, è il leader del futuro».

Unità: alla Festa dell’Unità lui ci invia metaforicamente chiunque parli di questione di leadership all’interno del Movimento. La frecciatina neanche tanto velata è a Federico Pizzarotti, che ha chiesto un confronto sull’organizzazione M5S. «Chi vuole cercare una leadership», ha risposto di Maio, «vada alle feste del Pd».

Vicepresidenza: la sua è severissima. Quando presiede Montecitorio, Di Maio è inflessibile, più della stessa presidente Boldrini.

Zero: le possibilità che si dà, pubblicamente, di essere il prossimo candidato premier del Movimento 5 Stelle. «Leggo robe da fantacalcio», dice ai giornalisti.

La strada che porta allo scioglimento del 5 stelle. Dietro il gioco di scatole cinesi del partito di Grillo si nasconde un bug che può far saltare l’impalcatura giuridica del Movimento. I regolamenti, le sospensioni, i codici illegittimi. Inchiesta sul prossimo big bang grillino, scrive Annalisa Chirico l'1 Dicembre 2016 su "Il Foglio”. Magari fosse soltanto una faccenda di firme. Il M5s ha un bug nel sistema. Un bug gigantesco. In vista delle prossime elezioni politiche si scorgono le prime crepe di una voragine che potrebbe risucchiare, in un colpo solo, l’impalcatura giuridica del movimento fondato da Beppe Grillo e da Gianroberto Casaleggio. Gigante dai piedi d’argilla, il M5s, o meglio i suoi vertici, devono districarsi in un guazzabuglio giuridico puntellato di codici e codicilli, regolamenti, statuti e ricorsi tribunaleschi. Una materia delicata, anzi delicatissima, maneggiata finora all’insegna della cautela e della riservatezza, zero streaming, e affiorata sporadicamente sulla stampa per via di un paio di pronunce togate, spia della fragilità costitutiva della struttura pentastellata. Partendo da qui e scavando a fondo tra gli arcana imperii del leader carismatico, artefice di una diarchia fattasi monarchia per la prematura scomparsa di Casaleggio senior, cerchiamo di rispondere al quesito dei quesiti: il movimento per la legalità-tà-tà, la rispetta la legge? Ecco che scivola giù il velo dell’ipocrisia, e appare quel che di solito non si vede. Ce qu’on voit et ce qu’on ne voit pas, della luna osservi solo un lato. Il “non partito” che urla slogan legalitari nelle piazze fa a pugni con le regole. Man mano che il tempo passa e le responsabilità aumentano e si aggroviglia l’articolato di norme e soggetti giuridici in sovrapposizione cresce l’agitazione dei vertici. Agitazione che diviene palpabile e manifesta quando a settembre il capo politico sottopone agli iscritti, per la ratifica, il Non Statuto “in versione corretta” insieme a un Regolamento nuovo di zecca.

Bisogna correre ai ripari, e in fretta. Il M5s ha un gigantesco bug nel sistema. “Non è importante solo cosa sceglierai ma anche in quanti avranno partecipato a questo voto. Più saranno i votanti e meglio il MoVimento potrà difendersi dagli attacchi che sicuramente arriveranno. Con il MoVimento stiamo facendo una nuova giurisprudenza politica. A seconda che siano sopra un terzo, sopra la metà, sopra i tre quarti o addirittura la totalità degli iscritti, maggiori saranno le nostre difese dagli attacchi giudiziari e politici”. A parlare così, con i toni della berlusconeide stellata, è Davide Casaleggio in un post del 25 ottobre. Da quasi un mese è in corso la consultazione online su Statuto e Regolamento, già a luglio Grillo annuncia il voto ma poi rinvia inaspettatamente di una settimana “per soddisfare – scrive – le ultime richieste di certificazione pervenute e permettere la massima partecipazione degli iscritti”. Qualche attivista protesta perché il capo indice il voto, cambia e ricambia la data, ma sui testi oggetto della consultazione regna il mistero (l’iscritto può approvare come con un like o dislike su Facebook, proporre emendamenti o mozioni alternative non è ammesso). “Possiamo votare delle nuove regole a scatola chiusa?”, insinua qualcuno sul blog delle Stelle. “Spero che il nuovo Non Statuto contempli il diritto di esistere del dissenso, altrimenti sarà nuovamente carta straccia”, commenta un altro. “Ditemi che sto sognando, altrimenti devo essere così lontano da una certa cultura che si basa solo sull’ubbidienza assoluta. Neanche nel Kgb sono mai esistiti metodi così irrispettosi della democrazia”, infierisce un utente.

Il clima è teso. Gli iscritti sono chiamati a votare, contestualmente, l’integrazione del Non Statuto con due versioni alternative di Regolamento. Al momento del voto, anzi del clic, l’iscritto non conosce i dettagli normativi. “Uno vale uno ma poi decidono sempre gli stessi. Vorrei esser stato maggiormente coinvolto nelle discussioni di modifica”, lamenta un attivista. Chi ha scritto i testi posti in votazione? Si presume che la fonte primigenia sia Grillo in persona insieme ai legali fidati e a Casaleggio jr., con un coinvolgimento snello dei cinque membri del Direttorio (abolito d’imperio lo scorso 11 novembre con dichiarazione di Grillo a Euronews: “Il Direttorio non esiste più”, saluti a tutti). “Purtroppo anche queste votazioni saranno prive di alcun valore legale, perché non verificabili in alcun modo – scrive Fabio di Napoli – Oltretutto non si capisce sulla base di cosa si sia chiamati a votare modifiche non si sa da chi proposte. Questa votazione verrà probabilmente impugnata e anche su questa un giudice si esprimerà sconfessandola”. Di rinvio in rinvio, la fatidica votazione slitta al 25 settembre. La procedura si chiude alle ore 21 del 26 ottobre. Le ore passano e i risultati restano ignoti, la spiegazione ufficiale è che un ente esterno, la DNV GL Business Assurance, incaricato dall’Associazione Rousseau (leggi Casaleggio jr.), procede alla “verifica del processo di voto”. Nell’attesa, Roberta Lombardi è l’unica a rilasciare una dichiarazione: “Vedremo cosa succederà in tribunale se le nuove regole non dovessero passare. Finora i giudici non sono entrati molto nel merito”. L’incubo è che non si raggiunga il quorum del 75 per cento di iscritti. Il 28 ottobre, due giorni dopo la chiusura del voto, i dati sono pubblicati online: il quorum non c’è. Nonostante il dispiegamento di appelli, post e sms per incitare ogni iscritto a votare, la partecipazione si ferma sotto il 65 per cento. Votano in 87.213 su un totale di 135.023 iscritti, la soglia minima è pari a 101 mila. Tuttavia, la maggioranza dei voti espressi è favorevole alle modifiche calate dall’alto. In particolare, sul primo quesito: “Sei d’accordo nel modificare il Non Statuto con il nuovo testo aggiornato proposto?”, risultano espressi 86.228 voti totali, suddivisi in 79.007 Sì e 7.221 no. Sul secondo quesito, “Sei d’accordo nel modificare il Regolamento con una delle due versioni aggiornate proposte?”, risultano espressi 82.659 voti totali, suddivisi in 75.947 favorevoli e 6.712 contrari. Andiamo avanti. 

Sul terzo quesito – “Nel caso che si proceda alla modifica del Regolamento, quale delle due opzioni preferiresti?” – risultano espressi 82.606 voti totali suddivisi in 61.071 preferenze per l’opzione “Preferisco la versione CON le espulsioni’ e 21.535 preferenze per l’opzione Preferisco la versione SENZA espulsioni’. La stragrande maggioranza dei votanti segue le indicazioni del capo politico. Grazie agli 87.213 iscritti che hanno partecipato alla votazione – esulta Grillo sul blog – avete permesso al MoVimento 5 Stelle di raggiungere quello che probabilmente è il record mondiale di partecipanti a una votazione online per una forza politica o un’associazione. Mai così tante persone si sono potute esprimere direttamente sul futuro della comunità di cui fanno parte”. Quando si dice badare alla sostanza. La legge fissa un quorum. Il M5S snobba il quorum. Processi, burocrazie, codici e codicilli non possono fermarci perché siamo uniti e compatti verso lo stesso obiettivo. Il MoVimento 5 Stelle trova difficoltà a essere riconosciuto dalle leggi attuali perché la sua struttura e organizzazione è molto più innovativa e avanzata di quelle regolamentate dai codici. Proprio per questo il nostro caso è destinato a fare giurisprudenza”, scrive Grillo evocando la stessa “giurisprudenza politica” già citata da Casaleggio jr. contro gli attacchi giudiziari e politici. “Il Movimento non è una questione di scartoffie da azzeccagarbugli ma una forza politica che cresce da sola”, gli fa eco Luigi Di Maio. Il quorum non c’è ma chi se ne importa. Per gli incorruttibili paladini della legalità, talebani della Costituzione e urlatori di onestà-tà-tà, l’obbligo di legge si riduce a orpello formalistico, quisquilie di nessun conto, pedanteria da legulei. Il regolamento voluto dal capo, contenente il nuovo procedimento per le espulsioni, non passa, il quorum non c’è, ma in fondo che importa? Nel groviglio di statuti e non statuti, associazioni giustapposte, ordinanze e ricorsi, il bandolo della matassa sembra smarrito. Il blackout dello streaming è un effetto collaterale del new deal stellato all’insegna della sfacciataggine procedurale.

Per maneggiare il delicato dossier, si tengono interminabili riunioni con gli avvocati, il commercialista e pochi fidati, tra le quattro mura della Casaleggio associati in via Gerolamo Morone a Milano. L’imbroglio della firma. Vera, anzi falsa, in realtà copiata, forse ricopiata. Intransigenti con gli altri e indulgenti con se stessi. Rampognatori delle malefatte altrui, insabbiatori delle proprie. Si sa, la verginità, una volta perduta, non torna. E la parola legalità, brandita come arma contundente nei confronti del nemico, potrebbe ritorcersi contro i Savonarola contemporanei. Sulle prime, la difesa di Grillo è esilarante: La firma falsa non è una firma falsa, è una firma copiata. E’ l’Oscar della stupidità. Noi, se siamo non disonesti, non riusciamo neanche a essere disonesti”. Che dire, ci abbiamo provato senza riuscirvi. Nei confronti dei grillini palermitani destinatari dell’avviso di garanzia non viene immediatamente applicata la procedura prevista dal nuovo regolamento, entrato in vigore (seppur di quorum sprovvisto) con proclama solenne del líder máximo. Quando la notizia impazza sui giornali, Grillo esprime un cordiale invito all’autosospensione. Eppure, per gli standard grillini fondati sulla presunzione di colpevolezza, gli estremi per obbligare gli indagati al passo indietro ci sarebbero tutti. I bene informati raccontano che il timore di una nuova impugnazione (dopo l’ordinanza partenopea di cui parleremo a breve), con conseguente pronuncia di illegittimità del regolamento, induca Grillo e Casaleggio a prendere tempo.

La procedura designata dai vertici e approvata plebiscitariamente online prevede che il gestore del sito possa rivolgere contestazioni formali a un iscritto mediante l’invio di un’email da parte di una entità eterea ma onnipresente denominata staff. Entro dieci giorni l’iscritto può presentare eventuali controdeduzioni dandone comunicazione al collegio dei probiviri il quale, verificata la sussistenza dei requisiti d’iscrizione, decide in merito all’espulsione. La decisione del collegio dei probiviri sulla carenza dei requisiti di iscrizione è inappellabile. Negli altri casi, avverso l’atto di espulsione, il soggetto può ricorrere al comitato d’appello. Da qualche giorno il collegio dei probiviri esiste, è stato nominato. Secondo voi, gli iscritti si sono forse potuti candidare per diventarne membri? O hanno potuto esprimere una preferenza tra diverse alternative? Non scherziamo. Nel movimento della democrazia orizzontale, dell’uno vale uno, uno soltanto, Beppe Grillo, si suppone in postura verticale, presenta un pacchetto chiuso, take it or leave it, e dall’alto della sua magnanimità peronista domanda agli iscritti: volete voi approvare il comitato d’appello composto dai parlamentari Paola Carinelli, Nunzia Catalfo e Riccardo Fraccaro? Un’orgia democratica, altroché. “Con Gianroberto non lo avrebbero mai fatto, li avrebbe messi fuori da un pezzo e sarebbe bastata la prima telefonata di Milano a ridurli a più miti consigli”, un deputato grillino, dietro richiesta di anonimato, si lamenta dell’atteggiamento soft verso gli indagati siciliani che non si sono ancora autosospesi. Beppe è troppo buono. Gianroberto lo era, ma era anche inflessibile. Quando si trattava di regole, diventava il cavaliere nero. Se ne sarebbe accorta anche Virginia Raggi, se lui fosse ancora qui”. Chissà come avrebbe reagito Casaleggio se nel corso del corteo grillino per il No al referendum fosse capitombolato in una buca lungo la via Ostiense, poco prima della Piramide Cestia.

E’ accaduto a Grillo lo scorso 26 novembre, e il comico genovese, dopo essersi rialzato, ha domandato: “Le buche nelle strade le vogliamo mettere a posto? Chi è che le deve mettere a posto?”. Di Movimento 5 Stelle ce n’è uno, anzi due. I soggetti giuridici gravitanti nell’orbita grillina, satelliti di un unico Re sole, Beppe Grillo, sono diversi: esiste l’associazione Rousseau, il gioiellino di Casaleggio jr. che governa la piattaforma web dell’organizzazione. Dal 2015 il Comitato promotore Italia 5 Stelle raccoglie i fondi e organizza le kermesse annuali. Il pasticciaccio grillino, quello che fa tremare dalle fondamenta l’impalcatura giuridica pentastellata, è legato alla doppia entità, MoVimento 5 stelle e Movimento 5 Stelle. Nel carattere di una lettera, la ‘v’ di Vaffa, si annida un equivoco sostanziale. 2009, anno di nascita del MoVimento 5 Stelle. L’atto costitutivo è il famigerato “Non Statuto” che all’articolo uno recita testualmente: “Il MoVimento 5 Stelle è una non associazione. Rappresenta una piattaforma e un veicolo di confronto e di consultazione che trae origine e trova il suo epicentro nel sito movimento5stelle.it”. L’obiettivo è “raccogliere l’esperienza maturata nell’ambito del blog beppegrillo.it, dei meet-up, delle manifestazioni ed altre iniziative popolari e delle Liste Civiche Certificate” per “la selezione, individuazione e scelta di quanti potranno essere candidati a promuovere le campagne di sensibilizzazione sociale, culturale e politica promosse da Beppe Grillo”. Camera, Senato, Consigli regionali e comunali: lo scopo esplicito è aprire le istituzioni “come una scatoletta di tonno”. Secondo i dati forniti dal movimento, circa 135 mila attivisti sono iscritti al soggetto giuridico con la V maiuscola. 14 dicembre 2012. Alla presenza del notaio Filippo D’Amore, il signor Beppe Grillo, il di lui nipote e avvocato Enrico Grillo, e il commercialista Enrico Maria Nadasi fondano l’associazione denominata “Movimento 5 Stelle”, con la v minuscola e sede in via Roccatagliata Ceccardi a Genova.

Lo sdoppiamento è avvenuto: da una parte, c’è il movimento con la V maiuscola e la massa di iscritti; dall’altra, c’è la cabina di regia, il movimento con la V minuscola che tiene saldamente la barra di comando attraverso una entità giuridica distinta. Da un verbale si evince che il 29 aprile 2014 i tre soci si riuniscono per approvare il rendiconto, e a quell’assemblea partecipa per la prima volta Gianroberto Casaleggio in qualità di (quarto) socio. Nell’autunno 2015 Grillo trasferisce al movimento con la v minuscola la proprietà del simbolo (“così definito: linea di circonferenza color rosso, recante al proprio interno, nella metà superiore del campo, in carattere nero su fondo bianco, la dicitura MOVIMENTO, la cui lettera V è scritta in rosso con carattere di fantasia…”). Inoltre, con un’accorta operazione di maquillage, il nome della miniassociazione, a 4 soci, assume la v maiuscola in modo da confondersi ancor meglio con la maxiassociazione. Un “sistema a scatole cinesi”, spiega un bene informato, che garantisce a Grillo massima libertà di manovra per effettuare espulsioni e compiere scelte strategiche in vista delle elezioni politiche. Tutto fila liscio fin quando due tribunali, a Roma e a Napoli, pongono sotto la lente d’ingrandimento la “non associazione” che una volta era una, poi raddoppiò.

Roma. Paolo Palleschi è uno dei tre ricorrenti in giudizio contro l’espulsione dal M5S. “Ho iniziato a frequentare il meetup del quartiere Trieste nell’estate 2012. Avrei voluto candidarmi alle amministrative ma io, insieme ad altri, fummo emarginati e arbitrariamente esclusi dalle liste. Da qui la decisione di far valere i nostri diritti in tribunale”. Palleschi è un avvocato penalista che non sbaglia i congiuntivi, militanza giovanile nel Fronte della gioventù. Da come parla, s’intuisce subito che lei ha poco da spartire con l’ala movimentista (eufemismo) di Paola Taverna, quella ad oggi maggioritaria nella capitale. “Potrebbe essere una lettura attendibile… Da un giorno all’altro mi sono visto recapitare un’email dello staff che m’informava della mia esclusione dalle consultazioni online per la designazione del candidato sindaco, senza specificare i motivi. Dopo la pronuncia favorevole del tribunale, sono stato reintegrato con una nuova email che mi restituiva le credenziali d’accesso al sito web”. Lo scorso 12 aprile il Tribunale civile di Roma dichiara illegittimo il provvedimento di espulsione di Palleschi, Roberto Motta e Antonio Caracciolo, tutti esclusi dalle “comunarie” capitoline. Nell’ordinanza cautelare il giudice evidenzia la distinzione tra l’associazione con la V maiuscola del 2009 e quella con la v minuscola del 2012. Al di là delle affermazioni di principio (il M5S, si legge sul sito, sarebbe una “non associazione”), la configurazione giuridica del movimento è quella di “una associazione non riconosciuta al pari dei tradizionali partiti politici (art. 49 della Costituzione sulla libertà di associazione politica) per cui vanno applicate le relative disposizioni del Codice civile: pacificamente per le associazioni non riconosciute valgono le stesse disposizioni codicistiche previste per le associazioni riconosciute”. Quanto ai rapporti tra i due soggetti, “si è in presenza di due realtà diverse ed intersecantesi dal punto di vista soggettivo nella misura in cui gli aderenti al MoVimento 5 Stelle aderiscano, a domanda, all’associazione Movimento 5 Stelle”. In particolare, l’associazione con la v minuscola ha come suo compito “lo svolgimento degli adempimenti tecnico-burocratici per consentire la partecipazione alle elezioni politiche dei candidati scelti in Rete dagli aderenti al MoVimento 5 Stelle”.

I ricorrenti però risultano iscritti all’associazione del 2009. In giudizio Grillo e sodali si costituiscono con l’associazione del 2012, si presume nel vano tentativo di radicare la competenza territoriale a Genova e non nella capitale. Inoltre il giudice, nella stessa ordinanza che sancisce l’illegittimità dell’espulsione, pone l’accento sulla persistenza giuridica del Non Statuto e del movimento del 2009, anche a seguito della più recente costituzione della miniassociazione. Il Regolamento del 2014, in forza del quale Grillo procede all’espulsione dei ricorrenti romani, fa capo al Movimento 5 stelle con la v minuscola, la miniassociazione ben distinta da quella maxi fondata sul Non Statuto del 2009. Grillo può forse pretendere di espellere gli iscritti all’associazione A appellandosi alle norme dell’associazione B? Non può, soprattutto se, come vedremo, quelle norme sono da ritenersi nulle. All’indomani dell’ordinanza cautelare a lui favorevole, Palleschi usa toni duri: “Dal punto di vista politico, è ingiusto andare avanti con Raggi quando alcune persone sono state ingiustamente fatte fuori dalla corsa”. Oggi, invece, mostra un atteggiamento più conciliante. Quando gli chiediamo perché si sia ritirato dal giudizio, dopo che il movimento l’ha accusato di filoleghismo in salsa capitolina, Palleschi si schermisce: “Ho un vincolo contrattuale, ho chiuso un accordo transattivo. Le consiglio di parlare con il mio avvocato”. Mi scusi, mi sta dicendo che lei ha ottenuto dei soldi per uscire dal processo? “Guardi, le mando il numero del legale”. Chiamiamo l’avvocato, Lorenzo Borré, pure lui romano, ex grillino deluso dal cedimento “su alcune questioni eticamente divisive, come le unioni gay, la maternità surrogata, le aggravanti omofobiche, l’adozione del figlio del partner… materie che non erano nel nostro programma e sulle quali i gruppi parlamentari hanno agito in proprio senza coinvolgere la base”.

“Deve ritenersi indiziata d’illegittimità la determinazione dell’espulsione degli odierni reclamanti adottata dallo staff di Beppe Grillo sulla base del citato Regolamento del 2014” (Tribunale di Napoli)

Esistono pure i cattogrillini. “Io mi sono iscritto a un movimento orizzontale. Ricordo le dichiarazioni di Di Maio che adombravano il pieno appoggio del gruppo al ddl Cirinnà. Provai a dire la mia sul web, a contattare qualche parlamentare in virtù del concetto di “portavoce”, ma niente. Inviai un’email ad Alessandro di Battista: mi rispose che non seguiva la faccenda. Il giorno dopo, guardando il tg, lo vidi mentre in Parlamento inscenava la protesta baciando i colleghi per dire sì al ddl sull’omofobia. Mi aveva preso in giro”. S’intuisce che pure Borré, emarginato dai romani, abbia poco da spartire con la corrente della Taverna. Lui è un uomo di legge, attualmente segue tutti i ricorsi pendenti in Italia da parte di ex attivisti grillini che si ritengono ingiustamente espulsi. Anzitutto, avvocato, Grillo&Casaleggio hanno pagato l’uscita di Palleschi dal processo? “Vige una clausola assoluta di riservatezza. Non posso né confermare né smentire”.

Il colpo più duro, forse letale, al castello giuridico pentastellato risale allo scorso luglio. A Napoli un drappello di grillini espulsi, ben 23, è ricorso in giudizio. Il tribunale partenopeo emette un’ordinanza cautelare che, come a Roma, riammette gli espulsi, e inoltre dichiara la nullità del regolamento varato il 23 dicembre 2014 dalla miniassociazione. I grillini napoletani, al pari di tutti gli attivisti nel resto d’Italia, sono iscritti al soggetto giuridico del 2009, regolato dal Non Statuto, che ad oggi rimane l’unico atto giuridicamente vincolante nell’universo grillino. Il regolamento successivo “si considera nullo – scrive il giudice – perché si configura come una modifica del Non Statuto dell’associazione originaria, modifica che, in assenza di diverse prescrizioni, secondo il Codice civile, richiede un voto dell’assemblea dei soci”. Voto che non c’è mai stato, l’assemblea non si è mai riunita. Inoltre, “nonostante il movimento 5 Selle nel suo statuto non si definisca partito politico, e anzi escluda di esserlo, di fatto ogni associazione con articolazioni sul territorio che abbia come fine quello di concorrere alla determinazione della politica nazionale si può definire partito ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione”. E perciò deve garantire il diritto al dissenso interno. Il regolamento che Grillo e Casaleggio intendono imporre contiene la procedura più severa per le espulsioni. E’ pubblicato per la prima volta il 23 dicembre 2014 in un post sul sito beppegrillo.it. Il messaggio del capo politico si apre così: “Il M5S è obbligato a depositare un Regolamento che ne attesti alcune modalità operative in particolare con riferimento alla cosiddetta democrazia interna (molte già esistenti) entro il 28 dicembre 2014. Non ottemperarvi potrebbe portare a contestazioni sulla possibile partecipazione a elezioni politiche. Il Regolamento è leggibile nella sua interezza qui”. Stop. Chi ha redatto il testo? Il vertice. E’ possibile proporre emendamenti? No. Su questo punto il Tribunale di Napoli, che si limita a un controllo di legalità formale (il giudizio di merito prosegue regolarmente), evidenzia che nei casi di associazioni non riconosciute si applica, per analogia con quelle riconosciute, l’articolo 21 del Codice civile. E l’articolo 21, croce e delizia, recita testualmente: “Per modificare l’atto costitutivo e lo statuto, se in essi non è altrimenti disposto, occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della maggioranza dei presenti”.

Devil is in the detail. La partecipazione alla consultazione online sul Regolamento non ha raggiunto il 65 percento degli aventi diritto, ne consegue che esso sia da considerarsi nullo. Il Regolamento, scrive il giudice, non si pone come “fonte equiordinata allo statuto”, e non essendo stato adottato col metodo assembleare e con le maggioranze previste per le modificazioni dello statuto originario, “non appare essere una fonte idonea a porre le norme procedimentali e i casi di esclusione degli associati”. Allo stato attuale, l’unico atto giuridicamente vincolante è il Non Statuto che, “al netto di efficaci artifici dialettici che rientrano nella propaganda politica, altro non è che, giuridicamente, uno statuto”. Esso non contiene neppure norme derogatorie rispetto a un altro articolo che Grillo trascura e Di Maio liquida come materia per azzeccagaburgli: l’articolo 24 del Codice civile, legge vigente in Italia, stabilisce che “l’esclusione di un associato non può essere deliberata dall’assemblea che per gravi motivi”. Ne consegue che “deve ritenersi indiziata d’illegittimità la determinazione dell’espulsione degli odierni reclamanti adottata dallo staff di Beppe Grillo sulla base del citato Regolamento del 2014”. In ultimo, sospendendo in via cautelare i provvedimenti di espulsione nelle more del giudizio di merito, il giudice ribadisce che “nonostante il Movimento 5 Stelle nel suo statuto (Non Statuto) non si definisca partito politico, ed anzi escluda di esserlo, di fatto ogni associazione con articolazioni sul territorio che abbia come fine quello di concorrere alla determinazione della politica nazionale si può definire partito”. Luca Capriello, classe 1982, grillino partenopeo della prima ora, avvocato penalista con lo scilinguagnolo sciolto. Pure lui un bel giorno si vede recapitare dal famigerato staff l’email delle disgrazie, preludio all’espulsione.

Nel capoluogo campano, terreno di scontro tra i “movimentisti” di Roberto Fico e gli “istituzionali” di Di Maio (analogo schema capitolino), Capriello non sta né con gli uni né con gli altri, così finisce epurato. “Ho cominciato ad animare il meetup di Napoli quando avevamo un consenso da prefisso telefonico”, si racconta al Foglio. “Ho assistito da dentro alla trasformazione del movimento: sopra il palco ripetevamo uno vale uno, sotto il palco si moltiplicavano i cosiddetti portavoce, vale a dire i referenti di Grillo sul territorio. Costoro, per accrescere il prestigio personale e ottenere la ricandidatura, hanno decapitato le teste pensanti cooptando gran parte della base mediante il conferimento di incarichi istituzionali, come portaborse, assistenti regionali o parlamentari. Sono diventati capibastone con un seguito di lacché stipendiati. Hanno tradito il concetto di cittadinanza attiva”. Lei sembra sinceramente amareggiato. “Io sono gonfio di amarezza, ci crede? Abbiamo creato una pagina Facebook per chiedere a Grillo di convocare un’assemblea nazionale. Noi vogliamo democratizzare il movimento, non abbatterlo”. In quanti siete? “Al momento siamo un migliaio. Dopo l’espulsione, molti si sono ritirati a vita privata. La parentopoli grillina li ha delusi”. Per “parentopoli grillina” s’intende la pletora di mogli, fidanzati e parenti premiati con incarichi e ruoli, strapuntini a reddito variabile ma garantito, in un pittoresco mosaico di intrecci familistici scoperchiato dalla stampa. “Neanche i partiti della prima Repubblica erano così sfacciati. Il problema del movimento però è un altro”. La ascolto. “Siamo una delle prime forze politiche del paese. Se dovessimo andare al governo, sarebbe un pericolo per l’Italia. Il M5S racchiude il peggio di Forza Italia (Grillo è proprietario del logo, come Berlusconi) e il peggio del Pd (siamo attraversati da un correntismo esasperato). L’intuizione originaria è stata tradita. Una struttura iperverticistica che ricorre alla Rete solo per ratificare decisioni prese altrove non è democrazia orizzontale. E’ plebiscito. Le consultazioni online propongono domande preconfezionate che suggeriscono la risposta già nel quesito. E’ un meccanismo subdolo”. Anche se l’identità di Beatrice di Maio, l’account twittarolo che tacciava di mafiosità il sottosegretario Luca Lotti, e non solo lui, è stata rivendicata dalla coniuge di Renato Brunetta, è acclarato che in Rete si dispiegano diverse tecniche manipolatorie ai fini di cyberpropaganda. Troll, fake, algoritmi, account ad hoc per propagare il messaggio pentastellato a colpi di rutti e ingiurie. “Online nulla è come appare. I dati relativi alle votazioni li comunica il movimento, manca un ente terzo veramente indipendente”.

Lei sembra un invasato della democrazia diretta, con tutto il rispetto. “Il voto dovrebbe essere solo il momento finale. L’elemento costitutivo della democrazia orizzontale è il dibattito che nel M5S resta il grande assente. Abbiamo tradito il programma. Non parliamo più dell’uscita dalla Nato e dall’Ue, se non blandamente. Questi erano i punti qualificanti della piattaforma politica sulla quale abbiamo raccolto quasi dieci milioni di voti nel 2013”. Ma perché lei è stato espulso? “Non mi sono piegato alla scelta tra Fico e Di Maio, e sono rimasto isolato. I fichiani sono i talebani del movimento, pretendono il rispetto assoluto di regole che loro stessi violano. Quelli di Di Maio invece sono gli istituzionali, i più clientelari, si sono arricchiti tra incarichi e prebende varie, non a caso sono cresciuti di più numericamente”. Nel suo caso, la rottura risale alle amministrative. “Nell’ottobre 2015 proponiamo un dibattito pubblico per discutere le regole delle comunarie per la formazione delle liste. Il nostro interlocutore è Fico, fondatore del meetup di Napoli e membro del Direttorio. Alle nostre richieste lui fa le orecchie da mercante, hanno già deciso altrove. Se avessimo votato in assemblea, sarei stato io il candidato sindaco. A Torino Chiara Appendino è stata scelta da un’assemblea. Non avendo un membro locale del Direttorio, i torinesi hanno avuto un margine di manovra maggiore”. Lei è tra i fondatori di Napoli Libera in Movimento. “Per paradosso, il movimento nato in Rete e per la Rete ci contesta l’apertura di una pagina Facebook. Noi abbiamo reagito portandoli in tribunale e abbiamo avuto ragione. Il movimento si è sgretolato giuridicamente. L’ordinanza napoletana è una bomba. E’ la presa della Bastiglia. Non si comprende, in punto di diritto, come possano i tre membri della miniassociazione considerarsi partito politico e presentare alle elezioni soltanto candidati non iscritti alla medesima associazione. Né si comprende come possano procedere all’espulsione degli iscritti a un’associazione distinta, per giunta sulla base di un regolamento nullo, privo di efficacia, adottato in violazione del Codice civile. Non bisogna avere una laurea in legge per rendersi conto del big bang interno…”.

Lei sa che non sarà mai riaccolto nel movimento. “Io non ho bisogno della politica per vivere. Ho un mestiere che mi permette di vivere dignitosamente. Non ho bisogno di essere assunto dalla prima azienda del paese che non ha conosciuto crisi e ha visto aumentare il proprio fatturato: la politica”. Perché si è iscritto al M5S? “Abbiamo portato Internet dentro la politica, un fatto rivoluzionario, ma il M5S deve cambiare. L’uso delle nuove tecnologie è come un coltello: può servire a spalmare la marmellata o a uccidere. Allo stato attuale, il movimento usa il web come sfogatoio e luogo di ratifica plebiscitaria delle decisioni assunte dal capo. C’è la Casaleggio Associati, una srl, che eterodirige un gruppo parlamentare. C’è il rischio di appaltare le scelte di politica estera a una società privata che persegue i suoi fini. C’è una comunità politica le cui posizioni apicali non sono contendibili. Siamo la prima forza politica del paese, e questo comporta una responsabilità. Se domani andassimo al governo, con questa cabina di regia e il bando totale del dissenso interno, saremmo un pericolo per l’Italia”.

Il M5S ha un bug nel sistema. Ce n’è uno di movimento, anzi due, questione di minuscole. I soci dell’uno pretendono di espellere gli iscritti all’altro, e per domare il dissenso con metodi spicci e lapidari si approva un Regolamento in barba al Codice civile. “Siamo oltre il quorum”, sentenzia il leader del movimento per la legalità-tà-tà, lo stesso che applica ostinatamente un set di norme nulle per pronuncia tribunalizia. Il Regolamento sarebbe un “passaggio obbligato” per la presentazione delle liste alle elezioni politiche. Che cosa prevede? Lo statuto del Pcus, al confronto, disegna un paradiso libertario. In esso si dettaglia la procedura per le espulsioni già riassunta nei vari passaggi, ma la vera ciliegina, la chicca super sexy, sono le cause di espulsione. Si può essere espulsi, per esempio, “se sottoposti a procedimento disciplinare, si rilascino dichiarazioni pubbliche relative al procedimento medesimo”. L’espulsione può essere irrogata nel caso in cui si violi l’obbligo “di astenersi da comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti”, o quello “di attenersi a lealtà e correttezza nei confronti degli altri iscritti e portavoce”. Previsioni così congegnate potrebbero essere impugnate?

“Certo che sì – risponde l’avvocato Borré, il burattinaio dei ricorsi giudiziari contro Grillo&co. – Il divieto di rilasciare dichiarazioni pubbliche imposto a una persona cui siano state mosse contestazioni presenta un profilo di nullità in quanto viola l’articolo 21 della Costituzione. Se la norma fosse impugnata, qualsiasi tribunale ne dichiarerebbe l’illegittimità. Quanto ai comportamenti lesivi dell’immagine pubblica del movimento, la norma non sta in piedi sul piano giuridico perché la fattispecie deve essere tipizzata, e questa non lo è. Nella sua vaghezza essa consente all’interprete di irrogare espulsioni per i comportamenti più disparati”. Oltre a statuti e regolamenti, c’è un altro atto che potrebbe essere impugnato, chissà con quale esito: il Codice di condotta per candidati ed eletti. Il tema è affiorato a proposito della clausola sottoscritta, oltre che dai consiglieri comunali, anche dal sindaco Virginia Raggi il cui rapporto con i vertici è notoriamente ondivago. Si tratta di un contratto vero e proprio utilizzato in occasione delle amministrative 2016 a Roma, non a Torino. Secondo i bene informati, Casaleggio aveva colto le prime avvisaglie del possibile marasma capitolino e il rischio di deriva “pizzarottiana” per la candidata prescelta a Roma. Il Codice di condotta fissa i paletti all’azione amministrativa: le nomine “dei collaboratori delle strutture di diretta collaborazione o dei collaboratori dovranno essere preventivamente approvate a cura dello staff coordinato dai garanti del M5S” e “le proposte di atti di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse vanno sottoposte a parere tecnico-legale a cura dello staff”.

Nel paragrafo dedicato alle “Sanzioni” si legge che il sindaco, ciascun assessore e ciascun consigliere assume l’“impegno etico di dimettersi” se condannato anche solo in primo grado, o anche qualora venga iscritto nel registro degli indagati e la maggioranza degli iscritti al M5S mediante consultazione in rete ovvero i garanti del Movimento decidano per tale soluzione “nel superiore interesse della preservazione dell’integrità del MoVimento 5 Stelle”. Com’è noto, da diversi mesi l’assessora all’Ambiente Paola Muraro è indagata per abuso d’ufficio e violazioni ambientali, eppure non molla l’incarico. Le regole, che il capo si ostina a considerare in vigore a dispetto della pronuncia del giudice, le imporrebbero un passo indietro, ma Grillo la tiene lì. Lo stesso Di Maio, pubblicamente sbugiardato a causa della fuoriuscita di un’email del 5 agosto inviatagli dalla Taverna che lo informava dell’indagine in corso a carico dell’assessora, viene colto in flagranza (sapevi e non potevi non sapere, caro Luigino). Eppure nessuno gli oppone il cavillo del danno d’immagine, neppure un richiamo. Di Maio è perdonato. Stando al Codice di condotta, il candidato che vìoli i principi e l’impegno etico alle dimissioni ha l’obbligo di risarcire il movimento con una somma di “almeno 150 mila euro”. “E’ una clausola capestro giuridicamente illecita – commenta tranchant il principe del foro Titta Madia, cassazionista di lungo corso – Lo Statuto del partito può legittimamente pretendere, senza necessità di un contratto, che l’eletto rispetti i programmi, le idee, le direttive impartite da quella associazione. Ma la sanzione per l’inottemperanza consiste solo nell’esclusione dal partito o dal movimento. Non è possibile ipotizzare una sorta di risarcimento danni, ovvero un indennizzo o qualsiasi altra forma di sanzione pecuniaria per la violazione delle regole e delle direttive provenienti dal movimento. Ciò perché sarebbe violata la libertà costituzionale di chi è eletto alla funzione pubblica che deve essere esercitata in autonomia, nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento. La norma costituzionale è evidentemente imperativa, attenendo al corretto funzionamento di un organo elettivo, e non può essere disattesa dalla privata volontà di un movimento politico”.

La Raggi può stare tranquilla? “Ove non dovesse ottemperare a quello scriteriato contratto da lei sottoscritto, sarebbe allontanata dal movimento ma nessun giudice della Repubblica la condannerebbe a pagare i 150 mila euro. Queste elementari nozioni giuridiche avrebbero dovuto essere a conoscenza di qualche giurista del M5S. E se tale informazione tecnica e di buon senso fosse mancata, mi domando: nelle mani di chi siamo?”. Sul punto l’avvocato Borré aggiunge: “Lo statuto di Roma capitale attribuisce al singolo consigliere una indipendenza assoluta nell’esercizio del mandato. La multa non sta in piedi. Quanto al Codice di condotta, un bel giorno all’improvviso viene pubblicato sul blog e diventa legge. Ma chi l’ha compilato? Non è mai stato votato. Da dove trarrebbe una qualche legittimazione?”. In una giornata uggiosa incontriamo, a pochi passi dal Quirinale, un’autorità nel campo del diritto civile in Italia. E’ il professore Pietro Rescigno, anni 88, autore di ponderosi volumi che hanno formato migliaia di studenti. Nel 1966 il celebre giurista pubblica “Persone e comunità”, una pietra miliare se si vuole comprendere l’articolato universo giuridico delle associazioni umane. “Nel diritto privato – spiega il professore al Foglio – sindacati e partiti erano e sono rimasti associazioni non riconosciute. Nel tempo si sono ben guardati dall’assumere una personalità giuridica, una scelta legittima che però oggi scricchiola dinanzi alle nuove realtà che si affacciano nel panorama politico nazionale. Il M5S si definisce un non partito fondato su un non statuto. E’ chiaro a tutti che è un partito esattamente come gli altri ma assai meno democratico. L’articolo 49 della Costituzione, la nostra carta fondamentale di cui si vorrebbe modificare la seconda parte sebbene la prima sia rimasta ampiamente inattuata, sancisce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Nelle università abbiamo insegnato ai giovani che questa prima parte rappresentava un regime transitorio. Come spesso accade in Italia, il transitorio è diventato definitivo”.

Cesare Pinelli, costituzionalista: “Non scherziamo, Grillo e Casaleggio hanno fondato un partito in Italia. Il non statuto è una pagliacciata, un artificio retorico”.

Nel guazzabuglio stellato il movimento per la legalità fa a pugni con la legge. La creatura di Grillo&Casaleggio appare intrappolata in una sorta di autocrazia plebiscitaria tra codici e codicilli che non stanno in piedi. “Il M5S si dà delle regole che gli stessi aderenti conoscono in modo approssimativo. Non esiste la norma in quanto tale ma un’astratta e precaria disciplina che muta in base alle contingenze. Vige la discrezionalità del leader. In un’associazione non riconosciuta, come sono i partiti italiani, incluso il movimento di Grillo, l’espulsione è regolata, per analogia, sulla base del Codice civile: può essere disposta per gravi motivi e deve essere deliberata da un organo assembleare. Non può essere che il capriccio di uno solo decida se tu sei dentro o fuori”. Nel sistema grillino, ispirato alla volonté générale rousseauiana, l’eletto è un “portavoce” della base, esecutore delle indicazioni provenienti dal basso. “Questa è la narrazione che il movimento propone di sé. La natura privatistica di un’associazione non riconosciuta consente una certa libertà nel rispetto delle autonomie collettive. Tuttavia la Costituzione fissa certi paletti, come il divieto di mandato imperativo: il parlamentare è rappresentante della nazione, non di un capo o di una società di capitali. Nel M5S invece si accentua il distacco tra l’opinione pubblica che esso controlla e la realtà che viene gradualmente alla luce. L’Aventino su cui gli esponenti grillini generalmente si ritirano non aiuta. La questione è di sostanza, pensi soltanto alla sponda con il presidente russo Putin. In quale congresso è stata discussa? In un’associazione politica alcuni momenti deliberativi andrebbero formalizzati”. Paragonato ai 5 Stelle, il Pd somiglia a un Eden di partecipazione. Matteo Renzi tenta la scalata del partito da outsider, senza l’appoggio dell’establishment, e riesce soltanto al secondo tentativo grazie ad una competizione aperta. Nel M5S sarebbe inimmaginabile. “Le confesso che non sono un fan delle primarie, rischiano di fotografare un dato di partecipazione slegato dall’effettiva appartenenza al partito. Tuttavia indubitabilmente il Pd si rifà a un sistema più tradizionale e nel contempo più democratico di quello grillino. Il giorno in cui dovessero crescere le responsabilità formali del M5S, la Rete sarebbe garanzia di democraticità? Persino la Democrazia cristiana era più democratica dei 5 Stelle. C’erano correnti organizzate che si confrontavano in congresso a colpi di mozioni contrapposte. Nei momenti elettorali si rinsaldava l’unità del gruppo. Il M5S ha incanalato il sentimento anti-sistema, costante dei nostri tempi, ma non ha saputo liberarsi dall’alone di mistero che lo avvolge. Prevale l’opacità. Credo che Grillo e Casaleggio siano stati colti impreparati dalle dimensioni assunte dal movimento. Un sistema leaderistico così accentuato rappresenta un rischio per la democrazia italiana”.

Nel quartiere romano di San Lorenzo il costituzionalista Cesare Pinelli ha appena concluso un dibattito con il presidente di Magistratura democratica, il tema è il referendum. Pinelli è per il sì, Md è per il no. In sala non si contano più di quindici persone, alla fine il prof si spazientisce, saluta gli astanti e se ne va. “Mi segua che parliamo”, d’accordo. Professore, il M5S è un partito, un non partito, una bocciofila? “Non scherziamo, Grillo e Casaleggio hanno fondato un partito in Italia. Il non statuto è una pagliacciata, un artificio retorico. Come chiariscono i giudici, sul piano giuridico il M5S è un partito a tutto tondo. Anzi, le dirò, è il partito italiano più autoritario. Al suo interno, attraverso codici e codicilli, esso realizza l’ambizione che gli è impedita in Parlamento”. Che intende? “Grillo sogna di imporre agli eletti un mandato imperativo espressamente vietato dall’articolo 67 della Costituzione. E dire che si oppongono alla riforma perché vorrebbero salvarla questa Costituzione. Io domando: l’hanno letta?”. I grillini non sono la sua tazza di té. “Il divieto di mandato imperativo esiste da due secoli in tutti i regimi democratici. Il M5S è il massimo dell’autoritarismo combinato con il massimo della finzione democratica”. Gli eletti a Roma hanno sottoscritto una clausola contrattuale che punisce chi dissente con una multa di almeno 150 mila euro. “Nessun giudice la applicherebbe, è una norma palesemente incostituzionale. Gli esponenti grillini non sono i camerieri di Beppe Grillo. Una volta eletti, rappresentano le istituzioni”.

Il tribunale di Napoli ha dichiarato l’illegittimità del Regolamento che Grillo applica per irrogare espulsioni e che, stando alle parole del leader, dovrebbe consentire la presentazione delle liste alle elezioni politiche. ‘Siamo oltre il quorum’, è il refrain. “Modifiche e integrazioni statutarie prevedono quorum e soglie vincolanti. Le forme, in democrazia, contano. E’ paradossale che un movimento nato per affermare la legalità esibisca una tale noncuranza per il rispetto della norma scritta”. Una vecchia storia, le regole si applicano per i nemici e s’interpretano per gli amici. Se il 4 dicembre vince il no, si spiana la strada a un governo grillino? “Maggiore sarà il distacco dal sì, maggiore sarà la probabilità che la principale forza di opposizione diventi catalizzatore di un movimento che porti alle elezioni. E’ vero che bisognerebbe rifare le leggi elettorali di Camera e Senato, ma questo sarebbe un rompicapo per gli altri partiti, non certo per il M5S, che com’è suo costume si siederebbe sulla riva del fiume”. Il M5S è un pericolo per la democrazia? “L’assetto interno di un partito non è mai indifferente per quello che farà una volta conquistato il potere. Quello grillino è decisamente inquietante, torbido, autoritario. Da tempo il M5S ha gettato la maschera dell’assoluta orizzontalità della partecipazione in Rete. Il vero obiettivo dei vertici è cacciare i dissenzienti non solo dal gruppo parlamentare ma dal Parlamento, in barba al dettato costituzionale. D’altra parte, costoro conoscono solo la Costituzione coast to coast, un logo buono per le felpe che indossano, e niente più”.

Grillo: "Vero o falso? Un tribunale del popolo per giudicare Tg e giornali". Il leader del Movimento 5 Stelle auspica una giuria scelta a sorte che decida se le notizie date sono false o vere. I colpevoli "a capo chino", scrive il 3 gennaio 2017 Panorama. Altro che post-verità. Non c'è pace nemmeno per la verità. Perlomeno quella nella quale dovremmo essere "giustificati" a credere. Ovviamente non si tratta, del tormento filosofico. È Beppe Grillo che tuona e vorrebbe un tribunale del popolo per smascherare i giornalisti che a suo dire scrivono e dicono frottole. Nei giorni scorsi aveva tuonato contro l'idea di autorità terze cui appellarsi per provare, a pubblicazione avvenuta, che una certa notizia o ricostruzione di evento fossero palesemente false, come aveva proposto il presidente dell'Antitrust italiana, Giovanni Pitruzzella. Martedì invece è passato all'attacco alzo zero contro i suoi principali nemici, i giornalisti. Scrive Grillo sul suo blog - in un post dal titolo decisamente facile da capire: "Una giuria popolare per le balle dei media": "I giornali e i tg sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa." Ovviamente sono arrivate numerose risposte a questa singolare proposta del comico/politico.

Enrico Mentana querela Beppe Grillo: "Il mio Tg non fabbrica notizie false. Ne risponderà in sede civile e penale".

L'Ordine nazionale dei giornalisti ha scritto che, "Beppe Grillo dalle colonne del suo blog ha sferrato l'ennesimo attacco alla libertà di stampa avanzando una proposta grave e sconcertante". L'Ordine ricorda che "esiste già un ordinamento che tutela chi si ritiene danneggiato dagli organi di informazione". Infatti, dice ancora l'OdG che "giace in quarta lettura dal 23 giugno 2015 in Senato la nuova legge sulla diffamazione. Sarebbe molto più costruttivo se Beppe Grillo esortasse i propri parlamentari a far sì che questa legge venisse approvata in tempi brevi abrogando il carcere per i giornalisti e ponendo un freno alle cosiddette querele temerarie. L'unico Tribunale riconosciuto dall'OdG è quello dell'ordinamento giudiziario ferma restando la singola responsabilità dei giornalisti che non rispettano le regole deontologiche e che vengono sanzionati dai Consigli di Disciplina. Tali strumenti sono di per sé idonei ad assicurare il diritto dei cittadini a essere informati correttamente". L'Ordine invita il leader dell'M5S "a riflettere sul clima e sulle conseguenze che le sue parole possono determinare e sottolinea l'invito rivolto agli italiani nel discorso di fine anno dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Secondo il Capo dello Stato l'odio come strumento di lotta politica è nemico della convivenza e crea «una società divisa, rissosa e in preda al risentimento» che «smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza»".

Filippo Facci il 5 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”: le post querele. Fate disinformazione; vi querelo; no, ma parlavamo degli altri; non vi querelo più. Alzi la mano chi non ha trovato imbarazzante tutto il teatrino tra Grillo e Mentana: il primo che spara le solite cazzate sui giornalisti e usa come sfondo un collage di testate rubato a tv.blog, il secondo che allora fa un casino in diretta perché nel collage c' è anche lui (La7) e annuncia querela; il primo che allora fa una rettifica penosa e dice che Mentana (solo lui) è diverso e fa informazione rispettosa della verità, il secondo che allora ritira la querela e scrive un papiro su Facebook perché si è accorto che intanto gli webeti grillini lo stanno infamando lo stesso. Siamo al post-nulla a somma zero, ne sentivamo tutti un drammatico bisogno: Mentana ha la sindrome da primo della classe e lo sapevamo, ma Grillo ha la dignità di un coniglio e state certi che se a querelarlo fossero stati in due anche le rettifiche sarebbero state due. Grillo ha paura delle querele? Probabile: perché è tirchio e perché ha già beccato delle condanne. Mentana teme di perdere pubblico grillino? Improbabile: chi disprezza compra, e comunque il suo tg resta il migliore. Per i feticisti: nel collage di testate utilizzato da Grillo manca Il Messaggero (un caso) e il Fatto Quotidiano (meno un caso). Però tra i disinformatori compare TuttoSport: serve una giuria popolare per la Juve.

Colleghi giornalisti, siamo vittime o carnefici? Scrive Tiziana Maiolo il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ora non facciamo le verginelle, noi giornalisti, per favore. Gestiamo un potere di vita e di morte sui cittadini, secondo solo a quello dei magistrati. I quali peraltro sono più che soddisfatti quando hanno la nostra complicità ma anche il nostro incitamento, come sta accadendo in questi giorni con l’istigazione palese a che qualcuno si sbrighi a inviare un’informazione di garanzia al sindaco di Roma Virginia Raggi. Non possiamo dirci vittime, neppure quando capita, come in questi giorni, che un importante leader politico quale Beppe Grillo, ci accusi di essere manipolatori e dispensatori di notizie false. Non è forse vero? Non interessa il fatto che lui stesso con questa dichiarazione cerchi a sua volta di manipolare l’opinione pubblica (e ci riuscirà, perché la nostra categoria non è molto amata), quel che conta è avere il coraggio di superare la debolezza del corporativismo per ritrovare la forza di guardarci allo specchio e fronteggiare ad armi pari l’interlocutore politico. Né vittime né carnefici. Cerchiamo prima di tutto di non trasformare in vittima il “carnefice” Grillo, come fu fatto con Berlusconi per il reato di “editto”, mentre fu salvato Renzi, che pure cacciò dalla direzione del Tg3 una brava giornalista come Bianca Berlinguer, la “strega” che non gli baciava l’anello. Cerchiamo di guardare con occhio autocritico tutti i nostri editti e le nostre manipolazioni. Piero Sansonetti ha spiegato molto bene quel che succedeva nelle redazioni dei tre principali quotidiani italiani e in quello che era organo del Pci nei primi anni novanta quando, in piena Tangentopoli, gli imprenditori (compresi quelli che erano anche editori) cercavano in ogni modo di evitare la galera e i quattro direttori concordavano l’uscita collettiva del giorno dopo. E intanto, mentre Romiti e De Benedetti salvavano i polsi dalla seccatura delle manette, cadeva la Prima Repubblica. Siamo così sicuri che a vent’anni di distanza, noi siamo diventati più virtuosi? Sappiamo bene che quando inizia una campagna stampa nei confronti di qualcuno, quel qualcuno finirà, volente o nolente, per doversi dimettere. L’abbiamo visto accadere a Roma nei confronti dell’ex sindaco Marino, crocifisso per una questione di scontrini, e contro l’ex ministro Lupi (mai colpito da alcun provvedimento giudiziario) per un orologio regalato al figlio da un amico di famiglia. Questo significa una cosa sola: non solo che la stampa italiana è libera, ma anche che è in grado di modificare la realtà, quindi che è potente. E allora non si può prima dire che occorre colpire le bufale dei social (la violenza verbale sì, invece) e poi offendersi se Grillo ci dice che anche noi ogni tanto le spariamo grosse, e che vuol fare il “tribunale del popolo” neanche fosse il capo delle Brigate rosse. Impariamo prima noi a rispettare gli altri, tutti. Beppe Giulietti, presidente della Federazione della stampa, nell’intervista al nostro giornale invita Grillo a sollecitare i suoi parlamentari perché facciano approvare due proposte di legge giacenti in Parlamento: una contro il carcere per i giornalisti, l’altra contro la “querela temeraria”, cioè pretestuosa e finalizzata a tappare la bocca al giornalista scomodo. Bene, questa seconda è argomento molto scivoloso e Giulietti, che è stato in Parlamento quindi è anche un politico di professione, sa bene che quando un quotidiano (o anche un singolo giornalista) ti prende di mira, ne puoi uscire solo attraverso la querela, l’unica forma di autodifesa possibile. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, con un’accorata pubblica dichiarazione di difesa della propria correttezza professionale, ha annunciato di querelarsi nei confronti di Beppe Grillo. Poi pare abbia cambiato idea. Ma è proprio sicuro di essere lui, in rappresentanza della categoria, la vera vittima e non, talvolta il “carnefice”? 

Siti responsabili per commenti degli utenti, lo dice la Cassazione, scrive il 3 gennaio 2017 "Adnkronos.com". Chi gestisce un sito web è responsabile dei commenti di utenti e lettori, anche quelli che postano in forma anonima. Lo stabilisce la sentenza 54946 della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso presentato dal gestore del sito agenziacalcio.it. Sulla community del sito, un utente ha pubblicato un commento relativo al presidente della Figc, Carlo Tavecchio: il numero 1 della federcalcio è stato definito nella circostanza “emerito farabutto” e “pregiudicato doc”. Al commento, come si legge nella sentenza, “l’utente allegava il certificato penale”. Il gestore del sito è assolto in primo grado e condannato in secondo. La Cassazione ha confermato la sentenza che prevede il pagamento di 60mila euro al presidente della Figc, per “concorso in diffamazione”. 

Altro che giuria popolare M5S. La Cassazione inguaia i siti. Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese, scrive Daniela Missaglia, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese. Il 2016 si chiude infatti con una discutibilissima sentenza della Corte di Cassazione che, contravvenendo ogni principio di logica e diritto, persino quelli stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, introduce una responsabilità in concorso del gestore di siti internet nei quali un forumer non anonimo iscriva commenti ritenuti diffamatori. Questo è quello che la Suprema Corte ci sta dicendo: se sul sito di questo giornale o in qualsiasi altro sito aperto ai commenti, un lettore (pur identificato con nome e cognome e regolare registrazione) dovesse esprimere feroci censure ad una notizia di cronaca politica, dipingendo come un farabutto questo o quell'onorevole, la responsabilità penale non sarebbe solo quella personale del commentatore fumino, ma anche del gestore o amministratore del sito che si buscherebbe un bel concorso in diffamazione. È bastato che un lettore chiamasse «farabutto emerito» e «pregiudicato doc» il presidente della Figc ad oscurare il sito su cui il post incriminato era stato vergato elettronicamente, con avvio dell'azione penale verso i gestori (e 60mila euro di condanna risarcitoria). Fermo il rispetto a Giancarlo Tavecchio ed al suo sacrosanto diritto di difendere la propria onorabilità nei confronti di chi lo diffami, con questa logica perversa (non a caso esclusa dal Tribunale di prime cure) stiamo condannando alla chiusura forum, chat pubbliche, piattaforme e siti che ammettono il coinvolgimento degli utenti attraverso i commenti. Pensare che la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva bacchettato, nel febbraio 2016, gli Stati dell'Unione che condannavano i gestori dei siti per effetto di commenti di utenti anonimi o non identificabili: questo perché, spiegavano i magistrati di Strasburgo, così si finiva per ledere la libertà d'espressione che è un diritto fondamentale dell'umanità. Chi, dopo la sentenza in commento del supremo organo giurisdizionale nostrano, avrà il coraggio di gestire un sito e ammettere i commenti dei lettori? Si fa un gran parlare di post-verità, di Beppe Grillo e giurie popolari per smascherare i media, dell'ira del divin Mentana contro il leader pentastellato e poi questa sentenza scivola in un trafiletto delle pagine interne. A questa stregua Laura Boldrini o Matteo Renzi potrebbero, da soli, far chiudere l'80% dei siti italiani ma bisognerebbe costruire un super-carcere apposito per ospitare tutti gli amministratori. Per non parlare di quanto è stato scritto negli anni su Silvio Berlusconi e qualsiasi altro personaggio della politica, sport, finanza, tv o carta stampata che, per la sua visibilità e notorietà, automaticamente ha risentito di critiche, anche ben oltre il lecito. Siamo ad un bivio: la Cassazione dipinge lo scenario futuristico di un mondo di repressione verbale, la Corte europea fornisce invece una visione più garantista e rassicurante, identificando come personale la responsabilità penale, a tutela di un diritto fondamentale, il diritto alla libertà d'espressione. Questa volta mi sento di propendere per la visione europea, una volta tanto più avveduta dei manicheismi patri.

Anche i grillini si sono accorti che la Rete non è Dio. L’entusiasmo ideologico per il Web inizia a incrinarsi, scrive Fabio Chiusi il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". No, Internet non si è “rotta”, come dice il cofondatore di Twitter, Evan Williams. Ma di certo, nell’era della sorveglianza globale e della propaganda automatizzata, si è rotta l’utopia che vi si è accompagnata per decenni. Evan la traduce così: «Pensavo che, una volta liberi tutti di parlare e scambiare informazioni e idee, il mondo sarebbe stato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo». Chissà se agli ideologi del Movimento 5 Stelle, alla Casaleggio Associati, fischiano le orecchie. È il non-partito di Beppe Grillo, infatti, ad avere cercato di tradurre quell’idea in realtà più di chiunque altro al mondo. Nel loro manifesto del 2011, erano il comico-garante e lo scomparso Gianroberto a scrivere che «la rete è francescana, anticapitalista», quando oggi invece cinque delle sette multinazionali più capitalizzate al mondo hanno accumulato miliardi proprio grazie alle dinamiche monopolistiche dell’economia digitale. Internet avrebbe dovuto rendere politici ed elettori «più intelligenti», sostenevano, e sviluppare «capacità analitiche» e «critiche per comparare diverse fonti di informazione»; invece parliamo quasi solo di ultrademagoghi al potere e di “fake news”. Oggi il figlio Davide, che ne raccoglie l’eredità, sembra per molti versi riconoscere che le cose sono più complesse. Prima ha pubblicato un video postumo del padre, in cui si respirano toni cupi su intelligenze artificiali talmente progredite da sfuggire alla comprensione umana. Poi, in una lettera al Corriere, ha contemplato il rischio di «milioni di disoccupati» a causa di «robot intelligenti molto più efficienti»; su questo, è Matteo Renzi l’entusiasta col paraocchi. Diverse proposte del Movimento sembrano poi guardare sì al futuro - Davide, come Gianroberto, ne è terribilmente affascinato - ma con meno ingenuità. «Le tecnologie devono essere un oggetto su cui esercitare un’attenzione critica», si legge per esempio nel post che illustra il programma per la didattica. Ma è difficile pensare che il figlio possa rinunciare al fulcro dell’utopia del padre. L’idea, cioè, che la rete sia portatrice sana di una rivoluzione per la democrazia, che da rappresentativa diventa necessariamente digitale e diretta; un «sistema operativo», Rousseau. «La vecchia partitocrazia è come Blockbuster», scrive Davide, «noi siamo come Netflix. Il futuro è nella rete, nella partecipazione». Senza la profezia di morte ai partiti, è il Movimento a morire. La domanda è se la sua ideologia non stia subendo la stessa sorte.

Il video testamento di Gianroberto Casaleggio: l'utopista è diventato apocalittico. Il video postumo rivela una svolta intellettuale del defunto guru M5s: le tecnologie non sono più viste come strumenti per liberare i cittadini dai potenti, ma al contrario minacciano il nostro futuro di esseri umani, scrive Fabio Chiusi il 4 ottobre 2016 su "L'Espresso". Gianroberto Casaleggio ha sempre avuto familiarità con la futurologia. Una vera e propria costante della sua avventura professionale e politica, dalla profezia di un governo mondiale costituito dall’intelligenza collettiva dei cittadini in rete nel video ‘Gaia’ del 2008, all’altra, non meno ambiziosa, di portare la democrazia digitale diretta al cuore della vita politica del nostro paese. Con il video pubblicato dal figlio Davide sul concetto di "Singolarità" tecnologica, si scopre che ha segnato, e profondamente, anche la sua vicenda umana, personale. Lo si deduce dai toni cupi che lo pervadono, e che si dipingono proprio "nell’ultimo periodo" della sua vita. Come se il futuro si fosse complicato, uscendo improvvisamente dai binari dell’utopia per deragliare su quelli della distopia. Nel giorno del compleanno del M5s, Davide Casaleggio pubblica l'ultimo video realizzato dal padre Gianroberto. Il tema affrontato è quello della cosiddetta "Singularity", ovvero il momento nel quale secondo il fisico Stephen Hawking l'uomo smetterà di comprendere le scelte delle intelligenze artificiali da lui create. "A mio padre piaceva riflettere sul futuro e il tema della Singularity lo aveva appassionato nell’ultimo periodo", spiega Davide Casaleggio in un lungo post su Facebook. La "Singolarità", infatti, viene menzionata come il dominio di una entità super-intelligente che "controllerà il pianeta" e "sfuggirà alla comprensione umana", portando - come già prospettava nel 1983 Vernor Vinge coniando il termine - alla "fine dell’umanità". I familiari discorsi sugli infiniti benefici del progresso tecnologico, e in particolare delle tecnologie di rete, lasciano il posto ai toni apocalittici di Stephen Hawking; il progresso umano tramite il digitale viene eclissato dall’evoluzione, molto più rapida, di macchine capaci di imparare da sole, correggersi e "migliorarsi continuamente". E certo, c’è una radicale inconoscibilità in cosa potrebbe accadere in uno scenario in cui l’intelligenza artificiale supera quella umana; è una costante del pensiero sulla "Singolarità", evidente per esempio nel caposaldo del genere, ‘La Singolarità è vicina’, del Ray Kurzweil che oggi è chief engineer di Google. Ma non sempre si accompagna all’inquietudine che si respira nel video postumo di Casaleggio. Un video in cui lo scenario dipinto dal film ‘Her’ del 2013, per esempio, non appare possibile: qui le macchine sembrano minacciare l’umano, più che sedurlo per poi solamente sparire in un piano di esistenza a noi incomprensibile, come nella straordinaria pellicola di Spike Jonze. È un aspetto inedito della riflessione di Casaleggio sul futuro. Si pensi al sogno di ‘Gaia’: per quanto sia situato proprio a partire dagli anni 40 del nostro secolo, non c’è traccia delle complicazioni fornite dallo sviluppo di intelligenze sintetiche non unicamente benigne per il genere umano. Al contrario: nel "nuovo ordine mondiale" che si immagina nascere il 14 agosto 2054 i conflitti razziali, ideologici, territoriali e religiosi saranno scomparsi, e proprio grazie alla stessa rete Internet che nell’ultimo video, invece, consente a oggetti connessi ("Internet delle cose"), Big Data e AI di dare vita al "superuomo" artificiale che potrebbe spazzare via la "carne" che tanto sembra sorprendere gli immaginifici alieni che appaiono in chiusura. Ci sono uomini più intelligenti, non macchine troppo intelligenti. Il video del 2008 in cui Gianroberto Casaleggio detta la coordinate che a suo dire porteranno alla democrazia liquida cosmica.

Sembrano questioni diverse, Gaia e la Singolarità. E di certo la seconda è trattata con maggiore perizia della prima, cogliendo per esempio la natura "specifica" dell’intelligenza artificiale rimarcata anche da esperti del settore del calibro di Pedro Domingos. Eppure i rimandi sono evidenti: in Gaia si dice che nel 2043 "il pianeta è suddiviso in migliaia di comunità riunite attraverso la rete", e il contributo di Casaleggio sulla Singolarità comincia, allo stesso modo, con l’ipotesi di un "modello collaborativo tra piccole comunità autonome tra loro collegate", "una riproduzione sociale del cervello umano". In entrambi i video poi si parla di social network globali, indispensabili non solo per la vita sociale, ma sempre più per esistere e basta. Eppure in Gaia l’uomo del 2054 "è l’unico padrone del suo destino"; nella Singolarità invece la super-intelligenza artificiale "sfuggirà al nostro controllo, e non potremo più capirne le decisioni". Come si conciliano le due visioni del futuro? Una domanda che si potrebbe porre per tutto lo sviluppo delle idee di Casaleggio in materia: nel mondo perfetto di ‘Veni, vidi, web’, dove "i lavori pesanti sono fatti dai robot e non nobilitano più l’uomo"; ma anche nello scenario dipinto in svariate interviste secondo cui "la rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore". Superiore ma umana, non post-umana. Insomma, l’ultimo video sembra mostrare un Casaleggio alle prese con l’idea della vita e della morte, lontano dai proclami entusiastici che ne hanno segnato la carriera, e desideroso piuttosto di esplorare il "lato oscuro" di quanto lo ha appassionato per tutta la sua esistenza. Un lato ingombrante, e che forse - se problematizzato prima - avrebbe contribuito a una migliore realizzazione delle sue ambizioni di cambiamento radicale dell’esistente.

GRILLOPOLI: OMERTA’, OMERTA’.

Cinque stelle e zero euro. Ecco i grillini senza soldi (prima di essere eletti). Altro che lotta alla Casta. Dal vicepresidente di Montecitorio Di Maio a Fico (Vigilanza Rai), quanti pentastellati con l'ingresso in Aula hanno trovato anche uno stipendio, scrive Antonio Signorini, Martedì 15/04/2014, su "Il Giornale". Erogazioni e contributi da terzi: una bella riga sopra. Spese elettorali: zero spaccato. Contributi ex legge 195/74 (cioè finanziamenti ai partiti): un crocione sopra. Occasione promozionale ghiotta per il Movimento cinque stelle la pubblicazione delle dichiarazioni patrimoniali di deputati e senatori. Ventidue tomi, destinati a passare tra le mani di giornalisti e cittadini, con i redditi personali e il bilancio della campagna elettorale dei singoli deputati, dai quali emerge chiaramente che gli eletti del M5S non hanno speso e se lo hanno fatto è per cifre bassissime. Ma ieri il meccanismo comunicativo si è inceppato sul più bello, perché le agenzie di stampa hanno cominciato a puntare su un'altra caratteristica delle dichiarazioni depositate all'ufficio «Prerogative e immunità», cioè i tanti redditi zero tra i parlamentari del movimento. Non solo loro, certo. Tanti redditi bassi soprattutto tra i parlamentari Sel e Pd. Ma di pentastellati senza entrate economiche, solo alla Camera, se ne contano a decine. Compresi i volti noti del movimento. Ad esempio il presidente della commissione di Vigilanza Rai Roberto Fico, nato nel 1974, maturità classica, laurea in Scienze della comunicazione e master in Knowledge management presso il Politecnico di Milano. Dichiara un'abitazione a San Felice circeo e una dichiarazione con la sola cifra relativa alla prima abitazione. Sono le dichiarazioni 2013, quindi relative ai redditi del 2012 quando ancora i parlamentari M5S non percepivano l'indennità. Fico non è di quelli che hanno lasciato in bianco anche i fogli sulla campagna elettorale: dichiara di avere speso 400 euro, di aver ricevuto 714 euro di donazioni da terzi, e 2.000 euro in servizi offerti da sostenitori della sua candidatura a deputato della Repubblica. Anche il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ha consegnato una dichiarazione a zero euro. Niente automobile e niente casa. Nello spazio su eventuali partecipazioni al capitale di società c'è una cancellatura e niente più. Andava po' meglio ad Alessandro Di Battista, uno dei volti noti del movimento, che ha dichiarato, sempre per l'anno di imposta 2012, 3.176 euro e una partecipazione al 30% alla Di.Bi.Tec Srl, che lo vede anche nel consiglio di amministrazione. Risicatissime le spese elettorali: 145,20 euro per stampare 5.000 biglietti. Stessa musica al Senato, dove i redditi più bassi sono in gran parte del M5S. Dichiarazioni in bianco per Daniela Donno, Vilma Moronese mentre Vito Petrocelli ha un reddito complessivo dichiarato addirittura negativo. Meno 296 euro. Poi la ex M5S Monica Casaletto che ha spiegato di essere a carico del coniuge. Oltre alle dichiarazioni in bianco, nel movimento di Beppe Grillo ci sono tanti redditi bassi. Cud da lavoro dipendente e modelli del fisco con cifre sotto la media. L'ex capogruppo Nuti (anche lui senza auto) ha un reddito da 27.584 euro. Daniele Pesco (che invece guida una Mazda 323 del 1992) un reddito da classico quarantenne di oggi che se la passa bene: 30.715. Roberta Lombardi, deputata di Orbetello ed ex capogruppo, (come auto indica un'indiana Tata) 22.713 euro. Sempre nel 2012, cioè prima dell'inizio della legislatura. Stefano Barbanti, è tra i deputati con i redditi più alti, con 50.122 euro all'anno lordi. Laureato in statistica e quadro presso un'azienda. Ma la più ricca del Movimento Cinque Stelle a Montecitorio è Giulia Grillo, medico legale con una dichiarazione allegata e consegnata agli uffici della Camera, da 62mila euro.

Le spese di Di Maio agitano il M5S: "100mila euro in 3 anni". Grillini in fibrillazione. Nel mirino i centomila euro spesi da Di Maio in tre anni per gli eventi sul territorio. Lui si difende: "È normale per un parlamentare", scrive Sergio Rame, Lunedì 17/10/2016, su "Il Giornale". Il caso Luigi Di Maio è esploso. E sta agitando il mondo a Cinque Stelle. Sotto la lente di ingrandimento di Beppe Grillo e compagni, come racconta Repubblica, è finita la lunghissima lista di spese del vicepresidente della Camera. "Centomila euro di eventi sul territorio in tre anni? - si chiedono i parlamentari M5S - ma quanto spende Luigi Di Maio?". Le rendicontazioni del vicepresidente della Camera sono stellari. Ma Di Maio non sembra curarsene. Anzi oggi ha addirittura presentato un tour mondiale per portare in giro le ragioni del "no" alle riforme costituzionali del governo Renzi. "Sono meno di tremila euro al mese - spiega - è normale per un parlamentare spendere per attività sul territorio". In Italia, in quanto parlamentare, Di Maio ha treni e aerei pagati. Eppure le spese di trasporto sono esorbitanti. Dopo i 108.752 euro spesi dal vicepresidente della Camera, troviamo infatti il presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico (31.600 euro), il senatore Carlo Martelli (28.484 euro), Carla Ruocco (25mila euro) e Barbara Lezzi (22mila euro). Alessandro Di Battista, tanto per capirci, si piazza solo al sedicesimo posto con una spesa di "appena" 16mila euro. Questo dato, fa però notare Repubblica, è stato presentato prima del tour "Costituzione coast to coast" che, però, non dovrebbe aver cambiato di molto la rendicontazione dal momento che il deputato romano ha sempre dormito e mangiato dagli attivisti grillini. Il caso sulle spese di Di Maio apre un nuovo capitolo (polemico) s quanto viene realmente restituito dell'indennità fissa. Lo scorso maggio, tanto per fare un esempio, Di maio aveva restituito appena 1.686 euro su 4.945. Gli altri parlamentari non sono da meno. Da quando sono sbarcati a Roma, come dimostra il grafico del sito Ma quanto spendi, che analizza i dati forniti dal Movimento 5 Stelle sul blog di Beppe Grillo, hanno diminuito a poco a poco la quota "variabile" delle restituzioni. "Per restare a maggio 2016 che è l’ultimo mese di cui si trova traccia - si legge su Repubblica - dei 7.193 euro di rimborsi forfettari che i deputati sommano all’indennità, il vicepresidente della Camera ha restituito 460 euro. Un andamento simile a quello dei mesi precedenti e migliore di quello di molti suoi colleghi che spesso, quota fissa dello stipendio base a parte, non restituiscono nulla".

La vita a 5 stelle di Di Maio spesi 100mila euro in eventi. Il parlamentare in tre anni è costato più dei suoi colleghi e si tiene tutta la diaria. Grillini in rivolta, scrive Pier Francesco Borgia, Martedì 18/10/2016 su "Il Giornale". Sempre più sotto pressione la leadership di Luigi Di Maio. Il giovane enfant prodige della politica a cinque stelle non è più «fuori discussione». Non bastano le accuse di comportamento «pilatesco» rivoltegli per la questione tutt'altro che risolta della raccolta di firme per ultime elezioni amministrative in Sicilia. Ci sono anche le spese per i suoi viaggi ufficiali ad alimentare le polemiche. I duri e puri dicono siano troppo alte. Nel libro che stanno scrivendo e pubblicando a puntate sul web due fuoriusciti (Marco Canestrari e Nicola Biondo) vengono ricostruite le spese di attività politica di Di Maio e compagni. Si assottiglia di quasi la metà, a esempio, la restituzione delle diarie dei parlamentari. Mentre nell'ultimo mese certificato (maggio 2016) il solo Di Maio (che gode anche di indennità di vicepresidente) avrebbe restituito soltanto 460 su quasi 12mila euro. A far discutere poi è il dato riguardante gli «eventi sul territorio», per i quali il solo Di Maio avrebbe speso in tre anni più di centomila euro. La distanza dal secondo arrivato in questa speciale classifica è - secondo l'ala dura del movimento - imbarazzante (si tratta di Roberto Fico con 31.600 euro). Insomma siamo lontani dall'idea della politica «a costo zero» tanto sbandierata da Grillo e Casaleggio al nascere dell'azione politica del Cinquestelle. Di Maio si difende e anche il Direttorio fa quadrato su di lui sostenendo che si tratta di malizie ingiuste, visto il ruolo che Di Maio ricopre all'interno del Movimento e in Parlamento (vicepresidente della Camera dei deputati). Roberto Fico (altro nome di peso del grillismo) si spende anche sui social network per gettare acqua sul fuoco. «Nel movimento Cinque stelle non ci saranno mai correnti interne - tuona Fico dalla sua pagina Facebook - Si lavora tutti a un obiettivo comune che è quello di cambiare il Paese e di restituirlo ai cittadini italiani praticando la democrazia diretta. Il movimento rimane leale a se stesso, tutto il resto sono chiacchiere da bar». Tra le «chiacchiere» che però continuano a farsi si parla di un incontro ristretto dopo i funerali di Dario Fo. Un incontro dove si sarebbe parlato appunto della libertà d'azione di cui gode Di Maio. Pochi, però, all'interno del Movimento, hanno il coraggio di uscire dall'anonimato. Una di questi è la senatrice Elisa Bulgarelli che non si trattiene dal dire che quello che una volta era un movimento radicale sta scoprendo il «gusto» delle correnti e del «leaderismo». L'accusa indirettamente è rivolta anche a Grillo che si sta spendendo per garantire con la sua autorità l'«immunità» a Di Maio. Tra loro, dicono i bene informati, ci sarebbe un patto di ferro. Il primo coprirebbe il secondo fino a quando non diventa il candidato ufficiale contro Renzi alle prossime elezioni politiche. Solo allora il comico genovese farebbe un passo indietro (o di lato).

Il telefono d'oro di Fico: bolletta da 12mila euro. Nel sito degli ex grillini la verità sulle spese M5S. Il vitto di Di Battista costa 2800 euro in tre mesi, scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 19/10/2016, su "Il Giornale". «Ma quanto spendi?». La domanda dà il nome ad un sito internet che analizza tutte le spese, tra cene, alberghi, viaggi e consulenti, dei gruppi M5S a Camera e Senato (che rendicontano le loro entrate e uscite su tirendiconto.it). Gli autori sono due ex del movimento Cinque Stelle, Nicola Biondo già capo della comunicazione M5s alla Camera e Marco Canestrari ex Casaleggio Associati, ed è parte di Supernova, il libro su «com'è stato ucciso il MoVimento 5 Stelle» che è in corso di pubblicazione on line tramite un crowdfunding dei lettori. Dalle cifre raccolte per voci di spesa e ordinate in classifiche, si evince che Di Maio non è l'unico a utilizzare una bella fetta delle risorse che la Camera mette a disposizione (oltre allo stipendio base) dei parlamentari grillini. Lo slogan della politica a costo zero, o almeno low cost con una connessione internet, niente sedi di partito e il blog come strumento di comunicazione, non si ritrova però nei bilanci dei parlamentari Cinque Stelle, che se è vero che restituiscono una quota importante dei generosi fondi pubblici ricevuti a Montecitorio e Palazzo Madama, ne spendono anche parecchi. Qualche numero. Nell'ultimo quadrimestre (maggio-agosto 2016) il M5S Senato ha speso 748.875 euro, la maggior parte dei quali (oltre 350mila euro) per «personale e collaboratori». I deputati non hanno una rendicontazione quadrimestrale come gruppo, l'ultimo bilancio è relativo al 2015, dove si legge che gli «oneri» sono stati di 3,7 milioni di euro (350mila euro più dell'anno precedente). Anche qui la voce più corposa sono i dipendenti e i consulenti del gruppo, diciassette persone all'Ufficio Comunicazione (tra cui Silvia Virgulti, fidanzata di Di Maio), trentacinque al Legislativo, eccetera. E le spese dei singoli parlamentari? Di Maio, il pupillo di Grillo e favorito per una futura investitura a candidato premier, è finito al centro di una polemica per i 108mila euro spesi in tre anni per «eventi sul territorio» («Dal 2013 ho restituito ai cittadini italiani 204.582,62 euro. E sono felice di averlo fatto» si difende sul blog di Grillo). Ma in altre classifiche Di Maio è superato da altri suoi colleghi. La senatrice Barbara Lezzi, ad esempio, è al primo posto nella classifica della spesa per «consulenze» (assistenza legale, commercialisti, informatici): 85mila euro spesi finora. Ai primi posti seguono altri grillini, come i due componenti del direttorio Di Battista (41mila euro) e Carlo Sibilia (40mila). Di Battista, soprannominato dai colleghi «Gallo cedrone» (una delle chicche svelate dal libro) negli ultimi tre mesi rendicontati, cioè fino a luglio, ha speso 2.800 euro tra pranzi, cene, bar e alimentari generici. Ma alla voce «vitto» non è Di Battista il top spender della pattuglia parlamentare grillina. La medaglia va al deputato Mattia Fantinati, che finora ha utilizzato 32mila euro pubblici per le sue esigenze alimentari. Per «Alberghi e simili» vince il deputato grillino Cosimo Petraroli, da Torino, con 41mila euro spesi. I big tornano ai primi posti in altre voci, come le «spese telefoniche», dove Roberto Fico si piazza al secondo posto con più di 12mila euro in telefonate. É anche il presidente della Vigilanza Rai, gli toccherà chiamare spesso. Riecco Di Maio tra quelli che spendono di più in «noleggio auto», quasi 9mila euro, al secondo posto dopo il deputato Bernini (10mila). Il senatore Lello Ciampolillo è il campione dei taxi: 16.668 euro. Mentre non è noto che tipo di appartamento abbia in affitto (coi soldi della Camera) la deputata Marta Grande. Il suo canone mensile è di oltre 2mila euro, ne ha già spesi 77mila. Politica «low cost»? Diciamo «medium».

Ennesima tegola sui grillini per la casa gratis a Casalino. Renzi attacca sull'affitto all'uomo di Casaleggio pagato coi soldi pubblici. E si complica il caso Palermo, scrive Anna Maria Greco, Lunedì 21/11/2016, su "Il Giornale". Non solo firme ricopiate, nella lista del M5S per le comunali 2012 di Palermo, ma anche «clonate» da quelle raccolte dai grillini per il referendum sulla privatizzazione dell'acqua dell'anno prima. C'è molta carne al fuoco nell'inchiesta siciliana, con almeno 8 indagati tra parlamentari e attivisti, che mette sotto accusa lo stesso sistema di selezione dei Cinque Stelle. Almeno due professionisti non hanno riconosciuto le firme nella lista elettorale, dicendo di aver partecipato solo alla raccolta referendaria. Si aprono vistose crepe nell'immagine del movimento moralizzatore di Beppe Grillo e le resistenze sono forti all'ordine rivolto dal leader ai coinvolti di autosospendersi. Per ora, solo in due hanno fatto il passo indietro: la deputata regionale Claudia La Rocca, la prima a pentirsi della contraffazione e a collaborare con i pm e un altro esponente di Palazzo dei Normanni, Giorgio Ciaccio, anche se dice di non aver ricevuto l'avviso di garanzia. Gli altri, compresi i due deputati nazionali Riccardo Nuti e Claudia Mannino, prendono tempo. Eppure, è stato sulla base di quella lista, che non conquistò neppure un consigliere, che loro e altri poterono poi presentarsi alle «parlamentarie» e puntare a Roma. Adesso a mettere sotto accusa tutto il metodo di reclutamento saltano fuori anche diversi fuoriusciti dal M5S. Descrivono Grillo molto infuriato per il «pasticciaccio» palermitano, anche perché il Pd lo accusa apertamente di essere informato di tutto. Il referendum è alle porte e l'impatto della vicenda è certo negativo. Beppe cerca una controffensiva e annuncia su Twitter che oggi alle 13, in diretta sulla sua pagina Facebook, trasmetterà «un video appello a tutti gli italiani. #passateparola #IoDicoNo». A peggiorare il quadro si aggiunge la storia dell'appartamento del capo della comunicazione M5S Rocco Casalino, pagato con i fondi pubblici destinati al partito. L'aveva scritta l'anno scorso L'Espresso, ma ora a ritirarla fuori in piena campagna referendaria lo stesso premier. «Siamo passati dalla casa del Grande fratello a quella del Grande Senato -dice Matteo Renzi, riferendosi al fatto che Casalino si è fatto conoscere come concorrente del primo reality show-. Ma perché, poi, la casa di Casalino? Dovevano cambiare tutto e invece giocano con le firme false, sono garantisti a giorni alterni, pagano le case. È il sistema che loro volevano scardinare. Se fossi un elettore dei Cinque stelle non protesterei, voterei Sì al referendum».

L'articolo citato dal premier raccontava che dal 2015 il M5S aveva speso al Senato 160 mila euro per pagare l'affitto di casa ai dipendenti della comunicazione, scelti dalla Casaleggio Associati. Casalino, in particolare, è ospitato dall'estate 2013 con un collega in un palazzo secentesco in via di Torre Argentina, in pieno centro storico. Il gruppo parlamentare ha poi precisato, senza smentire, che si tratta solo di 75 mq, confermando che ogni mese mette a disposizione per l'Ufficio comunicazione in media 1000 euro a persona per l'affitto degli appartamenti ai dipendenti non residenti. Beati loro.

Firme false M5s, Grillo ai suoi: «Sospendetevi», scrive Rocco Vazzana il 18 novembre 2016, su "Il Dubbio". Renzi: «Pensate a quelli che volevano scardinare tutto. Gridavano "onestà, onestà" e ora hanno cambiato due lettere: omertà, omertà». «Chiediamo a tutti gli indagati nell'inchiesta di Palermo di sospendersi immediatamente dal MoVimento 5 Stelle non appena verranno a conoscenza dell'indagine nei loro confronti a tutela dell'immagine del Movimento e di tutti i suoi iscritti». Con un post scriptum sul Blog di Beppe Grilloi 5 stelle chiedono ai propri iscritti coinvolti nell'inchiesta di Palermo sulle firme false di fare un passo indietro. Dopo aver minimizzato a lungo l'accaduto, ora il M5s teme di finire invischiato in una grana giudiziaria e corre ai ripari. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, sarebbero almeno 8 - tra attivisti e parlamentari - gli indagati accusati di falso nella compilazione delle liste elettorali in occasione delle Comunali palermitane del 2012. La vicenda, resa pubblica da un servizio de Le Iene, parte dalle segnalazioni di Vincenzo Pintagro, ex attivista 5 stelle che denuncia irregolarità nella presentazione delle firme in Tribunale: non sarebbero autentiche, sarebbero state ricopiate a mano da alcuni esponenti del partito di Grillo per rimediare a un precedente errore sul modulo originale. Dopo aver convocato i sottoscrittori della lista - che non hanno riconosciuto la propria firma - è probabile che i pm Bernardo Petralia e Claudia Ferrari interroghino in settimana i protagonisti di questa vicenda. L'accusa ha incrociato le testimonianze di Pintagro e dei firmatari, avvalendosi anche della collaborazione di Claudia La Rocca, deputata regionale da ieri autosospesa, che ha ammesso di aver copiato le firme insieme alle deputate nazionali Claudia Mannino e Loredana Lupo e alla collaboratrice del M5s siciliano Samantha Busalacchi. La Rocca avrebbe anche informato il leader del Movimento prima di recarsi in Procura, ma il diretto interessato smentisce l'accaduto. Eppure, pochi giorni fa Grillo aveva ammetteva: «La firma falsa non è una firma falsa, è una firma copiata. È l'Oscar della stupidità. Noi se siamo disonesti non riusciamo neanche ad essere disonesti. Con quelle liste lì non è stato eletto nessuno». La tesi però non convince gli inquirenti. Perché se è vero che il Movimento non elesse neanche un rappresentante in Comune, è pur vero che la sola presenza in lista consentiva - per le regole interne - a quelle stesse persone di candidarsi per le successive elezioni Politiche che portarono molti attivisti siciliani in Parlamento. «Sono certa e confido in un gesto di responsabilità delle persone che hanno eventualmente commesso errori», commenta l'ex capogruppo alla Camera, Roberta Lombardi. «Passa anche da qui la differenza tra il M5S e i partiti, nell'assunzione di responsabilità di chi sbaglia», dice. Ma gli avversari politici attaccano: «Pensate a quelli che volevano scardinare tutto e ora sono a difendere le firme false. Gridavano "onestà, onestà" e ora hanno cambiato due lettere: omertà, omertà», ironizza Matteo Renzi, approfittando del passo falso pentastellato. E per non mostrare troppo il fianco, ai piani alti del Movimento stanno già pensando a una serie di espulsioni in caso di rinvio a giudizio.

Alessia Morani: “Il M5s campione di omertà più che di onestà”, scrive Agenpress il 19 novembre 2016. "Più che di onestà i pentastellati sono campioni di omertà. A Palermo ormai è chiaro che tutti sapevano. Ciononostante nessuno ha parlato, anzi hanno provato a farla franca. Ma questo comportamento omertoso ormai è una costante già dai tempi di Quarto." Così Alessia Morani, vicepresidente dei deputati Pd. "L’onestà e la trasparenza vengono invocate per gli altri, ma non appartengono al dna dei 5 stelle, che la chiedono per i propri esponenti solo quando vengono colti con le mani nel sacco da inchieste giornalistiche e della procura. Grillo, Di Maio e Di Battista – spiega la deputata Dem – non potevano non sapere, soprattutto questa volta che ad essere indagati non sono semplici sindaci di provincia, ma parlamentari di alto rango. È in atto un concorso di irresponsabilità che si allarga ogni giorno di più. Non c’è più tempo per fare i pesci in barile dopo aver cercato di nascondere un reato grave, questo – conclude Morani – è il tempo della verità, lo devono ai cittadini".

Firme false, bufera sul M5S: Grillo sapeva ma ha taciuto? Almeno otto grillini indagati a Palermo. La deputata regionale La Rocca avvisò Grillo prima della confessione. Lui smentisce, scrive Sergio Rame, Venerdì 18/11/2016, su "Il Giornale". Otto parlamentari e attivisti del Movimento 5 Stelle sono indagati con l'accusa di violazione del testo unico 570 del 1960. Lo scandalo delle firme false a sostegno della lista presentata nel 2012 alle elezioni comunali di Palermo fa esplodere l'allarme legalità nel partito di Beppe Grillo. Anche perché resta irrisolto il giallo sul fatto che il comico genovese fosse stato o meno informato del pasticcio. "Pensate che chi gridava "onestà onestà" - ha commentato Matteo Renzi - ora ha solo cambiato una consonante e dice 'omertà omertà' e si ritrova a difendere le loro firme false". A partire dalla prossima settimana parlamentari e attivisti saranno interrogati dal pool coordinato dal procuratore aggiunto Bernardo Petralia e dal pm Claudia Ferrari, che si avvalgono delle indagini svolte dalla Digos. È stato l'incrocio delle dichiarazioni dei tre testimoni poi divenuti indagati - la deputata regionale Claudia La Rocca, che ha ampiamente collaborato, e due attivisti, che hanno fatto una serie di ammissioni - con quelle del superteste Vincenzo Pintagro e con il disconoscimento delle firme da parte di coloro che avevano appoggiato la lista, a indurre la procura a sentire le versioni di coloro che materialmente avrebbero coordinato le operazioni di ricopiatura, la notte del 3 aprile 2012, dopo che gli attivisti grillini si erano resi conto dell'errore materiale su un luogo di nascita di un candidato. Nel timore che tutto si perdesse e che la lista fosse respinta dal tribunale, competente a vagliare la regolarità formale degli atti, fu decisa la sostanziale falsificazione delle firme, cosa ammessa da numerosi dei presenti. Chi indaga, visto che la lista non ottenne nemmeno un consigliere comunale, ipotizza però che una serie di persone si sarebbero giovate comunque dei falsi, perchè la candidatura alle elezioni comunali, secondo le regole dettate da Grillo, consentiva di candidarsi successivamente alle elezioni regionali e politiche, in cui il sistema elettorale ha consentito a una serie di militanti di diventare deputati e senatori. La La Rocca, che oggi si è autosospesa, ha chiamato in causa chi avrebbe copiato insieme a lei: fra gli altri, Claudia Mannino, Samantha Busalacchi, Loredana Lupo e ha detto che il candidato sindaco di Palermo, Riccardo Nuti, sapeva. Dalla sua e dalle altre audizioni sono venuti fuori pure, come presenti o più o meno partecipi e consapevoli, fra gli altri, i nomi di Giulia Di Vita e Chiara Di Benedetto. Tutti, a parte la Busalacchi, sono stati eletti nel parlamento nazionale. La consapevolezza e l'"uso" degli atti falsificati possono giustificare la contestazione del reato. Proprio riguardo alla consapevolezza, è giallo sul fatto che Grillo fosse stato o meno informato delle intenzioni della La Rocca di parlare con gli inquirenti. Secondo indiscrezioni, la parlamentare dell'Assemblea regionale siciliana avrebbe telefonato al leader prima di andare dai pm. Il fondatore dei Cinque Stelle ha negato però la circostanza. Tra i candidati al Comune di Palermo e che poi, proprio grazie a questa candidatura, fu inserita come gli altri nella lista presentata nel 2013 alla Camera, c'era anche Azzurra Cancelleri, sorella del candidato presidente della Regione (nel 2012 e oggi) grillino, Giancarlo Cancelleri. La donna fu poi eletta alla Camera, nel 2013. Al leader siciliano del M5S, vicino a Luigi Di Maio, mercoledì sentito come testimone in Procura, è stato chiesto se la sorella fosse a Palermo, nei convulsi giorni della presentazione della lista e della ricopiatura delle firme. E lui ha risposto di no: "Noi viviamo a Caltanissetta".

Due testimoni dicono di aver sottoscritto il referendum sull’acqua del 2011 anziché la lista 2012. Si sospende Ciaccio, fra i deputati coinvolti. No di Nuti e Mannino: “Prima l’avviso di garanzia”. Renzi: "Urlano onestà fuori dal Palazzo, una volta dentro falsificano". Di Battista: "Errore grande e grossolano", scrivono Romina Marceca e Salvo Palazzolo il 20 novembre 2016 su "La Repubblica". "Dire che va tutto male riesce a chiunque. I 5 stelle fuori dal palazzo urlano onesta. Quando sono dentro copiano firme, falsificano firme". Lo afferma il premier Matteo Renzi, nel corso di un'iniziativa per il si' al referendum, a Ercolano commentando così la notizia di Repubblica. Non solo firme ricopiate. Nella lista del Movimento 5 stelle per le Comunali 2012 sarebbero state inserite anche firme rubate. Alcuni nominativi, con le date di nascita e i documenti d’identità, provenivano dagli elenchi di chi firmò ai banchetti per il referendum che aveva come argomento la privatizzazione dell’acqua e non per la costituzione delle liste per le successive elezioni amministrative. Banchetti ed elenchi di un anno prima, insomma. Intanto l’inchiesta della procura si è già arricchita di nuove indicazioni importanti. Non solo la deputata La Rocca, ma anche altri due attivisti del Movimento hanno raccontato ai magistrati cosa accadde. E dopo La Rocca, ieri si è autosospeso il deputato regionale Giorgio Ciaccio, mentre i due parlamentari nazionali indagati, Riccardo Nuti e Claudia Mannino, restano in sella: "Prima l'avviso di garanzia". Un avvocato e un commercialista, convocati nei giorni scorsi dalla Digos, hanno spiegato di non avere firmato le liste elettorali di M5S: «Quelle firme sono palesemente false, non sono nostre», hanno messo a verbale in questura. Nel 2011, i due professionisti avevano invece firmato ai banchetti per il referendum sistemati davanti al palazzo di giustizia, in piazza Vittorio Emanuele Orlando, e al Politeama. L’avvocato e il commercialista lo confermano a Repubblica. «Non ricordo di avere firmato per le liste elettorali — dice il legale — ma ricordo con certezza di avere firmato per il quesito sull’acqua pubblica». È il nuovo fronte dell’inchiesta, che presto potrebbe far saltare fuori altri nominativi rubati dalle liste di chi ha aderito al referendum. Intanto, l’inchiesta della procura si è già arricchita di nuove indicazioni importanti: non solo la deputata regionale Claudia La Rocca, anche altri due attivisti del Movimento 5 Stelle hanno raccontato ai magistrati della procura cosa accadde la notte del grande pasticcio per salvare la lista delle comunali, nel meetup di via Sampolo. Le critiche del Pd. "La firmopoli siciliana si allarga di giorno in giorno e fa emergere contorni di una gravità sempre più evidente. Ma i vertici del Movimento 5 stelle continuano a sminuire" il caso, afferma il senatore del Partito democratico Francesco Scalia sull'inchiesta delle firme false a Palermo. "Di fronte alle nuove ammissioni degli attivisti siciliani, che ammettono le responsabilità sul metodo illegale di raccolta firme, false, copiate o clonate che siano, i vertici pentastellati, che sapevano e hanno taciuto non possono più balbettare. Hanno il dovere di fare chiarezza. Attendiamo fiduciosi. Ma non troppo". E il senatore Stefano Esposito aggiunge: "Dopo le firme copiate spuntano quelle clonate, spostate pari pari dalle liste di chi aveva firmato per il referendum sull'acqua in Sicilia e finite sotto le candidature a Cinquestelle. I vertici pentastellati, che sapevano e hanno taciuto invece di assumersi le loro responsabilità, continuano a tergiversare e dal tour siciliano per la campagna del no fanno saltare la tappa di Palermo". Giuseppina Maturani, vicecapogruppo del Pd al Senato afferma: "Dalle firme false a quelle clonate, raccolte per un altro motivo? Questo è quello che è avvenuto a Palermo tra i dirigenti (?) del movimento grillino? Siamo passati da onestà-onestà a Grillopoli. Nel solito silenzio omertoso e assordante – aggiunge - di Grillo e dei vari Di Maio e Di Battista che si girano dall'altra parte e intanto scappano da Palermo nel loro tour ferroviario. Eh, come è trasparente la diversità grillina". "Ormai quella delle firme false a Palermo è diventata una vera e propria Grillopoli – afferma la vicecapogruppo del Pd alla Camera, Silvia Fregolent. Oggi Di Maio e Di Battista, Grillo e Davide Casaleggio continueranno a sminuire e a girarsi dall'altra parte o proveranno a fare chiarezza sulle nuove allarmanti denunce. La vicenda può essere ancora più grave rispetto a quanto già emerso. Se fosse vero che hanno clonato firme siglate per altri motivi, l'imbroglio sarebbe ancora più serio". La difesa di Di Battista. "Non facciamo sconti a nessuno, valutiamo chi sono gli indagati e chiederemo loro di auto sospendersi". A dirlo il deputato M5S, Alessandro Di Battista a margine di un comizio a piazza Cairoli a Messina per dire no al referendum costituzionale, riferendosi all'inchiesta sulle firme false nelle liste del M5S per le comunali a Palermo. "Pensate - prosegue - comunque se tutti avessero i comportamenti del Movimento 5 stelle di fronte alle inchieste di mafia, non di fronte ad inchieste su delle firme ricopiate. Nonostante ciò, se è tutto vero, è stato un errore grande e grossolano per delle elezioni dove comunque nessuno del movimento è stato eletto. Applicheremo la fermezza e chiederemo loro di sospendersi". Sul caso interviene la vicesegretaria del Partito democratico Debora Serracchianeri: "Per essere un movimento che ha fatto della trasparenza e dell'onestà dei principi sulla base dei quali si offre al voto popolare, mi pare che la trasparenza manchi e che in qualche modo bisognerà valutare se c'è anche l'onestà. Siamo passati dalle firme copiate alle firme che sembrerebbe siano state falsificate. Onestamente credo che si debba fare chiarezza e che la debbano fare i vertici, perchè i cittadini hanno il diritto di sapere".

M5S, sulle firme false si allarga l’inchiesta. Il Pd: «È Grillopoli». Il secondo eletto autosospeso: questione di moralità. Il leader dei 5 Stelle contro Fabio Fazio: ci esclude, si dimetta, scrive Alessandro Trocino il 20 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La confessione di Claudia La Rocca, che ha confermato come le firme M5S per le Comunali 2012 siano state falsificate, scatena il Pd in una campagna contro i 5 Stelle. Che faticano a replicare sul punto, ma fanno partire una controffensiva, aprendo altri due fronti: il mancato intervento del Pd contro De Luca, dopo le dichiarazioni filo clientelari, e l’asserita parzialità di Fabio Fazio. È Renzi in persona a lanciare l’attacco: «Entrano nel Palazzo e diventano peggio degli altri. Fuori urlano “onestà onestà”, poi arrivi e scopri che falsificano le firme». Ancora: «Moralismo a giorni alterni. Se gli altri prendono un avviso di garanzia, dicono infame, venduto, mafioso. Se è uno dei tuoi allora “poverino, c’è presunzione di innocenza». E infine: «Sono rimasto sconvolto su dove vanno i soldi del Senato dei 5 Stelle: per pagare gli affitti dei dipendenti del gruppo che si occupa di comunicazione. Uno di questi è Rocco Casalino conosciuto per il Grande Fratello». Dopo la Rocca, si è sospeso dal M5S un altro deputato regionale, Giorgio Ciaccio. Con un comunicato nel quale spiega: «Un uomo fa quello che deve, nonostante le conseguenze personali, gli ostacoli, i pericoli, le pressioni. È questa la base di tutta la moralità umana». Intanto si scopre che le firme non sarebbero state solo copiate ma anche «clonate» usando quelle raccolte per il referendum del 2011 sull’acqua. Carla Ruocco a Sky: «Noi sospendiamo e allontaniamo chi commette irregolarità, gli altri se li tengono e li coccolano». Vito Crimi: «Renzi e tutto l’esercito Pd sconnessi dal Paese reale sono così intenti a ispezionare la pagliuzza nell’occhio dell’altro che si rifiutano di vedere la trave nel proprio». Non sono ovviamente di questo parere dalle parti del Pd, dove si fa notare che all’appello di Grillo di sospendersi, «su 30 hanno risposto in 2». Fiano parla di «grillopoli» e definisce «omertoso» il silenzio di Grillo, Di Battista e Di Maio. Anche per Debora Serracchiani, «i vertici dei 5 Stelle dovrebbero fare chiarezza». Grillo annuncia per oggi alle 13 un «video appello» sul referendum via Facebook. E gli altri esponenti dei 5 Stelle rilanciano. Sul blog di Grillo campeggia invece un post contro Fazio, definito «un militante del Pd»: «Ha invitato Renzi nell’orario di punta, subito dopo i Coldplay, e poi ha ignorato completamente il M5S e ha invitato l’avversario più comodo per il governo, Salvini. Si dimetta». La redazione di Che tempo che fa risponde che «sono stati invitati Grillo, Casaleggio, Raggi e Appendino ma hanno declinato». E sul post si chiarisce: «Nessuno di loro si è occupato di riforma. Perché non invitare Di Maio, Toninelli, Fico o Di Battista? Perché i nostri parlamentari sono pericolosi». E, per concludere, un altro appello al governo: «Continuano ad arrivare segnalazioni di brogli nel voto all’estero, il governo cosa fa?».

Firme false 5 stelle, Ciaccio si autosospende. La Rocca: "Ho fatto uno stupido errore, ma dovevo dire la verità". Esce dal Movimento un secondo deputato indagato dalla procura. La prima esponente a confessare parla per la prima volta: "Mi dispiace se ho deluso qualcuno". Il gruppo all'Ars esprime "solidarietà" ai due colleghi, scrive Antonio Fraschilla il 20 novembre 2016 su "La Repubblica". Ha appreso la notizia di essere indagato da “Repubblica” e nonostante da giorni per problemi personali fosse molto distante dalle vicende palermitane non ha avuto dubbi: «Anche se a oggi non mi è stata notificata alcuna iscrizione nel registro degli indagati, nel rispetto e tutela del progetto politico del Movimento 5 stelle ho presentato la mia autosospensione», dice Giorgio Ciaccio, che ieri ha scritto una lettera a tutti i componenti del gruppo parlamentare per comunicargli la sua decisione. Ciaccio diventa così il secondo deputato regionale a fare un passo indietro per il caso delle firme false presentate nel 2012. Prima di lui si era autosospesa la deputata Claudia La Rocca, la prima ad andare dai magistrati per collaborare alle indagini e raccontare quanto accaduto alle scorse amministrative. La Rocca si è sfogata in un lungo post su Facebook: "Mi ero ripromessa di non scrivere nulla - scrive su Facebook - Sono giorni molto difficili, ogni parola potrebbe essere sbagliata, so che la gente da dietro una tastiera sa essere molto cattiva, so che c'è sempre qualche detrattore del Movimento pronto a strumentalizzare ogni cosa, senza nessuna oggettività e umanità. Ormai da una settimana ricevo decine e decine di messaggi di stima e incoraggiamento da amici, colleghi, conoscenti, sconosciuti, giornalisti, dirigenti, sindaci e assessori. Dimostrazioni di affetto pubbliche e private... E senza alcuni "angeli" questi momenti sarebbero stati ancora più difficili da sopportare. Un calore così immenso e inaspettato per il quale non posso non ringraziare tutti è l'unico motivo delle mie parole adesso. Io non voglio essere l'eroina, non voglio essere la protagonista, volevo solo mettere la parola fine ad una situazione che stava degenerando, tirando dentro tutto e tutti, e l'ho fatto nell'unico modo che conoscevo, la cosa che mio padre più apprezzava di me... Dicendo la verità. La mia scelta è stata difficile e non riesco a smettere di provare un profondo dolore. Ma la vita è fatta di scelte e affrontare un temporale con dignità, potersi guardare allo specchio, vale di più. So che è stato uno stupido errore e mi dispiace se ho deluso qualcuno". Il gruppo dei 5 stelle all'Ars esprime solidarietà a Ciaccio: "Il gruppo parlamentare M5S all’Ars apprezza il gesto compiuto dal collega Giorgio Ciaccio che segue quello analogo compiuto dalla portavoce a sala d’Ercole Claudia La Rocca. Ciaccio si è auto sospeso dal Movimento in attesa di conoscere i risvolti giudiziari della vicenda legata alle firme raccolte per la lista presentata alle comunali di Palermo del 2012. Si tratta di un gesto non semplice e sicuramente da rimarcare".

M5S, la «pentita» si sfoga: ora posso guardarmi allo specchio. La deputata regionale La Rocca: scrive in un post su Facebook «Ho solo detto la verità». Per lei si avvicina l’espulsione dai Cinque Stelle. Con la sua testimonianza ha impresso una svolta alle indagini sul caso firme false a Palermo, scrive Emanuele Buzzi il 21 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Non bisogna temere le parole dei violenti, ma il silenzio degli onesti». Così, con una frase di Martin Luther King, si presentava al mondo web dei 5 Stelle Claudia La Rocca, la deputata regionale siciliana che con la sua testimonianza ha impresso una svolta alle indagini sul caso firme false a Palermo. Mentre ancora ritiene «inopportuno» rilasciare dichiarazioni sulla vicenda, La Rocca rompe il suo silenzio pubblico con un post su Facebook. «Mi ero ripromessa di non scrivere nulla. Sono giorni molto difficili, ogni parola potrebbe essere sbagliata - scrive -, so che la gente da dietro una tastiera sa essere molto cattiva, so che c’è sempre qualche detrattore del Movimento pronto a strumentalizzare ogni cosa, senza nessuna oggettività e umanità». Troppo il desiderio di spiegare il suo punto di vista, la necessità di recarsi dagli inquirenti per ammettere le proprie responsabilità. «Non voglio essere l’eroina, non voglio essere la protagonista - racconta -, volevo solo mettere la parola fine a una situazione che stava degenerando, tirando dentro tutto e tutti, e l’ho fatto nell’unico modo che conoscevo, la cosa che mio padre più apprezzava di me... Dicendo la verità». Una verità che come lei stessa scrive rimette «in discussione gli ultimi 8 anni della mia vita, il mio ruolo di portavoce che ho messo al primo posto, sacrificando la mia vita privata». Perché il M5S non intende far sconti: la deputata sarà quasi sicuramente espulsa. Non è escluso che i 5 Stelle in un eventuale processo possano costituirsi parte civile, anche se al momento l’ipotesi viene etichettata come «lontana dalle considerazioni, perché bisogna attendere prima l’esito delle indagini». Quello che è certo è che con la sua testimonianza La Rocca conclude un percorso dentro al Movimento risalente al 2009, ai tempi in cui le percentuali pentastellate erano risibili. Tempi in cui le sue 246 preferenze raccolte alle famigerate Comunali del 2012 la ponevano come terza assoluta tra i 5 Stelle palermitani. Quasi fosse uno scherzo del destino proprio lei aveva raccolto da Beppe Grillo a fine aprile di quell’anno il microfono per il comizio sulle Comunali. «È il momento di guardare in faccia la realtà», aveva tuonato dal palco. L’onda dello Tsunami tour in Sicilia sarebbe passata solo qualche mese più tardi, in anticipo rispetto al resto d’Italia. Grillo sarebbe tornato a nuoto, lei nel giro di pochi mesi avrebbe decuplicato le preferenze in città (a ottobre 2012 prese 2.625 voti a Palermo). L’inizio di una nuova fase con il gruppo molto coeso dei deputati siciliani, lontano dalle beghe (e dalle correnti avverse, come quella di Riccardo Nuti e Claudia Mannino) cittadine. «Solare, lontana dalla politica come arte del tramare», così i 5 Stelle la dipingono oggi (e molti su Facebook le esprimono stima e vicinanza). Lei, per ironia del destino prima firmataria della prima legge pentastellata (sull’«albergo diffuso» nel luglio 2013), che a 35 anni si definisce «studentessa» sul profilo dell’Ars, commenta il suo tsunami personale con disincanto: «La vita è fatta di scelte e affrontare un temporale con dignità, potersi guardare allo specchio, vale di più».  Emanuele Buzzi 

Insulti e minacce all’attivista M5S che ha denunciato lo scandalo firme false a Bologna, scrive Francesco Gerace il 24 novembre 2016 su "L’Unità". “Infame”, “Traditore”, “Spia” sono questi gli appellativi che in questi giorni sta ricevendo sui suoi profili social, ma anche tramite telefonate anonime, Stefano Adani, uno dei due ex attivisti del M5S che ha presentato, insieme a Paolo Pasquino, l’esposto ai carabinieri di Vergato sulle firme irregolari raccolte dal Movimento durante la campagna per le regionali 2014 in Emilia-Romagna. Un comportamento squadrista e mafioso verso colui che si è sentito in dovere di portare alla luce un metodo, che dopo l’inchiesta di Palermo, sembrerebbe essere stato replicato anche in Emilia Romagna. “Sei un grandissimo infame, spero che ti spacchino la faccia”, “Sul profilo metti la tua faccia invece del cane, o ti schifi da solo?” “Sei il nulla mischiato col niente”, “Anfame, quanto è bello fa la spia mortacci tua”. Sono solo alcuni dei post apparsi sulla pagina Facebook di Adani. Ma non solo sui social è esplosa la rabbia grillina. Adani, come ha raccontato all’AdnKronos, dal momento in cui ha presentato l’esposto “è iniziata la macchina del fango: messaggi privati con minacce di aggressione, insulti sui social e stanotte telefonate mute in continuazione”. Secondo l’indagine assegnata alla Pm Michela Guidi e seguita dal procuratore Giuseppe Amato, sarebbero diverse le irregolarità riscontrate nella raccolta delle firme. Marco Piazza è coinvolto in quanto certificatore. Stefano Negroni, invece, avrebbe avuto il ruolo di autenticatore delle firme. Infine, le due militanti, Tania Fioroni e Giuseppina Maracino, si sarebbero prestate ad un’operazione irregolare. Secondo gli inquirenti, che stanno continuando a interrogare i titolari delle firme, o presunti tali, sarebbero già stati individuati una trentina di casi “di rilievo investigativo” e sarebbero state raccolte le testimonianze di almeno quattro persone che avrebbero completamente disconosciuto la propria firma. Gli indagati si difendono dicendo che “non ci sono firme false”. Il vice presidente del consiglio comunale e braccio destro di Massimo Bugani, Marco Piazza si dice tranquillo e sereno sul suo operato e annuncia: “Dopo aver appreso dagli organi di stampa della mia iscrizione mi sono presentato immediatamente ai capigruppo e ai presidenti di Commissione. Da entrambe le Conferenze ho ricevuto un pieno sostegno e questo mi fa molto piacere. L’incarico di vicepresidente dipende dal Consiglio comunale e fino a quando mi darà fiducia io rimarrò. Poi farò le valutazioni in divenire in base alla situazione che si presenterà”. In sintesi se e quando il consigliere 5 Stelle riceverà l’avviso di garanzia la prima cosa che farà, promette, sarà “l’autosospensione dal Movimento” perché intende “seguire scrupolosamente le regole”.

M5S, sotto assedio l’autore dell’esposto, scrive il 24 novembre 2016 Pierpaolo Velonà su "Il Corriere della Sera". Al grillino telefonate mute e minacce. La denuncia di Adani: «Contro di me partita la macchina del fango». Su Bugani: «Non mi ha mai voluto ricevere». Alle minacce su Facebook si sono aggiunte le telefonate in piena notte. Da numeri anonimi. Senza che dall’altra parte della cornetta si facesse sentire alcuna voce. È stata una notte difficile quella trascorsa da Stefano Adani, l’ex attivista del M5S di Monzuno che nel l’ottobre del 2014 presentò un esposto ai Carabinieri di Vergato sulle presunte firme irregolari presentate dai 5 Stelle a supporto della lista per le Regionali del 2014. Da quell’esposto è nata l’inchiesta che ha portato all’iscrizione di 4 persone nel registro degli indagati, tra cui il consigliere comunale Marco Piazza, braccio destro del plenipotenziario Massimo Bugani. Da quando l’iscrizione dei quattro indagati è diventata di dominio pubblico, Adani racconta di non avere avuto pace. «Sto valutando se sporgere denuncia», dice Adani riferendosi alle telefonate ricevute in piena notte. «Contro di me è partita la macchina del fango – prosegue - messaggi privati con minacce di aggressione, insulti sui social e stanotte telefonate mute in continuazione». Sulla bacheca Facebook dell’ex attivista grillino sono apparse nel giro di poche ore frasi preoccupanti: «Sei un grandissimo infame, spero che ti spacchino la faccia». «Goditi questo momento finché dura, Giuda!». Ed epiteti come «Infame», «Traditore», «Spia». Ora anche le telefonate. Subito dopo avere presentato l’esposto sulle firme irregolari, Adani è uscito dal M5S: «Mi sembrava assurdo restare nel movimento. Tra l’altro, prima di presentare l’esposto, avevo provato ad avvertire il capogruppo in Comune Massimo Bugani delle irregolarità nella raccolta delle firme, ma Bugani non mi ha mai voluto ricevere».

Bologna, firme false. Minacce al grillino autore dell'esposto: "Infame e spia", scrive il 24 novembre 2016 "La Repubblica". L'attivista del M5s: "Non ho più pace, è iniziata la macchina del fango". I veleni su Facebook. Telefonate anonime ricevute per tutta la notte, insulti e minacce sul web da parte degli oltranzisti del Movimento. Non sono state delle ore tranquille per Stefano Adani, uno dei due ex attivisti del M5S che ha presentato, insieme a Paolo Pasquino, l'esposto ai carabinieri di Vergato sulle firme irregolari raccolte dal Movimento durante la campagna per le regionali 2014 in Emilia-Romagna. Ieri mattina è arrivata la notizia dell'indagine della procura di Bologna contro il vicepresidente del Consiglio comunale Marco Piazza e altri tre attivisti pentastellati. "Da quel momento non ho avuto pace - racconta Adani all'AdnKronos -  è iniziata la macchina del fango: messaggi privati con minacce di aggressione, insulti sui social e stanotte telefonate mute in continuazione". "Infame", "Traditore", "Spia". Gli attivisti più intransigenti del Movimento condannano senza se e senza Adani anche sulla sua bacheca di Facebook. "Sei un grandissimo infame, spero che ti spacchino la faccia", "Sul profilo metti la tua faccia invece del cane, o ti schifi da solo?" ,"Sei il nulla mischiato col niente", "Anfame, quanto è bello fa la spia mortacci tua". Questi solo alcuni dei post. C'è chi cerca di screditare il contenuto e le motivazioni dell'esposto: "Secondo me hanno scoperto chi era e l'hanno mandato via a calci in culo ecco perché gli brucia", e ancora: "Ecco un altro poveretto che parla del nulla, non hai argomenti e ti rifugi nel nulla assoluto...........salutami Pasquino......eunuchi". Per i grillini più oltranzisti, quello di Adani e Pasquino è un vero e proprio tradimento. "Disprezzare i traditori, sempre ed in qualsiasi partito si trovino, è un dovere !!" scrive un attivista, e ancora "Giuda!!!" C'è anche qualcuno però (ma sono casi isolati) che lo ringrazia e un militante che scrive: "Ma va? Qualcuno si sta svegliando? Speriamo che la sveglia arrivi che ai piani alti". "Le minacce non mi fanno certo stare tranquillo - dice Adani - ma non mi impaurisco e non mi tiro indietro". E replica alle accuse sui social precisando: "Siamo stati io e Pasquino, contestualmente all'esposto, ad andare via dal Movimento, nessuno ci ha cacciato. Addirittura ho scoperto che posso ancora votare sul blog di Grillo, proprio perché non sono mai stato espulso. Quindi chi dice che la nostra è stata una vendetta per essere stati allontanati, sbaglia". Adani conferma, come ha dichiarato ieri l'ex capogruppo in Regione Andrea Defranceschi, che hanno agito da soli e non su suo impulso. Una tesi sempre sostenuta dal capogruppo e portavoce al Comune di Bologna del M5S, Massimo Bugani. "Non potevamo coinvolgere De Franceschi, questo fatto sarebbe stato strumentalizzato" spiega Adani.

Valanga di avvisi ai 5 Stelle. Grillo: «Fuori chi sbaglia», scrive Simona Musco il 24 novembre 2016 su "Il Dubbio". Sarebbero almeno quattro i casi sui quali gli inquirenti emiliani si starebbero concentrando. Le presunte irregolarità furono denunciate nel 2014 dai due "dissidenti". Palermo 2012, Bologna 2014. Gli appuntamenti elettorali sono succulenti: le comunali in Sicilia, le regionali in Emilia. Il Movimento 5 Stelle vuole esserci, vuole arrivare a conquistare le poltrone più ambite. E così, per velocizzare i tempi, qualcuno potrebbe aver deciso di falsificare le firme. Da un lato all'altro dell'Italia, lo scandalo si allarga. Sono quattordici, in totale, gli indagati, tra i quali anche i deputati Riccardo Nuti e Claudia Mannino, coinvolti nel caso siciliano. L'inchiesta vede tra gli indagati anche i parlamentari regionali siciliani Giorgio Ciaccio e Claudia La Rocca (che si sono autosospesi dopo l'invito lanciato da Beppe Grillo), gli attivisti Samanta Busalacchi, Giuseppe Ippolito, Stefano Paradiso e Francesco Menallo, il cancelliere del tribunale Giovanni Scarpello e un altro esponente che ricoprirebbe però un ruolo marginale, tutti finiti nel mirino del pm Claudia Ferrari, che li sentirà nel giro di qualche giorno. A Bologna, invece, sono quattro le persone indagate dal pm Michela Guidi, tra le quali Marco Piazza, vicepresidente del Consiglio comunale, coinvolto in quanto "certificatore", insieme ad un suo collaboratore e ad altre due persone, delle firme. Le firme sarebbero state apposte in assenza della persona iscritta alle liste, in un luogo diverso da quello indicato oppure in assenza di un pubblico ufficiale. A dare il via all'inchiesta emiliana è stato un esposto presentato da due ex attivisti di Monzuno, Stefano Adani e Paolo Pasquino, che ha portato a centinaia di interrogatori - così come avvenuto nei giorni scorsi a Palermo -, durante i quali sono stati sottoposti al singolo firmatario i propri dati per fargli riconoscere la calligrafia. L'accusa è l'aver formato falsamente e utilizzato, in tutto o in parte, liste di elettori o di candidati o altri atti destinati alle operazioni elettorali. Sono quattro i casi sui quali gli inquirenti si stanno concentrando, denunciati nel 2014 dai due "dissidenti". La storia ha a che fare con l'evento "Italia a 5 Stelle" di Roma, al Circo Massimo, tra il 10 e il 12 ottobre 2014. In quell'occasione, gli attivisti emiliani allestirono i loro banchetti per raccogliere le firme, irregolari in quanto fuori dal territorio in cui si svolgeva la competizione elettorale. I due ex deputati del M5S, Mara Mucci e Aris Prodani, avevano così interrogato i ministri della Giustizia e dell'Interno per avere chiarimenti. A Bologna, intanto, i vertici del Movimento si schierano dalla parte di Piazza. Massimo Bugani, capogruppo del M5S al Comune di Bologna e membro dello staff di Casaleggio, si è detto «sicuro» della correttezza del politico. «Se c'è stato qualche errore - ha detto - sarà facilmente dimostrabile che si è trattato di una semplice coglionata fatta in buona fede da qualche fessacchione». E si dice in buona fede anche Stefano Negroni, segretario di Piazza e tra gli indagati. «Le firme per le regionali sono state raccolte in totale correttezza e alla luce del sole - ha commentato -. Di certo non ci sono firme false». Un metodo di raccolta «collegiale», dove «tutti ci hanno messo le mani». Adani, però, è convinto: «I valori del Movimento sono stati traditi, non potevamo restare a guardare». Perché lui e Pasquino avevano avvisato più volte i vertici, trovando davanti «un muro di gomma». Nella tarda serata di ieri è arrivato anche il comunicato di Grillo che annuncia iniziative disciplinari: «Per un episodio tutto da chiarire su una decina di firme a Bologna e per quello di Palermo in cui coloro a cui è stata notificata l'indagine si sono già autosospesi, così come faranno gli altri che dovessero venirne a conoscenza, il Movimento viene passato ai raggi X, fioccano le inchieste sui giornali e i tg scatenano gli opinionisti. Due pesi e due misure». E ancora: «Se usassero con loro lo stesso metro che usano con noi, il Movimento sarebbe al 60% - prosegue il post del Movimento 5 Stelle - anche qualcuno di noi a volte sbaglia, ma state sicuri che pagherà, come sempre è accaduto e come sempre accadrà».

Filippo Facci il 25 novembre 2016 su “Libero Quotidiano”, lo scandalo dei grillini è infinito. Ora il vaffa se lo beccano loro. Beppe Grillo è già a casa, non si può neanche mandarcelo. Vive lì, nel suo mondo a parte, non si è mai candidato anche perché è pregiudicato per omicidio colposo (vecchia storia del 1981) e i condannati e gli indagati lui nel Movimento non ce li vuole. Ecco perché questo giro di indagati a Palermo e a Bologna per presunte firme irregolari ha l'aria di una macchinazione (complotto non si può dire: poi crede che lo prendiamo in giro) ed ecco perché nell' house organ del suo mondo a parte - il sito di Grillo, non il Fatto Quotidiano - non se ne parla, a parte sì, ecco, ci sarebbe una notiziola da Palermo: l'ha scritta Roberta Lombardi e spiega che il Movimento non ha pagato 4mila euro a un fornitore di arancini. Fermi, no, c' è anche un post scriptum in fondo a un articolo sulla legge di bilancio; si chiede «a tutti gli indagati nell' inchiesta di Palermo di sospendersi», e meno male. Anche se, sicuramente, sono tutte sciocchezze, storie vecchie, macchinazioni di regime come questa storia di Bologna: secondo la procura ci sono quattro pentastellati che hanno autenticato firme potenzialmente false affinché il Movimento partecipasse alle elezioni regionali del 2014. Tra l'altro sarebbe una macchinazione fatta in casa, visto che a far partire l'inchiesta è stata la denuncia di due attivisti. Proprio come a Palermo, dove fioccano gli inviti a comparire dopo la denuncia di un altro attivista: i grillini fanno da soli anche in questo, è una gara di purezza con continue sorprese. Falsificare firme è un reato a tutto tondo (articolo 90 del Testo Unico 570) ma c' è da sperare che il popolo grillino sappia distinguere, insomma comprenda che si tratta di quisquilie penali: anche se né loro, né soprattutto i loro parlamentari, hanno mai fatto distinzioni quando le quisquilie capitavano agli altri. Sì, in effetti c' è il rischio che il popolo grillino fatichi a distinguere anche tra le autodifese della casta indagata e quelle dei pentastellati pure indagati: sembrano parole identiche, stesso linguaggio, forse la mancanza di un suggeritore come Casaleggio (padre) si fa sentire. Parlano di «serenità» e si dicono «assolutamente estranei ai fatti», poi però sporgono querele contro chi li ha denunciati o contro il programma Le Iene. C' è il rischio che il popolo grillino vada in stato confusionale. La regola universale era «dimissioni subito» (per chiunque, per qualsiasi cosa) ma con la giunta Raggi si è passati a un «leggeremo le carte» da Prima Repubblica: lo disse Luigi Di Maio, quello che l'altro giorno reclamava la galera per il presidente della Campania. Di Maio poi è lo stesso, a proposito di trasparenza, che ha ufficializzato la sparizione della diretta streaming degli incontri del Movimento; «Per non anticipare le nostre strategie agli avversari», ha detto. E così è svanita anche la possibilità teorica - sempre molto teorica - che un iscritto potesse intervenire. E la Raggi? Nella tempesta di giunta prese a fare dei monologhi in stile cassetta berlusconiana. Eh no, non è mica facile capire i grillini e star dietro loro proprio in tutto. Prendete Filippo Nogarin, sindaco di Livorno indagato per concorso in bancarotta e abuso d' ufficio e falso in bilancio: non è stato sospeso né espulso, è lì. Anche Patrizio Cinque, sindaco di Bagheria finito nei guai per una casa abusiva in un'area protetta, è lì. Invece la grillina Diletta Botta, eletta nel 2012 in Consiglio circoscrizionale a Genova, è finita dentro per droga. E ciao. Ma Andrea Defranceschi, capogruppo del M5S in Emilia Romagna, nel 2013 è stato accusato di utilizzo improprio di fondi dei gruppi regionali e alla fine l'hanno assolto: ma il Movimento intanto l' aveva mollato. Come funziona, dunque, questo garantismo grillino? Anche Davide Bono e Frabrizio Biolè, consiglieri regionali in Piemonte indagati per rimborsopoli, ne sono usciti assolti: mollati anche loro. Insomma: non è solo il popolo grillino che fatica a comprendere, ci capiamo poco anche noi. A Bassano del Grappa i grillini stavano per candidare un ragazzo accusato di rapina aggravata, sequestro di persona e tentativo di estorsione; a Vicenza il consigliere Daniele Ferrarin è stato indagato per bancarotta fraudolenta, in Abruzzo il consigliere regionale Riccardo Mercante è stato condannato a restituire le commissioni ricevute da un cliente, in Piemonte il capogruppo e candidato sindaco di Torrazza è stato accusato di aver rubato in un centro commerciale, ad Alessandria il capogruppo grillino Angelo Malerba è stato arrestato per furto dopo aver scassinato un armadietto in palestra. Credete che non potremmo continuare? Capite bene che un po' di rabbia nell' elettore grillino - di solito così pacato e riflessivo - potrebbe infine montare. Ci preoccupiamo per loro, anche se, appunto, è un problema loro. E pensare che c' è chi, tra noi, di dubbi non ne ha mai avuti, e si è fermato alle apparenze. Da mesi. Da anni. E le apparenze hanno sempre restituito questi ragazzetti o giovanotti dall' aria severa e ottusa, futile e inconsistente, goffa e imbarazzante. Le apparenze, con la scusa dell' aria nuova, ci consegnano da anni gente che ignora i regolamenti e i galatei anche minimi, che spara cavolate generiche di bassa demagogia, che nell' emiciclo parlamentare fa gestacci e provoca, interrompe, urla, spinge, fa il pagliaccio con bavagli e striscioni, blocca i lavori, grida - ricorderete - «siete solo merda» ai parlamentari e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, gente che accusa come niente di «assassinio» e che grida «la mafia è nello Stato» anche se si sta parlando di agricoltura biodinamica. Gente che avalla dietrologie complottistiche da tara psichica e però assume sempre, sempre, sempre quell' aria da personcine superiori. A noi. A voi. Tutta gente, i grillini, che per ora ci ha insegnato solo una cosa: che il professionismo della politica non è un pericolo, è una necessità. Filippo Facci