Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
LO SPETTACOLO
E LO SPORT
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Artista.
Il rapper, il trapper oppure del sottogenere dei «gangsta».
L’hip-hop.
L'Autotune.
Si stava meglio quando si stava peggio.
Laureati.
Gli Stadi.
Imprenditori ed Agenti.
Gli Autori.
I Parolieri.
Il Plagio.
Le Colonne Sonore d’Italia.
Le Fake news.
Le Relazioni astratte.
Le Hollywood d’Italia.
Revenge songs.
Achille Lauro.
Ada Alberti.
Adele.
Adriano Celentano.
Adriano Pappalardo.
Ainett Stephens.
Alain Delon.
Alan Sorrenti.
Alba Parietti.
Alberto Fortis.
Alberto Marozzi.
Al Bano Carrisi.
Al Pacino.
Aldo Savoldello: Mago Silvan.
Aldo, Giovanni e Giacomo.
Ale e Franz.
Alec Baldwin.
Alena Seredova.
Alessandra Martines.
Alessandra Mastronardi.
Alessandra e Valentina Giudicessa.
Aleandro Baldi.
Alessandro Baricco.
Alessandro Benvenuti.
Alessandro Bergonzoni.
Alessandro Borghi.
Alessandro Cattelan.
Alessandro Cecchi Paone.
Alessandro e Leo Gassmann.
Alessandro Haber.
Alessandro Preziosi e Vittoria Puccini.
Alessia Fabiani.
Alessia Marcuzzi.
Alessia Merz.
Alex Britti.
Alex Di Luca.
Alexia.
Alfonso Signorini.
Alvaro Vitali.
Amadeus.
Amanda Lear.
Amara Rakhi Gill.
Ambra Angiolini.
Amedeo Minghi.
Amleto Marco Belelli, il Divino Otelma.
Anastasia Bartoli.
Andrea Bocelli.
Andrea Delogu.
Andrea Pucci.
Andrea Roncato.
Angela Cavagna.
Angela White.
Angelina Jolie.
Angelo Branduardi.
Angelo Duro.
Annalisa.
Anna Chetta alias Linda Lorenzi.
Anna Falchi.
Anna Mazzamauro.
Anna Tatangelo.
Anna Valle.
Antonella Clerici.
Antonella Elia.
Antonella Marino.
Antonino Cannavacciuolo.
Antonio Banderas.
Antonio Diodato.
Antonio Albanese.
Antonio Ricci.
Ariete si chiama Arianna Del Giaccio.
Arnold Schwarzenegger.
Articolo 31.
Arturo Brachetti.
Asia e Dario Argento.
Barbara Bouchet.
Barbara D’Urso.
Barbra Streisand.
Beatrice Fazi.
Beatrice Rana.
Beatrice Venezi.
Bebe Buell.
Belen Rodriguez e Stefano De Martino.
Beppe Convertini.
Beppe o Peppe Vessicchio.
Biagio Antonacci.
Bianca Balti.
Bob Dylan.
Bobby Solo: Roberto Satti.
Brad Pitt.
Brenda Lodigiani.
Brendan Fraser.
Brigitte Bardot.
Britney Spears.
Brooke Shields.
Bruce Willis.
Bruno Gambarotta.
Bugo.
Candy Love.
Carla Signoris.
Carlo Conti.
Carlo Freccero.
Carlo Verdone.
Carlotta Mantovan.
Carmen Russo.
Carol Alt.
Carole Andrè.
Carolina Crescentini.
Cate Blanchett.
Caterina Caselli.
Catherine Deneuve.
Catiuscia Maria Stella Ricciarelli: Katia Ricciarelli.
Cecilia Gasdìa.
Celine Dion.
Cesare Cremonini.
Capri Cavanni.
Charlize Theron.
Cher.
Chiara Claudi.
Chiara Francini.
Chiara Mastroianni.
Christian Clay.
Christian De Sica.
Christina Aguilera.
Christopher Walken.
Chu Meng Shu.
Cinzia Leone.
Cirque du Soleil.
Clara Serina.
Claudia Cardinale.
Claudia Gerini.
Claudia Koll.
Claudia Pandolfi.
Claudio Amendola.
Claudio Baglioni.
Claudio Cecchetto.
Claudio Lippi.
Claudio Santamaria.
Clint Eastwood.
CJ Miles.
Colapesce e Dimartino.
Colin Farrell.
Coma_Cose.
Corrado Tedeschi.
Costantino della Gherardesca.
Costantino Vitagliano.
Cristiana Capotondi.
Cristiano De André.
Cristiano Malgioglio.
Cristina Comencini.
Cristina D’Avena.
Cristina Scuccia.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Dado.
Dalila Di Lazzaro.
Daniel Craig.
Daniele Luttazzi.
Daniele Silvestri.
Dargen D'Amico.
Dario Farina.
David Lee.
Den Harrow.
Dennis Fantina.
Diana Del Bufalo.
Diego Dalla Palma.
Diego Abatantuono.
Diletta Leotta.
Donatella Rettore.
Dredd.
Drusilla Foer.
Ed Sheeran.
Edoardo Bennato.
Edoardo Costa.
Edoardo Vianello.
Edwige Fenech.
Elena Di Cioccio.
Elena Santarelli.
Elenoire Casalegno.
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Daniele.
Eleonora Giorgi.
Elettra Lamborghini.
Elisa Isoardi.
Elisabetta Valentini.
Elodie.
Ema Stockolma.
Emanuela Fanelli.
Emanuela Folliero.
Emanuela Trane: Dolcenera.
Emma Marrone.
Enrica Bonaccorti.
Enrico Bertolino.
Enrico Beruschi.
Enrico Brignano.
Enrico Lo Verso.
Enrico Ruggeri.
Enrico Silvestrin.
Enrico Vanzina.
Enza Sampò.
Enzo Braschi.
Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.
Enzo Iacchetti.
Ernia.
Eros Ramazzotti.
Eugenio Finardi.
Euridice Axen.
Eva Elfie.
Eva Henger.
Eva Menta e Alex Mucci.
Eva Riccobono.
Eva Robin’s.
Ezio Greggio.
Fabio Concato.
Fabio De Luigi.
Fabio Fazio.
Fabio Rovazzi.
Fabrizio Bentivoglio.
Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.
Fabrizio Bracconeri.
Fabrizio Corona.
Fabrizio Moro.
Fanny Ardant.
Fedez e Chiara Ferragni.
Ferzan Ozpetek.
Ficarra e Picone.
Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.
Fiordaliso.
Fiorella Mannoia.
Fiorella Pierobon.
Fioretta Mari.
Francesca Alotta.
Francesca Michielin.
Francesca Neri.
Francesca Reggiani.
Francesco Baccini.
Francesco De Gregori.
Francesco Facchinetti.
Francesco Guccini.
Francesco Leone.
Francesco Nuti.
Francesco Pannofino.
Francesco Renga.
Francesco Salvi.
Francis Ford Coppola.
Franco Nero.
Francois Ozon.
Frank Matano.
Frankie Hi Nrg Mc.
Gabriel Garko.
Gabriele e Silvio Muccino.
Gabriele Salvatores.
Gabriella Golia.
Gabry Ponte.
Gaiè.
Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.
Gegia (Francesca Antonaci).
Gene Gnocchi.
George Benson.
Geppi Cucciari.
Gerry Scotti.
Ghali.
Gianna Nannini.
Gigi e Andrea.
Giampiero Ingrassia.
Giancarlo Giannini.
Giancarlo Magalli.
Gianluca Colucci: Gianluca Fru.
Gianluca Grignani.
Gianmarco Tognazzi.
Gianni e Marco Morandi.
Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.
Gigi Folino e il Gruppo Italiano.
Gigliola Cinquetti.
Gino Paoli.
Gino & Michele.
Giorgia.
Giorgia Surina.
Giorgio Mastrota.
Giorgio Pasotti.
Giovanna Mezzogiorno.
Giovanni Caccamo.
Giovanni Muciaccia.
Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.
Giovanni Scialpi.
Giuliana De Sio.
Giulio Rapetti Mogol.
Giulio Scarpati.
Giuseppe Tornatore.
Gli AC/DC.
Gli Inti-Illimani.
Gloria Guida.
Guendalina Tavassi.
Guillermo Mariotto.
Guns N' Roses.
Gwyneth Paltrow.
Henry Winkler.
Harry Styles.
Helen Mirren.
Heather Parisi.
Eva Herzigova.
Eva Longoria.
Iaia Forte.
Gli Skiantos.
I Baustelle.
I Cccp Fedeli alla Linea.
I Cugini di Campagna.
I Gialappa' s Band.
I Guzzanti.
I Jalisse.
Il Volo.
I Maneskin.
I Marlene Kuntz.
I Metallica.
I Modà.
I Negramaro.
I Pooh.
I Righeira.
I Ricchi e Poveri.
I Rolling Stones.
I Santi Francesi.
I Sex Pistols.
Ilary Blasi.
Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.
Irene Maestrini.
Isabella Ferrari.
Isabella Rossellini.
Isotta.
Iva Zanicchi.
Ivan Cattaneo.
Ivana Spagna.
Ivano Fossati.
Jack Nicholson.
Jane Fonda.
Jennie Rose.
Jeremy Renner.
Jerry Calà.
Jo Squillo.
John Malkovich.
Johnny Depp.
Johnny Dorelli.
Joss Stone.
Jude Law.
Julia Roberts.
Justine Mattera.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Kanye West.
Kasia Smutniak.
Kate Winslet.
Ke Hui Quan.
Kevin Costner.
Kevin Spacey.
Kira Noir.
Lady Gaga.
Laetitia Casta.
La Gialappa’s Band.
Lalla Esposito.
Lars von Trier.
Laura Chiatti.
Laura Freddi.
Laura Morante.
Laura Pausini.
Lavinia Abate.
Lazza.
Lella Costa.
Lenny Kravitz.
Leo Gullotta.
Leonardo DiCaprio.
Leonardo Pieraccioni.
Levante.
Lewis Capaldi.
Lia Lin.
Licia Colò.
Liliana Cavani.
Lily Veroni.
Lina Sotis.
Linda Evangelista.
Lino Banfi.
Linus.
Lisa Galantini.
Little Dragon.
Lizzo.
Lo Stato Sociale.
Loredana Bertè.
Lorella Cuccarini.
Lorenzo Cherubini: Jovanotti.
Loretta Goggi.
Lory Del Santo.
Luc Besson.
Luc Merenda.
Luca Argentero.
Luca Barbareschi.
Luca e Paolo.
Luca Medici: Checco Zalone.
Luca Miniero.
Luca Ravenna.
Lucia Mascino.
Luciana Littizzetto.
Ludovica Martino.
Ludovico Peregrini.
Luigi Lo Cascio.
Luisa Corna.
Luisa Ranieri.
Luna Star.
Madame.
Maddalena Corvaglia.
Madonna.
Mago Forest, alias Michele Foresta.
Mahmood.
Malena, all’anagrafe Filomena Mastromarino.
Malika Ayane.
Manila Nazzaro.
Manuel Agnelli.
Manuela Arcuri.
Mara Maionchi.
Mara Venier.
Marcella Bella.
Marco Bellocchio.
Marco Bocci.
Marco Columbro.
Marco Della Noce.
Marco Ferradini.
Marco Giallini.
Marco Masini.
Marco Mengoni.
Marco Predolin.
Marco Risi.
Margherita Buy.
Maria Giovanna Elmi.
Maria Grazia Buccella.
Maria Grazia Cucinotta.
Maria Sofia Federico.
Maria Teresa Ruta.
Marina Suma.
Mario Biondi.
Mariolina Cannuli.
Marisa Laurito.
Marisela Federici.
Martin Scorsese.
Mascia Ferri.
Massimo Boldi.
Massimo Ceccherini.
Massimo Ciavarro.
Massimo Ghini.
Massimo Ranieri.
Matilda De Angelis.
Matilde Gioli.
Mattia Zenzola.
Maurizio Battista.
Maurizio Ferrini.
Maurizio Milani.
Maurizio Potocnik, in arte Reeds.
Maurizio Seymandi.
Maurizio Vandelli.
Maurizio Zamboni .
Mauro Coruzzi alias Platinette.
Mauro Pagani.
Max Felicitas.
Max Laudadio.
Max Pezzali e gli 883.
Megan Daw.
Megan Gale.
Mel Brooks.
Melissa Stratton.
Memo Remigi.
Micaela Ramazzotti.
Michael Caine.
Michael J. Fox.
Michele Guardì.
Michele Placido.
Michele Riondino.
Michelle Hunziker.
Michelle Yeoh.
Mika.
Milena Vukotic.
Mina.
Minnie Minoprio.
Miranda Martino.
Mita Medici.
Monica Bellucci.
Morgan.
Myss Keta.
Mr. Rain.
Nada.
Nancy Brilli.
Nanni Moretti.
Natasha Stefanenko.
Naomi Campbell.
Neri Parenti.
Nicole Doshi.
Niccolò Fabi.
Nina Moric.
Nina Zilli.
Nino D'Angelo.
Nino Formicola: Gaspare di Zuzzurro e Gaspare.
Nino Frassica.
Noomi Rapace.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Omar Pedrini.
Omar Sharif.
Orietta Berti.
Ornella Muti.
Ornella Vanoni.
Ozzy Osbourne.
Pamela Anderson.
Pamela Prati.
Pamela Villoresi.
Paola Barale e Raz Degan.
Paola&Chiara.
Paola Gassman e Ugo Pagliai.
Paola Perego.
Paola Pitagora.
Paola Turci.
Paolo Belli.
Paolo Calabresi.
Paolo Conte.
Paolo Rossi.
Paris Hilton.
Pasquale Petrolo in arte Lillo; Claudio Gregori in arte Greg.
Patty Pravo.
Patti Smith.
Peppino di Capri.
Peter Gabriel.
Pico.
Pier Francesco Pingitore.
Pierfrancesco Favino.
Pier Luigi Pizzi.
Piero Chiambretti.
Piero Pelù.
Piero Pintucci.
Pilar Fogliati.
Pino Insegno.
Pino Scotto.
Pio ed Amedeo.
Playtoy Orchestra.
Povia.
Pupi Avati.
Quentin Tarantino.
Quincy Jones.
Raf.
Renato Pozzetto.
Renato Zero.
Renzo Arbore.
Ricky Martin.
Rita Pavone.
Ringo.
Robbie Williams.
Robert De Niro.
Roberta Lena.
Roberto da Crema.
Roberto Vecchioni.
Rocco Hunt.
Rocco Papaleo.
Rocco Siffredi.
Rocío Muñoz Morales e Raoul Bova.
Roman Polanski.
Ron: Rosalino Cellamare.
Ronn Moss.
Rosa Chemical.
Rosalba Pippa: Arisa.
Rosanna Fratello.
Rosario e Giuseppe Fiorello.
Rupert James Hector Everett.
Sabina Ciuffini.
Sabrina Impacciatore.
Sabrina Salerno.
Samuel L. Jackson.
Sandy Marton.
Sandra Milo.
Sara Diamante.
Sara Tommasi.
Scarlett Johansson.
Sean Penn.
Selen.
Selva Lapiedra.
Serena Grandi.
Sergio Caputo.
Sergio Castellitto.
Sergio Rubini.
Sergio Vastano.
Sergio Volpini.
Sharon Stone e Michael Douglas.
Shakira.
Simona Izzo.
Simona Tabasco.
Simona Ventura.
Simone Cristicchi.
Syusy Blady e Patrizio Roversi.
Sofia Scalia e Luigi Calagna, Sofì e Luì: Me contro Te.
Sonia Bruganelli e Paolo Bonolis.
Sophia Loren.
Stanley Tucci.
Stefania Orlando.
Stefania e Silvia Rocca.
Stefania Sandrelli.
Stefano Accorsi.
Susan Sarandon.
Susanna Messaggio.
Sydne Rome.
Sylvester Stallone.
Sveva Sagramola.
SZA, vero nome Solána Imani Rowe.
Taylor Swift.
Tananai.
Terence Blanchard.
Teresa Mannino.
Teresa Saponangelo.
Teo Mammucari.
Teo Teocoli.
Tiberio Timperi.
Tim Burton.
Tinto Brass.
Tiziana Rivale.
Tiziano Ferro.
Tom Cruise.
Tom Hanks.
Tommaso Paradiso.
Toto Cutugno.
Tullio Solenghi.
U 2.
Uccio De Santis.
Ultimo.
Umberto Smaila.
Wanna Marchi.
Will Smith.
Woody Allen.
Valentina Lodovini.
Valeria Golino e Riccardo Scamarcio.
Valeria Marini.
Valeria Rossi.
Valeria Solarino.
Valerio Scanu.
Valerio Staffelli.
Vanessa Gravina.
Vasco Rossi.
Vera Gemma.
Veronica Maya.
Victoria Cabello.
Vincenzo Salemme.
Viola Valentino.
Vittoria Belvedere.
Vladimir Luxuria.
Zucchero Fornaciari.
Yuko Ogasawara.
Xxlayna Marie.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Sanremo 2024.
Sanremo. Sociologia di un festival.
La Selezione…truccata.
I Precedenti.
Il FantaSanremo.
Gli Inediti.
I Ti caccio o non ti caccio?
Gli Scandali.
La Politica.
Le Anticipazioni. Il Pre-Voto.
Quello che c’è da sapere.
I Co-conduttori.
I Super Ospiti.
Testi delle canzoni di Sanremo 2023.
La Prima Serata.
La Seconda Serata.
La Terza Serata.
La Quarta Serata.
La Quinta ed Ultima Serata.
INDICE SESTA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Certificato medico sportivo.
Giochi Sporchi del 2022.
Quelli che…il Coni.
Quelli che…il Calcio. La Fifa.
Quelli che…La Uefa.
Quelli che…il Calcio. La Superlega.
Quelli che…il Calcio. La FIGC.
Quelli che…una Compagnia di S-Ventura.
Quelli che…i tiri Mancini.
La Furbata.
Quelli che…il Calcio. Gli Arbitri.
Quelli che…il Calcio. La Finanza.
Quelli che…il Calcio. I Procuratori.
Quelli che…il Calcio. I Tifosi.
Quelli che…il Calcio. I Figli d’Arte.
Quelli che…il Calcio. La Politica.
Quelli che…il Calcio. Gli Altri.
Quelli che…il Calcio. Lionel Messi.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…il Calcio. Le Squadre.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…il Calcio. Le Squadre.
Il Calcioscommesse.
Quelli che…I Traditori.
Quelli che…Fine hanno fatto.
INDICE NONA PARTE
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
I 10 proprietari più ricchi nello sport.
Quelli che…I Superman.
Quelli che…è andato tutto storto.
Quelli che…la Palla Canestro.
Quelli che…la pallavolo.
Quelli che il Rugby.
Quelli che ti picchiano.
Quelli che…il Tennis.
Quelli che…il pattinaggio.
Quelli che…l’atletica.
Quelli che…i Motori.
Quelli che…la Bicicletta.
Quelli che…gli Sci.
Quelli che…il Nuoto.
Quelli che…la Barca.
Quelli che…l’Ippica.
Quelli che… il Curling.
Il Doping.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Dado.
Il comico Dado: «I miei quattro anni in attesa di giustizia per difendere mia figlia dal fango». Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.
L'attore comico, vero nome Gabriele Pellegrini, ricostruisce l'estenuante processo che lo vede parte lesa per i messaggi minatori attribuiti al padre dell'ex di sua figlia
Dado, nome d'arte di Gabriele Pellegrini, attore comico ora in scena al Teatro Golden di Roma con lo spettacolo «L'amore è..». Battute, gag, tanta musica, anche perché sul palco ha riunito la band degli anni di scuola Dado e le pastine in brothers. Nella Capitale una garanzia di divertimento. Sempre di scena, the show must go on, anche se solo ieri era testimone come parte lesa al processo che vede il padre dell'ex di sua figlia sul banco degli imputati per diffamazione. Ricostruisce: «Sono stato bersagliato da 500 post, 9 profili fake e 300 commenti denigratori sotto ai miei interventi social, solo perché ho cercato di difendere mia figlia dai comportamenti aggressivi non solo del suo ragazzo - tutto ha inizio quattro anni fa, lei era 14enne lui di qualche anno più grande - ma di un'intera famiglia. Io mi domando: quando il proprio figlio ha comportamenti scorretti, in genere si chiede scusa alle persone cui ha provocato dolore. Qui succede il contrario, quasi sono io a dovermi giustificare, addirittura di aver postato all'epoca una foto con il naso rotto: secondo chi mi ha aggredito la mia sarebbe stata una messinscena. Mi sarei inventato le botte. Da non credersi».
«La famiglia, la mia forza»
Come ha vissuto questi anni? «Con fastidio, si può immaginare come ci si sente a sentirsi definire un orco; a essere accusati, da questo padre impetuoso, di aver mandato suo figlio in ospedale. Io che non ho mai bullizzato nessuno e vivo in una famiglia perbene! Ho una moglie eccezionale, ora fa la caregiver di mio padre che ha subìto un'operazione. Mia figlia, Alice, è artista anche lei. Sta con me sul palco. L'esperienza della musica e del canto l'ha aiutata ad aprire la porta delle emozioni e a trasformare un periodo di enorme turbamento in qualcosa di positivo. Ora ha un altro fidanzato, un'altra vita. Non a caso nello spettacolo interpreta una canzone scritta da me, che combina una musica allegra con un testo profondo e riflessivo, "mi fa male il mondo, mi fanno male alcune persone...».
La cattiva giustizia
Ridere delle follie del mondo, la ricetta del bravo comico: «Sa cosa mi provoca dolore? Che si perda tempo dietro a un processo per diffamazione in cui basterebbe saper chiedere scusa per poi magari stringersi la mano. Invece siamo impegnati in tribunale da quattro anni, di fronte a magistrati spesso impreparati: ho dovuto io dire al giudice che chi siede sul banco degli imputati è coinvolto in altri procedimenti. Fino a quando arriverà la prescrizione per superamento dei tempi, ed è come se nulla fosse mai accaduto. All'ultima udienza mi sono scaldato, lo ammetto, ho alzato la voce. Ci si mettono pure gli avvocati: non dovrebbero suggerire al proprio assistito di avere comportamenti più ragionevoli invece di portarla per le lunghe? Sono sconcertato: non è una giustizia degna di una società civile».
Quel film su un padre e una figlia mai visto
Recentemente un film, «Mia», con Edoardo Leo e Milena Mancini, racconta del rapporto di un padre con una figlia che vive un legame tossico: «Non sono riuscito ad andare oltre le prime scene, non me la sento di vederlo tutto. Sul web sono comparse foto in cui a proposito di mia figlia si diceva "due tro.. al prezzo di uno", e altri orrori. Purtroppo mi sono fatto un'idea, che quando si è un personaggio noto è facile diventare un obiettivo. Penso a quello che è accaduto a Michelle Hunziker, a Alex Britti. Gli odiatori trovano sempre il modo per dare il peggio e non si fanno certo scrupoli».
«Mai smesso di lavorare. L'ho fatto anche per mia figlia»
Chiede di poter fare una precisazione: «Dopo la mia deposizione è stato scritto che non ho più lavorato come conseguenza della causa in corso, ma io non ho smesso mai di recitare, a parte i 30 giorni di prognosi quando mi ritrovai con il naso spaccato. Non ho interrotto la carriera nonostante il fango, e che l'affetto del pubblico sia immutato si vede quando la sera concludiamo lo spettacolo con quello che chiamiamo il finale allungato. Gli spettatori entrano a far parte dello show mentre continuiamo a suonare. Ci stringiamo le mani, ci salutiamo. Solo e abbandonato non mi sono sentito mai». Dado & le Pastine in brothers, la sua band, rimarranno al Teatro Golden fino al 30 aprile, poi una tournée estiva che toccherà anche Milano, dove però sarà costretto a mandare in avanscoperta i suoi tecnici: «La prossima udienza è stata fissata al 27 giugno, dovrò essere a Roma quel giorno. Mi sento un po' antropologo underground, la risata come chiave di lettura della vita. E per fortuna..».
Dalila Di Lazzaro.
Estratto dell'articolo da fanpage.it venerdì 8 dicembre 2023.
Ospite della puntata di domenica 19 novembre di Verissimo è stata Dalila Di Lazzaro, che ha raccontato in un'intensa intervista i dolori e i soprusi che fin da bambina ha dovuto sopportare. La violenza è stata una costante della sua vita, che si è ripresentata in più occasioni, ma è riuscita anche a godere di un amore puro e incondizionato, nonostante l'incredibile sofferenza che ha dovuto affrontare.
Nei suoi libri, Dalila Di Lazzaro ha sempre affrontato con grande coraggio tutto quello che ha dovuto sopportare sin dalla prima infanzia. Ha conosciuto la violenza da piccola, quando ancora bambina ha subito i soprusi di ragazzi più grandi di lei e per lungo tempo non ne ha parlato con i suoi genitori:
La violenza è una cosa orrenda, parlo agli uomini che sono colpevoli di tutto questo, non ho potuto avere al mio fianco, mia mamma o il mio babbo per raccontarglielo, perché non erano molto presenti. Io avevo una tata con lei ho parlato e lei deve averglielo detto a mia madre.
Questi terribili episodi si sono verificati quando, in estate, era stata affidata ad una donna che viveva lontano dalla città e lì trascorse il suo tempo, mentre i suoi genitori lavoravano:
Mi misero in una casa in campagna, pensavano che li sarei stata bene, c’erano due ragazzi uno di 15 e l’altro di 20 e hanno abusato di me. Ma per due mesi, fino a che la signora si è accorta, che c’era qualcosa che non andava, da lì, li ha picchiati di brutto, poi mi ha fatto dormire sempre con lei. Per me è stato un trauma, mi svegliano alle quattro di notte, con un grande cane nero, e mi dicevano di stare zitta perché altrimenti il cane mi sbranava.
Silvia Toffanin, quindi, chiede alla sua ospite quali siano state le ripercussioni di così tanta violenza su una bambina, che poi in età adolescenziale ha dovuto fare i conti con nuove forme di abusi:
Ho sofferto molto quando sono arrivata a Roma, verso i 20 anni che dovevo comunque espormi, fare i provini, i miei primi passi, la pubblicità mi prendeva una sorta di affanno che poi erano gli attacchi di panico. Lì ho incontrato un professore, invitato al Costanzo Show perché era uno psichiatra per i bambini, e gli dissi che mi sentivo di morire, che non ce l'avrei fatta ad andare avanti così. Lui mi fece andare a Padova e da lì abbiamo iniziato un percorso, mi ha aiutato tantissimo.
Da ragazzina, infatti, Dalila Di Lazzaro ha vissuto delle vicende terribili che racconta con grande sofferenza, ricordando quei momenti difficili che l'hanno segnata per sempre. Sposatasi giovanissima, dopo aver avuto un figlio nemmeno maggiorenne, iniziò a lavorare come modella grazie alla sua bellezza e alla sua grazia:
Mi sono sposata a 15 anni, mio marito non trovava lavoro, io facevo la modella, lì vedevo un uomo che mi guardava, mi dava fastidio, sui 30-40 anni e lo dicevo alla mie colleghe più adulte, sono andata al bar in una sosta, mi disse sono di una grande azienda, mi disse è l’unica che vorrei avere come modella. Io lavoravo per mio figlio e la mia famiglia, mi disse che mi avrebbe dato 25 mila lire, io non pensavo.
Il racconto prosegue con dei dettagli ancor più terribili: "Questo era un maniaco, scappato da un manicomio criminale, era un personaggio serio, negli occhi si vedeva qualcosa di folle. Mi ha portato per quattro giorni. È stata un’avventura allucinante e ho avuto veramente lì la paura di morire, perché aveva trovato una casa, mi ha tagliato dappertutto, mi ha picchiato". Quando si presentò alla polizia per denunciare accadde qualcosa che la lasciò ancor più sgomenta:
Il capo della polizia mi voleva violentare nello studio, la polizia. C’era questo capo della Polizia con un’agenda molto così. Ha cominciato a farmi delle avance, io gli ho dato uno schiaffo.
[…]
Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it sabato 23 settembre 2023.
Dalila Di Lazzaro, classe 1953, nasce e cresce a Udine. Modella e attrice, una bellezza immortalata dai fotografi più celebri al mondo, ha conosciuto una grande popolarità tra gli anni ‘70 e ‘80. Prima che un incidente in moto l’ha costretta a ritirarsi dal mondo dello spettacolo.
Dalila Di Lazzaro, come sta?
Guardi lasciamo perdere, sono appena uscita dal pronto soccorso.
Che è successo?
Ho un braccio gonfio per la puntura di un ragno. […] Sono in Sardegna […]
In Sardegna è andata in aereo o ha ancora paura di volare?
Sono andata in aereo, la paura è passata. Anche se per molti anni, dopo un grave incidente aereo sull’Oceano Atlantico, sono rimasta scioccata e ho avuto un grande senso di claustrofobia.
Per la paura degli aerei ha perso l’occasione di girare Mai dire mai, della saga di 007.
[…] Un’occasione persa […] Per via del dolore cronico che mi porto dietro dall’incidente avuto anni fa non posso fare lunghi viaggi in auto. […]
Suo padre era un pugile.
Mio padre Attilio era stato nei pesi massimi e aveva incrociato i guantoni con Carnera. […]
Chi comandava in casa?
Mia madre. Era un business-woman che gestiva degli alberghi.
A 15 anni la sua adolescenza finisce e resta incinta del suo fidanzato.
Ero ancora una bambina, i miei genitori la presero malissimo. Da una parte non volevano che avessi il figlio, dall’altra erano contrari all’aborto. Reagirono in maniera molto violenta.
L’hanno cacciata di casa?
Non solo, arrivarono bacchettate sulle mani e acqua gelata addosso se provavo ad avvicinarmi. Dopo la nascita di Christian poi si sono addolciti: era la loro perla e lo hanno viziato tantissimo.
Come ha affrontato la vita da giovane mamma?
Mi sono sposata col mio fidanzato anche se poi è finita. Ricordo che andammo in viaggio di nozze a Venezia insieme a mia suocera perché eravamo minorenni. Poi lui è partito per il militare e ho dovuto iniziare a lavorare per mantenere la famiglia. Facevo la modella e partecipavo a qualche spot pubblicitario.
Proprio in quel periodo è stata vittima di una violenza sessuale.
Se ci penso mi vengono ancora i brividi. Avevo 17 anni e sono caduta nelle mani di un pazzo psicopatico che mi ha dato un appuntamento con la scusa di un’offerta di lavoro e ci sono cascata. Lui era scappato dal manicomio e la polizia lo stava cercando. Pensi che Alberto Lattuada ci voleva fare un film su questa mia storia. Però andai negli Stati Uniti e non se n’è fatto nulla.
Già da piccola aveva subito abuso.
Avevo 5 anni e un cugino mi violentò.
In casa sapevano?
Lo sapevano la mamma e la tata. Il babbo no, perché era un brav’uomo ma credo lo avrebbe ammazzato e ne sarebbe venuta fuori una tragedia. Purtroppo in questo senso sono stata sfortunata, perché c’è stato anche un terzo episodio.
Lo vuole raccontare?
Un grosso magnate brasiliano ricchissimo: un porco. Eravamo amici da anni e lo andai a trovare in un hotel di lusso a Roma. A un certo punto gli è preso un raptus. Allora non stavo tanto bene e questo pesava un quintale e mezzo. È stata una cosa allucinante, davvero molto brutta. Ma non l’ho denunciato. […] Lui è ancora vivo, ma denunciarlo oggi non avrebbe senso. Di sicuro se avessi avuto una bottiglia gliela avrei spaccata in testa.
A un certo momento ha lasciato la provincia ed è andata a Roma dove ha iniziato con il cinema sotto la protezione del produttore Carlo Ponti.
[…] Vedeva in me la nuova Greta Garbo e si incazzava parecchio perché io non avevo questa ambizione. Per recitare a certi livelli c’era da studiare tantissimo. Quando ho vissuto a New York mi aveva iscritto anche alla scuola di recitazione dove mi annoiavo da morire.
Il suo rapporto con Carlo Ponti ha fatto arrabbiare molto la moglie Sophia Loren.
Ha fatto tutto da sola e si è arrabbiata per nulla perché con Ponti non c’è stato niente.
Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 ha un successo strepitoso. Tutti la volevano.
Diciamo che ho deciso di vivere. Come le ho detto, a New York la mattina studiavo ma mi annoiavo. Poi per il resto della giornata ero sempre in giro. Ero impazzita, New York allora era una Disneyland per gli adulti. Insomma, ho finalmente vissuto la giovinezza che non avevo avuto.
Ha lavorato anche con Andy Warhol.
Sì, una persona meravigliosa. Poi ho incontrato tutti i grandi fotografi e le star dell’epoca.
[…] mi sono goduta la vita e mi sono divertita da morire.
[…] A proposito di Leone, lei era presenta da Checco Er Carrettiere a Roma la sera della famosa foto con Gianni Minà, Robert De Niro, Muhamad Ali e Gabriel Garcia Marquez. Che ci faceva?
De Niro mi voleva conoscere. Leone mi chiama e mi dice: “Devi venire a cena se no non mi fa il film”. All’inizio mi ero illusa che avessero bisogno per C’era una volta in’America. Invece era proprio personale,
E De Niro l’ha corteggiata?
Sì molto.
Avete avuto una storia?
Non dico niente […] ma è stata una persona deliziosa. Pensi che abbiamo girato per Roma di notte e ci vide un conoscente della mia amica Mara Venier. E lei mi chiamò: “Sei stata con De Niro?”. Era molto curiosa.
Ha fatto perdere la testa anche a Jack Nicholson.
Un grande, ci siamo visti un mucchio di volte. Una volta a Venezia voleva venire a letto con me, tanto che si guardava dentro le mutande e diceva: “Sapesse cosa si sta perdendo”. Ma non me la sono sentita e mi sono inventata una di quelle scuse che abbiamo noi donne. E abbiamo dormito abbracciati tutta la notte.
E con Alain Delon come è andata?
Tutti dicono che è antipatico. Con me è stato gentilissimo e ci siamo trovati subito bene insieme sul set. Mi disse che gli piacevo ma ero fidanzata.
Lei è una donna molto bella, che rapporto ha con la bellezza?
Non me ne sono accorta perché mia madre faceva di tutto per sgonfiarmi su questo fronte. Non voleva che usassi la bellezza per lavorare. Si è rassegnata solo quando sono finita a Roma.
È stata corteggiatissima, addirittura ha raccontato che un suo fidanzato si è tatuato le sue iniziali sul bicipite così da non dimenticarla mai.
Spero che se li sia cancellati perché è il ragazzo con cui ho avuto l’incidente. Preferivo non incontrarlo mai perché mi ha rovinato la vita.
Parla dell’incidente che le ha procurato il dolore cronico?
Non è colpa di nessuno, sia chiaro. Ero in moto, nel sellino dietro a questo ragazzo e abbiamo centrato questa buca gigante. Diciamo che lui poteva dirmi: “Dalila attenta, alzati”. […] Per più di dieci anni non mi sono alzata da letto. Per andare a fare l’intervista da Mara Venier a Domenica In a inizio anno ci ho messo dieci giorni. […] Vivi ma sei come morta e gli amici ti abbandonano. […]
Ha mai pensato di non potercela fare, di farla finita in qualche modo?
Delle volte il dolore ti fa venire i pensieri più terribili. Però alla fine provi a tirare avanti, usi la morfina e dormi tanto. […] Ho avuto il tempo di scrivere sei libri che credevo non vendessero nemmeno una copia invece alcuni sono diventati dei best seller. Ho pure superato bruno Vespa.
Nella sua vita c’è un grande lutto, la morte in un incidente di suo figlio Christian.
È un dolore che non passa mai. Quando è mancato sì, forse ho pensato “Che vivo a fare?”. Ma ci si convive pensando che oltre alla vita ci sia qualcos’altro. Christian c’è sempre con me. Sono sicura che lo rincontrerò. Dopo la sua morte avevo pensato di dare una mano a qualcuno e adottare un figlio. Ma purtroppo l’Italia è un paese arretrato e a un single non è permesso. […]
Dalila Di Lazzaro e l'incidente che le ha cambiato la vita: "Per undici anni non mi sono nemmeno lavata". Andrea Pascoli su La Repubblica il 2 Gennaio 2023
È tornata lo scorso 1 gennaio da Mara Venier nel salotto di Domenica in Dalila Di Lazzaro, attrice e scrittrice che, a distanza di anni, ha voluto ricordare i drammatici momenti a seguito dell’incidente stradale subito venticinque anni fa, rivelando come le conseguenze siano state peggiori del fatto stesso: “L'incidente è stato 25 anni fa e io per 11 anni non mi sono alzata dal letto, neanche per lavarmi”.
Causato da una buca sul manto stradale di Roma, che provocò a Di Lazzaro diverse fratture e la condanna a un dolore cronico che tuttora la tormenta, l’attrice negli anni ha dovuto anche combattere contro chi non credeva al suo dolore: “È stato un incubo perché poi i medici non mi hanno creduta, all'epoca non si parlava di dolore cronico. Sono dovuta andare in Arizona e sono rimasti stupiti che in Italia non se ne parlasse”.
Dalila Di Lazzaro ospite a 'Domenica in'
Una vita, quella di Dalila, costellata sì da grandi successi ma purtroppo anche da eventi drammatici. Nel 1991 la morte del figlio ventiduenne sempre a seguito di un incidente stradale e pure un sinistro aereo: "Ho avuto un incidente aereo, io non simpatizzavo per il viaggiare con gli aerei. Ero con una mia amica e con il suo compagno decisero di affittare un aereo privato per andare alle Bahamas e per andarci dovevamo passare sul Triangolo delle Bermuda. Non c'era più la pressurizzazione e stavano scendendo in picchiata fino a toccare l'acqua dell'oceano e siamo rimbalzati fin tanto che non ci siamo fermati, alcuni si sono fatti male, io ero come morta, ero svenuta. Si sentiva che il mare stava risucchiando l'aereo. Mi hanno tirato fuori dall'aereo e mi hanno trascinata fuori fin sopra l'abitacolo".
Dalila Di Lazzaro negli anni successivi all'incidente, con un tutore ortopedico
Forte la commozione della stessa Venier, così come quella del pubblico, a cui Dalila ha però risposto con un desiderio: "Purtroppo non è finita. Io vorrei non avere la pietà della gente, sono combattiva, forte, voglio aiutare migliaia di persone che lottano contro il dolore cronico. Con la mia forza, vorrei portare avanti questo problema”.
Daniel Craig.
Andrea Carugati per “La Stampa” il 4 gennaio 2023.
«Sognavo di fare il comico ma sono finito a fare James Bond». Una dichiarazione che non ci si aspetta da Daniel Craig, eppure è così. L'aspirazione dello 007 più longevo nella storia del cinema non era quella di diventare un eroe dei film d'azione, ma di fare ridere il pubblico, e ora smessi i panni dell'agente segreto più famoso al mondo ne ha avuto la possibilità.
Dopo il successo di Cena con Delitto è tornato infatti nei panni dell'improbabile ispettore Benoit Blanc in Glass Onion, ruolo che gli è valso la nomination come migliore attore ai Golden Globes, mentre il film macina successi ed è il più visto su Netflix. Dietro l'angolo lo attende poi Luca Guadagnino per Queer, tratto dal romanzo di William S. Burroughs.
Da 007 al detective «più bravo al mondo» di «Grass Onion», un bel salto. Come ha fatto?
«Sono voluto tornare a recitare in un ruolo nel quale ho potuto esprimere una parte di me che il pubblico conosce poco ma che ho sempre coltivato. All'inizio pensavo che sarei diventato un attore comico, mi è sempre piaciuto far ridere la gente ed è sempre stato il mio sogno, ma poi le cose sono cambiate e mi sono trovato mio malgrado a fare l'attore d'azione. Ricordo che quando mi proposero di interpretare James Bond dissi ai produttori che era uno sbaglio. Ero d'accordo con i fan, mi sembrava un'idea folle. Da Sean Connery a Daniel Craig? E invece sono diventato il James Bond più longevo della storia e Sean, ai tempi, mi mandò un messaggio di approvazione e incoraggiamento che tengo ancora molto caro. Poi, per tanto tempo, nessuno si è mai sognato di propormi qualcosa di diverso, che fosse nelle mie corde, come accaduto con Cena con Delitto e ora Glass Onion. Erano anni che aspettavo di fare film come questi».
Un genere ispirato ai gialli di Agatha Christie, che fino a poco tempo fa era scomparso dai radar.
«Era stato un po' dimenticato, ma cosa c'è di più bello che andare al cinema e godersi un bel giallo? Un giallo come quelli di una volta ma con qualche elemento che lo rende molto contemporaneo e originale.
E soprattutto divertente. Ogni personaggio del film è memorabile e il cast è stellare, non capita tutti i giorni di recitare con colleghi del calibro di Edward Norton, Kate Hudson, Janelle Monáe, Hugh Grant, Ethan Hawke e tutti gli altri che Rian Johnson è riuscito a convincere a partecipare a questa grande festa».
È sempre stato appassionato del genere?
«La domanda che sostiene questo tipo di film è sempre la stessa: chi è l'assassino? E mi ha sempre affascinato. Da ragazzo ero un patito di quei film e di quei libri. Mi sono sempre piaciuti molto, anche se raramente ero in grado di capire chi fosse l'assassino prima della fine del racconto.
Ero un grande fan anche dell'ispettore Colombo che guardavo in modo quasi religioso e a cui mi sono decisamente ispirato per questo ruolo. Peter Falk sembrava sempre fuori dal mondo, sempre distratto, sconclusionato, caotico, ma alla fine riusciva sempre a fare confessare il colpevole e c'è molto di suo in Benoit Blanc».
Rispetto a qualche anno fa appare molto più sereno e rilassato.
«Ci vuole tanto tempo per abituarsi ad essere famosi e spesso nel processo ci si perde un po'. Devi sempre ricordarti le ragioni che ti hanno spinto a fare questo lavoro. Io ci ho messo vent' anni di carriera per imparare ad apprezzarlo pienamente e ora lo amo più che mai. Ho avuto la fortuna di avere alti e bassi e di imparare a confrontarmi con successi e fallimenti. Sono a un punto della mia vita e della mia carriera in cui mi diverto per davvero. Recitare ora mi regala le emozioni giuste».
E di James Bond cosa le è rimasto? Alla fine era trapelato che non lo tollerasse più.
«Quando ho detto che mi sarei tagliato le vene piuttosto che reinterpretarlo intendevo dire che avevo bisogno di un break. Ho amato essere stato Bond. È una cosa rara interpretare un personaggio così iconico. È una delle esperienze più intense e appaganti che abbia mai fatto, ma ci vuole molta energia per interpretarlo e non volevo diventare ridicolo».
E quindi lo ha ammazzato?
«Solo per farlo rinascere e ricominciare. Poi non sono certo l'unico colpevole della sua morte, anche se con Barbara (Broccoli, storica produttrice dei film tratti dai libri di Ian Fleming di cui la sua famiglia detiene i diritti, ndr.) abbiamo dovuto organizzarla di nascosto dallo studio, che era decisamente riluttante all'idea e si era opposto fermamente. Ma con Barbara avevamo un accordo e credo che anche lei fosse dell'idea di cominciare un nuovo capitolo».
Quale accordo?
«Dopo il roboante successo di Casino Royal, anticipato da un sacco di critiche nei miei confronti per non essere un Bond come tutti gli altri, visto che avevo le orecchie a sventola, ero troppo basso, troppo biondo e troppo, o troppo poco un sacco di altre cose, mi confrontai con Barbara e le chiesi quanti film ancora avrei dovuto fare secondo lei. "Tre? Quattro?". Lei mi disse quattro. Io ci pensai e dissi ok, ma a una condizione: "Alla fine lo voglio uccidere"».
Ecco, risolto il giallo: è stato lei.
«Confesso, come accade sempre con Colombo, Poirot e il mio nuovo amico Blanc. Però c'è da dire che è morto nel momento di maggior felicità della sua lunga vita e onestamente non avevamo che questa scelta a disposizione. E poi aveva trovato quello che stava cercando, era il momento giusto. Alla fine, come tutti noi che abitiamo sulla terra, anche James Bond cercava solo amore».
Daniele Luttazzi.
Daniele Luttazzi compie 62 anni: la laurea in medicina, l’«editto bulgaro», cosa fa oggi, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.
Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul comico di Santarcangelo di Romagna, nato il 26 gennaio 1961
Laureato in Medicina
«Il più colto e caustico fra i nostri comici. L'unico in grado di conciliare l’epica satirica e la visionarietà». Così nel 2001 scriveva Aldo Grasso sul Corriere parlando di Daniele Luttazzi, che proprio oggi compie 62 anni. Nato a Santarcangelo di Romagna il 26 gennaio 1961, figlio di insegnanti elementari, dà il via alla sua carriera artistica dopo la laurea (in Medicina): in attesa del bando di concorso per ricercatore in immunologia comincia a scrivere e a recitare monologhi comici. Nel 1989 vince il concorso per giovani comici La Zanzara d'oro. Tre settimane dopo, chiamato da Renzo Arbore, esordisce in tv a D.O.C. : Musica e altro a denominazione d'origine controllata.
Le origini dello pseudonimo
All’anagrafe è Daniele Fabbri: il suo pseudonimo è un omaggio al musicista e attore Lelio Luttazzi (1923-2010).
Eletto consigliere comunale a 19 anni
Forse non tutti sanno che nel 1980, a 19 anni, Daniele Luttazzi viene eletto consigliere comunale a Santarcangelo di Romagna nelle file della Democrazia Cristiana. Si dimetterà due anni dopo.
Il successo con «Mai dire Gol»
«Questa edizione del telegiornale andrà in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali», ricordate chi lo diceva? Amatissimi dal pubblico ancora oggi i tre personaggi proposti da Luttazzi a «Mai dire Gol» (1996-1998), programma che ha regalato al comico una grandissima popolarità: il giornalista di Tabloid Panfilo Maria Lippi (è sua la citazione riportata), il prof. Fontecedro - docente universitario freak a Palo Alto - (quello di «Cosmico!») e l’annunciatrice Luisella Gori.
Controversie
Una battuta sul Partito Socialista, fatta durante le prove a «Fate il vostro gioco» (varietà comico in onda su Rai 2 nel 1989), costa a Luttazzi la partecipazione al programma. Non sarà l’unico caso di censura a cui il comico andrà incontro nel corso della sua carriera. Anche la sua prima trasmissione come conduttore - il talk «Barracuda» (1998, Italia 1) - subisce alcuni tagli. Non saranno esenti da critiche (e polemiche) i programmi successivi, «Satyricon» (2001, chiuso dopo l'intervista a Marco Travaglio sul libro «L'odore dei soldi») e «Decameron» (2007, sospeso dopo cinque puntate a causa di una battuta su Giuliano Ferrara). In seguito alla chiusura di «Decameron» Luttazzi non ha più lavorato in tv (negli anni si è dedicato al teatro, al suo blog e ha pubblicato diversi libri satirici).
L’«editto bulgaro»
Nel 2002 l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, durante una visita ufficiale in Bulgaria, accusò Daniele Luttazzi, Michele Santoro ed Enzo Biagi, di aver fatto «un uso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, criminoso: credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga» (dichiarazione conosciuta anche come «editto bulgaro»). Per l’intervista di Travaglio a «Satyricon» Berlusconi querelò per diffamazione sia il giornalista che Luttazzi: i due vennero assolti nel 2015. Soltanto nel 2019 si è parlato di un possibile ritorno del comico sulla tv di stato: «Voglio riportare Luttazzi in Rai - annunciò l’allora direttore di Rai2 Carlo Freccero -. Senza la satira che televisione pubblica sarebbe? È finita l’epoca di Berlusconi e quella di Renzi ci mancherebbe che si proibisca la satira. Mi sembra essenziale che Luttazzi torni in Rai: non posso lasciare la sua satira feroce nella nebbia del potere del politicamente corretto». («Ci siamo incontrati, c’è in vista un progetto per l’autunno - disse al Corriere Freccero -. La satira libera è un’altra caratteristica del servizio pubblico ed è finita l’epoca di Berlusconi e di Renzi»). Il progetto però non si è concretizzato.
La palestra di satira
Nel 2009 Luttazzi apre sul suo blog una palestra di satira, che sarà frequentata dai futuri fondatori del portale satirico Lercio.it. Il comico nel 2017 scriverà l’introduzione del libro «Lercio. Lo sporco che fa notizia» (Shockdom, 2017).
Cosa fa oggi Daniele Luttazzi
Oggi Daniele Luttazzi continua a fare satira: cura due rubriche sul Fatto Quotidiano e lo scorso anno per Paper First è uscito il suo ultimo libro, «Infinite Reich», una parodia che si confronta con un classico - «Infinite Jest» di David Foster Wallace, una satira del consumismo Usa come nuovo Reich - ricontestualizzandolo nella Germania nazista del 1945.
Daniele Silvestri.
Daniele Silvestri: «L’impegno era una gabbia. Ora racconto anche altre storie». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2023
Esce «Disco X», decimo album in carriera del cantautore: «Brani nati dai racconti del pubblico».
Se dopo quello degli anni 70 è ancora esistito un cantautorato impegnato, una delle sue facce è sicuramente quella di Daniele Silvestri. Alla soglia del decimo album in carriera, Silvestri non molla la presa — una delle nuove canzoni fa capire immediatamente il suo pensiero sul razzismo — ma torna a guardare altrove. «Col precedente album “La terra sotto i piedi” la volontà di sporcarsi le mani si era tradotta in un gioco troppo intellettuale che vedeva la musica diventare parte di un tentativo preordinato. Qui c’è la voglia di suonare in libertà. Mi sono tolto la scusa della responsabilità che mi opprimeva e mi sono affidato alle storie, le mie o quelle di altri», spiega il cantautore.
Racconti e personaggi guidano il percorso di lettura di «Disco X» (esce venerdì 9 giugno). «Mi piace molto la parola cantastorie... Durante l’ultimo tour ho chiesto al pubblico di scrivermene alcune che poi durante lo show trasformavamo in canzoni mettendo in scena il processo creativo. Sono arrivate storie intime, dolorose, alcune non raccontabili, altre che contenevano il germe per diventare brani». Come «Tutta», il singolo che ha presentato il lavoro, nata da un’opera virtuale, immagini digitali e parole, di Paolo Poni, un libraio di Forlì. Ed è una storia, che mischia poesia e cronaca, quella di «Mar ciai» in cui le offese e le discriminazioni verso una ragazza di origini sinti finiscono nel tragico rogo di una roulotte. «Nei miei concerti spunta spesso il tema dei migranti, qui volevo concentrarmi sul tema dell’integrazione che vedo come ricchezza. Ho scritto questa canzone contro la facilità del trattare qualcuno come un capro espiatorio. Mostro l’atrocità e l’assurdità del razzismo. Il popolo sinti, e per questo ho chiamato a cantare Eva Pevarello che ha quelle origini, non è solo microcriminalità».
«Disco X» è aperto alle collaborazioni. Ci sono feat di Giorgia, Frankie Hi Nrg, Franco 126, Fulminacci, i Selton, Wrongonyou, Davide Shorty, Eva ed Emanuela Fanelli. Ognuno ha un suo spazio, ma si ritrovano tutti insieme in «Intro X» per prendere in giro la corsa ai clic, ai primati da rivendicare, e ai feat in batteria che caratterizzano la musica dell’era streaming. «Ho scelto l’esagerazione e l’ironia: quello che vedo intorno mi sembra figlio dell’immediatezza e della corsa ai like. Però, da ascoltatore, mi sembra facile distinguere fra le collaborazioni sincere e quelle che sconfinano».
La «X» del titolo non è un mistero. «All’inizio avevo chiamato “x”, visto che sarebbe stato il mio decimo disco, la cartella del pc dove raccoglievo gli spunti. Poi il fatto che non avessi obiettivi da raggiungere e che quella lettera rappresenti l’incognita in matematica ha dato un senso compiuto a tutto. È un disco meno concept e più istintivo. E poi c’è un terzo motivo: si dice “una cosa ics” per dire “qualsiasi”: mi piace l’idea di non cercare di farsi notare per forza, con la presunzione che sia meglio immergersi nelle profondità del mare che cercare di emergere», spiega Silvestri. Non la pensa così la famiglia del protagonista di «Il talento dei gabbiani» che spinge il figlio nel tritacarne di un talent. «Ci hanno riempito occhi e orecchie in questi anni, ma volevo allargare il discorso all’idea che le vite possano essere valutate in un istante e che quell’istante possa avere valore definitivo. Anche in questo caso ho ricevuto racconti di depressione e alla fatica nel trovare un modo di collocarsi nella società».
Dieci è un traguardo. Che direbbe al se stesso del punto di partenza? «Forse potrebbe dire qualcosa lui a me. Più si va avanti più grande è lo sforzo preservare la purezza, l’incoscienza e la libertà degli esordi. Se la sapienza fa migliorare un artigiano, nella musica rischia di fossilizzarti e farti ripetere. Volevo tornare a quando a 14 anni registrai su una cassetta, che sentirono solo i miei genitori, un disco ispirato dallo sceneggiato tv “Radici”». Anche quella era una storia.
Dargen D'Amico.
Dargen D'Amico giudice di X Factor 2023: perché indossa sempre gli occhiali da sole, il gruppo al liceo con i futuri Club Dogo, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera giovedì 2 novembre 2023.
Il rapper, cantautore e produttore è tra i protagonisti - insieme a Fedez, Morgan e Ambra - della diciassettesima edizione del talent show condotta da Francesca Michielin. Questa sera, in diretta su Sky e in streaming su NOW, il secondo Live Show
Perché indossa sempre gli occhiali da sole
Perché Jacopo Matteo Luca D'Amico in arte Dargen D'Amico (tra i protagonisti - insieme a Fedez, Morgan e Ambra - della diciassettesima edizione di X Factor, condotta da Francesca Michielin) indossa sempre gli occhiali da sole? «È una cosa utile soprattutto per me, dividere i due mondi - ha spiegato nel 2022 al Corriere -. Se ti convinci di essere quello che sale su un palco, dice qualcosa e le persone ti ascoltano per diritto divino, è difficile comportarsi poi in maniera sana. Preferisco fare lo spettacolo nel momento in cui sono sul palco e poi proseguire con una vita che ha altri interessi. La priorità è scrivere canzoni. Ma quando sono con i miei amici gli occhiali li tolgo». E questa non è l’unica curiosità sul giudice del talent show (che torna questa sera, in diretta su Sky e in streaming su NOW, con il secondo Live).
Come ha iniziato a fare musica
Nato a Milano il 29 novembre 1980 Dargen D’Amico ha iniziato a fare musica grazie alla sua insegnante delle elementari: «Ho iniziato da molto giovane, ho avuto una maestra che alle elementari ci stimolava - ha raccontato al Corriere -, ci faceva passare un’ora alla settimana a scrivere liberamente. Intorno ai 12 anni ho scoperto che c’era una musica che ti permetteva di riversare tutto nelle canzoni».
Le origini del nome d’arte
Dargen deriva dal nickname che il rapper e cantautore adottava, giovanissimo, nelle sue prime sfide di freestyle: Corvo D'Argento (un riferimento al libro-game «Il mistero del corvo d'argento»).
Ama i cantautori
I punti di riferimento musicali di Dargen D'Amico sono da sempre tre cantautori (lo ha dichiarato in diverse interviste): Enzo Jannacci, Lucio Dalla e Franco Battiato.
Il gruppo con i futuri Club Dogo
Nel 1999, mentre frequentava il liceo classico Giuseppe Parini di Milano, Dargen D’Amico ha dato vita ad un gruppo con un suo compagno di classe, Gué Pequeno, e con Jake La Furia: i Sacre Scuole. La formazione, che si è sciolta nel 2001 (Gué Pequeno e Jake La Furia hanno poi creato i Club Dogo insieme al produttore Don Joe), ha pubblicato un solo album: «3 MC's al cubo».
Ha scritto canzoni per altri
Nel 2021 Dargen D’Amico ha partecipato alla scrittura dei brani sanremesi di Francesca Michielin e Fedez («Chiamami per nome») e Annalisa («Dieci»).
A Sanremo nel 2022
Dargen D’Amico si è fatto conoscere dal grande pubblico con la sua partecipazione a Sanremo 2022: il suo brano «Dove si balla» si è classificato al nono posto ma ha avuto un enorme successo radiofonico. «Sanremo è una lente d’ingrandimento di quello che succede nella discografia - ha detto lo scorso anno al Corriere -. Poi può essere anche pericolosa questa lente, può carbonizzarti sul momento, ma dà comunque una lettura più larga di ciò che succede nella musica contemporanea. E capita che arrivino degli sconosciuti con un brano che poi ha successo».
Riservato sulla vita privata
Non si sa praticamente nulla della vita privata del riservatissimo Dargen D’Amico. «Non sento l’esigenza di parlarne, se è privato è privato - ha raccontato qualche anno fa a Vanity Fair -. Quando svilisci il segreto, perdi la dimensione dei gesti; alla fine il privato è composto dai gesti che ti piace vivere in totale autonomia, senza che nessuno possa avere la possibilità di influenzarli».
Dario Farina.
Estratto dell'articolo di Alba Solaro per “il Venerdì di Repubblica” il 17 febbraio 2023.
Dario Farina è un "uomo tra parentesi", lo dice anche il sottotitolo della sua biografia, Sarà perché ti amo - Storia di un uomo tra parentesi (Milieu). L'ha scritta il nipote Roberto, […] Dario Farina ha fatto vendere milioni di dischi e scritto musiche che tutti sanno, filosofi e calzolai, le canzonette un tempo condannate come nemiche del popolo, addormentatrici di coscienze (nel libro c'è un intero capitolo sul tema).
«Ma io non avevo la presunzione del prodotto artistico, volevo la semplicità, volevo arrivare a tutti», spiega ora Farina. Per capire chi è basta qualche titolo: per i Ricchi e Poveri ha scritto, tra le altre, Sarà perché ti amo (1981), Mamma Maria (1982), Voulez vous danser (1983), Se m'innamoro (vincitrice a Sanremo nel 1985); per Al Bano & Romina ha composto Felicità, hit globale da 25 milioni di copie, […]
Ricorda che quando arrivò il primo assegno Siae, sua moglie lo chiamò in lacrime. «Cos'è successo?». «Sono centotrentuno milioni, Dario. Sessant'anni del mio stipendio[…] Farina, che oggi ha 76 anni, via zoom da Monaco di Baviera dove vive da molti anni con la seconda moglie, Elke. «Ecco, una grande soddisfazione è stata scoprire che i tifosi del Milan hanno preso Sarà perché ti amo, le hanno cambiato il testo in Sarà perché tifiamo e ne hanno fatto il loro inno.Un amico mi ha detto che lo hanno fatto anche quelli del Bayern Monaco. Il coro di 20 mila tifosi, anche se stonati, è una bella emozione. Specie dopo anni passati a sentire artisti che mi dicevano che facevo cose troppo banali».
Glielo disse anche Marina Occhiena? Lasciò i Ricchi e Poveri proprio quando stava nascendo il vostro sodalizio.
«I Ricchi e Poveri venivano dalla Genova proletaria ed erano nati seguendo un certo tipo di tradizione vocale, polifonica, diverso da quello che io scrivevo. […] Ci lega il successo che abbiamo avuto, ma capisco che quando Freddy Naggiar della Baby Records ci fece incontrare non deve essere stato semplice trovarsi di fronte questo tizio che ancora non era nessuno e gli faceva sentire Sarà perché ti amo su un Wurlitzer…».
È vero che la canzone è nata quasi per sbaglio?
«Ero all'Hilton di Monaco, perché Naggiar preferiva lavorare lì coi tecnici tedeschi, e dovevo cenare con un amico, che mi aveva anche lasciato una chitarra per distrarmi. […] dopo un po' per noia ho preso la chitarra e cominciato a buttare giù un'idea. Quattro accordi, niente di più, perché non ero abituato alla chitarra, il mio strumento è il pianoforte. […]».
[…] Le ha pesato essere accusato di fare cose banali?
«Mi hanno fatto tutte le critiche possibili, ma queste canzoni sono oggi nell'immaginario di tutti. […]».
Lei e Pupo lavoravate insieme per la Baby Records di Freddy Naggiar, praticamente la Factory del pop italiano anni 80.
«Naggiar non era un musicista ma aveva un fiuto incredibile, e non mollava mai. Ci piacevamo forse perché entrambi eravamo nati in Egitto, lui ad Alessandria e io al Cairo. Mi aveva visto a Discoring, dove cantavo un pezzo dell'unico Lp mio che ho fatto, Destinazione Tu. Fu un fiasco, neanche mille copie vendute. Ma fu così che Freddy mi vide, e mi diede un appuntamento. […]».
Un'altra fortunata coincidenza.
«La storia della canzone è fatta di coincidenze, nel mio caso fortunate. Se a Lucio Dalla non si fosse rotto il motore della barca vicino a Sorrento, e in hotel non gli avessero dato la stanza di Caruso, forse non avrebbe mai scritto quella canzone. Anche Felicità è nata quasi per gioco, il testo lo buttò giù Popy Minellono che all'epoca viveva in Brianza. Pensare che Romina Power non voleva cantarla. Continuava a dire che le sembrava una canzone per bambini». […]
David Lee.
Barbara Costa per Dagospia il 4 giugno 2023.
Oddio, sto entrando in fase milf! Aiuto, come si fa, che devo fa', guardate 'sto ragazzetto qua: è sì o no un tenero bambolotto col suo consenso da buttarcisi a letto e strapazzare? Sicuro, che lo è, almeno per la sottoscritta, che vi dice che tale pargolo è un porno attore, si chiama David Lee e ha… no, aspettate un attimo, ma… c’è un errore, è impossibile, il pupo in questione ha 34 anni??? 34??? Con quel faccino??? E appena compiuti.
Ma che imbroglio è? Non c’è nessun imbroglio e i miei milfosissimi appetiti possono continuare tenaci a pulsare perché il porno non inganna: è sua furbata tipica (e rimunerante) quella di accoppiare ad attrici non più teen ragazzi che imberbi lo sono di aspetto ma non sulla carta di identità.
In questo modo ti assicuri un porno milf girato a pieni voti, la differenza d’età è percepita ma non reale, stai a posto con la tua coscienza e quella di tutti, e ditemi se David Lee, nonostante le sue 34 primavere, non è convincente nel recitare la parte dello sprovveduto, ingenuo, imbranato, come lì per caso a ritrovarsi suo malgrado preda di mature ninfomani che a David si offrono, si stracciano le mutandine, gli sbottonano i pantaloni, gli tirano giù le mutande, per amplessi in cui David è sballottato da un seno all’altro, una succhiata all’altra, e tra cosce e fianchi e vagine e lingue in ogni buco, per femminili orgasmi che David Lee urlano, pretendono, e di David Lee mai sono satolle e piene.
David Lee fa porno da soli 2 anni, fa scene solo per porno brand di grido, ed è sbagliato dire che ha iniziato a far porno tardi. Era il porno del passato che assumeva giovani e sbarrava le porte a chi vi bussava non più ventenne. Ora non funziona certo così, e femmine e maschi possono cominciare nel porno e farsi un nome anche dopo i 30, o dopo i 40, e David Lee ha iniziato a 31 anni, ma prima non è stato seduto su un divano a farsi le s*ghe: dopo lavori part time come bagnino, barista, ma pure arbitro di calcio, David ha servito nell’esercito USA per 6 anni.
La prima cosa che ha fatto, smessa la divisa, è farsi crescere i capelli. E entrare nel porno. Il background di David è originale: suo padre è americano d’ascendenza russa, ed è ebreo, sua madre è coreana, e buddista. E questa mamma appoggia la decisione del figlio di fare porno. E David, che è nato in Corea del Sud e c’ha vissuto, ha intenzione di restarci, nel porno, per di più "sfruttare" i suoi tratti somatici e penetrare nel porno giapponese. Il porno giapponese è a volumi di produzione e vendita il primo al mondo, al tempo stesso però è un porno nazionalistico a livelli estremi.
È rarissimo che attori non giapponesi lavorino in porno giapponesi, ci riescono le super star unicamente in presenze sporadiche. Lo stesso vale per attori non giapponesi ma asiatici, per esempio vietnamiti, coreani, di Taiwan, o cinesi di Hong Kong: è insolito siano ammessi in hard nipponici. Il porno giapponese è un porno autoctono, chiuso, ciò nonostante è mira ambita di pornoattori come David Lee per gli stipendi! Le paghe giapponesi sono anche più alte di quelle USA.
David Lee si chiama così perché David è il suo vero nome, Lee è stato scelto in onore di David Lee Roth, cantante dei Van Halen, gruppo rock che David venera, e poi il suo cognome vero è troppo lungo. Signore, prendete nota: David non è fidanzato ma in cerca di fidanzata. Va da sé che questa tipa non deve menarsela con la gelosia, né scocciargli sul porno, ma neppure sui suoi hobby nerd come quello di costruirsi candele con le proprie mani.
Per David, esser entrato nel porno da over 30 è stato il suo azzardo migliore. Perché, prima del porno, lui non se l’è tenuto stretto, ha fatto le sue esperienze, ha conosciuto sé stesso, e il proprio corpo. Lo ha capito. Lo ha messo alla prova, oltre la sua zona di comfort. Se a masturbarsi David è un patito di sex toys che gli massaggiano la prostata, sia nel privato che sui set, queste sono le posizioni che predilige: Spread Eagle (lui sopra, e lei sotto con le gambe ultra divaricate) e Amazon (lei seduta sopra, lui sotto con le gambe a 90,( vabbè, se non la conoscete, andatevela a vedere…). David ha in programma di sperimentare il porno BDSM, e lui nel ruolo di dominatore di donne sue schiave.
Sì, lo so, e David lo sa, che il suo fisico è troppo mingherlino, e le sue gambe troppo ma troppo magre. Che ci deve fare? Lui fa palestra regolarmente, ma la sua situazione non migliora. A me piace David perché è stra-sincero, e specie nello svelarti i "guai" che combina sui set.
La sua prima scena porno in assoluto, è stata quella con Jessica Ryan. David doveva leccarle il sesso. Peccato che per poco non ci rimane secco, soffocato, con la bocca immersa "dentro" di lei! Oggi è migliorato, nettamente, lo prova il porno "Snoop Around" con Kira Noir: nel cunnilingus procede senza intoppi.
Le nuove uscite di David Lee lo vedono sempre con le milf. La milf Francesca Le se lo sc*pa in "Hot Wife 4", la milf Reagan Foxx in "I’m Not Your Mommy!", ma sono le scene Brazzers a attirare più attenzioni: io vi segnalo "Mi sc*po l’ex della mia figliastra", e "Le mamme si sbattono gli adolescenti", e "Faccio ansimare la matrigna". OK, la traduzione dei titoli è mia, fatta veloce, ma si capisce, su!
Den Harrow.
Estratto dell’articolo di Franco Giubilei per “Specchio - la Stampa” il 17 luglio 2023.
[…] Il nome d'arte Den Harrow venne dall'assonanza con la parola "denaro", dopodiché Stefano puntò tutto sull'aspetto: «Gli Anni 80 avevano bisogno di una faccia che si facesse seguire dal pubblico, così ho impostato il mio personaggio sul look».
La prima esperienza davanti a una platea da migliaia di persone fu al Palalido di Milano nel 1983: «Mi avevano chiesto di aprire il concerto dei Depeche Mode, ancora non mi conosceva nessuno. Avevo un trucco assurdo da uomo tigre, così mi diedero degli occhiali da sole, i "Dj lunette" di Cecchetto, raccomandandosi di non togliermeli, sennò la gente mi avrebbe ammazzato vedendomi così. Io invece me li levai perché il pubblico mi sembrava freddo: le ragazze presero a urlare "figo! figo!", i ragazzi "culo! culo!" e mi lanciarono addosso lattine e bicchieri, un inferno».
Intanto però le vendite decollavano e Den Harrow diventava una star, in Italia e in Europa, a suon di To meet me, Mad desire, Catch the fox, Bad Boy, per citare solo qualche titolo. Le adolescenti impazzivano e nell'88 il biondo cantante esperto di arti marziali compariva fra i primi cinque nella classifica dei singoli più venduti nel Vecchio continente: «Ero a Stoccolma per una serata in discoteca e vidi Prince che ballava in pista - ricorda -. Mi guardava e mi fece segno di avvicinarmi. Pensavo mi avesse riconosciuto, ma quando mi sono avvicinato mi ha allungato un biglietto col numero della sua camera d'albergo dove raggiungerlo. Ci rimasi malissimo». […]
Den Harrow: «Le mie canzoni le cantava un altro ma guadagnai 13 miliardi. Mi diedero del truffatore e finii a fare gli spogliarelli». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.
Den Harrow (vero nome Stefano Zandri, 60 anni) racconta gli anni di Future Brain e Mad Desire: «In un una settimana prendevo dieci aerei, alle feste con George Michael c’era droga ovunque. All’Isola dei Famosi mi misi a piangere, sono passati 16 anni e ancora mi prendono per i fondelli...»»
Ha avuto un successo planetario come cantante, ma non cantava. È arrivato ad avere 13 miliardi di lire in banca ma poi ha perso tutto. Oggi vive nove mesi all’anno a Malaga, fa serate ma potrebbe anche non lavorare. La parabola di Den Harrow (vero nome Stefano Zandri, 60 anni da Nova Milanese) è l’immagine degli Anni 80, un decennio di superficialità ed edonismo, ma anche di opportunità che oggi sono impensabili.
L’adolescenza?
«Un disastro. Da ragazzino ero dislessico e grasso, venivo bullizzato. Fino ai 13 anni la mia infanzia è stata difficile. Poi — è il mio temperamento — mi sono arrabbiato, sono dimagrito 20 chili in un mese, mi sono messo a praticare arti marziali e dopo un anno ho picchiato tutti i bulli che mi avevano menato».
La scuola?
«Altro disastro. La dislessia non era ancora stata diagnosticata e quindi io per le maestre ero solo un ragazzo che faceva fatica a capire; sono stato bocciato in terza elementare. Ancora oggi se non mi concentro capovolgo lettere e numeri, sul cellulare ho la rubrica con tanti numeri di telefono sballati».
La musica è una traiettoria che arriva per caso.
«Da brutto anatroccolo mi ero trasformato in un bel ragazzino e avevo cominciato a frequentare una discoteca a Milano; ero un fan di Renato Zero e mi vestivo in modo eccentrico. Ero il belloccio del club, non pagavo né all’ingresso né al bar. Quando ballavo intorno a me la gente si metteva in cerchio a guardare, tipo Febbre del sabato sera, un film che all’epoca mi fece impazzire. Infatti volevo fare il ballerino, ma un giorno mi chiesero se volevo fare il cantante: c’era un disco già pronto, già cantato».
In che senso già cantato?
«Negli Anni 80 funzionava così, c’erano personaggi che prestavano solo l’immagine e la voce era di altri. Era la prassi, io avevo 19 anni e mi dissero che mi sarei chiamato Den Harrow: era un gioco di assonanze con denaro».
Lei era l’uomo-immagine di una canzone...
«Per di più dislessico. Immagini la fatica che facevo a imparare il playback. Mad Desire fece un milione di copie, per Future Brain dovevo fare solo una tappa al Festivalbar, ma le feci tutte e vinsi tra i giovani. Tra l’86 e il 90 ero tra i primi cinque cantanti d’Europa piu popolari tra le teenager, con Simon Le Bon, George Michael, Prince e Billy Idol. Con Don’t Break My Heart rimasi in classifica due anni in Germania, il disco fece 3,5 milioni di copie».
Che vita faceva?
«In una settimana prendevo 10 aerei, ho passato la mia gioventù in volo e in hotel. E poi ero frustrato, mi sentivo di prendere per il culo la gente. E non ero tranquillo, fare un buon playback era uno stress emotivo continuo, ma nessuno si era mai accorto di nulla. A quel punto avevo 30 anni e circa 13 miliardi di lire in banca (ho venduto 20 milioni di dischi)».
Il lusso più stravagante?
«Un giorno mi presento in ufficio, dico che non voglio prendere per il culo i mei fan, ma avevo 22 anni ed ero comprabile e corruttibile. “Ti piacciono le macchine? — mi chiedono —. Vai a farti staccare un assegno per comprare una Porsche e non rompere le balle”. Spesi 95 milioni. Gli sponsor mi davano tutto, non pagavo niente, né hotel né ristoranti. Guadagnavo tantissimo ma non spendevo troppo: buttavo soldi solo in orologi, auto e moto. Ho comprato anche la villa di Grace Jones a Ibiza».
La droga?
«Ce n’era tanta tanta tanta. Ricordo a Londra, una festa in una chiesa sconsacrata con Boy George e George Michael, c’erano ciotole e insalatiere piene. Andavi e ti servivi, montagne di cocaina, tiravano tutti. Si fa in fretta a cascarci».
Pure lei?
«Sono sempre stato un ragazzo curioso, ma mai tossicodipendente».
Quando si stancò di fingere?
«A un certo punto feci un ultimatum alla casa discografica: o canto io il prossimo brano o me ne vado. Mi fecero cantare il primo disco, Born to Love. Stavo diventando difficile da gestire, ma ero ricattabile».
Aveva 30 anni...
«Mi ritrovai con brani cantati da 7 voci diverse più la mia. E la gente, tutti grandi intenditori, non si è mai accorta di nulla. Poi quando è uscita la storia tutti a dire: eh sì lo sapevamo, si capiva. E quindi sono stato massacrato: ero il truffatore, quello che aveva imbrogliato la gente».
Si fece terra bruciata intorno...
«Nel frattempo mia madre — l’unico amore della mia vita — si ammalò e morì. E allo stesso tempo la finanza mi disse che c’era un controllo fiscale. Il commercialista era un amico, era di casa, ma venni a sapere che per 10 anni non avevo pagato niente. Nel 1991 la Finanza mi portò via tutto, due case, le macchine, rimasi con 10 milioni di lire sul conto e la disco dance era finita. Ho messo il dito sul mappamondo ed è venuta fuori San Diego. Sono partito con due valigie leggere per un posto dove non conoscevo nessuno».
Cosa faceva in California?
«L’istruttore di body building in un club sulla spiaggia. Poi andai a Las Vegas e per un mese studiai i ballerini di strip-tease ma erano molto piu grossi di me. In una palestra trovai uno spacciatore di bombe anabolizzanti: presi 15 chili in un mese, dovevo fare in fretta. Portavo sul palco le mie canzoni, l’unica cosa in più era togliermi i vestiti. Facevo 7 spettacoli al giorno per 3 giorni a settimana e guadagnavo un botto. Il nome d’arte era diventato Den Hard...».
Poi tornò in Italia spinto da?
«Per la voglia di rivalsa, ero arrabbiato con gli italiani, mi sono sentito molto maltrattato. Io ero il capro espiatorio, nessuno mi ha mai difeso. A Mediaset faccio Meteore, poi arrivo all’Isola dei famosi che mi rovina».
Il suo pianto a dirotto.
«Mi prendono per il culo ancora oggi dopo 16 anni con la storia del piangina, nonostante tutto quello che ho fatto. Ho fatto innamorare, divertire, ballare e si sono dimenticati di tutto».
Oggi cosa fa?
«Tantissime serate, revival Anni 80, ma posso anche permettermi di non lavorare».
Tornasse indietro?
«Non vorrei essere Den Harrow. Mi ha dato più rogne che altro».
Dennis Fantina.
Da fanpage.it il 29 aprile 2023.
Sono passati oltre 20 da quando Dennis Fantina ha vinto la prima edizione di Amici di Maria De Filippi, ai tempi Saranno Famosi. Il successo ai tempi fu tale per cui uno dei suoi primi dischi viene certificato disco d’oro: fu la realizzazione di un sogno. Negli anni Dennis ha partecipato a numerosi talent in tv, da The Voice of Italy a All Together now fino al più recente Tale e Quale Show. Vivere di musica però non è stato così facile e per questo Fantina ha deciso di cambiare completamente strada.
Intervistato da Serena Bortone a Oggi è un altro giorno, Dennis Fantina ha raccontato i suoi 20 anni di carriera, che gli hanno permesso di realizzare un sogno, pur non riuscendo ad imporsi mai a pieno come artista nel panorama musicale. Ecco perché, dopo aver perso il supporto di Radio Italia nella produzione dei suoi dischi, nel 2009 Fantina si è trovato costretto a trovare un altro lavoro per mantenersi. “Ad un certo punto è finito tutto, mi sono ritrovato senza lavoro. Avevo appena aperto un mutuo e avevo una famiglia, non potevo stare lì ad aspettare che arrivasse un produttore”, racconta. “Oggi collaboro con un mio amico che ha aperto un bar, quando non lavoro faccio questo. Per me l’importante è essere umili e dignitosi, non ruota tutto attorno al mondo dello spettacolo”.
Dennis Fantina ha una famiglia e non rinuncia alla musica
Nel frattempo è diventato un orgoglioso papà, nonostante non abbia mai abbandonato del tutto la passione per la musica. “Ho avuto due bambini”, ha raccontato nel 2019 sul palco di ‘All together now”, a Mille Hunziker. “Al momento sono disoccupato. Sopravvivo con la musica per quanto è possibile
(...)
Diana Del Bufalo.
Diana Del Bufalo: «Quando avevo 19 anni fui arrestata a Londra per uno spray al peperoncino». Storia di Federica Bandirali su Il Corriere della Sera venerdì 8 dicembre 2023.
Ospite su Youtube del format del duo comico "Le Coliche", l’attrice Diana Del Bufalo racconta un fatto che mai aveva svelato fino a ora. Un fatto avvenuto a Londra: "Mi hanno arrestato, quattro persone con il mitra mi hanno scortato fuori dall’aeroporto, sono andata alla stazione di polizia. Ma è stato bruttissimo perché mi hanno preso il DNA, mi hanno fatto le foto segnaletiche" ha raccontato con la memoria che è tornata al suo soggiorno a Londra quando aveva solo 19 anni.
I motivi dell’arresto
Il motivo dell’arresto? L’attrice aveva in borsetta uno spry al peperoncino, che nel Regno Unito è considerato illegale. Ma lei spiega la sua scelta: “Ero andata a vivere a Londra, avevo 19 anni, mio padre me lo ha dato, 'guarda sei una signorina da sola, piccolina'. Quando poi sono tornata a casa per Natale, in aeroporto io non sapevo che era illegale avere lo spray al peperoncino, e io ce lo avevo nella borsa. In Inghilterra è illegale totalmente, in Italia no", ha spiegato. Per questo motivo Del Bufalo, amatissima in Italia, è stata portata in una stazione della polizia: "A Scotland Yard sono schedata come potenziale… ma sai tipo quelle cose da film con la telecamera, la luce? Sì, tipo il verbale: 'Quindi tu odi il nostro paese?'. 'Ma no figurati sono venuta a studiare qua'" ha proseguito nel racconto. 'Tu per noi avevi una pistola” avrebbero detto a lei i poliziotti che considerano lo spray di fatto un'arma vera e propria.
Diego Dalla Palma.
Diego Dalla Palma: «Vanoni, Melato, Patty Pravo: ecco come le ho rese più belle. Perdonai in punto di morte il sacerdote che mi molestò». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera mercoledì 25 ottobre 2023.
Il make up artist: «Al paesino ero la “femminuccia”, mia madre mi diede 25 mila lire per andarmene via». Costumista, sceneggiatore e truccatore, è diventato imprenditore dei cosmetici
Per capire da dove proviene Diego Dalla Palma, «il profeta del make-up italiano» (New York Times), basta dire che 40 anni fa fotografai una bottiglia di grappa con una vipera al posto della ruta, in vendita a 150.000 lire, «prodotta a Enego dal farmacista», garantì il droghiere. «La faceva anche mio cugino Vittorio, morto di rabbia a 40 anni per il morso di una volpe che allevava in cantina», conferma il truccatore, costumista, scenografo. Cresciuto in quel paese sui monti, privo di confini fra uomini e bestie, non poteva che intitolare Bellezza imperfetta. Fra vacche e stelle la pièce teatrale che sarà al Parioli di Roma dall’11 novembre e al Manzoni di Milano dal 5 dicembre. Quando nacque, a Enego su 4.500 abitanti solo due donne usavano il rossetto: «Una era mia madre Agnese».
E l’altra?
«La sua migliore amica. Il giorno in cui fu eletto papa Giovanni XXIII, il marito geloso la decapitò con l’accetta ed esibì la testa alla finestra. Mia mamma lo fece uscire di casa avvolto in una coperta. Da quel giorno il mal di vita la ghermì, non fu più lei».
L’assassino che fine fece?
«Morto pure lui. Con la scure s’era mozzato un polso».
Bellezza e mucche, strana relazione. Me la spiega?
«Da Malga Lambara scendevo a scuola con il camion del latte. La mamma mi diceva: “Te devi ’ndar via, no star qua fra le vache, come mì”. Non eravamo d’accordo su nulla. Il nostro è stato un violento nubifragio d’amore. Nel 1968 mi mise in mano 25.000 lire: “Ghemo solo questi, te i dago, ma no tornar indrìo!”. Si è sempre sentita una madre in prestito, non mi ha mai accarezzato. Assomigliava a Silvana Mangano. La bellezza non si può separare dal dolore. Come scrisse Paul Valéry, definire il bello è facile: è ciò che fa disperare».
Era lo stesso rapporto che legava Pier Paolo Pasolini alla madre Susanna Colussi?
«U-gua-le! Non ebbi il coraggio di dirlo al regista. Pasolini le fece interpretare la Madonna sotto la croce nel Vangelo secondo Matteo, io la truccavo per portarla al ristorante. Finito il make-up, le dicevo: te me par ’na vecia putana. E lei: “Eh no, vecia no!”. Tutte le donne mi hanno sempre chiesto una sola cosa: farle apparire giovani».
Ora si affidano al bisturi.
«Odio la chirurgia estetica. Guardi le facce di Madonna, Mickey Rourke, Linda Evangelista, Sylvester Stallone. E Faye Dunaway? Non esce più di casa, le hanno stravolto l’articolazione labiale».
Come scoprì il maquillage?
«Incontrando la morte. A 6 anni fui colpito da meningite linfocitaria. Una sorta di privilegio. In coma non vidi alcun tunnel, ma solo una luce lillà, fortissima, che mi dava un senso di trasparenza e di ristoro. Mia madre restò accanto a me in ospedale per molti giorni, solo con un’immagine di sant’Antonio stretta al petto. “Al risveglio eri contrariato”, mi raccontò».
Le mancava l’adorato lillà?
«Sì, il colore. I miei non potevano regalarmi i pastelli. Disegnavo a matita sulla carta usata nella malga per avvolgere il burro. Con i cocci dei mattoni rossi dipingevo bocche sui muri della porcilaia».
Ritorna mai a Enego?
«Manco da tanto tempo. Ho sofferto troppo. Mi deridevano: «Femminuccia». A distanza di anni, temevano che li contagiassi con il meningococco. Ah, l’ignoranza!».
A che età se ne andò?
«A 18 anni. Il viatico di mio padre Ottavio fu: “Ricòrdate sempre che sémo gente povera, no povera gente”».
Destinazione?
«Milano. Non sapevo dove lavarmi, dove dormire. Finii nel pensionato Belloni, viale Fulvio Testi, fra barboni ubriachi che scoreggiavano. Fame vera. Un giorno mi prostituii per un panino. La mia università è stata la povertà».
Primo lavoro?
«Costumista e scenografo. Un Natale mi presentai per la terza volta alla Rai in corso Sempione. Maud Strudthoff mi batté una mano sulla spalla: “De Palma, torna a casa”. Manco rammentava il cognome. L’ascensore era rotto, vagai nei corridoi. Lei mi rivide, s’impietosì: “Vabbè, ti provo in Un’ora per voi, condotto da Corrado e Mascia Cantoni per i nostri emigrati in Svizzera. Solo tre puntate”. Divennero 30. Da Guido Stagnaro a Enzo Trapani, per 10 anni lavorai con tutti i registi».
Ma resta più noto per l’arte di combinare fard e rimmel.
«Succede se ti occupi del viso di Ornella Vanoni, Mariangela Melato, Patty Pravo. Mi rapiva Amália Rodrigues, aveva negli occhi stregoneria e santità. Ero incantato da Lea Massari e Maria Tanase, la Édith Piaf dei Balcani, due amori di Indro Montanelli».
Nessuna rifiutava il trucco?
«Irene Papas. Anche Paola Borboni: teneva di più all’acconciatura e alle collane».
Ritocchini sugli uomini?
«Silvio Berlusconi. Si fece sfumare la base del naso. “Ce l’ho troppo prominente, come mio padre”, si doleva».
Non le chiese il fondotinta?
«È la telecamera il fondotinta, anzi il cerone. Tira fuori il peggio della nostra vanità».
Adesso lei è una griffe nel settore cosmetico.
«Nel 1978 aprii il Make up studio in zona Brera. Con la stufetta elettrica colavo barattoli di rossetto verde, blu, nero e ne facevo stick. Ma la più abile fu mia madre. Venne a trovarmi. In dialetto veneto conquistò una cliente, che se ne andò felice: le aveva venduto per 34.000 lire un rossetto da 12.000».
Chi esce di casa imbellettato vuole stupire o sedurre?
«Difendersi».
Lei lo fa?
«Un po’ di crema basica in tv, per mascherare il rossore da alpino, tipico dei veneti. Ma non fermo i segni del tempo. Cerco soltanto strategie per evitare la noia».
Si è definito pansessuale.
«Sono nato in una casa priva di infissi. Non ho porte, non ho confini. Di due grandi amori, Anna e Mario, preferisco ricordare Anna. Studiava alla Scala per diventare soprano. Mi ha donato equilibrio. Il sesso era il primo pensiero la mattina e l’ultimo la sera. Oggi osservo sgomento il mio corpo plissé e mi astengo».
Da quindicenne subì abusi.
«Quasi tutti i giorni, per due anni, al collegio Cavanis di Venezia. Dormivo nell’ala degli sfigati che non potevano pagare la retta. Padre Ugo, 120 chili, era suadente: “Dammi del tu”. Dapprima fu una violenza mentale, sulle note della Sinfonia n. 103 di Haydn. Conservo ancora tre pile di vinili che mi regalò».
Poi scoprì di essere omosessuale.
«C’era già l’inclinazione, in percentuali che non capivo, a seconda delle occasioni. Anni fa la mia segretaria mi passò al telefono un asmatico. Era padre Ugo: “Stavolta benedicimi tu, sto morendo. Mi vuoi bene, Diego?”».
In che modo reagì?
«Non conosco il rancore. Ci pensai un minuto. Risposi: sì, le voglio bene. Che mi cambiava, a perdonarlo? “Grazie, figliolo”, fu il suo congedo».
Dica qualcosa ai brutti.
«Non toglietevi una “t”».
Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 14 aprile 2022.
Da figlio di pastori a profeta del Made in Italy (come da definizione del “New York Times”), la vita di Diego Dalla Palma è consacrata alla bellezza femminile. Dalla sua postazione speciale, quella di make-up artist, il maestro di stile di fama mondiale (è stato anche apprezzato costumista e scenografo) ne ha truccate più di tremila fra attrici, cantanti, ma anche donne comuni. In questo modo ha affinato la sua abilità di interagire con loro, confermando nel suo programma “Uniche” (su Rai Premium, dal 15 aprile in seconda serata con la sesta stagione), la capacità di confezionare interviste a donne dello spettacolo e della cultura che si trasformano in autentiche confessioni.
Per cui, fedele al format di successo, e al suo personaggio - autorevole, schietto e creativo - anche la nostra è stata una chiacchierata a cuore aperto, che ha spaziato dalle riflessioni private ai commenti su alcuni dei personaggi più in vista dello star system, fino ai voti sul look dei nostri politici, senza tralasciare di esaminarne gli eccessi e le dubbie dichiarazioni di qualcuno...
Dalla Palma, chi ci stupirà nella nuova edizione di "Uniche"?
A dire il vero nessuna, perché sono tutte proiettate a essere semplicemente sé stesse. Le confesso che le persone che desiderano stupire a tutti i costi mi fanno passare la voglia di continuare il racconto.
Invece qualcuna che l'ha delusa, in passato?
Almeno quattro o cinque, ma non mi chieda i nomi. Mi hanno deluso perché venivano per fare il personaggio. Ma ho sbagliato io a incontrarle, perché già immaginavo sarebbe andata così, che fossero costruite.
Avrà visto il video di Madonna su TikTok. Si è lasciata sopraffare dalla chirurgia?
Sì, si è lasciata prendere la mano, non me l’aspettavo da lei, visto che è un personaggio così anticonvenzionale. Ma il focus dell’anticonvenzionalità dovrebbe essere l’accettazione degli anni che passano. Altrimenti si diventa patetici, come lei.
Invece, le donne dello spettacolo italiano che hanno abusato coi ritocchi?
Parecchie… Valeria Marini porta la bandiera, ma anche Sabrina Ferilli, Maria De Filippi, ritoccata in maniera scioccante. Ci mancherebbe, facciano ciò che vogliono, ma non possono mica pretendere che la gente non si accorga dello scempio compiuto sul loro corpo. In verità mi piacerebbe vedere uomini e donne che combattono il tempo che passa con intelligenza, invece di affidarsi a persone senza scrupoli, e cambiarsi i connotati.
Lei ha mai ceduto al fascino del ritocco?
No! In passato ho avuto problemi coi denti, quindi ho dovuto subire interventi a denti e gengive, a causa di un imbecille che si occupava di immagine, e che mi aveva convinto a subire delle operazioni. Ma ero più giovane. Adesso, il mio unico vezzo è eliminare le macchie di vecchiaia, solo perché sono sgradevoli al tatto. Non mi farei toccare null’altro, in fondo mica si ritorna giovani veramente.
Che ne pensa delle recenti dichiarazioni di Donatella Rettore, che rivendica il diritto di usare parole come “frocio” e “negro”?
La Rettore è una delle persone più stupide che abbia mai conosciuto. Quindi non mi stupiscono affatto queste affermazioni.
Ma è favorevole al Ddl Zan?
Assolutamente sì.
Chiara Ferragni è una donna di buon gusto?
È di buon gusto, è intelligente, ma non ha lanciato uno stile che resterà nella storia. Può farlo, ed è ancora in tempo, così da diventare ineguagliabile. Invece ha dato la precedenza al marketing.
Spettacolo italiano e stile, il podio delle migliori?
Gaia mi piace molto. Così come Levante, e tra le vecchie glorie direi Patty Pravo, chirurgia esclusa.
Invece le tre peggiori?
Valeria Marini, Tina Cipollari e compagna (Gemma, la “dama” di “Uomini e Donne”, ndr). Ma qui c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Francesca Cipriani, Lory Del Santo, Carmen Russo … ormai caricature di loro stesse.
Politici e stile, assegni i voti. Partiamo da Salvini.
Quattro.
Giorgia Meloni?
Sei.
Draghi invece?
Otto, con possibilità di arrivare a dieci.
Mattarella?
Sette.
Chiuderei con Berlusconi
Sufficiente... Aggiungo anche un’altra politica, che secondo me ha un potenziale enorme, Marianna Madia (Partito Democratico). È particolarmente stilosa, molto chic.
Tornando a Berlusconi, che ne pensa del suo “non matrimonio”?
Sono scelte personali, che però non condivido.
Un politico che intervisterebbe volentieri?
Giorgia Meloni.
Perché?
Premetto che non sono un suo sostenitore, ma ho l’impressione che sia una persona, insieme a Enrico Letta, di una complessità umana particolare. Sono convinto, insomma, che possa trasformarsi in un incontro piacevole.
E una donna dello spettacolo con cui scambierebbe, con piacere, quattro chiacchiere?
Giovanna Ralli, un’attrice che trovo ancora bellissima ed elegante a più di ottant’anni. E ancora Alice, e poi tra le più giovani, Elodie e Matilde De Angelis.
Elodie perché la incuriosisce? Il suo stile ultimamente ha fatto discutere...
Mi piace perché ha una sicurezza che nasce da un percorso particolare. Sì, il suo stile è chiaramente dettato da esigenze commerciali. Ma sono convinto che lei sia molto più interessante di quello che mostra. Molte case discografiche sbagliano le loro mosse, convinti che così facciano meglio. Mia Martini, Loredana Bertè, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia, per citarne qualcuna, non hanno mica usato simili espedienti. Ecco, Elodie ha un potenziale considerevole, messo in ombra dal puro marketing.
Dei Måneskin che ne pensa?
Adorabili, dal look alla voce di Damiano, fino a tutti gli altri componenti della band. I Måneskin sono credibili perché sono sempre sé stessi, con un’immagine ben definita.
Torniamo a gennaio quando ha condotto, sempre su Rai Premium, “Caro Diego”, in cui ha ospitato storie di uomini e donne che avevano smarrito la propria autostima. Ma lei si ama?
Non mi amo, non mi sono mai amato e mai mi amerò. Però mi considero.
Perché?
Forse perché ho sofferto molto nella vita, mi hanno indebolito in tanti. Sono stato soggetto a violenze fisiche, a bullismo, povertà, alla disperazione, a mancanza di sostegno. Non mi amo anche perché non mi piaccio fisicamente, non mi piace la mia voce.
Perché sono solo, nonostante le storie d’amore importanti vissute. Non mi amo perché non ho il coraggio di mandare tutto e tutti a quel paese, e dedicarmi alla mia passione per i viaggi. E non mi amo nemmeno per i richiami che subisco dalla tv, tant’è che “Caro Diego” è uno dei programmi che prediligo, che faccio a casa mia, dedicandomi a persone che hanno smarrito sé stesse. Ma anche “Uniche” è un bel percorso, perché mi ritrovo con persone che hanno le mie stesse caratteristiche.
Ha detto di aver subito violenza fisica, bullismo. È riuscito a perdonare chi gliel’ha inflitti?
Per fortuna possiedo il coraggio e il perdono. Non ho perdonato subito, anzi, ho attuato anche delle vendette violente, ma poi ho iniziato a ragionare. E mi sono liberato per me stesso e per loro. A mia volta poi, mi sono dovuto far perdonare. Come diceva Madre Teresa: “Se vogliamo veramente amare, dobbiamo imparare a perdonare”.
Lei cosa doveva farsi perdonare?
Eh … atti di violenza, tradimenti sessuali, l’impulsività che mi danneggia.
Non crede di essere troppo severo con sé stesso?
Me lo dicono tutti.
Perché è così severo?
Perché sono portato a pensare che non valgo niente, che forse aveva ragione chi mi ha deriso, calpestato e umiliato. Io poi sono un ex timido, ho affrontato la timidezza indossando una maschera. Ma sono anche estremamente sincero, così sincero che faccio del male prima di tutto a me stesso.
Come vorrebbe essere ricordato?
Non succederà, quindi quest’idea neanche mi sfiora. Parliamoci chiaro, sono cadute nel dimenticatoio personalità dello spettacolo e della politica enormi, figuriamoci io. Pensi che giorni fa ho dovuto spiegare a una persona di quarant’anni chi era Anna Magnani! Come siamo ridotti?
E se invece l’intervistatore fosse lei, come chiuderebbe questa chiacchierata?
Con questa domanda: sei contento di averla realizzata?
E come risponderebbe?
Sì. Le confesso una cosa: oggi non è stata una giornata facile, sono stanchissimo, ho subito due grandi delusioni, e sono anche di corsa in aeroporto (si sente, ndr). La verità, ero prevenuto su di lei, convinto mi facesse l’ennesima intervista stupida e superficiale.
Quindi ho accettato, ma di malavoglia, ero seccato, infatti avrei voluto liquidarla in 15 minuti, invece ne sono passati? (Cinquanta, ndr). Questo perché, a sorpresa, si è rivelata una donna intelligente, ferma, ma non invadente, e ho apprezzato particolarmente, perché questo ha permesso un confronto sincero, mi ha restituito il buon umore. E non capita spesso...
Diego Dalla Palma, l'orrore subito dal guru della moda: "Pestato dal mio fidanzato fino a farmi perdere i sensi". Libero Quotidiano il 15 giugno 2021. Diego Dalla Palma ha confessato di essere stato picchiato dal suo compagno fino a perdere i sensi. L’uomo è stato immediatamente denunciato, ma si trova ancora in libertà. Il guru della moda si è messo a nudo svelando anche dettagli molto personali e delicati della sua vita. "Sono stato molto amato da alcune persone che non potevo amare. In generale, ho avuto tre storie d’amore molto importanti: una con una donna, Anna, le altre due con due uomini che non vogliono che faccia il loro nome. Non ci sentiamo più e questo per me è un vuoto enorme: perché non avere contatti? Allora quello di un tempo non era amore», confessa. Il visagista ha ammesso di essere stato vittima di manipolazioni psicologiche. "C’è un uomo che mi ha picchiato quattro anni fa. Fu uno shock enorme, mi ha picchiato fino al punto di farmi perdere conoscenza. Quell’uomo è stato denunciato ma grazie alla legge se ne sta tranquillamente in giro per l’Italia. Non ho paura di rivederlo. Una sola cosa mi fa paura: lo stordimento, il non capire chi sono, il dipendere da altri. Se avessi delle avvisaglie in questo senso, farei una scelta precisa: andarmene", confessa. Sul Ddl Zan si dice favorevole: "Sono assolutamente favorevole al DDL Zan. Ma gli omofobi, che sono dei perdenti alla ricerca disperata di dare un senso ai loro fallimenti esistenziali, continueranno ad esistere fino a quando non ci sarà una profonda rivoluzione culturale. Cosa penso di Platinette che è contraria a questa legge? L’ho trovato sorprendente, sono sincero", conclude.
Da "ilfattoquotidiano.it" il 15 giugno 2021. Il Parlamento ungherese ha approvato il disegno di legge volto a vietare la “promozione dell’omosessualità ai minori”, presentato da Fidesz – il partito del Primo ministro Viktor Orban – la scorsa settimana e criticato da Amnesty International e Human Rights Watch come un attentato ai diritti Lgbtq. Il provvedimento è passato con 157 voti a favore e un solo contrario. “Al fine di garantire la protezione dei diritti dei bambini – si legge nel testo – la pornografia e i contenuti che raffigurano la sessualità fine a se stessa o che promuovono la deviazione dall’identità di genere, il cambiamento di genere e l’omosessualità non devono essere messi a disposizione delle persone di età inferiore ai diciotto anni”. Fidesz ha promosso l’iniziativa come parte di un programma per proteggere i minori dalla pedofilia. Le lezioni di educazione sessuale, inoltre – si legge ancora – “non dovrebbero essere finalizzate a promuovere la segregazione di genere, il cambiamento di genere o l’omosessualità”. In base a questo testo, una pubblicità come quella lanciata dalla Coca-Cola nel 2019 per promuovere l’accettazione dei gay in Ungheria non sarebbe ammessa, così come film e libri che mettono in scena dinamiche di amore omosessuale. E infatti il canale televisivo commerciale RTL Klub Hungary ha già fatto sapere che pellicole come “Il diario di Bridget Jones”, “Harry Potter” e “Billy Elliot” saranno trasmesse d’ora in poi soltanto in seconda serata e accompagnate da un divieto di fruizione ai minorenni. Lunedì sera oltre 5mila persone si erano radunate di fronte al palazzo dell’assemblea legislativa, in riva al Danubio, per protestare contro un testo che – sostengono – limita gravemente la libertà di espressione e i diritti dei bambini. Anche Dunja Mijatovic, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, aveva invitato a “vigilare contro tentativi di introdurre misure che limitano i diritti umani o stigmatizzano alcuni membri della società”. Le organizzazioni per i diritti umani, ha ricordato, sostengono il diritto dei bambini a un’educazione sessuale completa, che verrebbe resa impossibile dalla censura sui temi Lgbt. “La legge contrasta con gli standard internazionali ed europei”, ha detto. “È una legge incompatibile con i valori fondamentali delle società democratiche europee e con i valori dei cittadini ungheresi, soltanto l’ultimo dei molti vergognosi attacchi ai diritti Lgbtiq dal governo di Viktor Orbán”, scrive in una nota Anna Donath, eurodeputata ungherese del gruppo liberale Renew europe (successore dell’Alde). Il gruppo a Bruxelles condanna la “putinizzazione dell’Ungheria da parte di Viktor Orban” e descrive la legge come “una replica della legge russa in vigore dal 2013 che vieta la propaganda Lgbtiq e che, proprio come in Russia, diventerà uno strumento di molestia e discriminazione”.
Diego Abatantuono.
Franco Giubilei per “Specchio - la Stampa” il 10 luglio 2023.
Studente occasionale alle scuole ufficiali, Diego Abatantuono racconta di aver "fatto il liceo" frequentando i Gatti di Vicolo Miracoli da amico - «stavo alle luci durante gli spettacoli senza capirci granché in impianti elettrici» -, e l'università al Derby. Qui Diego giocava in casa, oltre a giocare a bigliardo nel bar vicino all'istituto industriale cui era iscritto: il locale era degli zii e ci lavorava pure la madre, dunque il passo per salire su quel palco venne naturale, all'inizio per presentare spettacoli altrui e poi, di battuta in battuta, fino a costruire un monologo proprio.
Intorno a lui, personaggi che solo la Milano di allora: Enzo Jannacci, Beppe Viola, Cochi e Renato, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Faletti, i Gufi, Bongusto, Califano, Funari, ma anche personaggi della Milano di notte come "il Bistecca", «uno il cui lavoro era venire al Derby, un grandissimo umorista e amico», ricorda Abatantuono.
Fra il pubblico del Derby pittori, scrittori, la crème della città, ma anche boss della mala come Francis Turatello: «E tu crescevi lì dentro, imparando ad avere a che fare con personaggi di ogni tipo e di ogni fascia sociale. Imparavi anche a mediare e prevenire problemi con i balordi della notte, e a saperti muovere con le donne», racconta Diego dalla sua villa sui colli di Riccione.
Alle sue spalle, cento film e un personaggio di enorme successo che poteva bruciarlo: il terrunciello venne sfruttato intensivamente, invadendo i cinema italiani al ritmo di dodici pellicole in due anni. «C'è stata una gestione pessima, il mercato è stato saturato di quel personaggio», dice l'attore, che seppe sottrarsi all'abbraccio soffocante della sua maschera grazie a Pupi Avati, il primo a vedere la sua vena amara nel farne il protagonista sofferto di Regalo di Natale, «peraltro dopo aver incassato il no di Lino Banfi», ricorda.
Quindi è arrivato Salvatores: «Nell'88 avevo lavorato ne Il segreto del Sahara di Alberto Negrin con un cast pazzesco: Andie Mac Dowell, Michael York, Ben Kingsley. Dopo l'incontro con Salvatores, ho fatto io i sopralluoghi per Marrakesh Express. Con Salvatores siamo andati a girare fra le stesse dune, negli stessi posti». Milanista doc, ha messo il suo tifo in Eccezziunale veramente e come scenografia ha scelto la vera curva sud del Milan andando a girarci la scena del derby, quando l'Inter segna e lui, il "Ras della Fossa", si sente male.
Come è stato portare il set in una curva di calcio durante una partita vera?
«Gli ultrà del Milan sono stati molto gentili con noi e ci hanno aiutato, così con la produzione gli abbiamo regalato un furgoncino che serviva per bandiere e tamburi da portare allo stadio. La mia disperazione al gol dell'Inter era reale, perché loro avevano segnato sul serio. Da ragazzino, la prima volta che sono andato a San Siro ci sono andato per conto mio, la prima partita un Milan-Cagliari, avevo 13 anni. Era una Milano in bianco e nero, coi tram, il grigio e la gente col cappotto. Entrato a San Siro mi sono detto: "ma questo ha i colori…". Segnò Riva, che era il mio mito dopo Rivera, e vinsero loro 1-0».
A proposito di San Siro: vogliono buttarlo giù, cosa ne pensa?
«Che non andrebbe abbattuto, anche perché la demolizione danneggerebbe l'aria di Milano per anni. Che costruiscano il nuovo stadio e intanto continuino a giocare lì, poi valuteranno cosa farne. Non sto neanche a dire cosa vuol dire per Milano: sette coppe dei campioni vinte dal Milan, l'Inter con tre. Io non solo lo terrei, ma metterei 500 alberi nel parcheggio attuale, Ne farebbero un parcheggio-bosco, ombroso per le macchine, io poi metterei grandi alberi anche al terzo anello dello stadio e tutto attorno, il bosco San Siro come il bosco verticale».
Dai derby di calcio all'altro Derby, il locale simbolo del cabaret milanese, il passo è breve, considerata anche la vicinanza fisica dello stadio.
«Si chiamava così perché era vicino all'ippodromo, oltre che allo stadio. Fino a prima del '68 era un locale jazz, l'Intra's Derby Club, ci suonavano musicisti come Enrico Intra e Franco Cerri, quello della pubblicità dell'uomo in ammollo. Poi con Jannacci è avvenuto il passaggio al cabaret, sono arrivati Cochi e Renato ed è arrivata anche la cultura milanese. Il Derby diventò un porto franco, fra il pubblico c'erano gente del bel mondo così come balordi o malavitosi, ma è sempre stato un posto tranquillo. Era il posto più straordinario e io, che lì dentro ero il più giovane di tutti, ho cominciato ad andarci a 15 anni».
Chi ha scoperto il suo talento nel cabaret?
«Mio zio mi ha fatto fare il direttore artistico al Derby, presentavo un cast di giovani, fra cui Porcaro e Faletti, Mauro Di Francesco e altri: salivo sul palco, loro dicevano una battuta, io aspettavo la reazione del pubblico e intervenivo: se ridevano dicevo "te l'avevo detto che la gag era buona", se invece non faceva ridere, gli davo addosso: "te l'avevo detto che non funzionava".
Era il metodo dell'interruzione, lo stesso che avrebbe usato Bisio a Zelig anni dopo. In quel periodo - era il '75 - Jannacci, Boldi e Beppe Viola lavoravano a uno spettacolo e venivano sempre al Derby, così mi videro e Jannacci si affezionò. Avremmo lavorato insieme per molti anni, c'era una grandissima stima».
Sembra un inizio casuale.
«Ho cominciato per caso, non ho mai pensato di fare questo mestiere, ma ho imparato presto che la chiave dell'umorismo è il senso dell'umorismo del pubblico, se tu dici una battuta e non la capiscono c'è qualcosa da rivedere, ma se il tuo umorismo non viene capito non ti devi demoralizzare.
Mi dava sicurezza guardare in fondo alla sala: se c'erano a vedermi Jannacci, Viola, Boldi o "il Bistecca" - un nostro caro amico del Derby e il più grande umorista mai vissuto, che di mestiere veniva al Derby, non faceva altro e viveva con la mamma portinaia -, voleva dire che funzionava».
Al Derby c'erano tanti talenti e personalità, fra voi non c'erano anche rivalità, o magari invidie?
«Le rivalità erano molto poche, poi c'era quello che aveva un carattere più acceso, ma non invidie vere e proprie, e comunque nessuno l'ha mai palesato. C'erano anche differenze profonde di genere nell'umorismo: Funari e Tony Santagata facevano altre cose rispetto a un Pozzetto, che era avanti trent'anni».
I film di Salvatores riflettevano anche una visione politica precisa. Lei aveva fatto politica negli Anni 70?
«Tutto il cinema è politico in senso lato. Quanto a me, a scuola parlavo alle assemblee perché mi piaceva discutere i problemi, seguivo la politica perché mi interessava, ma non frequentavo un gruppo extraparlamentare in modo particolare. Andavamo al cinema e anche lì discutevamo quattro ore del film. Coi Gatti ci andavo tutti i pomeriggi e ne parlavamo sempre. I film allora erano così importanti che venivano citati e capiti al volo anche quando vi accennavamo nei nostri spettacoli, e appena usciva l'ultimo libro di Woody Allen lo leggevamo insieme ad alta voce».
Ci fa un esempio?
«Io cominciavo il mio monologo in italiano, poi mi incazzavo e cominciavo a parlare meridionale, raccontavo di un'astronave che - "svulaz, svulaz, svulaz" -, si trovava sopra la Puglia, atterrava e i pugliesi offrivano da mangiare al capitano: questo si beveva una tanica di olio d'oliva, lo stomaco si gonfiava e invece che Alien usciva Vito, un bambino insopportabile. E tutti capivano il riferimento».
Cosa è rimasto di allora nei suoi rapporti attuali?
«Coi Gatti, i vecchi amici e i sopravvissuti del Derby, artisti e clienti, ci continuiamo a frequentare. Fra noi, coi Gatti e gli altri, a quei tempi dicevamo che il primo che avesse avuto successo avrebbe preso una casa grande, in modo da viverci tutti insieme, e in un certo senso è andata così, anche se sembrava un'utopia da ragazzi: ai primi Anni 80, quando ho avuto una casa grande, si sono sempre avvicendati i miei amici e i nostri figli sono diventati amici. Anche oggi, quando è possibile, noi sopravvissuti continuiamo a vederci a casa di qualcuno. Il precedente più clamoroso è Tognazzi, che faceva anche i tornei di tennis a casa sua, cucinava lui e aveva tutti gli amici a casa».
(...)
In una scena di Mediterraneo vi fumavate l'hascisch di un turco: l'euforia collettiva sembrava autentica, che cosa vi siete fumati veramente?
«Non c'era dentro niente, era tutto finto, e lo dico anche perché se fosse stato vero non avrei avuto nessun pudore, ma lì proprio non c'era niente. Invece qualche altra volta in qualche altro film è successo, ma in Mediterraneo era tutto frutto della nostra grande recitazione».
(...)
Allora ci dica le sue passioni, cinema e Milan a parte.
«Prima le ragazze: stare sul palco dava visibilità e aiutava, io poi ero bellissimo e avevo un discreto successo. Poi il calcio e il biliardo, giocati e visti, e la play station finché i miei figli dieci anni fa mi hanno impedito di farlo. L'ultima mia passione sono gli alberi: ne avrò piantati cento nel mio terreno a Riccione, cinquanta ulivi con cui faccio l'olio, e lecci, castagni, querce. E poi cantare, ridere, queste sono le mie passioni. Non conosco nessuno che si sia divertito come noi al Derby, dove il senso dell'umorismo ce l'avevamo tutti. Vivevamo fra gente divertente. In giro coi Gatti avevamo un'agendina dove c'era l'elenco dei ristoranti e delle ragazze che vivevano in zona. Non era l'epoca in cui i cuochi dilaniavano l'inguine come oggi, avevamo i nostri vini e ristoranti».
Diego Abatantuono: le origini e gli inizi come tecnico luci al Derby Club, chi è sua moglie, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2023
Domenica 9 luglio l’attore sarà tra i protagonisti di «Mediterraneo» (1991), cult di Gabriele Salvatores in onda su Cine34 alle 16.45
Origini e gli inizi come tecnico luci
«Attore, comico, sceneggiatore, produttore, conduttore, ristoratore, flagello di Dio, ras della fossa, mago di Segrate, barbiere di Rio e Babbo Natale»: così si descrive nella sua biografia di Instagram Diego Abatantuono, tra i protagonisti di «Mediterraneo» (cult di Gabriele Salvatores in onda su Cine34 oggi alle 16.45). L’attore è nato a Milano il 20 maggio del 1955, figlio di Matteo (calzolaio originario di Vieste) e Rosa (costumista originaria di Como). Quest’ultima lavorava anche come guardarobiera presso il Derby Club (di proprietà degli zii di Abatantuono, Gianni e Angela Bongiovanni), mitico locale di cabaret che l’attore praticamente ha frequentato fin da quando era piccolo. Durante l'adolescenza ha anche iniziato a lavorarci come tecnico luci. Ma questa non è l’unica curiosità su di lui.
Il cambio di rotta grazie a Pupi Avati
Nel 1986 Pupi Avati offre a Diego Abatantuono l’occasione per mettersi alla prova come attore drammatico. Lo chiama per «Regalo di Natale», al posto di Lino Banfi (che aveva dovuto rinunciare alla parte di Franco Mattioli perché Cecchi Gori gli aveva proposto «Pompieri»). «Lo andammo a trovare a Rimini, dove viveva all’epoca - ha raccontato qualche anno fa Avati a Leggo -. Non se la passava bene, dopo l’insuccesso dei suoi ultimi film. Lo misi alla prova: per la prima volta doveva rinunciare allo slang del “terrunciello”. Rimasero tutti interdetti nel vederlo recitare così bene in un ruolo drammatico. Mi ha detto che a quella chiamata deve la sua intera carriera». Abatantuono è poi tornato a lavorare con Avati in diverse occasioni: «Ultimo minuto» (1987), «La rivincita di Natale» (2004), «Il testimone dello sposo» (1997), «La cena per farli conoscere» (2007) e «Gli amici del bar Margherita» (2009).
Il successo del “terrunciello”
Nei suoi primi anni di carriera Diego Abatantuono ha portato al successo il personaggio del “terrunciello”, prima sul palco del Derby poi al cinema (lo ha interpretato in pellicole come «Fantozzi contro tutti», «I fichissimi», «Eccezzziunale... veramente», «Il ras del quartiere», «Attila flagello di Dio»). «Il terrunciello era un tipo umano molto comune negli Anni Settanta e Ottanta, specchio di un’immigrazione al galoppo - raccontava l’attore nel 2021 al Corriere -. Era uno che si voleva integrare a tutti i costi. Che diceva di sentirsi “milanese al cento per cento” ed “eccezzziunale veramente”. Ma aveva conservato tutte le caratteristiche, fisiche e di linguaggio, di un uomo del Sud. Mio nonno non aveva mai perso l’accento pugliese. Le radici non si possono cancellare. Mia nonna, che era una precisina, non è mai riuscita a toglierglielo, quell’accento. Pensi che lui, il nonno, era un mancino naturale e lei l’ha fatto diventare ambidestro. Aveva una calligrafia meravigliosa, tutta svolazzi: cominciava la firma con la sinistra e finiva con la destra».
Ha girato oltre 100 film
Diego Abatantuono ha girato oltre 100 film (soltanto tra il 1980 e il 1983 ne ha girati 17). Ha raccontato al Corriere: «(Marrakech Express ndr.) Era un film on the road e se la compagnia è divertente, all’avventura del film si aggiungono le disavventure della vita che vivi nelle pause, nei trasferimenti da un posto all’altro. In genere succede quando giri lontano da casa. Mediterraneo era stanziale, ma era impagabile stare in acqua e poi andare sul set. Il giudice Mastrangelo lo abbiamo girato in Salento prima che diventasse una moda. Il cinema rimane il luogo dove mi sento più a mio agio, è il mio habitat, so sempre quello che succede e prevedo quello che succederà».
Come è diventato milanista
Calcisticamente parlando, il cuore di Diego Abatantuono è rossonero. «In piazzale Velasquez ho abitato quando avevo circa 10 anni - ha raccontato al Corriere -. Gianni Rivera, il capitano del Milan, stava nello stesso palazzo, al settimo piano. E poi sì, c’è quell’episodio che ho raccontato tante volte. Un giorno dal portafoglio di mio nonno spuntarono due foto. Una di Gianni Rivera e una di Padre Pio. Mi incuriosii e chiesi: nonno, ma chi sono questi due signori? La risposta fu: uno che fa miracoli e un popolare frate pugliese».
Riconoscimenti
Nel corso della sua carriera Diego Abatantuono ha vinto tre Nastri d'argento: come miglior attore non protagonista per «Regalo di Natale» (1987), come miglior attore protagonista per «Puerto Escondido» (1993) e come miglior attore non protagonista per «Io non ho paura» (2004), oltre a due Ciak d’oro (miglior attore protagonista per «Mediterraneo» e miglior attore non protagonista per «Io non ho paura»). Nel 2021 gli è stato consegnato il David Speciale ai David di Donatello.
Moglie
Dal 1984 al 1987 Diego Abatantuono è stato sposato con la scenografa Rita Rabassini (oggi compagna del regista Gabriele Salvatores). Dall’unione - nel 1985 - è nata una figlia, Marta. In seguito Abatantuono, dall’amore con la sua storica compagna Giulia Begnotti (sposata nel 2021), ha avuto altri due figli: Matteo (1995) e Marco (1997).
Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 4 febbraio 2023.
Nelle foto della cena dell'altra sera con alcuni degli amici di sempre alla polpetteria di via Vigevano a Milano - Meatball family, gestita dal figlio con alcuni soci - c'erano pure Cochi e Renato, Smaila, Boldi, Ale e Franz, Scintilla, Johnatan, Fausto Leali e molti altri. Hanno fatto il giro del Web. «Ci ritroviamo tutti gli anni per gli auguri», ci racconta pochi giorni dopo aver ritirato l'Ambrogino d'oro di Milano. Improvvisamente Natale è il titolo del suo ultimo film, su Amazon Prime, e Diego Abatantuono è pure in libreria: ha scritto con Giorgio Teruzzi, per Einaudi, Si potrebbe andare tutti al mio funerale.
Ma è vero che lei ha perso il conto di quanti film ha fatto?
«Faccio fatica a contarli. Alcuni sono passati sia in tv sia al cinema. Per fare un esempio, Il segreto del Sahara, girato in pellicola, era sia per la tv sia per il cinema. Insomma, quando me lo chiedo io rispondo 100 e faccio prima».
Certo è che il primo fu nel '76.
«Andai ad accompagnare i Gatti di vicolo Miracoli (Jerry Calà, Umberto Smaila, Franco Oppini e Nini Salerno, ndr) a un provino e il regista, Romolo Guerrieri, mi chiese se volessi fare la parte del balordo in Liberi armati e pericolosi. Dissi di sì, mi domandò se avessi la patente. Non la avevo, mentii. Poi sul set avrei dovuto fare una sgommata con la macchina e confessai: mi servivano i soldi. Lui capì, e finì bene. Da lì feci parecchie partecipazioni. Fu quello con Monica Vitti, però, il primo film da protagonista».
Il tango della gelosia.
«Fu un grande successo anche al botteghino».
La Vitti la conobbe sul set, o già vi eravate incontrati?
«Lei aveva sentito parlare di me e venne a vedere un mio spettacolo. Portò anche Steno, il padre dei Vanzina. In quegli anni facevo il cabaret a Milano e in tutta Italia, ma non a Roma. Allora con 2 milioni di lire, che avevo risparmiato con le serate, affittai un teatrino in piazza Navona e invitai tutti quelli che conoscevo. La prima sera feci il tutto esaurito: Monica, Steno, i Vanzina, Benigni, Troisi, Cochi e Renato e molti altri. Era pieno. Le sere successive non venne nessuno, comunque l'idea funzionò e da quel giorno partì tutto».
Arrivò la fama.
«In due anni feci 12 film. Avrei dovuto capirlo che erano troppi. Non fui aiutato nelle scelte, ero inesperto. Al contrario del mio agente. Davo molta importanza ai rapporti di amicizia. Comunque per me erano soldi».
Un set dopo l'altro
«Ero frastornato, non capivo più niente. Ho rischiato di bruciarmi, a un certo punto poi il mercato si satura. Le proposte calavano. Così, decisi di stare fermo un po'. Il personaggio del "terrunciello" inizialmente lo usavo solo per chiudere lo spettacolo, ma talmente era richiesto e talmente funzionava che pian piano ha vinto lui. Poi sono arrivati Pupi Avati, Comencini, Negrin, Salvatores, le belle pellicole».
Si ride meno o si ride ancora, in questa Italia?
«Si ride abbastanza, si ride se le cose fan ridere. La commedia all'italiana di Monicelli, Scola, Comencini, Risi e dei grandi attori come Sordi, Gassman, Tognazzi, Gian Maria Volontè o Mastroianni beh, quella generazione era così di alto livello che poi è stato difficile andare avanti.
Erano pellicole esilaranti e struggenti al tempo stesso. La guerra e la fame erano ancora ben impresse nella mente e nei ricordi di tutti. Comunque il cinema è andato avanti. Certo, la qualità forse è calata. Bisognerebbe guardare e riguardare i vecchi film che hanno reso grande il cinema italiano».
Ci vuole una cultura, un'educazione al divertimento?
«Ma sì, il pubblico dimentica velocemente. Prenda la parolaccia: va usata dove serve. Non si dice "culo" solo per far ridere un bambino. C'è qualche critico che di recente ha rivalutato Giovannona Coscialunga e i Pierini: è un po' snob definire quei film dei "cult". Che poi, a dire il vero, a me la parola "cult" mi ha sempre fatto anche un po' cagare. Alla fine, un film o è bello o è brutto».
Scrive nel libro che imparare a far ridere è come voler diventare più alti
«Certo, secondo me è impossibile. O ce l'hai, o non ce l'hai. Beh, però uno dei fratelli di mio padre ci provò, sa?».
A far ridere?
«No no, a diventare più alto. Si era attaccato dei pesi ai piedi, poi si appendeva a una sbarra. Forse si era allungato un po', ma nel busto. Le gambe erano rimaste corte. Ecco, anche per l'umorismo è così».
Mi ha colpito quanto dice di lei Pupi Avati: avesse Abatantuono imparato a recitare inglese, avrebbe perso in autenticità e istintività. La descrive come un raffinato psicologo che sa della vita, conoscitore dell'animo umano.
«Per far ridere devi sapere con chi hai a che fare, capire le persone, il Paese in cui vivi. Io ho studiato poco. La mia scuola sono state le serate con Jannacci, Beppe Viola, Dario Fo, Gaber o Felice Andreasi. Ricordo la grande cultura di Lino Toffolo. Stavo attento, ascoltavo e capivo. Non tutti hanno voglia di stare attenti, e quindi fanno fatica a capire. Sono stato fortunato, nel posto giusto al momento giusto».
Improvvisamente Natale è un film che non è passato dalla sala, si può vedere solo in streaming. Senza retorica: ci perdiamo qualcosa, a non andare più al cinema?
«Certo, il cinema visto al cinema è un'altra cosa. Secondo me negli anni le programmazioni hanno favorito i colossal stranieri, spesso penalizzando pellicole italiane di qualità. Una volta era diverso. Mi ricordo che alla prima di Eccezzziunale veramente c'erano 3.000 persone davanti al cinema Adriano a Roma, che volevano entrare».
Era il 1982.
«Le televisioni erano a tubo catodico, piccole, per farle funzionare si prendevano a pugni. Oggi sono grandi, come gli schermi dei cinema di una volta. È vero che con la pandemia la gente si è disabituata ad andare al cinema. Ma per tornarci, per riprendere la vecchia bella abitudine, ne deve valere la pena. Vedere un film comico in una sala di 600 posti con 4 persone, non è facile. Quando è piena, condividi le emozioni. Il cinema è bello vederlo in tanti».
Racconta che Gassman ipotizzò lei potesse essere il suo erede.
«L'ho saputo da qualcuno, che lo ha letto da qualche parte. Mi fa piacere, ne ho ricevuti anche altri di complimenti, ma non mi piace raccontarli. C'è chi d'abitudine racconta aneddoti e complimenti ricevuti appena un grande personaggio non può più negare o smentire, in quanto deceduto. Chi le lodi di Padre Pio, chi quelle di Totò ma lasciamo perdere».
Si potrebbe andare tutti al mio funerale è il racconto di una festa, ci sono proprio tutti.
«I morti, ma pure i vivi. Va interpretato, è costruito in modo da non capire se sono morto davvero o se sono vivo in un sogno. Sono a letto, sono malato, mia mamma mi mette il Vicks Vaporub sul torace. Sento che fuori c'è una festa, e io alle feste ci andrei pure malato. Vengo attratto, e lì comincia la storia. Per capire, però, bisogna leggere il libro».
Credo non le venga molto da ridere invece quando dicono di voler abbattere San Siro. La fede rossonera per lei è una questione molto seria.
«Certo che mi dispiacerebbe, a San Siro siamo affezionati. Mi sono un po' interessato e mi pare di aver capito che ci sarebbe la possibilità di ristrutturare un anello per volta senza far danni ambientali, potendo così salvare e non abbattere le scuderie, la zona intorno, un posto meraviglioso. Questa cosa dello stadio, in piccolo, è un po' come quella del ponte sullo stretto di Messina: c'è chi vuole guadagnarci, e non tiene conto di tutti i fattori in gioco».
Contrario al ponte?
«Sono stato in Sicilia, ma soprattutto me ne hanno parlato amici siciliani. Mi dicono che mancano le strade e le ferrovie, che c'è da metter mano a ospedali, scuole, acquedotti. Da 67 anni sento parlare delle disavventure della Reggio Calabria. Bisogna fare una cosa per volta».
È raro sentirla parlare di politica.
«Non ne parlo volentieri. La politica è fatta di persone. Ce ne sono di oneste e disoneste. La destra è al governo perché è stata votata dal popolo, e ci sarebbe la sinistra se fosse stata capace di muoversi bene. La democrazia è questa».
Di temi come ad esempio l'immigrazione che pensa?
«L'Africa è stata colonizzata e sfruttata per centinaia di anni, chi lo ha fatto dovrebbe occuparsene, invece la abbiamo abbandonata».
Cos' altro la preoccupa?
«Ancora non abbiamo capito che se non ce ne prendiamo cura, i fiumi tracimano e portano via le case. Senza alberi le montagne cedono. Con il Covid c'è chi se ne è approfittato. Reddito di cittadinanza e Superbonus sono state belle idee, ma dobbiamo ricordarci che il nostro è il Paese descritto da Scola, nel film I mostri: Tognazzi insegna al figlio i trucchi per fregare il vigile, per non pagare le paste al bar, per saltare le file, insomma per fare il furbo. Non è bello, se ne pagano le conseguenze. Pure oggi dire a uno che è una brava persona è un po' come dargli del coglione. E ho detto tutto».
Diletta Leotta.
Estratto dell’articolo di Simona Marchetti per corriere.it il 29 giugno 2023.
Le critiche e i pregiudizi femminili accompagnano Diletta Leotta sin da quando era adolescente. «In seconda o terza liceo una professoressa mi fece una nota sul registro, perché distraevo la classe.
Avevo i leggings e la felpa, cosa che tra l’altro era obbligatoria, perché quel giorno avevamo Educazione fisica». Sono passati anni da allora, ma la conduttrice di Dazn è ancora il bersaglio preferito di molte donne e con l’avvento dei social è pure peggio, perché chiunque si sente autorizzato a scrivere qualunque cosa. Meglio se cattiva.
E lei non riesce a spiegarsi il motivo di tanto astio nei suoi confronti. «Proprio non lo so, vorrei chiederlo a loro e anzi mi aiuti lei a capirlo - ha chiesto la stessa Leotta a Camilla Baresani, che l’ha intervistata per il nuovo numero di “Grazia” - Forse, nel caso della giornalista Paola Ferrari che più volte mi ha attaccata, è dovuto al fatto che non ci siamo mai incontrate. Magari, se mi conoscesse, direbbe: “Scusate ho sbagliato”».
Anche gli uomini non le risparmiano volgarità assortite, ma non ha mai avuto paura che potesse capitarle qualcosa di brutto, sebbene in passato sia stata vittima di un episodio di molestie. «A volte ho provato l’imbarazzo di sentirmi tutti gli occhi addosso, sguardi fastidiosi, viscidi, oppure i cori volgari allo stadio, che per fortuna ora sono cessati.
Ho avuto una sola brutta esperienza, quando ero adolescente. Il professore di ginnastica, quello che ci faceva mettere i leggings, una volta mi ha dato uno schiaffetto sul sedere, e ha detto qualcosa tipo: “Mi fai inzuppare il biscotto”. Non sapevo che cosa volesse dire, non l’avevo capito. Sono tornata a casa e l’ho subito riferito a mio padre, che è avvocato. Quel professore è stato subito sospeso e mandato via dall’istituto».
Ad agosto la conduttrice diventerà mamma di una bambina e lei e il compagno Loris Karius sono al settimo cielo, devono solo sceglierle il nome. «C’è una discussione in atto. Al momento sono orientata tra Ofelia, Rose e Bella, ma credo che sceglierò all’ultimo, quando la guarderò negli occhi per la prima volta».
A proposito del portiere del Newcastle, con lui è stato amore a prima vista e a fare da cupido è stata Barbara Berlusconi. «Ero alle sfilate di Parigi con delle amiche. Siamo andate a cena all’Hotel Costes. Poi, quando è entrato lui, Loris, ha illuminato il locale, come se fosse entrato il sole. Ho detto alle ragazze: “Guardate, è entrato l’uomo della mia vita”. […]
Con noi c’era Barbara Berlusconi, che parla benissimo inglese e ha detto: “Dai, andiamo a conoscerlo”. Io non parlavo inglese, mi vergognavo, ma lei lo ha fatto sedere con noi e da quel momento non ci siamo più staccati».
Donatella Rettore.
Donatella Rettore. Estratto dell'articolo di Luigi Bolognini per "la Repubblica" il 7 marzo 2023
La Magnifica Rettore ora è anche dottore. E la cantante è ancora emozionata per il diploma in Management delle risorse artistiche assegnatole dallo Iulm qualche giorno fa: "Io una laurea non l'ho mai presa e questo era stato un cruccio dei miei genitori".
Che per lei hanno contato molto. Ne parliamo?
"Con grande piacere. Mamma Teresita aveva un carattere forte, era una bellezza tra Alida Valli e Bette Davis, era stata attrice nella compagnia di Cesco Baseggio. Però disapprovava fortemente che io facessi la cantante. Papà Sergio, irruento, rosso di capelli, genuino, ha avuto una storia incredibile durante la guerra, di cui non mi parlò mai, la scoprii solo negli anni Novanta".
Cosa gli accadde?
"In guerra era stato spedito in Jugoslavia, fu catturato dai tedeschi e spedito in un campo di prigionia. Alla liberazione con altri commilitoni dovette tornare in Italia a piedi, e si ritrovò nel campo di Mauthausen, scoprendo di colpo tutto l'orrore dei lager, del quale non aveva mai saputo nulla. Quando ricomparve in paese non lo riconosceva nessuno: era uno e 80 e pesava 30 chili. I partigiani gli diedero un elenco di ex fascisti su cui avrebbe potuto vendicarsi. Lui rispose che voleva solo vivere e lasciar vivere. Sarà anche che la nostra famiglia è stata segnata dai lutti. Io sono l'ultima di quattro figli, ma l'unica sopravvissuta al parto". [...]
Che contrasto con la cantante spigliata, allegra e anticonformista che abbiamo imparato a conoscere.
"[…] Mi spedirono in collegio dalle suore, un inferno, soprattutto con una che mi prese così male che ancora negli anni Ottanta, quando ero famosa, mi spediva lettere di invettive. Ma niente mi fermò, e riuscii a tuffarmi nella musica appena possibile […]".
Tra le sue prime conoscenze, Lucio Dalla.
"Bravissimo, e con un grande insegnamento: le canzoni semplici non vanno disprezzate perché sanno arrivare a tutti. Ma faceva davvero impressione dal vivo, per quant'era peloso, cosa su cui non amava che si scherzasse. Ma un giorno glielo dissi: sotto le ascelle aveva un toupet. […]".
[…]
A proposito di sesso parlava del Kobra che non è un serpente ma un pensiero indecente.
"In effetti non la si può nemmeno definire un doppio senso, perché il senso è unico e chiarissimo. Siamo sempre al discorso dello svegliare il Paese. E lo svegliai: l'idea che fosse una donna a pensare al sesso, e in quel modo, colpiva. Esposti giudiziari, lamentele di genitori, il sequestro del disco, e alla fine la censura. Che fu assurda: tagliò solo le parole "quando amo". Insomma, sesso e amore come cose diverse".
Una carriera, la sua, che è arrivata fino a Elton John.
"[…] Volai a Londra, dovevo starci un mese, ci restai quattro anni. Stavo a Oakley street, e ogni mattina dal panettiere incrociavo David Bowie, elegante come un lord, che si levava il cappello e mi salutava, ovviamente non sapendo affatto chi fossi. Elton aveva un fascino clamoroso, non per l'aspetto fisico, ma per la voce sublime e l'incanto al pianoforte, divenni amica di sua madre Sheila, eccentrica al punto di rubarmi una pelliccia fucsia e uscirci per strada coi sandali".
Ma in Italia faceva scandalo lei, istigando al suicidio.
"Certo, perché cantavo "dammi una lametta che mi taglio le vene". A parte che semmai raccontavo, che è diverso dall'istigare, sfuggivano a tutti il nonsense, il gioco di assonanze, il voler ironizzare sulla mania dell'horror, e anche il fatto che la morte fa parte della vita. Se lo capissimo tutti vivremmo assai meglio".
E lei come vive? Ha rimpianti?
"Io vivo di magnifici ricordi e di un presente che offre sempre novità. L'unica cosa che cambierei è che accetterei il ruolo che è stato di Giuliana De Sio in Io, chiara e lo scuro. Ma era un periodo davvero troppo pieno di cose".
Dredd.
Barbara Costa per Dagospia il 15 Gennaio 2023.
"Morto" un pene, se ne fa un altro! Il giorno che Rocco Siffredi appenderà il pene al chiodo, al porno mancherà ma il porno non si fermerà, perché, per un pene che va, ce n’è sempre un altro che ci dà e ci ridà, e in questo caso specifico è di Rocco poco più giovane, e più abbondante!!! Eccomi di nuovo a parlare di lui, ma come di lui chi!??? Lui, Dredd Il Grande!!! Lui, il pene più grosso del porno, 30 (ufficiali, ma sono di più) cm di porno grazia!
Dredd ha 51 anni e l’ha giurato: è pronto a pornare per altri 10, a fondo trapanare le più temerarie p*ssere in circolazione, e Dredd è di parola: mai ha pornato quanto questi ultimi tempi. Milf, teen, vecchie, nuove, ma meglio se due alla volta! A scorrere le nuove uscite, ti gira la testa, come assicurano giri alle ragazze infilzate da un così esagerato sviluppo penico! Scaricati il (e su il) 3some di Dredd con Nicole Doshi e Elle Lee, e quello di Dredd con Kylie Rocket e Scarlit Scandal, e guarda quest’ultima, come, golosa, gli lecca i testicoli…
Solo a sbirciare le foto di scena, ti viene una voglia… e che io al momento a forza mi faccio passare, ché voglio dirti dei grattacapi che a Dredd il suo caz*one dà, e di preciso: come si sta con una proboscide simile? Dredd magnificamente, chi gli sta intorno meno. Dredd dice che lui preferisce indossare gli slip e elastici e rinforzati rispetto ai boxer, la sua mazza vi sta meno libera ma più sotto controllo (ragazzi lo so, la questione mutanda diverge, la lascio aperta…), perché dice che le donne lì lo fissano, vestito, e che gli uomini lì vanno fissi a scherzare, e che il suo penone è fin troppo al centro dell’attenzione.
Va bene sul lavoro, è grazie a lui che Dredd fa la bella vita, e tuttavia, sarà per tale esuberanza di misure che non trova una moglie? Dredd ha avuto lunghe convivenze, e però vuoi per la gelosia del porno, vuoi per il suo essere troppo gattaro, o per il suo mood di vita old-style, non sono durate. Ma c’è una novità: ospite di un pod-cast, Dredd ha rivelato di essere in fase poliamorosa, e di dare il suo cuore e ogni suo cm d’amore a più donne insieme (Dredd è etero).
A cui vanno aggiunte quelle che "ama" sui set, e sul suo OnlyFans, e altrui. Se Dredd rivela che ci sono colleghe che si rifiutano di girare con lui e specie di farci anale (che è la leccornia che i suoi fan cercano e vogliono), ehi, sono manfrine e scuse, perché, dai, c’è la fila di attrici bagnate al solo pensarlo! Rifiutare di girare una o più scene nel porno è un diritto, sacro e inamovibile, e prepararsi fisicamente ad "accogliere" Dredd per una donna è oberante, sì, ma… a notare le prenotazioni di lavoro che ha Dredd, dove stanno tutte 'ste titubanti? Mah.
Dredd l’ha confessato: lui porna meglio oggi a 51 anni rispetto a quando ha iniziato nel 2009. Dredd smentisce che l’età comporti meno vigore. Lui sc*pa più e meglio ora, e lo prova e testimonia la connessione mentale e fisica che con le partner instaura. Le capisce meglio, di conseguenza sa come sc*parsele al meglio. Ma per reggere un ritmo tale, è dovere di un pornoattore, e più se è a 50 primavere e oltre, abbracciare dieta ferrea ed esercizio fisico importante.
E Dredd è alla ricerca di un nuovo personal trainer: l’ultima, una donna, non lo segue più, è la "colpa" è di Dredd. Lui ammette che, essendo questa personal trainer super preparata ma pure fascinosa… insomma… con lei Dredd ha avuto un (ma piccolo, eh!) principio di erezione, e per principio, in Dredd, sta per alzata evidente… Dredd se ne scusa, di questo "incidente", e con sincerissimo imbarazzo, ma la personal trainer l’ha mollato. Dredd ci tiene a precisare che lui il suo pene mai l’ha misurato, e nemmeno di circonferenza, è certo vi siano colleghi più dotati di lui, ma è lui a riscuotere un successo straordinario di pubblico.
E Dredd si è stancato: basta scrivergli sui social che il suo pene è allungato dal chirurgo! Il suo pene è come mamma l’ha fatto, ma che chirurgo! Se fosse davvero andato a farselo allungare, perché se lo sarebbe fatto rifare curvato a destra? (e pensa se non fosse curvo, quanto lungo sarebbe!!!) Si sfati questo mito: i pornoattori non hanno il pene chirurgicamente aiutato, ce l’hanno più lungo e largo della media per dono di natura. E poi un allungamento chirurgico del pene non può andare oltre i 2/3 cm, ed è riservato a seri e medici comprovati casi di micro peni.
Drusilla Foer.
Michela Auriti per “Oggi” il 29 Dicembre 2022.
La prima comune curiosità è quella di etichettarla: chi è Drusilla? Diciamo prima cosa non è: non un travestito - termine peraltro fuori moda non una trans e nemmeno una drag queen.
Drusilla Foer nasce dalla creatività dell'attore e regista teatrale Gianluca Gori, dunque è un personaggio. Ma anche oltre, se Vincenzo Mollica ha giustamente notato che «è stata inventata una persona».
C’è più lealtà e sincerità in questa maschera che altrove, più profondità. Drusilla, ironica, ti fa vedere le cose sotto un'altra prospettiva. Al punto che la curiosità sulla sua vera natura sfuma nella sostanza universale che è, semplicemente, quella umana.
Al timone di L'Almanacco del giorno dopo (fino al 13 gennaio nel preserale di Rai 2), l'artista si presta a qualche ragionamento sull'anno che verrà e i temi che le stanno più a cuore. Parla anche molto di sé Illuminando ora il personaggio, più spesso la reale identità. Drusilla dichiara «tra i 40 e i 70 anni» ed è apparsa per la prima volta su YouTube nel 2011. Il suo alter ego Gianluca Gori, fiorentino, di anni ne ha invece 55.
Drusilla, cosa prevede per i diritti civili? Con il nuovo governo potrebbe soffiare un vento...
«... di regressione. Siamo l'ultima nazione in Europa ad avere certe chiusure, quindi un'involuzione o una disattenzione rispetto a questi temi è un fatto di inciviltà. Ognuno può sostenere la propria opinione, ma è giusto che tutti abbiano la possibilità di scegliere.
Qualora non si predispongano, nella Costituzione, voci che permettano libertà di espressione della propria sfera affettiva e sessuale si è in un Paese non libero e incivile.
Detto ciò, se il popolo ha eletto questo governo, vuol dire che ha dato fiducia a quel tipo di pensiero. Io aspetto di vedere. Se dovesse venire meno la volontà di portare civiltà, invito tutti a scendere in piazza e a fare molto casino. Dopo però, non prima».
Si avvertono rumori di fondo sul diritto all'aborto. Perché la società continua ad avercela con le donne, con la loro libertà ad autodeterminarsi?
«L'aborto è un tema che mi turba. Non saprei dire se sono favorevole oppure no, ma certamente dev'esserci la libertà di farlo. La libertà è soggettiva, quindi non si può privilegiare il divieto rispetto a una scelta, laddove ci sia rispetto per se stessi e per gli altri.
Non si può oggettivare una morale comune. C’è un errore secolare, una narrazione che vede la donna un passo indietro all'uomo. Bisogna scalzarla. Il mondo femminile ha pari dignità e potenzialità rispetto a quello maschile. Nessuno fa a gara con nessuno, c'è spazio per tutti».
Ha detto: «Vorrei essere la paladina di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, sono tenuti ai margini». Che cosa veramente irrita la sua sensibilità?
«Ogni volta che c'è un recinto culturale rispetto a qualcosa. Per esempio poca libertà editoriale o artistica. L'omologazione del pensiero mi disturba, soprattutto quando è usata in funzione di un potere. Rende un popolo più vulnerabile, più gestibile».
Il suo amico Gianluca Gori, che le presta corpo e voce, la pensa come lei? Che rapporto avete?
«Siamo d'accordo su quasi tutto. Anzi, tolga il quasi: su tutto. Abbiamo la stessa calligrafia, la stessa visione della libertà, ma lui ha più volontà di me. È stato fotografo, pittore, molte cose. Però non so cosa ora faccia, tendo a non frequentarlo».
Quando è nata l'illuminazione di Drusilla?
«Una decina d'anni fa, mi pare. Tutte le cose che mi piacciono, a un certo punto si sono infilate in un imbuto: la scrittura, la rappresentazione, la musica, il teatro. Poi l'incontro con Franco Godi (compositore e produttore discografico, ndr) mi ha responsabilizzato. Ha responsabilizzato il personaggio».
Drusilla, lei ha avuto un anno impegnativo. L’esplosione dopo la partecipazione a Sanremo e ora la chiamano dappertutto, in teatro, al cinema, in tv. Il successo la sta stancando?
«Non è che stanchi il successo, cosa assai piacevole... Stanca il lavoro, mia cara! È consequenziale. Vorrei lavorare un po' meno, farmi una bella vacanza. Occuparmi degli interessi, ispirarmi, dormire. Ricaricare i pensieri, rinfrescare qualche convinzione».
È vero che lei pensa di non essere mai all'altezza?
«Si. Ho una sorta di pudore, perché sento la responsabilità verso le occasioni che mi propongono. Preferisco partire di rimessa per poi stupirmi. Ma penso che, quando uno fa il proprio lavoro con integrità e lealtà, alla fine ha quello che si merita».
Drusilla è arrivata al successo un po' tardi. Perché l'Italia non è meritocratica e non si è accorta di lei?
«No, semplicemente perché ha iniziato a lavorare tardi! Sulle spalle di uno che ha lavorato sodo tutta la vita».
Ah ecco: «l'anziana soubrette», come ama definirsi, è anche un po' sanguisuga.
«Ma si, un pochino. D'altra parte, una donna tale non potrebbe essere altrimenti».
Questa preponderanza di Drusilla affatica l'amico Gianluca?
«Ripeto: io tendo a non frequentarlo. Però sì, immagino di si. È un lavoro molto fisico e molto di pensiero, impegna tutto».
Posso chiederle se le manca un figlio?
«Ora no. Ma ci ho pensato quando ero molto giovane. Mi sarebbe piaciuto diventare genitore. Poi ho trovato luoghi per me più convincenti, più leali».
E’ felice?
«Sono una persona molto grata e la gratitudine è un bel sentimento. Insomma ho avuto moltissimo e non solo ora».
Origini toscane, di ottima famiglia. Com'è stata la giovinezza di Drusilla?
«Ricolma di affetto, di sollecitazioni alla curiosità e all'arte. Piena di libertà di andare verso ciò da cui si è attratti. Famiglia borghese con una grande fattoria a Siena, ma non è che si andava a zappare».
In un'intervista le hanno citato Hervé Foer, il marito scomparso di Drusilla (anche questo parte del personaggio creato da Gori, ndr) e lei ha detto: «È tutto quello che avrei voluto avere».
«La risposta perfetta, la sola che ho deciso di dare. Ha molte chiavi di lettura».
C'è stato un momento di commozione.
«Sono un'artista leale».
Che posto occupa l'amore nella sua vita?
«È cambiato durante gli anni. Adesso mi godo la gestione libera del mio tempo, senza il desiderio di stare con qualcuno. Sono single, si».
E il sesso?
«Ne ho fatto moltissimo, ho battuto qualsiasi media. Ora meno. Ma se anche non ne facessi più, sarei a posto».
Divagazione. Noto una sottile fede d'oro all'anulare di Drusilla e, sopra, un'altra più spessa con un brillantino. Lei spiega: «La prima non so di chi sia, è scomparsa l'incisione all'interno. L'ho trovata in casa. Potrebbe anche essere di un uomo, perché in famiglia gli uomini avevano le dita magre. L'altra è l'anello di fidanzamento che la mia mamma diede al mio babbo».
Drusilla, lei è assolutamente trasversale: mette d'accordo tutti, senza distinzione di genere e di età. Come se lo spiega?
«Non mi chiedo mai perché piaccio, piuttosto m'interrogo quando non piaccio. Io m'interesso a chiunque, che sia un bambino, una borghese, un assistente sociale, un pusher. C'è sempre qualcosa di valore in una persona.
E il grande dono che ho avuto nella mia educazione, andare oltre il primo impatto. Ma ci sono cose che non perdono: la tirchieria e la furbizia, il classismo. Però non ho pregiudizi e sono disposta a cambiare opinione (Nel monologo a Sanremo diceva: «L'atto più rivoluzionario che si possa fare è l'ascolto, per essere certi che le nostre convinzioni non siano solo convenzioni, ndr). Amo le persone piene di inciampi, di luminosità. E mi piacciono molto le contraddizioni».
Bè, lei è una contraddizione vivente.
«Un po' si. Ma non in quello che faccio».
Il successo le ha dato alla testa?
«Macché, mi sento sempre in colpa. Quando sono stata al festival di Venezia, mi hanno dato due carabinieri per muovermi: pensavo fossero tutti pazzi! La celebrità non è una mia tensione, alla mia età ambisco a fare le cose bene e che abbiano un senso. Ancora oggi sul lavoro mi chiamano Drusilla Führer».
E se tutto dovesse finire, anche in Rai, ce l'ha un piano B?
«Si, so fare tante cose. Autorato, regia, e se non è tv è teatro. M'invento un altro lavoro: magari in un bar e senza difficoltà. Ne ho fatti tanti, sa? E poi io vivo con poco. Mi compro un maglione l'anno ma di ottima qualità. Metto quello che ho. Già mi è sembrata una follia farmi sei vestiti per Sanremo che poi non indosso più. È una cosa che mi innervosisce».
Come sarà il suo 2023?
«Uscirà un mio disco di inediti, molti donati da musicisti come Mogol, Tricarico, Mariella Nava, Renzo Rubino, Pacifico, Pino Donaggio. Forse un po' di cinema e poi come sempre teatro. Spero che rimanga del tempo per me e per gli altri. Vorrei una vita un po' più normale. Ma sono tanto fortunata».
Si è fatta qualche amicizia nel mondo dello spettacolo?
«Pino Strabioli lo frequento da sempre e voglio molto bene a Piero Chiambretti. Ho un rapporto affettuoso con Ornella Vanoni e Valentina Persia, che è diretta e fragile come me».
Ha accennato ora alla sua fragilità. Ci sono momenti in cui Drusilla va consolata?
«Non aspetto la consolazione, ma mi piace la protezione. Le persone con cui lavoro, il mio team, mi proteggono tutti».
Perdoni la domanda: lei ha mai avuto periodi cupi, è mai andata dallo psicologo?
«Ma certo! Allo stesso modo in cui si va dal parrucchiere. Ci sono stati momenti di grande confusione nella mia testa».
E ci va ancora oggi?
«No, basta. Ormai si fa con quello che si ha».
Ed Sheeran.
Ed Sheeran rivela: «A mia moglie è stato diagnosticato un tumore mentre era incinta». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.
Il cantautore britannico ha annunciato l’uscita del nuovo album «Subtract», nato dopo un periodo di profondo dolore personale
Arriva il 5 maggio «-» («Subtract»), nuovo album di Ed Sheeran che conclude la sua serie di dischi intitolati con simboli matematici. Si tratta di un lavoro che va per sottrazione, appunto, riportando la superstar inglese, 32 anni, a una dimensione cantautorale acustica e che nasce da un periodo di profondo dolore personale. A raccontarlo è stato lui stesso con un post su Instagram: «Stavo lavorando a “Subtract” da un decennio, cercando di scolpire l’album acustico perfetto, scrivendo e registrando centinaia di canzoni con una visione chiara di come pensavo avrebbe dovuto venire. Poi, all’inizio del 2022, una serie di eventi ha cambiato la mia vita, la mia salute mentale e, infine, il modo in cui vedo la musica e l’arte. Scrivere canzoni è la mia terapia. Mi aiuta a dare un senso ai miei sentimenti. Ho scritto senza pensare a come le canzoni sarebbero state, ho scritto solo quel che saltava fuori. E in poco più di una settimana ho sostituito il lavoro di un decennio con i miei pensieri più profondi e oscuri».
Dopo questa premessa, Sheeran passa a spiegare che cosa è stato a portarlo a questo cambiamento: «Nel giro di un mese, mia moglie incinta si è sentita dire di avere un tumore, senza possibilità di cura fino a dopo il parto. Il mio migliore amico Jamal, un fratello per me, è morto improvvisamente. E io mi sono ritrovato in tribunale a difendere la mia integrità e la mia carriera di cantautore. Mi sono ritrovato in una spirale di paura, depressione e ansia. Mi sembrava di affogare, con la testa sotto la superficie, guardando verso l’alto senza riuscire a riemergere per respirare. Come artista, non mi sembrava di poter presentare al mondo con credibilità un lavoro che non rappresentasse accuratamente il punto in cui mi trovo e come ho bisogno di esprimermi in questo momento della mia vita. Questo album è puramente questo. Apre la botola della mia anima. Per la prima volta, non sto provando a realizzare un disco che piacerà alla gente, sto solo facendo uscire qualcosa che sia onesto e fedele a dove mi trovo ora nella mia vita adulta. Questo è ciò che ho scritto a febbraio scorso nel mio diario e il mio modo di capirci qualcosa. Questo è “Subtract”».
Sheeran non dà altre informazioni sulla salute della moglie, Cherry Seaborn: la coppia, che si conosce da quando entrambi erano poco più che bambini, è notoriamente riservata e Seaborn non è un personaggio pubblico. Quel che si sa è che i due hanno avuto la seconda bimba, arrivata due anni dopo la primogenita Lyra Antarctica, a maggio 2022 e che il cantautore aveva rivelato che la vita con due figlie era «bellissima». Il riferimento al tribunale, invece, deriva dalle accuse di plagio nei suoi confronti: il cantante è stato citato in giudizio per presunta violazione di copyright nei confronti di un brano di Marvin Gaye, «Let’s get it on» del 1972, simile, a quanto sostiene l’accusa, al suo successo «Thinking out loud».
Edoardo Bennato.
Edoardo Bennato: «Notti magiche non volevo farla. Ho 77 anni anni ma me ne sento 55». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera domenica 30 luglio 2023.
Il cantante: «Corona mi chiama “Alpino”. Dal Papa mia figlia andò sola: io feci tardi e non mi svegliai». L’input per fare musica è venuto da sua madre «papà invece si svegliava alle 5 per andare all’Italsider»
Alle quattro di notte, Edoardo Bennato allunga le gambe, si stira sulla sedia, apre il cellulare e si mette a declamare una chat di WhatsApp fra lui e Mauro Corona, lo scrittore, come se potessimo stare qui fino a domani mattina. Nella hall di questo hotel di Bergamo ci siamo solo noi due e il suo manager che ormai gira attorno al nostro tavolo con sguardo da condor. Bennato, 77 anni, è nel pieno di un tour, ha appena fatto due ore e mezzo di concerto saltando che neanche Mick Jagger. Sta raccontando di quando nel ’69 Lucio Battisti gli dava uno strappo sulla sua Duetto e gli diceva «ahò, non te preoccupa’ verrà il momento tuo». E di quanto a Fabrizio De Andrè piacesse stare con lui e i suoi «amici del cortile», quelli cresciuti con lui a Bagnoli, gli stessi musicisti che sono crollati e si sono ritirati assieme al portiere di notte due ore fa. Dice: «Fabrizio schifava tutto il mondo della musica, tranne noi. Stava sempre con una sigaretta accesa in una mano e un whisky nell’altra. Posava il whisky solo per accendere una nuova sigaretta dall’altra sigaretta. Ultimamente, come lui, ho visto solo Mauro Corona, ma lui va a vino… Le leggo i messaggi… Mi chiama “vecio alpino” pure se sono di Napoli. Bennato legge e ride sotto gli occhiali scuri da rockettaro. Per cominciare, gli avevo chiesto come facesse a essere così in forma e lui, con quell’aria beffarda tutta sua: «Da una parte, ci lamentiamo della vulnerabilità di noi esseri umani, dall’altra, predichiamo buon senso, ecologia, evitare cose che ci fanno male e che invece assumiamo in modo schizofrenico, perché sono schizofreniche la nostra condizione singola e collettiva. La maggioranza degli umani va allo scatafascio come guidata da Lucignolo nel Paese dei balocchi».
Quindi? Come fa a stare così in forma?
«Potrei dire: lo sport. E in più, appena percepisco che qualcosa non mi quadra, lo evito. A 15 anni, trovai quegli oggetti strani: le sigarette. Ne provo una e dico: che schifo. E tutti: sì, ma poi ti abitui. Siamo un pianeta di masochisti. Io sono punker isterico perché vivo in una società che si dice acculturata, si vaccina e poi si fa male in modo violento, con alcol, fumo, droghe…».
Lei fa rock e non ha mai preso droghe?
«Il mio modo di essere eversivo non è questo. Mi piace la vita, un prato verde, giocare a calcio, inebriarmi sul windsurf del rumore del vento. Le stavo parlando dello sport: lo sport è stringere la mano all’avversario che ti ha superato. Quindi, è un’arte nobile. Però c’è una differenza fra sport e attività artistica: nello sport, un numero sancisce la tua capacità rispetto agli altri; mentre nell’arte, nella musica, tutto passa attraverso le forche caudine dei media. L’ho imparato quando, dopo nove anni di gavetta, uscì il mio primo album, Non farti cadere le braccia, e il direttore della Ricordi mi disse: Un giorno credi è bella, Una settimana e un giorno pure, però, a Radio Rai dicono che hai la voce sgradevole e non le trasmettono, quindi, per noi, finisce qui. Ti consiglio di cambiare mestiere».
Lei si era appena laureato, però non si mise a fare l’architetto. Perché?
«Perché, a Londra, mi ero costruito un tamburello a pedale come gli artisti di strada. Scrissi dei pezzi punk e mi misi a suonarli davanti alla Rai: Che bella città; Salviamo il salvabile; Arrivano i buoni, “… arrivano i buoni e hanno le idee chiare e hanno fatto un elenco di tutti i cattivi da eliminare”. Passa un direttore della Rai e mi porta a un Festival a Civitanova Marche dove l’intellighenzia di sinistra pensò che potevo rappresentare l’insoddisfazione giovanile. M’iscrissi a tutti i festival, facevo quattro o cinque brani compreso Uno buono, sfottò a Giovanni Leone. Nel ’73, era concesso sfottere il presidente della Repubblica, anzi, era una nota di merito».
Stavolta, arriva il successo.
«Ero protetto da una sorta di entità che sovrintende cultura, arte e musica, poi, l’entità si rese conto che non ero controllabile. Ma recriminare non mi è concesso. Va bene così, perché fare rock mi diverte e quello che importa è passare vibrazioni positive a chi viene ai concerti».
L’«entità» l’abbandona perché lei non è ascrivibile né alla destra né alla sinistra, perché, in fondo, in Che bella città spernacchiava sia Faccetta nera sia Bandiera rossa?
«Nel 2016, ho scritto Pronti a salpare , sugli immigrati, e nessuno l’ha fatta sua. O, nel 2003, Fausto Bertinotti disse che tutti avrebbero dovuto ascoltare Bennato, ma pure lì, l’unica cosa che è cambiata è che ora ci sentiamo spesso noi due per parlare di geopolitica. Solo che Fausto divide il mondo in buoni e cattivi, io parlo di umanità adulta e umanità bambina. Sostengo che la famiglia umana delle latitudini dove c’è un’escursione termica forte fra le stagioni ha progredito, dovendo aguzzare l’ingegno per adattarsi ai climi mutevoli, diversamente dall’umanità bambina dove la temperatura è più costante. A partire da Cristoforo Colombo, le due umanità non si sono riconosciute ed è proliferato il razzismo».
Com’era fatto il Sud da cui è partito lei?
«Papà si svegliava alle cinque, prendeva la bici, andava all’Italsider. Mamma si organizzava per far sì che lo stipendio bastasse, non avevamo frigo né televisore, ma, allo stesso tempo, lei voleva che noi tre figli avessimo sempre qualcosa da fare, per cui, d’estate, ci cercò un maestro di musica. L’ozio, per lei, era il male».
Non voleva sapervi scugnizzi per strada?
«Sì, finì che io avevo tredici anni e col Trio Bennato stavamo già in America, a suonare sulle navi da crociera, avevo passato Gibilterra, visto continenti di persone con la pelle nera. Ho conosciuto Salvador Allende, faceva il medico e non si faceva pagare dai poveri, però era circondato dai capipopolo incapaci».
Dopo, si laureò solo per far felice i suoi?
«Mi iscrissi ad Architettura a Milano perché lì c’erano le case discografiche, e io volevo fare la musica, ma certe cose le fai per input che ti arrivano in modo subliminale dalla mamma. Gli uomini che hanno stima della mamma sono uomini che amano e rispettano le donne e infatti io, le donne, le ho sempre rispettate».
La sua era la madre di «Viva la mamma»?
«Maestra di scuola, donna senza tante ciance, mise su un asilo dove sceglieva le maestre guardando l’affetto che avevano per i bambini».
Lei è stato il primo italiano a essere definito punk. Che ne sapeva del punk?
«Era il ’73, pure in America arrivò dopo. Era il mio modo istintivo di non essere definito e di cantare un mondo che non è definibile. Per esempio, “sul giornale c’è scritto puoi fidarti di me. Il peggiore di tutti si è scoperto chi è”. Poi, leggi i quotidiani e ognuno ha il suo cattivo. Io ho cantato contro la guerra, contro il papa, ho cantato: affacciati affacciati, benedici, guardaci, tanto sono quasi duemila anni che stai a guardare. E ho irriso pure me se stesso. Ho detto che sono solo canzonette e ho scritto Cantautore: tu sei saggio, tu porti la verità ah ah ah».
Nel 1980, fu il primo a riempire San Siro.
«Ho potuto farlo perché ero circondato dai compagni d’infanzia, quelli della scala B, della scala D… Abbassammo il biglietto anche a mille lire, mentre per i Pooh ce ne volevano magari dieci. E facemmo 15 stadi in 30 giorni, mezzo milione di presenze. Invece, negli anni ’70, ai concerti, arrivavano i picchiatori, fascisti pure se non erano di destra. Ci menavano quelli di Avanguardia Operaia, di Lotta continua. A Pesaro, nel settembre ’77, siccome avevamo suonato alla Festa dell’Unità, arrivarono in 15 scandendo: Bennato, Bennato, il sistema ti ha comprato. Pensavano di farci paura, ma io dissi: chi sono questi scornacchiati? E io e i miei gli saltammo addosso lanciandoci dal palco. I figli di papà se la videro con noi figli di operai. Io mi presi una coltellata alla schiena, ma ogni volta erano pugni, sprangate».
A quale sua canzone lei è più legato?
«A Le ragazze fanno grandi sogni, perché individuo il mondo femminile come depositario del buon senso che manca a noi maschi. Noi abbiamo perso ogni legame con la natura».
Si diceva che l’avesse scritta in memoria di Paola Ferri, la fidanzata che perse nell’incidente del ’95, mentre l’accompagnava a casa.
«Era una studentessa di Pedagogia. Guarda caso, figlia di contadini: era propositiva, pratica, piena di prospettive. Ma parliamo d’altro».
Le chiedo quanto è stato importante l’amore, per lei, dato che non l’ha cantato tanto.
«Certo che l’ho cantato. Una settimana un giorno fu tra le prime canzoni che scrissi: vorrei che mai mai mai mai mai nessuno al mondo mai potesse rubarti, portarti via lontano…».
Della mamma di sua figlia Gaia non si sa niente. State ancora insieme?
«Certo. Gaia, 18 anni, l’abbiamo fatta crescere nell’ armonia, infatti, è stupenda, sa fare tutto, è per me quello che è stata mia madre. L’ho avuta a quasi 60 anni con una ragazza che non solo l’ha fatta bella, ma che vive per lei. Suo padre me l’aveva detto: Silvana, da sempre, vuole solo diventare mamma. Io avrei voluto una squadra di calcio, sono pure un esperto di cambio pannolini. Penso che i figli ti aggancino alla realtà».
Perché ha attinto tanto alle favole? Ha usato Pinocchio, Peter Pan, Mangiafuoco…
«Perché c’è nelle favole tutta la schizofrenia di cui le parlavo. Pensi al pifferaio: salva la città dai topi, ma poi la gente non lo sostiene quando il sindaco non vuole dargli il milione che gli ha promesso. Parla della gente che, quando deve far valere i propri diritti, non lo fa».
Com’è nata «Un’estate italiana»?
«Quella sigla d’Italia ’90 non volevo farla, sapevo che non me l’avrebbero perdonata. Giorgio Moroder ci mise la musica, io e Gianna Nannini i testi. L’espressione “notti magiche” la misi io, ma era dell’amico Gino Magurno. La frase “e dagli spogliatoi escono i ragazzi siamo noi” è di Gianna. Avevo ragione, comunque: un critico musicale mi disse che ero stato un eroe finché non mi ero messo a sgambettare col pallone».
Ora, alle quattro, lei, quanti anni si sente?
«Come dice mia figlia, sempre 55. Lo disse pure a Papa Ratzinger quando fu ricevuta. Padre Georg le chiese dov’ero. E lei: ha fatto tardi e non si è svegliato, pensa di avere sempre 55 anni».
Dagospia sabato 14 ottobre 2023. LA PRECISAZIONE DI "STRISCIA LA NOTIZIA"
Caro Dago,
Edoardo Costa – nell’intervista concessa alla giornalista Rosanna Scardi e pubblicata sul Corriere della Sera, edizione di Bergamo, e da voi ripresa – parla di «accanimento mediatico» da parte di Striscia la notizia e afferma che «Antonio Ricci, da genio della comunicazione, tutti i giorni ripeteva la stessa bugia». Ma i fatti hanno dimostrato che il bugiardo è lui.
Infatti, Striscia si è limitata a documentare, a partire dal 2008, i comportamenti scorretti che l’attore ha tenuto per il tramite della onlus C.I.A.K., da lui fondata per aiutare i bambini in Africa e in Brasile. Delle migliaia di euro raccolti per beneficenza, solo una minima parte sarebbe effettivamente stata utilizzata per dare assistenza ai bambini.
Comportamenti scorretti che lo stesso attore ha ammesso pubblicamente in varie occasioni, dicendosi pentito dei suoi errori nella gestione dei fondi della onlus. Condotte illecite smascherate da Striscia, e successivamente confermate in sede processuale.
Per amore di cronaca facciamo presente come sulla vicenda si sia anche pronunciata la Corte di Cassazione, e per non sbagliarci preferiamo citare un passaggio della sentenza n. 17114 del 2019:
“Edoardo Cicorini è stato condannato alla pena di giustizia in ordine al reato di truffa ed appropriazione indebita, per avere, con una serie di iniziative promozionali, indotto diversi benefattori a consegnargli, nella qualità di presidente di una ONLUS, somme di denaro, asseritamente volte a sostenere iniziative solidaristiche e per essersi poi appropriato delle somme non contabilizzate (pari a 205.000 euro), di cui aveva la disponibilità in ragione della predetta qualità”.
Il Costa riferisce oggi che ci sarà una revisione della sentenza, ebbene, in caso di modifiche della decisione dei Giudici, non mancheremo di darne notizia.
INTERVISTA A EDOARDO COSTA. Estratto dell’articolo di Rosanna Scardi per corriere.it sabato 14 ottobre 2023.
All’apice della popolarità come attore di soap, uno scandalo travolge la sua esistenza e perde tutto. Dopo il crollo, la rinascita. Edoardo Costa racconta la sua trasformazione nel libro «The Change» (Santelli Editore). Domenica 15 ottobre, alle 17.30, la presentazione tra le opere d’arte della galleria Mazzoleni, in largo Belotti a Bergamo. La vita dell’attore cambia nel 2008 quando alcuni servizi televisivi di «Striscia la notizia» avanzano dubbi sulle somme da lui raccolte, tramite la sua associazione Ciak (Construction intelligent association kids), e destinate ai Paesi poveri.
Costa, dove vive ora?
«Principalmente a Los Angeles, ma sono spesso a Miami e ho casa anche fuori Milano. Sono trent’anni che vivo tra l’Italia e gli Stati Uniti, dove ho studiato recitazione. L’America mi ha adottato. Ma amo l’Italia (nel bene e nel male)».
In Italia è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha portato alla sua condanna per appropriazione indebita. Il suo libro parte da qui. Perché?
«Perché è stato il punto di leva, ciò che può spostare i macigni. La vita ti mette davanti l’opportunità di andare in profondità, di vivere appieno. Ero preso dai piaceri illusori in una vita di eccessi, da rockstar. Ora sono cambiato».
Modello e attore di «Un posto al sole», «Beautiful», «Vivere», «La notte prima degli esami» e tanti altri film. Come è finito al centro dell’inchiesta?
«L’inchiesta è nata dall’attacco mediatico di “Striscia” ed è seguito un iter giudiziario lunghissimo. Con la mia associazione Ciak avevo fatto cose straordinarie: ho costruito un asilo in Senegal, aiutato le onlus in Afghanistan, Kenya, Brasile, India. Mi sono fatto aiutare da persone esterne per realizzare libri fotografici e calendari, pagandole in nero. Mancavano le ricevute di 180 mila euro versati a loro in cinque anni. I reati fiscali sono caduti in prescrizione. I miei legali hanno rintracciato chi ha ricevuto i pagamenti in nero e ci sarà una revisione del processo. Ma, allora, avevo perso tutto: la mia scuola, due agenzie, due case di produzione, la mia onlus, i miei libri sono andati al macero».
Come si è sentito?
«Devastato. Non mi sapevo spiegare la ferocia dell’accanimento mediatico. Antonio Ricci, da genio della comunicazione, tutti i giorni ripeteva la stessa bugia. Provavo rabbia e un fortissimo desiderio di vendetta, anche perché a soffrire erano anche i miei genitori, mia sorella e miei nipoti».
Cosa direbbe a Ricci?
«Lo ringrazierei. Grazie al suo accanimento sono diventato la persona che sono oggi. Il cambiamento può arrivare in mille modi, da un problema di salute, un lutto. Nel mio caso, perdendo la reputazione».
Com’era la sua vita prima?
«Spingevo sull’acceleratore: di giorno lavoravo, poi c’erano la palestra, i meeting, gli eventi, le ospitate in tv. La droga era parte del gioco, quell’additivo che ti permetteva di farcela».
(...)
Tra i suoi maestri c’è lo yogi indiano Sadhguru, che il primo ottobre, all’Allianz Cloud di Milano, ha tenuto il più grande programma di meditazione organizzato in Italia. Lei c’era?
«Ero a Bologna per presentare il mio libro, sono tornato per stare con lui, è un trasmettitore di saggezza, insegna senza insegnare a vivere con gratitudine, compassione e amore».
È vero che ha fatto il provino per il «Grande fratello» e sarebbe stato scartato?
«È una fake news. Ma se ci fosse un reality dove posso dire ciò che penso, per elevare il livello di consapevolezza, ci potrei pensare… ».
Cosa guarda in tv?
«Non ho la tv. Ho visto qualche spezzone di “Belve” sui social e devo dire che la Fagnani è bella e brava. Mi è sempre piaciuta. I personaggi che intervista, no. Ma questa è l’Italia».
Edoardo Vianello.
Edoardo Vianello: «Non rinuncio ai miei “altissimi negri”». Carlo Cambi su Panorama il 29 Maggio 2023.
Il padre dei grandi tormentoni estivi: «Le polemiche sui “Watussi” mi nauseano. Il politically correct è una fisima della sinistra snob. Ho chiesto perché i partigiani non condannavano il comunismo e attendo ancora risposta»
«Essere che? Uomo pensante? Per esser detto fesso, un giorno e non adesso». Questo verso s’attaglia perfettamente alle polemiche che assediano con i ritmi della cancel culture chi altro non voleva fare se non cantare. Sono i versi di una raccolta, Oltre il sensibile, che forse lo stesso autore non voleva fosse diffusa. Quell’uomo era Alberto Vianello, uno dei poeti futuristi del cerchio di Filippo Tommaso Marinetti, e quei versi sono riemersi dopo che i figli Tunni (pittrice di gran talento) ed Edoardo li hanno cercati, scovati e raccolti. Edoardo a suo modo è un futurista della chitarra e della canzone e a 84 anni suonati (in tutti i sensi) si sente dire che quegli «altissimi negri» di una delle sue canzoni più celebri, I Watussi, sono politicamente scorretti. Eppure lui, cugino di Raimondo, ha fatto dello spettacolo la proiezione di una vocazione: quella di produrre cultura che fosse fruibile da tutti. Sulle orme del padre manager per necessità, poeta per vocazione. La vicenda artistica di Edoardo è lunghissima e proficua. Con Franco Califano, che lui ha scoperto, fondò la Apollo Records, la casa discografica che ha lanciato Renato Zero, Amedeo Minghi e i Ricchi e Poveri. Quasi nessuno sa che La partita di pallone che ha consacrato al successo Rita Pavone l’ha scritta lui. Ed è così forte la sua impronta stilistica che gli si attribuiscono altri brani non suoi - uno su tutti Stessa spiaggia stesso mare che è del romagnolo Piero Focaccia - che stanno però nel filone della cosiddetta «scuola romana» disimpegnata e allegra (Meccia, Fontana, Fidenco) che negli anni Sessanta si contrapponeva ai «genovesi» intimisti e cupi.
Vianello è Festivalbar, è Sanremo, è Canzonissima, è Mina ed Ennio Morricone, è una carriera lunga quasi quattordici lustri. Eppure tra le pieghe della sua produzione si scoprono non solo «pinne, fucile ed occhiali», non solo «abbronzatissima». Ci sono testi come quello di O mio Signore (1963) che recitano: «Non ho avuto tanto, eppure sono contento… grazie per tutto quello che hai fatto per me.». Forse è un anticipo di bilancio che Edoardo Vianello, all’annunciarsi di una nuova estate, accetta di fare con La Verità. Anche per replicare ad alcune polemiche, per rivendicare un’esigenza di verità da chi pronuncia molto spesso la parola libertà senza però riuscire a fare la rima baciata. Si pensa all’estate e viene in mente Vianello: Abbronzatissima, Fucile ed occhiali, la stessa Come dondolo hanno riempito le vacanze degli italiani da decenni: li hanno fatti ballare in discoteca come sotto l’ombrellone, sono state la colonna sonora dei viaggi verso la spiaggia. Vianello è un uomo solare? «Sono una persona solare, a prescindere dalle mie canzoni estive. Credo di aver composto ciò che sono come spirito». Osservando ciò che accade - prezzi in salita dei viaggi, degli alberghi con persino le spiagge sotto i riflettori dell’Europa, purtroppo la riviera romagnola devastata dall’alluvione, anche se hanno già messo tutto a posto - sarà un’estate da tormentone o tormentata? «Sarà un’estate tormentata, anche grazie a qualche mio... tormentone. C’è qualcosa in preparazione, vedremo... o forse ascolterete». C’è un suo verso che è tornato di moda perché lo ha ripreso Myss Keta che ha inserito anche la sua voce nel disco e nel video: che finimondo per un capello biondo. Ma questo mondo visto da lei che lo ha fatto ballare, lo ha fatto divertire, visto da lei che ha 84 anni e ha ancora la freschezza di un ragazzino (a proposito, come fa?) è un finimondo? Ci sono dei valori che lei non riconosce più? «Non è ancora un finimondo, ma ci stiamo arrivando. Credo che sia ormai giunto il momento di rimboccarci le maniche e metterci a lavorare seriamente come se stessimo uscendo da una sanguinosa guerra. I valori che non riconosco più sono quelli della mancanza di rispetto nei confronti del prossimo da parte di troppe persone arroganti e impreparate».
Edwige Fenech.
Estratto dell'articolo di Giovanna Maria Fagnani per il “Corriere della Sera” il 18 Settembre 2023
«Ho cresciuto mio figlio da sola, ma avevo anche l’aiuto dei miei genitori: mio papà è stato papà anche per mio figlio Edwin e mia mamma era una seconda mamma». Edvige Fenech, classe 1948, icona del cinema italiano degli anni 70 e 80, in particolare della commedia sexy, è stata una «ragazza madre».
Suo figlio Edwin Fenech, oggi produttore cinematografico, è nato quando aveva 22 anni e «sicuramente gli è mancato il papà vero, è normale. Ma è stato un bambino circondato da un tale amore, che, bene o male, se ne è accorto meno di quello che avrebbe dovuto accorgersi». L’attrice lo ha raccontato a Verissimo.
Un’esperienza che è stata difficile ha detto a Silvia Toffanin, «per me, come per tutte le altre. A quell’epoca c’erano delle ragazze madri, ma ce ne sono molto più oggi, perché la donna è molto indipendente». […] Il padre naturale? Edwin «Non l’ha mai cercato».
Edvige Fenech, nata in Algeria, si era sposata giovanissima, a 17 anni. «Contro il volere solo di mio papà, mia mamma era d’accordo. Ero innamorata, forse incosciente ma sono gli sbagli che fanno i ragazzi». Un’unione durata poco: «Se non sbaglio 14 mesi e questo mi dispiace molto. Non è un bel ricordo e ho cancellato quel periodo della mia vita». […]
Fenech ha ripercorso un episodio di molestie, durante un provino. «Succedeva, soprattutto alla mia epoca gli uomini erano ancora più maschilisti di quello che sono oggi. Una di quelle situazioni era veramente da denuncia, avevo forse 20-21 anni e non ero nessuno invece quella persona era molto importante. Chi avrebbe creduto a una giovane straniera che denunciava una persona simile?», ha raccontato a Silvia Toffanin.
Quell’uomo la aggredì: «Uscii da quel palazzo coi vestiti tutti strappati. Mi aveva dato appuntamento nel momento in cui la troupe era andata in pausa». Fuggì e si rifugiò in una stazione di servizio lì di fronte. «Chiedo al signore di chiamarmi un taxi, mi tenevo la camicia e lui mi dice: vuole che chiamo la Polizia? Io risposi di no».
Denuncerebbe oggi? «Non lo so. Oggi è più facile essere creduti ma c’è ancora molto da fare. Allora mi avrebbero presa per una mitomane» ha concluso la Fenech […]
Edwige Fenech: «Anch’io sono stata molestata, mi salvai tirando ginocchiate. Le docce sexy? Film carini». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023
«Il mio primo marito era gelosissimo: avevo 17 anni, lui 26. Quando scoprii che aveva anche un’amante, tornai a casa da mamma e papà». «Una volta ho avuto l’intero appartamento riempito di rose antiche: non si poteva camminare e il profumo stordiva»
In principio a Edwige Fenech ho chiesto quante vite ha avuto. «Più dei gatti», ha risposto. Abbiamo provato a contarle e ci siamo perse. Grossomodo: bambina francese di madre italiana e padre maltese nata benestante in Algeria; poi, profuga e povera in terra di Francia; modella; attrice icona di film erotici italiani; attrice di film d’autore; star della domenica e del sabato sera tv; produttrice di fiction e di film di successo, divorziata a 17 anni e ragazza madre a 19; signora della Roma bene quando è stata compagna di Luca di Montezemolo; «esule» in Portogallo dal 2015 e ora di nuovo al cinema con Pupi Avati, con un film, fra l’altro, primo al botteghino fra gli italiani.
Se le chiedo l’inizio di tutto?
«Quando a 14 o 15 anni, alta già come adesso, vengo fermata per strada, a Nizza, per dire una battuta in un film. Era Toutes folles de lui di Norbert Carbonnaux. Dovevo dire una parola che non conoscevo e non capivo e mi fecero rifare il ciak 32 volte: una figuraccia tremenda. La parola era “mantenuta”: “vuoi fare di me la tua mantenuta?”. Mamma era con me, ma anche lei non sapeva che cosa significasse. Pensai che non avrei mai rimesso piede su un set».
Invece, ha fatto una settantina di film da attrice, molti da star della commedia sexy, e una trentina da produttrice. Perché cambiò idea?
«Facevo l’indossatrice e, a 18 anni, vinsi il concorso di Lady Francia. Da lì mi portarono alla finale di Lady Europa a Cortina, dove arrivai seconda. Di nuovo, un agente mi fermò per offrirmi un ruolo, ma io e mamma ce ne tornammo a casa. Poi, arriva un telegramma: contratto pronto da firmare a Roma stop. Ci ritrovammo a Cinecittà, un mondo a noi totalmente estraneo, io non parlavo italiano. Mi dissero di firmare dove c’erano le crocette. Il film era Samoa regina della giungla. Avevo capito solo che sarei stata una specie di Tarzan in gonnella. Tutte le mattine, mi spalmavano di crema marrone. La sera, per ripulirmi, mamma impiegava un’ora e mezzo».
Come era la Edwige bambina in Algeria?
«Timida, giocavo poco con gli altri bambini, leggevo tanti libri, studiavo danza classica. Ho ricordi stupendi di spiagge e di strade romane coperte dall’acqua. Ricordo le pinne e la maschera bianche, piccole piccole, con le quali stavo sempre in mare a nuotare. Quando l’Algeria non è più stata francese, siamo andati in Francia, ma non ci volevano: non eravamo i benvenuti né lì né in Algeria, non avevamo più una casa. Papà ci ha messo dieci anni per mettersi in regola coi permessi, aprire un garage».
Perché dal 2015 vive in Portogallo?
«Ho sentito il bisogno di cambiare aria. Ero un po’ delusa da come andava la carriera: non mi vedevo in Italia ad aspettare che arrivasse un ruolo giusto per me. La scelta è caduta sul Portogallo perché avevo visto un documentario, sono andata a visitarlo e mi è piaciuto. Ci ho portato la mamma e la gatta. E mio figlio Edwin con la moglie e i bambini l’hanno amato tanto e, quando hanno lasciato Shanghai, sono anche loro venuti a vivere qui. Sono uscita di scena al momento giusto e volevo tornare nel modo giusto. In questi anni, ho rifiutato tante proposte. Ma era importante tornare solo se potevo esprimere qualcosa di forte. Quando mi ha chiamato Pupi Avati per La quattordicesima domenica del tempo ordinario, non potevo crederci».
Mi racconti la telefonata.
«Pupi si sveglia presto, come me, ma mi ha chiamato senza tener conto dell’ora in meno di fuso orario. Dovevano essere le cinque del mattino. Riconosco subito la sua voce. Penso: vorrà un’informazione. Invece, dice: ti devo raccontare una storia. Ascolto, mi commuovo. Era il copione che aspettavo da anni. Dopo, attacco il telefono e stavo stesa a letto con la gatta sulla pancia. Pensavo che doveva essersi ricordato di certi miei film drammatici che non sono i primi che vengono in mente pensando a me. Mi alzo e comincio a saltare per tutta la stanza con la gatta che saltava anche lei. Vado da mamma gridando: mi ha chiamato Pupi. Sembravo una ragazzina piuttosto che una signora della mia età».
Gli anni sono 72, lei recita coi capelli corti, dimessa, ed è bellissima e intensissima. Che cosa l’ha conquistata di Sandra?
«La sua voglia di libertà e indipendenza: non avrebbe dovuto sposarsi. Invece lo fa con questo Marzio, un sognatore che non cambierà mai e invecchierà continuando a cercare il successo come musicista».
Quella voglia d’indipendenza è stata anche sua, da ragazza?
«Nella prima parte della vita sì. Sandra che vuole affermarsi come modella e donna sono io, anche se Pupi non l’ha scritta per me, ma per sua stessa ammissione pensando all’inferno che ha fatto vivere alla moglie perché era geloso».
E lei la gelosia l’ha subita?
«Col mio primo marito: io 17 anni, lui 26. Matrimonio durato 14 mesi. Credo, appunto, che avessi voglia di libertà, indipendenza, ma non fu così per niente: lui si rivelò gelosissimo. E quando scoprii che aveva anche un’amante me ne tornai a casa da mamma e papà».
Fu altrettanto netta quando decise di avere suo figlio Edwin da sola.
«Avevo 22 anni, ero incinta, volevo quel bambino, ma rispetto il pensiero del prossimo e non avrei mai obbligato suo padre a fare il padre».
Aveva anche una carriera agli inizi, non temeva di non lavorare più?
«Certo che sì, non sono un’incosciente. E in quel periodo ho avuto dimostrazione di persone pessime: un orrendo produttore che rimandava il film da due anni s’inventò che voleva girare in quel momento lì e mi fece causa per inadempienza contrattuale. Ma ho avuto anche la fortuna di incontrare persone belle. Il produttore Luciano Martino, col quale poi mi fidanzai, arrivò con un contratto per tre film che mi salvò la vita. Mi fece sentire una leonessa».
Lei quando ha capito che piaceva e che piacere era una risorsa?
«Ci ho messo molto tempo, purtroppo. Mamma mi ripeteva: perché sei piena di complessi, perché? E io: perché le altre sono tutte più belle di me. Quando mi stabilii in Italia, avevo 19 anni, ma la testa di una bambina».
Girava anche sette, otto film l’anno, era solo per soldi?
«Avevo bisogno di lavorare e non ero schizzinosa, anche perché in Algeria non esisteva la distinzione tra film di serie A e di serie B».
Quante docce ha fatto nei film?
«Preferivo le docce alle scene d’amore. Dopo ho avuto la fortuna di cambiare carriera, ma non rinnego niente: alcuni film cosiddetti erotici erano carini, ben fatti, con attori bravissimi».
Me ne dica due.
«Titoli a parte, Giovannona Coscialunga disonorata con onore o Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. In ogni caso, grazie a quella gavetta ho poi fatto quattro film con Steno, Cattivi pensieri con Ugo Tognazzi, Sono fotogenico di Dino Risi, Il ladrone di Pasquale Festa Campanile e, in teatro, D’amore si muore, di Giuseppe Patroni Griffi. È così per tutti gli attori: nessuno arriva subito al film geniale. È un mestiere in cui dipendi sempre da altri».
È per essere padrona del suo destino che nel 1999 diventa produttrice?
«Esattamente, ma ho recitato solo nei primi due film. Dopo, ho preferito imporre altre donne, perché, per me, impormi era stato difficile. La carriera da produttrice mi è piaciuta, anche se per le preoccupazioni non dormivo la notte. Non ho avuto le porte che si aprivano da sole, ma ho dovuto spalancarle a testate».
Le rivincite che l’hanno gratificata di più?
«Il successo di Commesse, che la Rai aveva tenuto due anni nel cassetto temendo che una storia di sole donne non piacesse. E altre serie tv come Le madri, Delitti privati e anche dei film che hanno avuto risultati clamorosi».
Che cosa la colpì di Al Pacino quando produsse il Mercante di Venezia di Michael Radford?
«I suoi occhi netti e profondi che avevano dentro un mondo, mentre eravamo a tavola seduti uno di fronte all’altro».
Un rimpianto?
«Non aver fatto la Gradisca di Federico Fellini in Amarcord. Mi portava a pranzo dalla sua cuoca, Ubalda, per cui lui mi chiamava Ubaldina, e mi diceva: Ubaldina, devi ingrassare per il film. Alla fine, prese Magali Noël, più matura e formosa di me. Ma io non riuscivo a ingrassare: ero giovane, bruciavo tutto quello che mangiavo».
Con Quentin Tarantino è rimasta in contatto dopo il cameo in Hostel 2?
«Sì, anche se è tanto che non ci vediamo. Fu lui a cercarmi mentre era al festival di Venezia, io giravo un film da produttrice, andai da lui in jeans, in uno stato pietoso. Conosceva tutti i miei film inquadratura per inquadratura».
Lei che cosa pensò quando scoppiò il MeToo?
«Che finalmente qualcuno denunciava. Ai miei tempi, la parola di una ragazza non aveva valore. A me è successo più volte di essere molestata da chi aveva il potere di farmi lavorare e non ho denunciato: chi mi avrebbe creduto? Però, anche in situazioni pesanti in cui ho corso il rischio di essere violentata, sono riuscita a uscirne indenne: ho un riflesso col ginocchio che è una roba micidiale. Alle attrici di oggi consiglio di mirare col ginocchio dove sappiamo».
E quanto erano vere invece le leggende sui corteggiatori che le regalavano Maserati o mandavano elicotteri che lei rifiutava?
«Sono cose di una vita fa... Un armatore greco aspettò a lungo il mio arrivo in porto, che non ci fu mai. E ho avuto casa riempita di rose antiche, non ci si camminava e il profumo stordiva».
L’armatore era Stavros Niarchos. E lo spasimante delle rose?
«Non lo dirò mai».
Ha più amato o è stata più amata?
«So di avere amato e credo che tutti abbiamo sempre l’impressione di essere quelli che amano di più, però magari era 50 e 50».
Oggi, è single?
«Lo sono da una decina d’anni, perché così ho voluto, ma non metto limiti alla provvidenza».
Il ritorno al cinema dell'attrice con Pupi Avati. Edwige Fenech: “Commedie sexy? Certo che le rifarei ma ero timidissima da giovane”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Aprile 2023
Edwige Fenech è stata il sogno erotico di tantissimi italiani, protagonista di commedie sexy e di gialli all’italiana che non avranno puntualmente fatto la storia del cinema ma che hanno riscosso un enorme successo di pubblico in sala e in televisione, dove ancora oggi vengono passati di quando in quando. “Certo che li rifarei, grazie a quelle pellicole sono diventata famosa e sono qui oggi”, ha detto in un’intervista in studio a Un Giorno da Pecora su Rai Radio1.
L’attrice nata in Algeria, 74 anni, torna al cinema con La Quattordicesima domenica del Tempo Ordinario, in sala dal 4 maggio. Ricorda che da giovane era timidissima, “senza un briciolo di fiducia in me stessa, fiducia che poi ho trovato da sola molto tardi. Non a caso a trent’anni smisi di mettermi in costume: quando sei famosa la gente ti studia”. Fenech ha lavorato con Mario Bava, Ugo Tognazzi, Lino Banfi, Steno, Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Alberto Sordi, Bruno Corbucci, Carlo Vanzina, Lina Wertmuller.
Federico Fellini la invitava a pranzo a casa e la chiamava “Ubaldina”. “Ad ogni pranzo Fellini mi prendeva la mano destra, in modo affettuoso e mi diceva: ma non mangia? Io non toccavo nulla, non potevo muovere la mano ed ero timidissima. Così Fellini diceva alla cuoca, che si chiamava Ubalda: ‘Fai mangiare l’Ubaldina, prepara qualcosa che le piace”. Tognazzi invece “cucinava benissimo tutti i tipi di pasta. Mi ricordo che faceva spesso la pasta con le barbabietole: era viola, bella da vedere, ma diciamo mediamente buona”.
Anche Quentin Tarantino ha voluto incontrarla: “Lo incontrai al festival di Venezia, mi dissero che voleva conoscermi e all’inizio non ci volevo credere e risposi: ‘Lasciatemi perdere’. Poi ci andai a cena e scoprì che era un cultore dei gialli e dei thriller italiani anni Settanta, e gli piacevano molto quelli in cui recitavo”. Tarantino le aveva proposto di recitare in un film che avrebbe prodotto, lei disse che ci sarebbe andata soltanto per un giorno. Perché era “delusa da come si era conclusa la mia carriera da attrice. Invece poi ci sono andata e siamo stati tutti felici. Il film era Hostel 2, prodotto da Quentin e diretto da Eli Roth, che ora è diventato un regista famosissimo. Sono felice di averci lavorato e se ora mi chiedesse di fare un film con lui direi subito di sì”.
Chiacchieratissima la sua storia Luca Cordero di Montezemolo, durata 18 anni. A Fenech diedero della raccomandata quando condusse il Festival di Sanremo e Domenica In grazie all’influenza del suo compagno. “Voglio sfatare questo mito: Luca non conosceva assolutamente nessuno in Rai all’epoca, figuratevi che ai tempi lavorava alla Cinzano in Svizzera. E io non avevo bisogno di esser raccomandata, ero famosissima“. E infatti ad amarla erano soprattutto gli italiani, per le sue commedie. Delle quali l’attrice oggi non si pente, ma se c’era una cosa che non le piaceva erano i titoli, “e il peggiore era Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda tutta calda”, una ritrosia che la scoraggiava anche ad andare a vederli al cinema. “Poi grazie ad una recensione di Walter Veltroni, che scrisse che il mio personaggio nell’Ubalda era alla Truffaut, mi convinsi a vederlo in tv e devo dire che aveva ragione: oggi gli darei un otto e mezzo come voto”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2023.
Quando Pupi Avati le ha telefonato per proporle un ruolo nel suo nuovo film, ha detto subito di sì. «Da oltre 7 anni non volevo più lavorare, né mettere piede su un set — racconta Edwige Fenech, 73 anni —. Ma quella telefonata è stata un colpo di fulmine: Pupi mi ha raccontato la sceneggiatura e ho capito che un ruolo del genere, un ruolo vero, lo aspettavo da una vita.
Oltretutto me lo proponeva un maestro del cinema: un grande regalo. Appena ho finito la telefonata, ero talmente felice che ho cominciato a saltare in giro per casa come un canguro, con la mia gatta che mi inseguiva e saltava insieme a me. Sembravamo due matte».
Come si intitola il film e di che parla?
«Il titolo è provvisorio: La quattordicesima domenica nel tempo ordinario. Il racconto parte da una coppia di giovani, Marzio, interpretato da Lodo Guenzi, e Sandra, impersonata da Camilla Cerauli: si amano, si sposano ma poi si lasciano. Il destino li fa rincontrare dopo 35 anni e, stavolta, ad interpretarli siamo Gabriele Lavia ed io».
Dove si incontrano?
«Per caso, a un funerale, come spesso accade a una certa età (ride). Io lo riconosco subito, lui, pur riconoscendomi, mi trova molto cambiata. Il mio personaggio è una donna della mia età con varie criticità, non è felice e le capita di ritrovare il più grande amore della sua vita. Tra Marzio e Sandra sarà un profluvio di narrazioni, tra passato, presente e futuro».
Lei ha debuttato una sola volta in palcoscenico, in «D’amore si muore» con la regia di Patroni Griffi. Che effetto le fa recitare a fianco di un grande attore teatrale?
«Tra Gabriele e me, un’intesa perfetta. E poi è bello! Si porta benissimo i suoi anni (80, ndr). Adoro il teatro, ma ho fatto solo quello spettacolo perché è troppo faticoso. Sono una sedentaria, una lumaca che porta la sua casa sulle spalle. Quella volta, un’esperienza eccezionale ma...»
Ma?
«Avevo una paura terribile e Peppino, per convincermi, mi ripeteva: lo devi fare! La sera della prima a Roma, in scena indossavo una gonna grigia longuette. Un mese dopo, dovettero aggiustarmi la gonna perché ero talmente dimagrita che, da longuette, mi scivolava giù fino ai piedi!».
Il regista era molto severo?
«Assolutamente no! Lo spettacolo ebbe grande successo e forse ho un rammarico: non aver accettato la proposta che mi fece, in seguito, il produttore, offrendomi un’altra commedia. Ma se in quel momento ho detto no, doveva esserci un motivo».
Accettare di fare teatro non avrebbe potuto essere una sorta di riscatto dalla sua immagine di icona sexy di tanti film erotici?
«Chiariamo subito una cosa: quelli non erano film erotici , non erano porcherie, piuttosto commedie leggere, commerciali , con ammiccamenti che, se paragonati ai film veramente erotici di oggi, fanno ridere! Eravamo delle educande, non delle attrici sexy. Io, nelle varie scene, ero perennemente sotto la doccia: spogliata, ma ricoperta dal bagnoschiuma! Ovvio che, se all’epoca avessi avuto la fortuna di incontrare un regista come Ingmar Bergman, il mio percorso sarebbe stato un altro. Comunque, affermo che le sceneggiature erano ben scritte, anche se i titoli scelti, tipo “Giovannona coscia lunga” o “ Quel gran pezzo dell’Ubalda”..., non erano eccezionali, servivano a richiamare il pubblico».
I suoi genitori, contenti del suo percorso attoriale?
«Mamma, che sta per compiere 95 anni, molto contenta. Mio padre all’inizio non la prese bene. Poi, comprendendo la mia volontà, lo accettò. Inoltre, ho lavorato anche con registi e attori come Dino Risi, Steno, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi... e ho ricevuto bellissime critiche».
Facendo poi la produttrice, fu difficile affermarsi, in quanto donna?
«Difficilissimo. C’era molta diffidenza nei miei confronti: le donne, se sono belle, sono automaticamente stupide e incapaci. Con le mie produzioni ho voluto dare spazio alle storie di donne, ai loro problemi, per dimostrare che le donne meritano di essere valorizzate: le donne valgono. Sono molto orgogliosa della mia carriera di produttrice, ma è un argomento chiuso, troppo complicato».
E adesso si rimette in gioco come attrice...
«Sì, sono felicemente mamma di un figlio che ha 51 anni e nonna di due bimbi di 10 e 3 anni... spero quindi di essere arrivata a un’età in cui non si guarda più quello che si guardava prima, ma solo la mia interiorità».
I 5 film con Edwige Fenech che hanno incendiato l’immaginario italiano. L’attrice francese è tornata a recitare in “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” di Pupi Avati, ma il suo nome resterà legato indissolubilmente alla commedia sexy all’italiana. Massimo Balsamo il 2 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972)
Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973)
La pretora (1976)
La poliziotta fa carriera (1976)
"Certo che rifarei i film degli anni Settanta, grazie a quelle pellicole sono diventata famosa e sono qui oggi. Ai tempi non andavo neanche a vederli per via dei titoli. Poi grazie a una recensione di Walter Veltroni, che scrisse che il mio personaggio nell'Ubalda era alla Truffaut, mi convinsi a vederlo in tv e devo dire che aveva ragione: oggi gli darei un otto e mezzo come voto": nessun rimpianto e nessun rimorso per Edwige Fenech, icona sexy e sogno erotico di milioni di italiani degli anni Settanta e Ottanta. Una donna dalla bellezza incantevole e sempre pronta a reinventarsi, la Fenech rappresenta una grande fetta della storia del cinema italiano e a 74 anni è sempre pronta a mettersi in gioco: è infatti tra i protagonisti de “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” di Pupi Avati, in sala dal 4 maggio.“Avevo chiuso ma una proposta come quella di Pupi non la ricevevo da anni. È stato come un miracolo, pensavo fosse un sogno. Adoro i miei film del passato ma questo lo aspettavo da tanto. Una gioia incontenibile”, il racconto dell’attrice, lontana dai set da ben sette anni.
Edwige Fenech in “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” di Pupi Avati
Francese di origini algerine e naturalizzata italiana, Edwige Fenech ha iniziato la sua carriera cinematografica nel 1967 con il boccaccesco “Alle dame del castello piace molto fare quello”. Poi il comico e il passaggio alla commedia sexy all’Italia, un cinema fatto di situazioni divertenti, volgari e a sfondo hot. Lei, insieme a Gloria Guida e poche altre, diventa un punto di riferimento, regalando performance iconiche tra sensualità ed erotismo. Dall’insegnante alla dottoressa, passando per la poliziotta e la soldatessa: tanti i ruoli interpretati, tante le soddisfazioni raccolte. Senza dimenticare le avventure nei gialli e nel thriller, il passaggio alla televisione e la nuova vita da produttrice. Idolatrata da Quentin Tarantino, la Fenech è tornata a recitare nel 2007 per un cameo in “Hostel: Part II”, diretto da Eli Roth e prodotto dallo stesso QT. Ora il ritorno grazie a Pupi Avati ci consente di ripercorrere 5 film che hanno reso l’attrice di Annaba immortale.
Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
È “Lo strano vizio della signora Wardh” di Sergio Martino a lanciare Edwige Fenech nell’Olimpo del giallo erotico. Un thriller di buona fattura che la vede interpretare in cui interpreta una signora dalle tendenze sado-masochiste che passa da una relazione all'altra finché non si ritrova sull'orlo della follia. Nel frattempo, un assassino seriale fa strage di belle donne…
Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972)
Il titolo del decamerotico “Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda” è già tutto un programma. Il film diretto da Mariano Laurenti racconta i tentativi di Olimpio de’ Pannocchieschi (Pippo Franco) di conquistare la bella Ubalda, interpretata da Edwige Fenech. Un’opera ricca di scene erotiche, a tratti volgari per certi integralisti bacchettoni, e in grado di valorizzare al meglio la carica erotica della protagonista, di una bellezza raggelante.
Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973)
"Giovannona Coscialunga disonorata con onore" di Sergio Martino è una classica commedia degli equivoci a tinte erotiche. Qui Edwige Fenech interpreta una prostituta che il commendator La Noce cerca di far passare per sua moglie, in modo da ottenere i favori di un onorevole ed evitare guai… Una commedia divertente e senza troppe pretese, ricordata per qualche battuta e soprattutto per gli appetitosi spogliarelli di Giovannona Coscialunga.
La pretora (1976)
Tra buon ritmo, gag azzeccate e banalità sparse, “La pretora” di Lucio Fulci fa parte del filone delle commedie erotiche ed è conosciuto ai più perché è uno dei pochi film in cui Edwige Fenech ha girato scene di nudi integrali frontali. Bella e provocante come sempre in un’opera dalla forte connotazione macchiettistica.
La poliziotta fa carriera (1976)
Gianna si arruola nella polizia, ma si rivela un fiasco totale: più che la bravura in lei spicca la bellezza. Durante i primi casi a cui viene assegnata commette una serie di errori, ma finirà con il ricevere una promozione. Trama semplice, tutt’altro che ambiziosa, ma funzionale a una storia fatta di provocazioni, gag di doppi sensi e nudità. “La poliziotta fa carriera” di Michele Massimo Tarantini regala una delle migliori interpretazioni di Edwige Fenech. Sconsigliato - come quasi tutti gli altri - ai bacchettoni.
Elena Di Cioccio.
Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it il 16 maggio 2023.
Franz Di Cioccio contro sua figlia Elena Di Cioccio. Il leader della PFM, commentando ai microfoni dell'Ansa il libro dell'ex iena "Cattivo sangue" (uscito lo scotso 4 aprile), ha dichiarato: «Elena ha detto cose che non stanno né in cielo né in terra». Nel romanzo-testimonianza la 48enne rivela la sua sieropositività e parla anche della chiusura del rapporto con il padre.
«Mia figlia è qui, è pensabile che io sia così?» ha detto Franz Di Cioccio riferendosi alla figlia maggiore, Cinzia, che ha voluto essere presente alla presentazione alla stampa del nuovo album live della PFM, "The event - Live in Lugano", oggi a Milano.
[…]
Dal suo punto di vista, la figlia «ha un rapporto conflittuale con sé, non si possono scrivere cose così, forse per lei è un modo di venirne fuori». Nel libro infatti Elena parla di esperienze traumatiche come il suicidio della madre, Anita Ferrari, che si è tolta la vita sette anni fa. «Non ho niente da perdonare, se vuole vendere libri...» il commento del padre.
Da parte sua, Cinzia ci tiene a dire che quella di Elena «è una visione, io non sono stata una bambina traumatizzata, ma le scelte sono personali».
Così come quella di rilevare i dettagli della morte della madre, «una scelta, quella di mia madre, che richiede profondo coraggio e per cui ho grande rispetto» ha detto Cinzia, spiegando che per questo non ha sentito di condividerne i dettagli oltre una stretta cerchia di persone.
Ma questo svelamento «ha creato un'ulteriore unione nella famiglia, abbiamo un'altra sorella, figlia di mia madre e del suo secondo marito, con cui - ha concluso - mi sento». […]
Dagospia il 29 marzo 2023. IL MONOLOGO DI ELENA DI CIOCCIO A "LE IENE"
“Ciao sono Elena Di Cioccio, ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva.
Ho l’Hiv, sono una di quelli con l’alone viola.
Ero molto giovane quando questa diagnosi stravolse completamente la mia vita.
All’inizio ho avuto paura di morire, poi di poter fare del male al prossimo.
“E se contagi qualcuno?”, mi dicevo, “Non me lo perdonerei mai”.
Non è mai successo, non ho mai contagiato nessuno e non sono morta.
Invece in questi 21 anni, mentre le terapie mi consentivano via via di vivere una vita sempre più normale, ad uccidermi è stata una smisurata vergogna di me stessa.
Ho vissuto la malattia come se fosse una colpa.
Pensavo che tra me e l’altro, la persona peggiore fossi sempre io.
Mi sentivo sporca, difettosa. Avevo timore di essere derisa, insultata, squalificata dal pregiudizio che ancora esiste nei confronti di noi sieropositivi.
Così per difendermi, ho nascosto la malattia iniziando a vivere una doppia vita. Una sotto le luci della ribalta e un'altra distruttiva e depressa.
Ma una vita a metà non è vita, e ho capito che ne sarei morta se non avessi fatto pace con quella parte di me.
Io sono tante cose e sono anche la mia malattia.
Oggi sono fiera di me, non mi vergogno più, e l’Hiv che è molto diversa da come ve la immaginate.
Io non sono pericolosa, sono negativizzata e finché mi curo io non posso infettare nessuno. Potete toccarmi, abbracciarmi, baciarmi e tutto il resto.
Se volete continuare ad avere paura, io lo accetto, però girate lo sguardo verso il vostro vero nemico. L’ignoranza.”.
Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per corriere.it il 29 marzo 2023.
Per ventuno anni è stato un segreto, pesante come un macigno. Ora Elena Di Cioccio, attrice, conduttrice in radio e in tv, ha deciso di liberarsi del fardello che l’ha costretta, per non finirne schiacciata, a diventare nel tempo mille persone, tutte diverse da quella che lei è davvero.
Per stare finalmente bene, era necessario raccontare la sua verità: «Ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva. Ho l’Hiv». Lo ha detto alle «Iene», di cui per anni è stata un’inviata. Lo racconta senza il minimo sconto, nel libro in uscita il 4 aprile, Cattivo Sangue (edito da Vallardi), in cui ricapitola una vita clamorosamente fitta di sfide e dolori. «Oggi non ho rimpianti e non sono più arrabbiata. Ma ho dovuto processare molte cose», spiega.
Per quasi metà della sua vita ha cercato di nascondere il fatto di avere l’Hiv. Ora ha deciso di renderlo pubblico, scrivendoci anche un libro. Perché?
«Dopo anni passati divisa tra la paura e la rabbia, non mi sento più in difetto di niente. Io sono questa cosa qui e non voglio più nascondermi. Quando incontro ogni singola persona mi domando se, come e quando dire che sono sieropositiva: lasciando la mia parola scritta ora lo do per fatto, una volta per tutte».
In questi anni, scrive nel libro, ha nascosto le medicine nel frigo dietro la lattuga perché nessuno le vedesse, confidando il suo segreto solo a pochissime persone.
«E ho sperimentato ogni tipo di reazione in risposta a questa cosa: fuga, compassione, rabbia. Ma il problema è la partenza, non la risposta: è come sto io rispetto a questa cosa. Oggi un aiuto arriva grazie alla medicina che ha fatto finire l’epoca dell’alone viola, della paura, sia per voi ma anche per noi».
In che senso?
«Quindici anni fa: mi taglio la mano in una classe di teatro, esce del sangue. Si avvicinano per aiutarmi e io urlo: “No, non mi toccate”. Cavolo che brutto carattere. Oggi processare questa gigantesca marea di emozioni è possibile grazie a quello che la medicina ci dice, e cioè che siamo pazienti cronicizzati e in nessun modo io posso contagiare qualcuno. Per me è un sospiro di sollievo: non devo più stare sempre in allerta».
Eppure, dice, su questa malattia persiste lo stigma.
«Purtroppo sì, perché la comunicazione si è fermata al 1989: abbiamo fatto dei passi in avanti con quattro baci e strette di mano passate e poi il nulla. Ma non possiamo fare come i bambini che fingono che qualcosa non esista perché ti fa paura».
[…]
La malattia ha pesato anche sul suo desiderio di diventare mamma, scrive nel libro.
«È un capitolo molto sofferente per me. Oggi una donna sieropositiva negativizzata può avere rapporti anche senza preservativo e rimanere incinta. Per me non è stato così […]».
Nel libro parla anche della sua infanzia: è figlia del leader della Pfm Franz di Cioccio e della manager Anita Ferrari. Si è spesso ritrovata sola, senza sapere con chi si sarebbe svegliata, travolta dalle liti in famiglia e infine allo sbando.
«La separazione, non facile, tra i miei non ha aiutato. Ma in quegli anni però succedeva. Sono cresciuta prima del dovuto, dei buchi sono rimasti. Il mio intento non era sparare contro i miei genitori, come contro nessun altro. […]».
Sua mamma si è tolta la vita dopo che ci aveva già provato in passato. Come si può processare un simile dolore?
«Processare il dolore non è uno sport per tutti e mia mamma aveva stratificato una quantità di dispiaceri davvero grande, non processandoli, appunto. Alla fine se la sono portata via».
In poche righe, spiega anche che il figlio di sua madre, quindi suo fratello, è morto a tre anni, soffocato.
«L’ho scritto in poche righe perché non volevo indugiare su questo dolore ma era necessario per raccontare davvero chi fosse mia mamma».
Cosa le aveva detto dopo il primo tentativo fallito?
«È un inciampo che fanno in tanti quello di dire a qualcuno che soffre così: se mi vuoi bene smetti. Il problema è che non vogliono bene a loro stessi. […] Quando poi è successo, in qualche modo ero pronta. Mi ero già detta: arriverà il giorno che lo farà ma non posso stare sul balcone della vita ad aspettare che succeda. La mattina in cui ho trovato tutti quei messaggi sul telefono, ho capito tutto prima di leggerli».
Nella sua vita ha sperimentato diverse dipendenze.
«La dipendenza ti crea una situazione di benessere […] Il tuo impegno diventa anche cercare di uscire dal buco».
Uscire da quello della cocaina non è stato semplice.
«Quello è stato un passaggio giovanile che è poi diventato altro. Sì, uscirne è stato molto faticoso e ringrazierò mia mamma per sempre per avermi fatto sentire il peso di quello che stavo facendo quando mi ha scoperta».
Come è successo?
«Eravamo a un matrimonio, sono uscita dal bagno e me la sono trovata davanti: tu che sei su di giri non ti accorgi di niente ma da fuori si vede tutto benissimo. Lei mi ha detto solo: no, anche tu no. Era così spaventata, così addolorata e impotente che mi è proprio passata attraverso».
La sua dipendenza è stata anche affettiva, precipitando in relazioni tossiche in cui veniva anche picchiata.
«È sempre il tema del non proteggersi, qualcosa che non voglio fare più. Se sei in anoressia di affetto anche uno che alza la voce o peggio ti sta dando attenzione».
[…] Con papà al momento non abbiamo rapporti, ognuno è andato per la sua strada... e se penso a tutti quelli che mi chiamano per avere il suo numero o dei biglietti... ma c’è sempre domani. Domani può sempre accadere qualcosa di inaspettato». […]
Elena di Cioccio: il peso di un segreto e il passato difficile della conduttrice. Nella sua autobiografia dal titolo Cattivo Sangue edita da Vallardi, Elena di Cioccio racconta aneddoti della sua infanzia, relazioni tossiche e la paura di svelare un segreto ingombrante. Mariangela Cutrone il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.
Cosa significa vivere con la paura di svelare un segreto che ci riguarda e che inevitabilmente potrebbe influenzare gli altri o contribuire a far cambiare il modo che questi hanno di percepirci o considerarci?
Ne sa qualcosa Elena Di Cioccio che nel suo primo libro “Cattivo Sangue” (edito da Vallardi) ci racconta i suoi ultimi vent’anni segnati dall’Hiv, un sgreto inconfessabile e ingombrante. Lo fa in una sorta di autobiografia in cui la nota conduttrice tv e attrice si mette a nudo, narrando esperienze di vita, aneddoti legati alla sua famiglia, stati emotivi altalenanti che terranno incollato il lettore sino all’ultima pagina.
Tra nuovi inizi, conquiste professionali, dipendenze, relazioni tossiche e segreti, Elena cerca di sfuggire alla sua parte autentica caratterizzata dal suo segreto per paura di essere giudicata e rifiutata. Si creerà il personaggio di Velena, una donna forte, provocatrice, sexy e strafottente, piena di idee creative che se ne frega del giudizio altrui. Vestendo i panni di Velena, Elena si sentirà invincibile nell’affrontare le insidie della vita e la sua malattia. Attraverso Velena sfuggirà al dolore, alla sofferenza e al bisogno di amore che bussa alla sua porta ogni volta che Elena torna a casa e rischia di soffocare nel suo senso di solitudine e inadeguatezza.
In “Cattivo sangue” riscopriamo una nuova Elena Di Cioccio, ricca di sfaccettature inedite. La sua è la storia di tutti noi che viviamo quotidianamente per affermare il nostro bisogno di affermarci in amore e nella professione scontrandoci con limiti, debolezze e fragilità che caratterizzano la nostra natura umana. Ripartendo dal roprio segreto, dai propri punti deboli e dalle inadeguatezze è possibile redimerci da tutto il dolore provato nel corso del proprio percorso esistenziale? È questo che in diverse occasioni Elena Di Cioccio si ritroverà a chiedersi dopo tante cadute ed errori commessi.
Attraverso la sua esperienza la Di Cioccio ci invita a fare pace con quelle parti di noi stessi che fatichiamo ad accettare perché ci fanno sentire fragili ed inadeguati. Quelle parti parlano di noi e non accettarle significa alimentare rischiose spirali dalle quali col tempo potrebbe risultare difficile e faticoso riemergere. Per rinascere e splendere di luce nuova bisogna prima perdonare i propri errori e consolare quelle parti di noi che necessitano prima di tutto della nostra cura e del nostro amore incondizionato.
In una sorta di catarsi Elena di Cioccio affida al lettore la sua storia. Lo fa con coraggio e determinazione non temendo più giudizi e cattiverie. In questo si denota molta maturità. Quando ci racconta episodi drammatici come la violenza domestica subita e la morte suicida di sua madre è inevitabile entrare in empatia con l’autrice. La Di Cioccio si racconta senza filtri e artifizi. “Cattivo sangue” è l’ennesima testimonianza che niente è come sembra. Ogni persona, attraverso la maschera che indossa per convenienza o per necessità, tende a celare la sua vera identità, il suo vissuto caratterizzato da traversie, dubbi, incertezze e debolezze. Eppure come ci insegna l’autrice tutto ciò andrebbe espresso perché fa parte della nostra natura umana. La storia di ognuno di noi, come anche quella della Di Cioccio, merita di essere raccontata per infondere coraggio in chi vive le medesime situazioni.
Un libro forte che trasuda pura vita, coraggio e voglia di rinascita quello di Elena Di Cioccio, un’autobiografia toccante e commuovente che arriva dritta al cuore del lettore e di chi sa che solo dopo aver toccato davvero il fondo è possibile riemergere per abbracciare a pieno la serenità che ognuno di noi merita.
Elena Di Cioccio: «Da 21 anni sono sieropositiva. Ho avuto paura di morire, mi sentivo sporca, difettosa». Storia di Redazione Web su Il Mattino il 28 marzo 2023.
«Ho l’Hiv, sono una di quelli con l’alone viola». Elena Di Cioccio, conduttrice ed ex inviata de Le Iene, nella trasmissione di Davide Parenti rivela di essere sieropositiva. «Ero molto giovane quando questa diagnosi stravolse completamente la mia vita. All’inizio ho avuto paura di morire, poi di poter fare del male al prossimo. ‘E se contagi qualcuno?’, mi dicevo, ‘Non me lo perdonerei mai’. Non è mai successo, non ho mai contagiato nessuno e non sono morta».
Influenza aviaria, primi tre casi nell'uomo nel 2023 e 200 milioni di animali infetti: si teme il salto di specie, vaccini già in produzione Che cosa sappiamo
Elena di Cioccio sieropositiva, il racconto
“Invece in questi 21 anni, mentre le terapie mi consentivano via via di vivere una vita sempre più normale, ad uccidermi è stata una smisurata vergogna di me stessa. Ho vissuto la malattia come se fosse una colpa. Pensavo che tra me e l’altro, la persona peggiore fossi sempre io. Mi sentivo sporca, difettosa. Avevo timore di essere derisa, insultata, squalificata dal pregiudizio che ancora esiste nei confronti di noi sieropositivi. Così per difendermi, ho nascosto la malattia iniziando a vivere una doppia vita. Una sotto le luci della ribalta e un'altra distruttiva e depressa”.
La guarigione
"Ma una vita a metà non è vita, e ho capito che ne sarei morta se non avessi fatto pace con quella parte di me. Io sono tante cose e sono anche la mia malattia. Oggi sono fiera di me, non mi vergogno più, e l’Hiv che è molto diversa da come ve la immaginate. Io non sono pericolosa, sono negativizzata e finché mi curo io non posso infettare nessuno. Potete toccarmi, abbracciarmi, baciarmi e tutto il resto. Se volete continuare ad avere paura, io lo accetto, però girate lo sguardo verso il vostro vero nemico. L’ignoranza".
Elena Di Cioccio: «Ho l’Hiv, sono sieropositiva da 21 anni. Il suicidio di mamma, la cocaina: non voglio più nascondermi». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023.
Alle Iene e nel libro Cattivo Sangue Di Cioccio racconta di avere l’Hive la sua esistenza: dagli abusi, alle botte, alla morte del fratellino di tre anni fino al suicidio della madre
Per ventuno anni è stato un segreto, pesante come un macigno. Ora Elena Di Cioccio, attrice, conduttrice in radio e in tv, ha deciso di liberarsi del fardello che l’ha costretta, per non finirne schiacciata, a diventare nel tempo mille persone, tutte diverse da quella che lei è davvero.
Per stare finalmente bene, era necessario raccontare la sua verità: «Ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva. Ho l’Hiv». Lo ha detto alle «Iene», di cui per anni è stata un’inviata. Lo racconta senza il minimo sconto, nel libro in uscita il 4 aprile, Cattivo Sangue (edito da Vallardi), in cui ricapitola una vita clamorosamente fitta di sfide e dolori. «Oggi non ho rimpianti e non sono più arrabbiata. Ma ho dovuto processare molte cose», spiega.
Per quasi metà della sua vita ha cercato di nascondere il fatto di avere l’Hiv. Ora ha deciso di renderlo pubblico, scrivendoci anche un libro. Perché?
«Dopo anni passati divisa tra la paura e la rabbia, non mi sento più in difetto di niente. Io sono questa cosa qui e non voglio più nascondermi. Quando incontro ogni singola persona mi domando se, come e quando dire che sono sieropositiva: lasciando la mia parola scritta ora lo do per fatto, una volta per tutte».
In questi anni, scrive nel libro, ha nascosto le medicine nel frigo dietro la lattuga perché nessuno le vedesse, confidando il suo segreto solo a pochissime persone.
«E ho sperimentato ogni tipo di reazione in risposta a questa cosa: fuga, compassione, rabbia. Ma il problema è la partenza, non la risposta: è come sto io rispetto a questa cosa. Oggi un aiuto arriva grazie alla medicina che ha fatto finire l’epoca dell’alone viola, della paura, sia per voi ma anche per noi».
In che senso?
«Quindici anni fa: mi taglio la mano in una classe di teatro, esce del sangue. Si avvicinano per aiutarmi e io urlo: “No, non mi toccate”. Cavolo che brutto carattere. Oggi processare questa gigantesca marea di emozioni è possibile grazie a quello che la medicina ci dice, e cioè che siamo pazienti cronicizzati e in nessun modo io posso contagiare qualcuno. Per me è un sospiro di sollievo: non devo più stare sempre in allerta».
Eppure, dice, su questa malattia persiste lo stigma.
«Purtroppo sì, perché la comunicazione si è fermata al 1989: abbiamo fatto dei passi in avanti con quattro baci e strette di mano passate e poi il nulla. Ma non possiamo fare come i bambini che fingono che qualcosa non esista perché ti fa paura».
Lei però ha spesso desiderato di fingere di non essere malata.
«Assolutamente sì. Ero una persona scrupolosa, anche nei rapporti, eppure è successo. Mi fanno molta impressione le signore su con l’età che ho visto in cura, in ospedale, nei reparti dedicati: mi si spezzava il cuore perché si guardavano attorno come alieni al cospetto di una cosa che le terrorizzava. Non era il loro posto, ma invece è un posto anche per loro».
La malattia ha pesato anche sul suo desiderio di diventare mamma, scrive nel libro.
«È un capitolo molto sofferente per me. Oggi una donna sieropositiva negativizzata può avere rapporti anche senza preservativo e rimanere incinta. Per me non è stato così: diventare mamma non poteva essere lo slancio di un momento di passione ma serviva un passaggio tecnico che metteva in campo un altro gioco, la pianificazione. La maternità è stato un tasto veramente dolente, ma mi piacciono molto i bambini e mi ci diverto un sacco».
Nel libro parla anche della sua infanzia: è figlia del leader della Pfm Franz di Cioccio e della manager Anita Ferrari. Si è spesso ritrovata sola, senza sapere con chi si sarebbe svegliata, travolta dalle liti in famiglia e infine allo sbando.
«La separazione, non facile, tra i miei non ha aiutato. Ma in quegli anni però succedeva. Sono cresciuta prima del dovuto, dei buchi sono rimasti. Il mio intento non era sparare contro i miei genitori, come contro nessun altro. Ma volevo raccontare me stessa, la mia verità».
Sua mamma si è tolta la vita dopo che ci aveva già provato in passato. Come si può processare un simile dolore?
«Processare il dolore non è uno sport per tutti e mia mamma aveva stratificato una quantità di dispiaceri davvero grande, non processandoli, appunto. Alla fine se la sono portata via».
In poche righe, spiega anche che il figlio di sua madre, quindi suo fratello, è morto a tre anni, soffocato.
«L’ho scritto in poche righe perché non volevo indugiare su questo dolore ma era necessario per raccontare davvero chi fosse mia mamma».
Cosa le aveva detto dopo il primo tentativo fallito?
«È un inciampo che fanno in tanti quello di dire a qualcuno che soffre così: se mi vuoi bene smetti. Il problema è che non vogliono bene a loro stessi. Io a un certo punto ho capito che ero come lei e un giorno, nel suo primo Tso, le ho detto: ti devo lasciare andare. E lei mi ha risposto: hai ragione. Quando poi è successo, in qualche modo ero pronta. Mi ero già detta: arriverà il giorno che lo farà ma non posso stare sul balcone della vita ad aspettare che succeda. La mattina in cui ho trovato tutti quei messaggi sul telefono, ho capito tutto prima di leggerli».
Nella sua vita ha sperimentato diverse dipendenze.
«La dipendenza ti crea una situazione di benessere e, soprattutto, un’alternativa: ti impegna, anche quando poi si gira e ti mostra l’altra faccia della medaglia. Il tuo impegno diventa anche cercare di uscire dal buco».
Uscire da quello della cocaina non è stato semplice.
«Quello è stato un passaggio giovanile che è poi diventato altro. Sì, uscirne è stato molto faticoso e ringrazierò mia mamma per sempre per avermi fatto sentire il peso di quello che stavo facendo quando mi ha scoperta».
Come è successo?
«Eravamo a un matrimonio, sono uscita dal bagno e me la sono trovata davanti: tu che sei su di giri non ti accorgi di niente ma da fuori si vede tutto benissimo. Lei mi ha detto solo: no, anche tu no. Era così spaventata, così addolorata e impotente che mi è proprio passata attraverso».
La sua dipendenza è stata anche affettiva, precipitando in relazioni tossiche in cui veniva anche picchiata.
«È sempre il tema del non proteggersi, qualcosa che non voglio fare più. Se sei in anoressia di affetto anche uno che alza la voce o peggio ti sta dando attenzione».
In quegli anni ha pensato anche lei di farla finita. È più ricapitato?
«Non in quel modo. Ora rifletto sul fatto che uno degli effetti collaterali dei farmaci che prendo è il disturbo dell’umore, quindi se capita di svegliarmi accompagnata da pensieri tristi, oggi gli do una carezza e poi esco e vado a fare altro e dopo due ore, quando rientro, non ci sono più».
Per suo papà non sarà semplice leggere questo libro.
«Questa volta ho deciso di preoccuparmi solo di me: preoccuparmi degli altri è stata la mia occupazione principale per tutta la vita, ora avevo solo bisogno di essere me stessa. Con papà al momento non abbiamo rapporti, ognuno è andato per la sua strada... e se penso a tutti quelli che mi chiamano per avere il suo numero o dei biglietti... ma c’è sempre domani. Domani può sempre accadere qualcosa di inaspettato».
E cosa si immagina accadrà ora?
«Penso che tanti amici mi scriveranno... certo, mi aspetto anche delle critiche, ma sono pronta e lo capisco. La bontà di quello che fai non viene percepita da tutti. Ma quello che spero è di essere finalmente me stessa»
Inizierà un nuovo capitolo per lei?
«Sì, me lo auguro».
Elena Santarelli.
Elena Santarelli e la malattia del figlio Giacomo: «Il tumore potrebbe tornare, lui sa tutto». Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2023.
La showgirl ha deciso di sostenere Fondazione Veronesi: «La ricerca è speranza per chi è malato e chi lo sarà. Grazie a mio marito e al sostegno psicologico ne siamo usciti». Giacomo, che ora ha 13 anni, sa la verità
In occasione della Giornata mondiale sul cancro infantile, che si celebra in tutto il mondo il 15 febbraio di ogni anno, Elena Santarelli torna a parlare della malattia di suo figlio Giacomo, al quale all’età di 8 anni (nel 2017) è stato diagnosticato un tumore cerebrale. E lo fa non solo come mamma che ha vissuto una delle esperienze più difficili da immaginare, ma anche in virtù del nuovo ruolo che ha assunto da poco come ambasciatrice della Fondazione Umberto Veronesi, da anni impegnata con il progetto «Gold for kids» a sostenere concretamente la ricerca in oncologia pediatrica partendo da quel bisogno ancora insoddisfatto di fornire una cura su misura di bambini e adolescenti.
Partiamo da qui allora. Perché hai deciso di sostenere Fondazione Veronesi?
«Perché rappresenta l’eccellenza della ricerca scientifica in Italia e ha massima credibilità. Promuove la scienza, sostiene il lavoro dei migliori ricercatori e questo significa offrire speranza a chi è già malato e a chi lo sarà. Se posso, con la mia esperienza, contribuire a promuovere le loro attività, a sensibilizzare le persone a donare quello che possono, tanto o poco che sia, lo faccio volentieri. In particolare a favore della ricerca sui tumori infantili: c’è ancora tanto da fare per dare più possibilità di guarire a bimbi e adolescenti che si ammalano di cancro. Sono ancora pochi i farmaci studiati e testati per curare i bimbi e ragazzi, e ancor meno quelli per le recidive».
Ogni anno nel mondo oltre 250mila bambini e adolescenti ricevono una diagnosi di cancro: sono circa 60 i sottotipi diversi di tumori che colpiscono i più giovani. In Italia si registrano più o meno 1.400 diagnosi annue nella fascia di età 0-14 anni e 800 in quella adolescenziale, tra i 15 e i 19 anni. Le neoplasie infantili più frequenti sono leucemie (37,6% dei casi), tumori cerebrali (15,1%), linfomi (13,4%), neuroblastomi (8,9%), sarcomi dei tessuti molli (6,2%), nefroblastomi e tumori ossei (4,8%). «La ricerca ha fatto passi da gigante nella cura di queste patologie e oggi in più del 70% dei casi, ma per alcune forme di leucemia si supera il 90%, la malattia viene sconfitta — ricorda Paolo Veronesi, presidente di Fondazione —. Eppure, nonostante il progresso, ci siamo accorti che i bambini e in particolare gli adolescenti non sempre ricevono cure adeguate alla loro età».
Per questo è nato, nel 2014, il progetto «Gold for kids» con diversi obiettivi, tra i quali finanziare la ricerca scientifica nel campo dell’oncologia pediatrica; coprire i costi di gestione e avviamento dei protocolli di cura per i tumori infantili, che forniscono le linee guida operative per prendere in carico e curare ciascun paziente, secondo gli standard più elevati e innovativi, garantendo così le migliori possibilità di guarigione (i protocolli da aprire vengono individuati dall’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica); portare avanti la campagna di prevenzione #fattivedere, rivolta agli studenti delle scuole superiori, per sensibilizzarli alla prevenzione. Quest’anno, in particolare, Fondazione Veronesi si è impegnata su un altro fronte per sostenere una sperimentazione che fa capo all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma (la piattaforma di ricerca «PALM»), che mira mettere a punto una nuova cura per i bambini con una leucemia mieloide acuta che resiste alle terapie standard, che hanno una ricaduta e per i quali, a oggi, mancano soluzioni efficaci. Da lunedì 13 a domenica 19 febbraio è possibile sostenere Fondazione Umberto Veronesi per finanziare «PALM» con un sms da telefono cellulare o una chiamata da rete fissa al 45598.
Elena, cosa ricordi dei giorni in cui tu e tuo marito, l’ex calciatore Bernardo Corradi, avete scoperto la malattia di vostro figlio?
«Praticamente tutto, è un passaggio indelebile. Nella nostra famiglia e nella mia vita c’è un prima e un dopo il 30 novembre 2017, la data in cui abbiamo ricevuto la diagnosi di tumore cerebrale di nostro figlio, che allora aveva 8 anni, mentre Greta, sua sorella, era nata da meno di un anno. Giacomo era un bambino come gli altri, sano e sereno, a un certo punto ha iniziato a soffrire di forti mal di testa e vomito a getto, entrambi frequenti. Sentivo che c’era qualcosa che non andava, ma non capivo cosa».
Che cosa avete fatto allora?
«Arrivare alla diagnosi è la prima difficoltà. Tutti i genitori cercano di non essere troppo apprensivi, io non mi sono mai preoccupata molto per piccoli traumi tipici dei bambini, per la febbre alta o minimi sintomi. Bisogna essere cauti, senza allarmarsi troppo, ma non bisogna perdere tempo».
Lo dicono anche i medici: meglio non trascurare i sintomi che perdurano e parlare con un pediatra che può prescrivere eventuali accertamenti. Che è successo quando siete arrivati alla diagnosi?
«La diagnosi ti paralizza, è inevitabile. È sempre uno shock. Qualsiasi mamma si spaventa anche solo all’idea di dover far operare il figlio di appendicite. Cosa può essere sentire la parola cancro? Terrore, ansia e pure rabbia. Sono reazioni inevitabili, ci passiamo tutti, che vanno però smaltite. E l’aiuto psicologico può aiutare tanto. A noi è servito moltissimo: hai bisogno di un sostegno che ti guidi ad attraversare quella fase della vita in cui sprofondi tuo malgrado e a trovare un nuovo modo per tornare a una vita “normale”, che porta serenità in tutta la famiglia anche mentre si attraversa la tempesta».
La «normalità» è una meta da raggiungere per tanti malati di cancro, adulti e bambini, e per i loro familiari. Un traguardo importantissimo che i sani faticano a comprendere…
«Il bambino deve poter vivere il più normalmente possibile, è fondamentale. Deve sopportare dolore, terapie, solitudine. È una valanga di sofferenza, sommata alla paura, per lui, per i genitori, per i fratelli. Ogni volta che è possibile fare qualcosa di “normale” è ossigeno, è vita, è una dose di energia per poi riprendere cure, controlli, esami, ospedale. Che sia una merenda al bar, una gita fuori porta, un pomeriggio a far qualcosa che gli piace. Va bene tutto. E lo stesso vale per i genitori. Chi critica una madre o un padre perché si sono presi qualche ora di “svago” o relax (che poi la testa non la stacchi mai…) non ha neppure idea di quel che dice. Servono i momenti felici mentre attraversi l’inferno».
Ogni famiglia e ogni bambino malato è una storia a sé. Voi come siete sopravvissuti, anche come coppia?
«Con l’aiuto della nostra psicologa abbiamo imparato a gestire l’ansia, a vivere giorno per giorno, altrimenti diventi matto. Io l’ho chiesto solo alla fine dell’iter di cure, sbagliando: credevo di poter reggere tutto, invece alla fine sono crollata. Tuo figlio ha un tumore. Vivrà? Morirà? Nessuno può risponderti, le percentuali non possono essere la risposta: ogni caso è a sé. E vivi così per anni, in compagnia della paura: l’intervento chirurgico, chemioterapia, radioterapia. Noi abbiamo fatto tutto, è un percorso lungo. C’è una lotta quotidiana contro l’incertezza. A volte i bimbi stanno bene, o sembra, e poi peggiorano all’improvviso. Anche quando va bene, come nel caso di Giacomo, parte poi il periodo dei controlli. Prima di poter usare la parola “guarito” servono anni. Ci ha salvato il pensiero di portare avanti la famiglia in un nuovo capitolo della nostra storia. Indesiderato, ma da scrivere, un giorno dopo l’altro, senza pensare troppo al futuro che se no impazzisci».
Dopo un anno e mezzo di terapie, a maggio 2019 avete raggiunto un grande traguardo: la fine delle terapie. È iniziato un nuovo capitolo, migliore?
«Decisamente sì. Quando inizia il follow up un bel pezzo di strada è fatta, i controlli pian piano vengono diluiti, più il tempo passa e più respiri. Anche se io, dopo tutta la tensione, sono crollata poi nel follow up. Ma ho, abbiamo, avute tante fortune. Intanto quella di non avere problemi economici, che è una cosa non da poco. L’ospedale ti insegna tantissimo, abbiamo conosciuto e vissuto mesi accanto a mamme (a volte sole) e papà che al carico dei nostri stessi dolore e paura aggiungevano pure le difficoltà economiche, il peso di viaggi e spostamenti tortuosi, tutti i problemi quotidiani del lavoro e di una casa da mandare avanti… Mia madre si è trasferita a casa ad aiutarci, altro grande sostegno. E poi credo ritengo fosse una fortuna l’età di Giacomo: a 8 anni è più facile gestire un bimbo malato, ha meno “richieste” e bisogni rispetto al 13enne che è oggi, riesci anche a dargli spiegazioni meno complesse. Altro vantaggio l’età di Greta, che aveva solo un anno, è stato più semplice perché non si accorgeva di nulla».
A che punto siete oggi? Come vivete?
«Bene, a rischio di sembrare “banale” o di venire attaccata, lo dirò: dopo il tumore è tutto un po’ più bello. Sia chiaro, nessuno se lo augura e ne avremmo fatto a meno, ma visto che ci è capitato… abbiamo redistribuito le priorità, compreso quali sono i problemi veri. Per il resto ce la si prende meno. Godi più a pieno il tempo. Ma viviamo con tanta serenità, Bernardo in questo è bravissimo, più pratico, mi dice: “Anche attraversando la strada può succedere un dramma, se entri nel tunnel dell’ansia non vivi più. Oggi siamo qua, viviamo e cerchiamo di farlo bene”».
Siete tornati alla normalità?
«Sì, il più possibile. Siamo felici. Poi se mi chiedi se vado a letto la sera come prima del 30 novembre 2017 ti rispondo di no. Ho un grosso pensiero in più a quelli di tante altre mamme alle prese con figli 13enni e non sono più la stessa Elena. La vigilia di Natale o il 31 dicembre sera, festeggio, ma penso anche a chi è in reparto di oncologia con il suo bambino. Ma abbiamo avuto un grande insegnamento e, tra le varie lezioni, c’è pure quella di essere grati e godere a pieno ogni giorno».
E Giacomo come vive? Cosa sa?
«La verità. Credo sia molto importante che sappia esattamente come stanno le cose. Con i giusti modi gli abbiamo spiegato tutto: sa che cosa ha avuto e sa anche che il tumore può tornare, per questo facciamo i controlli. A volte capita. Anche in questo caso l’aiuto della psicologa è stato prezioso, ci ha guidato in un “porto sicuro”. È un ragazzino felice, sereno, non è arrabbiato con la vita. È un simpaticone, ha la battuta facile. Gli insegniamo a pensare con una testa vincente, senza ansie né autocommiserazioni: ha avuto un incidente di percorso bello tosto, lo abbiamo superato e andiamo avanti».
Elenoire Casalegno.
Elenoire Casalegno: «Ho fatto ballare la lambada a Vianello in canottiera. Con Sgarbi un flirt esplosivo». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2023
La conduttrice, ex modella: «Con Ringo, padre di mia figlia, ci siamo lasciati bene. I ragazzi non devono pagare le colpe degli adulti»
«Ho il carattere romagnolo: sono solare, estroversa. Saluto sempre tutti, è bello tendersi la mano. Un sorriso può far star meglio. Io credo molto nella gentilezza e nell’empatia e il fatto che in questa società manchi l’empatia mi rattrista e mi preoccupa. A mia figlia ho dato l’educazione dei miei genitori, le ho insegnato per esempio ad alzarsi per dare il posto al più debole, al più anziano, ma temo non lo faccia quasi più nessuno». Parole dolci, dal sapore antico. E che forse non ti aspetti da Elenoire Casalegno, 46 anni, ex modella, bellissima, altissima, apparentemente un po’ algida, anche se il sorriso tradisce una innata gentilezza. Una donna libera, indipendente, che non pare sgomitare. In questi 25 anni ci sono stati momenti di ampia eco mediatica, e momenti di lunghi silenzi, successi televisivi e incertezze professionali, copertine di giornali e gossip su fidanzati, compagni, presunti flirt.
Elenoire, come mai si definisce romagnola? È nata a Savona e vive a Milano da anni...
«Io nasco casualmente a Savona, ma non sono ligure, anche se sono legata a quella terra. Sono andata a vivere in Romagna molto presto e a 18 anni mi sono trasferita a Milano. Mi sento un po’ romagnola è un po milanese, con una nonna belga. Una cittadina del mondo..».
A 20 anni ha debuttato in televisione: prima ha condotto «Jammin» e poi il «Festivalbar». Prima ancora ha esordito come modella. Che ricordi ha di quel periodo?
«È stato un momento gioioso della mia vita, anche se in realtà io volevo fare il magistrato. Non pensavo al mondo dello spettacolo. Fu una mia amica che mi spinse nel mondo della moda, ma all’inizio scappai via. A 15 anni ero molto timida, avevo un pessimo rapporto con il mio corpo e non mi sentivo per niente bella. Poi, sempre una mia amica, mi iscrisse a Elite Model Look, concorso per aspiranti modelle. Avevo 17 anni e mi presentai accompagnata da papà..».
Una brava e timida ragazza...
«Sì davvero, è così. Ricordo un altro concorso per top model, nel quale mi misi a piangere. Non volevo farlo, ma alla fine strinsi i denti. Arrivò per caso anche il Festivalbar, un grande successo: Amadeus e Panicucci fecero il mio nome. Alle volte mi chiedo: chissà se oggi fosse un magistrato...».
A 20 anni, la storia con Vittorio Sgarbi tenne banco sui giornali. Eravate paparazzati ovunque...
«Mi viene da sorridere perché fu un flirt durato quattro mesi, ma è come se fosse stata la storia più lunga e importante della mia vita. I media continuano a parlarne.. In realtà non poteva durare di più. Io avevo 20 anni, ero testarda e forte. Lui, 44 anni, pure era forte, determinato e cercava di imporsi.. Un incontro che fu una vera bomba. Lui era un uomo di cultura ed era bello ascoltarlo mentre raccontava un quadro di Piero della Francesca. Era affascinante e mi piaceva perché era diretto. Magari usa termini un po’ forti, ma io preferisco le persone schiette, sincere, che non ti parleranno mai alle spalle».
Un uomo professionalmente molto importante nella sua vita è stato Raimondo Vianello: lo ha affiancato, dal ‘97 al ‘99, nella conduzione di «Pressing» su Italia 1.
«Avevo un bellissimo rapporto con lui, qualche volta conflittuale perché dicevo ciò che pensavo, ma lui amava questo mio aspetto. Perchè pure lui diceva sempre ciò che pensava, anche se lo faceva con la sua ironia, a tratti macabra.. Un uomo molto intelligente, oggi non c’è un suo delfino».
Un episodio che racconta Vianello e il vostro rapporto.
«Scelsi di non condurre l’ultima edizione di “Pressing” . Raimondo ci rimase male. Iniziarono i provini per sostituirmi, ma lui disse: “Se non c’è Casalegno, io non lo faccio più”. Così mi obbligarono a proseguire, e oggi sono contenta di averlo fatto. Ricordo che gli dissi: “Gliela farò pagare”. Lui per me è stato un grande insegnante, ho avuto la fortuna di lavorare al fianco a una grande persona, un uomo per bene, con una moglie per bene. E questo è molto raro. Ma era anche molto simpatico e divertente. Un giorno arrivai in studio, andai nel suo camerino: era in mutande e canottiera. Lo tirai fuori e gli feci ballare la lambada. Una scena esilarante».
Una delle sue battute cattive, Raimondo, gliel’ha mai rivolta?
«Si! Ero incinta ma non l’avevo detto a nessuno. Avevo le nausee e quando c’erano gli stacchi pubblicitari correvo in bagno a vomitare. Lui se ne accorse e mi chiese: “Ha preso un virus?”. Gli risposi: “Raimondo, sono incinta”. E lui: “Ma lo sa chi è il padre?”».
A proposito del padre di sua figlia: dal legame con Dj Ringo nel 1999 è nata Swami, oggi 23 anni. Siete stati per anni una coppia molto affiatata. Avete vissuto una lunga storia d’amore finita quando la bambina era piccola.
«Ci siamo separati che nostra figlia aveva due anni, ma la priorità era lei e volevamo che lei fosse serena. Noi adulti possiamo sbagliare, ma loro non devono subire gli effetti dei nostri errori. Trovo assurdo che due persone che fino a poco tempo prima andavano d’accordo, poi si scannino dall’avvocato. Abbiamo sempre trovato un punto d’accordo io e il papà di Swami. Facile? No, non è mai facile la separazione, ma sono felice che nostra figlia non ci abbia mai visto discutere neanche una volta. Era importante che lei vedesse suo padre come il migliore al mondo, non volevo che avesse un rapporto difficile con l’altro sesso».
Dunque è possibile lasciarsi bene? Quando legge i gossip sulla separazione Totti-Blasi che pensa?
«Si può e si deve lasciarsi bene. Cosa penso? Penso ai loro figli. Per i ragazzi vedere i genitori che litigano è molto triste, si sentono in mezzo a due fuochi. Quando i miei genitori litigavano in pubblico, io mi sentivo profondamente a disagio e sono rimasta segnata».
Nel 2016 ha partecipato alla prima edizione del Grande Fratello Vip. Ne valeva la pena?
«All’inizio non ero tanto convinta di mettermi alla mercé di tutti, mi creava problemi e disagio, poi gli autori sono stati bravi a convincermi . Alla fine ammetto che è stata un’esperienza interessante, unica, non replicabile. Non me ne fregava niente di vincere, anzi io pensavo di tornare a casa nel giro di una settimana. Ho vissuto il Gf come una sfida con me stessa: senza cellulare, con tempo a disposizione e con 16 sconosciuti. Non mi aspettavo di avere tanta pazienza e di riuscire a condividere un bagno solo con tante persone..C’è stato un momento in cui stavo sbroccando, ricordo una lite violenta con Valeria Marini per uno scolapasta: ho capito che dovevo uscire, il mio percorso era finito lì».
Che rapporto ha con il mondo social?
«È importante non confondere i social con la vita reale. Se mostri tutto, tutto perde valore. Questo bisogno di parlare di sessualità non la capisco. Come non capisco l’idea di postare ogni giorno una foto meravigliosa in luoghi meravigliosi: questa è la vita reale? Non ci credo».
È anti tecnologica?
«No, ma questa mondo virtuale è una bolla che prima o poi esploderà. Siamo noi che dobbiamo gestire la tecnologia e capire che il cellulare è un supporto, e che non deve diventare vita. La vita è fuori, dobbiamo incontrarci di persona, annusarci, perché è tutto diverso».
Lei è diventata mamma molto giovane. Come si vive la maternità a 23 anni?
«La nascita di un figlio è pura magia. Quando l’ho avuta tra le braccia ero senza parole. Le prime settimane facevo fatica a staccarmi da mia figlia. Certo l’immensa gioia degli anni dell’infanzia, piano piano si mitiga perché iniziano le battaglie. Quando sono adolescenti e giovanissimi comincia il lavoro più difficile al mondo e ti ricordi le frasi di tua madre.. Oggi il rapporto con Swami è bellissimo, abbiamo superato l’adolescenza, c’è stato il conflitto e ora si sta ritrovando l’equilibrio. Da più di un anno lei vive da sola e inizialmente per me è stato un po’ un damma perché per 21 anni siamo state solo io e lei.. Io continuo ad avere il frigorifero come se fossimo in due.. Ma da qualche tempo mi sono detta : “Tornerò ragazza”. Bisogna trovare il lato positivo delle cose..».
Insomma non è tutto rosa e fiori diventare madri..
«Esatto...c’è troppa retorica sulla maternità: cos’ha di meraviglioso la gravidanza quando vomiti 24 ore al giorno? E non sono per niente d’accordo quando si dice che una donna non è completa se non ha un figlio. Non è così».
Cosa pensa di Giorgia Meloni premier?
«Indipendentemente dalle idee politiche avere una donna Presidente del Consiglio significa avere le stesse opportunità degli uomini. Non sono mai stata per le quote rosa, ma per la meritocrazia e sono molto contenta che si stia aprendo la porta verso il futuro delle donne».
Lei ha avuto dei compagni, ma si è sposata solo una volta: nel 2014 con Sebastiano Lombardi, direttore di Rete 4. Nel 2017 una dolorosa separazione.
«Sì, è stato un grande dolore la fine del mio matrimonio. Ci devi lavorare per capire che non è un fallimento. Io non mi ero mai sposata perché dò un grande valore al matrimonio. Per anni ho scelto di non sposarmi perché una vocina mi diceva di no, poi a 38 anni ho fatto il grande passo ben calibrato e non credevo potesse finire. Piangevo disperata chiusa in bagno per non farmi vedere da mia figlia, ma tanto i figli capiscono tutto».
Ora a che punto è della sua vita?
«Ho fatto quattro anni di analisi che consiglio a tutti, sono migliorata e cresciuta. Vorrei arrivare alla fine dei miei giorni capendo fino in fondo chi sono . Oggi la mia priorità è trovare la serenità e non è poco. Amarsi per le donne è difficile, è un’attitudine che arriva un po’ tardi. Ora ho una relazione che mi dà serenità e sono più centrata su me stessa».
Eleonora Abbagnato.
Eleonora Abbagnato: «La lettera di Federico Balzaretti che mi colpì. La madre biologica delle mie figlie? Aveva altro da fare» Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.
L’étoile Abbagnato si racconta: i figli, la danza, il marito Balzaretti ex calciatore: «A 14 anni ero già a Parigi, Carla Fracci mi incoraggiò». Dal 2015 è direttrice del corpo di ballo dell’Opera di Roma: «Per gli allievi deve essere anche psicologa. Ho ricevuto lettere anonime»
Eleonora Abbagnato è tutta fuoco. «Sono siciliana e sono un vulcano». Fino al 2021, è stata l’unica ballerina italiana (insieme con Carlotta Zambelli, ma in epoche remote) a diventare étoile all’Opéra di Parigi, che è il luogo dove è nato tutto, perché fu Luigi XIV a istituire la prima Accademia di danza. Lì si imparano lo stile, le posizioni, l’eleganza, il gusto, il vocabolario che nella danza è francese. Sul palco, gli incontri della sua vita sono due: Pina Bausch, che a 17 anni la scelse per La Sagra della Primavera, e soprattutto Roland Petit. Dal 2015 è direttrice del corpo di ballo dell’Opera di Roma. Ma continua a ballare, sarà in un gala il 20 giugno al Ravenna Festival, stella tra le stelle. «Le mie ballerine mi chiamano Wonder Woman».
Com’è entrata la danza nella sua vita?
«Mamma aveva un negozio d’abbigliamento a Palermo e non avendo dove lasciarmi, al piano di sopra c’era la scuola di danza di Marisa Benassai, mi lasciava lì. A 4 anni ero già attaccata alla sbarra».
E poi?
«A 10 anni ho iniziato uno stage importante a Montecarlo, all’epoca era una grande scuola, frequentata da Nureyev. Poco dopo Marisa mi disse che a Palermo veniva Roland Petit, il grande coreografo, per La Bella Addormentata. Cercava una bambina. A 14 anni sono entrata alla scuola dell’Opéra di Parigi. Unica italiana. Il livello era molto alto, la direttrice, Claude Bessy, mi disse, vediamo se resisti. Fu Carla Fracci a incoraggiarmi a studiare fuori».
Ha sofferto la solitudine?
«Sì certo, sono partita col cartellino col mio nome appeso al collo. Ma piangevo soltanto quando la sera non riuscivo a parlare al telefono con mia madre. Non c’erano i cellulari. Ricordo come fosse oggi la cabina telefonica. Io ero socievole, chiacchieravo con le altre allieve, mi attardavo nei corridoi. Così ero sempre l’ultima in fila indiana davanti alla cabina. E non riuscivo sempre a telefonare. Alle nove di sera dovevamo spegnere la luce, tutte a dormire. Quando racconto la vita che facevo ai miei figli, paragono la scuola dell’Opéra di Parigi a un collegio, che non va vissuto come una punizione. Io ho dei ricordi splendidi».
Il cigno nero è il film che ci ha mostrato che non sono tutte rose e fiori.
«Non amo quel film, non ha fatto bene alla danza, non fa innamorare i giovani al balletto. E dice delle falsità, succede una volta su mille che il maitre si innamori della ballerina. Ma è vero che la danza è un mondo a parte, pieno di ripicche e gelosie esasperate. Anche io le ho vissute».
Le mettevano il dentifricio nelle scarpette?
«Questo no. Ma ricordo che a un concorso due ragazzine entrarono in camerino e mi dissero per scherzo che non mi avevano preso. La mia maestra di Parigi mi bucava i glutei con l’ago perché inarcavo troppo la schiena, ce l’ho molto elastica. I grandi maestri entravano in classe col bastone: non per darcelo in testa, era il senso dell’autorità. Comunque intimorivano. Era un’altra epoca, oggi i maltrattamenti non sono lontanamente possibili, gli allievi, soprattutto in America, non puoi nemmeno toccarli fisicamente che ti arriva una denuncia. Ed è esagerato, il rigore devi spiegarlo nel modo giusto. Oggi una direttrice di ballo deve essere anche psicologa. Gli elementi negativi non sono gli allievi ma le madri. Ci sono protagonismi esagerati».
Cosa le è successo?
«All’Opera di Roma ho ricevuto lettere anonime. Poi ho avuto minacce di morte nei giorni in cui, usando dell’acido, bruciarono la faccia del direttore del Bolshoi. Non ero a Mosca ma ne rimasi emotivamente provata. Quando ero étoile a Parigi arrivò una lettera che diceva: liberiamoci della mafiosa siciliana».
Lei vive in una piccola tribù. Ha due figli, Julia di 10 anni e Gabriel di 8; più i due figli che Federico Balzaretti ha avuto nel primo matrimonio, Lucrezia ne ha 17 e Ginevra 14.
«Di Lucrezia e Ginevra non sono la mamma ma le ho cresciute io. È una storia particolare, Federico ha avuto l’affidamento esclusivo».
E la loro mamma biologica?
«Aveva altro da fare».
Vede le figlie?
«No».
Com’è crescere figli non suoi?
«È più difficile, hai il pensiero che magari fai qualcosa di male, o che fai mancare loro qualcosa. Le amo, è come se fossero figlie mie. Ma se non studiano mi arrabbio, se si comportano male le sgrido e tolgo il cellulare. Ho sempre amato i bambini, da piccola giocavo a fare la mamma, mio papà aveva sei fratelli e sorelle, famiglia siciliana numerosa».
La chiamano mamma?
«A me non piace che mi chiamino così, però sì la piccola mi chiama mamma, la grande mi chiama Ele. Aveva un anno e mezzo quando l’ho vista la prima volta. È legatissima a Federico, che è un padre fantastico. Ed è stato sincero fin dal primo giorno. La prima cosa che mi ha detto, il giorno che ci siamo conosciuti (attraverso Nino, un amico comune che fa il parrucchiere), è che la sua priorità erano le figlie. Io ero guardinga, era diventato padre così giovane, a 21 anni... Ho saputo dopo che per le figlie aveva rinunciato a trasferirsi al Milan e al Napoli. Federico lo risposerei ogni mese».
Il calcio le interessa?
«Ha sempre fatto parte della mia vita, mio padre era presidente del Palermo e mio zio direttore sportivo del Catania, mio nonno materno giocava».
E i suoi due figli?
«Siamo fortunati, tra loro quattro si amano, non c’è nessuna gelosia. Gabriel gioca a calcio nei pulcini della Roma, Julia è alla scuola di danza dell’Opera di Roma. Non è originale come percorso. Ha un carattere forte, è generosa, sincera, diretta. Ci somigliamo. Me la portavo in tutti i teatri, non so se poi farà la ballerina. Si è già lamentata di non essere al centro del palco. Le ho risposto che non lo ero nemmeno io, ho lottato per esserlo».
Ma essere al centro del palco fa sentire soli?
«Sì, esiste la solitudine dei numeri primi. A me prendeva quando dovevo ballare sapendo di non essere al top, o di dover interpretare ruoli che non erano così adatti a me. E tutti gli occhi sono puntati su di te, l’étoile. Gli altri mi vedevano così, però io certe sere davvero non mi sentivo pronta».
Con Federico è stato un colpo di fulmine?
«Secondo il nostro comune amico, siamo simili nel carattere. Vero, abbiamo gli stessi valori, è un uomo d’altri tempi, ma lui per temperamento è più riservato, io sono ordinata in maniera ossessiva. Se qualcuno mi sposta un oggetto vado fuori di testa, i vestiti nei cassetti sono disposti per colore, il rosso col rosso e via dicendo. Sono maniacale anche nelle docce: ne faccio tre al giorno».
Il primo incontro con Federico Balzaretti?
«È avvenuto a cena da me a Palermo, c’era anche mio padre. Ci siamo frequentati, dopo un anno mi ha chiesto la mano, nella mia casa di Parigi, a Montmartre. Aveva acceso non so quante candele. Io temevo che prendesse fuoco tutto».
Ride: «Ho detto subito sì, hai visto mai che non me lo chiedeva più».
Cosa la colpì di Federico?
«Una lettera. Quando morì mia nonna paterna, Eleonora, mi scrisse di capire la mia sofferenza, e che la famiglia era un punto fondamentale per lui. Ora fa il dirigente sportivo alla squadra di Vicenza, io vivo a Roma con i figli. Ci vediamo il fine settimana. Il problema è che non sono una che ama il telefono. Ci mandiamo tanti messaggi, anche per farci forza. Una situazione non facile».
Ogni tanto lei fa incursioni in altri mondi.
«Tutto quello che serve per diffondere la danza. Ho fatto l’attrice per Ficarra e Picone; in tv, Amici, Sanremo, Ballando con le stelle; ho partecipato a un videoclip di Vasco Rossi, lo ricordo seduto in un angolo, discreto, quasi intimidito. Non me l’aspettavo, mi ha sorpreso».
Ci sono ancora pregiudizi sull’omosessualità nella danza?
«Meno, ma non se ne vanno mai via del tutto. All’estero sono più avanti».
Riti e scaramanzie prima di andare in scena?
«Se non dormo venti minuti subito prima dello spettacolo, non riesco a ballare».
Sta parlando al presente, come se fosse ancora Giselle... Il suo addio alle scene di Parigi com’è stato?
«Lungo, direi che si è consumato in tre atti. Il primo anno c’era la pandemia e non si ballava. L’anno successivo in Francia c’erano gli scioperi dei gilet gialli. Il vero addio c’è stato il 30 giugno 2021, quando ho compiuto 42 anni. L’età della pensione all’Opéra di Parigi. Ho fatto una festa invitando parenti, amici, vecchi partner, insegnanti».
In Italia a che età si smette?
«A 46. Mi chiede se sono troppi? Un po’».
Com’è dirigere un corpo di ballo nel nostro Paese, dove i teatri per la danza sono sempre pieni ma riconoscibilità sociale pari a zero?
«A Roma è stato faticoso perché l’Opera veniva da un periodo difficile. Siamo ripartiti da zero, svecchiando, togliendo polvere al repertorio. Ma è interessante, c’è tanto da costruire, i grandi coreografi quando vengono non se ne vogliono andare. Sono riuscita a creare un corpo di ballo come volevo. La danza è la Cenerentola ma ha i più grandi successi, e con un pubblico giovane. Il sovrintendente, Francesco Giambrone, palermitano come me, mi conosce da quando ero bambina, quando parlo mi capisce, è una persona di grande cuore».
Ma è difficile smettere?
«Sì, molto, da un giorno all’altro ti chiedono di restituire la chiave della stanza in cui ci sono i ricordi di una vita».
Come si vede tra dieci anni?
«Mi è difficile pensare a una situazione senza un teatro».
Eleonora Daniele.
Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per corriere.it il 2 maggio 2023.
«Io quella casa la sogno ancora oggi». Per capire chi sia Eleonora Daniele, serve più che mai partire dal suo passato, dalla casa dei suoi genitori, nella campagna veneta, dove è cresciuta, ultima di quattro fratelli. «C’era un glicine enorme in giardino, molto bello. Io e mio fratello Luigi ce ne stavamo spesso lì sotto... venderla è stato un dolore enorme, se potessi tornare indietro vorrei tanto salvarla».
Come mai avete dovuto farlo?
«Mio fratello Luigi (morto nel 2015, a 44 anni, ndr) era autistico. Le famiglie che conoscono la disabilità devono fare fronte a grandi difficoltà, anche economiche: mio padre non aveva avuto scelta, ma ha molto accusato questa decisione. La sensazione per tutti è stata quella di vedersi portare via le radici. Ma serviva anche un posto comodo, più vicino al centro, dove mio fratello potesse essere seguito meglio. Era l’unica decisione da prendere».
(...)
Come è arrivato lo spettacolo nella sua vita?
«Lavoravo in banca ma ogni tanto mi chiamavano degli show room del posto, per fare l’indossatrice. Poi, un’emittente locale mi scelse per fare delle interviste in video. Del tipo: c’è Renato Balestra che fa l’ospite in un locale, vai a intervistarlo. Avevo un accento veneto che poi, molto tempo dopo, ho tolto solo dopo cinque anni di dizione. Ma mi pagavano un sacco, almeno in proporzione, cioè rispetto a quello che prendevo in quegli anni».
C’è qualche incontro di quegli anni che ricorda in particolare?
«Mi viene in mente una delle mie prime interviste, a Nicoletta Orsomando, che per me era una specie di mito. Comunque non ho mai cercato questo mestiere, è arrivato».
La bellezza ha contato?
«Sono cresciuta con la sindrome del brutto anatroccolo».
Ecco, questo però è poco credibile.
«Ma è vero: venivo spesso presa in giro per il mio corpo. Ero molto magra, a volte mi mettevo addirittura due paia di pantaloni per sembrare più grassa: una tuta nera sotto i jeans per avere qualche forma in più. Poi mi coprivo le braccia, magrissime. Insomma, mi vergognavo. Non bastasse, anche che i ragazzi mi chiamavano Olivia o “alicetta”... mi dicevano che le mie sorelle, che hanno dieci anni più di me, erano belle e io no. Insomma, davvero, sono stata considerata per anni come una delle più bruttine della scuola».
(...)
Eppure poco dopo arrivò Miss Italia.
«Arrivavo sempre seconda. E succedeva sempre qualche imprevisto, ogni volta che dovevo partecipare alle selezioni. A me o a altri: si apriva una possibilità ma dovevo arrivare il giorno dopo in Sardegna, per dire. Poi ho partecipato al concorso nazionale come Miss Veneto, a Salsomaggiore».
La svolta però è arrivata con il «Grande Fratello». Era il 2001.
«Prima avevo lavorato come comparsa a “La sai l’ultima?”, con Gigi Sabani e Natalia Estrada, ma ancora credevo fossero esperienze momentanee: continuavo a lavorare in banca. C’era una mia collega che seguiva il “Grande Fratello” accanitamente e ricordo che pensavo fosse pazza per appassionarsi a quel programma. Non capivo il fenomeno. Poco tempo dopo mi sono presentata comunque ai provini».
Presa. E da lì la sua vita è cambiata.
«Subito dopo ho iniziato a fare le telepromozioni, per un paio d’anni. In quella occasione incontrai Mara Venier e fu molto carina con me: nelle promozioni mi avevano dato un altro nome, ma lei disse che non ero sbucata dal nulla, quindi dovevano chiamarmi con il mio nome. Una piccola cosa, ma importante».
Come fu visto nella sua famiglia questo grosso cambiamento nel suo percorso?
«Mio padre aveva qualche timore. Era un uomo legato alle vecchie tradizioni: per lui lo spettacolo era un mondo fatto di luci e pochi contenuti... in un certo senso potrebbe essere stato il padre di Checco Zalone nel film in cui gli ricorda l’importanza del posto fisso... lo ha fatto anche con me, che a vent’anni avevo il mio lavoro in banca. Non voleva, insomma, che partecipassi al reality. Per me, piuttosto, aveva altri progetti».
(...)
C’è qualcuno che l’ha aiutata a sentirsi più a suo agio nel suo ambiente?
«Sono molto affezionata a Luca Giurato. Ho vissuto con lui gli anni di Unomattina e mi ha insegnato che si può essere leggeri pur parlando di cose serie. Mi ha fatto conoscere questa doppia cifra, che aiuta quando fai intrattenimento. Tra noi era nata una complicità molto bella, ogni tanto lo chiamo anche oggi. Mi è rimasto molto nel cuore».
Altri incontri che le sono rimasti nel cuore?
FUNERALE COSTANZO GLORIA SATTA MARA VENIER AFEF ELEONORA DANIELE FOTO DI BACCO
«Gina Lollobrigida. Quando l’ho conosciuta la prima volta mi sono molto emozionata. Ed ero impressionata: una donna come lei, che aveva vissuto tutto quello che aveva vissuto, che aveva conosciuto chiunque, con mille possibilità, restava una persona assolutamente eclettica e, soprattutto, una donna indipendente, padrona di sé stessa. Per me questo suo animo è stato un grande insegnamento oltre che un esempio di emancipazione».
Crede che le donne debbano ancora faticare molto per raggiungere l’obiettivo della parità?
«Le donne sono vittime di continui pregiudizi e delle sottoculture maschiliste che ancora esistono. Anzi, con i social stanno dilagando. La donna deve splendere per sé stessa, che non significa altro se non essere sé stessa, a prescindere da quello che gli altri vorrebbero. Per me è questo il principio fondamentale da cui dovrebbe partire la rivoluzione di ognuna di noi».
Estratto da cinquequotidiano.it il 2 maggio 2023.
(…) Dal Grande Fratello è arrivata in Rai approfittando di molte amicizie politiche, seguendo il suo fiuto di sopravvivenza, prima ha militato ufficialmente nel centro destra, in particolare Alleanza Nazionale, indimenticabili le riunioni del gruppo An in Rai. Appena il centro destra ha perso, la bussola l’ha indirizzata verso altri lidi, Lega compresa, per pochi mesi però, per poi ritornare alla grande in An, non trascurando Forza Italia. Ci ricordiamo come Il Tempo quotidiano di Roma esaltò il pianto di gioia di Eleonora per la nomina del sindaco di Roma Gianni Alemanno (…)
Eleonora Giorgi.
Eleonora Giorgi: «Ho un tumore al pancreas ma posso operarmi». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
L’attrice ha raccontato il suo stato di salute a Myrta merlino a «Pomeriggio 5»
«Ora ho bisogno di voi, del vostro amore: mi hanno diagnosticato un tumore al pancreas. Ora comincia il cammino che condividerò con decine di migliaia di persone, la chemio, l’operazione, poi il ritorno: lo voglio viere in vostra compagnia». Lo ha rivelato Eleonora Giorgi, ospite di Myrta Merlino a Pomeriggio 5. «Quando ci siamo incontrate — ha raccontato l’attrice, 70 anni, parlando con la conduttrice — avevo appena fatto per un puro caso una tac, venivo da una biopsia che poteva anche voler dire un anno, e invece adesso è arrivata la risposta, sono qui come guerriera, la cosa positiva è che potrò operarmi». Ha sottolineato Eleonora Giorgi negli studi di Canale 5: «Non siamo superman, non dobbiamo vergognarci della malattia. Una cara amica, molto prudente e molto buona, mi ha consigliato di non dirlo: avrai le facce di circostanza, ti isoleranno, mi ha detto. E invece no: tutti noi non ci dobbiamo vergognare se ci sentiamo male. Magari tornerò qui con una parrucchetta — ha sorriso, ringraziando i due figli— per lo straordinario amore che mi hanno testimoniato, a un livello che non immaginavo».
Eleonora Giorgi e la malattia: «Due anni fa i primi sintomi, avrei dovuto approfondire. Ora con la chemio inizia la battaglia». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2023.
L’attrice e il cancro al pancreas: l’ho scoperto in tempo per via di una serie di circostanze fortuite
Eleonora Giorgi, ha paura?
«Molta, mercoledì inizierò il ciclo di chemioterapia all’Humanitas di Milano. Mi hanno detto che con il primo potrei dormire anche per tre giorni, tanto sarà forte. Dovrò ripetere le terapie ogni 15 giorni. Ma ho deciso di combattere con determinazione».
Adenocarcinoma al pancreas. Come ha reagito a questa diagnosi?
«Con incredulità, credevo che avessi problemi polmonari. Sono stata miracolata, perché l’ho scoperto per tempo per via di una serie di circostanze fortuite».
Quali circostanze?
«Avevo un forte raffreddore, il 26 ottobre, 5 giorni dopo il mio settantesimo compleanno, mi sono ritrovata a fare la mammografia. In quel momento è arrivato un brutto colpo di tosse. “Già che ci sono farei una lastra”, ho detto all’ecografista. E quell’angelo: “Signora prenoti una tac”».
E cosa è successo?
«L’esame ha rivelato dei piccoli noduli, di cui due frastagliati. Lo pneumologo mi ha prescritto una Pet che ha portato alla luce il carcinoma al pancreas. Se i noduli ai polmoni fossero stati metastasi ora avrei un anno e mezzo di vita davanti. Invece la biopsia ha detto che dopo la chemioterapia potrò operarmi».
Il primo pensiero dopo quel «verdetto».
«All’inizio ho pensato in modo egoista che se dovevo morire, beh pazienza: ho vissuto una vita incredibile e invecchiare non mi piace per nulla. Poi mi sono guardata intorno e ho visto i miei figli Andrea e Paolo addolorati, ho sentito il loro grande amore: tra le cose positive di questo momento c’è l’essere al centro dei loro cuori».
Il tumore al pancreas è considerato uno dei big killer.
«Ho esorcizzato molte paure documentandomi subito, insieme ai miei figli. Scoprirlo per tempo è decisivo. E ovviamente ho esaminato gli altri casi noti, come quello di Fedez e di Steve Jobs. Mi ha sorpreso scoprire che Jobs per lungo tempo si è affidato a cure alternative. Io ho piena fiducia nella scienza».
È un tumore spesso silente, è accaduto anche a lei?
«No, io avevo avuto dei sintomi. Due anni fa gli esami di routine mi avevano diagnosticato una glicemia alta: i medici la imputavano a una dieta scorretta, io che mangio in modo così frugale! O in alternativa davano la colpa alla vita sedentaria del Covid. Per scrupolo avevo fatto un’ ecografia al pancreas che non evidenziava nulla: avrei dovuto approfondire. Sono qui per dire proprio di non trascurare nessun segnale».
Il suo stato d’animo sembra comunque sereno.
«Ho pensato che posso essere d’esempio agli altri. Anche durante le biopsie ho messo in atto le mie doti di attrice, come quando non dovevo neppure muovere le ciglia per sembrare morta. Sono stata così immobile che i medici mi hanno fatto i complimenti».
Perché ha deciso di parlarne pubblicamente?
«Myrta Merlino, poco prima dell’inizio della trasmissione mi ha fatta sentire benvoluta. Avevo quel macigno nel cuore e ho pensato: “Forse qui posso chiedere al mio pubblico tutto l’amore di cui ho bisogno”».
È stata criticata?
«Nessuno ha avuto nulla da ridire».
Tornerà in trasmissione per dare aggiornamenti sul suo stato di salute? «Sì, perché voglio dare coraggio a chi combatte come me, ci sono anche tanti giovani e questo mi addolora. Mi servirà anche per non buttarmi giù: perderò i capelli, le sopracciglia, ma quei momenti mi daranno il pretesto per truccarmi, indossare un turbante nero o una parrucca vaporosa. Sentirmi viva».
Ha parlato di giovani in cura, Fedez sta combattendo la sua battaglia.
«So che ha parlato di depressione. Come una zia mi piacerebbe incontrarlo per sorridergli e fargli sentire quella serenità che ho dentro. Vorrei ricordargli che ha costruito una famiglia meravigliosa e una grande carriera».
Certi amori non finiscono. Eleonora Giorgi, i 70 anni e la storia d'amore con Massimo Ciavarro. Il 21 ottobre 1953 nasceva Eleonora Giorgi una delle attrici più amate del cinema italiano. Negli anni '80 salì alla ribalta delle cronaca rosa per la sua storia d'amore con il collega Massimo Ciavarro durata fino al 1996. Novella Toloni il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Rizzoli e il divorzio
L'incontro sul set
La vita in campagna
Il ritorno al cinema
La gravidanza e la nascita di Paolo
Il matrimonio
Il divorzio
L'affetto e la stima
La reunion nel 2020
Settant'anni fa nasceva Eleonora Giorgi, una delle attrici più amate e rappresentative del cinema italiano. L'esordio a soli 19 anni nel film "Roma" di Federico Fellini le ha spalancato le porte della cinematografia, dove ha rivestito ruoli iconici in film indimenticabili come "Nudo di donna", "Mani di velluto" (con Adriano Celentano), "Mia moglie è una strega" (con Renato Pozzetto) e "Borotalco" (con Carlo Verdone), che gli fa ottenere un David di Donatello e un Nastro d'Argento. Richiestissima anche in televisione, dove ha recitato in numerose fiction ("Festa di Capodanno" e "Lo zio d'America"), Eleonora Giorgi ha ottenuto riconoscimenti e successi nella sua lunga carriera, ma è anche per la cronaca rosa, che è stata molto amata dal pubblico. La storia d'amore con il collega Massimo Ciavarro, nata sul set di "Sapore di mare 2" negli anni '80, ha scaldato il cuore dei fan almeno fino al definitivo addio avvenuto nel 1996.
Rizzoli e il divorzio
Eleonora Giorgi ha 26 anni quando sposa l'editore Angelo Rizzoli, dal quale ha il primo figlio Andrea. La relazione però termina bruscamente quando Rizzoli finisce al centro dello scandalo P2 e viene arrestato nel 1983. L'uomo trascorrerà in carcere tredici mesi, ma nel frattempo l'attrice presenta le carte del divorzio. Il cinema è il suo rifugio in questo momento difficile e ottiene grande successo con "Grand Hotel Excelsior" e "Mani di fata" prima di essere scelta da Bruno Cortini per il sequel di "Sapore di Mare".
L'incontro sul set
È il 1983 e Eleonora Giorgi ottiene il ruolo di Tea Guerrazzi in "Sapore di mare 2 - Un anno dopo". Nel cast c'è anche Massimo Ciavarro, che recita il ruolo di Fulvio Comanducci, e tra i due - che per esigenze di copione amoreggiano sul set - scocca la scintilla. "Non la conoscevo, ma avevo visto sue foto. Mi piaceva tantissimo. Ero imbarazzatissimo ma mi colpirono le sue parole, mi disse di giocare e ridere", racconterà anni dopo Ciavarro, parlando del loro primo incontro. La passione li travolge ma Eleonora Giorgi è ancora troppo esposta a livello mediatico - a causa della vicenda di Rizzoli e del divorzio - per godersi il suo nuovo amore alla luce del sole.
La vita in campagna
Dopo avere finito le riprese di "Vediamoci Chiaro", nel 1984, Eleonora Giorgi decide di prendere le distanze dalla scena pubblica per fare calmare le acque. I guai giudiziari dell'ex marito, infatti, sembrano condizionarla e l'attrice si rifugia con Massimo in campagna, dove vive due anni lontano da tutto e tutti tra animali e vita campestre. Ciavarro apre addirittura un'azienda agricola e fino al 1986 la coppia rimane ai margini dello showbiz.
Il ritorno al cinema
Nel 1986 Eleonora Giorgi accetta di far parte del cast di "Giovanni Senzapensieri" e recita nel film per la televisione "Atto d'amore". La storia d'amore con Massimo Ciavarro prosegue spedita ma la coppia cerca di mantenere privato il sentimento, rimanendo lontana da gossip e pettegolezzi. Anche l'attore è molto impegnato e torna da protagonista al cinema nel film cult "Grandi magazzini" e in tv con "Affari di famiglia".
La gravidanza e la nascita di Paolo
Dopo avere recitato in "Compagni di scuola" di Carlo Verdone - è il 1988 - si parla di possibile matrimonio per Eleonora Giorgi e Massimo Ciavarro, ma i due preferiscono vivere la loro vita in campagna dove producono olio e allevano animali. "Preferivamo quello ai film", confesserà Ciavarro anni dopo. Alla fine del 1990, Eleonora rimane incinta e il 22 ottobre 1991 nasce Paolo Ciavarro. L'attrice si allontana nuovamente dalla scena pubblica per crescere il piccolo Paolo e godersi l'amore del compagno al riparo dalle attenzioni di paparazzi e curiosi.
Il matrimonio
A dieci anni di distanza dal loro primo incontro, Eleonora Giorgi e Massimo Ciavarro si sposano nel 1993. Le nozze sono private e non ci sono foto di quel momento, che vede partecipe anche il piccolo Paolo, che ha poco meno di due anni. Dopo le nozze l'attrice e Ciavarro tornano alle loro occupazioni, in campagna, ancora lontani dai set ma molto attivi nell'imprenditoria agricola tra serre, giardini e animali.
Il divorzio
Tre anni dopo, senza troppo proclami, i due attori si dicono addio. È il 1996 e Eleonora Giorgi e Massimo Ciavarro divorziano. La decisione, si scoprirà anni dopo, viene presa dall'attrice: "Tra noi è finita perché gli uomini dopo un po’ tendono a darti per scontata e a metterti su uno scaffale". Pubblicamente, però, la coppia non darà mai spiegazioni se non di recente. Per la Giorgi il 1996 rappresentata il fallimento coniugale ma anche il ritorno in tv con due serie "Uno di noi" e "Mamma, mi si è depresso papà" oltre a ricevere il Premio "François Truffaut" alla carriera al Giffoni Film Festival.
L'affetto e la stima
Nonostante l'addio Eleonora Giorgi e Massimo Ciavarro rimangono uniti. La stima e l'affetto reciproco non svaniscono. Si presentano fianco a fianco alla consegna dei Nastri d'Argento nel 2006 e tornano sul set insieme nel film "Agente matrimoniale". Nel 2009, quando la Giorgi dirige il suo secondo film da regista, "L'ultima estate", chiama l'ex per sostenerla e il film viene prodotto insieme a Ciavarro. La fine della relazione ha segnato, però, l'attore, che di recente ha confessato: "La nostra separazione è stata molto dolorosa. Dolorosa perché comunque avevamo fatto tanto insieme, debbo dire che ci ho messo del tempo per riprendermi. Sono stato parecchio male".
La reunion nel 2020
Massimo e Eleonora rimangono legati grazie al figlio Paolo, ma in televisione si fanno vedere di nuovo assieme e in sintonia solo nel 2020, quando il figlio partecipa al Grande Fratello Vip. I due attori sono ospiti di Domenica Live e alla D'Urso Eleonora Giorgi confessa: "Ci siamo lasciati ma dopo tre anni gli ho supplicato di tornare insieme. Non avremmo dovuto lasciarci". Gli anni d'oro dell'amore però sono tramontati. Lui oggi vive tra Roma e Lampedusa, dove ha un'attività turistica, e si dedica allo yoga. Al suo fianco c'è una nuova compagna, della quale però non ha rivelato l'identità. Eleonora Giorgi, che lo scorso anno ha partecipato a "Il cantante mascherato 3", è invece single e concentra le sue energie su sceneggiature e cinema. Novella Toloni
Da "Un Giorno da Pecora" mercoledì 18 ottobre 2023.
I miei 70 anni? “Ho avuto delle cose dalla vita talmente enormi che non posso certo lamentarmi, il bilancio della mia vita è sicuramente positivo, nonostante i miei errori. E a quest’età non me ne frega più niente delle cose inutili, penso solo a quello a cui tengo veramente”. A dirlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l’attrice Eleonora Giorgi, che sabato festeggerà il suo compleanno raggiungendo un traguardo molto importante.
Quanti anni si sente? “Io me ne sono sempre sentiti 13 o 14. Per dire, io ero amica di Oriana Fallaci, una donna che più impegnativa non si può. Anche con lei mi sentivo un’ adolescente candida”. I 70 anni – hanno scherzato i conduttori di Un Giorno da Pecora - sono i nuovi 50? “Ho fatto solo uno di quei lifting che non ti cambia tanto, che ti mette solo un po’ in ordine. E se hai un viso non disperato, allora i 70 sono i nuovi 50 anni, almeno se stai bene di salute”.
Lei è stata uno dei più grandi sex symbol italiani. Quando lo si è lo si resta per sempre? “Assolutamente si. Pensate però che quando ho fatto il primo film io avevo baciato solo un ragazzo”. Visto che con l’ospite in studio, il leghista Romeo, si parlava di Ponte sullo Stretto, anche la Giorgi ha detto la sua sull’argomento. “Io lo farei - ha detto a Rai Radio1 Giorgi - ho tanti amici in Sicilia che vogliono muoversi più facilmente, magari andare a Milano a cercare lavoro e ora devono spendere 1000 euro di biglietto aereo. Questo non è accettabile”.
Dopo anni di conflitti, la Giorgi ha poi fatto pace con Eleonora. Redazione su L'Identità il 30 Aprile 2023
di FRANCESCO URRU
Nonostante gli anni siano passati, il cinema di qualità italiano per fortuna ancora ci accompagna. L’attrice che abbiamo incontrato è stato e resterà il simbolo di quel cinema, semplice divertente made in Italy. Ha fatto sognare milioni di persone con il suo sguardo ora si affaccia al mondo dello spettacolo con bellezza e maturità molto profonde, con tante riflessioni su di sé e sul futuro.
Com’è Eleonora fuori dal set e dal lavoro?
Bella domanda. Dopo 50 anni su 69 di vita pubblica, avendo iniziato la mia carriera a 19 anni, forse per 20 o 30 anni, “Eleonora” ed “Eleonora Giorgi” hanno convissuto in una maniera che dopo ho reputato sbagliata: è stato come se il titolare d’azienda e l’azienda conducessero lo stesso stile di vita. Poiché tu sei la tua stessa azienda, è difficile dividersi quindi per scelta da almeno 20 anni “Eleonora” ed “Eleonora Giorgi”, sono due entità distinte. Eleonora Giorgi è il prodotto dell’esperienza di una carriera lunghissima, di un rapporto meraviglioso e felice col pubblico, e racconta una storia che è passata attraverso i decenni, rappresenta qualcosa di storico; è molto attenta quando indossa i suoi panni in tv, sul set o quando presenta un festival. C’è un rapporto con gli altri, con la professione, con l’immagine pubblica quasi come l’impegno di un militare. Eleonora invece è una persona libera che fa i suoi sbagli, che comunque è dedita ad Eleonora Giorgi, è grata perché la Giorgi mi ha fatto passare con i suoi impegni una vita molto più interessante, talvolta più estrema, talvolta più sofferta rispetto a quella che avrebbe vissuto Eleonora!
Ora si dedica di più al suo nipotino…
No, il nipotino è arrivato da 14 mesi ed è il mio bene supremo, ma lavoro ancora: ho scritto un film su tema che mi sta molto a cuore: quest’estate elaborerò come libro. Ho scritto anche un format che ho presentato a una rete, ma non ti posso dire il contenuto.
Neanche un piccolo spoiler?
Riguarda un determinato argomento, una cosa che comunque sarebbe destinata sempre a un day time.
Che cosa pensa e spera di trovare dietro l’angolo Eleonora?
Penso che l’età ti porti ad essere più disincantata, ma volendo essere ottimista spero che dietro l’angolo ci sia il recupero della mia carriera di attrice, il recupero del rapporto col pubblico, il poter produrre il format di cui ti ho accennato, magari addirittura un amore. Invece quello che penso che ci sia è tanto complesso, ma che nel frattempo devo sapere apprezzare quello che c’è ovvero il quotidiano che è la realtà.
Si sente in corsa contro il tempo?
Assolutamente no, lo vivo serenamente, adoro stare nell’età che ho, perché mi sento molto più capace di fare e di pensare, ho il pregio di avere l’esperienza: questo non esclude la consapevolezza che il tempo davanti a me si sia molto accorciato.
La giornata tipo di Eleonora. Eleonora si sveglia e…
Faccio i miei esercizi di ginnastica, mi programmo entro sera di camminare; la mattinata cerco di non uscire mai, se non lavoro in TV. Poi ho tutte quelle che sono le routine abituali di chi non ha un compagno: io non condivido il piacere dei commercialisti, delle bollette, tutte le rotture di palle, le ho tutte io e ho ogni giorno queste pratiche. Normalmente esco verso le 14,30 e dedico il mio pomeriggio alle cose esterne che ho da fare, che includono talvolta tutti gli aspetti di Eleonora Giorgi, che possono essere i capelli vestiti, cose da mettere in ordine. Una parte del mio lavoro che è come quello di una costumista, quasi.
Si sente penalizzata ora rispetto al passato come attrice?
Penalizzata non è un termine giusto. Io ho una storia molto particolare che talvolta viene anche dibattuta, ma adesso sarebbe un po’ lunga, ma io sono sorprendentemente una che ha 10 anni di carriera favolosa che mi fanno entrare nel cuore degli italiani ancora dopo quarant’anni dalla produzione di un contenuto, di un patrimonio, cioè quei 40 film da protagonista. Alcune sono grandissime commedie, altre addirittura tipo, Borotalco, entrato nei migliori 100 film italiani. Quello è un patrimonio che è rimasto a disposizione del pubblico che ne fruisce ancora in TV dopo quarant’anni ed è pazzesco e che comunque quello che mi fa sentire oggi uguale a ieri, anche perché la mia giornata si svolge quando esco di casa in mezzo a un mondo che mi riconosce tutto ciò già sulla strada, appunto per me è una festa andare a prendere un caffè al bar.
Un film che vorrebbe rifare?
Se vuoi sapere qual è l’esperienza che rivivrei volutamente è Borotalco. La costruzione del personaggio, calarmi dentro fino in fondo al ruolo, è stato meraviglioso, tutto quel divertimento che c’è stato davanti e dietro le quinte. Io lavoravo già da 8 anni, avevo fatto grandi film da protagonista, ma non avevo mai lavorato coi miei coetanei. Con Carlo siamo stati alunni ed è stato fantastico. Cioè un’alunna con gli alunni in classe, capito? Non professori e presidi.
Che cosa teme Eleonora, cosa la turba?
Mi fa paura tutto quello, ho chiesto a paura a tutta l’umanità. L’incidente in agguato dietro l’angolo, un qualcosa di inaspettato, una malattia grave, una perdita della sussistenza… Non è qualcosa in sé, anche l’elenco le altre cose che neanche le posso dire nella vita può succedere tutto. L’imponderabile, mamma mia. Nel bene e nel male.
Visto che nella sua carriera ha fatto tutto, che ne direbbe di diventare influencer?
Quando ho iniziato la mia carriera, la scuola di pensiero di quel tempo era che il divo si nascondeva. Io cresco con intorno a me Monica Vitti, di Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman, Mastroianni. Tutta gente schiva che non farebbe mai vedere il suo privato, eh. Poi è cambiato tutto. A me Instagram diverte. Esserci quando mi va. Se non mi va, non ho quella cosa professionale che invece il pubblico ha sui social. Non credo riuscirei a diventare un’influencer: ho quel senso del privato antico che mi ha forgiata, che per quanto mi son traghettata, comunque mi influenza e che forse è incompatibile con questa professione.
Estratto dell’articolo di Arianna Finos per repubblica.it il 10 aprile 2023.
Eleonora Giorgi si è appena trasferita nella nuova casa ai Parioli, nel salotto ancora gli scaffali da riempire e scatole di libri, al muro il ritratto di nonna Katò, bellissima signora bruna dai capelli corti. Un ritorno alle origini.
[…] Lei è andata a vivere da sola presto.
“Sì, e mi sono fidanzata a 14 anni. Il paradosso che io divento al cinema la Lolita nuda, ma in realtà avevo avuto un solo ragazzo, Gabriele. […] Ho saputo che esisteva l'omosessualità al mio primo film. […] Io, che non sono alta e sono formosa, esordisco fotomodella di taglie forti per Annabella”.
Il primo incontro al cinema con Fellini e Roma, 1972.
“Sì, ero andata a vivere con Gabriele, ci prendono nella scena dei motociclisti, sono un puntino tra gli altri in Piazza Euclide. Ma Fellini l’avevo incrociato ragazzina, […] voleva me e mia sorella per fare le ragazzine del suicida in La dolce vita. E un’altra volta sulla spiaggia, sempre con Gabriele, Fellini mi aveva predetto che avrei fatto cinema, mi aveva detto di andare a Cinecittà”.
Il debutto con Storia di una monaca di clausura, scritto e prodotto da Tonino Cervi.
“[…] Ho dovuto sostituire Ornella Muti, che era diventata famosa con il film di Damiano Damiani, era conosciuta anche in Spagna. Cervi aveva incontrato tutte le aspiranti attrici. Io andai per curiosità, per competizione con mia sorella, con il cappello di paglia e le zeppe, buffa, carina. Lui si incantò, mi chiese di fare questo provino, erano solo delle foto.
Mi fecero indossare il vestito di Charlotte Rampling, mito assoluto della mia generazione, di Addio, fratello crudele che a me non entrava, ricordo il momento umiliante con i costumisti che stringevano i lacci del bustino come dannati. E poi c’era la scena di spogliatoio, mi era chiaro che fosse una specie di allusione. […] Gabriele delle scene di nudo disse: 'Ma che importa, il mondo è cambiato'. Alla conferenza stampa sono spigliata, piaccio ai giornalisti. Poi partiamo per Londra, in moto, dieci giorni. L’esame era saltato per via del film. Torno e scopro che avrò un contratto per quattro anni.
Inizio Appassionata, il personaggio diventa una Lolita d'Italia. Da allora, mentre Gabriele resta ragazzo, io entro in un mondo di adulti. I set per me erano come stare con professori e preside, a scuola. Io e Gabriele ci lasciamo”.
Con Ornella Muti sul set?
“La prima vola che la vedo penso che sia la donna più bella del mondo, denti come perle, occhi pazzeschi, vestita firmata, mentre io sono una studentessa. Sul set c’è tra noi una sotterranea competizione per avere le attenzioni: Tonino era furbissimo, si divertiva come un pazzo, godendo nel dividerci. E il convento tutto costruito dentro al Palatino, il più bel teatro di posa del mondo. La mia vicina di camerino era Elizabeth Taylor”.
Com’era?
“Lontanissima. Dicevano fosse spesso ubriaca, sottobraccio con il produttore, ricordo un certo Peppe il Roscio, terribile: 'Elisabeth!', urlava e le pizzicava il fondoschiena. Quando facevo la principessa invece che la novizia volevo che lei mi vedesse con quei costumi […]'”.
Si lascia, poi c’è Alessandro Momo.
“La mia prima storia con uno del cinema, ma con origini comuni. All’epoca vivo da sola, lavoro tanto, sono introversa. Ma Alessandro è un ragazzo di questo quartiere, mio padre e suo nonno si conoscevano.
Lui aveva una Honda piccola, io avevo comprato la moto di Gabriele. Era un pazzo vivacissimo. Lui girava Profumo di donna, ero in casa e mi sento chiamare dal cortile, è lui: 'Sono venuto a fare un giro'. Era venuto via dal set perché in quel mondo maschilista che c’era allora avevano sfottuto una comparsa, la 'comparsaccia', una vecchia signora procace,e a lui questo non era piaciuto.
Poi io parto per Londra con degli amici del cinema, serate, sfilate di moda…torno, avevo prestato la moto ad Alessandro. Lui mi dice 'vado a lezione, poi te la restituisco'. Sto da amici, ma mio padre mi trova: 'Alessandro è caduto dalla moto, corri al Santo Spirito'. Arrivo che c’erano solo i genitori, lui era morto, me lo hanno fatto salutare. Un grandissimo trauma”.
Una crisi profonda, la droga.
“La morte di Alessandro, la solitudine, è stato troppo. Ma entra nella mia vita Angelo (Rizzoli ndr): ho sempre sognato con i libri, ho avuto sempre un senso romantico della vita e lui un angelo lo diventa davvero. Aveva anche profondi problemi. Ma siamo stati felici. La grande crisi è il risveglio con la Finanza in camera da letto. E quello che mi hanno fatto dopo…io sono una donna fiera, umile ma fiera. Non voglio il ritratto di una persona che ha subito torti gravi. […]”.
Prima delle cronache giudiziarie eravate una coppia socialmente molto corteggiata.
“Sì, ne ridevamo, lui era più riservato e introverso di me. Poi sono successe cose molto pesanti. Ho passato gli ultimi trent’anni a ricostruire tutto quello che è successo davvero. Alla fine di quell'anno tragico, di arresti, in cui io scopro un mucchio di follie di cui non mi va di parlare […].
[…] Perché il suo è stato uno dei primi esempi in Italia di un'operazione economico politica che ha usato un braccio giudiziario. […] Alla fine di tutto questo è chiaro che io sono bruciata, e dico ad Angelo di ricominciare. […] Ho mantenuto un rapporto grande con il pubblico che mi ha scelta brillante, ottimista, buona, senziente, un po’ ingenua. Tra tutti i miei film amati c’è questo personaggio. Faccio cinquant’anni di carriera a giugno, da quell’esame mancato, dal primo set”.
[…] Torniamo ad Angelo Rizzoli.
“[…] Dopo la vicenda giudiziaria lui si lega a Berlusconi. Io gli faccio questo ultimatum. Così mai più. Perché io vedo che tutto ricomincia, uguale come prima. Ma non avevo capito, non ero abbastanza matura, che quella era l’azienda di suo nonno e c’era stato un furto e uno smacco, perché le testate erano fiorenti, l'azienda non aveva dei buchi, c'erano dei buchi per i soldi da dare ad Agnelli, avevano comprato sto maledetto Corriere della Sera, ma l'azienda era sana.
I politici tornavano nella nostra villa, vivevamo al di sopra delle nostre possibilità e io non volevo. Io dicevo prendiamo una casa a New York, nascondiamoci, inventiamoci una nuova vita, lui mi disse che ero una piccola borghese. 'Io non accetto critiche da nessuno, meno che mai da mia moglie, la porta è quella, se vuoi'. Non era vero, ma io ne ho approfittato. Perché non potevo, non volevo. Però a me lui è mancato. Siamo rimasti molto legati”.
[…] Rimpianti o pentimenti?
“Mi sono divertita a stilare mentalmente un elenco di tutte le volte che ho detto no a uomini considerati fantastici, da Alain Delon a Jack Nicholson fino ad Alberto Moravia. Mi sono detta: ma perché ero così? Perché tutti quei no? Ero traumatizzata dal fatto che al cinema mi avevano trasformato in un oggetto del desiderio.
Alla fine ho avuto un numero di uomini piccolissimo. Perché avevo paura di essere usata, perché probabilmente ero immatura. Adesso mi sono pentita di avere avuto sempre paura del sesso e degli uomini e quindi poter dire sì solo con il grande amore, sennò no. Ho capito troppo tardi che avrei dovuto avere lo stesso coraggio da esploratrice che avevo nella vita, anche con gli uomini. Chiedo scusa a tutti loro perché sono stata una stupida”.
A Warren Beatty ha detto sì.
“Grande seduttore, una di quelle persone che usano armi psicologiche, adorano il narcisismo, la seduzione. Era un incredibile uomo di charme, ti faceva parlare, e aveva abitudini riservate, come me.
I nostri vicini a Los Angeles erano Marlon Brando e Jack Nicholson. Brando non l’ho conosciuto, mentre un pomeriggio arriva una spider e un tizio con gli occhiali scuri e la camicia hawaiana, era Nicholson. Devo dire che lui si era fatto avanti quando non stavo più con Warren.
[…] Un ricordo bello fu quando Warren volle mostrare a un gruppo di amici Borotalco, ero stata premiata a Montreal. Ma, quando inizia la proiezione mi accorgo che la copia mandata da Cecchi Gori non ha i sottotitoli. Sobbalzo, ma Jack mi fa un cenno. Si guardano il film facendosi molte risate. 'Fantastico'".
Il film in cui si è piaciuta di più?
“Sicuramente Borotalco, l'unico dei miei film dove io, grazie alla fiducia di Carlo, che era un coetaneo, non avevo più 'presidi' e 'professori', ero con la mia generazione. Sicura di me ho costruito il personaggio, dentro e fuori, usando persino le mie scarpine turchesi…”.
[…] L'incontro con Massimo Troisi?
“Sì, una storia d’amore breve, ai tempi di Non ci resta che piangere […]. Dopo la separazione da Angelo, in uno stato emotivo particolare, accetto un invito di un operatore turistico insieme a mezzo mondo del cinema.
[…] Una mattina Massimo mi racconta: 'Ho fatto un sogno bellissimo, ero su un’isola, io e mille donne belle e disponibili'. Rispondo: 'Io invece vorrei stare su un'isola col più figo del mondo che non mi vuole…'. Era poetico, pigro, spiritoso, sempre con Sergio Leone, in caftano, al bar. Io e la Muti siamo le attrici più giovani ad aver visto quel cinema.
Ecco perché dopo Borotalco sono rimasta senza fiato per il fatto che Verdone non mi avesse richiamato. Pensavo a noi come a una nuova coppia comica, Sordi-Vitti, anche se loro sono irraggiungibili. Quando gira Io e mia sorella con Ornella Muti ero in Inghilterra, resto ferita, è spaventoso per me. Il personaggio di ragazzina rock, quello del film, ero io. Ho girato Compagni di scuola, un piccolo ruolo dopo quaranta film da protagonista. Mi sentivo mortificata ma non l’ho mostrato. Bisogna essere umili”.
Adriano Celentano?
“Uno degli uomini più sexy mai incontrati. Quando ho fatto il film con lui ero incinta e innamoratissima di Angelo, ma quando entra nella stanza sono comunque colpita dal suo sex appeal animalesco, che prescinde la sua volontà. Lui un lento, una bionda che parla veloce, personaggio che ho usato sul set anche con Pozzetto, Dorelli, Villaggio…”.
Massimo Ciavarro, Sapore di mare 2.
“Ci conosciamo sul set di Sapore di mare 2, io penso ad altro, la crisi con Angelo. A Forte dei Marmi in roulotte, bussa il regista ed entra con questo angelo, un putto, saltella da una gamba all'altra. Prima di uscire mi sussurra 'ahó io non te garantisco niente, le battute ecc'.
L’ho amato, nella sua paura di sbagliare. La nostra scena culto è 'pizza fredda e birra calda', mi fanno tutti la battuta. L’ho amato non da cotta, quasi da sorella, non che non ci fosse il sesso, ma l’affinità, era un’oasi di verità, semplicità, di valori basici, sani. Siamo stati insieme dieci anni, a un certo punto mancava il romanticismo.
Dopo che ci siamo lasciati, poi abbiamo fatto una piccola casa di produzione insieme. Lui mi odia per questo, perché effettivamente non era più il tempo dell'artigianato artistico. E poi è sparito di punto in bianco, per sempre, dalla mia vita. Lo vedo ogni tanto perché è nonno, ci sentiamo pochissimo. È la sua natura, è tenebrosissimo”.
Andrea De Carlo?
“Era il ragazzo che avrei dovuto incontrare dopo Gabriele, un’affinità creativa pazzesca. […] Durata sei anni, ma lui con un piede dentro e uno sul pianerottolo. [..] Ero divisa tra lui e i figli, non avevo tempo per me. Non c’era parità, ne ho sofferto”.
Oggi?
“Non ho un compagno. Anche perché secondo me, nonostante stia tutto cambiando molto velocemente, esiste una figura discriminata e non prevista del decreto Zan, che è la donna sopra i 60 anni, di cui tranquillamente Dagospia può scrivere 'le carampane' o ' le vecchiacce'. Una sessantenne non è una merce sul mercato dell’amore. Ci avete allungato la vita ma dobbiamo fare trent’anni da vedove". […]
Eleonora Giorgi, dalle origini dei genitori all’uso di cocaina. Sette curiosità su di lei. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.
E’ una delle attrici del film “Mia moglie è una strega”, grande successo del piccolo schermo. Oggi è anche regista e sceneggiatrice molto amata. Ma anche nonna del piccolo Gabriele
Gli esordi
E’ Eleonora Giorgi, 69 anni, una dei protagonisti del film “Mia moglie è una strega” (stasera su Cine 34 alle 20.55), grande successo del piccolo schermo. Oggi non è solo attrice, ma anche regista e sceneggiatrice molto amata. Ha esordito sul grande schermo in “Roma” di Federico Fellini, per poi diventare un sex-symbol negli anni ’70 ma il ruolo che la consacra al grande pubblico è quelli di Nadia Vandelli in “Borotalco” di e con Carlo Verdone.
Con Malgioglio
Nel 1981 incise un 45 giri con un testo scritto da Cristiano Malgioglio: il titolo era “Quale appuntamento”.
Figli
Ha due figli, Andrea nato nel 1980 dal matrimonio con l’editore Angelo Rizzoli, e Paolo – classe 1991 – nato dalla relazione con il collega Massimo Ciavarro conosciuto sul set di “Sapore di mare 2” e sposato nel 1993. Proprio Paolo l’ha resa nonna con la nascita del nipotino Gabriele, avuto dalla showgirl Clizia Incorvaia.
Le origini
Eleonora Giorgi è nata a Roma nell’ottobre del 1953: ha origini inglesi da parte di padre e ungheresi da parte di madre.
Momenti difficili
Nel 1974 viene indagata dalla Procura per incauto affidamento a seguito della morte del collega e fidanzato Alessandro Momo che perse la vita alla guida di una moto che l’attrice all’epoca 21enne gli aveva prestato. Da quel momento, per sua stessa ammissione, Eleonora Giorgi diventa dipendente dall’eroina fino all’incontro con Angelo Rizzoli che le salva la vita.
La rottura con Ciavarro
Per Massimo Ciavarro è stata dolorosa la rottura dalla Giorgi, come ha raccontato lui stesso a : “Oggi è un altro giorno”: “Non è stata una mia scelta” – ha spiegato Massimo – “Ad un certo punto, dall’oggi al domani, lei ha deciso che nel rapporto non trovava più quello che pensava dovesse esserci”.
Grande amica di Dalla
E stata grande amica di Lucio Dalla: “Lucio manca disperatamente in termini artistici, culturali e soprattutto d’amore. Perché stiamo vivendo cose troppo pesanti e Lucio era il cantore della nostra anima” ha detto in una recente intervista
Elettra Lamborghini.
Estratto dell’articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera il 18 Settembre 2023
Bella com’è, sostiene che: «A casa sono un cesso fotonico».
«Verissimo, sorella. Vuole sapere come sto adesso mentre parliamo al telefono? Calzini bianchi sporchi di terra, perché sono uscita in giardino. Pantaloncini con seduta da ciclista che sembra porti il pannolone. Toppino sudato, prima mi sono allenata. In cucina, con una coperta addosso e il braccio a mollo nell’acqua ghiacciata perché ho la tendinite e mica guarisce, eh, fa così male che me lo staccherei, santa Maria!».
(…)
Già che ci siamo riassuma pure quanti piercing e tatuaggi si porta a spasso.
«Mmm… oddio. Uno, due, tre… quindici piercing dermal, che non si tolgono, altri invece li ho sfilati, non ne ho più tanta voglia. E i tatuaggi saranno una decina, alcuni pure sbiaditi. Quello che non cancellerei mai è il leopardo sul sedere, è iconico, poi farebbe troppo male».
Di secondo nome si chiama Miura, come la celebre Lamborghini coupé del 1966.
«Prima lo usavo, ora l’ho tolto, fa confusione. In famiglia abbiamo tutti il secondo nome di una macchina, sono nata così, non gli do peso, per me è come chiamarmi Francesca».
(...)
È apparsa nel 2016 in «Super Shore», poi il docu-reality «Riccanza» su Mtv, subito regina dei social, primo singolo «Pem Pem» (2018) doppio disco di platino, video da 160 milioni di visualizzazioni: partenza bruciante, come il leggendario motore V12 della Miura.
«Purtroppo questo non mi ha aiutato, quando le cose vanno troppo velocemente finisce che non ti godi niente. Avrei avuto occasioni anche prima, però non avevo il pezzo giusto ed ho aspettato. Sono testarda, finché non ottengo quello che voglio ci sbatto la testa pure mille volte. E non sono mai contenta. Appena conquisto un obiettivo, me ne pongo subito un altro. Se mi guardo indietro, però, vedo che ho fatto una bella strada. Avrei dovuto fermarmi, qualche volta, e darmi più pacche sulle spalle».
Adesso è uno dei quattro giudici a «Italia’s Got Talent» su Disney +. Il suo talento qual è?
«Non voglio elogiarmi da sola, ma credo che la mia dote principale sia arrivare dritta alle persone. Il carattere è la fonte del mio successo».
Finora è stata buonina con i concorrenti.
«Perché nessuno ha fatto una performance così di m..., glielo avrei detto alla grande».
Qualcuno ha mai stroncato lei?
«Qualche no l’ho preso, sempre motivato. Mi ha ferito però mi ha pure rafforzato. “Ora ti faccio vedere io”. E ripartivo».
L’ereditiera più amata dagli italiani.
«Non penso che la gente mi veda più così, non sono qui solo per il mio cognome pesante, voglio avere una mia identità. Non mi sento né ricca né famosa, per me tutte le persone sono uguali su questa terra. Quando mi fermano per strada o mi guardano sbalorditi, non lo capisco. Vorrei dirgli: “Ehi, sono proprio come voi eh”. Mi metterei seduta a parlare con tutti».
Sul web le tocca la sua dose di odiatori.
«Qualche giorno fa avrei voluto rispondergli per benino, ma il mio ufficio stampa non sarebbe stato contentissimo. Con la fama è compreso anche questo, ti ci devi abituare. Certo che il mondo sarebbe più bello se ognuno si facesse i cavoli suoi. Sono sensibile, ci resto male. Prima magari pubblico una storia “cazzuta”, poi la notte ci ripenso e mi sento giù. Fortuna che i miei hater non sono tanti».
Perché le piace tanto il twerking?
«Mah, ho vissuto in Messico e in America Latina, lì è un ballo normale, non c’è niente di volgare. Dipende se uno shakera bene le chiappe. Io porto una calza a rete, così il fondoschiena non si muove molto. I bambini — a cui piaccio tanto — non ci vedono niente di strano».
(...)
Di sé dice: «Sono una bonacciona».
«Sì, totale. Oh Gesù, credo di avere un buon carattere, tranne la poca pazienza, specie nel lavoro. Non vivo bene i tempi morti. E sono schietta, pure troppo. Dovrei rilassarmi di più».
Sui social mette foto super-sexy.
«Chi guarda solo quelle si fa una certa idea. Ma chi vede anche le mie storie conosce un’altra Elettra, che di sexy non ha niente. Cucino, taglio i cespugli in ciabatte».
Si pente di qualcosa fatta o detta?
«No. Ovvio, avrei voluto non fare certe cose, ma sono anche quelle che mi hanno portato ad essere la Elettra che sono oggi».
Cosa la fa arrabbiare?
«I social mi vanno sempre meno a genio. Siamo diventati una massa di pecoroni. Mi preoccupa la negatività, la cattiveria, non la capisco».
Nel 2020 a Sanremo con «Musica (e il resto scompare)».
«Santa Berenice, che stress! Mi hanno messo addosso troppa ansia: “Oddio, oddio, il Festival”. Di solito sono a mio agio, mi piace un sacco. E di palchi anche più grandi ne avevo già calpestati. Lì invece ero una pecorella spaurita, ho preso l’influenza, facevo l’aerosol. Insomma, potevo fare di più. Ho una canzone molto bella, se dovessi tornarci quest’anno, porterei quella».
Statua al Museo delle Cere di Amsterdam.
«Le hanno cambiato abito, l’altro è in manutenzione, perché cercano tutti di spogliarla e toccarle le tette. Pare che porti bene, come pestare gli attributi del Toro in Galleria a Milano».
Santa Maria, Santa Berenice.
«C’è anche Sant’Alò “che prima morì e poi si ammalò”. Un intercalare molto bolognese. Sono credente, forse non dovrei usarlo».
Il 26 settembre fa 3 anni di matrimonio con il dj Nick van de Wall, ovvero Afrojack.
«Incredibile, il tempo passa veloce, sembra ieri. Festeggiamo in Svizzera, in un centro detox, sì fa ridere. Niente telefonini. Si mangia poco e niente. Le coppie che riescono a non litigare significa che sono davvero molto affiatate».
Come vi siete conosciuti?
«A un Festival, suonavo prima di lui, ci hanno presentato. Ero concentrata sulla carriera, a sposarmi a 26 anni non ci pensavo proprio, magari a 36. Non avevo mai avuto storie serie. Il primo ragazzino al liceo, è durata un anno, poi basta, non mi sono più interessata all’amore».
E invece?
«Con Nick l’ho capito subito, è vero, succede così, ho deciso che volevo stare con lui».
«Buoni come lui non ne fanno», ha detto.
«Ed è vero. È buonissimo, paziente, ci siamo incastonati perfettamente. Tranquillo. Non mi piace uscire la sera, sono stanca, molto zen, non festaiola,vado a letto presto. Con lui posso essere me stessa, il nostro è un amore come tra padre e figlia, non platonico, ma incondizionato, gli voglio bene a prescindere».
Un difetto lo avrà pure lui.
«Ma no, ognuno ha il suo carattere. Disordinato, ritardatario, ma lo sono tutti gli uomini, allora anche io faccio la doccia che dura tre anni, se guardi queste cose non vai da nessuna parte».
Al suo compleanno gli ha promesso: «Farei di tutto per renderti felice».
«Ed è così. Vedendo quanta gente si lascia ci resto male. I miei nonni sono stati insieme 50, 60 anni, vorrei arrivarci anch’io».
Non è gelosa.
«Non me ne dà modo e nemmeno io. Non mi approccerei a un altro uomo nemmeno se mi pagassero, non me ne frega niente, ma era così anche prima di Nick, sto bene con i miei amici, i miei cani, i cavalli, i miei fan».
Tempo fa gli regalò un alpaca.
«Cloud, è ancora qui in giardino, Nick è stato molto contento. Non è tanto affettuoso ma ogni animale ha un suo linguaggio».
Ha realizzato i sogni o gliene restano ancora?
«Una marea, sorella, però non le posso dire quali, sennò non si avverano. Senza sogni non ci sarebbe la motivazione per vivere. Come non potrei mai stare senza lavorare. Un giorno, quando avrò meno pensieri e sarò più vecchietta, vorrei aprire una scuola per i bambini. O aiutare cani e gatti randagi».
Elettra Lamborghini: «Non mi sono mai arresa e ho dimostrato che non sono figlia "di"». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2023
Il nuovo album, il concerto a Collegno, il pensiero all’Emilia Romagna
Buona Festa della Repubblica. E soprattutto buona estate che è ufficiale, comincia già oggi, perché esce Elettraton, il nuovo album di Elettra Lamborghini. Un disco di inediti, il suo secondo in una carriera dove la cantate ha collezionato 1,6 miliardi di stream nel mondo, 500 milioni di visualizzazioni su Vevo/YouTube e 7,2 milioni di follower su Instagram. Contiene il nuovo singolo Mani in alto che da oggi si ascolta in tutte le radio oltre al brano A Mezzanotte, pubblicato a dicembre. Le dieci tracce sono scritte e prodotte con grandi nomi della musica italiana e internazionale come Villabanks, Shablo, Davide Petrella, Giordano Cremona, Riccardo Scirè, Jacopo Ettorre e la star spagnola Chema Rivas. La tournée tocca anche il nostro territorio: lunedì alle 18 si esibirà al Centro Commerciale Piazza Paradiso di Collegno.
Da Sanremo a oggi, con molti estimatori e anche tanti detrattori, fino al secondo album. Ha tenuto duro?
«Non mi è pesato tanto. Sapevo che ce l’avrei fatta, sono una ragazza che sa cosa vuole e ci sbatto anche la testa un milione di volte».
Ha carattere.
«Direi di sì. Sono una persona buona, ma non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno. Ho ricevuto un sacco di no, ma li ho presi tutti come uno sprone a migliorarmi sempre di più».
Dedicato ai tanti giovani che la seguono: come si trasformano i rifiuti in energia positiva?
«Non è sempre facile. Ma credo che tutto veramente parta dal carattere. Io sono fatta così, quando ricevo un no, subito cerco di pensare positivo. Mi dico: si vede che deve arrivare qualcosa di più bello. Per far sì che accada, cerco di migliorarmi oltre che analizzare cosa può esserci dietro».
E cosa c’è dietro?
«Magari la gente pensa che io non sia abbastanza preparata… Spesso c’è che le persone sono un po’ stronze. Allora mi metto nella posizione di: ti faccio vedere io che sono capace di spaccare tutto».
Ci descriva questo nuovo disco.
«È un album in cui metto nero su bianco la mia genuinità. È una musica che fa parte di me, sono canzoni felici che rappresentano la vera Elettra, senza brani “arzigogolati”. Sono pezzi nati per divertirsi. E credo si sentirà tantissima differenza tra questo e il primo album».
In cosa differiscono?
«Nella qualità del suono e della voce in particolare».
Crescendo professionalmente è cresciuta anche personalmente?
«La crescita artistica corrisponde sempre al sentirsi bene con se stessi».
Dietro di lei aleggia una sorta di pregiudizio legato alla sua famiglia, ai suoi privilegi.
«Lo so e non me la sono mai presa, infatti, per quei no che mi arrivavano. Mi chiedevo il perché e poi mi rispondevo: “Ok, è perché sono figlia di”. Mi sono messa l’animo in pace e buttata a capofitto per migliorare. Sono una persona fortunata, faccio il lavoro che mi piace, mentre sono in tanti che, invece, sono obbligati a fare cose che non amano. Non posso che essere grata e dare tutta me stessa per stare bene».
Cosa ama della musica?
«Il reggaeton è quella in cui mi riconosco di più. Quella in cui mi esprimo al meglio perché mi mette allegria, voglia di vivere, positività. La ricollego all’estate, a un drink sulla spiaggia».
Anche alle spiagge della sua Romagna?
«Sicuramente. Amo la mia terra. Vedo i video di queste persone che hanno una forza incredibile e gli sono vicina. Quando ero piccolina ci pensavo: “E se venisse un nubifragio a Bologna?”. Poi mi mettevo tranquilla pensando che l’acqua sarebbe scivolata giù dai colli. Sono orgogliosa della mia gente».
Ha un brano preferito dell’album?
«Il quarto, Travesuras, che è anche un po’ diverso dal mio genere solito. È più romantico».
Come sarà questa lunga tournée?
«Secondo me l’anno prossimo me la copieranno tutti, abbiamo molti ballerini e mascotte. Dietro c’è un grande team, dal coreografo alle luci. È un tour serio».
Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 30 maggio 2023.
Per lei vale la frase pronunciata da Jessica Rabbit: «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così». Perché Elettra Lamborghini, 29 anni, faccia da bambina e corpo da pin-up, è una strana creatura. […] Il 2 giugno esce il nuovo disco Elettraton (da Elettra più reggaeton, la sua passione), poi partirà col tour estivo.
[…]
Tra le sue fan ci sono anche ragazzine molto piccole. Si è chiesta perché?
«Perché sono solare, senza peli sulla lingua. Non giudico e non ho tabù. Sono come mi si vede. I bambini non li freghi, capiscono se sei vera. Avevo pubblicato un video con i bimbi che mi parlano e mi saltano addosso come se fossi la loro sorellina o, meglio, sorellona. Gli piaci o non gli piaci, io sono genuina».
Faccia da bambina, corpo sexy: come vive il contrasto?
«Se vede le mie foto sui social sembro un puttanone, diciamolo. Mi piace fare la sexy ma se apro la bocca, di sexy o di malizioso in me, meno di zero. Magari una persona che mi vede per la prima volta, e non sa chi sia, dice: è una bomba sexy. Ma appena parlo si capisce che non sono una gattamorta che gode perché ha la fila di ragazzi».
Tornerebbe a Sanremo?
«Fino a un po’ di tempo fa le avrei detto di no. Me l’hanno pompato troppo, ci sono anche rimasta male, non l’ho vissuto bene, avrei potuto essere più rilassata. Il palco è casa mia, invece sono entrata come un agnellino indifeso. Però ho una canzone molto bella e mi sono ritrovata a pensare: con questo pezzo andrei a Sanremo. Chissà».
Appartiene a una famiglia di imprenditori, i suoi cos’hanno detto della sua scelta? «Inizialmente non capivano come funzionasse il mondo dello spettacolo. Specie in televisione uno può dire: oggi ci sei, domani no; è lecito avere dubbi. Si sono fidati di me e della mia determinazione: voglio arrivare qui e là, in due anni ce la faccio. Hanno visto che ho le palle».
Si è pentita di aver fatto “Riccanza”, in cui ostentava la sua ricchezza?
«Non mi pento di niente. Ero me stessa e non ne sono uscita male. Mi sono fatta conoscere».
[…]
Si è pentita dei tatuaggi?
«Eccome. Se avessi un figlio lo sconsiglierei, oddio non voglio fare la boomer.... Perché un tatuaggio è una maniera di esprimere chi sei, di essere particolare. Ma sì, sono pentita, li sto tirando via tutti e fa male. Non posso strapparmi la chiappa. Cosa vuole che le dica, papà mi aveva avvisato: “Poi te ne penti”» .
È giudice di “Italia’s got talent” e conduce “Only fun” sul Nove: le piace fare televisione?
«Tantissimo, perché mi piace far ridere. Sto al gioco. Sono entusiasta dei numeri che stiamo facendo con i PanPers, sul Nove. In questo genere di programma in cui vince l’ironia mi sento a casa, sarà la mia strada. Anche fare la giudice mi diverte, ma non mi piace illudere le persone. Preferisco dire un no con un bel sorriso».
E a lei hanno detto no con il sorriso?
«Una marea di no. Ogni tanto mi sono detta: “Mollo tutto”. Ma non mi appartiene, bisogna sempre trovare la motivazione. Quelli che ce l’hanno fatta non si sono arresi. Ci vuole costanza, fino alla fine».
Suo marito Afrojack le dà consigli?
«Appena ho un pezzo glielo faccio sentire, ci aiutiamo molto. Fino a quando non l’ascoltano tutti, non sto tranquilla. Ho un gruppo a cui faccio sentire le canzoni, di cui fa parte anche mia mamma. Conto i sì e i no».
[…]
Elisa Isoardi.
Elisa Isoardi compie 40 anni: il fratello eremita in montagna, perché fini l’amore con Salvini e altri 8 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 27 Dicembre 2022
La conduttrice, attualmente al timone di Vorrei dirti che... su Rai 2, è nata il 27 dicembre 1982
Ha un fratello più grande di lei
Originaria di Monterosso Grana, paesino di 500 anime nel cuneese, Elisa Isoardi oggi compie 40 anni. Forse non tutti sanno che ha un fratello maggiore, Domenico, che ha sette anni più di lei e vive da eremita, «in una casa senza tv e senza gas, si scalda con la legna - ha raccontato la conduttrice al Corriere lo scorso anno in occasione della sua partecipazione all’Isola dei Famosi -. Io sono più simile a mia mamma, lui a mio papà, con questo tratto aspro e duro del carattere di chi vive in montagna. Persone grintose, che lavorano sodo. Io e lui appartenevamo a due mondi all’opposto ma questa esperienza ci sta riavvicinando, poco a poco: mi sta insegnando diverse cose pratiche, come accendere un fuoco o pescare. Per lui il fatto che fossi famosa è sempre stato ininfluente ma in questi giorni che mi è venuto a trovare mi ha detto, parlando dell’Isola: non vedo mai niente ma questa roba qua la guarderò». E questa non è l’unica curiosità su di lei.
A Miss Italia
«Da bambina sognavo di fare l’insegnante ma poi, crescendo, questo posto ha iniziato a starmi stretto - ha rivelato sempre al Corriere -. Così, a 16 anni, anche grazie a mia mamma che mi ha sostenuta, ho fatto il fugone verso Roma. Avevo bisogno di vincere la mia timidezza, il mio desiderio era fare teatro per questo». L’ex volto de La prova del cuoco ha mosso i suoi primi passi come modella e nel 1998 ha partecipato al suo primo concorso di bellezza: ha vinto il titolo di Miss Fragola, concorso locale organizzato a Peveragno. In seguito, nel 2000, ha partecipato a Miss Muretto e a Miss Italia (si è poi aggiudicata la fascia di Miss Cinema).
Gli spot pubblicitari
Quando lavorava come modella, agli inizi della sua carriera, Elisa Isoardi è comparsa in diversi spot pubblicitari e in due videoclip musicali: «Tu no» dei Gemelli DiVersi e «Che tempo fa» di Miotti.
L’esordio in tv
Nel corso degli anni Elisa Isoardi ha condotto per la Rai numerosi programmi oltre a La prova del cuoco (da Italia che vai a Buono a sapersi, da Unomattina a Linea Verde fino a Vorrei dirti che..., attualmente in onda su Rai 2). Ha iniziato però la sua carriera in qualità di inviata nella trasmissione Guarda che luna, condotta da Massimo Giletti e Hoara Borselli nel 2005.
L’esperienza radiofonica
Tra il 2009 e il 2011 la conduttrice ha fatto anche esperienza in radio: ha condotto su Rai Radio 2 i programmi Le colonne d'Ercole, con Armando Traverso e Federico Biagione, e I miei e i tuoi insieme a Gianfranco Monti.
L’amore con Matteo Salvini
Ha fatto molto chiacchierare in passato la sua relazione con Matteo Salvini durata tre anni. Soprattutto quando, per annunciare la rottura, la conduttrice ha pubblicato su Instagram uno scatto corredato da una citazione del poeta e cantautore Giò Evan: «Non è quello che ci siamo dati a mancarmi, ma quello che avremmo dovuto darci ancora». In precedenza aveva fatto discutere una foto in cui si vedeva Elisa alle prese con il ferro da stiro e le camicie da stirare (poi si è scoperto che non erano del suo compagno).
Un problema di salute (poi risolto)
Al settimanale DiPiù nel 2014 Elisa Isoardi ha raccontato di aver dovuto affrontare in passato un problema di salute: «Ho scoperto di avere un tumore, un grosso polipo che stava compromettendo parte della mia corda vocale destra. Il dottore mi ha detto che bisognava intervenire subito, non c’era tempo da perdere. Rischiavo di perdere la voce». In seguito all’intervento tutto si è risolto per il meglio.
Il cagnolino Zenit
Elisa Isoardi ha un cagnolino, un barboncino di nome Zenit, a cui è molto affezionata. Nel 2019 la conduttrice ha portato con sè il suo amico a quattro zampe anche sul set de La prova del cuoco.
Ballando e l’Isola dei Famosi
In seguito alla chiusura de La prova del cuoco nel 2020 Elisa Isoardi ha partecipato come concorrente alla quindicesima edizione di Ballando con le stelle in coppia con il ballerino Raimondo Todaro. Si è poi dovuta ritirare nella settima puntata per una distorsione alla caviglia (grazie al ripescaggio è comunque riuscita ad arrivare in finale). L’anno successivo ha preso parte all’Isola dei Famosi, ma anche in questo caso si è dovuta ritirare per via di un infortunio ad un occhio.
La vittoria ai Soliti Ignoti
Lo scorso anno, in versione concorrente ai Soliti Ignoti di Amadeus, ha vinto ben 157mila euro (poi devoluti all’ospedale Spallanzani di Roma per la lotta contro il Covid).
Elisabetta Valentini.
Estratto della prefazione di Antonella Lattanzi a “Fotomodella”, di Elisabetta Valentini (Accento edizioni), pubblicata da “TuttoLibri- La Stampa”
[...] Pubblicato nel 1988, Fotomodella risponde perfettamente al manifesto programmatico di Pier Vittorio Tondelli. Leggendolo, si ha proprio questa impressione: che la sua autrice stia cercando, con la scrittura, una verità. Quando scrive questo libro, Elisabetta Valentini sta smettendo, dopo dieci anni, di fare la modella.
Ha iniziato diciassettenne, a Firenze, quasi per caso. Si è proposta come segretaria nell'atelier di uno stilista, Emilio Pucci, ma è stato subito chiaro che non aveva mai visto una macchina da scrivere.
«Ma signorina lei non è una dattilografa!», l'ha rimproverata la responsabile. Poi, è successo. «Lei prende a guardarti con interesse. Cominci a sentire sulle linee del tuo corpo il suo sguardo professionale che lento e deciso scende a indagarti: la curva del collo, l'ampiezza delle spalle, il seno, i fianchi, il ventre. Come sedotta da quel suo sguardo ti alzi in piedi, muta, attenta, già soggiogata da quella reciproca e istintiva attrazione che lega il tuo corpo a chi lo guarda, e te a chi ti ammira. Il tuo corpo, obbediente, coglie in un attimo il desiderio estetico di chi ha davanti».
Così muore Elisabetta (almeno temporaneamente) e viene al mondo la modella: «completamente annullata dalla volontà» di chi le sta di fronte, Elisabetta compie lì, nell'atelier di Emilio Pucci, la sua prima, privata sfilata.
Dieci anni di passerelle, voli in giro per il mondo, ogni giorno, a tutte le ore, dieci anni di alberghi, di amici veri e amici fittizi, di colleghi vicini e lontani, di giovani leve magrissime che vengono a rubarti il lavoro - quanto sei precocemente vecchia in lavori come questi, la moda, il cinema, la danza - , di un amore lontano e profondissimo con un grande attore sposato (Valentini non lo nomina, ma il suo amante è stato per anni Ugo Tognazzi), di un altro fuoco che si accende, dieci anni in cui Elisabetta lambisce la droga - che negli anni Ottanta è ovunque, dalle periferie e le stazioni ai vertici della moda e del potere - ma non la abbraccia mai (e la racconta molto poco), dieci anni di corsa verso il successo. Dopo, Elisabetta decide di smettere di fare la modella.
Forse perché ha bisogno di libertà, dopo essersi incatenata alla pura ambizione per troppo tempo. Succede, a chi molto giovane ha pensato sempre e solo a qualcosa - ambizione, vocazione, successo, sono parole diverse dalle sfumature molto simili - , ha dedicato tutta la vita, i pensieri, gli incontri che ha fatto ma pure quelli che non ha fatto, le esperienze che ha fatto ma pure quelle che non ha fatto, la sua mancata spensieratezza a qualcosa, di dire un giorno: basta.
Non ne posso più. Non è per forza un atto di rabbia o di dolore, può essere semplicemente un atto di ribellione. Ed è una ribellione alle regole che, per anni, ti sei imposto tu.
È proprio in bilico su questa fine, su questo strappo, che Tondelli le chiede di scrivere la sua storia. Sa che Elisabetta scrive, e vorrebbe leggere qualcosa. In Panta-Tondelli Valentini racconta questo incontro. E dice di PVT: «Mentre parlava guardavo quel ragazzo particolare, che aveva circa la mia età, come se fosse giunto da un altro mondo. Mi piaceva quel suo viso regale e insieme imbarazzato».
Dopo la prima riluttanza - la paura di sbagliare e buttarsi in una nuova storia, inteso anche come storia personale - nel corso dell'anno seguente, Elisabetta Valentini lavora a Fotomodella, sempre seguita e supportata da PVT, passo dopo passo, in un rapporto umano e di scambio costante. «Dopo l'uscita del libro», scrive ancora Valentini, «continuammo a vederci, ma avevo la sensazione che una volontà di svanire si fosse impossessata di lui. Non facevo domande».
Svanire, poi, che ha molto a che fare con quello che ci racconta lei nel suo libro. Il corpo che deve svanire per essere esso stesso indossato da altri, la volontà che si deve annullare per interpretare tutti e nessuno sulla passerella, gli affetti che non devono incastrarti in ruoli - la maternità, per esempio, o l'essere moglie - e in luoghi perché tu, per fare il tuo lavoro, svanirai di continuo.
In questo sta parte della scelta che mi sembra di trovare alla base di Fotomodella. Raccontare un mondo, quello della moda degli anni Ottanta, testimoniare cos'erano quegli anni, svanendo. La droga, l'anoressia, la ferocia della competizione, la voracità di successo, la solitudine, il dolore: Valentini li racconta solo sfiorandoli, non immergendosi mai con tutto il corpo in queste realtà, ma come sfilandoci sopra. In un gioco di luci, corpi efebici, abiti maschili, creme per non invecchiare mai, delusioni, vittorie su cui, come su una passerella, scorre questo libro; e tu con lui.
Elodie.
Il corpo di Elodie: la cantante sul palco tra spacchi e body «per piacere a sé stessa, non per compiacere». Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.
C’è un momento, nel passato di Elodie Di Patrizi, che custodisce il seme, forse anche il fondamento, di quello che oggi tutti riconoscono essere un fenomeno. Perché ci sono tante cantanti, alcune popstar ma pochissime icone e Elodie, ormai è chiaro, lo è.
Un po’ Beyoncé, un po’ Madonna ma soprattutto sé stessa, capace — quando nemmeno aveva vent’anni — di trasformare le strade malconce del Quartaccio in un immaginario red carpet: i riflettori ancora non erano puntati su di lei, ma dentro di lei sì, erano già accesi, suggerendole che, in qualche modo, chissà come, ma qualcosa di importante era in vista per lei. Si piaceva, lo ha raccontato spesso. Ed era vanitosa, tanto da specchiarsi ad ogni vetrina. Ma, ancora di più, si piaceva per come affrontava le tante difficoltà che doveva superare ogni giorno.Le piaceva il suo carattere, la sua personalità, insomma. Al punto che, un giorno — ed ecco il momento —, ha deciso di rasarsi a zero i capelli. «Ho cercato di spostare lo sguardo degli altri all’interno di me perché mi sentivo molto più di un bell’involucro», ha poi spiegato.
Ora siamo alla fine del 2023, di diritto il suo anno. È uscita la sua docuserie, Sento ancora la vertigine, ha pubblicato il primo club tape italiano, Red Light, e il suo tour da tutto esaurito, si trasforma ogni sera in un evento. Ogni data è uno show diverso in cui si canta, si balla ma anche si ammira quello che Elodie crea sul palco. Spesso attraverso il suo corpo, l’involucro. Un corpo esibito e guardatissimo, del resto anche i suoi video volano a quote di milioni di visualizzazioni.
Ma un corpo che divide. Lo spacco totale della sua mini rossa, i body di pizzo, le tute aderenti, la lap dance. Per tanti sono la manifestazione dell’emancipazione della donna, l’autodeterminazione di chi sceglie di non farsi guidare da pudori antichi e giudicanti, lo sberleffo al patriarcato.
Per molti altri sono però il segno della sua resa a quei codici duri a morire che portano alla triste e pericolosa oggettificazione sessuale del corpo delle donne. Tesi che trova riscontro addirittura nei meme che, nell’ultima settimana, hanno avuto per protagonista la cantante, quasi tutti incentrati attorno all’epica domanda: mutande sì, mutande no? Sotto quello spacco, le indossava? La sua risposta è stata un pausiniano «la tengo como todas», come per dire: non scandalizziamoci per cose che non fanno scandalo. Ma il dibattito resta aperto e le voci di chi pensa che così si rischi di finire dentro i soliti cliché rimangono alte.
In tutto ciò, il pensiero di Elodie è sempre stato chiaro: non lo faccio per piacere agli altri, ma perché mi piaccio io. Un pensiero che, nel suo caso, è diventato anche un manifesto: «Voglio essere libera di esprimermi e giocare. In questo momento storico poi, mi sembrava doveroso sfogarmi», aveva spiegato lanciando il suo club tape, la cui copertina è affidata a Milo Manara. Il maestro ha rielaborato lo scatto — anche in quel caso molto discusso — che accompagnava il singolo A fari spenti, in cui la cantante si mostrava nuda.
Solo che «nel disegno — aveva spiegato lui — non si copre pudicamente il sesso, anzi chiude la mano a pugno come se rivendicasse la dignità del suo corpo». Cosa che Elodie fa. Si piace e lo rivendica, convinta che anche in questo modo si risponda «a un problema importante: c’è qualcosa di misogino che non va giustificato in nessun modo, dovremmo metterci in discussione e pensare a quante volte abbiamo atteggiamenti sessisti noi donne. Sono secoli che dobbiamo fare un passo indietro e capire la fragilità dell’uomo, ma io sono stanca di giustificare la loro paura della bellezza della donna». Una consapevolezza che la rende forte e fiera, portatrice di quello che è «un messaggio visivo forte, libero, cattivello e musicalmente deciso. Mi sono sempre divertita a infastidire, lo farò sempre».
Determinata in modo innato, capace di far detonare quella rabbia accumulata nel tempo in una sanissima voglia di rivalsa. «Se magari come me arrivi dalla casa popolare — disse a Gq —, avere un risultato è ancora più complesso perché devi affrontare un sacco di complicazioni, quindi il successo del coatto è ancora più eclatante. E in quanto tale dev’essere celebrato, esibito».
Nel linguaggio dei semiologi, l’icona è un messaggio affidato all’immagine. Non è l’involucro, ma il pensiero che c’è sotto, una volta rasati i capelli o allungati, magari all’infinito. E vale anche con le extension.
"Ce l'ho come tutte...". È polemica sullo spacco di Elodie. La cantante è stata bersaglio di alcune critiche per la gonna con uno spacco veritiginoso. Arriva la sua reazione. Cristina Balbo l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L’outfit “incriminato”
Il commento di Elodie
Elodie e la somiglianza con Joao Mario
Elodie travolta dalle critiche. Procede a gonfie vele il tour della cantante nei palazzetti italiani; tuttavia, nonostante i grandi consensi di pubblico e critica, l’ex allieva della scuola di Amici è finita nell’occhio del ciclone. Il motivo? Un outfit indossato in uno dei suoi concerti che non è di certo passato inosservato, suscitando così i commenti dei famosi “leoni” da tastiera.
L’outfit “incriminato”
Tutto è accaduto nel corso di un concerto nella Capitale, al Palazzo dello Sport di Roma, quando Elodie ha deciso di indossare un abito molto particolare per interpretare alcuni brani. Si tratta di una gonna rossa con uno spacco davvero vertiginoso, che per molti ha significato un tuffo nel passato, nonché il “vedo-non vedo” di Belen Rodriguez a Sanremo 2012. Insomma, una scelta quella di Elodie che ha lasciato ben poco spazio all’immaginazione.
Il commento di Elodie
Lo spacco molto profondo della minigonna di Elodie (che naturalmente aveva degli slip adeguati) ha scatenato un vero e proprio dibattito sui social. Da una parte, ci sono coloro che hanno difeso la scelta della cantante, rivendicando la sua liberà nel poter indossare – come tutti – quello che vuole; dall’altra, c’è chi, invece, l’ha definito inadeguato, perché troppo provocante.
Così, a volere dire la sua sulla vicenda ci ha pensato proprio la diretta interessata. “La tengo como todas”, nonchè “Ce l'ho come tutte”, ha scritto Elodie su X (ex Twitter). Una frase che è una diretta citazione di Laura Pausini. Quest’ultima, infatti, utilizzò queste parole in occasione di un concerto in Perù nel 2014, quando a causa di un problema con l’abito di scena fu costretta ad esibirsi con una vestaglia addosso.
Elodie e la somiglianza con Joao Mario
Ma non è finita qui, perché il post di Elodie non si è limitato soltanto alla citazione diretta della Pausini, ma ha anche proseguito con un’altra frase: “E comunque ieri tripletta”. In molti si domanderanno il perché di questa provocazione della 33enne: la cantante ha voluto rispondere a coloro che ritengono ci sia una somiglianza tra lei e il calciatore Joao Mario, ex Inter e attualmente in forza al Benfica. Proprio nella partita di Champions League del 29 novembre, infatti, il campione ha segnato una tripletta contro l’Inter. “Joao Mario con i capelli”, qualcuno aveva detto. Insomma, adesso arriva la replica di Elodie alla quale di certo non manca l’ironia.
Chiara Maffioletti per corriere.it - Estratti domenica 3 dicembre 2023.
C’è un momento, nel passato di Elodie Di Patrizi, che custodisce il seme, forse anche il fondamento, di quello che oggi tutti riconoscono essere un fenomeno. Perché ci sono tante cantanti, alcune popstar ma pochissime icone e Elodie, ormai è chiaro, lo è. Un po’ Beyoncé, un po’ Madonna ma soprattutto sé stessa, capace — quando nemmeno aveva vent’anni — di trasformare le strade malconce del Quartaccio in un immaginario red carpet: i riflettori ancora non erano puntati su di lei, ma dentro di lei sì, erano già accesi, suggerendole che, in qualche modo, chissà come, ma qualcosa di importante era in vista per lei. Si piaceva, lo ha raccontato spesso. Ed era vanitosa, tanto da specchiarsi ad ogni vetrina. Ma, ancora di più, si piaceva per come affrontava le tante difficoltà che doveva superare ogni giorno.
Le piaceva il suo carattere, la sua personalità, insomma. Al punto che, un giorno — ed ecco il momento —, ha deciso di rasarsi a zero i capelli. «Ho cercato di spostare lo sguardo degli altri all’interno di me perché mi sentivo molto più di un bell’involucro», ha poi spiegato. Ora siamo alla fine del 2023, di diritto il suo anno. È uscita la sua docuserie, Sento ancora la vertigine , ha pubblicato il primo club tape italiano, Red Light, e il suo tour da tutto esaurito, si trasforma ogni sera in un evento. Ogni data è uno show diverso in cui si canta, si balla ma anche si ammira quello che Elodie crea sul palco. Spesso attraverso il suo corpo, l’involucro. Un corpo esibito e guardatissimo, del resto anche i suoi video volano a quote di milioni di visualizzazioni.
Ma un corpo che divide. Lo spacco totale della sua mini rossa, i body di pizzo, le tute aderenti, la lap dance. Per tanti sono la manifestazione dell’emancipazione della donna, l’autodeterminazione di chi sceglie di non farsi guidare da pudori antichi e giudicanti, lo sberleffo al patriarcato. Per molti altri sono però il segno della sua resa a quei codici duri a morire che portano alla triste e pericolosa oggettificazione sessuale del corpo delle donne.
Tesi che trova riscontro addirittura nei meme che, nell’ultima settimana, hanno avuto per protagonista la cantante, quasi tutti incentrati attorno all’epica domanda: mutande sì, mutande no? Sotto quello spacco, le indossava? La sua risposta è stata un pausiniano «la tengo como todas», come per dire: non scandalizziamoci per cose che non fanno scandalo.
Ma il dibattito resta aperto e le voci di chi pensa che così si rischi di finire dentro i soliti cliché rimangono alte. In tutto questo, il pensiero di Elodie è sempre stato chiaro: non lo faccio per piacere agli altri, lo faccio perché mi piaccio io. Un pensiero che, nel suo caso, è diventato anche un manifesto:
«Voglio essere libera di esprimermi e giocare. In questo momento storico poi, mi sembrava doveroso sfogarmi», aveva spiegato lanciando il suo club tape, la cui copertina è affidata a Milo Manara. Il maestro ha rielaborato lo scatto — anche in quel caso molto discusso — che accompagnava il singolo A fari spenti , in cui la cantante si mostrava nuda. Solo che «nel disegno — aveva spiegato lui — non si copre pudicamente il sesso, anzi chiude la mano a pugno come se rivendicasse la dignità del suo corpo».
Cosa che Elodie fa. Si piace e lo rivendica, convinta che anche in questo modo si risponda «a un problema importante: c’è qualcosa di misogino che non va giustificato in nessun modo, dovremmo metterci in discussione e pensare a quante volte abbiamo atteggiamenti sessisti noi donne. Sono secoli che dobbiamo fare un passo indietro e capire la fragilità dell’uomo, ma io sono stanca di giustificare la loro paura della bellezza della donna». Una consapevolezza che la rende forte e fiera, portatrice di quello che, per usare le sue parole, è «un messaggio visivo forte, libero, cattivello e musicalmente deciso. Mi sono sempre divertita a infastidire, lo farò sempre».
(…)
Estratto dell’articolo di Andrea Greco per “Oggi” sabato 29 luglio 2023
Quella di Elodie non è stata una marcia trionfale: parte dalla periferia in una famiglia piena di difficoltà, non finisce il liceo, la eliminano da X-Factor. A 18 anni sbarca il lunario come cubista: «Lo era stata anche mia mamma, me ne vergognavo»
Tutti i bambini sognano. La piccola Elodie Di Patrizi però lo faceva sempre: quando aspettava che la madre tornasse nel loro appartamentino della borgata Quartaccio per poi sparire di nuovo o mentre badava alla sorellina Fey. Quando veniva parcheggiata a lungo dalla vicina e quando capiva che a casa di soldi per arrivare a fine mese non ce n’erano.
[…] Si può però anche diventare regine per acclamazione popolare, sollevate una spanna sopra il resto dello scalpitante mondo dello spettacolo da un sentimento di affetto e ammirazione diffuso e trasversale. È proprio questo ciò che accade alla cantante romana, che con la hit Pazza Musica, interpretata insieme a quel fenomeno di Marco Mengoni, sta diventando la colonna sonora di questa estate.
Ma non è certo l’avere un brano in classifica che fa di Elodie un fenomeno. È piuttosto raro l’allineamento di premesse, desideri e talenti che si è verificato nella sua persona, partita dalla borgata romana e finita sulla copertina di Vogue, senza mai apparire fuori contesto. Ciò di cui dispone per ipnotizzare il pubblico sono 60 chili scarsi, distribuiti al meglio su 168 centimetri di statura. A lei bastano e avanzano.
Eppure non è stata una marcia trionfale. Tutt’altro, ma anche questo alla fine, vedremo, si rivela un elemento utile alla costruzione di un personaggio che ambisce a durare nel tempo, il massimo traguardo in anni nei quali la celebrità dura meno di un calippo lasciato fuori dal freezer.
La prima falsa partenza arriva quando Elodie ha 18 anni. Passa le selezioni di X-Factor, parte per gli home visit ,la fase nella quale i coach imparano a conoscere meglio i giovani selezionati e alla fine del ritiro viene esclusa da Simona Ventura: «Mi ha detto che mi eliminava perché secondo lei non ci tenevo abbastanza. Mi sono arrabbiata moltissimo, però aveva ragione», commenterà poi.
A iscriverla al talent di Sky era stato papà Roberto, artista di strada. e lei aveva accettato controvoglia e, come capita sovente agli adolescenti, si era accorta dell’importanza dell’occasione offerta solo quando era andata perduta. […]
Dopo aver fatto per un po’ la cameriera, viene convinta da un’amica, non senza difficoltà, a provare a fare la cubista: «Lo era stata anche mia mamma, e io da ragazzina me ne vergognavo. La giudicavo una cosa da poco di buono». Balla al Samsara di Gallipoli, uno dei locali della movida salentina.
Presto diventa una vocalist della discoteca e in quel contesto si accorge che il background del Quartaccio non è sempre un handicap: «C’era chi allungava le mani, chi provava a riprendermi da sotto col telefono. Di smartphone ne ho spaccati un mucchio». È in quel frangente, forse, che Elodie si accorge che la vita di borgata le ha insegnato qualcosa di utile: la capacità di sorridere per mostrare i denti.
Sette anni dopo Elodie è di nuovo a Roma, ed entra nella scuola di Amici. Lei ha 25 anni, gli altri 18 o 19: ha gli imbarazzi e le goffaggini dei pluriripetenti. Alex Braga, musicista e producer, che di quella edizione era uno dei professori di canto, la ricorda bene: «Mi sono impegnato per farle esprimere ciò che aveva dentro, si intuiva la sua originalità, ma era molto nascosta».
Si accorgono di lei anche Maria De Filippi ed Emma Marrone, che le insegna il molto che sa, con tutta l’energia che ha. Quello tra le due è un sodalizio che si prolunga, anche oltre la fine della trasmissione, che Elodie conclude al secondo posto. Sì, ma quanto si prolunga? Fino a quando «ho capito che volevo fare delle scelte diverse, ma voglio ancora molto bene a Emma», spiega lei.
«Fino a quando non ha capito che si era un po’ impantanata, e così ha cambiato guida, da Emma a Marracash», chiosa il critico musicale Dario Salvatori, che sul fenomeno Elodie ha uno sguardo disincantato: «La vulgata del fiore nato in periferia la trovo un pochino datata. […]
Alla vigilia di questo decennio tutto è pronto per il grande salto di qualità, e questo avviene con la più profonda delle rivoluzioni: ripartire dalle origini. In un momento nel quale qualsiasi ragazzino di buona famiglia si traveste da “maranza”, chi può fermare una ragazza bellissima che conosce la vita di strada meglio del trapper più trucido?
Elodie racconta la sua storia con onestà: la mamma fragile e persa, il padre musicista di strada, la scuola lasciata a metà. Appare selvaggia ma saggia, elegante ma sfrontata, vicina e distante […] Elodie ormai non è più quella bambina che sognava in periferia. Però, ogni tanto, la borgata che è in lei esce fuori e finisce in cronaca: una volta prende per il bavero un tizio che, incrociandola in aeroporto, le dà della drogata, un’altra attacca al muro dei ragazzini che sulla metropolitana non fanno scendere una coppia di anziani. […]
Elodie, il ritratto non autorizzato: com’è diventata la regina del pop italiano. ANDREA GRECO su Oggi.it il 19 luglio 2023.
La colonna sonora dell’estate è la sua “Pazza Musica”, cantata con Marco Mengoni. Ma l’ex ragazza di periferia non è destinata a brillare una sola estate. Come raccontiamo sul nuovo Oggi
Elodie Di Patrizi, 33 anni, è nata a Roma
Tutti i bambini sognano. La piccola Elodie Di Patrizi però lo faceva sempre: quando aspettava che la madre tornasse nel loro appartamentino della borgata Quartaccio per poi sparire di nuovo o mentre badava alla sorellina Fey. Quando veniva parcheggiata a lungo dalla vicina e quando capiva che a casa di soldi per arrivare a fine mese non ce n’erano. Sognava, l’ha ripetuto in tante interviste, quello che poi è accaduto: diventare Elodie.
FIN DA BAMBINA – Ci sono traguardi, e sono la maggior parte, a cui si arriva con solo l’appoggio di giurie qualificate: premi, medaglie, grolle, coppe e statuette si conquistano in genere così. Si può però anche diventare regine per acclamazione popolare, sollevate una spanna sopra il resto dello scalpitante mondo dello spettacolo da un sentimento di affetto e ammirazione diffuso e trasversale. È proprio questo ciò che accade alla cantante romana, che con la hit Pazza Musica, interpretata insieme a quel fenomeno di Marco Mengoni, sta diventando la colonna sonora di questa estate. Ma non è certo l’avere un brano in classifica che fa di Elodie un fenomeno. È piuttosto raro l’allineamento di premesse, desideri e talenti che si è verificato nella sua persona, partita dalla borgata romana e finita sulla copertina di Vogue, senza mai apparire fuori contesto. Ciò di cui dispone per ipnotizzare il pubblico sono 60 chili scarsi, distribuiti al meglio su 168 centimetri di statura. A lei bastano e avanzano.
PRONTI PARTENZA VIA, ANZI NO – Eppure non è stata una marcia trionfale. Tutt’altro, ma anche questo alla fine, vedremo, si rivela un elemento utile alla costruzione di un personaggio che ambisce a durare nel tempo, il massimo traguardo in anni nei quali la celebrità dura meno di un calippo lasciato fuori dal freezer. La prima falsa partenza arriva quando Elodie ha 18 anni. Passa le selezioni di X-Factor, parte per gli home visit, la fase nella quale i coach imparano a conoscere meglio i giovani selezionati e alla fine del ritiro viene esclusa da Simona Ventura: «Mi ha detto che mi eliminava perché secondo lei non ci tenevo abbastanza. Mi sono arrabbiata moltissimo, però aveva ragione», commenterà poi.
Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 16 maggio 2023.
"Con nonna abbiamo continuato a ballare anche dopo il concerto, era passata l'una di notte. Mi ha detto che si è dovuta fermare solo perché le faceva un po' male la caviglia". Elodie ride raccontando il post concerto al Forum di Assago, sold out della consacrazione.
Venerdì sera ha fatto scatenare gli undicimila spettatori. Tra il pubblico c'erano anche la mamma, Claudia, e nonna Marise. "Sono la mia forza, se sono questa è perché somiglio a loro. Me lo dicono sempre: a tre anni eri già così".
(...)
Oltre alla voce, il corpo è grande protagonista: la rende potente?
"Il corpo è in primo piano ma non perché sono esibizionista o per dire che sono la meglio, perché sono libera. Insieme alla musica, alla voce, ai look, il corpo è un altro passaggio".
Come ci si sente a essere un oggetto del desiderio?
"Non è quello il punto, non mi sento così. Mi piaccio se qualcuno mi piace. Un corpo è un corpo, mi sento bene con me stessa e mi piace fare uno show esprimendo tutta me stessa".
Avrà letto cos'hanno scritto sui social.
"Ma i social sono anche una fogna, non importa. Ho fatto la cubista a 20 anni, mi sentivo giudicata, pensavano che fossi una venduta.
Il corpo è bello, un'opera d'arte. Mi sento a mio agio, sono stata educata in una famiglia che ha un rapporto naturale, libero, col corpo. Ho sempre visto quello dei miei genitori. Tutti i corpi esprimono qualcosa, anche quelli di Botero: dipende da come li guardi. Io sono ignorante ma l'arte ti arriva, può capirla chiunque. Poi il corpo può diventare un oggetto scabroso e purtroppo esiste il body shaming che va combattuto".
Cosa ha provato al concerto?
"Felicità. È stato bellissimo essere in tanti sul palco. Io da sola non funziono. Mi sono goduta lo spettacolo, c'era una connessione profonda: è un po' come quando guardi un film o fai l'amore. Con i coreografi, Gabriele (Esposito) e Irma (di Paola), ci siamo detti: facciamo tutto insieme. Quando lavori con chi ti dà spazio cambia tutto. Sono fortunata, sono stati tutti generosi: loro, Vivo concerti, i miei manager Max Brigante e Jacopo Pesce".
Era reduce dalla cerimonia dei David di Donatello. Ritirando il premio per la canzone del film "Ti mangio il cuore", "Proiettili", ha detto una frase che suonava un po' da Calimero: "Non me l'aspettavo, io non vinco mai".
"Oddio, è suonata così? Ero senza respiro, emozionatissima. Ho fatto una battuta, non mi ero preparata un discorso. Non me l'aspettavo proprio di essere premiata, mi sono detta: vado con la mia amica, ero già felice di essere lì. Da Amici al David, è un percorso pazzesco. Un regista ha pensato a me, ho fatto un film, è un regalo enorme, non è che puoi pure vincere. Ne sono uscita male?" .
No. Ma nella vita si percepisce come una che non vince?
"No, nella vita credo di aver vinto. Ho tutto quello che ho desiderato e quello che non ho osato desiderare. Ma non ho mai vinto premi, sono arrivata seconda, quarta, ottava".
(...)
"Il Pride è la mia famiglia": quanto conta la battaglia per i diritti?
"È l'unica veramente importante, è la nostra battaglia. Se fossimo in grado di comprendere il prossimo potremmo essere felici. La politica? Quando sento rigidità e poca comprensione, quando esclude, allora no. Si devono ascoltare le ragioni di tutti".
Cos'ha trovato nel suo compagno Andrea Iannone?
"Tutto. L'amore. È disponibile, generoso, mi sostiene. Penso di essere simile a lui, stiamo bene e siamo lì, l'uno per l'altra, senza spiegarcelo".
Ottavio Cappellani per la Sicilia il 5 febbraio 2023.
Quando ho letto che Elodie era un po’ traumatizzata perché si è ritrovata con il seno nella bocca di un uomo mi sono incuriosito e anche un po’ preoccupato.
(..)
Certo, seguendo il sillogismo e la logica si potrebbe arrivare a pensare che, a Elodie, se se magnano ‘a zizza di un’artra nun gliene po’ frega’ de meno, ma comunque, Elodie sarà a Sanremo con un brano dal titolo “Due”, palco sul quale, è legittimo immaginare, porterà entrambe le minne tutte e due, “both”, che ha scoperto essere di sua esclusiva proprietà. Per questo motivo sono sicuro che questa faccenda della minna di Elodie nella bocca di un uomo non sia una trovata pubblicitaria, altrimenti avrebbe detto: “Sono traumatizzata, mi sono ritrovata con DUE minne nella bocca di un uomo”. Intervistata da qualcuno o da qualcosa (adesso ci sono anche le intelligenze artificiali), Elodie ha detto che “la musica mi permette di avere un alter Ego”. E qui, signori miei, bisogna stare molto attenti, perché le minne di Elodie, a questo punto, diventano quattro. E si rischia l’indigestione.
Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “la Stampa” il 6 febbraio 2023.
«Quando sono arrivata a Roma c'erano solo bianchi», Claudia Marthe parla dell'inizio degli Anni 80, di lei quattordicenne, creola, passata dalla multietnica Parigi alla monocromatica Italia. Non troppo tempo dopo, in mezzo al quartiere San Paolo della capitale, si sarebbe innamorata e appena ventenne sarebbe rimasta incinta di Elodie, la cantante uscita da «Amici», diventata ormai famosa e oggi pronta ad esibirsi al suo terzo Sanremo.
Quando la signora Marthe è rimasta incinta, si è preoccupata della sua età, «ero tanto giovane», non certo del colore che avrebbe avuto la pelle della bambina: «Per questo resto disorientata dalle parole della pallavolista Paola Egonu che non voglio affatto giudicare, ma mi piacerebbe capire».
Egonu ha detto: «Mi preoccupa l'idea di far crescere un figlio di pelle nera in questo schifo. E ha aggiunto Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora». Sarebbe il caso di Elodie, lei l'ha mai fatto considerazioni simili?
«No e mi fa proprio strano vederla così. Nei mesi in cui aspettavo Elodie, io e suo padre ci chiedevamo come sarebbe stata la pelle, che lineamenti avrebbe avuto, da chi avrebbe ereditato cosa: ci immaginavamo, come ogni genitore, di passarle i tratti più belli di ognuno e la pensavamo scura con gli occhi chiari. Quando è nata, mio suocero cercava la bambina nera nella nursery, gli ho detto: "È quella, è uscita poco cotta"».
Le è capitato di doverle proteggere da episodi di razzismo?
«L'ho educata a riconoscere l'ignoranza, ad usare l'autoironia che non significa fare finta di niente, ma smontare le reazioni che non sono accettabili. Però a farlo con intelligenza, a distinguere. Spero di averla preparata. Da piccola capitava che le toccassero i capelli straniti, è successo anche a me, lasciavo fare: "Vedete, sono così"».
Lei si è mai sentita discriminata in Italia?
«Quando mi sono trasferita era un'altra Italia, non parlavo la lingua, mi vedevo l'unica colorata per strada. Ho messo su un carattere forte, ho avuto i miei giorni tosti. Sono andata avanti e ho pure vissuto anni splendidi in un posto che sento casa».
Forse, nel 2023, pure l'Italia dovrebbe essersi evoluta.
«Lo sta facendo, però proprio non potrei definirlo un Paese che discrimina in base alla razza. Ci sono gli idioti, qui e altrove. Sono intollerabili, qui o altrove. E allora? Non facciamo più figli per paura degli stupidi? Tanto ci sarà sempre chi giudica e non solo la provenienza. O sei troppo grasso o troppo sproporzionato, sei sempre qualcosa. Se si dipende dall'approvazione altrui non ci si muove».
(...)
Egonu ed Elodie, saranno entrambe a Sanremo. Si immagina delle conversazioni?
«Spero si confrontino, si parlino perché Elodie ha vissuto pure lei esperienze negative, tutti abbiamo sofferto, ma bisogna superare. Vorrei dire a questa bellissima ragazza che deve volersi più bene: è splendida, affermata, è italiana e non ha bisogno di essere riconosciuta come tale, lo è. Non si può piacere a tutti, chi non accetta le differenze tra le persone è una minoranza».(...)
Elodie: «Dopo il primo Sanremo mi sono spaventata. Con Iannone sono felice. Marracash? Una storia complessa». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.
La cantante gareggia al Festival per la terza volta. Sul palco dell’Ariston con il brano «Due»: «Racconta di una storia finita»
La star che sta sul palco sicura come nel Sanremo 2021 in cui andò da ospite e si prese il palco. La donna che non ha paura di mostrare il corpo con gli hater che si scatenano ad ogni post. L’attivista che non teme il confronto con politici come Salvini e Meloni.
Eppure Elodie non è forte come sembra. Quantomeno ai suoi stessi occhi. «Non sembro fragile? Vi fate ingannare con niente...», racconta la cantante che sarà in gara a Sanremo con «Due». «Sono cosciente dei miei limiti. In terapia sono andata per quello, ma tra l’essere cosciente e il risolverli ce ne passa... C’è un nuova canzone «Una come cento», in cui racconto il mio essere fiera delle fragilità che racconto con onestà e fermezza. Sembro granitica ma se si trova la mia crepa finisco per fare cose puerili. Se mi dicono una cosa brutta piango invece che alzarmi e andare via». Le è capitato anche per una scena di Ti mangio il cuore , film di Pippo Mezzapesa presentato a Venezia lo scorso anno. «Mi sono trovata a discutere perché si vedeva il mio seno nella bocca di un uomo. Ho pianto e mi sono sentita sbagliata. Eppure il corpo è mio».
Sulla gestione del corpo non accetta critiche all’immagine che ha scelto per questo tratto di carriera: trucco sbavato, occhiaie, un richiamo all’heroin chic anni 90. «La bellezza mi ha reso libera e la uso come voglio. Quel trucco mostra fragilità e forse anche abuso, qualcosa che è capitato a tutte in momenti vari della vita. Per me stato un problema affrontare gli abusi quotidiani. Qualcuno che fa la battuta e ridi, ma lo fai perché non sai affrontare la situazione. Oggi non permetto più di oltrepassare la linea». Anche sui social. «Non sono gli insulti a colpirmi, sono commenti sterili. Mi ferisce quando non sono capita, quando viene travisato ciò che dico o faccio e ne viene data un’interpretazione sbagliata. In passato avrei reagito con rabbia, oggi respiro e vado oltre». È una paladina dell’empowerment femminile. Ce n’è di strada da fare, anche solo nella musica. Nella top 100 dello scorso anno c’erano nove donne, la prima al 33esimo posto: «Gli uomini sono sempre meno giudicati di noi donne. La musica come molte altre industrie si è aperta alle donne in tempi recenti, gli uomini da sempre ne hanno accesso quindi è normale che la presenza numerica sia differente. Dobbiamo lavorarci ancora tutti insieme».
Il 20 febbraio su Prime uscirà la docuserie Sento ancora la vertigine , un dietro le quinte sull’avvicinamento a Sanremo. «Ho un rapporto di amore e o odio con «Due». Un brano su una storia finita. Me ne sono innamorata al primo ascolto, ma ho trovato grandi difficoltà nell’interpretarla. Ero arrabbiata con me stessa perché non mi sentivo abbastanza brava. Solo dopo le prove con l’orchestra mi sono sentita felice».
Il 12 maggio farà uno show al Forum e c’è anche un disco in arrivo. Si chiama «Ok respira», raccoglie i singoli di questo ultimo anno e mezzo e sette inediti, collaborazioni con Mahmood, Elisa, Dardust...
«Per la prima volta ho partecipato alla scrittura. Volevo far valere la mia visione, una cosa non semplice per un interprete». In uno dei brani, «Apocalisse», parla direttamente a un suo ex. Prova a nascondersi, ma alla fine confessa che il destinatario è Marracash, il rapper con cui ha avuto una lunga storia. «È stata una relazione complessa e questo disco mi ha aiutato a metabolizzarla e a darle il posto che si merita». Oggi sta con Andrea Iannone, pilota della MotoGP. «Sono molto felice, ma la cosa piu importante è che ho capito che cosa non voglio, come non voglio sentirmi. Metaforicamente parlando non voglio “difendermi” a casa, quello deve essere il porto sicuro. Ci deve essere rispetto per l’identità dell’altra persona, l’amore viene da lì».
Si guarda indietro. Riassunto di una carriera. «Il primo momento di svolta è stato il programma «Amici». Se non lo avessi fatto chissà dove sarei. È difficile emergere come interprete se non passi da un talent». L’anno dopo, nel 2017, il primo Sanremo con «Tutta colpa mia», direzione canzone classica. «Mi resi conto che stavo percorrendo una strada chiusa. C’erano altre interpreti femminili affermate e di conseguenza non mi sarebbero mai arrivati pezzi di prima qualità. Mi sono spaventata, ho preso coraggio e cambiato direzione».
Ema Stockolma.
Il ballo, la convivenza, la rottura improvvisa: la storia d'amore tra Angelo Madonia e Ema Stokholma. È durata un anno la storia d'amore tra Angelo Madonia e Ema Stokholma ma la relazione, nata a Ballando con le stelle, ha fatto sognare i telespettatori e i fan. Novella Toloni il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Galeotta la pista di Ballando
La scelta della riservatezza
L'inizio della storia fuori da Ballando
La convivenza a Roma
Una famiglia allargata
Le voci sulle nozze
L'ultimo post insieme
La notizia della rottura
Un anno fa, di questi tempi, il ballerino professionista Angelo Madonia e la conduttrice radiofonica Ema Stokholma annunciavano di essersi innamorati sulla pista di Ballando con le stelle. La complicità nata durante le prove della trasmissione si era trasformata in amore e in una convivenza. Ma di recente, senza troppi proclami, la coppia ha messo la parola fine alla loro relazione.
Galeotta la pista di Ballando
È settembre 2022 e Angelo Madonia e Ema Stokholma si incontrano negli studi della Rai. La conduttrice radiofonica, 39 anni di origini francesi, è una voce popolare della radio e è conosciuta per avere avuto una storia con il rapper Gemitaiz. Milly Carlucci decide farla ballare con Angelo Madonia, anche lui 39 anni, palermitano. Tra i due, nonostante i timori iniziali, c'è subito sintonia e i due esordiscono a Ballando l'8 ottobre. Con il passare delle settimane, Angelo e Ema sono sempre più vicini e, complice il ballo e le tante ore passate in sala prove e negli studi della diretta, iniziano a frequentarsi fuori dal contesto televisivo.
La scelta della riservatezza
I giudici e Milly Carlucci sono a conoscenza della nascente relazione ma, sebbene il pubblico noti la forte complicità tra i due, la coppia non conferma la relazione. Madonia e la Stokholma si frequentano fuori dagli studi Rai e vengono paparazzati insieme in un paio di occasioni. Solo dopo un mese dall'inizio del programma la coppia si sbilancia pubblicamente mantenendo, però, una certa riservatezza sulla relazione. "Stiamo percorrendo questo momento di vita insieme, vediamo dove ci porterà", dice in diretta tv Angelo Madonia dopo un ballo con Ema, che replica: "Siamo contenti di vivere questa esperienza insieme. Mi pare evidente che ci sia qualcosa". Il 20 novembre per la prima volta i due fanno il suo esordio sui social come coppia e Madonia pubblica la foto di un bacio con l'eloquente scritta "I love you".
L'inizio della storia fuori da Ballando
Il 23 dicembre la finale di Ballando con le stelle decreta il terzo posto di Ema Stokholma e Angelo Madonia e per loro inizia una nuova pagina di vita. La coppia è libera di frequentarsi lontano dalle telecamere e sui social condivide attimi di vita insieme per la gioia dei fan, che hanno imparato a conoscerli su RaiUno. Ad unirli è la passione per i tatuaggi e l'interesse per i rispettivi impegni. Lei dj, speaker e pittrice, lui ballerino e coreografo. E finalmente arriva la prima ammissione di lei. "Angelo è una persona seria, sto imparando a conoscerlo e a capire che posso anche espormi. Ha le chiavi di casa, è una cosa seria", dice la Stokholma durante un'intervista.
La convivenza a Roma
La coppia sembra voler fare sul serio e in primavera inizia una convivenza. A parlare della svolta nella loro storia è Madonia: "La casa che abbiamo messo su che all’inizio era un suo progetto è il centro delle nostre giornate. Facciamo colazione insieme, poi ci dedichiamo ai rispettivi impegni di lavoro e poi ci ritroviamo a casa dove spesso io cucino". Su Instagram sono tante le foto delle loro giornate assieme anche lontani dalla capitale con viaggi, che li tengono al riparo dall'attenzione dei media.
Una famiglia allargata
Il fatto che Angelo Madonia abbia alle spalle due relazioni amorose naufragate - che gli hanno lasciato in dono due figlie, Alessandra e Matilde - non sembra intaccare l'amore tra Ema e il ballerino. La speaker radiofonica è pronta a prendersi cura delle due bambine, quando passano il tempo con il padre. "Ema ha la delega per andarla a prenderla a scuola: è un’organizzazione felice perché le mamme delle mie figlie ed Ema vanno d’accordo, è un gruppo familiare sereno", dichiara Madonia in un'intervista a Nuovo.
Le voci sulle nozze
È giugno 2023. La coppia sembra essere solida tanto che il ballerino, in un'altra intervista, si sbilancia sul possibile futuro insieme. "Lei è davvero una donna unica, una persona che non assomiglia a niente e nessuno. Se sarei disposto ad allargare la famiglia? Lei è la donna della mia vita ed il mio compito è quello di renderla felice", confessa, aggiungendo: "Se la sposerei? Certo che sì, perché ha tutte le qualità del mondo e regala anche uno sguardo moderno alle mie figlie". Ema e Angelo trascorrono l'estate insieme ma qualcosa sta per cambiare.
L'ultimo post insieme
L'ultimo post insieme, dove Ema Stokholma dichiara il suo amore al compagno, è datato 22 agosto. I due sono in vacanza a Airelles Gordes, in Francia, e sembrano innamorati ma poi lei smette di seguirlo su Instagram e il gossip si infiamma. Lui continua a commentare i suoi post con apprezzamenti, ma la rottura appare evidente e dopo un anno l'amore sembra essere finito.
La notizia della rottura
La coppia non fa annunci ma a svelare che la relazione è finita è Guillermo Mariotto, giudice di Ballando con le stelle, che nella puntata del 28 settembre scorso, si lascia scappare un commento, che non lascia dubbi. Madonia gareggia in coppia con Paola Perego e per spronarla il giudice dice: "Voglio di più da Paola Perego. Ti devi lasciare andare. Guarda tutta quella roba di lui, che adesso è pure libero". Madonia appare colpito dalle parole ma non smentisce e Milly Carlucci invita tutti a parlare di ballo e non di vicende personali.
Estratto da fanpage.it venerdì 25 agosto 2023.
Ema Stokholma torna a parlare dell’infanzia difficile segnata dalle violenze familiari. Non è la prima volta che la conduttrice radiofonica racconta del rapporto turbolento con la madre, accusata di infliggerle sin da bambina violenze fisiche e psicologiche. Ora, a 39 anni, ha trovato il coraggio di tornare in Francia, nel paese in cui è cresciuta.
Il ritorno all’infanzia violenta
Del suo passato difficile ne ha parlato in un libro dal titolo Per il mio bene, ma parte del percorso terapeutico è stato, probabilmente, anche il ritorno a Roman-sur-Isère, il paese in cui è cresciuta. “Se ci fossi tornata prima di scrivere il libro, non so se l’avrei finito, l’emozione sarebbe stata troppo forte. Ho vomitato tutta la notte, mi è venuto un febbrone”, ha racconta in un’intervista al Corriere della Sera.
È tornata sul ponte in cui, a circa 8 anni, sua madre la spinse a gettarsi. “Non l’ascoltai solo perché in quel momento che, ignaro, si mise a parlare con lei e la distrasse. Le violenze erano parte del nostro quotidiano”. Infine, ha fatto una visita nella casa in cui viveva con la madre, ora in affitto, fingendosi un’aspirante compratrice. “Quello che accadeva dentro casa non era cola di nessuno: mia madre era malata, ma l’indifferenza che trovavamo fuori, di fronte a lividi e urla, è stata colpa di tutti”. La donna è morta di leucemia nel 2020, ma Ema ammette di non essere mai riuscita a perdonarla.
La storia d’amore con Angelo Madonia
Per affrontare il viaggio Ema Stockholma, oggi 39 anni, ha portato con sé il compagno Angelo Madonia, con il quale ha condiviso l’esperienza a Ballando con le stelle e che le ha regalato la serenità inedita dell’affetto familiare. “Non ce l’avrei fatta a tornare lì da sola. Il senso di famiglia che mi dà Angelo mi ha aiutato a trovare il coraggio. Lui è una persona molto sensibile”
(...)
Ema Stockolma torna dopo 30 anni nella sua città. «Da quel ponte mia madre mi disse di buttarmi». Storia di Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 18 agosto 2023.
Un tuffo negli anni più dolorosi del suo passato. La dj e conduttrice tv Ema Stockolma, ha trovato il coraggio di tornare a casa. Mancava da trent’anni da Romans-sur-Isère, la città francese dove è nata e cresciuta con la madre Dominique e il fratello Gwendal e dove ha vissuto per anni in balia delle violenze perpetrate contro di lei proprio dalla madre. Un’esperienza raccontata nel suo libro «Per il mio bene», frase che la mamma le diceva per giustificare le botte o gli insulti e perfino l’istigazione al suicidio, che fortunatamente non ebbe esito. Flashback strazianti, che la dj ripercorre in un lungo sfogo pubblicato su Instagram. Ha cercato di essere forte, ma, alla fine, confida: «Ho vomitato tutta la notte». «Ho corso. In 20 minuti avevamo gia visto tutto. Chiusa la pratica. 30 anni che aspettavo questo momento e in manco mezzora finiamo tutto e non se ne parla più» racconta ai follower.
Nella sua città non ci era più tornata. «Che ci tornavo a fare in quel posto dove ero nata, cresciuta, dove ero quasi morta?» si domanda alludendo all’episodio più brutto: «Da quel ponte mia madre mi disse di buttarmi, oggi non so perché istintivamente ci ho sputato nell’ acqua, davanti a Angelo Madonia (il suo fidanzato, conosciuto a Ballando con le Stelle ndr) che mi guardava incredulo. Strano come i ricordi siano selettivi. Immagini quotidiane ma insignificanti ti si imprimono in un angolo della testa o della pancia e non sai perché» racconta per poi rievocare come riuscì a sottrarsi dalla violenza della madre fuggendo di casa.
«Quasi 30 anni fa in una Peugeot 106 insieme a mia madre e mio fratello cercavamo una nuova vita. Pochi anni dopo quella partenza scappavo di casa per non tornarci mai più, scegliendo l’Italia come un pomodoro sceglie lo spaghetto, perché questa nuova vita non l’avevo trovata io, e la violenza degli anni passati non era rimasta in quella cittadina del sud della Francia ma era salita con noi sulla Peugeot». Dopo anni di attesa («come quando leggi un libro non da solo ma in due e devi sempre aspettare che sia il momento giusto anche per l’altra persona per iniziare un nuovo capitolo»), è tornata in quelle strade e nel video pubblicato si vedono il fiume, la chiesa, i campi. «Sto correndo per le stesse strade dove correva mio fratello, anche se a me diceva che camminava veloce ma io avevo il fiatone per seguirlo. Quelle strade le ho percorse senza vestiti, nuda come un bruco, quando scappavo dalle botte». Camminando, rivede i negozi della sua infanzia: «L’insegna Annie boutique di un negozio che era un fantasma già quando c’ero io. Il poster con l’asino disegnato a fumetto sulla vetrina della libreria, che non si sa per quale motivo non lo hanno tolto dal 1990, quasi a dire: vieni qua e pensi di emozionarti per casa tua, invece ti farò piangere io, che sono solo uno stupido poster. Oggi la casa è vuota, in affitto, era vuota pure quando ci stavamo noi dentro». La conclusione è fra speranza e emozioni violente. «Sono stata dove da bambina non pensavo di aver un oggi, insieme a Angelo e Jordan (il loro cane ndr), come per dire guarda che sei viva e che stai alla grande, guarda che stringerai i denti e diventerai sensibile. La verità? Ho vomitato tutta la notte».
Emanuela Fanelli.
Emanuela Fanelli: «Difficile oggi fare comicità: le piattaforme controllano anche le virgole per paura di offendere». Dalle recite scolastiche al cinema, ha conquistato il pubblico con l’ironia. E ora è candidata ai David. Dialogo a tutto campo con l’attrice. Che ai complimenti risponde: «Oggi ti dicono “sei un genio” e il giorno dopo che non fai più ridere». Claudia Catalli su L'Espresso il 20 Aprile 2023
La sua ironia ha conquistato prima gli spettatori di “Una pezza di Lundini”, poi quelli della serie su Sky e Now, “Call my agent – Italia”, in cui interpreta la mitomane e sedicente attrice Luana Pericoli. Nei suoi panni Emanuela Fanelli, 36 anni, ha tenuto testa a Corrado Guzzanti, dimostrando che alla lunga “la tigna” – cioè la determinazione nel fare questo mestiere a modo suo, senza compromessi e senza mollare – paga. Al punto da essere arrivata alla sua prima candidatura ai David di Donatello per il film “Siccità” di Paolo Virzì come miglior attrice non protagonista.
Partiamo dal primo provino, nel 2015, per “Non essere cattivo”.
«Prima non avevo neanche un’agente, la mia mi ha vista recitare una sera in un pub a Testaccio. Ancora facevo la maestra nella scuola materna. L’ho fatto per dieci anni: era un mestiere che amavo, non era la passione della mia vita, ma preferivo stare con i bambini che fare l’attrice in film che io stessa non avrei guardato».
La sua tigna ha pagato.
«C’è voluto tempo. Il primo laboratorio teatrale l’ho fatto a 16 anni, poi facevo piccole parti nel teatro classico, nei matinée, nelle sagre di paese mentre il pubblico mangiava i panini con le salsicce…».
Dalle sagre è arrivata, via via, al tappeto rosso di Venezia con il film di Virzì.
«“Siccità” è stato un dono; Paolo mi ha affidato il ruolo di una ragazza sempre sottovalutata dalla sua famiglia, una che passa per scema, eppure è sveglia, intelligente, ben disposta verso gli altri, infatti diventa leader suo malgrado».
Un po’ come lei, che oggi spicca tra le star di “Call my agent – Italia” nei panni di Luana Pericoli.
«Scherzare sul mondo del cinema smitizzandolo ha divertito il pubblico. Luana è stata più apprezzata di quanto pensassi. Ha convinto poter ridere di attori italiani famosi e di certe loro caratteristiche, come il trasformismo di Pierfrancesco Favino».
Il commento che ha ricevuto più spesso?
«Quanto m’hai fatto ride’ co’ Guzzanti l’ultima puntata».
Il complimento a cui non ha creduto?
«Fanelli genio. Un’esagerazione, c’è troppa facilità oggi a dividersi in tifoserie in cui si cambia squadra rapidamente. Un giorno sei genio, l’altro diventi: “Ahó, non fai ride’, cambia lavoro”».
Si sente davvero la quarta sorella Guzzanti?
«Non mi paragono neanche, loro sono meravigliosi, ma mi ha fatto ridere dirlo nella serie!».
Com’è recitare con Corrado Guzzanti?
«Una tortura cinese: sfido chiunque a non ridergli in faccia. È stato un sogno».
Tra l’altro, sette anni fa avevate condiviso una scena di sesso in “Dov’è Mario?”.
«Penso di essere l’unica ad aver fatto una scena di sesso con lui e lui è l’unico ad averla fatta con me. Ci vantiamo di questo primato con gli amici al bar».
Trova ci sia ancora spazio per una comicità politicamente scorretta oggi?
«Dipende su quale piattaforma, alcune controllano anche le virgole. Lo fanno per evitare che possa offendersi qualcuno. Però, per citare Ricky Gervais, non è che chi si offende abbia sempre ragione a priori».
Le piace “Lol” su Prime Video?
«Qualunque programma umoristico per me è il benvenuto, a prescindere dai gusti».
In “Una pezza di Lundini” si sentiva libera di dire ciò che voleva?
«Sia io sia Lundini avevamo una libertà editoriale totale, l’unico limite era il gusto personale. Non amo offendere nessuno, cerco di evitarlo. Credo anche che ogni comico debba assumersi la responsabilità di quello che dice. Se una battuta fa ridere poco e offende molto, non ha senso».
Chi la fa ridere oggi?
«Il mago Forest, Nino Frassica, Corrado Guzzanti, Fabio De Luigi, Antonio Albanese, tutta la comitiva dandiniana del “Pippo Chennedy Show”».
Donne?
«Paola Cortellesi, la migliore. Se penso alle grandi di ieri, Franca Valeri (di cui ha parlato in “Illuminate” su Rai 3, ndr) e Anna Marchesini».
Esiste un’ironia femminile?
«Come diceva Valeri, esistono gli esseri umani, quelli che hanno l’ironia e quelli che non ce l’hanno».
Che cosa pensa dei comici sui social?
«Un giorno sono trending topic, il giorno dopo sono già sostituiti da altro. Alcuni video di persone sconosciute mi fanno molto ridere. Di mio non sono molto “social”, mi annoia. E poi ritengo ancora importante il contatto diretto con il pubblico. So che suona come una cosa da tromboni».
Difficile far ridere in tempo di pandemia, guerre e calamità naturali?
«È commovente quando ti fermano per strada e dicono: “Stavo passando un brutto momento e mi hai fatto ridere”. Spesso la vita sa essere pesante, quindi fa piacere sapere che mi considerano tra quelli che vanno a vedere per tirarsi su il morale».
Le capita di pensare che non ci sia nulla da ridere?
«Succede. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina dovevo preparare un numero comico e mi chiedevo: “Ma che c**o me rido?”. Però, per educazione familiare sono abituata a buttare tutto sul ridere: il confine tra il veramente tragico e il veramente comico è sempre molto labile».
Qual è stata la prima volta che ha capito che sapeva far ridere?
«A casa ridevano tutti quando dicevo le cose. Poi ho fatto teatro a scuola e mi fecero interpretare la signora Peachum de “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht: ero una vecchia prostituta ubriacona con il dialetto ciociaro e ridevano tutti. Lì ho capito che non facevo ridere solo a casa mia».
Perché non si è mai dedicata alla satira politica?
«Mi piace guardarla, ma nello scrivere non mi è mai venuta, forse non ne ho la capacità. O forse la politica fa già molto ridere, difficile fare la parodia di cose già parodistiche. Oggi basta guardare “gli originali”».
Perché non ci sarà una nuova stagione di “Una pezza di Lundini”?
«A poker devi lasciare il tavolo quando hai vinto, altrimenti poi perdi. Noi abbiamo preferito finire lasciando la sensazione a chi l’ha guardata del “quant’era bella”».
La vedremo a teatro?
«Mi piacerebbe, ma me la faccio sotto. Temo che ci si aspetti da me qualcosa che non sono in grado di dare. E poi adesso non posso fermarmi per provare, fare la tournée e tutto il resto».
Perché non può fermarsi?
«Come dicono sempre le attrici: “Ho tante cose che bollono in pentola, ma non posso ancora parlarne per scaramanzia”».
Però, come la sua Luana Pericoli, avrà almeno sentito Tarantino.
«Quentin lo sento, negarlo offenderebbe l’intelligenza dei lettori. Ma è un tipo umorale, non so se mi va di aspettarlo».
Emanuela Folliero.
Estratto dell’articolo di Alessandra Cantilena per mowmag.com il 3 settembre 2023.
Dopo anni a presentare i “Bellissimi” di Rete4 e tante trasmissioni legate ai film, Emanuela Folliero ha scelto di dare più spazio nella propria vita al suo amato cinema. Per questo ha deciso di accettare l’invito alla Biennale del Cinema di Venezia ed è proprio lì che l’abbiamo raggiunta per farci spiegare questa svolta: “[…]
Gli habitué del tubo catodico non scordano i ventotto anni di rassicurante, professionale ed “esplosiva” presenza estetica di una delle più amate “Signorine Buonasera” della tv. Emanuela Folliero, milanese, rimase a lungo oltre alle colleghe della Rai a riassumere al pubblico i classici del cinema italiano ed estero con ‘I Bellissimi’ a cura della redazione di Rete 4. […]
Emanuela, come va con ‘I Bellissimi’ a Venezia?
Non li ho mai abbandonati, sono legata da sempre al mondo dei film, non solo perché ne ho presentati moltissimi, ma perché il cinema mi ha sempre abitato e continua a farlo, e nel modo migliore: l’amore per il cinema è una benedizione e al contempo anche la maggiore maledizione. Quando guardiamo un film troppo spesso dimentichiamo tanti perché: se il protagonista in primo piano cammina nel sole e dietro “passano” con gli ombrelli, facciamo finta che sia un caso.
[…]
Quale messaggio vorrebbe che il cinema oggi diffondesse?
Sono cresciuta con Rossella O’Hara. Un film che può formare ancora le nuove generazioni su cosa siano i tempi dell’amore: dal corteggiamento alla conquista, perché l’amore è una quiete accesa ma oggi mi sembrano tutti impegnati a bruciare i tempi. La magia del cinema, di certi film, è di raccontare ancora che una emozione non deve essere bruciata subito per essere vissuta. Da questo problema nasce ed è nato il Metoo. Un movimento che è arrivato sui media ma che non ha cambiato la realtà nelle strade, dove la violenza anche psicologica verso le donne esiste minuto per minuto. Credo che anche in questo il cinema possa fare molto.
Pensa che la nostra sia una società ancora maschilista?
Non lo penso, la è! Altrimenti non ci sarebbe bisogno di rispondere alla domanda. Basti vedere che quest’anno tra i sei film italiani in concorso a Venezia non c’è neanche una donna.
Crede che la donna approfitti, talvolta, del suo essere seducente e della sensibilità maschile al fascino femminile, per scopi legati alla carriera?
Certo che sì. Succede in tutte gli ambiti lavorativi. Non è che il nostro mondo sia peggiore di altri. Anzi...
[…]Le è mai accaduto di ricevere una proposta indecente in cambio di incarichi di lavoro appetibili?
Una proposta è sempre indecente, se no sarebbe una domanda. Mi è successo più volte, ma il vero problema non è l’uomo che propone, e non dovrebbe nemmeno proporlo, ma la donna che accetta.
[…]
I binomi bella-stupida e brutta-intelligente hanno fatto sempre parte della vita delle donne, come pregiudizi coi quali scontrarsi e misurarsi. Come se ne esce?
L’unico problema, mai come oggi, è che gli stupidi sono sempre pieni di sicurezze, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.
Le donne favoriscono questo status quo tramite l'asservimento ai canoni di bellezza a tutti i costi?
Sì, senza alcun dubbio. Ci pensavo proprio in questi giorni che sto rileggendo Freud. Nel suo Mosè annota: “Un essere umano senza qualità è un essere con tutte le qualità senza l’essere umano”. Le donne hanno un senso di colpa atavico, sin dai tempi di Eva e Adamo. Ecco, forse è arrivato il momento di liberarcene.
Emanuela Folliero: «Così abbordai mio marito. Stefano D’Orazio? Ci lasciammo con un brindisi. Il calendario? Ero contraria». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.
La conduttrice: «Evitai un molestatore gettandomi da un’auto. Il calendario? Ero contraria. Ho conosciuto Pino Oricci al mare: provavo a nuotargli vicino per conoscerlo, ma era imprendibile. Ci sono riuscita al bar, davanti a sei caffè»
Emanuela Folliero, per 28 anni ha dato la buonanotte all’Italia con I Bellissimi. E ora?
«Potrei anche vincere un Oscar, ma rimango quella dei Bellissimi. Tre anni fa ho concluso il contratto con Rete 4, ma è una stagione della mia vita che è terminata in modo positivo e ora sono più libera: prima avevo un’esclusiva e nessuno mi chiamava. Ora lavoro anche in Rai».
I suoi ex datori di lavoro?
«Non ho avuto proposte interessanti da loro. A parte il Grande Fratello Vip: ma ho pensato al mio adolescente, Andrea, e al suo giudizio. Quando entriamo nei negozi dove c’è musica e ballo lui mi fulmina: “mamma, no!”».
Julia Roberts ha detto che Hollywood non le perdona l’età. Lei ha da poco compiuto 58 anni.
«In realtà, per come vanno le cose in televisione in Italia, credo di essere una donna troppo giovane per avere un programma tutto mio».
Non le manda a dire.
«Sono schietta. Lo ero anche ai provini».
Ha dovuto difendersi?
«È successo. A un casting mi chiesero di spogliarmi nuda. Risposi: “Non sono venuta dal dottore” e me ne sono andata, non prima di aver avvisato le altre che aspettavano fuori dalla porta. Ma sono entrate lo stesso».
Come si è difesa dalle molestie?
«Tra un chiacchiera e l’altra, tiravo fuori che avevo un papà avvocato. E quando lo dicevo, l’approccio cambiava».
Da che famiglia proviene?
«Sono nata a Milano da genitori milanesi, ma il nonno paterno era pugliese. Da piccola mi chiamavano cigno nero, perché ero secca secca, avevo i capelli neri e guardavo con l’occhio di lato. Mia zia diceva: “mmmh... questa qui è strana”».
Era strana?
«No, solo molto introversa, per una timidezza estrema. Da adolescente soffrivo di una forma di malinconia che chiamavo “tristezza molesta”. Ero alla ricerca della mia strada».
Come l’ha trovata?
«Iniziando a lavorare. Mentre frequentavo il liceo artistico ho cominciato a distribuire volantini sui pattini a rotelle: facevo parte dei Roller Project, percorrevamo il tratto di strada da San Babila a Loreto attaccandoci alle macchine».
N on era pericoloso?
«Avendo fatto pattinaggio artistico me la cavavo. Una volta però sono andata contro una vetrina e ho abbracciato un tipo, Rummenigge...».
Nel frattempo faceva la pubblicità.
«A 18 anni sono stata avvicinata da un modello: mi ha portata in agenzia e mi hanno scritturata per la Valtur. L’ho rivisto anni dopo, marito di Andie MacDowell. Era Paul Qualley».
La televisione?
«Ho cominciato con Licia Dolce Licia: avevo 20 anni e il provino consisteva nel girare in tondo, scambiandoci degli sguardi».
Prendeva tutto quello che arrivava?
«Non volevo fare la modella ma neppure la valletta: l’ho fatta per un breve periodo a Ok!Il prezzo è giusto. Poi però l’ho anche presentato».
Non pensava che rifiutare fosse rischioso?
«Il nostro lavoro è così: precari per sempre. Gianna Tani, la casting manager, mi consigliava di tenere alta l’asticella: poi ad un certo punto mi ha proposto di sostituire Cinzia Lenzi».
Perché hanno scelto lei?
«Forse perché ero di Milano. La Lenzi abitava a Firenze e faceva la pendolare. Mi hanno detto che ero stata scelta proprio da Berlusconi».
Le hanno detto anche il motivo?
«Per il sorriso rassicurante e lo strabismo di Venere. Non per le tette: avevo una camicia a fiorellini abbottonata, con le maniche a sbuffo».
Ma è diventata subito un sex symbol.
«Ma non mi ci sono mai sentita: da piccola mi chiamavano poker d’ossi e sec symbol. Andavo in giro con il golf di mio fratello, anche al mare».
Silvio Berlusconi.
«L’ho incontrato per la prima volta a Segrate, veniva in mensa e si metteva a raccontare le barzellette e a distribuire i pasti: “Folliero ma non le ho mai fatto la corte? Ah no? Perché?”»
Ha contato più la fortuna o il talento?
«Ho detto molti no che mi sono costati . Ma alla fine ho fatto così tanti programmi che per ricordarmene devo andare su Wikipedia».
Un suo pregio?
«Non vivo nel passato, ma solo nel futuro».
Un incidente di percorso.
«Ad un certo punto un agente mi ha suggerito il Paolo Limiti Show, un programma Rai di prima serata: “tanto hai il paracadute, torni in Mediaset quando vuoi”: mi hanno messo a fare la valletta. E quel paracadute non si apriva più...».
Il calendario.
«Avevo 38 anni, non ne volevo sapere. Poi mi hanno dato una pila di libri dei più grandi fotografi e sono andata anche a guardarmi le pornostar, per capire le posizioni. Quando l’ho visto in edicola ho pensato: “non lo comprerà nessuno”. Abbiamo dovuto ristampare».
Qualche critica?
«Alfonso Signorini mi ha detto che con gli stivali bianchi sembravo “da Nomentana”».
Oggi il nudo non è più ammesso.
«Una forma eccessiva di protezione delle donne: suona come l’ammissione di essere indifese. A me è capitato di tutto, da quello in ascensore che ha aperto il cappotto al tipo che si strusciava sul tram 90. Una volta mi sono buttata giù dall’auto con l’autostop perché stava finendo male: certo, queste cose non devono più succedere».
Stranamore.
«Sono stranamore di mio nella vita, mi piace ascoltare le persone, faccio miei i problemi degli altri cercando una soluzione».
Dopo aver preso il posto di Iva Zanicchi, ha preso quello di Alberto Castagna.
«Ero nel camper, poi a fine trasmissione andavamo a cena. Lui era già malato e una sera a tavola davanti gli altri mi ha detto: “l’anno prossimo questo lavoro lo fai tu, mi sono rotto i coglioni e vado a pescare”».
Come ha saputo della sua morte?
«Come tutti, da Bonolis, a Sanremo. Mi diceva “voglio morire da vivo”: era in dialisi ma rubava dal mio piatto. Era affamato di vita».
Le hanno chiesto di sostituirlo.
«Mancavano alla fine della trasmissione sei puntate, dovevo salire sul treno in corsa. Per rispetto a lui ho aspettato la stagione successiva».
Ha iniziato pochi giorni dopo il parto .
«Dopo 15 giorni dal taglio cesareo, per l’esattezza. Ricordo la truccatrice e la parrucchiera, mi hanno anche vestito e messo il busto...»
Una mamma «tardiva»: aveva 42 anni.
«Ero in cura per le cisti ovariche, dopo una visita la mia dottoressa mi ha detto che ero incinta. A quell’età si chiama “premium baby” e prima di affezionarmi all’idea ho voluto essere certa di portare a termine la gravidanza».
Il padre di suo figlio?
«Un ragazzo di Bassano del Grappa, che conoscevo da sei mesi e colmava alcuni miei vuoti. Non eravamo fatti per stare insieme, ma si è trasferito a Monza per starci più vicino».
Il baby-blues.
«In clinica ho avuto un crollo. Le infermiere mi hanno vista piangere e si è diffusa la voce della depressione post-partum. Ho detto: “devo reagire”. E ho deciso di farmi aiutare».
Da chi?
«Da uno psicologo di Bergamo che mi ha consigliato il mio garagista. Aveva scritto un libro di dinamica mentale applicata e mi ha ridato in mano le chiavi della mia vita».
Suo marito Pino Oricci.
«L’ho conosciuto in Sardegna. L’ho visto andare in acqua e ho pensato: “però, niente male”. Provavo a nuotargli vicino, ma lui faceva triathlon ed era imprendibile».
Alla fine?
«L’ho abbordato al bar. Ha ordinato sei caffè e gli ho domandato: “Li bevi tutti tu?”».
Il suo ex storico Stefano D’Orazio.
«Ci ha presentati un amico a un concerto dei Pooh: mi ha invitata a cena Da Vittorio, a Bergamo. Mi scriveva frasi d’amore sui tovaglioli di stoffa: “tanto con quel che costano”, diceva...»
Perché vi siete lasciati?
«Programmi di vita differenti. Ci siamo lasciati con un brindisi, davanti a una coppia di amici: “volevamo dirvi che non stiamo più insieme”. Da quel giorno siamo diventati amici».
La sua morte.
«Anche dall’ospedale faceva battute a sua moglie Tiziana: “c’è chi sta peggio di me”. Una sera mi è capitato un braccialetto che Stefano aveva regalato a mio figlio. Poche ore dopo è morto».
La scomparsa di Maurizio Costanzo.
«Inaspettata. Quando andavo a Roma passavo a trovarlo. L’ultima volta mi ha regalato una delle sue tartarughine portafortuna. Era sempre generoso, anche con le parole: quando gli chiedevano chi fossero le conduttrici che meritavano qualcosa in più, citava me».
Le ha dato qualche consiglio?
«Quando facevo Stranamore mi diceva di inviargli le storie degli ospiti, così poteva suggerirmi il modo migliore per esporle».
Lei è molto attiva sui social.
«Mi scrivono i “money slave”, quelli che vogliono regalarti una borsa di Louis Vuitton o pagarti la spesa senza volere nulla in cambio».
Ha mai accettato?
«Certo che no, ma mi diverto molto».
Chirurgia estetica sì o no?
«Resisto, piuttosto ritocco le foto».
Yoga o pilates?
«Ballo da sala. Da piccola ho fatto ginnastica correttiva per la scoliosi. Il pilates è simile...».
Il prossimo programma?
«L’8 marzo registro una puntata di Celebrity Chef con Alessandro Borghese, insieme a Patrizia Rossetti. L’idea mi diverte molto».
Cosa si rimprovera?
«La pigrizia: sono una che non va alle feste e agli eventi, mi fa una fatica furibonda. E nel mio ambiente, per lavorare, tocca fare salotto».
Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 23 gennaio 2023.
A scuola di dizione le davano pugni nello stomaco per imparare a usare il diaframma. Alla pronuncia giusta non deroga quasi mai, neppure in casa, se non per la parola «bene» che andrebbe detta con la prima «e» aperta, «ma proprio non ci riesco». La voce è una caratteristica di Emanuela Folliero. La fisicità un’altra. Quella però, racconta, «prima di tirarla fuori ho dovuto compiere 30 anni, perché sono molto timida».
(...)
Di Chiesa ha qualche ricordo?
«Una persona gentile e puntuale. Veniva spesso ospite in tanti programmi».
Nonno pugliese, mamma della bergamasca, lei è nata in un mix di dialetti e poi ha conquistato la dizione perfetta delle annunciatrici.
«E la passione per la lingua italiana: sono un po’ una fanatica della grammatica, mi infastidiscono gli errori. Oltre che certe parlate dialettali, perché non le capisco: ad esempio in serie come “Gomorra”. Qui al Nord parliamo quasi “neutri”».
Vive a Milano, dove - lo ha denunciato qualche anno fa - si sentiva poco sicura. Va meglio?
«Anzi. Apro il portone senza dare le spalle e sono sempre in allerta».
Colpa della politica se non c’è sicurezza? Il Paese è peggiorato?
«Chi delinque, spesso, lo fa per disperazione. Manca il lavoro, non è una cosa da poco. Confido molto nel nuovo governo perché la situazione possa cambiare».
Ci crede?
«Giorgia Meloni mi piace molto, ed è raro che io mi esponga. Però mi sono informata e ho studiato, prima di votare. Ho letto anche il suo libro. Ha sempre masticato politica, fin da ragazza. Si applica, ci mette il cuore, sa le lingue e si dà da fare.
Non è tanto questione di destra o sinistra, ma della persona. La conosco personalmente da anni, è sempre attenta e disponibile. Mi ha colpito molto la velocità con la quale ha risposto al mio messaggio di congratulazioni quando è stata eletta. E una donna presidente del Consiglio è una conquista».
(...)
Dici “Emanuela Folliero”…
«Con due “L”, mi raccomando, che in tanti si sbagliano. Lo dico dalle elementari. Per non parlare di chi mi chiama Fogliero».
… ed è sinonimo di una bellezza prorompente.
«Ma al provino di Mediaset andai abbottonata. Una camicetta a fiori con le rouches che è ancora in qualche armadio».
La bellezza le ha aperto tante porte. Ha fatto anche concorsi?
«Fui eletta Miss Rovetta, un Paese vicino a Clusone, e poi vinsi in Lombardia, da ragazzina. Valeva per Miss Italia e arrivai a essere chiamata a Salsomaggiore, ma preferii andare in vacanza con mio fratello a Sanremo».
(...)
Perché al provino di Mediaset andò senza scollature?
«Sono sempre stata molto magra e con un seno importante. Avevo una passione per la danza classica, e mi diedero il benservito proprio per quello. Quindi ben presto è diventato un problema, più che un valore. E poi all’epoca c’erano le ragazze Cin Cin, e non esistevano vie di mezzo tra il tailleur e loro. Pian piano sono cambiata io, fidandomi di più di me stessa, e sono cambiati pure i tempi».
Fino ad arrivare al suo calendario senza veli del 2003. Ora non mi dirà che si è pentita di farlo…
«No. Certo, il giorno che è uscito in edicola pioveva e me lo ricordo ancora, temevo che sarebbe stato un flop. Per non parlare di mia madre che non era convinta della mia scelta. Temevo di aver fatto brutta figura. Però fu una bella esperienza, mi lasciarono libera di scegliere le pose, così da non risultare volgare ma solo sensuale».
Ci riuscì?
«Credo di sì, visto che c’erano file di donne agli eventi a cui partecipavo che mi chiedevano l’autografo sulle foto perché volevano regalare il calendario ai mariti a Natale».
Sta scherzando?
«No, glielo assicuro. Si vede che non mi vedevano come una “mangiauomini”».
Vendette molto? E - se posso - fu un bel guadagno?
«Furono 400.000 copie, andammo in ristampa. Il guadagno davvero non me lo ricordo, so che fu sostanzioso, soprattutto per l’indotto: tantissime serate. Capitò che in una sera sola avessi tre eventi programmati in tre località toscane».
(...)
«È capitato anzi che mi affiancassero la security, per stare in mezzo alla folla. Si ricorda la giornalista a cui toccarono il sedere in diretta e fece scandalo? Non sa quante volte mi è successo, ma io mi son sempre difesa o con un bel calcio o con le parole. Il rispetto prima di tutto e a qualunque costo».
Grandi firme del giornalismo italiano imputano a Mediaset di aver peggiorato la televisione. E pure di aver contribuito a rendere le donne oggetto…
«Berlusconi spesso è il capro espiatorio… È come il nero: sta bene con tutto. Ha creato una televisione moderna, nuova, competitiva che ha dato da mangiare a migliaia di persone e continua a farlo. E poi guardi, le assicuro che ciascuna di noi annunciatrici era lasciata libera di trovare un suo stile. Nessuno ci ha mai detto o imposto cosa fare».
Libere di essere più o meno seducenti?
«C’è oggi fin troppa ipocrisia su questo tema. La donna è un oggetto solo se accetta di esserlo, se lo sceglie. Quando tanti anni fa mi chiesero ad esempio di fare la valletta a “Ok il prezzo è giusto”, in costume da bagno, dissi di no pur avendo passato il provino. Poi ho condotto il programma per un periodo, quando Iva Zanicchi si candidò in politica».
Ha lavorato con due big della tv italiana. Paolo Limiti e Alberto Castagna. Le furono maestri?
«Se vuole la verità, visto il suo giornale, io per Limiti lasciai Mediaset ma non fui tanto contenta del suo show in Rai. Mi assegnarono balletti e canti in playback, non ero a mio agio. Certo, Limiti era una enciclopedia di storia del cinema e della tv».
E Castagna?
«Un uomo rispettoso delle donne e del pubblico, simpatico e diretto. Mi lasciò in eredità “Stranamore”, il suo programma. Da lui imparai molto».
Altri maestri di vita?
«Stefano d’Orazio» (dei Pooh, ndr).
Con il quale ebbe una relazione.
«Sì, e poi una grande amicizia. Persino per la televisione più piccolina ci metteva sempre il cuore, pianificando ogni dettaglio». (Ci interrompe il marito, Giuseppe Oricci. Le chiede dove trovare alcune cose, lei poi torna da noi.)
(...)
Emanuela Trane: Dolcenera.
Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” lunedì 2 ottobre 2023.
«Nera che non si vedeva da una vita intera cosí dolcenera...». Emanuela Trane è un fiume in piena, proprio come la canzone di Fabrizio De André dalla quale, due decenni fa, ha preso il nome d’arte: Dolcenera. […] festeggerà il suo primo ventennio di carriera […]
C'è stato invece in questi primi vent’anni qualcosa che l'ha condizionata?
«Le radio. Io pensavo che chiunque scrivesse qualcosa di valore avesse la possibilità di essere trasmesso. Ho capito tardi che esistevano invece altri poteri. Al punto che oggi la musica è diventata un bordello. Tutti i ragazzini che fanno musica il sogno quasi non ce l’hanno più. Sono troppo consapevoli dei meccanismi».
I talent in questo che ruolo hanno?
«Al momento mi sembrano essere un po’ decaduti. X Factor è rimasto solo in Italia. Per un periodo hanno fatto lo scouting che un tempo facevano più le case discografiche, poi è arrivato il web a prendere il posto dei talent. Adesso c’è Tik Tok e chissà cos’altro dovremo aspettarci...»
Ci vediamo a casa torna d’attualità, undici anni dopo il Sanremo 2012, per un disco di platino...
«In realtà l’avevo già maturato ma non l’avevo mai ritirato...»
E perché?
«Perché ogni successo è già successo e io vivo sempre proiettata nel futuro, nei pezzi nuovi da scrivere, senza mai dare nulla per scontato».
Qual è oggi la casa artistica (e non solo) di Dolcenera?
«[…] La mia intensità nei live ce l’hanno in pochi. Sono stata tanto sul palco, al punto che oggi sono in giro con tre concerti: uno con la band, uno recital piano solo e uno con l’orchestra sinfonica. Questo mi fa pensare che nella vita magari potrà capitarmi di sentirmi appesantita e non più libera di scrivere ma la sensazione del palco, quella, non credo che la perderò mai».
Assieme alla sua voglia di contaminarsi addirittura coi “ragazzacci” della trap. Come ci è finita in mezzo?
«Un po’ per gioco e per fare ricerca musicale. Volevo capire come costruiscono le canzoni a livello armonico, di accordi e di melodia. Suonare una canzone al piano vuol dire renderla nuda e capirne l’essenza. Quando uno è nudo capisci se è fico o non è poi così fico...»
E come ha trovato la trap?
«Come il resto dei generi musicali. Alcuni brani valgono, hanno istinto e ispirazione abbastanza puri, altri no. Semmai inviterei a suonare in acustico tantissime altre canzoni che oggi vivono solo grazie al sound design...»
La sua anima è anche rock. I Maneskin sono davvero dei grandi o sono un bluff?
«Penso che abbiano avuto un coraggio enorme ad andare a Sanremo con quella canzone, Zitti e buoni. Andavano incontro a morte certa. Il loro credere in quello che fanno è bellissimo e, sicuramente anche per il fatto che manca gente che nel mondo suona il rock dal vivo, con loro è successo una sorta di miracolo. Ora per restare inattaccabili dovranno mettere il blues nelle loro canzoni. Il rock and roll non può prescindere dal blues. E la loro unica pecca, se così si può dire, è nel loro essere nati in Italia, dove il blues non sappiamo nemmeno cosa sia...»
Senta recentemente ha dichiarato: “L’indie, fenomeno prettamente italiano, non mi ha mai convinta”. Non le sembra un po' incoerente?
«Ma l’indie italiano oggi si chiama urban e non è più indipendente perché stanno nelle major. I termini cambiano di significato». […]
Emma Marrone.
SE LO FA UNA DONNA E' NORMALE, SE LO FA UN UOMO E' MOLESTIA. Estratto dell'articolo di Daniele Prato per lastampa.it giovedì 30 novembre 2023.
È di Acqui il ragazzo misterioso che il mondo del web insegue da oltre 48 ore, per quel bacio inaspettato che Emma Marrone gli ha stampato sulle labbra lunedì 27 novembre durante il suo concerto ai Magazzini Generali di Milano.
Lui è Paolo Ranieri, influencer, fashion e travel blogger, figurante tv, da anni presenza fissa fra il pubblico delle più importanti trasmissioni Rai e Mediaset, con un seguito su Instagram di 132 mila persone. […] Paolo che al concerto di Emma era presente da semplice fan.
[…]
Un po’ emozionato, un po’ frastornato da un «lip kiss» arrivato a sorpresa, da ore Paolo si ritrova al centro dei gossip e dei commenti sulle pagine social, specie da parte dei fan di Marrone: «Saranno fidanzati?», «Beato lui!», «Di certo si conoscevano». «Invece no – assicura Ranieri –, Emma e io non ci conosciamo. È stato un suo gesto spontaneo che mi porterò nel cuore. La rivedrò martedì nella tappa di Torino del suo tour "In da club". Chissà se mi riconoscerà».
Certi amori non finiscono. Amici, i gossip, l'addio per Belen: la storia d'amore tra Emma Marrone e Stefano De Martino. Novella Toloni il 24 Giugno 2023 su Il Giornale.
Dal 2010 al 2012 Emma Marrone e Stefano De Martino hanno conquistato i fan con la loro storia d'amore prima che Belen Rodriguez facesse breccia nel cuore del ballerino napoletano
Sono trascorsi più di dieci anni dal gossip che travolse Emma Marrone, Stefano De Martino e Belen Rodriguez. La cantante salentina era legata da tre anni al ballerino napoletano, quando quest'ultimo perse la testa (ricambiato) per la showgirl argentina. Il clamore per la rottura tra De Martino e Emma per "colpa" di Belen infiammò la cronaca rosa per mesi, ma oggi tra i tre protagonisti della storia è tornato il sereno. Ma l'amore tra Emma e Stefano, cominciato sui banchi di scuola, è ancora una di quelle storie che incantano i fan dell'ormai ex coppia di Amici.
Galeotto fu Amici di Maria de Filippi
Emma Marrone e Stefano De Martino partecipano alla nona edizione del talent show musicale Amici di Maria De Filippi. È il 2009 e la cantante salentina, 24 anni, conquista il pubblico con la sua voce graffiante e la grinta. Nella scuola c'è anche Stefano, ballerino napoletano appena ventenne, e tra i due il feeling cresce settimana dopo settimana. Il pubblico tifa per la giovane coppia, una delle prime nate davanti alle telecamere di Amici, ma solo dopo l'uscita dalla scuola i due escono davvero allo scoperto per la gioia dei paparazzi.
La sorpresa a Mattino Cinque
Dopo avere vinto Amici per Emma Marrone inizia un periodo intenso fatto di interviste, ospitate, concerti e festival musicali. A pochi giorni dalla finale del talent, è il 10 maggio, la cantante salentina è ospite di Federica Panicucci a Mattino Cinque per raccontare la sua storia, il passato difficile e la voglia di sfondare nel mondo della musica, ma al termine dell'ospitata De Martino piomba in studio per una sorpresa. Il ballerino si siede accanto a Emma che, incalzata dalla conduttrice, parla per la prima volta della loro storia. Pochi giorni dopo, sulla rivista Visto, l'artista ammette: “Personalmente non sono mai stata così felice come in questo periodo. E non parlo solo della mia vittoria ad Amici e dei due dischi di platino. Ma anche della mia vita sentimentale”.
Tensione al ristorante: arrivano Belen e Stefano E la Marrone scappa via
Le foto sulle copertine
Emma e Stefano vengono paparazzati in giro per l'Italia: lei impegnata nel tour e nella registrazione del secondo album, lui tra ospitate, musical e impegni professionali. La coppia non perde occasione di scambiarsi baci e effusioni in pubblico per la gioia dei fotografi e le copertine delle riviste si moltiplicano. Emma e Stefano sono amatissimi dal giovane pubblico di Amici. L'amore sembra solido ma la lontananza gioca un brutto scherzo ai due.
La crisi poi il ritorno di fiamma
Gennaio 2011. Iniziano a circolare i primi rumor sul tradimento di Stefano De Martino con la collega ballerina Giulia Pauselli ed ex allieva di Amici. Emma non commenta ma i due si allontanano e non si fanno più vedere assieme. Mesi dopo Stefano confessa: "Era una storia nata dentro al programma, in un contesto particolare e subito dopo l'uscita da Amici sia io che lei eravamo impegnati lavorativamente, spesso in città e continenti diversi. Lei aveva i suoi concerti e le sue date promozionali, io sono andato negli Stati Uniti per ballare con il Complexions Contemporary Ballet". La lontananza, però, dura poco e nell'estate 2011 i fotografi li pizzicano di nuovo insieme più innamorati che mai. Il settimanale Chi immortala la Marrone e De Martino per le vie di Milano, mano nella mano, felici e affiatati. Il peggio sembra essere passato e i due, tra un impegno e l'altro, trascorrono l'estate insieme.
Belen: "Aspetto un figlio da Stefano De Martino"
Il colpo di fulmine con Belen
A ottobre 2011 Stefano De Martino torna ad Amici: è uno dei ballerini professionisti della nuova stagione del talent di Maria De Filippi. Nel cast fisso c'è anche Belen Rodriguez ballerina "d'eccezione", mentre Emma è capitana di una delle squadre del Serale. Prima in sala prove poi in studio tra l'argentina e il napoletano scatta la passione nonostante Stefano sia fidanzato con Emma. I giornali parlano del clamoroso tradimento. Stefano e Belen non commentano ma la cantante su Facebook prende le distanze dai due: "In questo momento non ci sono grandi parole da dire ma ci tengo a dirvi che nonostante tutto io sto bene, sono qui a fare il mio lavoro e sento tutto il vostro calore. Ci tengo anche a dirvi che io mi dissocio da tutto ciò che sta accadendo".
Maria De Filippi: "Lo dissi io a Emma"
Belen viene fischiata dal pubblico di Amici durante una delle dirette serali e Emma viene informata del tradimento da Maria. "La situazione era tragica, ma al momento fu uno choc per tutti. Nessuno di noi aveva capito. Lui confessò, si erano innamorati ad Amici, ma Stefano non voleva dirlo a Emma, così a Emma lo dissi io, fui molto onesta e chiara con lei". È la fine della storia d'amore tra Emma e Stefano, che inizierà la lunga relazione (tutt'ora in corso) con Belen Rodriguez.
Ivan Rota per Dagospia il 24 dicembre 2022.
Emma Marrone posta anche stamani dopo aver risposto a un hater che le aveva scritto :” Come festeggerai il Natale? Con mamma e papino?”. Il padre della cantante é mancato da poco e lei ha risposto per le rime concludendo con:” Ti meriti la vita di merda che hai”. Oggi un altro leone da tastiera le scrive: ”Hai sempre una grandissima classe vedo. Fermo restando che quella sia una cogliona”. Emma risponde: “Vi siete svegliati tutti buoni oggi… Solo perchè non hanno perculato vostro padre… che non c’è più. Andate a cagare… Buon Natale. Questa é la classe.”
Al GF Vip, la slinguazzante Dana Saber uscita dalla camera dove stava dormendo aveva visto “un demone nero con la faccia da mucca sulla mia valigia“. Lo ha raccontato ai concorrenti però nessuno le ha creduto.. “Si chiamano incubi, non esistono queste cose” ha detto Luca Onestini, ma la “modella” ha continuato imperterrita : “L’ho visto! Mi sono messa a pregare, ma non volevo svegliare gli altri. Non era un incubo, ero sveglia, l’ho visto!”
“ Erano anni che lavoravo a questo libro, ma non ero contenta di come stava venendo e l’avevo accantonato. Mi dicevano di scrivere un libro sui miei segreti di bellezza, su come facevo a mantenermi in forma, ma non lo sentivo mio”: queste le parole di Pamela Prati su Come una Carezza, libro presentato a Roma da Francesca Barra. La diva ci fa sapere che alla presentazione c’é stata grande partecipazione soprattutto di ragazze e ragazzi che la baciavano e abbracciavano avendola vista anche al GF Vip.
Ecco il post di Lorenzo Biagiarelli, compagno di Selvaggia Lucarelli: “Volevo dire solo che domani se volete passare nel nostro locale spazzatura troverete un botto di onestà intellettuale e coraggio perché torna a casa una persona a cui ne avanza sempre tantissimo e non sappiamo più dove metterlo. Selvaggia ti amo sempre di più”. Biagiarelli ieri sera non ha partecipato alla finale di Ballando con le Stelle.“Non è stata la cosa migliore che avete fatto ma è stata bella” ,ha detto Selvaggia Lucarelli e a Moreno Porcu e a Alex Di Giorgio, “Ragazzi, cioè, se volete io vado a casa. Volete che vado a casa? Ok, prego Mariotto“. Milly, o ci capiamo e posso parlare o questo teatrino è diventato stucchevole. Assolutamente un cavolo. Cosa posso dire che sono bravi? Ok, sono bravi, dai. Da ora in avanti dirò solo che sono bravi“.
Sara Di Vaira, ospite da Serena Bortone a Oggi é un altro giorno: “Chiamare Selvaggia (Lucarelli)? Ma come faccio io a telefonarle se poi lei mi registra? Io non la chiamo! nel momento in cui io mi confronto voglio essere libera. Io con gli altri giudici ho sempre discusso e mi sono sempre confrontata in 13 anni. Certe volte il confronto è stato anche duro a essere sincera. Ma resta un confronto tra noi, non usando i social e pubblicando usando altri mezzi. Nel momento in cui io ti chiamo tu cosa fai? Lei ha detto chiaramente che ha registrato una chiamata! Ma io non ti chiamerò mai, perché non mi fido. Io non mi fido di una persona così. Non saluta nemmeno, no ed è la verità”.
Al GF Vip, Wilma Goich ci é ricascata:la cantante ha lasciato tutti a bocca aperta prima di coricarsi nella sua stanza da letto. La gieffina ha dato di nuovo un bacio a stampo sulle labbra di Daniele Dal Miro, ex tronista di Uomini e Donne : un gesto che mai nessuno si sarebbe aspettato, nemmeno il baldo giovane.
Mario Balotelli ha messo la testa a posto almeno in amore? Il calciatore ha portato alle Maldive la nuova fidanzata Francesca Monti, ex cameriera. Una sorta di luna di miele che secondo amici a loro vicini potrebbe essere l’anticamera del matrimonio.
Niente matrimonio per Gianni Vattimo bloccato dalla procura di Torino in quanto l’uomo che doveva sposare, Simone Caminada, é accusato di circonvenzione di incapace, ovvero di Vattimo che peró lo difende a spada tratta. Caminada é accusato di aver approfittato del filosofo per farsi dare soldi e di essersi fatto nominare suo unico erede.
Enrica Bonaccorti.
Enrica Bonaccorti e «la truffa del cruciverbone»: «Fininvest non la prese bene». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.
La conduttrice intervistata da Peter Gomez nel programma «La confessione» sul Nove
«Sai, potevi anche glissare. Queste cose non fanno bene alla televisione». Enrica Bonaccorti — intervistata da Peter Gomez nel programma «La confessione» sul Nove — ha raccontato un retroscena sulla celebre «truffa del cruciverbone». Era il 1991 quando mentre conduceva una puntata di «Non è la Rai», una spettatrice che giocava al telefono al gioco del Cruciverba diede la risposta esatta prima ancora di sentire la domanda. Enrica Bonaccorti fu prontissima e non fece finte di niente: «Qui non c’è altra spiegazione, non è altro che una truffa, un imbroglio». Ma Fininvest non la prese bene la faccenda, ricorda Enrica Bonnaccorti: «Tanto è vero che quando finì il programma con tutti i festanti intorno, tutti che mi incoraggiavano dicendomi “brava che lo hai detto”. Invece nella saletta con i capi c’era un gran silenzio. Allora io chiesi: “Non mi dite niente?”. E il capotavola mi rispose: “Sai, potevi anche glissare. Queste cose non fanno bene alla televisione».
Enrica Bonaccorti: «Così ho scoperto di avere le arterie tutte ostruite: un paio di mesi e potevo andarmene». Storia di Maria Volpe su Corriere della Sera il 26 settembre 2023.
Era un po’ sparita dai social, dalla tv. Ma complice il periodo estivo, il pubblico non si è preoccupato. Invece Enrica Bonaccorti, attrice, conduttrice, scrittrice, 73 anni, ha scritto un lungo post su Facebook per raccontare un dramma che l’ha colpita, per fortuna finito bene: « Sono stata operata d’urgenza per un intervento di 8 ore a cuore aperto, altri due mesi e sarei morta». Bonaccorti, donna garbata ed elegante, spesso ospite di numerosi programmi televisivi, dopo averne condotti tantissimi nella sua vita (da «Italia sera» a «Non è la Rai») ha voluto coinvolgere il suo pubblico descrivendo le sue vicissitudini che potevano portarla alla morte.
Il racconto sui social
Così comincia il lungo racconto: «Amici miei cari, carissimi, non ho più postato nulla da metà luglio, e non perché fossi in vacanza in qualche isola sperduta o perché avessi deciso di troncare i miei rapporti con voi. Al contrario, vorrei che quello che è successo a me, un’operazione improvvisa a cuore aperto, lasciasse una traccia di conoscenza in tutti quelli che mi leggono, perché io non avevo nessuna fitta al cuore, non avevo alcun dolore». Dunque un punto importante che emerge dal suo post è il bisogno di «avvisare» quante più persone possibili di quanto sia importante non tralasciare nessun sintomo, nessun segno che ci dà il nostro corpo. Prestare attenzione al minimo segnale e perseguire la via della prevenzione.
Quei sintomi difficili da interpretare
Continua: «I miei sintomi erano solo una grande stanchezza e davvero poco fiato , che imputavo a un po’ di depressione e soprattutto all’età, mentre mia figlia Verdiana continuava a ricordarmi quanto fosse in forma Sandra Milo che è ben più grande di me. L’unica stranezza è che un giorno a inizio luglio comincio ad avere ovunque un prurito terribile, tutto il corpo diventa rosso fuoco a macchie. Non avevo cambiato niente nell’alimentazione o nei farmaci, non avevo preso sole, insomma era solo il mio corpo che urlava che qualcosa non andava. Ovviamente mi faccio controllare a fondo da un dottore che trova un calcolo a un rene».
La scoperta e l’intervento durato otto ore
Cominciano una serie di esami, fino alla scoperta delle arterie tutte ostruite, «un paio di mesi e potevo andarmene». Si rendono necessari 4 bypass, ma soprattutto «un’operazione a cuore aperto, che è durata in tutto otto ore! Morale della favola: mi han detto che ho avuto una gran fortuna, una scoperta accidentale che mi ha salvato la vita». In questo caso emerge chiaramente anche quanto la fortuna abbia assistito Enrica, e quanto lei non abbia mai mancato di lottare e sperare. Senza essersi mai lasciata andare. A parte forse qualche momento di scoramento in terapia intensiva. Ma nell’insieme, l’autrice del testo di una delle canzoni più belle interpretate da Domenico Modugno, «La lontananza», ha lottato con tutte le sue forze, con al suo fianco la figlia Verdiana che non l’ha mai lasciata sola.
La perdita del compagno e il grazie ai medici
Bonaccorti circa un anno fa aveva perso il suo adorato compagno e si stava riprendendo, ma anche questa complicata operazione non le ha fatto perdere il sorriso. Nel post ringrazia poi il professor Massimo Massetti, direttore del dipartimento di scienze cardiovascolari del Policlinico Gemelli, che insieme al dottor Lauria e alla sua equipe l’hanno operata, e tanti altri medici che l’hanno seguita con grande attenzione. «Devo la vita a loro. E anche la qualità della vita che mi han fatto vivere dai primi di luglio ad adesso. Circondata da persone meravigliose, la loro umanità nel prendersi cura di me mi ha fatto oltrepassare i dolori, le preoccupazioni».
L’invito a non trascurarsi
E conclude: «Fate tesoro della mia esperienza, controllatevi quanto più potete, sperando soprattutto che abbiate la stessa fortuna che ho avuto io! Non vedo l’ora di ritrovarvi! Spero al più presto».
Enrico Bertolino.
Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “OGGI” il 24 giugno 2023.
Il 27 giugno 1980, alle 20.59, un missile abbatteva sui cieli di Ustica il Dc9 Itavia I-TIGI in volo da Bologna a Palermo, uccidendo 81 persone. Sparato da chi? Un Mirage francese oppure da chi altro? Il bersaglio era un Mig libico ritrovato settimane dopo in Calabria? Lo Stato italiano non collaborò, diciamo così, alle indagini.
La verità, emersa a frammenti subito dopo lo schianto, è solo in parte stabilita da decenni di processi. Nella base Nato del Monte Venda (Padova) era in servizio Enrico Bertolino: comico, attore, formatore. Soprattutto amico mio. Questo è il suo racconto.
Come mai eri lì?
«Mio padre aveva corrotto un maresciallo per farmi fare la leva in Aeronautica. Roba da poco, allora si mandavano le piante. Ma mi sa che avesse sbagliato pianta, magari era una graminacea. Così diventai controllore di volo nelle viscere del Monte Venda, dalle parti di Vo’ Euganeo. La base è stata smantellata a fine anni Novanta, anche per un piccolo problema». […]
Come si esplicitava il nonnismo?
«Ricordo un certo Barbero, di Torino: un nonno gli diede fuoco dopo averlo cosparso di alcool perché insisteva a voler finire una partita a Pacman. Altri aspettavano le reclute truccati come i Kiss, quel gruppo musicale con le facce bianche e nere, di notte. Gli facevano fare delle flessioni sulle turche, rompendo delle bottiglie e facendogli mettere le mani sui vetri e con la faccia dentro alla turca».
Lo segnalavi?
«Lo segnalavo. Gli ufficiali mi rispondevano: “Va bene, ne prendiamo atto”. E basta: usavano gli anziani della caserma per sbrigare le incombenze noiose». […]
Com’era strutturata la base?
«Era un luogo nevralgico con centinaia di addetti, aveva la responsabilità della difesa aerea fino a Roma. Fu anche il primo focolaio di ribellione dei controllori di volo militari che volevano essere “civilizzati”. Per far rientrare lo sciopero telefonò anche Pertini, ma al centralino c’era un aviere bresciano che si esprimeva a suoni gutturali, spesso vittima di scherzi da parte dei “nonni”. Alzò la cornetta: “Sono il presidente Sandro Pertini, voglio parlare con il generale Vittoriano Cecchini”. E lui: “Sempre ‘sti scherzi de merda. Io sono Felice Gimondi, va’ a dar via il cü”. Prese venti giorni di consegna».
Chi eri a vent’anni?
«Ero senza arte né parte. Lasciai una fidanzata, come tutti. Ma ero contento di non fare la coda al telefono a gettoni. Uno che fu abbandonato a distanza, Pedrazzini, tornò in camerata e bevve una bottiglia di Vecchia Romagna. Andò in coma etilico».
Sembra il bar di Guerre Stellari.
«Era il disagio degli anni Ottanta. C’era uno di Bologna che fumava canne a ripetizione. C’era l’eroina… A Macerata, durante l’addestramento, incontrai un tenente che portava il cappello da nazista: “Oggi purtroppo la guerra non c’è ma, se arrivasse, vi farò pisciare cherosene”». […]
Quella sera dov’eri?
«Nel tunnel, pronto per montare in servizio. All’improvviso gli ufficiali si chiudono dentro e comunicano: “Ragazzi, stasera qua sotto non entra nessuno”. C’era un tenente colonnello che si esprimeva a monosillabi e buttava giù il telefono. Fibrillazione. Dopo un po’ ci dicono: “Prendete il pullman e portatevi giù alla base”. E io: “Ma come, devo fare il mio turno”. E loro: “Tutti via, tutti via”».
Reazione?
«“Che culo, stanotte si dorme”. Però poi, sapendo che quel che era successo, ci dicemmo che qualcosa non quadrava». […]
Enrico Beruschi.
Drive In, Enrico Beruschi affonda la sinistra: "Cosa tentarono di fare a casa mia". Egidio Bandini su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2023
Enrico, Drive In “riabilitato” anche a sinistra: Repubblica titola “Personaggi memorabili” e Rai 3 ti invita proprio a parlare dello spettacolo che segnò davvero il nuovo corso del varietà e dell’intrattenimento tv. Cosa te ne sembra?
«Cosa ne dici, si saranno svegliati? Forse sì; pensa che anni fa vennero a casa mia per una intervista video, tentando di farmi confermare che Drive In era all’origine del male, o giù di lì.
Probabilmente era per infierire su Silvio Berlusconi, che si era messo in politica, mentre bisogna riconoscere che il grande sviluppo delle televisioni deve molto, forse tutto, al nostro caro sempre “amato Silvio”. Drive In, in particolare, aveva sollevato dei timori tra i dirigenti per quel tantino di trasgressione che metteva in mostra, ma fu proprio il Cavaliere che decise di mandarlo in onda, con la sua solita lungimiranza: negli affari e nella vita. Se ripenso a quella sera, al tavolo con lui e Liza Minnelli. Al “Teatro Nuovo”, la grande cantante teneva un recital e Berlusconi, seduto in seconda fila mi disse: “Uè, Enrico, ma non hai visto che adesso faccio la televisione sul serio?”. Poi siamo andati a cena e con Silvio c’era Walter Chiari, all’epoca amante di Ava Gardner e, quindi, in grado di parlare inglese. Mi chiamarono al loro tavolo e Walter spiegò alla Minnelli che ero uno dei nuovi comici: che emozione! Così, più o meno, è nato tutto. E il segno l’ha lasciato perché, a distanza di 40 anni, la gente perla strada mi ferma e mi parla ancora della nostra fortunata trasmissione. E oggine parlano anche Repubblica e Libero!».
Qual è la vera storia di “Drive In”? Tutta farina del sacco di Antonio Ricci o era piuttosto un insieme di genialità? Come fu il debutto?
«Drive In nasce come un “menage a trois”, fra Antonio Ricci, Giancarlo Nicotra e il sottoscritto. Antonio Ricci si prende il ruolo dell’autore, che ha avuto il colpo di genio di circondarsi di altri validi autori per ogni tipo di personaggio o di situazione. Noi ci spartivamo gli altri compiti e ognuno portava le sue idee, compreso Berlusconi che, come sempre, dimostrò di avere un gran “fiuto”, consigliò di prendere Carmen Russo. E dopo Carmen, vennero Tinì Cansino e Lory Del Santo. Tutto senza le ipocrisie pelose di oggi: chi fra di noi allora non sognava di addormentarsi sul loro seno?».
Battute, tormentoni, atteggiamenti e frasi che ormai fanno parte dell’immaginario collettivo, come il tuo “E allooora?” o il mitico “È qui che c’è le donne nude?” dell’indimenticabile Giorgio Faletti, per non parlare di “Ass fidanken!” e delle opere di Teomondo Scrofalo, tutto dal vivo, un po’ come i “Tik tok” o “You tube” di oggi. Drive In potrebbe funzionare anche nell’era del social?
«Certo che funzionerebbe, a patto di affrontare copione e improvvisazione come facevamo noi, perché i tormentoni e le battute più azzeccate, all’inizio, nascevano per caso, poi abbiamo cominciato a provarli, senza però farne mai il perno su cui costruire la scena; faccio un esempio: per quei venti che si ricordano, ne abbiamo buttati lì 200 oppure 2000, eliminandoli se non ci convincevano, se non convincevano noi che ci confrontavamo tutti assieme. Il mio “e allooora” nasce a Non stop, per saltare di palo in frasca nei monologhi di cabaret, senza un nesso. Salti che il regista Enzo Trapani mi chiedeva, proprio per accorciare i monologhi, un po’ un antesignano di Twitter e delle sue 140 lettere...».
Il titolo di ieri su Libero recitava “Contrordine compagni”, una delle più fortunate serie di vignette del “Candido” di Giovannino Guareschi, cui tu sei affezionato e straordinario interprete. Guareschi sempre e comunque attuale?
«Guareschi è sempre nel mio cuore e vado in giro per l’Italia a portare sul palcoscenico i suoi racconti, dal Don Camillo e Peppone al Corrierino delle famiglie o allo Zibaldino: letti da me divertono molto il pubblico, che ormai mi segue ad ogni serata, come domenica scorsa al concerto per pianoforte a quattro mani (il duo pianistico SVAR, Simona Guariso e Carlo Balzaretti ndr) dal titolo Guardando le stelle in compagnia di Giovannino Guareschi, sulle musiche di Alessandro Cicognini, autore delle colonne sonore dei film di don Camillo dove io, naturalmente, ero la voce narrante. Guareschi, alla fine, è attuale come il Drive In. Tutti e due riscoperti dalla sinistra un po’ tardino, forse...».
Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “la Verità” il 17 luglio 2023.
Nel caldo torrido di Milano, le serate di Enrico Beruschi, classe 1941, sono ben più frizzanti di quelle dei coetanei, ma pure di chi è ben più giovane di lui. Racconta di aver visto pochi giorni fa sia Cochi che Renato - furono compagni di scuola prima di colleghi al Derby - alla Pasticceria Gattullo a Porta Lodovica, ritrovo degli artisti di allora «ed è stata una festa».
Reduce dal compleanno di Roberto Vecchioni - «erano tutti musicisti, ma mi consideravano uno di loro perché una volta ho fatto il Festival di Sanremo, nel 1979» - e dall’ascolto di un quintetto di ottoni della Filarmonica della Scala allo storico Spirit de Milan - «pienone, doveva vedere quanti giovani c’erano» -, lo raggiungo durante qualche giorno di riposo sul lago di Lecco, ad Abbadia Lariana, tra le sue mete preferite fin da bambino. Ché il padre era così appassionato delle scalate sulla Grignetta «che mia madre era fin gelosa della “Rosalba”, dove andava sempre, ma era semplicemente il nome del suo rifugio preferito».
Acconsente a una lunga chiacchierata solo a patto che non titoliamo come ha fatto qualcuno di recente sulle donne del Drive In, «che mia moglie ci è rimasta male».
Su sua moglie c’è questo giallo da sempre: si dice - e internet segue le dicerie - lei sia sposato con la collega attrice Margherita Fumero, ma…
«È semplicemente una carissima amica. Mia moglie si chiama Adelaide. Era una segretaria alla Galbusera, dove lavoravo come vicedirettore commerciale. Era la più bella. Una volta la feci piangere con la mia severità, e per farmi perdonare la riaccompagnai in stazione e… siamo sposati da 49 anni e abbiamo avuto due figli».
Un po’ un cliché, il capoufficio e la segretaria…
«Nemmeno per sogno: quando le cose si fecero serie tra noi, lei lasciò l’azienda. Mia moglie è forse l’unica donna che ha messo in soggezione uno come Beppe Grillo, sa?».
Racconti.
«Erano gli anni Ottanta. A cena dopo una mia prima teatrale, lui mi dice davanti a tutti che mi vuole bene. La guarda e le chiede: “Perché, Adelaide, non credi che io voglia bene a Enrico?”. Lei, gelida: “Anche le vipere hanno dei sentimenti?”».
Tostissima. Ma non eravate amici, con lui?
«Lo siamo stati, sì, ci conoscevamo bene. Abbiamo fatto anche Luna Park insieme. Nel 1977 io ero a Non Stop, lui a Secondo voi con Pippo Baudo. Ed eravamo l’uno la riserva dell’altro: folcloristico, no? La cosa diciamo strana per allora era che avevamo entrambi la barba: due comici con la barba non si erano mai visti, perché da tradizione teatrale il comico deve essere permeabile al travestimento».
Mai litigato?
«Due screzi, questione di soldi, ma non glieli racconto».
Lo sente ancora?
«No, e non sono per nulla d’accordo su quel che ha fatto poi in politica».
E di Berlusconi che ricordo ha? Si può dire che fu grazie a lui, se è diventato così famoso?
«Lo conoscevo già, ma quel giorno lo incontrai a un concerto di Liza Minnelli con la moglie, Veronica Lario. La conoscevo come attrice, bellissima. Berlusconi mi disse: “Hai visto che ho messo sul serio in piedi una tv? Cosa aspetti a presentarti?”. Fui tra la prima decina di personaggi a cui chiese l’esclusiva. Mi tolse dal mercato».
Guadagnò molto, grazie a lui?
«Devo dirle in sincerità che la cifra iniziale fu di cinque volte superiore a quel che mi dava la Rai. Ma quei soldi le assicuro che me li sono guadagnati, e gliene ho fatti fare ben di più».
Con Drive In in particolare. Fu lei a idearlo, con Antonio Ricci e Gian Carlo Nicotra.
«Lo inventammo in un ufficio di Milano 2. Ma il grande merito va soprattutto ad Antonio Ricci. Portammo la prima pellicola - un oggetto alto mezzo metro - in via Rovani e in tanti ci avrebbero voluto boicottare. Ma Berlusconi ci mandò a pranzo e poi Ricci scoprì che aveva fatto guardare il programma alle impiegate e pure agli uomini della sicurezza e a quelli delle pulizie: voleva vederne la reazione. Piacque anche a lui. Era in grado di prendere decisioni da fior di milioni in pochi minuti».
Oggi il figlio Pier Silvio sta portando cambiamenti a Cologno.
«Mi ricordo di quando lo festeggiammo per i suoi 18 anni con una scenetta in tv. Mi piacerebbe incontrarlo ancora. Fino a qualche anno fa ho provato a far proposte per Mediaset, ma credo mi considerino troppo vecchio per certe cose. Eppure un paio di idee e di suggerimenti li avrei».
La fama fu a un certo punto travolgente, per voi del Drive In?
«Non credo mi abbia mai travolto. Con le donne, ad esempio, le possibilità a un certo punto aumentarono, ma non ho mai voluto risvegliami con al fianco una signorina che per quanto bella credesse di aver abbracciato un televisore. Ho sempre cercato di difendere le più belle, anzi, da vero uomo. Cerco di insegnare oggi a mia nipote che occorre sempre ragionare con la propria testa. Capiterà di perder qualcosa di superficiale, ma poi ci si può sentire davvero soddisfatti di come ci si è comportati. Meglio seguire le passioni, quelle vere».
Che oggi per lei sono…
«Giovannino Guareschi e la lirica su tutte».
(…)
Enrico Beruschi: «Ero l’unico a non tampinare le ragazze di Drive In, ero il bersaglio degli scherzi di Greggio e D’Angelo». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2023.
Intervista al comico di Drive In: «Prima della tv ero un capoufficio, feci piangere la segretaria: poi è diventata mia moglie. A scuola avevo 10 in condotta, la maestra mi mise accanto Pozzetto. Poi toccò a Cochi Ponzoni»
«Prima mi hanno tirato su con la carrucola vestito da amorino barbuto con arco e frecce — imbracato con dei mutandoni elastici legati ai tiranti di metallo — e poi, fingendo un problema tecnico, hanno mandato in pausa l’attrezzista e sono spariti, lasciandomi lì appeso a dondolare dal soffitto per venti minuti, non le dico che male alle parti basse...».
Chi è stato?
«Gianfranco D’Angelo ed Ezio Greggio, chi sennò? Poi sono tornati fingendosi costernati: “Scusaci tanto, ci eravamo distratti...”», ricorda ancora (virtualmente) indolenzito il tartassato “ragionier” Enrico Beruschi, quello che «porca l’oca sempre a me mi toca », con quella faccia un po’ così («Non lo facevo apposta, la bocca è proprio storta»), vittima prediletta degli scherzi infami della scatenata banda di Drive In , Italia 1, programma simbolo di quegli esagerati, gaudenti e sempre più rimpianti anni Ottanta. «Che fine ho fatto? Beh, non sono mica morto, sa?». E in effetti — dopo tanto teatro, zero o quasi tv dal 1992 («Non mi chiamano, che posso farci?») e qualche regia lirica («Ho in programma un Don Giovanni di Mozart») — la Antonio Ricci & Co. a dicembre lo ha richiamato in servizio per tre sere, al posto di un acciaccato Enzo Iacchetti, al bancone di Striscia la Notizia «accanto all’Ezio», debutto assoluto a 81 anni, una botta di nostalgia. «Perché non l’ho mai fatto prima? Ricci dice che sono troppo lento per il tiggì. Ma dopo dieci minuti sembrava fossi lì da sempre, sono una vecchia pantegana».
Alle medie era in classe con Renato Pozzetto.
«Bocciato in prima, Renato era piuttosto esuberante, per farlo stare buono lo misero al primo banco accanto a me che avevo dieci in condotta. Non funzionò mica tanto».
All’istituto tecnico invece trovò Cochi Ponzoni.
«Cochi il bello, l’unico che parlava bene inglese perché i genitori d’estate lo mandavano in vacanza a Londra. Durante le lezioni, in fondo all’aula, con un lato del banco sollevato in aria, fingevamo di essere su un caccia americano mitragliato dai giapponesi. Colpito a morte dal nemico, Cochi si accasciava sulla sedia gridando “Viva la mer...!”. Un giorno però il banco crollò a terra. Sospesi».
Si diplomò ragioniere per la gioia di mamma Clara.
«Ricevetti 34 offerte di lavoro. Scelsi il Credito italiano perché la Banca Commerciale voleva assumermi dal 15 di agosto, eh no. Ci rimasi due anni, poi partii militare, ricominciai vendendo enciclopedie, prima di sistemarmi al biscottificio Galbusera, giovane e severissimo capufficio. Qualche anno fa ho rincontrato un mio vecchio venditore: “Ci terrorizzavi tutti”».
Compresa la sua futura moglie Adelaide.
«La segretaria più carina, io il capo più brutto. Quando mi presentai pur di non darmi la mano finse di starnutire. Un giorno che l’avevo rimproverata si mise a piangere, mi fece tenerezza, così mi offrii di accompagnarla alla stazione. La Cinquecento era piccola, cambiando marcia le sfiorai la mano e... e siamo sposati da 48 anni».
Il debutto al Derby.
«Ci andavo spesso, ma restavo in piedi per non pagare la consumazione. Il patron Walter Valdi mi arruolò così: “ Ti , faccia di m..., dicono che sai far ridere, cominci domani”. Mi presentai con tre barzellette, una era quella dei due contrabbandieri travestiti da mucca».
La paga era di...?
«Di 4 mila lire al giorno, tipo dieci euro. Otto ore in ufficio, due di sonno, poi la sera sul palco, il mattino dopo di nuovo in Galbusera. Teo Teocoli mi chiamava Biscottino. Due anni dopo mi licenziai».
Nel 1977 sbucò a «Non Stop» con I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia (Massimo Troisi, Enzo Decaro, Lello Arena), poi Carlo Verdone, Zuzzurro e Gaspare.
«Eravamo tutti comici sconosciuti, io il più vecchio, non avevamo una lira, la sera mangiavamo in una trattoria di Torino dove si spendeva poco, vicino agli studi Rai. Massimo, Enzo e Lello parlavano solo napoletano. “Se riuscite a dire almeno una frase in italiano, con le e belle aperte, giuro che pago io il conto”, gli proponevo, niente da fare».
A «Luna Park», 1979, c’era Beppe Grillo.
«Alloggiavamo nello stesso residence, si usciva a cena e pagavamo sempre noi, anche per venti. Così una sera gli dissi: “D’ora in poi mangiamo a casa”. Io facevo la spesa, Beppe cucinava porcherie».
Al Festival di Sanremo con: «Sarà un fiore/Peccato che non sa telefonare/Che tante cose ti vorrebbe dire/Marisa dai non chiedermi cos’è».
«Ero fuori posto, non sapevo niente di musica, non conoscevo nessuno, alle prove facevo passare tutti avanti. La sera della finale Mike Bongiorno dietro le quinte mi avvisò: “Resta vestito che sei terzo”. Così rimasi in smoking bianco, poi arrivai quinto».
Nel 1982, concerto di Liza Minnelli a Milano, l’incontro con Silvio Berlusconi.
«Mi chiamò: “ Uè , Enrico! Adesso ho una tv, fatti vivo”. Con Ricci e Nicotra ci siamo chiusi in un ufficio a Milano 2, con le poltroncine incellofanate. Ed è nato Drive In ».
I funzionari non volevano mandarlo in onda.
«Portammo la pizza con il numero zero a Berlusconi, in via Rovani. “Lasciatela lì, intanto andate a pranzo”. Quando siamo tornati l’aveva già guardata con segretarie, guardie giurate, addetti alle pulizie. Era piaciuto, via libera».
D’Angelo il titolare, Greggio l’aiutante, lei lo stralunato cliente che corteggiava la formosa cassiera Carmen Russo: «Signorina, mi piacciono le sue idee». E intorno le ragazze Fast-Food.
«Che volevano denunciarmi: sono stato l’unico a non averle mai tampinate».
Impersonava anche Beruscao, («È una brutta fazenda») il penultimo mandingo, con la faccia tinta di nero e l’orologio magico.
« Orologiao-ao-ao . Sta nel comò, un pataccone da gilet».
Disavventure di scena?
«Ero vestito da sposa, dovevano tirarmi addosso non riso ma ravioli, duri come sassi, uno mi centrò un occhio. “Ti portiamo al pronto soccorso”. “In abito bianco?”. Una volta Margherita Fumero doveva picchiarmi con un ananas di gomma. Qualcuno lo sostituì con una noce di cocco, lei non se ne accorse. Bam. Randellata. Fortuna che avevo ancora un po’ di capelli».
Enrico Brignano.
Ilaria Ravarino per il Messaggero - Estratti mercoledì 15 novembre 2023.
Nove libri pubblicati e nemmeno una biografia («Lo farò quando sarò davanti alla fossa»). Comico e monologhista, in questi giorni a teatro con Ma diamoci del tu, il romano Enrico Brignano, 57 anni, ha un'insospettabile anima da scrittore.
L'ultima fatica letteraria, Non facciamone una tragedia la mitologia secondo me pubblicata da Einaudi per volontà dell'agente Beppe Caschetto, cui il libro è dedicato è una rilettura dei miti greci da Prometeo a Edipo, che l'attore immagina di raccontare la sera alla figlia Martina. Eroi riletti in chiave moderna e dei «che si comportano con le donne come gli uomini di potere con le veline. Solo che non le fanno diventare assessori comunali, ma immortali».
(...)
I miti erano scorretti. Lei?
«Io sono per calmierare, per l'ironia. Sono fasi: ci sono periodi in cui si potevano fare delle cose, come quando Michelangelo dipingeva i nudi per i Papi, e momenti in cui arrivavano i mutandai e quegli stessi nudi andavano coperti. Oggi siamo nella fase del mutandaio. Vorrei avere la sfacciataggine e il genio di un Checco Zalone o un Angelo Duro, che ci vanno giù pesanti».
E invece?
«Devo essere quello che sono. Non mi limito ma cerco altre strade».
Le commedie al cinema non funzionano: colpa del politicamente corretto?
«Da una parte è un problema di abitudine al cinema che non c'è più, dall'altra di investimento, in termini di budget e di autori.È diventata una questione di contratti: "ha firmato coso?", allora si fa. Alcune commedie poi escono in poche copie, due settimane e non le trovi più. I miei genitori non hanno fatto in tempo a vedere il mio film, Una storia pericolosa. Uscito il 30 agosto, con la promozione a 3 euro e 50. Che alla gente suona come se gli stessi rifilando un prodotto scadente, come se gli vendessi una borsa falsa».
Cortellesi, allora?
«Il suo film è un miracolo. Un successo straordinario e meritato».
Perché non cambia genere? «Perché da me vogliono questo. Se non ci sono io, del resto, chi prendono?
Si diceva di un suo ritorno in tv. E poi?
«No. Andrò da Fazio a presentare il libro, è un vecchio amico. Ma un programma in questo momento di buriana no. Ora tutti sono esperti di share. Non me la sento, sarebbe troppo rischioso. "Le perle ai sorci", diceva mio padre».
Prima dei 60 anni che obiettivo si dà: Sanremo?
«No, piuttosto un film da regista. Ed essere coccolato in un filmone da un autore bravo e importante. Oppure un tour mondiale: noi dal Paese ce ne andiamo, ma fuori c'è tanta gente che dell'Italia ha nostalgia».
Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” giovedì 27 luglio 2023.
L’infanzia a Dragona, periferia sud di Roma: «Ridente borgata tutta abusiva e non contemplata dal piano regolatore, affacciata su una bella marana — affluente del Tevere — e con certe zanzare da tre etti, tre etti e mezzo, che decollano verticalmente» (dallo show «Enricomincio da me»).
«Non era nemmeno segnata su Tuttocittà. Capitava tra D1 e D14, proprio in mezzo alla piega. Per le strade girava l’eroina, ma se arrivavi a quel punto eri già perduto da tempo. E c’era la banda della Magliana, però a casa mia a mantenere l’ordine ci pensava papà Antonino. Di poche parole.
Più che altro emetteva suoni.
“ Ahò... ehè... e no... che non ce lo sai ... embè... e allora!”. Ci metteva a posto così, me e mio fratello Gaspare, che in effetti non siamo mai finiti in questura. “ Viè qua che te devo menà, nun me fa core che è peggio”. Quando guidava, con mamma accanto e noi seduti dietro, senza aria condizionata, con coperte abruzzesi stese sui sedili di finta pelle — mica avevamo cuffiette e playlist — se ci azzardavamo a chiedere “Siamo arrivati?”, ci mollava subito una cinquina».
(…)
L’incontro con Proietti.
«Lo vidi in tv, parlava del suo laboratorio teatrale. A 17 anni, accompagnato da mamma e papà, andai a Trastevere a chiedere informazioni. Ma arrivò la cartolina rosa
(…)
Il provino con il Maestro.
«Quando Gigi entrò, quasi non riuscivo a parlare, ero tesissimo, volevo morire sul posto. Lui impassibile. Disperato, attaccai con lo sketch dell’annuncio dei treni in partenza, ripetuto in ogni dialetto. Alla fine ridevano tutti i provinanti. E pure Gigi. Mi ero fatto le ossa con le serenate sotto ai balconi. In sei, vestiti da Rugantino, pantaloni di velluto pure ad agosto. Ci davano 700 mila lire, una piotta a testa».
Con i fratelli Vanzina in «South Kensington».
«Dissero: “Lavorerai con Judith Godréche”. Aveva recitato con Leonardo DiCaprio. “E mo’ si ritrova con Brignano da Dragona”. E infatti “ci è annata in puzza ”, come si dice da noi. Dovevamo girare la scena dell’incontro in aereo, che si chiudeva con un bacio. Dentro un simulatore di volo nella campagna londinese.
Pioveva che dio la mandava, avevo i capelli lunghi e gonfi, parevo mi zia con la messa in piega. Lei aveva a disposizione una Mercedes e quattro addetti con gli ombrelli, la guardai sperando si impietosisse, mi lasciò lì sotto il diluvio. A quel punto parevo sempre mia zia, però matta. Presi il pullman delle comparse, arrivai in ritardo e beccai pure il cazziatone dei Vanzina. Mi spedirono ad asciugarmi i capelli, impazziti come la maionese. Girammo la scena del bacio: il più brutto dei baci brutti del cinema».
Perché un suo show si chiamava «Brignano con la O»? Sbagliavano cognome?
«Sempre, anche ora. Mi chiamano Brignani. O Grignani. “’A Gianlù, come stai?”.
Oppure: “T’ho visto al gioco dei Pacchi, forte eh”. Faccio finta di niente e ringrazio».
SPQR: sono pesanti questi romani di oggi?
«Siamo in caduta libera, nel declino totale anche della lingua. Ridotti al “Bella, fratè ”.
La romanità vera non c’è più.
Quella di adesso — auto a noleggio e mazzette di soldi mostrate su TikTok — non mi piace, è cafona e sgraziata. Il coatto buono di cuore non esiste più, rimpiazzato da gente che si tatua il filo spinato sul braccio o si fa il polpaccio nero, manco avesse strusciato contro la marmitta».
I suoi migliori amici?
«Per una questione di igiene mentale, sono persone che non fanno questo mestiere. Nel mio ambiente mi trovo bene con Salemme e Panariello, Maurizio Casagrande, Max Tortora, Lillo. Ma quando hai bambini piccoli, molti ti cancellano. Altro che drink e aperi-cena, noi al massimo chiediamo: “Ce l’hai lo Zymil?”».
Giorgia è vicina di casa
«A due appartamenti dal mio. La sento cantare. Ci incontriamo ai bidoni con i sacchetti dell’umido».
Il 30 luglio è il primo anniversario di matrimonio.
«Non avrei scommesso sulla crisi del settimo mese, invece... Si sono lasciati Albano e Romina, Totti e Ilary, noi no, anche se io non ho Rolex, al massimo porto lo Swatch».
Liti futili per...?
«Io sistemo le ciabatte al lato del letto, Flora potrebbe mettere i calzini sul divano».
Il giorno delle nozze le venne il colpo della strega. «Colpa dell’aria condizionata a -18. Un male cane. “Corri e porta il bisturi”, supplicai il dottore. La tata Laura mi ha fatto un siringone alle 10 e uno alle 15, la sera al ricevimento ho pure ballato».
Enrico Lo Verso.
Enrico Lo Verso: «Il mio film vinse il Leone d’Oro ma poi smisero di chiamarmi. Non ho mai capito perché. Ora poto alberi e faccio teatro». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera venerdì 3 novembre 2023
Parla l’attore: «Non sono mai stato il tipo che cerca di ingraziarsi i produttori. Ho lasciato Roma e vivo in Sicilia»
Si sente in sotto fondo il rumore di una motosega, anche il vento che ulula. Poi il silenzio.
Enrico Lo Verso, cosa sta facendo?
«Devo potare gli alberi, è il periodo giusto. La motosega l’ho appena comprata, sono molto soddisfatto, funziona benissimo».
Dove sono questi alberi?
«Attorno a una casetta che ho in Sicilia. Sotto Noto. Sono nato a Palermo e cresciuto a Siracusa. Abitavo a Roma, prima. Ora sto più in Sicilia che a Roma».
Sta lavorando adesso?
«Sì, teatro, teatro, teatro».
E cosa sta recitando per il teatro?
«Uno spettacolo che non volevo fare: “Uno, nessuno, centomila di Luigi Pirandello».
Perché non voleva? Non le piace Pirandello?
«No, non era per Pirandello. Tanti anni fa ho deciso che non avrei fatto teatro perché non mi piaceva come funzionava il mondo legato al teatro».
E quindi? Perché accettare Pirandello?
«Per la passione della regista, una donna giovane. Mi ha cercato. E poi mi ha ricercato tante volte. Mi ha incuriosito la sua intraprendenza. Alla fine le ho risposto al telefono».
E ha accettato.
«Non subito. Lei voleva che leggessi il testo. Siamo stati al telefono per più di un’ora, mi ha convinto».
Come si chiama la regista?
«Alessandra Pizzi. Quando l’ho letto ho pensato che quel testo aveva il dovere di andare in scena, non solo il diritto. Pensavo però che avrei recitato per poco tempo, che sarebbe stato una tournée breve».
Invece?
«Siamo in giro dal 2016, con la pausa per il Covid. Quei quattro o cinque spettacoli e quei sessanta spettatori che avevo immaginato io sono diventati seicento repliche e oltre trecentomila spettatori».
Il debutto?
«A Lecce. Poi abbiamo girato come pazzi. Siamo arrivati a fare quindicimila chilometri in un mese. Quando mi sono dovuto fermare per la pandemia, mi sono accorto che ero così stanco che non riuscivo nemmeno a portare fuori il cane».
Ha accettato questo spettacolo perché si è trovato in sintonia con la regista. Nessun altro motivo?
«Amo le produzioni indipendenti. C’è passione in quello che si fa».
Mi tolga una curiosità: ad un certo punto della sua carriera la scelta indipendente ha voluto farla anche per il cinema?
«Avrei voluto farla. Ma non mi è stato possibile».
Cosa intende dire?
«Nel momento in cui ero più richiesto avevo deciso di fare ogni anno almeno un film di un regista esordiente. Volevo movimentare il mondo del cinema. Speravo di trovare il giovane esordiente che sarebbe poi diventato il regista osannato».
Poi cosa è successo?
«A un certo punto, inspiegabilmente, ho smesso di essere richiesto. E per paradosso questo è successo subito dopo il Leone d’oro a Venezia»
In che anno il Leone d’oro?
«Nel 2000. O nel 1999, non ricordo di preciso. Comunque quel periodo là».
Ma cosa è successo? Lei era molto bravo e famoso. Aveva fatto come protagonista film come «Lamerica», «Il ladro di bambini»...
«E poi “Farinelli”, “La scorta”, “Così ridevano”... Ogni film in cui ero protagonista diventava un film protagonista».
Un momento magico, sarà stato circondato da donne, tante corteggiatrici...
«Non mi ricordo, forse qualcuna c’era, ma non ci facevo caso».
Usciva la sera, frequentava il jet set?
«Perché esiste il jet set?»
Ma perché non l’hanno più chiamata?
«Non lo so».
Come non lo sa?
«Posso soltanto fare ipotesi. Comunque i fatti sono questi. Da allora non ho mai più lavorato in un film con una grossa produzione. Però ci sono sempre stati registi e sceneggiatori che hanno continuato a cercarmi».
Quindi il diniego arrivava proprio dai produttori?
«Si può arrivarci per deduzione».
Non può dire nemmeno un’ipotesi che secondo lei ha generato questa rottura?
«Non ho mai fatto gli auguri a Natale...».
Cosa vuole dire?
«Non ho mai fatto auguri a Natale a qualcuno che fosse più potente di me. Non cerco di compiacere. Ed è un tratto di me che, a chi è abituato al contrario, può dare fastidio».
Cosa ha fatto dopo?
«Mi sono rimboccato le maniche e ho fatto altre cose. Pensando: il tempo passerà, succederanno altre cose».
Sono accadute?
«Piano piano sto ricominciando. Con una filosofia di base: ciò che conta è hic et nunc. Conta che quando reciti devi essere nel presente e dare il meglio. Punto» .
«Lamerica» di Gianni Amelio lo vede protagonista in un film che parla di immigrazione, argomento quanto mai attuale. Cosa ne pensa di questa esplosione di immigrati che arrivano dall’Africa?
«Penso che per entrare in Italia i migranti dovrebbero farlo a testa alta, legalmente, mostrando i documenti che servono per essere riconoscibili nel caso in cui non rispettino le regole. Quei documenti poi devono servire per ottenere un visto».
Ma quelli che arrivano con i barconi non li hanno i documenti.
«E chi lo dice? Si procurano i soldi per pagare gli scafisti, avranno anche la possibilità di mettersi in regola con i documenti e, appunto, ottenere il visto. Abbiamo presente sì, film “Io capitano”? »
Appunto. Il film di Matteo Garrone mostra tutte le difficoltà e le atrocità del viaggio dei migranti.
«Ma basta che si comprino un biglietto aereo invece di dare i soldi agli scafisti. Bisogna mettere i migranti in condizione di poter scegliere tra la legalità e l’illegalità. Perché pensare che là non ci siano possibilità? Le possibilità ci sono. Siamo noi che intanto dobbiamo cominciare a cambiare».
In che modo?
«Leggevo l’altro giorno di un aspirante ingegnere che viene dal Senegal e che vive a Bologna nei vagoni abbandonati alla stazione perché nessuno è disposto ad affittargli una casa, una stanza. Ha una borsa di studio di quattrocento euro al mese».
Progetti per il futuro?
«Girerò una serie con Luigi Lo Cascio e Claudia Pandolfi, la seconda stagione di “The Bad guy”. È poi appena stato presentato al festival di Roma un film dove recito “Desirè” di Mario Vezza. Ma soprattutto continuerò a lavorare in teatro».
Cosa?
«Sempre con Alessandra abbiamo messo in scena la Metamorfosi di Ovidio e Apologia di Socrate».
Tornerà a vivere a Roma?
«E per quale motivo? Qui ci sono le piante che crescono, il sole che arriva...».
Enrico Ruggeri.
Enrico Ruggeri: «Facevo 150 concerti l’anno e avevo una storia a sera. Mio padre assente, ha dilapidato un patrimonio». Renato Franco su Il Corriere della Sera l'1 maggio 2023
Il cantautore si racconta: «Andavo in giro con un pitone per fare colpo. Oggi i ragazzi sono tutti uguali. Io di destra? È una semplificazione»
«Personalità modesta, linguaggio povero, lentezza di intuizione».
«Fu il giudizio dei professori alla maturità. Dimostra come spesso la scuola inibisca, non riesca a tirare fuori il meglio di te. Ma non mi sono abbattuto. “Ve la faccio vedere io” fu la mia prima reazione. Il mio motore sono sempre state le stroncature, le critiche negative, anche se mi feriscono enormemente. Per me è sempre così, le cose migliori le ho sempre fatte quando sono sotto tiro».
Enrico Ruggeri , gli inizi punk con i Decibel, 11 Festival di Sanremo (due vittorie con Si può dare di più e Mistero), autore per se stesso e per altri, svariate hit («ci sono 13 canzoni che nei miei concerti non posso non fare»), 32 album, oltre 4 milioni di dischi venduti, più di 2.000 concerti. Acuto. Abrasivo. Controcorrente, a volte troppo.
Ai tempi del liceo, il Berchet di Milano, suonava negli Champagne Molotov, a dimostrazione che i «Comunisti col Rolex» non hanno inventato niente...
«Il nome dichiarava l’intento: siamo incazzati ma abbiamo stile».
Erano gli anni Settanta, comunisti contro fascisti.
«Ricordo una volta in tram, avevo un album di David Bowie, venni fermato da alcuni “compagni” che mi chiesero: perché ascolti quel frocio qualunquista? In quegli anni la sinistra era omofoba, oggi non lo ricorda più nessuno, ma era così».
Vede che è di destra.
«È una semplificazione frutto di un’analisi superficiale. Io vengo da un mondo nel quale c’era una dittatura, al liceo dominavano i comunisti, le Br erano i compagni che sbagliavano, stavo in una scuola dove assemblea e professori applaudirono l’uccisione di Calabresi, Gad Lerner e Pisapia erano i più equilibrati. Le menti libere tendono a essere refrattarie alle imposizioni e io da allora mi sono battuto contro quella dittatura, pur condividendo certe battaglie considerate di sinistra».
Tipo?
«Nelle mie canzoni ho parlato di trans — nel 1990, quando non interessava a nessuno — di profughi, di carceri... Mi sento al di sopra delle etichette. Decido di caso in caso. Ad esempio preferirei che l’Italia non fosse nella Nato. È una cosa di sinistra? Non so, ma io lo penso».
Come le pare Elly Schlein?
«Credevo potesse favorire Renzi e Calenda... È più facile stare all’opposizione che governare, ma penso che ci siano temi che interessano di più di altri: ad esempio secondo me la casalinga di Voghera non ha così a cuore i diritti Lgbt, mentre è interessata all’occupazione e alle pensioni. E il mio non è un giudizio di merito, ma strategico».
Alla fine tra fascisti e comunisti ha scelto la musica.
«È stata la mia salvezza da quel mondo: avevo la mia micro-popolarità al liceo perché ero quello strano che suonava».
Andava in giro con un pitone per fare colpo...
«Appartengo a una generazione in cui dovevi essere diverso per rimorchiare, mentre oggi gli adolescenti sono tutti uguali; io ogni cento metri vedo uno che scambio per mio figlio. Allora invece il pensiero era diverso: devo fare qualcosa che non fa nessuno. Il pitone lo aveva Alice Cooper, Alex di Arancia Meccanica... E poi funzionava».
La Milano di ieri e di oggi, i giovani analogici e quelli digitali, che differenze vede?
«Una è l’omologazione di cui parlavo prima. L’altra è che il denaro oggi è diventato una qualità morale. Io vengo da una generazione che qualche libro l’ha letto. Oggi invece la cultura sembra rientrare nell’alveo della noia, si ride al solo nominarla. Io mi incazzo quando mio figlio mi chiede quanto guadagno. Vengo da un mondo che pensava fosse un atto di maleducazione chiedere quanto uno guadagna».
Diceva che la musica l’ha salvata. I suoi genitori l’hanno appoggiata?
«No, ma neanche ostacolato. Mia madre è andata avanti a pagarmi le tasse dell’università fino all’87. Quando ho vinto Sanremo con Si può dare di più ha capito che non avrei finito Giurisprudenza».
E suo papà?
«È sempre stato assente, è morto di depressione. Non ha lavorato un solo giorno della sua vita e ha dilapidato un patrimonio di generazioni. Ma lo ringrazio perché io sono cresciuto con il disprezzo del denaro tipico dei ricchi e provo la rabbia che anima i poveri. Intendiamoci, non ero povero, appartenevo alla piccola borghesia, ma avevo zie super snob, respiravo il gusto del bello, l’aria da signori pur non essendolo. Una condizione ideale: se fossi nato ricco avrei fatto di meno, ma se fossi stato proletario sarei stato meno elegante».
Ha appena pubblicato il suo nuovo brano, «Dimentico», in cui parla in prima persona dell’Alzheimer.
«È una canzone nata non perché abbia avuto casi in famiglia, ma perché ho preso due schiaffi nel giro di pochi giorni. Prima ho conosciuto La Meridiana, una cooperativa che gestisce un centro dove ho passato un po’ di tempo con persone malate, poi ho visto The Father con Antony Hopkins. E sono rimasto molto colpito. È un tema stimolante perché ha a che fare con qualcosa che si rompe in quel punto indefinito che è anima e cervello, cuore e percezione: siamo impreparati, tanti si vergognano. Dal punto di vista artistico per me sono interessanti quei temi dove l’oggettività non esiste e anche la conoscenza è aleatoria».
Come l’amore: lei ha scritto «Quello che le donne non dicono», un successo di Fiorella Mannoia: come era nata?
«Come frase a effetto potrei dire che ci sono uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne. È nata dall’aver ascoltato centinaia di donne, anche per motivi abietti; quando cerchi di rimorchiare e lei si lamenta del marito mentre tu pensi: partiamo bene. L’uomo in fondo è come il politico in campagna elettorale: quando corteggia una donna le prospetta un futuro bellissimo, poi, ottenuto l’incarico, non è all’altezza».
Centinaia di donne?
«Quando diventi famoso le opportunità si moltiplicano in modo esponenziale. Ho passato stagioni in cui facevo 150 concerti all’anno e se andava male andavo via con una ragazza per sera. Se andava male...».
Enrico Silvestrin.
Estratto dell’articolo di Barbara Visentin per il Corriere della Sera il 30 giugno 2023.
Intorno ai tweet di Enrico Silvestrin, negli ultimi giorni, si aperto un dibattito piuttosto acceso: l’ex vj di Mtv, oggi divulgatore musicale sui suoi canali Twitch e YouTube, martedì sera ha asfaltato senza mezzi termini il concertone Love Mi organizzato da Fedez a Milano. Ha definito il cantante «il divulgatore della m... di questo Paese» e il pubblico in piazza «disagiati senza cultura». In tanti gli hanno dato ragione, altri l’hanno insultato e altri ancora gli hanno dato del boomer. Ma lui, 51 anni, a farsi dare del boomer non ci sta: «Io lavoro sul presente, faccio ricerca musicale su quello che c’è oggi. E oggi c’è della musica bellissima, solo non quella che passa da noi».
Prima di tutto: come mai martedì stava guardando Love Mi?
«Guardo queste cose perché poi nelle mie dirette ne parlo, cerco di contestualizzare socialmente quel che accade nella musica italiana. Fa il paio con altre situazioni devastanti di musica in tv che ci sono oggi, come Battiti Live: per me, che la musica in tv l’ho fatta quando si poteva definire tale, fa tristezza, tanto che volevo tirare il telecomando contro il televisore».
Invece ha twittato.
«Sì e i miei erano tweet di scazzo mentre guardavo questa roba immonda sul divano, senza la pretesa di sollevare nulla, ma solo con il fastidio che provo per questi eventi. Da più di quattro anni parlo quotidianamente della condizione drammatica del nostro Paese, sia musicale che culturale, con questo pubblico festante e felice di ascoltare merda e Fedez che non sa fare altro che proporre merda. Non ho problemi con la parola perché non ce n’è una edulcorata».
Ha sentito Fedez dopo i suoi tweet?
«No, per dirgli cosa, “smettila di divulgare merda? Regala qualcosa di diverso a questi ragazzi?”. È quel che succede quando questo è quel che conosci, quando non hai gusto e non hai voglia di fare ricerca in un mondo culturale diverso: te ne fai promoter sfruttando la pochezza culturale del pubblico che si beve queste prestazioni, non di artisti, ma di personaggi. Il problema non è neanche lui».
(...)
Alcuni le hanno dato del boomer.
«Io sono proprio l’opposto, una sparuta minoranza sa quel che faccio, ma io faccio sentire tutto tranne che classici, metto pezzi che hanno una settimana di vita, solo che non passano per determinati circuiti. C’è tutto un altro mondo, ma l’Italia non sa che esiste. Ci sono artisti italiani di una bravura devastante, con successo internazionale, a noi sconosciuti: Maria Chiara Arigirò, Marta Del Grandi, Emma Tricca. Per noi è sconosciuto tutto. Viviamo in una provincia che meriterebbe di più. Io cerco di passare quel che ascolterebbe un ragazzo se fosse a Berlino, New York o anche solo in Inghilterra su Bbc Radio 6 Music - e parliamo della Bbc, emittente di Stato».
Qual è il problema della musica italiana?
«Il pop italiano, con tutte quelle vaccate in tv fra playback e autotune, investe sui personaggi, non sugli artisti. È un mondo che copia se stesso non avendo contaminazioni con l’estero. Una cosa delirante che anche Morgan ha detto quando c’era nell’aria un Dipartimento della musica al ministero della Cultura è parlare delle quote italiane nelle radio: questa è assoluta incompetenza. Oggi i giovani ascoltano solo musica italiana, pop e trap che copiano se stesse. Dovremmo avere invece delle quote internazionali obbligatorie, contaminarci con l’estero perché siamo indietro».
Neanche Morgan ha competenza?
«No, perché non conosce il presente: conosce il passato. È fuori dal mondo reale da secoli».
Non è un po’ esagerato dare dei «disagiati senza cultura» a dei ragazzi che si divertono sotto un palco in piazza?
«E cosa sono allora? Disagiati vuol dire persone che vivono in condizioni di disagio. Chi ascolta un live di Tananai ha cultura? Hanno zero pretese per se stessi. Di che parlano se incontrano un ragazzo inglese? Veniamo dal weekend di Glastonbury in Inghilterra: una delle cose più belle di quest’anno, lì vivono la musica in un’altra maniera».
A Glastonbury c’erano anche i Maneskin.
«Sì, hanno fatto anche un bel concerto, anche se non li sopporto e non li amo. Il Guardian ne ha parlato bene. Paradossalmente all’estero riempiono lo slot mancante del rock nostalgico che lì non c’è».
Non ci sono i Greta Van Fleet?
«Quelli non li calcolo nemmeno, sono proprio dei cosplayer. Mi fa ridere chi pensa che la musica di oggi sia la trap oppure i Maneskin e i Greta Van Fleet: in mezzo c’è una galassia che non ascolteremo mai perché abbiamo tagliato tutti i ponti. Le nostre due radio che fanno rock sono per anziani nostalgici, Virgin Radio è una vergogna che contribuisce all’idea che il rock sia morto e che il bello sia rimasto negli anni 60».
(...)
Da biccy.it il 30 giugno 2023.
Anche quest’anno è tornato Love Mi, l’evento organizzato da Fedez che unisce musica e solidarietà. Il mega concerto ha l’obiettivo di raccogliere fondi da donare alla Fondazione Together to go (i ricavi serviranno a costruire un centro in a Milano per la riabilitazione dei bambini affetti da patologie neurologiche complesse, in particolare Paralisi Cerebrali Infantile e Sindromi Genetiche con Ritardo mentale). Ieri sera però sui social si è levata una voce contro lo show e Fedez. Enrico Silvestrin su Twitter ha scritto diversi tweet dando al rapper del ‘divulgatore di m***a’.
“La venue perfetta del LoveMi è Guantanamo. Anche il pubblico ha l’autotune. Stam***da andrebbe nascosta, invece viene trasmessa. Fedez è il divulgatore della m***a di questo paese. Già che siete recintati, vi dovrebbero rinchiudere tutti. Disagiati senza cultura. Ecco cosa succede quando normalizzi la mediocrità, quando seppellisci le alternative, quando pensi solo al minimo risultato con il minimo sforzo. Grazie a tutti per lo sforzo congiunto. Paese senza alcuna visione e senza alcun futuro.
Enrico Vanzina.
Arianna Finos per la Repubblica - Estratti domenica 3 dicembre 2023.
Enrico Vanzina è l’autore con il fratello regista Carlo, (scomparso nel 2018) di soggetto e sceneggiatura di Vacanze di Natale.
Il film era una fotografia comica dell’Italia del 1983. Quanto è cambiato da allora e cosa avevate già intuito dell’oggi?
«Il film era quarant’anni avanti, c’era una linea precisa di quello che sarebbe successo. Fino ad allora c’era una antica borghesia soprattutto del Nord — perché a Roma era completamente diversa — traghettata dall’800 e che fino a quel momento puntava sull’essere, sullo studio, su come migliorarsi.
Invece a certo punto in Italia la borghesia ha pensato all’avere non più all’essere. Oggi la borghesia è in totale ritirata, si è spostata su posizioni di sinistra, tradendo il suo dna originale. Visto oggi Vacanze di Natale è stato un mattoncino del racconto di un cambiamento sociologico che fino a quel momento non era mai stato intercettato».
Le capita di vedere ancora in giro qualcuno che rimanda a quei personaggi?
«Come Sordi ha copiato gli italiani con i suoi personaggi, così gli italiani poi hanno fatto con lui. Il film diventa una ispirazione per un modo di essere, e ancora in tanti si ispirano a quei personaggi. Anche il personaggio di Guido Nicheli è un modello di un certo tipo di personaggi che esiste ancora. Vacchi è proprio lui, portato all’esasperazione. Solo che lui era buffo e simpatico e invece questi sono un poco inquietanti».
Che rapporto ha lei con il film?
«Fortissimo, con Carlo abbiamo raccontato qualcosa di molto preciso. La commedia riprende un lato che possiamo chiamare neorealista: si tornava a raccontare la realtà, in modo anche buffo. Ero a Capri e scrissi il pezzo in cui il personaggio di Christian De Sica viene sorpreso a letto con il maestro di sci dai genitori e fa un discorso sul fluido che è quarant’anni avanti. “Papà io sono moderno”».
(...)
Arianna FInos per la Repubblica - Estratti domenica 3 dicembre 2023.
Malgrado Enrico Vanzina sostenga di aver plasmato il personaggio su sé stesso, Jerry Calà non ha dubbi: «Billo sono io». È lui il cantante da piano bar, seduttore seriale protagonista di Vacanze di Natale e di una storia d’amore con Stefania Sandrelli.
Che rappresenta quel film per lei?
«Una consacrazione. Il personaggio è quello che mi è rimasto più addosso. Ero molto Billo all’epoca, oggi mi sono calmato».
Con i Vanzina l’incontro c’era stato molto prima.
«Erano venuti a vedere in teatro a Roma i Gatti di Vicolo Miracoli. Con Carlo ed Enrico facemmo due film. Poi mi scelsero come protagonista e io uscii dai Gatti».
(...)
Com’è stato recitare con Stefania Sandrelli?
«Era un mito. Dovevamo fare una scena con un bacio e lei così, tanto per farmi stare tranquillo, mi disse “Oh Jerry, guarda che io i baci per finta mica li so dare”. Risposi, timido: “Si figuri…”». La sua battuta culto? «“Non sono bello, piaccio”: ho innalzato la categoria dei simpatici non bellissimi».
Quell’Italia?
«Vacanze di Natale fu un film che non ritengo appartenere alla categoria successiva dei Cinepanettoni. È una signora commedia. È un “instant movie”, fotografia di quegli anni Ottanta, gli italiani in vacanza, gli arricchiti, i vorrei ma non posso, i nuovi ricchi romani a cui si dedicava la battuta “fora i romani dal Veneto”. Tutti volevano mostrarsi belli e spendaccioni».
Segreto del successo?
«Aurelio veniva da Roma a dirci ogni volta: “Ho visto i giornalieri, guardate che non fate ridere”. Lo faceva apposta, noi ci guardavamo e ce la mettevamo tutta. Una bugia che ha avuto un effetto benefico».
Da ansa.it - Estratti domenica 5 novembre 2023.
Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Gigi Proietti, Nino Manfredi, Monica Vitti, Mariangela Melato, Virna Lisi, Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari solo per cominciare.
Questa l'impresa di Enrico Vanzina in Vi Racconto, nuova rubrica di approfondimento settimanale di Cine34, in onda sul canale tematico Mediaset da lunedì 6 novembre in seconda serata per un anno intero. "Sarà un enorme lavoro, ma lo faccio volentieri perché Cine34 è una rete da sempre molto vicina al cinema italiano. Così quando mi hanno chiesto di introdurre piccoli ritratti, anche biografici, di alcuni attori insieme ad aneddoti ho accettato volentieri. Per me - dice Enrico Vanzina all'ANSA - è stato un tuffo nella memoria anche personale che mi ha fatto riflettere".
A quali di questi personaggi si è sentito più legato? "Sicuramente Sordi e Proietti perché sono quelli che ho conosciuto meglio. Con loro è stato un viaggio psicanalitico perché mi sono chiesto: oltre a me quante persone hanno influenzato? Sono due attori che fanno parte dell'immaginario del nostro Paese". Il cinema del passato che racconta come sarebbe stato con il politicamente corretto?
"I primi dieci giganti di Vi Racconto sono uomini e donne del cinema italiano che hanno frequentato anche, se non prevalentemente, la commedia. Una commedia che, va detto, non esisterebbe con il politicamente corretto. Ora questo genere - sottolinea Vanzina, autore di oltre cento sceneggiature - non si sarebbe certo sviluppato se non ci fosse stato un atteggiamento scorretto che non era altro che un modo di indagare sulle fragilità umane senza dare però alcun giudizio. Il pubblico, certo, non giudicava quando vedeva i personaggi di Sordi o Gassmann, ma non per questo non capiva cosa rappresentassero all'interno della società di allora. Un esempio su tutti: quando vedi Alberto Sordi nel Medico della mutua certo ridi di questo suo personaggio, ma comunque capisci che quello che fa è sbagliato. La commedia all'italiana ha vissuto poi sempre sull'accettazione delle ragioni degli altri".
(...) Quanto sono stati allora importanti Sonego, Monicelli, Risi, mio padre Steno, Age e Scarpelli e per la musica Trovajoli, Morricone, De Rustichelli. Dell'Armata Brancaleone certo si ricorda Gassman, ma anche il 'Branca Branca Branca' di Rustichelli. Era un mondo di enorme talento diffuso, oggi tutto questo si è perso, siamo in una dimensione web con dei ragazzi che fanno delle cose molto corte e poi non hanno il fiato per portarle sullo schermo. Se si pensa a un film come Guardie e ladri di Steno e Mario Monicelli chi scrive insieme a loro due? Vitaliano Brancati ed Ennio Flaiano, insomma era un altro mondo".
Estratto dell'articolo di Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 3 settembre 2023.
Enrico Vanzina, a leggere le sue interviste sui giornali, con quella faccia così bonaria e disincantata, sembra diventato, ai miei occhi, il grande patriarca del cinema comico italiano. Un grande dispensatore di suggerimenti e consigli e aneddoti. Le piace questo ruolo che, forse, è venuto fuori a sua insaputa?
No, non mi piace perché detesto avere consigli. Penso che nella vita bisogna sbagliare da soli. Non penso di avere l’aria disincantata. Sono pervaso da rabbie furibonde e da momenti di tenerezza spaventosi che m’inquietano. Diceva Hemingway: diventando più vecchi, non si diventa più saggi, ma più attenti. E aveva ragione. La saggezza è una stupidaggine. E’ bellissimo sbagliare con i capelli bianchi in testa, forse è anche più bello. Ho visto tanto nella vita, e quello che racconto viene interpretata come saggezza, ma è, invece, solo cronaca.
[…]
Mi sono sempre chiesto, guardando i suoi film, il motivo che l’ha spinta, in tutti questi anni, a raccontare, in maniera quasi ossessiva, un certo tipo di mondo, il generone romano, i soldi, la vanità, i frizzi e i lazzi di una gioventù dorata lontana anni luce dal mondo reale. Come mai? Invidia, curiosità, voglia, anche solo idealmente, di farne parte?
E’ una domanda sbagliata, la sua. Negli anni, con mio fratello Carlo, ma anche da solo, abbiamo descritto tanti mondi, non solo quello legato al mondo dorato di cui parlava lei nella domanda. Abbiamo fatto film gialli, melò, politici. È un pregiudizio che non mi sta bene!
Perché, ad esempio, non spostare il suo binocolo sulla gente povera, sui quartieri di periferia, sulle borgate? Non l’attrae l’uomo comune? Eppure ce n’è di comicità tra le persone povere…
Io credo che abbiamo fatto più film sulla classe popolare che non sulla classe ‘alta’. Febbre da Cavallo, i film con le rapine, o quelli con Abantantuono, o le pellicole dove parlavamo dei ricchi, i veri protagonisti, in realtà, sono quelli della classe popolare. Anche questo mi sembra un pregiudizio ideologico. E lo trovo stolto. E quando c’è un pregiudizio, non si vede la realtà per quello che è. Ad esempio, ho raccontato il mondo degli Ottanta, e quello che mi stava attorno. E siccome quella fase storica del nostro Paese è stata molto criticata, sono passato come un cantore, quando, invece, nei miei film c’erano grosse prese per il culo! Chi non lo vede non ha il senso dell’umorismo. E’moralista. E Dio me ne liberi!
Se si distaccasse, anche solo per un momento, dai film che ha scritto, e si mettesse dalla parte di uno spettatore, considererebbe i suoi film, più pop, o cinici?
I nostri film hanno avuto una grande fortuna: sono stati aiutati dal tempo. Per anni, e succede ancora oggi, le nostre pellicole, oltreché al cinema, sono stati proiettati sul piccolo schermo, e questo ha attraversato tutte le generazioni. Nel bene e nel male, se mi mettessi dalla parte dello spettatore, il nostro cinema lo considererei pop, senza ombra di dubbio. E poi, io, anche più di Carlo, sono una persona pop, perché la mia curiosità mi ha sempre portato alla comprensione dei fenomeni popolari, cercando di raccontarli con un minimo di stile e delicatezza. Secondo me, lo sguardo pop negli ultimi decenni ha raccontato benissimo la nostra realtà. E mi fa piacere essere considerato un piccolo rappresentante pop della storia culturale italiana. Piccolo piccolo.
[…]
Qual è, secondo lei, la pellicola meno riuscita della sua carriera?
Sembrerà strano quello che dico, ma sicuramente Sapore di Mare. E’ un film bello, ma poteva venire molto più bello.
Perché, cos’è che non ha funzionato?
Eravamo troppo giovani, e non ci stavamo rendendo conto di quello che stavamo facendo. Se lo rifacessi oggi, sarebbe sicuramente più profondo e curato. Ma forse la sua acerbità giovanile lo rende quello che poteva essere. Quindi va bene così.
[…]
Di attori e attrici, in tutti questi anni, ne ha visti tanti. Quali sono stati quelli che l’hanno delusa più, e umanamente e professionalmente?
Non sono molto attratto dagli attori in generale. Mi piacciono le cassiere, gli avvocati, i meccanici.
Perché proprio gli avvocati?
Perché gli avvocati sono i veri attori, mentre gli attori spesso sono degli avvocati mancati. I quali perorano la loro causa. Tornando alla sua domanda, le dico che essere deluso dagli attori fa parte del contratto iniziale. Sai già in partenza, che ti tradiranno. Sono dei Giuda, però come Giuda ha accresciuto il mito di Cristo, gli attori, direttamente e indirettamente, ti aiutano a crescere. Mi hanno tradito in tanti, facendomi delle porcate inenarrabili.
Quali sono le peggiori porcate che ha subito?
Quando nei loro libri, ad esempio, scrivono delle cose false. O dimenticano. Che è anche peggio.
[…]
A quale attore, oggi, metterebbe in bocca le battute e le sguaiataggini che le vengono in mente quanto scrive la storia di un film?
A tutti gli attori giovani e bravi, ma non è facile. Siamo nell’antidivismo e questo non mi piace. Un tempo gli attori conservavano un loro mistero perché apparivano raramente. Oggi, come lei ben sa, questo non accade perché gli attori sono sempre in vetrina. I veri divi del cinema, oggi, sono i registi.
[…]
Con quale produttore cinematografico ha litigato di più, e per soldi e per le idee?
Non ho lavorato con tanti produttori. Ho avuto un’accesissima discussione, agli inizi della mia carriera, con Goffredo Lombardo; ma lo ringrazierò sempre perché mi ha fatto esordire. E, nel recente passato, con Aurelio De Laurentiis, perché non la vedevamo allo stesso modo su alcune cose legate ad un film. Ma voglio molto bene anche a lui.
Il dissidio da dove nasceva?
Il dissidio, se così possiamo definirlo, nasceva sulle idee, su come sviluppare un progetto, una scena. Ma fa parte tutto del gioco, anzi ben vengano le discussioni che aiutano a far crescere un film. I produttori un tempo magari non erano molto colti, ma avevano una grande sapienza popolare e, quindi, vuoi o non vuoi, dovevi stare lì ad ascoltarli e capire perché ti facevano un appunto. Tutto il contrario di oggi.
Perché?
Perché il cinema è finito nelle mani di manager che spesso conoscono poco cosa voglia dire fare un film. Manager spesso stranieri, che stanno all’estero, e che fanno cinema con soldi che non solo i loro.
E con quali soldi, scusi?
Quelli delle loro grandi compagnie.
Cosa pensa della dinastia dei Cecchi Gori?
Erano entrambi geniali, sia Mario che Vittorio, anche se quest’ultimo è stato visto e raccontato dalla stampa come uno che non capiva nulla. E chi lo dice, sbaglia. Vittorio ha avuto intuizioni pazzesche, ha fatto fare il salto di qualità alla sua casa di produzione, ha vinto Oscar, ha intravisto il potenziale del cinema oltre i nostri confini, ha capito l’importanza del connubio cinema-televisione.
Dove ha sbagliato, allora, Vittorio Cecchi Gori?
Dove sbagliamo tutti: ha permesso che il suo carattere prendesse il sopravvento sulla sua intelligenza.
[…]
Qual è stato il più grande insuccesso o i film sbagliati?
Il film più brutto è stato Banzai, con Paolo Villaggio. Ci siamo cullati in fesserie assurde, e abbiamo fatto un film orrendo. Il lato positivo di quell’esperienza, per certi versi meravigliosa e formidabile, è che abbiamo conosciuto il Giappone come nessuno avrebbe potuto fare.
Quali sarebbero le fesserie assurde di cui parla?
Scrivere cose in malafede. E’ il peccato più grande che può commettere uno scrittore.
[…]
Cosa disprezza di più, la prostituzione del corpo o quella cerebrale?
Tutt’e due. Le ho viste entrambe, e spesso, e fanno parte dell’animo umano. Affrontare questo argomento con moralismo, è assolutamente inutile. Spesso, le persone che vivono in quel modo hanno però una vita interiore meravigliosa e più ricca rispetto a chi, magari, non si è mai prostituito. Fare i conti con la morale alla mia età è molto complicato.
[…]
Quanta prostituzione c’è nel cinema italiano?
Poca, pochissima. Perché il cinema italiano non esiste, o quasi. Oramai girano pochi soldi. E chi si prostituisce lo sa. Va altrove.
In che senso non esiste?
Vale poco. Sia in termini economici che di stima da parte degli italiani. Sono tutti incollati alle serie straniere.
[…]
Le è mai pesato essere considerato figlio di papà, soprattutto agli inizi della sua carriera?
E’ stata un’arma a doppio taglio; da un lato il vantaggio di vivere in un contesto familiare molto stimolante, dove si respirava cinema tutti i giorni; dall’altro lato, invece, è una grossa fregatura. Se non sei all’altezza del nome che porti, poi, la tua carriera può finire all’istante.
[…]
I suoi film, per certi versi, hanno incarnato anche un modello di vita, un inno ai piaceri, all’edonismo. Si sente edonista?
No, per niente. Ma mi piace vivere. Sono una persona semplice con una punta di snobismo.
Perché snob?
Perché mi sento leggermente superiore a molti cafoni che spadroneggiano in giro. Gli intelligenti, anche antipatici, possono spadroneggiare. I cafoni, no.
[…]
"La borghesia? È incafonita. E la sinistra non ha capito il nostro cinema popolare". Il regista che ha raccontato un'epoca. "Ora l'Italia socialista voterebbe a destra". Federico Bini il 15 Agosto 2023 su il Giornale.
Tornato nella sua amata Versilia, ospite a «Gli incontri del Principe», storico salotto estivo condotto dal giornalista Stefano Zurlo, dal quinto piano del celebre Gran Hotel Principe di Piemonte, Enrico Vanzina guarda il panorama e si lascia andare ad una battuta che sa tanto di finale amaro: «Non è la Versilia a essere cambiata, è l'Italia».
Suo padre era liberale in un mondo, quello della cultura, dominato dal Pci.
«Erano un gruppo di amici, come anche Flaiano, che confluirono nel Mondo di Pannunzio. A Roma vivevamo in un quartiere dove vicino abitava Giovanni Malagodi e ogni tanto andavamo in pellegrinaggio papà, io e Carlo (da piccoli) a guardare le finestre del politico liberale».
Chi erano i grandi personaggi che frequentavano la vostra casa?
«Una lista infinita. Soldati, Flaiano, l'amico della nostra vita, Totò, Sordi... da piccolo ma lo ricordo bene vidi anche Leo Longanesi».
Qual è il segreto della «leggenda» di Totò?
«È stato il più bravo di tutti. Lui seguiva l'orario alla francese, iniziando le riprese a mezzogiorno perché sosteneva che la mattina non faceva ridere. Quando con la nostra famiglia andavamo a trovarlo a casa ci offriva del tè. Era un uomo dai modi gentili, elegante e legatissimo a papà».
E di Alberto Sordi?
«Lui per tutta la vita ha raccontato gli italiani sullo schermo, guardandoli e osservandoli; ad un certo momento il suo modello è diventato così forte che gli italiani hanno copiato lui».
Quando conosce Gigi Proietti?
«A New York nel 1970. Ero ospite di mio fratello che stava facendo l'aiuto regista di Monicelli. La prima sera andammo a vedere Ray Charles che suonava all'Apollo. Tutti si girarono verso di noi perché eravamo gli unici bianchi nel tempio della musica nera. Rimanemmo fermi, lui guardò il pubblico alla mandrake e poi arrivando verso di me disse: Mi sto cagando sotto!».
Poi giraste il capolavoro «Febbre da cavallo».
«Offrirono il film a papà e siccome io conoscevo la materia mi chiese di aiutarlo. Alla fine della sceneggiatura si congratulò: Da grande potrai fare lo sceneggiatore».
La figura di Mandrake?
«Era uno dei personaggi che frequentavano il mondo delle corse».
«Sapore di mare» compie quarant'anni.
«Mai avremmo immaginato quel successo. Proponemmo come titolo Sapore di sale, ma c'era già un soggetto depositato alla Siae con lo stesso nome, così dovemmo cambiare. Fu un colpo di fortuna. Grazie Gino, forse il film si deve a te».
Un aneddoto?
«Gran parte del film è girato a Fregene e il ruolo di Virna Lisi lo offrimmo all'inizio a Catherine Spaak che non accettò».
Lei definì Virna Lisi una delle più belle donne incontrate.
«La più bella perché riusciva a coniugare la bellezza del volto con quella del cuore. Ma soprattutto un'altra cosa, è stata bella in tutte le età».
«Vacanze di Natale»: «L'Italia socialista» disprezzata a Cortina dalla signora Covelli (Rossella Como) oggi come voterebbe?
«A destra».
E la Covelli?
«Adesso è lei che vota sinistra».
La battuta di Giovanni Covelli (Riccardo Garrone): «E anche questo Natale ce lo semo levato dalle palle»?
«Mi è venuta mentre scrivevo la scena, mi sono messo a ridere io, molto».
Cos'è accaduto alla borghesia italiana?
«Ad un certo punto ha fatto una scelta, invece dell'essere ha preferito l'avere e si è incafonita moltissimo. In questo momento noi abbiamo una società cafona con dei politici in larga parte cafoni».
La sinistra ha sempre disprezzato i vostri film.
«Che però piacevano al popolo. È stato un errore clamoroso. Non hanno capito l'importanza del cinema popolare italiano che ha raccontato meglio di tutti questo Paese».
Il segreto del suo successo?
«L'attenta osservazione della realtà intorno a noi. Qualche tempo fa ho fatto una lunga passeggiata a Villa Borghese con Carlo Verdone. Stavamo chiacchierando e ci siamo detti: Ma cosa abbiamo fatto nella nostra vita?. Siamo arrivati a questa conclusione: abbiamo pedinato gli italiani» (ride).
Il cinema è un'industria?
«Artigianato che talvolta diventa arte».
La recente vittoria del «David di Donatello»?
«Quando ricevendomi al Quirinale il Presidente della Repubblica mi ha detto finalmente un riconoscimento alla commedia di questo Paese, per me è stata la vittoria di Steno, Risi, Monicelli...».
Il 12 giugno è scomparso Berlusconi. Quale titolo darebbe alla sua vita?
«Vita da Silvio».
Dagospia il 10 maggio 2023. “Sapore di Mare? È sopravvalutato. Un film molto fortunato, non so perché piaccia tanto”. A “Non è un Paese per giovani”, la trasmissione condotta da Massimo Cervelli e Tommaso Labate su Radio 2, interviene Enrico Vanzina che stasera verrà premiato con un David speciale: “E' un mercoledì da leoni!”. Anche per il derby di Champions.
E subito ritorna in mente il discorso di Diego Abatantuono in “Eccezzziunale veramente”: “Un film meraviglioso, quando siamo entrati a San Siro per girare ci tremavano le gambe. Siamo riusciti a fare un film sul calcio, una soddisfazione enorme. Anche per smentire il luogo comune secondo cui le pellicole sul calcio vanno sempre male. Ricordo che alla prima al cinema Adriano di Roma c’erano pure i tifosi giallorossi con i tamburi…”.
Lo sceneggiatore riavvolge il filo dei ricordi: Sordi e Totò, “la colonna sonora del mio cuore”, Riccardo Cocciante, compagno di scuola ("Ci rompeva i timpani ma ha avuto ragione lui: un genio"), l’incontro con Bruce Lee durante la lavorazione di Piedone a Hong Kong (“Sono salito sul ring con lui che ci ha tirato un po’ di calci. Era simpaticissimo”), i tormentoni delle sue commedie più riuscite: “Nel 2002 ci fu una proiezione di Vacanze di Natale, sembrava di stare a un concerto di Vasco, il pubblico accompagnava il film con le battute.
“Anche questo Natale se lo semo levato dalle palle”, “Secondo te che fa Cerezo a Capodanno?” A proposito, vi rivelo che Toninho Cerezo si è rotto le scatole perché a Capodanno lo chiamano tutti. Capricci sul set? “Il più bello quando abbiamo girato “La Partita” con Faye Dunaway”. Un titolo sottovalutato? "Il cielo in una stanza', 'il Pranzo della domenica' e 'Le finte bionde' che dà una fotografia perfetta della società di oggi. E' un film avanti di 30 anni…”
Estratto da rainews.it il 6 marzo 2023
''Con le mie figlie abbiamo appreso di come l'Accademia del David di Donatello si sia già dimenticata di Carlo Vanzina, mio marito, il loro papà. Dare un premio a suo fratello e non un riconoscimento a Carlo, è stato un gesto di ingratitudine verso un regista che ha girato ben oltre 60 film. Un gran signore del cinema italiano a detta di tutti coloro che ci hanno lavorato in più di 40 anni di stimata carriera''. Così alle agenzie di stampa Lisa Melidoni Vanzina ha accusato la giuria del David di aver ''emarginato'' suo marito Carlo Vanzina "avvilendone la memoria''.
Carlo Vanzina è mancato nel luglio 2018, a suo fratello Enrico Vanzina sarà conferito il David Speciale di Donatello 2023, lo ha annunciato Piera Detassis, Presidente e Direttrice Artistica dell'Accademia del Cinema Italiano - Premi David di Donatello. […]
Lisa Melidoni ha proseguito nella sua nota: "Carlo era un maestro, un uomo umile, non per modestia, ma per innata signorilità; sempre in punta di piedi, mai prevaricatore né arrogante né con smanie di protagonismo. Al contrario di chi millanta verità inesatte pur di esser sempre al centro di un attenzione non meritata. Sempre in punta di piedi, mai prevaricatore né arrogante né con smanie di protagonismo. Al contrario di chi millanta verità inesatte pur di esser sempre al centro di un attenzione non meritata''.
"Cara giuria del David, con la stessa superficialità che conferisce questo premio, avete emarginato un grande protagonista, un autore della commedia all'italiana, avvilendone la memoria non avendogli riconosciuto, neanche post mortem, la sua infinita dedizione al nostro cinema . Del resto, si sa: chi è stato tanto amato in vita, con la morte diventa oblio degli indifferenti'', […]
Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per Il Messaggero il 3 maggio 2023.
Era ora. Al lungo elenco di riconoscimenti vinti da Enrico Vanzina - da solo e con il fratello Carlo - mancava soltanto il David di Donatello, che è arrivato ieri in versione Speciale 2023 (la premiazione della 68esima edizione sarà trasmessa in diretta su Rai1 il 10 maggio, in prima serata, a condurre sarà Carlo Conti con Matile Gioli). Questo un passaggio della motivazione, comunicata da Piera Detassis, direttrice del premio: «È sceneggiatore, produttore, regista e scrittore di romanzi di successo, un cinefilo liberal, colto e fulmineo nel trafiggere i vizi e le manie del costume italiano...».
Visto che da 25 anni è una delle firme di punta del Messaggero, Vanzina dopo la notizia è venuto a parlarne nel "suo" giornale, e subito ha chiarito una cosa che gli sta particolarmente a cuore: «Con il David hanno fatto felice una persona in terra e due in cielo. Lo divido in parti uguali con mio padre Steno e mio fratello Carlo. Se lo meritavano anche loro».
Suo fratello nel 2017 disse che il David ve lo avrebbero dato solo post mortem: purtroppo, nel suo caso, aveva ragione. Perché è arrivato così tardi?
«Non lo so. Noi abbiamo vinto di tutto, ma le giurie hanno il diritto di pensarla a modo loro. L'unica cosa è che forse questo David dovevano darcelo nell'83, dopo Sapore di mare. Eravamo molto giovani, venivamo da un cinema molto comico, e sarebbe stato un bell'incentivo per noi e per tutti».
(...)
Meglio sia andata così?
«Meglio così (ride)».
La commedia soffre sempre per i pregiudizi?
«Sempre. A scrivere Guardie e ladri di mio padre, capolavoro con Totò e Aldo Fabrizi, furono Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati, ma quandò uscì il film fu considerato robetta. Che poi andò a Cannes e vinse il premio per la migliore sceneggiatura. Chi ha raccontato meglio questo Paese dal dopoguerra in poi è stata la commedia. I giovani dovrebbero studiarla un'ora a settimana per capire chi siamo e da dove veniamo».
Perché oggi non si fanno più quei film?
«Oggi si fanno commedie ideologiche o moralistiche. Ma visto che spesso si parla dei difetti degli italiani, bisogna rispettare e non giudicare. Non vuol dire assolvere, ma capire che sono fragili. Come tutti noi. Il senso della commedia all'italiana, che oggi nessuno sa piu fare, è questo».
Qual è il segreto per durare così a lungo?
«Con il mio amico fraterno Carlo Verdone tempo fa parlavamo proprio di questo: noi siamo maratoneti che vivono in mezzo alla gente. Altri corrono da centometristi ma poi si fermano con il fiatone. Uscire da casa e mischiarsi con tutti. Tutto qui».
(...)
Lo sfizio da togliersi, oggi, qual è?
«Non ho rimpianti, è andata benissimo. Però io e mio fratello volevamo rilanciare lo Spaghetti Western e non ci siamo riusciti. Per un periodo abbiamo avuto fra le mani il progetto Colt di Sergio Leone, ma nessuno ci ha ascoltati. Immaginare Pierfrancesco Favino che fa il messicano, Diego Abatantuono il pistolero, Kim Rossi Stuart l'eroe è stato bellissimo. Comunque, se c'è qualcuno interessato: io ci sono».
Quando ha avuto la notizia del David, pensando a suo padre e suo fratello, cosa le è venuto in mente?
«Che è una trovata di sceneggiatura. Un premio a una famiglia. Mettiamola così: nel ristorante da Steno, Carlo ed Enrico ci sono rimasto solo io e ora devo cucinare, servire e stare alla cassa. Ma una cosa non è cambiata: il menu è sempre lo stesso».
Ha un altro nuovo film in cantiere?
«Anche due. Ma voglio farlo per la sala e oggi non è facile».
Con quale attore vorrebbe lavorare?
«Carlo Verdone. Mai fatto un film insieme. Posso dire un'ultima cosa?».
Certo.
«Quando si parla di me nessuno dice che dal 1990 sono anche un giornalista. Farlo mi aiuta tantissimo per scrivere per il cinema. E nel 2015 ho anche vinto il Premio Agnes. Prima del David».
Dagospia il 17 febbraio 2023. Da “I Lunatici – Rai Radio2”
Enrico Vanzina è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 (anche in visual sul 202 del digitale terrestre) nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa.
Enrico Vanzina ha raccontato: "Come sto? Gli inglesi direbbero so and so, non mi pare che in giro ci sia tanta allegria. C'è pesantezza. Gli umoristi come me dovrebbero servire a disintossicare da questa situazione, ma non è facile. Il politicamente corretto? Si affronta, basta metterci la faccia".
Su Totò: "L'ho conosciuto benissimo, mio papà era il regista di Totò, mi ha voluto bene ed io ne ho voluto a lui. Ero molto piccolo quando se ne è andato. Quando non era Totò era il principe De Curtis. Un signore elegantissimo, che girava in Cadillac, ci invitava a prendere il tè a casa sua, mai una parola fuori luogo, sempre vestito in modo impeccabile, poi andava a fare il cinema e faceva Totò.
Era innamorato dei cani e gli piacevano anche le donne. Gli piacevano moltissimo, le corteggiava in modo elegantissimo. Era un tipo molto strano, un giorno si comprò una barca, doveva spostarla da Anzio a Portofino, ma ne aveva paura. Allora l'ha seguita sull'Aurelia in macchina mentre la trasportavano. Totò è irraggiungibile, il più bravo di tutti. Aveva questa malinconia di fondo perché piano piano stava perdendo la vista e questo l'ha segnato molto".
Ancora Vanzina: "Ho fatto 120 film e generalmente uno vuole bene ai film che sono andati male. E' facile voler bene a pellicole che hanno segnato un'epoca. Forse quello che amo di più si chiama 'Il Cielo in una stanza', con Elio Germano al suo primo film. E poi ho amato Febbre da Cavallo, il primo film che ho scritto con mio padre".
Proprio su 'Febbre da Cavallo': "Quando si lavora con degli attori comici qualcosa di loro lo portano sempre. C'era un po' di tensione tra Montesano e Proietti, questo me lo ricordo bene. Tanto è vero che quando abbiamo fatto il seguito, 'La Mandrakata', avremmo voluto farne un altro con Montesano più protagonista e Gigi meno".
Sulla commedia all'Italiana: "La critica si è accorta ora di noi. Adesso molti dei nostri film sono diventati di culto, non si discutono più. Però quando diventi di culto è un problema, molti iniziano a cercare dei significati che in realtà non esistono. C'erano pregiudizi nei confronti della commedia. E' stata riscoperta dai francesi, qui è sempre stata pensata come un genere minore, invece la grande forza del cinema italiano è stata la commedia all'italiana".
Come si resta attaccati al mondo reale: "Come si mantengono i piedi per terra? Qualche giorno fa chiacchieravo con Verdone, ci siamo detti che abbiamo fatto nella vita? Abbiamo pedinato gli italiani. Li abbiamo amati, ci siamo stati sempre a contatto. Prendiamo il tram, andiamo al ristorante, allo stadio. Cerchiamo di scrutare gli altri perché la commedia sta già dentro di loro. L'italiano negli ultimi anni non è cambiato tantissimo, anche se è rassegnato al presente, e questo non è bello".
Sulla Roma, di cui è grande tifoso: "La Roma è la mia fidanzata numero 1. Tutte le donne che ho avuto alzano le mani sul rapporto che ho con la Roma. Ne accetto tutti i difetti. Amo Mourinho, lo trovo straordinario, intelligente, gli allenatori come lui danno un senso a questo gioco".
Sulle donne: "Mi piacciono moltissimo, mi sono sempre piaciute, sono affascinato dal loro modo di pensare, ho una parte femminile in me che mi fa sentire molto vicino a loro. Cerco di coltivare la sensibilità. Sul #metoo? La battaglia delle donne per i loro diritti, la loro indipendenza, la loro dignità, è sacrosanta, deve continuare.
Ci sono degli uomini che sono veramente schifosi. Io non sono attratto dalle attrici, sono fortunato, sono attratto dalle cassiere, dalle bariste, però diciamo che questo #metoo solo sul cinema è un po' ipocrita, perché negli uffici, nei posti di lavoro, succedono le stesse cose. Lo ripeto, ci sono degli uomini davvero schifosi".
Enza Sampò.
Enza Sampò: «Sanremo? Mi limitavo a presentare i cantanti. In Rai Piero Angela fu la mia università». Fabrizio Dividi su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023.
Il celebre volto tv, oggi 84enne: «Il successo arrivò a vent’anni con Campanile Sera. Mike Bongiorno ti metteva in soggezione ma sapeva darti coraggio. Nonostante lo stop degli anni 70 rimasi in contatto col pubblico grazie al Dixan...»
«Chi ha un paese non è mai solo: lo diceva Cesare Pavese, e quando penso al mio Monforte d’Alba, credo proprio che avesse ragione». Enza Sampò, la Signora della tv, si racconta con il garbo e l’eleganza che l’hanno resa celebre a pochi giorni dal suo compleanno, tra ricordi d’infanzia e incontri speciali.
«Compirò 84 anni il 14 febbraio, sono reduce da un intervento al cuore e le confesso che un anno fa non sarei stata così sicura di rispondere alle sue domande».
Cominciamo dai suoi ricordi di bambina?
«Sono di Monforte, dove la mia famiglia era sfollata dopo i primi bombardamenti a Torino, dove sono nata. Lì non mi è mai mancato nulla, anche se erano anni di guerra».
Come la percepiva?
«Quando andavamo a scuola con il nostro ciocco di legno sotto il braccio per riscaldarci in classe, a volte capitava che partigiani e nazisti si sparassero da una collina all’altra. Camminavamo accucciandoci sul terreno e ricordo che le nostre mamme non ci vestivano mai di rosso perché potevano scambiarci per garibaldini».
E finita la guerra?
«Mio padre ci riportò a Torino dove ambientarmi non fu facile. Abitavo in corso Giulio Cesare, proprio di fronte alla ferrovia per Lanzo, e proseguii gli studi dai salesiani al Maria Ausiliatrice. Certo, era una città diversa da quella di oggi, più mitteleuropea e aperta al mondo».
Come iniziò la sua carriera?
«Dopo aver lavorato nel mondo della moda come indossatrice, all’epoca Torino era ancora all’avanguardia in quel campo, feci il provino per entrare in Rai. Il mio aspetto era androgino, un po’ troppo moderno per quei tempi, e mi dirottarono alla cultura. Esordii nel 1957 con Anni verdi, trasmissione dedicata ai libri per ragazzi e proseguii l’anno dopo con Il circolo dei castori con Febo Conti ed Emilio Fede, dagli studi Rai di Torino».
Ricordi?
«C’era un grande senso di appartenenza. I tecnici erano in camice bianco e provavamo due giorni fissando con il gesso i segni per le telecamere. Nulla era lasciato al caso».
Con chi lavorava?
«Con personaggi del calibro di Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo e Piero Angela: erano uomini dall’ambizione pari solo al loro talento. Furono loro la mia università. In quel momento, sentivamo di poter cambiare il mondo».
E la notorietà?
«Arrivò a vent’anni, quando mi affidarono i collegamenti di Campanile Sera. Li conducevo dalle piazze del Sud dove, almeno all’inizio, mi guardavano con sospetto: “Se ci mandano una donna — dicevano — la Rai ci considera una città di serie B”. Lavoravo con Enzo Tortora, un vero signore, colto e corretto. Eravamo antagonisti, ma solo per gioco».
Nel 1960 la sua co-conduzione a Sanremo: differenze rispetto a oggi?
«Non esageriamo, io presentavo solo le canzoni. Era tutto molto austero e Paolo Ferrari incarnava una figura istituzionale classica. All’epoca si trattava solo di una kermesse canora, oggi Sanremo è un palcoscenico che riguarda costume, società e politica».
A metà anni Settanta cominciò un lungo periodo di oblio. Come mai?
«Con la riforma del 1974 non riconobbero la mia professionalità di giornalista. Feci persino causa alla Rai, ma quel che è più grave fu il senso di tradimento da parte di un’azienda cui sentivo di appartenere. Buffo, ma per molti anni rimasi a contatto con il pubblico grazie alla pubblicità del Dixan».
Ricordi dei suoi colleghi?
«Ricordo tutti con affetto. Mike Bongiorno era il capobanda; ti metteva in soggezione ma sapeva darti coraggio. Stimavo Alighiero Noschese: un giorno mi imitò e mio marito mi disse: “Sai che ti assomiglia nel fisico”? Il litigio che ne seguì lo ricordo ancora adesso».
Nostalgie?
«Non di questa tv, ma solo perché non la saprei fare. All’epoca i dirigenti erano intellettuali e valutavano il tuo valore; oggi sono manager e ti giudicano dai numeri».
E in termini personali?
«Di Monforte. Non la chiamerei nostalgia ma un sentimento struggente che mi accompagna di continuo. Sapere di avere una casa che mi attende mi è di conforto e sono certa che un giorno tornerò nell’adorato paese della mia infanzia: forse lo farò per sempre».
Enzo Braschi.
Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2023.
Le tre di notte. «Squilla il telefono. Antonio Ricci. “Che fai, dormi?”. “No, alleno i pettorali”. “Domani vai a Milano, mettiti fuori da una paninoteca e osserva. Ci facciamo il tuo nuovo personaggio”. “Non ho una lira per il biglietto”. “Ti mando un vaglia?”. “No, mi arrangio”».
Rimediò i soldi?
«Me li prestò mia madre. Partii da Genova e mi appostai davanti al bar “Al Panino” di piazza Liberty. Gli adolescenti erano “lampadati”, giocavano a flipper, mangiavano hamburger, portavano piumini enormi, jeans e scarponcini bombati che parevano scarpe ortopediche. “Perfetto”, sentenziò Ricci. “Sei sfigato come loro, ti verrà bene”». E così, nel 1984, sotto il cappellino e i baffi di Enzo Braschi, nacque il Paninaro di Drive In.
Quello del “ troooppo giusto” che ingollava “paninazzi che mi smerigliano la gargarozza”, indefesso “cucador” di “belle sfitinzie” che in cambio rimediava “una compilation di schiaffazzi” o che “fuori di melone” impennava il Vespone cantando “Wild Boys” dei Duran Duran. Immortale protagonista del decennio stellare di Mazinga e di “Ritorno al Futuro”, del Commodore 64, del Game Boy e del Burghy di San Babila, santuario dell’intera categoria di cui sopra.
Il suo primo personaggio, suonatore di clarinetto, non era andato bene.
«Non piaceva a Berlusconi, che però fu buono. “Capisco che il signor Braschi deve pur campare, aiutiamolo, ma quella roba lì non fa ridere”. “Mi piace, lo teniamo”, gli rispose Ricci. E a me: “Travestiti, così non ti riconosce”. Facevo le parodie delle pubblicità. Non sfondavo, ero abbacchiato e squattrinato».
Prima di Ricci aveva conosciuto Beppe Grillo.
«Quando la Ansaldo mi mise in cassa integrazione — grazie al cielo — mi buttai sul cabaret. Con Beppe abbiamo fatto la gavetta insieme, locali e tv private. Quattromila lire a sera, ci pagavo pizza, birra e sigarette. Al Club Instabile di Genova io aprivo e lui chiudeva. Era fenomenale, parlava a raffica e strabuzzava gli occhi, la gente si sdraiava dalle risate. Una sera mi confidò: “Non ho preparato niente”. “Leggigli il menù della pizzeria”. E così fece, trasformandolo in una gag irresistibile».
La presentò a Ricci a caccia di talenti per Drive In.
«All’inizio volevo soltanto scrivere testi, gli autori durano di più. Ma dopo il provino Antonio mi disse: “Fai ridere, ti prendo come attore”. “E se non volessi farlo?”. “Allora te ne torni in Cig”. “Okay, quando comincio?”».
I paninari si offesero.
«Quelli scaltri capivano che li rendevo simpatici, altri no. Una sera mi si circondò un gruppo di brutti ceffi. Il capo avrà avuto vent’anni, alto e grosso. “Ora ti spacchiamo la faccia”. Risposi: “Io faccio ridere, però porto avanti il movimento”. “Sai che hai ragione? Vuoi che ti rubiamo un paio di scarpe?”. Ai tempi si usava prendere di mira un malcapitato, bloccarlo e sfilargli dai piedi le Timberland. “No dai, lascia stare che gli saranno costate 200 mila lire”».
(...)
Ultima apparizione in tv?
«Nel 2014 a Striscia per presentare l’autobiografia “Mi chiamo Bisonte che corre”.
Il suo nome indiano.
«Me lo assegnò il capo dei Blackfoot. Dal 1993 al 2003 ho partecipato alla Danza del Sole dei Lakota-Sioux, porto la Sacra Pipa da preghiera e ho ricevuto due penne d’aquila».
Una passione per il West.
«A 7 anni, guardando i western, facevo il tifo per gli indiani e piangevo se moriva Toro Seduto. D’estate correvo nei boschi di castagni della Valcamonica con arco e frecce. Il 17 aprile esce il mio nuovo libro “Io ricordo” (Verdechiaro Edizioni), aneddoti di quando vivevo nella riserva».
Per poco non ci rimise le penne con un bisonte.
«Ero andato in pellegrinaggio su una montagna sacra nel Sud Dakota, dove erano stati anche Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo, quattro giorni di digiuno e meditazione. Scendendo vidi una mandria di bisonti al pascolo. Per fotografarli mi avvicinai troppo. Il bisonte è miope ma ha un olfatto finissimo. Girò il vento e si accorsero di me. Uno mi caricò a testa bassa. Restai immobile, convinto di morire. Si fermò a tre metri da me, schizzò erba e terra con gli zoccoli e poi tornò indietro».
E lei ringraziò Manitù ?
«Come un cretino, continuai a scattare. Il bisonte mi caricò una seconda volta e di nuovo si fermò, scalciò la terra e fece dietro-front. Una ranger, occhiali a specchio e colt 45, mi disse: “Lei ha sfidato la sorte due volte”. “Mi chiamo Bisonte che corre e credo che quel bestione mi abbia riconosciuto come un parente”.
“Le credo, sa? Lavoro qui da 15 anni e ogni notte vedo i fantasmi degli indiani a cavallo correre verso la montagna”».
Enzo Ghinazzi, in arte Pupo.
Estratto dell'articolo di Jori Diego Cherubini per corriere.it martedì 28 novembre 2023.
Forse memore di passate polemiche Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, è volato in Russia senza renderlo noto ai più. Invitato sabato scorso dalla trasmissione moscovita «Le leggende di Retro FM», dove si è esibito davanti a un pubblico plaudente.
[…]
Eppure, dopo il bailamme dello scorso maggio - quando il musicista avrebbe dovuto presenziare nella trasmissione Road Yalta, sorta di Festival di Sanremo in salsa sovietica, salvo cambiare idea in seguito al recapito di alcune minacce - aveva detto che avrebbe rinunciato a esibirsi in Russia per proteggere la sua famiglia e le persone con cui lavorava.
Dagospia martedì 28 novembre 2023. Da Un Giorno da Pecora
“Ogni volta che si avvicina il festival di Sanremo Pupo trova sempre un modo per far parlare di sé. Ma tirare fuori il Quirinale, nel momento in cui Giorgio Napolitano non può neanche querelarlo per quello che dice, fa un po' sorridere..." A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Valerio Scanu, trionfatore del Sanremo 2010, edizione che, secondo le parole di Pupo, non avrebbe avuto il vincitore giusto per imprecisati interessamenti del Quirinale.
Il cantante ha proseguito: “prima di salire sul palco sapevo già di aver vinto, il televoto era già chiuso e fu proprio Pupo a dirmi ‘hai vinto tu!, era sorpreso e anche contento”. Quindi lei è più che certo della correttezza della sua vittoria? “Per me, da quanto mi risulta, fu tutto regolare, ovviamente. Ogni anno – ha chiosato a Un Giorno da Pecora il cantante sardo - Pupo prima del festival fa delle dichiarazioni che fanno parlare di sé, basta controllare…”
Evidentemente sono bastati pochi mesi per cambiare completamente idea.
[…] a fine concerto Pupo avrebbe ricambiato l'affetto ringraziando con la frase «ja tebja lublju Rossija» (tradotto: ti amo Russia). Nei medesimi istanti l'esercito di Putin lanciava il più grande attacco dall'inizio della guerra verso Kiev.
[…]
Maurizio Belpietro per “la Verità” - Estratti martedì 28 novembre 2023.
Ci voleva Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi, personaggio poliedrico, cantante, conduttore, paroliere e anche scrittore, oltre che giocatore d’azzardo incallito, per strappare il velo d’ipocrisia che avvolge il Quirinale e in particolare la figura di Giorgio Napolitano, primo presidente della Repubblica a essere rieletto per una seconda volta. Per anni ci hanno raccontato che il capo dello Stato è un’istituzione super partes, che ha il solo compito di rappresentare l’unità della nazione e mai esonda dal proprio ruolo.
Beh, in un’intervista a Repubblica, Pupo racconta che nel 2010, con la canzone Italia amore mio, lui ed Emanuele Filiberto di Savoia, che sul palco dell’Ariston cantava il brano insieme al tenore Luca Canonici, avevano vinto il Festival di Sanremo, ma dal Colle giunse una telefonata che impose agli organizzatori di cambiare, perché un erede del re non poteva conquistare il primo posto. Per di più, il brano era un inno al futuro, alla giustizia e al lavoro, un elogio verso un Paese «più normale», con una frase che parlava di chi non poteva tornare pur non avendo fatto niente di male.
Un riferimento che al Quirinale forse qualcuno considerò un po’ troppo monarchico.
Al di là dell’episodio divertente, di una presidenza della Repubblica che si preoccupa dello «scandalo» di un erede al trono che vince la competizione canora più importante d’Italia, con la pretesa che il trio destinato al successo sia retrocesso al secondo posto, la vicenda svela il segreto di Pulcinella.
Ovvero che il capo dello Stato è tutt’altro che una figura super partes designato dalla Costituzione a tagliare nastri, ricevere ambasciatori e sollecitare ogni tanto il Parlamento all’unità nazionale e al rispetto dei principi condivisi.
(...)
Il più attivo nel manovrare le leve della Repubblica tuttavia, pare sia stato Giorgio Napolitano, che da comunista applaudì l’invasione russa dell’Ungheria per poi trasformarsi in atlantista e applaudire gli aerei americani, inglesi e francesi che bombardarono la Libia.
Quando è scomparso, tutti si sono affrettati a erigergli un monumento, smentendo che avesse brigato per far fuori Silvio Berlusconi e mettere al suo posto Mario Monti. Balle. Io stesso ho raccolto la testimonianza di un importante uomo politico tuttora sulla scena che fu testimone delle pressioni di Napolitano su Gianfranco Fini, affinché l’ex leader di An e all’epoca presidente della Camera togliesse la fiducia al Cavaliere con una scissione del Pdl. Del resto, Marco Reguzzoni, a quei tempi capogruppo alla Camera della Lega, ha raccontato di aver egli stesso ricevuto pressanti inviti dell’allora capo dello Stato a cambiare cavallo e quando respinse i solleciti ricevette in cambio una velata minaccia.
Accompagnandolo alla porta, Napolitano gli avrebbe infatti suggerito di non mettersi contro.
Che l’ex comunista asceso ai vertici dello Stato fosse solito fare e disfare, peraltro lo ha rivelato proprio ieri lo stesso capo della Procura di Napoli, Nicola Gratteri. Il magistrato pare fosse stato scelto da Matteo Renzi come ministro della Giustizia, ma il Colle avrebbe detto no, bocciandolo. Ora scopriamo che Napolitano non solo si intrometteva nella scelta dei ministri (che ancora in qualche misura ci può stare, visto che tocca al presidente della Repubblica nominarli su indicazione del premier), ma metteva bocca perfino sui vincitori di Sanremo.
Tutto ciò, oltre a essere divertente, mi porta a un paio di considerazioni. La prima è che non serve fare una riforma del premierato, è più urgente fare la riforma presidenziale, così almeno saremo noi e non i partiti a scegliere chi deve salire al Colle. La seconda riflessione riguarda non tanto come siano andati i festival di Sanremo, ma come sarebbe stata l’Italia senza Scalfaro e Napolitano e senza i governi tecnici. Che i capi dello Stato abbiano spesso scippato agli italiani il diritto a decidere da chi essere governati ormai è assodato. Ma senza i Ciampi, i Dini, i Monti e i Draghi, il nostro Paese sarebbe stato padrone del proprio destino e non vittima di scelte fatte da chi, in nome del bene per l’Italia, ha deciso contro gli italiani.
Pupo spara su Napolitano. "Bloccò la vittoria al Festival". Paolo Giordano il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.
L'artista: non voleva vincesse un Savoia, Emanuele Filiberto. L'ex consigliere di Re Giorgio: "Siamo alle vette del ridicolo"
Pupo contro tutti. Ieri in una intervista a Repubblica si è tolto alcuni sassoloni dalle scarpe. Il più grosso è che il Quirinale avrebbe bloccato la vittoria al Festival di Sanremo della canzone Italia amore mio portata in gara con il principe Emanuele Filiberto e il tenore Luca Canonici. Testuale: «Prima della finale i vertici Rai avevano ricevuto una telefonata dalla presidenza della Repubblica, temevano lo scandalo di un rappresentante di casa Savoia al primo posto a Sanremo». L'anno era il 2010, il presidente della Repubblica era l'appena scomparso Giorgio Napolitano e il vincitore fu Valerio Scanu con Per tutte le volte che (quella di «far l'amore in tutti i modi, in tutti i luoghi in tutti i laghi in tutto il mondo»). «Avevano capito che avremmo vinto osservando il picco di ascolti record della serata in cui avevamo ospitato Marcello Lippi: quella sera si ruppe una chitarra, ci fu un attimo di impasse e allora Lippi fece un promo della canzone, cosa che non si poteva fare».
Allora minacciarono la squalifica, Pupo rifiutò e, sempre secondo lui, «pensarono a un accordo, mi proposero secondo (posto - ndr), dissi: Secondo va bene». Dalla Rai nessun commento, dallo staff di Napolitano sì. «A nome di tutti gli stretti collaboratori del Presidente Napolitano smentisco recisamente tale fandonia - ha detto il consigliere per l'informazione di Napolitano, Giovanni Matteoli -. La maniaca ricerca di complotti arriva ormai a altissime vette di ridicolo». Possibilista il tenore Canonici: «Non so se quello che dice Pupo sia vero, ma potrebbe esserlo». Silenzio (comprensibile) di Emanuele Filiberto, almeno per ora.
In realtà, come ricorda il giornalista Gigio Rancilio, con uno scoop del 23 febbraio 2010 intitolato «I 53 minuti che sconvolsero il televoto», il quotidiano Avvenire dimostrò allora che ci fu «un'onda anomala» nella votazione finale. Ora Pupo tira di nuovo fuori quell'episodio, suscitando un'ondata di commenti tra i quali qualcuno ricorda persino la somiglianza di Napolitano con il principe Umberto. Nell'intervista però l'artista 68enne parla di tanti altri episodi e particolari della sua vita. Il rapporto con due compagne, l'insopprimibile tentazione del gioco («Sono diventato un giocatore d'azzardo e lo sarò sempre»), la nascita di alcuni successi come Su di noi che ancora oggi «ha una rendita pazzesca» e poi la sua natura artistica: «Sono prima un cantautore e poi un discreto conduttore televisivo, non sono un ospite e infatti non vado, mi invitano tutti ma non vado». Una dichiarazione che diventa il prologo per l'ultima delle confessioni, diciamo così, molto frontali. Quella sul Grande Fratello, di cui è stato opinionista per due stagioni. «C'era la pandemia e avevo poco da fare: ma non ho mai visto un minuto del Grande Fratello in vita mia. C'era chi lo seguiva per me, un autore tv. Io non avevo la forza di guardarlo per quanto mi faceva caga..».
Più chiaro di così.
Infine Pupo ha raccontato anche che il 27 gennaio sarà al Cremlino con il suo concerto Pupo and Friends che raduna «tutti i cantanti russi». E tanti saluti a quel piccolo impedimento chiamato guerra.
Carlo Moretti per repubblica.it - Estratti il 27 Novembre 2023
C’è un uomo solo sul ponte. Cammina e si guarda intorno, ha una custodia con la chitarra e una borsa a tracolla. Ancora trecento metri ed entrerà nell’exclave russa di Kaliningrad, tra Polonia e Lituania, dove nulla può passare a causa dell’embargo provocato dall’attacco all’Ucraina. Se Pupo vuole arrivare in città, dove l’attendono per un concerto, deve superare il ponte a piedi: l’hanno scritto nel contratto.
La scena, quasi da film, è avvenuta una settimana fa. A raccontarla è lo stesso Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, in tour fino alla metà di dicembre nei palazzetti dei Paesi dell’Est: Lituania, Kazakistan, da sabato in Russia per l’evento dell’emittente Retro FM a Mosca, poi San Pietroburgo, Krasnoyarsk, Novosibirsk, Ekaterinburg.
La Russia è una scelta controcorrente in questo momento.
“Sì, ma anche molto interessante. Per me è un onore portare la mia musica ovunque, in Russia ma anche in Ucraina, dove peraltro mi hanno invitato. Il fatto che dal mio piccolo paese di Ponticino (in provincia di Arezzo, ndr) io sia arrivato così lontano nel mondo, lo vivo come una grazia: qualche giorno fa ero in Lituania per un evento televisivo intitolato Pupo and Friends, ero il leader di un evento sulla musica degli anni Ottanta ma veicolata ai giovani in versione glamour, non revival. E il 27 gennaio Pupo and friends sarà al Cremlino, con tutti i cantanti russi”.
“Anch’io sono una persona critica, ho la tendenza a giudicare perché ho un’idea precisa delle cose. Non mi sono mai offeso per le critiche, anche quando i critici musicali scrivevano quelle cagate su di me, o quando Enzo Biagi diceva che con la mia faccia da salumiere non potevo piacere al pubblico. Capivo il loro punto di vista, perché ero anch’io così. Mi ha protetto il mio egocentrismo, il mio complesso di superiorità, delle critiche non me ne è mai fregato nulla”.
A Sanremo, con Emanuele Filiberto e il tenore Luca Canonici, vi fischiarono, la definirono “la canzone più brutta del secolo”.
“Tra l’altro scritta interamente da me, musica e parole: diedi parte dei diritti del brano al principe Emanuele Filiberto per far diventare la canzone credibile, ma lui non c’entrava nulla: lo dico oggi per svincolarlo da tutte le responsabilità. Quel giorno ho goduto anche perché avevo previsto che la nostra canzone sarebbe stata eliminata la prima sera, ma poi sarebbe stata ripescata e infine avrebbe vinto il festival”.
Come nacque quel trio?
“Era un progetto nato a tavolino. Ma da lì a dire che era la canzone più brutta del secolo è lunga, vuol dire un attacco preciso contro il principe, non solo contro di me. Quando la canto per gli italiani nel mondo, si commuovono. E poi, a dirla tutta, la canzone non solo è arrivata seconda ma aveva vinto il festival, sono io ad aver accettato il secondo posto”.
Dice sul serio?
“Prima della finale i vertici Rai avevano ricevuto una telefonata dalla presidenza della Repubblica, temevano lo scandalo di un rappresentante di casa Savoia al primo posto a Sanremo. Avevano capito che avremmo vinto osservando il picco di ascolti record della serata in cui avevamo ospitato Marcello Lippi: quella sera si ruppe la chitarra, ci fu un attimo di impasse e allora Lippi fece un promo della canzone, cosa che non si poteva fare. Sabato mattina mi dissero che mi squalificavano e che avrei cantato solo come ospite; risposi che, pur avendo partecipato sei volte, non avevo mai vinto Sanremo: “Mi toglierete la vittoria lunedì mattina, ma io stasera vinco il festival e poi ci vediamo in tribunale”. Raggiungemmo un accordo, mi proposero secondo, dissi: ‘Secondo va bene’”.
(...)
Era un giocatore d’azzardo, è lui ad averla ispirata?
“No, l’imprinting me lo ha dato mio padre, che era il postino del paese. Ai suoi livelli, era un giocatore d’azzardo patologico, perdeva tutto. Ricordo di aver dormito con la testa poggiata sui tavoli da gioco già quando avevo 5 o 6 anni. Sono diventato un giocatore d’azzardo e lo sarò sempre, non è un vanto e nemmeno una cosa che puoi gestire. Non si guarisce neanche con una terapia: il gioco non è una sostanza, il gioco sei tu, puoi solo imparare a dominarlo, con la sofferenza”.
Resta ancora un giocatore?
“Sarò sempre un giocatore d’azzardo, lo si vede anche dalla carriera e dalle scelte di vita che ho fatto. Ho vissuto momenti di grande esplosione e di cadute rovinose: nell’80, a 25 anni, con Su di noi diventai miliardario, dieci anni dopo avevo alcuni miliardi di debiti. Nell’83 a Saint Vincent ho perso 130 milioni di lire in una sola mano di chemin de fer, ci rimisi un appartamento che avevo appena comprato. Oggi sono tornato a essere milionario come prima”.
Parliamo di canzoni e di donne: Su di noi a chi è dedicata?
“L’ho scritta con Donatella Milani, era per noi due, è dedicata al nostro amore: era la mia corista, mi innamorai di lei e lasciai mia moglie. Aveva genialità, l’attacco del pezzo è suo. E pensare che non voleva firmarla, l’ho obbligata io. Oggi quella canzone ha una rendita pazzesca”.
Lo devo solo a te a chi è dedicata?
“A mia moglie Anna, descrive il dopo Donatella Milani che lei ha aspettato, perché come ha saputo aspettare lei, nessun’altra”.
Avete avuto anche una seconda figlia.
“È arrivata nel 1991, la terza invece l’ho avuta da un’altra donna, Maria, una mia fan”.
Quindi nella sua vita ci sono tre figlie e tre donne.
“Sì, c’è anche Patricia, la mia compagna. Stiamo insieme da 35 anni, è una doppia convivenza che continua con grande serenità e con sempre più convinzione di aver fatto la scelta giusta. Siamo passati attraverso tanta sofferenza ma oggi noi tre siamo una realtà meravigliosa”.
Lei non ha mai nascosto questo suo ménage à trois.
“Il merito è tutto loro, io non ho fatto nulla, sono semplicemente un uomo normale che ha trovato due donne eccezionali. Lo dico senza falsa modestia, anche perché quando vedo un falso modesto che conduce in tv cambio canale”.
A proposito di tv, ne ha fatta tanta: Affari tuoi, Domenica in…
“Sono prima un cantautore e poi un discreto conduttore televisivo. Non sono un ospite, e infatti non vado, mi invitano tutti ma non vado. Mi sembra che non abbia più senso, e non ho bisogno né di soldi né di popolarità”.
Farebbe ancora tv?
“Non farei più un programma giornaliero, mi ha salvato economicamente ma ho già dato. Fare i giudici nei talent, poi, è assurdo, il giudice diventa il protagonista. Ho fatto l’opinionista del Grande fratello per due anni, c’era la pandemia, avevo poco da fare, mi chiamò Alfonso Signorini: ma io non ho mai visto un minuto del Grande fratello in vita mia. C’era chi lo seguiva per me, un grande autore di tv. Io non avevo la forza di guardarlo per quanto mi faceva cagare”.
Enzo Iacchetti.
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” - Estratti giovedì 30 novembre 2023.
«Ho preso due Covid quasi di fila, per la prima volta in vita mia ho creduto di morire. Sono stato malissimo, non ho dormito per intere notti. Per fortuna avevo fatto già tre vaccini. Sono ormai tra i “fragili”, all’epoca avevo quasi 69 anni e forse se non mi fossi vaccinato sarei finito in terapia intensiva».
Enzo Iacchetti comincia questa conversazione ricordando uno dei periodi più bui di questo millennio, il marzo 2020, quando il mondo intero (o quasi) finì in lockdown. «Io abitavo proprio vicino all’ospedale Niguarda, a Milano — ricorda l’attore — e la sirena delle ambulanze era la mia sola compagnia, assieme al mio cagnolino. La prima settimana la presi bene, ma già all’inizio della seconda cominciai ad avere paura».
È proprio in quella maledetta primavera che Iacchetti prende ad accarezzare un’idea: all’inizio pareva folle e che poi, a poco a poco, si è fatta più concreta: raccogliere soldi per regalare un’ambulanza alla Croce Rossa. E oggi, alla vigilia della consegna del mezzo di soccorso — domani mattina a Bergamo —, con la voce roca per una leggera influenza («Ma questa volta niente di che», ride), l’attore e conduttore racconta come ha fatto a mettere assieme quasi 95mila euro e a far costruire un’ambulanza tutta nuova.
Torniamo al 2020.
«Non sapevo come fare a raccontare quello che mi portavo dentro. Era paura per me e per le persone a me care, certo. Ma avevo paura anche per quei poveretti che le ambulanze trasportavano senza sosta. Chissà se questo si salva, pensavo ogni quarto d’ora, quando sentivo la sirena».
E allora che cosa ha fatto?
«Mi prenderete per matto, ma ve lo racconto: ho letteralmente tappezzato casa mia di post-it nei quali scrivevo pensieri tra i più disparati. Di dolore, di speranza, di nostalgia, di illusione. Quando finalmente si riaprirono le porte del mondo li ho raccolti e trascritti in un libro. Che ho scritto e stampato con soldi miei, tramite la mia società».
Si intitola «Non è un libro» e per quasi tre anni lei lo ha portato in giro per l’Italia, chiedendo un contributo libero per l’acquisto.
«Sì, dal Piemonte all’Emilia alla Sicilia. Battevo le piazze come un principiante pieno di speranza, andavo dappertutto e chiedevo qualcosa, un euro o venti, non importava. Avevo in testa quell’idea pazza. Ho trovato tanta solidarietà: si sono mosse le associazioni, le cittadine e i cittadini. Risultato: quasi 95mila euro, seimila copie vendute. Io non ho tenuto nulla per me, questo è un dono che arriva dalla gente che mi ha capito».
Soldi sufficienti per comprare un’ambulanza?
«Ho scoperto che non puoi “comprarne” una ma la devi far costruire ex novo. E ho anche scoperto che non puoi regalarla a chi vuoi, per esempio a un paesino sperduto della Val Seriana. L’ambulanza richiede tecnologie raffinate e c’è bisogno di autisti, infermieri e medici specializzati. Mi hanno detto che è meglio donarla a un centro più attrezzato che così può raggiungere anche i piccoli paesi».
Perché ha deciso di donarla a Bergamo?
«Perché vorrei che nessuno dimenticasse l’immagine delle bare trasportate sui mezzi militari. Perché i no vax mi fanno incazzare, specie quelli che dicono che era tutta una messa in scena. Bergamo è stata una delle città più colpite dalla pandemia al mondo. Lo sa che tanti miei amici se ne sono andati in una settimana? Io mi considero un sopravvissuto».
(…)
«Striscia la notizia», ecco perché Enzo Iacchetti conduce ancora da casa. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.
I fan del tg satirico si domandano il motivo dell’assenza prolungata del conduttore, collegato accanto a Ezio Greggio «in smart working»
Tanti fan di «Striscia la notizia» sono in pensiero e, basta dare un’occhiata ai social, in questi giorni si preoccupano per uno dei beniamini indiscussi del tg satirico. Parliamo di Enzo Iacchetti, da qualche settimana conduttore «in smart working» della trasmissione di Canale 5: a causa di un’influenza, Enzino è stato prima sostituito per qualche puntata da Enrico Beruschi e poi è tornato accanto a Ezio Greggio, anche se solo virtualmente, collegato da casa attraverso uno schermo a mezzobusto.
La conduzione a distanza, che va avanti anche questa settimana, ha però portato molti spettatori a chiedersi come mai l’indisposizione prosegua così a lungo. In realtà, rassicurano da «Striscia», la risposta è che le parti in studio del programma sono state registrate in precedenza, non sapendo con precisione quando Iacchetti avrebbe potuto tornare in presenza. I servizi, invece, sono stati realizzati in tempo reale, in base all’attualità. Iacchetti tornerà in carne ed ossa accanto a Greggio a partire dal 7 gennaio.
Striscia la notizia, ecco perché Enzo Iacchetti conduce ancora da casa. La lunga assenza del conduttore, costretto a condurre in smart working il tg satirico a causa dell'influenza, sta facendo discutere il web. Novella Toloni il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.
La prolungata assenza di Enzo Iacchetti al bancone di Striscia la Notizia inizia a fare discutere. Ai telespettatori non è sfuggita la lunga assenza del conduttore, che in studio non si vede dalla settimana precedente a quella di Natale. Iacchetti continua a condurre il tg satirico da casa, in smart working, e il pubblico a iniziato a mormorare, chiedendosi se dietro alla sua lontananza non ci sia qualcosa di diverso.
Dal 12 gennaio, la storica coppia composta da Enzo Iacchetti e Ezio Greggio guida la nuova edizione del programma ideato da Antonio Ricci. Un ritorno dal sapore amarcord, visto che i due attori sono presenza storica della trasmissione da oltre tre decenni. Dalla settimana precedente al Natale, però, Iacchetti ha dovuto dare forfait a causa dell'influenza. Il conduttore è stato sostituito dal comico Enrico Beruschi per una settimana e poi il signor Enzino, come lo chiama simpaticamente Greggio, è tornato virtualmente in studio, conducendo da casa e presentandosi in video attraverso uno schermo posizionato al fianco di Ezio Greggio.
"Mezza fetecchia che piace alla gente che piace". Striscia compie 34 anni
La situazione si sarebbe dovuta risolvere in fretta, ma in realtà con l'anno nuovo le cose non sono cambiate e Enzo Iacchetti è ancora a casa. E il popolo dei social ha iniziato a mormorare, commentando la situazione sulla pagina Instagram del programma: "Come mai Iacchetti è ancora dietro uno schermo", "Ma non guarisce più?", "Ma perché è ancora a casa?". Così alla fine, si sono rese necessarie le spiegazioni della produzione. Enzo Iacchetti è guarito dall'influenza e tornerà in studio ”dal vivo” a partire da lunedì 9 gennaio. Le puntate, che stanno andando in onda in questi giorni e in particolar modo le parti in studio, sono state registrate prima delle festività, quando Iacchetti era malato. Questo perché la produzione non poteva sapere quando il conduttore sarebbe guarito. I servizi doppiati, invece, vengono realizzati in tempo reale, in base ai temi di attualità.
Ernia.
Ernia: «Canto il futuro incerto dei giovani». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.
Il rapper in tour: «Ho 29 anni, ho fatto il cameriere e la guardia notturna, il successo non è una garanzia»
Anche nel picco di adrenalina seguito al suo primo concerto in un palasport, Ernia tiene la mente concentrata: «È andata benissimo, ma ci sono un paio di accorgimenti da sistemare, le date zero si fanno per quello. Sono abbastanza perfezionista, soffro anche se salto una parola». La data zero è stata domenica sera a Padova, «un posto dove mi sono sempre sentito a casa, con un pubblico calorosissimo, che ho scelto per smussare la tensione». Ora arrivano due appuntamenti nella sua «vera» casa, Milano, mercoledì e giovedì «con degli ospiti, ma non posso dirli», poi Roma e Napoli. Tutti sold out, con pochi biglietti rimasti solo per il bis milanese.
Per Matteo Professione, 29 anni, è il nuovo traguardo dopo il successo arrivato durante la pandemia con l’album «Gemelli», trainato dalla hit «Superclassico» e consolidato con l’ultimo disco «Io non ho paura», uscito a novembre. Un lavoro che, rovesciando il titolo, si addentra invece nelle paure e nelle ansie di un quasi trentenne: «Ho una forte paura del futuro. Sarà l’indole, sarà che faccio un lavoro precario. Il successo è la punta dell’iceberg ed è un fattore secondario alla soddisfazione personale, ma domani potrei non esserci più, avere annoiato e stancato. E poi ho iniziato a scrivere il disco fra le ultime zone rosse e la guerra in Ucraina. E questo mi ha destabilizzato abbastanza, come un videogioco con un nuovo livello di difficoltà, in cui va sempre peggio».
Secondo lui, i ragazzi dai 25 anni in su stanno sentendo molto l’instabilità: «Magari quelli più giovani giustamente hanno altri pensieri, ma per noi è la prima guerra in Europa. Siamo nell’età in cui cerchi di andare a vivere da solo, sistemarti, magari fare famiglia. Chiedere un mutuo è impossibile, la crisi economica è una mazzata». In «Weekend» l’incertezza parte già dai banchi di scuola: «Quando studiavo avevo il timore di intrappolarmi nella routine, di fare un giorno la vita di mio padre in ufficio. Per me era sconvolgente. Il pezzo si lega al tema delle grandi dimissioni. Tante persone ora stanno cercando di ritagliarsi degli spazi, che non siano unicamente il lavoro».
Prima di dedicarsi unicamente al rap (che in realtà mescola a una sensibilità fortemente pop e a brani cantati), lui ha fatto tanti lavori: «Ho fatto la guardia notturna, il dog sitter, il cameriere, il segretario, ho dato ripetizioni. Non ho mai fatto il disoccupato per più di settimane». Pensa che i giovani non abbiano voglia di lavorare? «Lo dicono quelli che avevano il culo parato, la casa di proprietà. Che vengono da decenni di grande positività per l’economia, in cui mettevi le mani nel fango e uscivano catene d’oro. Ora questo non c’è e i ragazzi devono essere remunerati in maniera giusta perché domani non sai che succede. Facile dire “alla tua età saltavamo i fossi per lungo”, ma mi pare che li stiamo saltando noi questi fossi».
Le paure di Ernia vengono anche da dentro: «All’università mi hanno fatto leggere Baudelaire e scoprire il concetto di spleen è stato scioccante. Quel leggero malessere costante lo sento da sempre. Ogni obiettivo perde di valore appena lo riesco a raggiungere. E questo si collega alla canzone “L’impostore” perché penso a quel che mi è successo e mi dico “sono arrivato qui perché ho ingannato tutti”». Secondo lui, tutti quelli che «riescono a fare qualcosa» vivono un po’ di sindrome dell’impostore.
Colpa anche dei tuttologi dei social di cui parla in «Così stupidi»: «Tutti dicono qualsiasi cosa su tutto, sempre con un filo di complottismo. Se proprio potessi scegliere io eliminerei i commenti. Qual è l’utilità? Per esprimersi c’è già il voto». Lui vota? «Ahimè sì, ma non sono mai contento. Pratico il voto del meno peggio».
Nell’album, che contiene featuring con Marco Mengoni, Rkomi, Salmo e altri colleghi, non mancano le canzoni d’amore e i brani personali, tra cui spicca «Buonanotte», sull’interruzione di gravidanza, in cui parla a un bambino mai nato: «In realtà è un pezzo dedicato alla mia compagna, dove chiedo a lui di farla dormire bene. Era una cosa che avevo vissuto da poco con lei e siccome tante cose magari nella vita non le dico, lo faccio con le canzoni». In molti, racconta, gli avevano detto che sarebbe andata bene per Sanremo: «Per il momento non penso di andare al Festival, la vedo molto dura. E poi “Buonanotte” è un pezzo mio. Non si può mettere in discussione, non può andare in gara».
Eros Ramazzotti.
La lettera di Aurora Ramazzotti al papà Eros per i 60 anni: «Ora capisco il dolore che hai provato, vorrei averti abbracciato di più, ti amo». Aurora Ramazzotti su Il Corriere della Sera sabato 28 ottobre 2023.
La lettera di Aurora nel giorno in cui il cantante compie 60 anni: «Oggi vorrei proteggerti io dal dolore che hai provato, e apprezzo ancora di più tutto quello che hai fatto per me»
Caro papà, una volta qualcuno mi ha detto che la mia anima e la tua si conoscevano già da tantissimi anni. Ricordo di essermi abbracciata all’idea di poterci non perdere mai, ma non solo; mi spiazzava che un fatto così assurdo potesse sembrare molto reale, e da allora mi piace pensare così. Del resto non esiste un’altra persona al mondo in grado di emozionarmi come fai tu.
Ho sempre pensato che il tuo nome ti calzasse a pennello. Tu sei l’amore. Chiunque abbia l’occasione di toccare con mano la bontà del tuo cuore è davvero fortunato. Sei la persona più generosa che conosca. La tua gentilezza e la tua umiltà sono un esempio per tutti, in un’epoca dove regna l’arroganza ed il menefreghismo. Se sono un’inguaribile romantica è anche grazie al fatto che sei stato e sei la colonna sonora della mia vita.
Quando si è bambini i nostri genitori sembrano indistruttibili. Forti, risolti, autoritari, dei punti di riferimento irremovibili, in grado di calmarci nel caos della vita e di sconfiggere il mostro sotto al letto. Gli anni che avanzano, però, ci portano sempre più vicini alla consapevolezza che nessuno è invincibile e che ognuno naviga questa vita al meglio che può. Anche i nostri supereroi personali.
Oggi guardo al passato con lo sguardo di una mamma e inizio a vedere il perché di molte cose che prima non capivo. Oggi vorrei tornare indietro e abbracciarti di più nei momenti difficili, anche se gli abbracci tra di noi non sono mai mancati.
Oggi vorrei proteggerti io dal dolore che hai provato e apprezzo ancora di più tutto quello che hai fatto per me. Grazie per avermi trasmesso che l’amore è l’unica cosa che conta e che bisogna proteggerlo ad ogni costo. Grazie per la vita che mi hai dato, per aver affrontato le difficoltà pensando all’Aurora del futuro, per essere stato sempre vero ed avermi insegnato a non dovermi mai snaturare per gli altri. Grazie, a nome di tutti, per aver deciso di darci accesso al tuo cuore gentile. Buon sessantesimo compleanno, nonno: Ti amo
La periferia, il successo, le donne: Eros Ramazzotti compie 60 anni. Il 28 ottobre 1964 a Roma nasceva Eros Ramazzotti. Da ragazzo di periferia a star internazionale, Eros ha saputo fare breccia nel cuore del pubblico e di tre donne speciali, con la sua voce e il suo carisma. Novella Toloni il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Il successo con "Terra promessa"
La fama internazionale e i duetti famosi
La storia con Michelle Hunziker
Il dolore degli anni 2000
I libri e il rapporto con i paparazzi
I riconoscimenti e i tour mondiali
La storia con Marika Pellegrinelli
Gli ultimi anni e il mito che continua
Con 70 milioni di dischi venduti, 15 album in studio (oltre 5 raccolte) e 21 tour (l'ultimo dei quali, mondiale, andato praticamente sold out in tutte le date), Eros Ramazzotti si conferma uno dei cantautori italiani di maggiore successo. Nel giorno dei suoi 60 anni, Eros festeggia soprattutto quarant'anni sulla cresta dell'onda, che hanno fatto di un giovane romano con una timbrica nasale unica uno dei maggiori esponenti della musica italiana nel mondo. Da quel 28 ottobre 1964, Eros Luciano Walter Ramazzotti ha costruito la sua fama pezzo dopo pezzo: dalla difficile adolescenza segnata dal degrado della periferia e dalla perdita dell'amico Ivano (morto in un incidente dopo avere assunto eroina) agli esordi nel mondo della musica negli anni Ottanta.
Il successo con "Terra promessa"
È nel 1984 che il nome di Eros Ramazzotti arriva all'attenzione del grande pubblico. A 19 anni il cantautore romano vince la sezione "Nuove proposte" del Festival di Sanremo con il brano "Terra promessa". La canzone è tra le più trasmesse in radio e ha successo anche in Germania e Austria. Sanremo segna indelebilmente i primi anni della carriera di Eros. Nel 1985 Ramazzotti partecipa alla kermesse canora classificandosi sesto ma il suo brano "Una storia importante" è un successo europeo, prima nelle classifiche francesi. Eros pubblica il suo primo album nello stesso anno - "Cuori agitati" e nel 1986 torna a Sanremo e vince la gara canora con "Adesso tu", primo estratto del suo secondo album "Nuovi Eroi".
La fama internazionale e i duetti famosi
La sua voce è coinvolgente ed Eros conquista il cuore del pubblico non solo italiano ma anche estero. In Francia, Germania, Austria e soprattutto Spagna ha uno stuolo di fan, così il suo quinto album "In ogni senso" viene pubblicato in quindici nazioni e i suoi tour dal vivo diventano mondiali. Negli anni Novanta arrivano gli apprezzamenti delle grandi star che scelgono di collaborare con lui in duetti indimenticabili: "Cose della vita" con Tina Turner (con il videoclip firmato dal regista Spike Lee), "Più che puoi" con Cher, "I Belong to You" con Anastacia, "That's all I need to know" con Joe Cocker e molti altri.
La storia con Michelle Hunziker
Nel 1995, mentre il pubblico lo osanna, Eros conosce dopo un concerto Michelle Hunziker, giovanissima modella svizzera, ed è subito amore. Lui la raggiunge a Bologna e la loro storia d'amore diventa di dominio pubblico con decine di copertine sulle riviste di gossip. L'amore tra i due è potente, tanto che Eros dedica alla compagna Michelle due brani. Il primo, "Più bella cosa", per celebrare la gravidanza della Hunziker - che dà alla luce Aurora, la loro primogenita, alla fine del 1996 e successivamente "Quanto amore sei" (1997), dedicata alle due donne della sua vita. Le nozze arrivano un anno dopo, nel 1998, e nello stesso anno il cantautore pubblica il nuovo album "Eros live" e riceve il primo di una lunga serie di riconoscimenti l'Echo Awards come Migliore artista maschile internazionale.
Il dolore degli anni 2000
Il nuovo millennio per Eros è ricco di successi professionali ma doloroso dal punto di vista personale. Mentre vende milioni di dischi e canta per la prima volta nella piazza davanti al Cremlino, Eros annuncia la separazione dalla moglie Michelle e viene colpito da un grave lutto con la morte dell'amata madre Raffaella, alla quale nel 2003 dedica la canzone "Mamarà". Eros trova la forza di superare questo difficile momento riversando tristezza e dolore nella musica. Così pubblica un nuovo album "9" e vince il Festivalbar, ricevendo il premio direttamente dalle mani dell'ex moglie con la quale ha ritrovato la serenità nonostante l'addio.
I libri e il rapporto con i paparazzi
La sua storia - tra successo e vita privata - viene raccontata in un primo libro, pubblicato nel 2005, dal titolo "Eros - Lo giuro". L'operazione editoriale ha soprattutto un fine benefico e i proventi delle vendite vengono devoluti alla Lega del Filo d'Oro. Nonostante l'uscita della biografia, Eros Ramazzotti rimane schivo e lontano dal mondo dei gossip. Non ama le attenzioni morbose dei fotografi e rigetta le attenzioni di media e paparazzi in nome della sua privacy, tanto da meditare di lasciare l'Italia ma troppo, tanto lo lega al suo Paese anche l'impegno benefico che lo vede grande protagonista della Nazionale Cantanti.
I riconoscimenti e i tour mondiali
Nel 2006 Eros diventa Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, mentre nel 2008 riceve il premio del Niaf per il contributo dato alla musica italiana nel mondo e vola negli Stati Uniti per ritirare la statuetta. I riconoscimenti durante la sua lunga carriera, però, sono molti dai dischi di platino a quelli d'oro per i suoi brani di successo fino al "Best International Music Artist" ottenuto al Goldene Kamera in Germania. Grazie all'affetto dei fan in tutto il mondo, Eros allarga i suoi tour toccando nazioni mai visitate prima. Nel 2009 con Ali e radici World Tour fa tappa, per la prima volta in assoluto, in Africa con una data a Cartagine in Tunisia. Nel 2010 si esibisce anche in Messico, Portorico e Santo Domingo.
La storia con Marika Pellegrinelli
Nel 2009 incontra la sua seconda moglie. Marica Pellegrinelli è una modella di 21 anni e i due si innamorano perdutamente in occasione dei Wind Music Awards, dove è lei a premiarlo. Due anni dopo nasce la loro figlia Raffaella e nel 2014 la coppia si sposa con un rito civile a Milano e un fastoso ricevimento a Monterotondo di Gavi, in Piemonte. L’amore è solido e il 14 marzo 2015 nasce il secondo figlio, Gabrio Tullio. Il matrimonio, però, giunge al termine quattro anni dopo, nel 2019 con una separazione consensuale. Eros si ributta a capofitto nel lavoro e coglie il momento di grande cambiamento come un segnale, che lo porta a cambiare etichetta, firmando un contratto con Universal Music Italia.
Gli ultimi anni e il mito che continua
Gli imprevisti della vita non fermano Eros Ramazzotti e la sua musica. Nel 2016 esce la sua nuova biografia “Grazie di cuore. La mia vita in trent’anni di musica” e nel 2018 esce l’album “Vita ce n’è” poi nel 2021, dopo la pandemia, pubblica “Battito Infinito”. Nel mezzo c’è una raccolta che racchiude i suoi successi in coppia “Eros Duets”. Gli ultimi anni sono quelli delle collaborazioni scrive testi per altri artisti e gira per il mondo. Di recente Eros ha ritrovato l’amore al fianco di Dalila Gelsomino, mentre la figlia Aurora lo ha reso nonno del piccolo Cesare. Oggi Eros vive tra il Messico, dove abita la compagna, e la Franciacorta suo luogo del cuore.
Estratto dell’intervista di Alberto Dandolo per “Oggi” il 23 Febbraio 2023.
Sono le 9 del mattino di un giorno di febbraio. Lui è di ritorno dalla scuola dove, come un padre tra tanti padri, ha accompagnato il suo figlio più piccolo, Gabrio, 7 anni.
Eros Ramazzotti, 59 anni, oltre 70 milioni di dischi venduti in tutto il mondo in oltre 40 anni di carriera, tre figli e due matrimoni alle spalle; il primo con Michelle Hunziker, madre di Aurora, e poi con Marica Pellegrinelli che gli ha donato Raffaela Maria, 11 anni, e appunto Gabrio Tullio.
Eros ci riceve nella sua casa in Franciacorta di ritorno da Lisbona, in cui ha fatto il tutto esaurito alla storica Altice Arena, nella 19a delle 77 tappe del suo tour mondiale Battito infinito, partito nell’ottobre scorso infiammando letteralmente le principali città delle due Americhe e che ora è sbarcato in Europa (a marzo sarà in Italia).
(…)
È rimasto un “ragazzo di periferia” pur esportando l’italianità oltre confine.
«Il nostro è il Paese più bello del mondo. Cerco di onorarlo nell’unico modo che conosco: con la musica. E senza l’italianità, la periferia che mi porto dentro, non sarei oggi l’uomo che sono».
(..)
Che figlio è stato?
«Un po’ agitato, infatti il mio primo disco fu Cuori agitati. Non sapevo cosa fare da giovane se non il musicista. È sempre stata la mia passione».
E i suoi come presero questa sua passione?
«Sono stato sempre appoggiato da mio padre. Lui era un artista e mio nonno addirittura un cantante bravissimo, un chitarrista stornellatore».
Insomma, una questione di Dna.
«Sì, una questione di sangue. Sa, noi siamo originari dei Castelli romani e non potrò mai dimenticare sin da piccolo le nottate passate a cantare. Accompagnavo mio padre ai Castelli e queste erano le mie vacanze, dalla periferia andavamo lì a fare quello che di più bello c’era da fare: cantare e suonare. Al massimo andavo ogni tanto al mare, all’inizio a Ostia e poi fisso a Torvaianica. Per me era il paradiso. Ci alzavamo alle 5 del mattino, alle 7 eravamo al mare e alle 4 del pomeriggio smontavamo tutto e tornavamo a casa. Queste sono state le mie vacanze fino ai 17 anni. Poi sono andato a vivere a Milano».
Lei che padre è?
«Ho cominciato un po’ tardi, prima non avrei avuto il tempo necessario per stare dietro a una situazione così importante come i figli. E, comunque, deve chiederlo ad Aurora che padre sono».
Ora, grazie ad Aurora, diventerà pure nonno.
«Eh sì, tra un mese, è un maschietto ma non so ancora che nome gli daranno (pare sarà chiamato Nicolò, ndr). Le scelte dei figli sono sacre».
(...)
È sempre difficile preservare i rapporti d’amore con le ex compagne; lei come ha fatto?
«Ho sempre avuto storie lunghe, non sono mai stato frivolo quando ho avuto in corso una relazione. Quando sono stato solo magari sì, qualche cazzata l’ho fatta, come tutti no? Ma sempre nei limiti. Io sono così, in amore ancora di più».
(…)
Quanti chili perde a ogni concerto?
«Ogni volta c’è uno sforzo psicofisico bestiale. Io faccio 5-6 chilometri sul palco ogni volta, li conto con l’orologio. Negli ultimi anni poi mi concedo anche di più al pubblico, all’inizio ero più freddo, distaccato e concentrato. Poi ho capito che era più giusto andare in mezzo alla gente. Non avere barriere con chi ti ama».
Lei però ha scelto di vivere in campagna, isolato.
«Sono nato nel quartiere di San Giovanni, a Roma, ma ho vissuto in periferia. E la periferia era una borgata con il prato e la strada, non c’era nient’altro. C’era Cinecittà vicino, dove giravano i film. Vivevamo molto wild, molto liberi. Questo l’ho riportato anche nella mia vita quando ho avuto la possibilità di scegliere. L’importante per me è sempre stato vivere fuori dalla città, sereno e tranquillo. Per questo sto fuori Brescia, in Franciacorta».
E la passione per i cavalli?
«Per gli animali in generale, ero un canaro e adesso sono pure un gattaro, ho sette gatti: Elvis, Zorba, Tina, Mia, Panna Cotta, Ariel e Alaska. Quando trent’anni fa ho avuto la possibilità di comprare un cavallo ho iniziato a cavalcare all’italiana, poi all’americana perché è più rilassante».
E lo sport? Fa anche arti marziali.
«Sì, Kyokushinkai (uno stile di Karate, ndr). Ho iniziato dopo che mi ruppi una spalla e iniziai a fare fisioterapia con Luigi Passamonte che è cintura nera di Kyokushinkai, e dopo i pesi ho iniziato anch’io quest’avventura. È un’esperienza quasi mistica, che ti cambia la vita, ti migliora, ti rafforza. Mi aiuta anche a livello psicologico».
Lo consigliò pure alla sua ex moglie Michelle Hunziker, vero?
«Sì, Michelle è arrivata a prendere due cinture, lei è una vera macchina da guerra sotto quest’aspetto. Il Karate ti dà l’equilibrio necessario per affrontare lo stress della vita. Michelle ha un carattere forte».
Anche la sua seconda moglie Marica Pellegrinelli non sembra una persona fragile.
«Sì, è una macchina da guerra anche lei. E poi è bergamasca, è dei monti, quindi molto tosta».
Lo era anche sua madre?
«Sì. Le confesso che la sua perdita per me è stato il dolore più grande. Mi ha lasciato più di vent’anni fa, era il periodo anche della mia separazione da Michelle, tanti problemi… Quando si è attraversati dal dolore vero si rischia di perdere la lucidità».
Che cosa o chi l’ha aiutata?
«Ho trovato sempre in me stesso la forza. Ma sono diventato forte solo perché ho imparato a essere debole. Poi nel tempo ho inteso che bisogna anche avere la maturità di affidarsi a chi ha gli strumenti umani e professionali per sostenere la tua crescita. Io sono stato fortunato, ho trovato ad esempio sul mio cammino Gaetano Puglisi (suo manager, ndr) che mi ha restituito la voglia di progettare e intraprendere nuove sfide».
(...)
Oltre alla musica, quali sono le altre sue passioni?
«Avere la possibilità di rilassarsi, di concentrarsi, di fare movimento, lo sport… Sono stato un calciatore fallito, grande appassionato del calcio e tifoso juventino perché lo era mio padre e me l’ha trasmesso. Sono e rimango juventino ma amo il calcio giocato con passione e professionalità e vedere il Napoli di oggi mi diverte: complimenti».
Complimenti anche a lei per l’esibizione con Ultimo a Sanremo.
«Un grande affetto è quello che mi lega a Niccolò, Ultimo, da tempi non sospetti. Lo considero un vero artista. Mi ha molto emozionato risalire su quel palco. Lì da dove tutto è iniziato».
Che mi dice del “gobbo birichino” a Sanremo che non l’ha supportata durante l’esibizione ?
«Cose che possono capitare. Ho preso in giro i miei tecnici perché facciamo 100 date ed è sempre tutto perfetto e l’unica volta che abbiamo un problema succede sul palco che dopo 30 anni ancora mi mette agitazione. Pace, succede, siamo esseri umani».
E a Sanremo in gara ci tornerebbe?
«Ipotesi molto remota, è un tritacarne, ti massacra. Non dimentico mai però che Sanremo è stato il trampolino di lancio e non posso che essere legato fortemente a questo evento».
(…)
Ha fatto anche tanti duetti con artisti internazionali da Ricky Martin, Anastacia, Tina Turner… Chi tra questi le ha scaldato di più il cuore?
«Hanno avuto tutti un ruolo fondamentale nella mia crescita. Ma il rapporto umano e artistico che conserverò come il ricordo più bello è quello con Tina Turner. Una vera star e una donna che ha attraversato la vita con la forza di una vera leonessa».
In futuro, se dovesse trovare la donna giusta, diventerebbe di nuovo papà?
«Beh, che ne sappiamo? Non mi interessa quel che pensa la gente. Se uno si innamora fa quel che sente. Quando troverò la mia anima gemella, perché escludere a priori una nuova paternità? E io infatti non la escludo».
In una recente intervista ha fatto intendere che ha un nuovo amore. È vero?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
C’è in lei “un’emozione per sempre”?
«Sì, veder crescere i figli educati in un mondo come questo, che riescano a inserirsi nella società coi piedi giusti, con la testa giusta, perché il mondo è difficile: l’emozione più grande sarà questa. Vedere i miei figli, anche i più piccoli, avere un futuro migliore di questo presente».
E che cosa altro si augura per i suoi figli?
«Che riescano sempre a guardarsi allo specchio a testa alta. E che si amino. Solo così si va avanti, se uno non si ama fa molta fatica. E l’amore per se stessi non può prescindere dal rispetto che si deve alla natura. La Terra non è nostra e va salvaguardata. Abitarla è un privilegio e un onere».
Estratto dell'articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 20 febbraio 2023.
Il 28 ottobre compie 60 anni, a marzo diventerà per la prima volta nonno, pochi giorni fa a Sanremo - duettando con Ultimo - non ricordava le parole della sua Un'emozione per sempre. Sta forse crollando Eros Ramazzotti? Poi tre giorni fa lo abbiamo raggiunto ad Amsterdam, terza tappa europea del suo World Tour partito da Los Angeles il 30 ottobre (cento concerti in giro per il mondo fino ad agosto), legato all'ultimo disco Battito infinito, uscito nel settembre 2022, e subito è sembrato chiaro che quelli della sua età ci metterebbero la firma ad arrivarci così.
Fisico asciutto, zero pancetta, voce impeccabile, e sei-otto chilometri percorsi sul palco a ogni concerto (in media uno ogni tre giorni). Ci vediamo in albergo prima, allo Ziggo Dome dopo (l'arena di Amsterdam sold out con 14 mila paganti, tutti olandesi). Una macchina da guerra, Eros.
(…)
Un po' la spaventa la scadenza dei 60 anni?
«Onestamente, no. Sono tranquillissimo. Più passa il tempo e più mi sento libero, sciolto, leggero. Fra un po' divento anche nonno».
Le fa impressione?
«Per niente. Mi diverte».
Nei prossimi mesi sarà in giro per il mondo a cantare: come si è organizzato per la nascita?
«Quando Aurora avrà partorito, prenderò un volo e andrò da lei e da tutti loro».
(...)
Lei che da sempre canta l'amore in tutti i modi, dopo due matrimoni falliti è sempre single o ha una nuova compagna?
«Qualcosa di buono adesso c'è. Ma non voglio dire altro. Per il momento è meglio così».
Per arrivare fin qui c'è voluto più coraggio o incoscienza?
«Coraggio. Ho sempre avuto la testa libera, non ho mai preso droghe o roba strana, e questo mi ha fatto affrontare la vita in una certa maniera. Tutte le decisioni, comprese quelle sbagliate, le ho sempre prese in buona fede».
L'errore più grande che ha fatto in vita sua?
«Essermi fidato di persone sbagliate, che invece di crescere con me guardavano solo ai loro interessi».
Di chi parla?
«Non faccio nomi. Posso solo dire che tutti i grandi artisti che ho conosciuto hanno avuto al loro fianco gente che se n'è approfittata. Adesso, per fortuna, ho messo tutto a posto grazie a un nuovo, vero manager (Gaetano Puglisi, ex Rtl 102.5, ndr) e non voglio più pensare alle brutte vicende del passato. Voglio sorridere. La vita è una».
Tornando a girare il mondo cosa l'ha sorpresa di più?
«La gente che dopo la paura di morire all'improvviso per il Covid, ora vuole vivere e divertirsi. E poi, sono sincero, mi stupisce andare ancora così bene dopo quasi quarant'anni».
Il segreto?
«Voce, repertorio, credibilità... Io ce la metto tutta. All'estero, poi, quando si stabilisce un rapporto con il pubblico, quello dura per sempre. In Italia è diverso: se non hai un nuovo successo, si fatica di più».
(...)
Sul palco ha il gobbo?
«Certo, ma raramente dimentico le parole. A Sanremo è successo».
L'erede di Eros chi è?
«Ultimo. È un grande artista e mi rivedo in lui: è un musicista, sa stare sul palco, ha buone idee e sa come trasmetterle alla gente. Non ce ne sono tanti così».
Gli ha dato qualche consiglio?
«Sì. Deve fare il bravo e stare tranquillo: si incazza troppo facilmente».
A Sanremo cosa l'ha colpita?
«I primi cinque sono tutti in gamba. Mengoni ha una voce pazzesca. E Lazza mi piace».
Fluidità, provocazioni e autotune al Festival l'hanno fatta da padrone: che ne pensa? «Queste cose non musicali fanno notizia, è sempre stato così. Per le canzoni vere si vede dopo. Decide il pubblico, ma in generale da tempo non c'è la sostanza musicale del passato. È la verità».
(...)
Lei è un super tifoso della Juve: l'avrebbe mai immaginato questo disastro gestionale?
«No, mai. È assurdo. Comunque mi piace moltissimo il Napoli. Tifo per loro anche se odiano gli juventini».
Senta, in tempi di fluidità dilagante può finalmente dire con chiarezza a chi è dedicata la sua popolarissima "Più bella cosa"?
«Ahahahahahaha... Ma anche Fuoco nel fuoco parla di quella roba lì. Lo dica lei, però».
Il motore del mondo?
«Ahahaha... Sì, quello lì».
Eugenio Finardi.
Eugenio Finardi: «Mia figlia Elettra, il mio amore diverso, che si è salvata e protetta da sola». Caterina Ruggi d'Aragona su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2023
La madre, la figlia con sindrome di Down, la difficoltà nel ritrovare i sentimenti e gli ideali in cui credeva. L’artista, domenica al Politeama Pratese col nuovo disco si racconta: «L’America? La detesto»
Musica che lenisce. Fa stare bene chi la suona e chi la ascolta. Eugenio Finardi definisce «balsamico» il suo ultimo disco, Euphonia Suite: un flusso ininterrotto di note in cui la sua voce si incontra con il pianoforte di Mirko Signorile e il sax di Raffaele Casarano, accompagnando l’ascoltatore ad uno stato quasi trascendentale. Un’esperienza mistica, commenta il cantautore e musicista che domenica (ore 21) porta Euphonia al Politeama Pratese. «Ormai suono a Prato più che a Firenze, dove i teatri sono troppo cari», dice l’artista milanese, classe 1952.
Ha visto Sanremo?
«Sì. Per me hanno vinto i Pooh, a cui mi lega il primo lavoro da tecnico del suono, per alcune date del tour del ’73, in cui debuttò Red Canzian. Avevo 20 anni e mi trovai di colpo, con tanta incoscienza, nel mondo dello spettacolo».
La musica è nel suo dna…
«Sono nato da uno strumento musicale: mia madre Eloise Degenring, cantante lirica e insegnate di canto, statunitense. Mio padre, bergamasco, era tecnico del suono. A 9 anni avevo già inciso un disco. Non ho mai pensato di percorrere altre strade, anche perché ho sempre trovato un piacere fisico nel canto. Come una carezza all’anima che rasserena e che, una volta ingranata la marcia giusta, va da sola. Mi sono abbandonato a questa sensazione in Euphonia».
Un disco della maturità…
«È una sorta di summa del mio percorso artistico: i singoli brani (miei e di autori a cui sono particolarmente legato, da Battiato a Fossati) sono diventati strofe di una composizione in cui le emozioni si perdono, provocando varie sensazioni, dal ritmo alla spiritualità. La cosa bella è vedere, a fine concerto, negli occhi della gente una reazione liberatoria».
C’è eco del «flusso di coscienza» di Joyce e di Svevo, di matrice freudiana?
«Proprio così. Solo che mentre il flusso delle parole è personale, perché ognuno ha il suo linguaggio, la poesia consente un rito collettivo in cui ciascuno può finire la strofa di un altro».
«Euphonia» è un abbraccio collettivo, che ha preso forma durante il lockdown…
«La musica è nata da sola, mettendo insieme tre sensibilità che in 10 anni hanno affinato la loro sintonia in un’incredibile telepatia: ciascuno di noi offre con il proprio strumento opportunità all’altro di suonare il suo, restituendo un’esperienza sonora sempre diversa. Ed è proprio ciò di cui avevo bisogno ora: musica in cui abbandonarmi totalmente, per emozionarmi, anche piangere».
Continua a coltivare il suo «sogno sociale»?
«È rimasto poco di tutto ciò in cui credevo, a cui ho dedicato quasi tutta la vita. Adesso faccio fatica a spiegare ai miei figli perché suonavo spesso gratis, perché il denaro non era al centro dei miei interessi. Ho dovuto fare l’esempio dei vegani per fargli capire la nostra visione ideale. Io ricordo come mi sentivo; ma adesso faccio fatica a ritrovare quei sentimenti nell’aria».
La delusione maggiore?
«Realizzare che oggi il sentimento più forte è l’avidità. Si parla di modifiche genetiche per non ingrassare o non perdere i capelli; io credo che guarire dall’avidità sarebbe la più grande conquista per l’umanità».
Come ha vissuto il crollo del comunismo?
«Fui invitato a non rinnovare la tessera perché i miei pensieri erano ritenuti troppo indipendenti. Ma il Pc è rimasta una fede, un senso di appartenenza e di responsabilità, che ha lasciato molti orfani. Non volevamo l’Unione Sovietica; ma la Svezia o la Norvegia: uno Stato amico di cui sentirsi parte».
Alcune sue canzoni parlano di Dio: ha iniziato a credere?
«Continuo ad essere ateo. Non credo che possa esistere un Dio tra quelli proposti dalle religioni. Però a un certo punto, pensando a Bach, Palestrina, Michelangelo o Dante, ho iniziato a ragionare al contrario, analizzando le aspettative umane sull’onnipotenza. Sono arrivato alla conclusione che Dio è l’universo e la musica i suoi sacramenti. Se guardi le stelle, ascolti Bach o leggi Dante, trovi Dio».
Nel nuovo disco ha inserito anche «Amore diverso», canzone scritta nel 1982 per Elettra, nata con la sindrome di Down…
«Elettra è la mia primogenita; prima della sua nascita non avevo esperienza di quel sentimento diverso dall’amore sensuale. La paternità rende tutto assoluto, ancora di più se ti nasce un figlio con qualche problema».
Oggi Elettra ha 40 anni: sente di riuscire ancora a proteggerla?
«A 20 anni ha scelto di vivere in comunità. Ci disse “Io voglio stare con quelli come me”. Per noi non è stato facile; ma bisogna vederla dal suo punto da vista: prendeva il tram per andare a scuola, dove è stata sempre seguita da insegnanti di sostegno, attraversava la città in metro, ma faceva molta fatica a integrarsi in una grande città. Credo sia intelligente abbastanza da averlo capito. Ha voluto prendere la sua strada. Gli ultimi tre anni, per il Covid, sono stati molto difficili: l’isolamento e la malattia di molti compagni avevano rotto l’equilibrio. Per fortuna nella sua vita c’è tanta musica: conosce tutte le mie canzoni a memoria, e le canta con gusto anche se è stonata come una campana».
Cosa fanno gli altri figli?
«Emanuele ha quasi 32 anni e fa il fotografo di moda. Francesca, 23 anni, ha studiato violino, suona la chitarra, scrive canzoni… ma ha visto il mondo dello spettacolo con molto realismo e ha scelto di studiare Lingue: ne parla cinque, ora è a Barcellona, poi farà un master a Shanghai».
Torniamo indietro: sua madre è stata felice della sua carriera?
«Ha sempre criticato la mia scelta, finché non ho cantato alla Scala. Era sempre stato il suo sogno, ma da ipovedente non ha mai potuto esibirsi in teatro. Guardò dal palco reale il figlio arrivato dove lei non era riuscita».
Sua sorella Marilisa, da poco rientrata dall’America, si è trasferita a Firenze . Lei invece non ha mai lasciato l’Italia…
«Scherziamo? La gente pensa che l’America sia un sogno, invece è spaventosamente triste. La detesto».
Ha ricordi toscani?
«Tantissimi, ma vecchi, quasi tutti legati ai Festival dell’Unità, che la Toscana, a differenza di regioni come l’Umbria o l’Emilia, non ha convertito in altre occasioni. Sono subentrati festival prestigiosi come Pistoia Blues, ma niente che porti una frequentazione capillare del territorio, come le feste in cui le donne preparavano i cappelletti o le salsicce sulla brace».
Crede che Blanco non abbia capito la sua «Musica ribelle»?
«Poverino! Blanco è un ragazzino che si è ritrovato, come capita adesso, il successo all’improvviso. Io ho capito subito che aveva la cuffia spenta. A sangue freddo avrebbe dovuto fermarsi, ma la tensione era altissima. All’età sua non so come avrei reagito».
Rifarebbe Sanremo?
«No, nessuno dei tre. Il primo non volevo farlo: era il 1985, momento di crisi del festival; si cantava in playback… Io avevo un’influenza fortissima; e poi ho un difetto: quando mi forzano a fare una cosa la faccio malissimo. Nel ‘99 avevo presentato alla casa discografica un pezzo serio, invece mi chiesero Lara, dedicata al videogame Tomb Raider: esito medio. Lasciamo stare il 2012. Prefisso concentrarmi su Euphonia».
Euridice Axen.
Daniele Priori per “Libero Quotidiano” l’1 gennaio 2023.
Euridice Axen, attrice italosvedese dal fascino e dalla simpatia contagiosi, è una delle protagoniste di questa fine d'anno che trova l'artista molto impegnata, in particolar modo in tv e al teatro. Figlia d'arte, nata a Roma il 20 settembre di 42 anni fa, porta per scelta il cognome della mamma che è l'attrice scandinava Eva Axén. Il padre è l'attore e doppiatore Adalberto Maria Merli. Euridice è una donna libera, schietta e diretta che non ama le mezze misure ma neppure il doversi schierare per forza tra due poli opposti.
Il suo mondo è molto più vario. La personalità estrosa e il carattere forte l'hanno resa celebre tra i personaggi di fiction divenute cult come Ris Roma, Vivere e Le tre rose di Eva, fino a The young Pope da cui è nato l'incontro col premio Oscar Paolo Sorrentino che poi l'ha voluta nel cast del film Loro, mentre Gabriele Muccino l'ha scritturata per la serie tratta dal film A casa tutti bene di cui, nei primi mesi del 2023, andrà in onda su Sky la seconda stagione.
La Axen ha concluso il suo 2022 con la prima serata di ieri su RaiUno dove, assieme a Chiara Francini, Cristiano Caccamo e Cesare Bocci ha recitato nel film per la tv Una scomoda eredità, diretto da Fabrizio Costa, mentre si prepara a tornare in scena a teatro con Settimo Senso in scena dal 18 al 22 gennaio al Parioli di Roma dove, dopo il successo di pubblica e critica della prima milanese, indosserà nuovamente vesti e idee di un personaggio carismatico quanto enigmatico come Moana Pozzi.
Vorrebbe convincerci così che a Natale in tv non c'è spazio solo per Una poltrona per due?
«Esatto. C'è anche un'eredità per due! Che crea problemi non indifferenti. Un film interessante. Una commedia nella quale io e Chiara siamo queste due donne che si ritrovano, a causa di una liaison tra i rispettivi genitori ad affrontare una sorpresa dopo un evento tragico.
I nostri personaggi si chiamano Diana e Gaia. Anche i nomi rendono già l'idea. Diana, interpretata da me, è un medico con la mania del controllo. Gaia la figlia dei fiori ma anche la bambola assassina. Le due non vanno molto d'accordo anche se poi finisce bene come si capisce anche dal nome della collana di cui il film è parte».
Tv e teatro sono mondi conciliabili oppure il tubo catodico è solo più ricco delle tre pareti del palcoscenico?
«Credo che il problema principale non sia il cachet ma proprio la durata nel tempo che in Italia è troppo scarsa perché si dà per scontato che uno spettacolo muoia dopo il debutto.
All'estero tengono le repliche anche per due, tre anni e molte persone amano tornare a vedere lo stesso spettacolo più volte. Una soluzione che favorirebbe anche una maggiore circolazione di pubblico tra le varie nazioni. A me è capitato di andare a vedere spettacoli all'estero».
È un consiglio che vorrebbe dare alla premier Meloni?
«A chi è al Governo chiederei di puntare sulla cultura. Chi governa deve sempre ricordarsi di investire sulla cultura perché un Paese senza cultura diventa ignorante e pericoloso».
L'Italia è un Paese per donne?
«No. Perché comunque ci portiamo dietro una tradizione difficile. Non è un Paese moderno e assieme alla tradizione e alla storia manteniamo un'impronta maschilista che continua a confondere la galanteria con il machismo. È anche vero che di anno in anno le cose migliorano e andiamo nella direzione di una parità che però ancora non si percepisce...».
Cosa pensa delle lettere lgbtqi per indicare le comunità gay e trans. E cosa del femminismo nominalista che declina tutto al femminile. Sono soluzioni o specchietti per le allodole?
«Le lettere lgbtqi servono giustamente a definirsi perché altrimenti ci pensano gli altri a farlo, utilizzando tristemente solo una lettera: la F. Sul declinare al femminile sono d'accordo. Come lo sono sull'utilizzo dello schwa (linguaggio inclusivo ndr).
Le parole sono importanti, formano i pensieri. Molto più di quanto i pensieri formino le parole. Credo siano soluzioni proprio per evitare di essere valutati ed etichettati dagli altri. Te lo dico io chi sono, non tu. Quello che stanca semmai è l'eterno dualismo su tutto. Dovremmo capire che c'è molto di più».
Nell'ultimo mese l'abbiamo vista nei panni di Luisa Spagnoli su RaiStoria e Moana Pozzi a teatro. Chi delle due la rappresenta di più?
«Come scelta di vita nessuna delle due. Come forza entrambe. Aspiro ad avere la loro forza.
Luisa Spagnoli ha costruito un impero con la Perugina, ha inventato i Baci e poi è passata a fare i maglioni d'angora. Una creatività e uno spirito imprenditoriale che io proprio non ho.
Di Moana ammiro la libertà. Lei faceva il porno come una Greta Garbo. Affascinavano e creavano mistero la sua delicatezza, la sua grazia, il suo saper parlare. Era stabile ma non falsa. Era schietta, sincera, diretta. Abbiamo preso in prestito questa figura per denunciare la pornografia dei nostri giorni».
Ha dichiarato di recente che l'affermazione delle donne può passare anche attraverso la visione di un porno. Esiste qualche tabù che una donna non possa superare?
«Sono contro i tabù in generale. Li reputo di un'ipocrisia totale. Che riguarda sia gli uomini sia le donne. Il grande tabù che ancora c'è sulle donne ad esempio è sul numero dei partner. Se un uomo va con dieci donne si valuta in maniera diversa rispetto a come si farebbe se fosse la donna a farlo.
Una differenziazione che trovo da sempre ridicola, non foss'altro per il fatto che è una cosa semplicemente reciproca e dovrebbe quindi essere proprio paritaria invece ancora resiste il giudizio, magari in maniera meno pesante di una volta, che colpisce sempre le donne. Anche di questo ce ne libereremo col tempo».
Lei è italosvedese. In cosa l'Italia dovrebbe imitare la Svezia e viceversa?
«Lì i padri portano i bambini all'asilo, cucinano. Qui è ancora un'eccezione. C'è un'apertura mentale che però non corrisponde nell'apertura nei rapporti, nell'accoglienza, Noi qui, invece, abbiamo una luce che lassù manca alla quale corrisponde la solarità nelle persone. In Svezia ti accolgono a braccia conserte, noi ci abbracciamo. Siamo il Paese del sorriso, un particolare che non va dato affatto per scontato».
Eva Elfie.
Barbara Costa per Dagospia domenica 16 luglio 2023.
A me la pornostar Eva Elfie non piace. Bella ragazza, per carità, ma troppo passiva! E sempre con quell’espressione infantile, che nervi! E poi è troppo magra, e a me piacciono carnose, e specie ai fianchi. La dico tutta: davanti al modello barbie-ferragniano il mio clitoride si affloscia, quando va bene, ma il più delle volte si addormenta, non dà segni di vita, non è interessato. Non gliene frega niente!
Quello che io porno gradisco e il mio clitoride pure non è una notizia e soprattutto è in netta controtendenza a ciò che migliaia e migliaia di p*pparoli ritengono giusto p*ppolare: infatti, miss pallidume Eva Elfie spicca su Pornhub quale porno star tra le più viste, stabile in zona podio, è una porno macchina da soldi, corre a 960 milioni di views globali, addirittura tocca i 20 e passa milioni a singolo video.
Sicché pur se a me ignota ci deve essere una ragione e perché no più di una che spieghi e dia motivazione alla montagna umana che Eva Elfie la clicca, l’ama, la osanna e, sorpresa!, una massa di tali ardenti tappate sono di p*pparole donne. Eva Elfie ha vinto per il secondo anno il Best Pornhub Pornostar Preferita Dalle Donne.
Ciò indiscutibilmente segna che c’è un numero cospicuo di donne che si masturbano coi video di questa biondina, e che bruciano per il suo esile corpo, e donne a cui il clitoride vien duro al p*rco pensiero dei seni di Eva e dei suoi bocciosi capezzoli da leccare e succhiare, e che magari in concreto leccano e succhiano alle loro amanti donne, o uomini, mentre sui loro smartphone scorrono i porno di Eva Elfie. Brave, tutta salute! E orgasmi abbondanti!
Ma non è meglio mettersi a letto e spassarsela con chi ci piace coadiuvati dai video dei seni di, che so, una Blake Blossom, una Autumn Falls? Nemmeno per sogno, mi controbattono i fan di Eva Elfie che, glielo riconosco, a tette sta bene, ce le ha carucce (ma questo è un mio responso di testa, il mio clitoride di fronte ai seni della Elfie non perviene, e se insisto mi si offende...), vuoi mettere Eva Elfie che nei porno si fa venire dentro, fa le sveltine, si fa lesbicamente sc*pare a tre e legata, si mette docile a eseguire gli ordini di uno che passa per suo ragazzo, suo fratellastro, a ogni modo è un maschio che se la sbatte a comando (quasi 40 milioni di views!), si fa imbellettare di sperma faccia e petto, e ci ride, e come staccarci gli occhi e la mano stretta sul sesso, con Eva che, delicata, si accarezza tutta?
Io ce li stacco volentieri, tuttavia prima di scrivere questo pezzo mi ci sono inchiodata, convinta, a rimirarmi più video di Eva, in modo da verificare se fosse la volta buona che la mia testa e di logica il mio clitoride si attivasse al gioco. Macché. Nulla. Coma profondo. Allora ho provato a rianimarlo col porno di due tettone, sboccate al limite, tanto per esser sicura che non fosse il caso di sottoporre il mio clitoride a visita medica, la quale meno male è innecessaria, visto che, coi video senza la Elfie, il mio clitoride è zompato sveglio e allegrissimo.
Io ci sto che i gusti porno sono i più personali possibili, io ci sto che non sono giudicabili (e ci mancherebbe), io ci sto che la porno eccitazione (e non solo) è individualissima e dipende da mille e intimi fattori, fatto sta che mi fa strano che una che solletica le fantasie sozze di mezzo mondo, e oltre, a me non dico mi debba intridere gli slip, ma neppure rendermi indifferente fino a questo punto. E comunque, per gli Eva Elfie più interessati, ecco notizie sulla vita privata della loro porno beniamina: Eva Elfie è russa, siberiana, ha 23 anni, ed è… sposata!
È sposata con Artem, suo compagno di liceo e suo primo e unico fidanzato, Artem che è il "pene" che si vede dentro e fuori e addosso a Eva in alcuni suoi porno. Perché è stato Artem, a spingerla nel porno fatto in casa, dopo che tutti e due, neodiplomati, si sono trasferiti a Mosca per frequentare l’università.
Eva – il cui vero nome è Yulia, e Elfie è la presa in giro che l’ha accompagnata per tutta l’adolescenza, la sfottevano per le sue orecchie da elfo – si è iscritta alla facoltà di Giornalismo, ma viverci a Mosca si è rivelato caro e impossibile da studenti e camerieri part-time. Artem e Eva si sono messi in rete a pornare e hanno trovato la ricetta vincente nel mutuare la formula porno americana in stile russo: Eva nei porno non parla quasi mai il russo, parla inglese, e sta attentissima affinché lo sfondo delle copule non riveli nulla della società russa.
Cosicché i suoi video attraggono un pubblico sovranazionale, e messo a suo agio dall’indifferenziata estetica social: le riprese professionali di Eva sembrano fatte via smartphone, e lei si mostra tale e quale a una influencer, nel modo di vestirsi, parlare, interagire, finanche far sesso poiché chi la sceglie – e la paga – per sp*ppolarcisi su, la guarda in video come se fosse la sua ragazza, o la sua collega di lavoro, o una sì molto bella ma non irraggiungibile. Eva Elfie è così che ti motiva il suo successo.
Ma a me non mi intorta: il suo successo è in realtà inspiegabile. Non comprensibile per criteri oggettivi. Lei non è più sexy, più brava, più "donna" delle altre. Però a valanga la scelgono al posto delle altre. L’ascesa di Eva Elfie – con Artem – è ora materia di un documentario non porno, "Artem & Eve".
Eva mai ha nascosto alla sua famiglia cosa fa per vivere. E in questo docu-film, russo coi sottotitoli in francese, ci sono lei e Artem che come una coppia qualunque va a trovare i genitori. Eva ci tiene a mostrare che “chi fa porno non è deviato, o malato, ma una persona come le altre”. Lei è la “girl next feed”, ovvero la presente illusoria idealizzazione della “girl next door”.
Eva Henger.
Estratto dell’articolo di Daniele Priori per Libero Quotidiano il 20 giugno 2023.
Eva Henger e il tosaerba. Già questo potrebbe essere un titolo ed è certamente un'immagine da cinema quella con cui l'attrice, ormai 50enne, risponde all'intervista di Libero, proprio appena dopo aver smesso di curare il giardino. Eva è una donna libera da pregiudizi. Con tanta vita da raccontare e la libertà che poche persone hanno realmente, di poter parlare senza catene. Forse proprio grazie al fatto di aver conosciuto tanto mondo, compreso quello della pornografia.
Ci parla dall'Ungheria, dove è nata e sua madre vive ancora: «Le sto vicina perché non sta bene, specie dopo la morte di papà». L'ultimo capitolo della sua vita è un film, appena uscito nei cinema, un po' in ritardo sui piani a causa del brutto incidente automobilistico in cui l'attrice è rimasta coinvolta lo scorso anno. Eva Henger è la protagonista di un cast che vede anche l'esordio sul grande schermo di Fausto Leali. Si intitola Tic Toc, critica velata (ma non troppo) allo straniante mondo social.
Eva, partiamo da Tic Toc. Che segna il suo ritorno al cinema. Di che si tratta?
«È stata un'esperienza fantastica. Un film corale con molti volti noti e tantissimi TikToker. Alcuni, tra questi anche io, recitano interpretando loro stessi. Il film fa vedere cosa c'è dietro i social. Dietro tutti questi ragazzi che appaiono ricchissimi, con foto sempre bellissime, salvo poi scoprire che non è tutto oro quello che luccica e ci sono tante cose non vere».
Come giudica, visto che lei è anche influencer, il mondo di OnlyFans?
«Io non sono iscritta. Non ho mai navigato. Ne parlo con amiche mie che sono su OnlyFans. Spero ci sia un filtro per i minorenni. Poi ogni persona è libera di fare quello che vuole. Non condannare. Evidentemente c'è una grande richiesta. Ci sono persone che hanno bisogno di questo tipo di servizio e persone che si prestano. Alcuni lo fanno per necessità economiche, altri per sfogarsi entrano in un gioco mentale. OnlyFans è un po' figlio o nipote delle linee telefoniche erotiche di una volta».
Lei ha dei figli. Come li vede proiettati e, magari i più giovani, come li protegge dal mondo dei social?
«È impossibile proteggerli da social. Riccardino non ama i social. Ha una pagina su Instagram dove pubblica i suoi quadri. Memi è molto più social di me. Di Jennifer, la più piccola, controlliamo le sue pagine Instagram, i messaggi privati. Ma se togli TikTok a un'adolescente le hai tolto la vita. Lei torna da scuola, mangia, studia e poi si mette a fare balletti. Per fortuna legge anche libri».
Lei ha attraversato tv, musica, cinema e anche conosciuto bene il mondo dell'hard. Oggi come si definirebbe?
«Non lo so come mi definirei. Io posso dire di essere un'artista che si impegna sempre tantissimo ogni volta che mi viene assegnato un ruolo.
Mi preparo, studiando molto. Però non mi sono mai soffermata su una cosa sola. Mi piace il cambiamento. Diciamo che sono monogama solo nel mio matrimonio...». (ride)
Ha rinnegato il mondo dell'hard oppure lo considera parte importante della sua vita?
«Come si fa a rinnegare? Non ho mai rinnegato. È stata una parte della mia vita. Un periodo, quello dei film porno, davvero molto breve perché non mi è piaciuto e mi sono orientato verso altri tipi spettacoli come il burlesque e lo spogliarello che mi sono piaciuti molto di più. Adesso sono quasi vent'anni che non faccio più nemmeno quegli spettacoli. È stato un bel periodo per la libertà. Erano altri tempi. Era anche una provocazione e nei locali c'era sempre la fila fino a fuori. Adesso spogliarsi è diventato abbastanza normale. Non fa più notizia. E i locali quando va bene sono pieni a metà».
Allora era forse più provocatorio ma non c'era il politicamente corretto di oggi così moralista.
«No, allora c'era molto più moralismo di oggi. Le femministe facevano sempre discorsi sul corpo della donna. Io, però, non mi sono mai sentita sfruttata né degradata. Sono stata sempre completamente a mio agio. Facevo quel che mi andava di fare».
C'è chi dice che un tempo c'erano le pornodive. Oggi non più. È vero?
«Ho conosciuto prima Moana, poi Ilona (Cicciolina ndr). Era impossibile camminare con loro per la strada, poi è successo anche a me. Diventavano dive perché erano spesso ospiti di trasmissioni importanti. Moana poi quando parlava metteva tranquillità. Era una bella persona, fine ed elegante. Anche oggi ci sono attrici e attori di fama nel mondo del porno ma fanno fatica ad arrivare in televisione».
Su Rocco Siffredi però stanno girando una serie. Avrà conosciuto bene anche lui...
«Non ho fatto sesso con Rocco. Sul set con lui ho fatto solo la figurante ma poi l'ho conosciuto benissimo. Prima di lui conosce sua moglie Rosa in un concorso di bellezza. Abbiamo iniziato insieme a fare le modelle. Poi la ritrovai in Italia come fidanzata di Rocco».
Berlusconi l'ha conosciuto? Ha ricordi?
«L'ho conosciuto tantissimi anni fa in una festa sulla terrazza dello Sheraton per Tappeto Volante, il programma di Rispoli. Arriva Berlusconi. Tutti lo seguivano. Lui passò vicino a me. Si fermò. Mi riconobbe lui e mi chiamò per nome. Rimasi stupita».
(…)
Eva Menta e Alex Mucci.
Riccardo Belardinelli per mowmag.it il 22 gennaio 2023.
È possibile aggirare le censure dei social? L’inflencer Eva Menta sembra esserci riuscita, mostrando da qualche tempo i capezzoli ma velati da abiti che però lasciano più che intendere cosa nascondono. E così è arrivata ad avere numeri enormi su Instagram (5,5 milioni di follower) e a trasferire questa massa di persone sui suoi canali a pagamento, come OnlyFans. Ma certo anche la polemica agli Uffizi ha aiutato...
“Ho pagato il biglietto”. Così si giustificò Eva Menta alla stampa quando le venne chiesto il suo parere circa la polemica sulle foto di lei e Alex Miucci senza reggiseno (ma vestite) di fronte la Venere di Botticelli al Museo degli Uffizi a Firenze. Al tempo di quello scandal du jour era il 26 ottobre, e tranne per quelli che seguivano la content creator su Onlyfans e TikTok, Eva Menta era solo una ragazza vicina ai trent’anni che in giro spiccava per make up, outfit e pose per le foto.
Poi, appunto, lo scoppio della polemica che l’ha portata in giro su tutti i social e anche nelle televisioni - memorabile il suo intervento da Giletti a Non è l’Arena proprio sul caso Uffizi - che le hanno reso una certa notorietà anche al pubblico che su TikTok non ci è mai entrato. La polemica era nata perché lei, insieme con l’influencer Alex Miucci, si era fatta fotografare vestita solo con una camicetta trasparente e senza reggiseno davanti alla Venere di Botticelli, in pose provocanti, postando poi la foto ciascuna sui propri account social.
Il Museo pubblicò poi una nota ufficiale in cui si chiedeva la rimozione delle due immagini dal social media (le due ragazze lo hanno fatto), specificando anche che “Evidentemente le due persone sono entrate al museo con le giacche chiuse, e si sono guardate bene, poi aprendole, di rimanere fuori la visuale dei custodi: altrimenti sarebbero state accompagnate fuori dal museo, come è avvenuto negli altri analoghi casi (rari) avvenuti negli ultimo anni“.
La ribalta di Eva Menta, si potrebbe dire, ma in realtà la content creator è molto più famosa di quanto si crede grazie ai suoi contenuti sui social e sulla piattaforma di contenuti Onlyfans. Nata nell’ottobre del 1994, attualmente ha 5,5 milioni di followers su Instagram (trentaduesima in Italia) e 685,4 mila su TikTok, mentre su Onlyfans ha un abbonamento dal costo di dieci dollari al mese.
E da diverso tempo ha trovato un modo molto molto semplice per fregare la censura dei social. Infatti, quando (come scritto qui su MOW con i copricapezzoli) centinaia di influencer e creator utilizzano mille stratagemmi per aggirare le censure di Instagram, Eva Menta - per carità, come tantissime altre - grazie al vedo non vedo posta praticamente quello che vuole.
Certo non ci sono nudi, non ci sono foto da iper censura o senza vestiti addosso, ma alla fine, la creator riesce a mostrare parti del corpo. Canottiere, costumi, maglie a rete e camicie trasparenti sono gli outfit. Filtri per gli occhi e ritocchi di colore qua e là il resto. Questo su Instagram, mentre su TikTok i video sono un po’ più contenuti e seguono i classici trend virali, con canzoni, balletti e provocazioni varie.
Eppure, per quanto già prima dell’exploit di ottobre Eva Menta fosse famosa, innegabilmente la polemica degli Uffizi le ha dato una gran visibilità che oltre a articoli e interviste alla Zanzara di Cruciani, hanno aumentato il suo numero di followers sia su Instagram sia su TikTok. E, essendo questi social dei veicoli pubblicitari per il suo account Onlyfans, anche questa piattaforma avrà giovato della polemica. Che le abbiate dato ragione o meno al riguardo.
Gianmarco Lotti per repubblica.it il 27 ottobre 2022.
Caso "archiviato" ma non cancellato. Le foto a seno quasi scoperto di fronte alla Venere di Botticelli scattate dentro il museo degli Uffizi di Firenze il 26 ottobre dalle influencer Alex Mucci e Eva Menta sono state ritirate dai social dove le due ragazze contano dieci milioni di follower. Dopo molte polemiche e la richiesta da parte delle Gallerie di eliminarle.
Tramite i loro profili Instagram Menta e Mucci hanno spiegato che avrebbero archiviato il post delle polemiche, per adesso non si parla di cancellazione della foto.
La decisione è maturata nella notte: "Sono le 4.30 e ci rendiamo conto che la situazione è sfuggita di mano. Sta diventando frustrante contenerla.
Abbiamo deciso di archiviare (momentaneamente) il post per fare calmare le acque, almeno finché la situazione non rientri".
Sempre Alex Mucci e Eva Menta hanno scritto: "Non si tratta di un'ammissione di colpa da parte nostra, noi continueremo a far valere il nostro gesto come atto creativo e non denigratorio. Il post è solo archiviato, per ora".
[...]
Dopo le proteste, la prima a difendersi era stata Alex Mucci: "Ho letto cose indicibili e immonde sotto il post, vanno oltre le pure opinioni, Ho letto offese e minacce verso la mia persona, la mia famiglia e mia figlia".
Ha poi proseguito: "Non esiste una legge che impone un dress code in un museo. Vorrei sapere in che assurdo modo la figura del mio corpo vestito così può offendere l'immagine di un altro corpo effettivamente privo di indumenti".
L'influencer ha spiegato così il gesto compiuto assieme alla collega: "La foto è pensata come espressione libera e artistica sul rapporto tra il corpo della donna di un tempo e quello moderno, e come esso stesso sia percepito artistico in un caso e diversamente nell'altro. Il contenuto è provocatorio ma senza scopo di lucro o denigrante".
Infine non è mancata una puntura agli Uffizi: "Eva ed io abbiamo dato al museo una visibilità che non ha mai visto in anni. In Italia siamo pieni di arte, ma non sappiamo pubblicizzarla.
C'è chi ha scritto che dovevamo cancellare la foto perché non abbiamo pagato un canone previsto per l'utilizzo commerciale delle immagini. Se questo è il problema, invito gli Uffizi a fare la loro richiesta economica". La polemica è destinata a continuare.
Da tpi.it - 11 novembre 2021
Si sente parlare sempre più spesso di imprenditrici digitali, influencer e fashion blogger che si sono fatte strada nel mondo di internet ritagliandosi lo spazio per creare un business di successo. Queste persone sono capaci di instaurare un dialogo diretto con gli utenti della Rete, consigliando e offrendo spunti creativi soprattutto per quanto riguarda settori specifici come abbigliamento, calzature e cosmetica ma non solo.
Tra le principali figure di riferimento nel panorama sia italiano che straniero troviamo Eva Menta, nata il 6 Ottobre del 1994 e con un fisico mozzafiato, sempre più al centro delle scene sui canali social. Su Instagram, principale piattaforma utilizzata per dialogare con gli utenti, il suo seguito è ogni giorno più ampio. Ormai la quota 3 milioni di follower è stata ampiamente superata e il viaggio della fashion influencer è destinato a proseguire ancora a lungo.
Eva Menta è il perfetto esempio di ragazza intraprendente che si è fatta da sola, scegliendo di puntare sulle sue passioni – moda, bellezza, viaggi – per trasformarle in un lavoro. Lo strumento offerto dal web, del resto, è davvero potente e imparare a utilizzarlo è la chiave per un successo 2.0.
Il punto focale del lavoro di influencer di moda è duplice: troviamo da un lato, come detto, la necessità di creare un ponte empatico con gli utenti del web, mentre dall’altro le grandi aziende e i brand più affermati nel settore di moda e bellezza che inviano prodotti da provare e indossare.
Le professioniste digitali come Eva Menta consigliano il loro pubblico, dando spunti creativi e di stile in fatto di outfit e non solo. In questo modo possono orientare lo shopping, moltiplicando le occasioni di collaborazione con sempre nuovi marchi e aziende nei vari settori e in campo internazionale.
La fashion blogger e influencer Eva Menta è bionda e con gli occhi neri, alta 1 metro e 75 centimetri. Il suo fisico statuario le consente anche di lanciare un messaggio positivo di amore verso di sé alle ragazze: vivere bene il rapporto con l’immagine che ogni giorno vediamo al mattino nello specchio è molto importante.
Soprattutto in un periodo storico come quello che stiamo vivendo. E’ appassionata di salute e fitness, ulteriori elementi che vanno a comporre il puzzle della sua incredibile scalata al successo. Il talento di questa modella italiana ha davvero sbalordito tutti e in pochi anni i numeri relativi alla sua schiera di follower sono cresciuti in maniera esponenziale. Non segue un particolare stile, un giorno veste comoda e l’altro street oppure indossa tacchi eleganti.
L’importante è porre al centro la ricerca di sé e della propria personalità: qualsiasi indumento o accessorio viene infatti interpretato da Eva Menta, che in qualche modo lo adatta a sé e lo rende suo. Oltre al lavoro da modella e influencer, ha anche altre passioni in primis shopping e viaggi. Pubblica e aggiorna in modo costante i suoi profili per stimolare l’engagement con il pubblico.
Eleonora Galli per rumors.it
Alessia Mucci, conosciuta sui social come Alex Mucci o Alexis, classe 1988, è originaria di Pescara. Il suo personaggio è uno dei più chiacchierati sui social e i suoi profili vantano più di 6 milioni di followers complessivi tra Instagram e TikTok per i suoi contenuti osé che oltrepassano i limiti della censura e del regolamento.
In particolare, su Instagram si mostra quasi sempre con maglie trasparenti che più che un effetto vedo-non vedo mostrano nella sua interezza il décolleté abbondante, oppure con slip succinti con l’obiettivo di mettere in mostra il tonico lato B.
Tuttavia, il fisico e le forme non sono tutto: Alessia nel 2013 si è laureata in Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Torino, cosa di cui si è vantata recentemente sul suo profilo TikTok in risposta da un hater.
Oltre all’ingegneria e ai contenuti per adulti, Alex ha anche la passione per la musica: nel 2019 ha firmato un contratto per l’etichetta di Jake la Furia pubblicando due singoli, F.P.F nel 2019 e Foto Nuda nel 2020.
Dopo il successo sui social, l’influencer e modella ha deciso di aprire anche un profilo OnlyFans, piattaforma per adulti creata per la pubblicazione di contenuti a luci rosse fruibili attraverso un abbonamento mensile. Nonostante Alex utilizzi e aggiorni quotidianamente il suo profilo OnlyFans, non rinuncia a postare scatti simili anche sugli altri social, in particolare Instagram: infatti, è raro trovare una sua foto vestita sul suo profilo.
Alessia ama condividere sui suoi profili anche qualche dettaglio della sua vita privata. Di recente ha dichiarato ai suoi followers di esserci trasferita in Svizzera e di aver ottenuto anche la cittadinanza.
L’influencer in questo momento vive insieme al suo compagno, lo speaker e creatore del Cerbero Podcast Mr.Marra con il quale, a volte, si diverte a pubblicare scatti di coppia, ovviamente sempre seguendo la sua linea narrativa.
Nel 2020 la coppia ha annunciato che sarebbero diventati genitori e nel 2021 è nata Asia Andrea. Come ci si potrebbe aspettare, il lavoro di Alexis ha scatenato non poche critiche da parte dei suoi followers che non vedono appropriato per una madre posare nuda sui social ed esporre, tra un contenuto osé e l’altro, la figlia neonata.
(ANSA il 26 ottobre 2022) - 'Blitz' stamattina agli Uffizi di "due modelle" che, in abiti succinti, si sono fatte ritrarre in foto davanti alla Venere di Botticelli e poi hanno pubblicato le immagini sui profili Instagram. E' quanto denuncia, in una nota, il capogruppo Fdi a Firenze, Alessandro Draghi, che afferma: "La Venere del Botticelli non può essere usata da costoro per uno spot indecente e mi pare strano che i custodi non se ne siano accorti, e che a distanza di diverse ore al direttore Schmidt non siano arrivate le indegne immagini delle due sexy influencer".
Draghi evidenzia che "agli Uffizi si entra secondo il regolamento" che prescrive "un abbigliamento consono all'ufficialità degli ambienti museali" e che "per le riprese fotografiche" è "permesso scattare fotografie alle opere ai fini di uso personale e di studio", mentre "per ulteriori diversi utilizzi (pubblicazioni o usi derivati anche per scopo commerciale) va richiesta apposita autorizzazione e corrisposto, ove previsto, il pagamento di un canone".
Per Draghi quindi "il regolamento è stato violato due volte: gli Uffizi chiedano la rimozione dei post che sfruttano l'immagine della Venere del Botticelli e sbeffeggiano il patrimonio artistico italiano; per stare in abiti succinti ci sono tante discoteche, evitiamo di farlo nel museo più importante di Firenze".
"Stamani agli Uffizi le immagini sono state subito segnalate, e il museo si è immediatamente attivato per richiedere la rimozione delle immagini non autorizzate ad Instagram. Evidentemente le due persone sono entrate al museo con le giacche chiuse, e si sono guardate bene, poi aprendole, di rimanere fuori dalla visuale dei custodi: altrimenti sarebbero state accompagnate fuori dal museo, come è avvenuto negli altri analoghi casi (rari) avvenuti negli ultimi anni".
Biografia di Alessia Andrea Mucci
Dal sito alexmucci.com il 16 luglio 2019.
Alessia Andrea Mucci, aka Alexis M, was born in the centre of Italy -Pescara- in 1988, and she lived there till the age of 19. Then Alexis moved to the north -Turin, Milan)- where she attended university and took her master degree as an Aerospace Engineer (2013). So, she decided to move to Australia -Sydney- where she stayed until 2016, working both as a pastry chef and bar manager in a famous Italian restaurant. Actually, Alexis has been working as a professional bartender since she was only 16. Once in Italy again, Alexis started to dedicate herself to the modeling and web influencer careers: till then, she had only taken part to some amateur photo-shootings.
Alessia Andra Mucci, aka Alexis M, è nata nel centro Italia – a Pescara – nel 1988, dove ha vissuto fino all’età di 19 anni. Poi si è spostata al nord – Torino e Milano – dove ha frequentato l’università e ha preso una laurea magistrale in ingegneria aerospaziale. A quel punto ha deciso di trasferirsi in Australia, a Sidney, dove ha vissuto fino al 2016, lavorando sia come pasticciera e barista in un famoso ristorante italiano. In realtà, Alexis ha lavorato come bartender dall’età di 16 anni. Una volta tornata in Italia, Alexis ha iniziato a dedicarsi alla carriera di modella e web influencer…
Grande Fratello e Barbara D'Urso, l'indiscrezione bomba: la sexy star Alexis Mucci tra i concorrenti "non famosi"
Da liberoquotidiano.it il 22 gennaio 2023.
Una concorrente molto famosa nel Grande Fratello classico, quello dei "non famosi". È Gabriele Parpiglia, nel programma Ultime dall'Isola, a lanciare la bomba sull'edizione 2018 del reality di Mediaset che quest'anno vedrà il grande ritorno alla conduzione di Barbara D'Urso. Il toto-concorrenti è già scattato e secondo il giornalista di "NIP" (not important person) quest'anno ci sarà ben poco. Nella casa dovrebbe entrare "una celebre fashion blogger seguita da milioni di utenti su Instagram e desiderata da molte case di moda", sottolinea il sito specializzato in gossip tv Trashitaliano.it. La fashion blogger, svela Parpiglia, è "tatuatissima del nord Italia, famosa nel suo settore. Un po' come è successo a Chiara Nasti all'Isola". E sul web è già partita la voce: la fashion blogger tatuatissima sarebbe Alexis Mucci, una sexy star al limite delle luci rosse. La temperatura è già bollente.
Alex Mucci, l'ingegnere aerospaziale con il fisico da pin up (12/04/2018)
Da popcorntv.it il 22 gennaio 2023.
Vitino da vespa, forme generose e labbra sensuali: ecco chi è Alex Mucci popolarissima su Instagram e su Facebook, dove vanta un seguito di migliaia di fan che la seguono in tutto il mondo. Ma non fatevi ingannare da quegli occhioni celesti e da quel fisico da pin up, perchè Alex Mucci ha dalla sua anche il possedere un grande cervello, dal momento che è un ingegnere aerospaziale. Chi è Alex Mucci Il suo vero nome è Alessia ma tutti la conoscono come Alex Mucci, classe 1988 è originaria di Pescara dov'è nata il 17 gennaio.
Fin da piccola ha sempre avuto la vocazione da un lato per lo studio e dall'altro per il mondo della moda e dello spettacolo. Subito dopo l'esame di maturità, infatti, la Mucci ha deciso di iscriversi a ingegneria aerospaziale arrivando a conseguire la laurea anche se questo l'ha portata a lasciare la sua città natale all'età di 19 anni per trasferirsi dapprima a Torino, successivamente a Milano e in seguito a Sydney, in Australia.
Una volta lasciata l'Italia, Alex Mucci ha vissuto per un periodo in Australia dove ha iniziato a lavorare sia come bartender che come manager di un ristorante italiano. Una volta rientrata a Milano, inoltre, Alex Mucci ha frequentato anche la scuola Flair Academy, una scuola di barman, dov'è stata sia una studentessa che un'insegnante. A far impazzire i suoi fan, inoltre, è stato un contest che Alex Mucci ha lanciato sul proprio profilo Instagram, interamente dedicato al calcio, in cui ha messo in palio una maglietta della Serie A e un video con un saluto. I vincitori dovevano indovinare il risultato esatto del match Milan Lazio.
Curiosità su Alex Mucci
Alex Mucci è una patita del fitness, e il suo fisico ne è una testimonianza. La influencer pratica nuoto, pilates e tacfit
Seno&Coseno presenta Alex Mucci
Da senoecoseno.it (30 marzo 2016)
Si chiama Alex Mucci, ha 28 anni ed è nata a Pescara il 17 gennaio del 1988; ci racconta che ha vissuto nella sua città natale fino ai 19 anni, dopo la maturità infatti si è trasferita nel nord Italia, dove ha vissuto per tre anni a Torino e poi altri tre a Milano, insomma Alex è una ragazza che non si ferma mai!
Al politecnico di Torino ha conseguito la laurea in Ingegneria Aerospaziale; subito dopo la laurea è partita per l’Australia, dove ha vissuto a Sydney per due anni fino al dicembre 2015 dove ha lavorato come bartender professionista ma anche come manager di un noto ristorante italiano nel centro città; Alex ci racconta infatti che sin da piccola ha ricercato una certa indipendenza!
Successivamente ha frequentato corsi di bartendering presso alcune delle più prestigiose scuole italiane come Planet One e la Flair Academy di Milano; successivamente lei stessa ha insegnato nella stessa Flair Academy. Come se non bastasse Alex è anche una pasticcera, amante infatti dei dolci ha dato libero sfogo a questa passione anche in ambito lavorativo. Oltre hai suoi hobby in cucina Alex ci racconta di essere una vera appassionata di sport tra cui il nuoto e attività come il pilates e il tacfit.
A settembre riprenderà gli studi a Milano per conseguirà il dottorato in Ingegneria, per il quale noi non possiamo che augurarle buona fortuna! Alex ci ha davvero conquistati e noi ve la presentiamo con una gallery davvero speciale, voi non dimenticate di seguirla sul suo profilo Instagram ufficiale!
Eva Riccobono.
Estratto dell'articolo di Paola Pollo per corriere.it giovedì 17 agosto 2023.
Papà Giacomo quando ancora era una ragazzina decise di insegnarle il palermitano, quello del centro, dei mercati di Ballarò e della Vucciria. «Eva devi parlarlo meglio di tutti noi, così non penseranno che sei una turista ma una del posto e ti tratteranno di conseguenza», le diceva. «E così il mio dialetto è il più dialetto della famiglia. E pensate le facce quando facevo la spesa al mercato, alta e bionda e con la erre arrotolata, non appena cominciavi a parlare in siciliano stretto ma stretto, dall’altra parte del banco quasi svenivano».
Già, chissà. Poi, forse, è da qui che comincia la Eva Riccobono che ride e scherza e stupisce. Quarant’anni tondi tondi, è stata fra le modelle più famose al mondo, ora è attrice e scrittrice. È lei che ci porta per mano nella Palermo in cui è nata e cresciuta, da padre siciliano e mamma tedesca: «Fino a 19 anni non mi sono mai mossa da lì» racconta oggi entusiasta di parlare della città che è il suo cuore.
«Poi ho cominciato a viaggiare, e parecchio, direi. Ma lì sono le mie radici, il mio tutto. Ogni anno ci torno con i bambini e Matteo ( Ceccarini, suo marito, ndr): ci sono la mia famiglia (i genitori e le due sorelle, ndr), gli amici, gli affetti. A Pasqua e a fine agosto. E quando arrivo sono Eva. Eva e basta […]».
Il luogo del cuore?
«In assoluto è un paesino vicino che si chiama Scopello. Un luogo bellissimo dove io vivevo da giugno fino a settembre, finita la scuola. C’era questa piazza e questa gebbia ( tipica vasca-cisterna usata in campagna, ndr) dove l’acqua era potabile e noi ci divertivamo un sacco. Ci conoscevamo tutti e anche oggi quando vado ritrovo la gelataia di quando ero ragazzina e altri volti amici, mi si apre il cuore. Un posto magico insomma, dove mangiavo, ma in realtà lo mangio ancora, il panino “cunzato” più buono al mondo: pomodoro, primo sale, origano, acciughe, olio buono e pane cotto nel forno a legna. Puoi cercare di replicarlo ovunque, perché la ricetta è semplice, ma come in piazza a Scopello, mai!».
In città?
«I posti più belli di Palermo sono i quartieri del centro storico, quelli che partono dal vero cuore della città, i Quattro Canti, dunque i vecchi mercati cioè Ballarò o la Vucciria. Oggi le nuove generazioni hanno deciso di prenderli in mano e di ri-vitalizzarli. E ora sono quartieri sicuri che la notte si trasformano: i vicoli e le botteghe artigianali che si riempiono dal tramonto in poi di giovani. Con un’offerta di street food incredibile, di cibo e di vino e di birre artigianali. Lì sono proprio cresciuta facendo le serate più belle della mia vita, semplicemente stando in piedi a chiacchierare per le stradine. Un po’ fatiscenti, è vero.
Ma proprio per questo puoi respirare anche così la storia e la cultura della mia città e la diversità dell’architettura e della gente. Poi c’è una socialità incredibile. Sei con un amico e ne conosci altri cinquanta. Mi succede anche tutt’ora, quando “scendo”. In questi ultimi anni trovi poi molti giovani artisti alternativi stranieri: pittori, scultori, scrittori; tedeschi, inglesi o francesi che stanno lì e ti raccontano le loro storie e del loro innamoramento per Palermo che piace perché autentica. […]».
[…] C’è una comunità meravigliosa di persone fatta dei nuovi nuclei familiari di palermitani che hanno sposato ragazze venute dall’Africa e viceversa. E l’integrazione è diventata realtà […]».
Imperdibile?
«Il cibo: arancine, caponata, polpo fresco, ostriche e pane con la milza. Cosa te lo dico a fare? Penso sia lo street food di più alta qualità al mondo. C’è questo e quello, semplicità e tradizione. E il gelato, poi! Non c’è gelateria palermitana che non sappia farlo come si deve: su tutti i gusti, la cremolata che sembra una granita ma non lo è».
Il luogo “segreto”?
«Il quartiere Kalza con le sue chiesette e le sue piazze. A 22 anni me lo fece scoprire mio padre. Prendendo la patente a Milano, capii che alla fine non conoscevo così bene la mia di città. […] E poi il quartiere Ballarò, che è il più nominato e conosciuto ma non per questo ogni volta non mi stupisce. C’è sempre una sorpresa dietro l’angolo. Come quella volta che arrivai e mi ritrovai un megaschermo dove si proiettava un film d’autore. O quando mia sorella mi disse “vestiti che usciamo per andare a una festa in verticale pazzesca”».
Festa in verticale?
«Anche io non sapevo cosa fosse. Me lo spiegò lei: le organizzano le famiglie di uno stesso palazzo. Ad ognuno un compito. Quella volta invitavano gli inquilini di una casa tutta abitata da nordafricani: così trovavi il couscous al primo piano e i dolcetti al miele all’ultimo. Negli altri, musica e bevande e tanta, tantissima accoglienza e calore».
Un profumo di Palermo?
«Quello del mare che si infrange sulle scogliere. Che è diverso da quello che senti sulla spiaggia. È unico, lo riconosco appena atterro all’aeroporto e percorro la litoranea che mi porta in città».
[…]
La Palermo che non consiglia?
«La mia città ha un solo difetto, cioè che la sia ama così tanto da non vederne le pecche per troppo desiderio di protezione. Penso alla pulizia. Palermo potrebbe competere con qualunque altra meraviglia se solo qualcuno prendesse in mano la situazione. […]».
La Palermo che gli non si aspettano, ma che c’è?
«Quella che abbiamo visto la scorsa settimana. Che fa parte del carattere dei palermitani: l’unione. Centinaia di persone e famiglie dei dintorni, nelle campagne, che si sono date una mano le une con le altre per spegnere gli incendi. E prima che arrivassero gli aiuti. Questo può succedere anche per strada. Se ti succede qualcosa c’è sempre qualcuno che si offre di aiutarti. Ci sono disponibilità e solidarietà. Noi ci proteggiamo e proteggiamo chi è accanto a noi. […]».
Uno scrittore per scoprirla ancora meglio?
«Tra i Pirandello e i Camilleri dico anche Goliarda Sapienza, una scrittrice donna che a me piace molto. Il suo L’arte della gioia che mi fu consigliato da una signora armena che era seduta accanto a me a una sfilata mi ha aperto un altro mondo».
Eva Riccobono: «Nella moda non ho amiche. Scelsi Matteo per una notte, ma poi è diventato mio marito». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2023.
La top model: «Ferré? Lo prendevo in giro rubandogli i dolci
Eva Riccobono, palermitana con la faccia da tedesca. Figlia di un amore da Riviera romagnola?
«Figlia della immigrazione, più che altro. Mio papà Giacomo andò a lavorare in Germania con suo fratello e lì conobbero due sorelle: una era mia madre Elisabeth. Alla fine i due fratelli si sono sposati con due sorelle».
Matrimonio riparatore?
«Matrimonio d’amore. Mia madre mi raccontava che all’epoca in Germania arrivavano molti italiani, promettevano mari e monti, e poi scappavano lasciando la fidanzata tedesca incinta. Quando papà disse: “Torno a Palermo, sistemo tutto e poi torno”, mia mamma ha pensato “eccone un altro”. Invece lui è davvero tornato, l’ha sposata e hanno fatto altri quattro figli».
Lei è l’ultima.
«Io sono “l’errore”. Quando prendevo le parti di mia mamma, papà diceva: “Oh guarda che tua madre non ti voleva, sono stato io a dire di tenerti”. E allora io gli spiegavo che in psicologia queste frasi di un padre a una figlia erano vietate...».
Ci rimaneva male?
«Per nulla, ci scherzavamo su. Ho sempre visto il mio arrivo come un dono. Mia madre prima di me aveva avuto un aborto spontaneo: papà, che era un po’ magico, aveva convinto tutti che fossi il figlio di prima che stava provando di nuovo a venire al mondo. Ero sempre io, ho bussato due volte per nascere».
Perché si chiama Eva?
«Mia mamma, da buona tedesca con la passione per i tabloid inglesi, alle sue figlie ha dato dei nomi assurdi: Sabine, Gessica, Dàvina ed Eva. Sembriamo quattro pornostar».
Un’ultimogenita viziata o di quelle che se il ciuccio cadeva neanche lo si lavava?
«Entrambe. Come dice una mia amica, sono cresciuta mangiando dalla ciotola del cane. Ma in adolescenza, quando tutti erano indipendenti, ho avuto mia madre solo per me. Mi portava dappertutto e avevamo un bellissimo dialogo».
Un siparietto di casa sua a Palermo.
«Mio padre, verace, che con la “e” apertissima chiama mia madre, elegante come un cigno: “Elisabèèètta scendi giù a prendere l’olio”. E lei: “Giacomo, per favore, puoi non urlare...”».
Chi la riempiva di baci?
«Mio padre aveva il calore tipico dell’uomo siciliano. A volte chiedeva a noi figlie di fare la traduzione alla mamma delle sue battute piccanti. E lei: “Meglio di no, non so se avremmo avuto una relazione lunga se avessi capito quello che diceva”».
Una famiglia serena e senza fronzoli.
«Mio padre era un elettricista con un negozio di autoradio. Mamma una ex insegnante. Mi sono resa indipendente presto, non perché mi mancasse qualcosa, era la mia natura».
I suoi fratelli.
«Mio fratello Nicola, il maggiore, è morto a 19 anni in un incidente in moto. Quando perdi un figlio le famiglie si spezzano, invece, i miei hanno trovato un nuovo equilibrio. Ho riflettuto su questa perdita e ho capito che la morte di Nicola ha avuto su noi sorelle conseguenze diverse. Io sono stata la figlia “coprilutto”: ero la piccola, sentivo il dovere di rendere la vita più lieve a tutti».
In che modo copriva il lutto?
«Io e Nicola eravamo i tedeschi della famiglia, biondi, con gli occhi chiari, anche caratterialmente simili. Papà ha iniziato a trattarmi un po’ da maschio: ero compiaciuta di compensare la mancanza. Per tanto tempo mi sono sentita più uomo che donna e tuttora sono mascolina».
In cosa si sente maschio?
«Mi immedesimo di più negli uomini che nelle donne. Non sono competitiva e sono stata addestrata ad avvistare una bella ragazza in lontananza ed, eventualmente, anche a segnalarla: “Ragazzi, gnocca a ore 15”. Lo faccio anche con mio marito: non sono gelosa delle ex».
Come è stata scoperta?
«Ero fidanzata con un ragazzo che lavorava in una società di produzione. Un giorno sono andata a trovarlo a casa della famiglia Florio, dove stavano scattando per Vogue. Me ne stavo sul divano come una “piunca” e mi hanno detto che volevano farmi una foto».
Una «piunca»?
«Sì, un pesce lesso,in palermitano. Ero infastidita da quella attenzione: ho fatto uno sguardo del genere “ma cosa vuoi da me”».
Non le piacciono i complimenti?
«Certo ma se diventano molesti me la sbrigo da sola e dico: “Ciccio, smamma”».
La sua vita è cambiata inevitabilmente.
«Dentro di me sapevo che sarebbe accaduto qualcosa, che avrei viaggiato. Credo molto nel caso».
Una cosa bella del suo lavoro.
«Finalmente il mio essere alta, magra e piatta non era più un problema. Da piccola mi chiamavano “quattro ossa incatenate” o “Pianura Padana”. Sono fiera di non essermi rifatta il seno».
Una cosa brutta.
«Pensavano che fossi straniera e ai casting sentivo i commenti: “Non mi piace, c’ha la faccia da slavata, che noia”. Un fotografo mi disse: “Non vai bene, non esci, non sei fotogenica”. Poi l’ho rivisto quando ero diventata un nome».
Che cosa gli ha detto?
«Che non essere fotogenica mi aveva portato bene. A Palermo quando ci si prende la rivincita si dice “mi sono mangiato una fetta di carne”. Ecco, mi sono mangiata molte fette di carne».
Gli stilisti: Gianfranco Ferré.
«Una delle esperienze più belle: nella sua biografia ufficiale c’è il capitolo “Eva Riccobono”. Diceva che ero stata la sua ultima musa».
Come lo aveva conquistato?
«Essendo poco ambiziosa e giocherellona, non ho avuto mai il timore reverenziale. Nella moda c’è gente che pensa che stia salvando il mondo, io invece lo punzecchiavo: quando arrivavano i cioccolatini glieli rubavo sotto il naso. “Ma che bel cioccolatino! Peccato che non lo puoi mangiare!”. Lui ricambiava con calci sugli stinchi».
Non lo chiamava architetto?
«No, lo chiamavo Gianfri. Gli dicevo: “Ma che architetto sei, quando mai hai fatto un palazzo?” Quando c’erano i litigi più pesanti, mandavano avanti me. Gli altri erano spaventati, io mi facevo avanti offrendogli una cioccolata calda».
Giorgio Armani.
«Lui è immenso. Quando ho debuttato al Teatro Parenti in Coltelli nelle galline diretto da Andrée Ruth Shammah è venuto a vedermi. A pochi minuti dall’inizio è entrato dietro le quinte un assistente: “C’è Armani in prima fila!” Non va mai da nessuna parte: un regalo grande».
Non ha avuto paura di fare l’attrice?
«Moltissima. Al Festival di Spoleto, sul palco, credevo di avere un ictus: non avevo più il controllo della bocca e delle mani, ma ho proseguito lo spettacolo. Poi all’ospedale mi hanno spiegato che ho avuto una iperventilazione, mi sono dovuta curare con integratori da atleta».
Chi ha creduto subito in lei?
«Mio marito Matteo: è stato lui a spronarmi».
Matteo Ceccarini, producer musicale, 11 anni più di lei , da 19 suo compagno e da un anno suo marito. Come vi siete conosciuti?
«Al Life Ball di Vienna. Era un periodo della vita in cui avevo deciso di fare tutto sbagliato: avevo 21 anni ed ero sempre stata buona e tranquilla. A un certo punto volevo provare tutto, compresa una “one night stand” con un ragazzo appena conosciuto che mi piaceva. Era lui».
Come è finita?
«Dopo la notte insieme, ho lasciato la sua stanza. Avevo in mente i discorsi dei miei amici maschi: “Eva, regola numero uno, la mattina vai fuori dalle balle, tanto a noi uomini della colazione insieme non ce ne frega niente”. Invece lui mi ha cercata: “Ma dove sei sparita? Torna”».
È geloso?
«Dice di no, ma forse un po’ sì: quando vivevamo in Inghilterra mi diceva che ero la Bellucci di Londra, slavata ma con un sottofondo mediterraneo. “Ti guardano tutti, anche qui”».
Ha mai sentito la differenza d’età?
«Di sera uscivo con il mio gruppetto di amici gay, al rientro lo trovavo sveglio con il libro in mano. Mi guardava e mi diceva: “Hai bevuto? Dai vai a letto”. Mi ha lasciata libera di crescere».
Avete due figli, Leo e Livia.
«Credo che la cosa che mi riesce meglio nella vita è fare la mamma, è un lavoro difficile, ti devi dare molto. Non ho voluto tate: Matteo spesso lavora da casa e mi dà una mano».
Laura Chiatti ha detto che l’uomo che aiuta in casa uccide l’eros.
«Laura è una cara amica e ci siamo sentite dopo questa inutile polemica: qualcuno si eccita con le tettone, lei con il macho. E allora?».
E allora?
«Basta con queste finte lotte. Vogliamo fare seriamente i femministi? Bene, siamo un Paese cattolico, dateci una Papessa».
Quando si arrabbia parla in palermitano?
«No, ma si aprono tutte le “e”».
Un detto siciliano che le piace?
«Cchiù longa è a pinsata, cchiù grossa è a minchiata: più ci pensi più rischi di sbagliare. Lo diceva anche Fiorello quando facemmo una gag a Stasera pago io».
C on chi le piacerebbe lavorare ora?
«Con Matteo Garrone, mi piacciono le persone autentiche».
Amiche nel mondo della moda?
«Le conosco tutte, ma non mi scambio confidenze con loro. Incontro con piacere Maria Carla Boscono, anche se all’inizio non mi sono sentita accolta da lei: era più scientifica ed è stata premiata per questo. Oggi è un’icona».
Ed Elly Schlein su «Vogue»?
«È il segno della modernità e della vanità che tocca tutti. Come diceva Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo : “La vanità è decisamente il mio peccato preferito”».
Eva Riccobono compie 40 anni: passerelle ma anche cinema e moda per lei. 7 curiosità. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.
A diciannove anni ha lasciato la Sicilia per andare a vivere Milano dove debutta come modella per gli stilisti più famosi al mondo. Nel 2013 è stata madrina del Festival del Cinema di Venezia
Il compleanno
Eva Riccobono compie il 7 febbraio 40 anni: è stata per anni una delle modelle italiane più richieste al mondo e partecipato alle diverse settimane della moda in giro per il mondo, comparendo sulle riviste patinate più conosciute ma anche diventando brand ambassador di diversi marchi legati al fashion system. Eva è nata a Palermo dove è cresciuta insieme alla madre Elizabeth (tedesca), al padre Giacomo (siciliano), alle tre sorelle maggiori e a un fratello maggiore che è venuto a mancare tragicamente quando la modella aveva solo quattro anni. A diciannove anni molla la Sicilia e va a vivere a Milano dove debutta sulle passerelle di Alberta Ferretti e Blumarine. Poco tempo dopo, firma con Women Management e inizia a essere seguita dal famoso talent scout e manager Piero Piazzi.
Attrice
Ha iniziato la sua carriera da modella molto presto. Ma altrettanto presto realizza il sogno di diventare attrice e compare così in diverse pellicole tra cui “Grande, grosso e Verdone” di Carlo Verdone. Nel 2013 è Simonetta in “Passione Sinistra” ruolo che le fa vincere il premio Ciak d’oro come migliore attrice non protagonista. E sempre nel 2013 è lei la madrina della 70esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
In tv
Nel 2002 partecipa al programma televisivo “Stasera pago io… in euro” (Rai1) a fianco di Fiorello. Il conduttore la sceglie per il suo modo tutto particolare di rappresentare la Sicilia: alta, bionda e con gli occhi azzurri.
Vita privata
Eva Riccobono è impegnata dal 2004 con il produttore musicale Matteo Ceccarini, con il quale vive nella città di Londra, e dalla cui relazione sono nati due figli: Leo e Livia, quest’ultima nata il 20 luglio del 2020. I due sono affiatatissimi.
“La bellezza non basta”
"La bellezza, però, non basta. Ai casting ce n'erano cento di ragazze più belle di me. Serve che sia accompagnata dai pensieri e dalle sfumature di un essere umano" ha raccontato nel 2021 la Riccobono, protagonista alla Milano Beauty Week, la settimana dedicata alla cultura della bellezza e del benessere nata da Cosmetica Italia in collaborazione con Cosmoprof ed Esxence.
Divulgazione scientifica
Scienza in televisione: dal 16 aprile al luglio 2012 ha condotto su Rai 2 un programma di divulgazione scientifica. Il nome? «Eva», in onore proprio del suo di nome.
Foto cult
«Otto anni fa, come Maggie Maurer, pubblicai la foto in cui davo da mangiare a mio figlio nel backstage di una sfilata. Fece scalpore e ne sorrisi» ha detto Eva Riccobono di recente dopo che la foto di una modella mentre allatta in un backstage parigino ha fatto il giro del mondo. Quella foto è diventata un pezzo di storia non solo per Eva ma per tutte le donne.
Eva Robin’s.
Eva Robin’s: “C’è una cosa che non vi dico su Amanda Lear”. Redazione su L'Identità l'1 Luglio 2023
di FRANCESCO URRU
Trasgressiva al punto giusto anche su argomenti seri ma profonda, concreta e vera. Eva Robin’s ha raccontato il suo piccolo grande mondo. Sicura di sé, ha risposto a testa alta anche alle domande sul suo essere persona con orgoglio. Agli inizi della sua carriera era Dedalus nel film Hercules, pellicola con il celebre Lou Ferrigno. Le abbiamo chiesto notizie di Cassandra… e abbiamo provato a chiederle qualche curiosità in più.
Ha fatto praticamente di tutto, dalla recitazione alla tv passando per la musica e radio, diventando anche un’icona; se le proponessi un di darsi un voto per le cose che ha fatto?
Partiamo dalla recitazione…
Come attrice posso sempre migliorare. Il cinema ha questo linguaggio “a singhiozzo” che permette di rifare la scena, il teatro chiaramente no. Se dovessi darmi un voto però, direi sette, anche se non amo parlare di numeri nel senso che non mi sono mai piaciuti e non ho molta confidenza. Come cantante sono scarsina, più un’interprete. Ho portato in scena per tre anni a teatro “8 donne e un mistero” con la regia di Claudio Insegno. Cantavamo le canzoni di Rossana Casale, era tratto da un film di Francois Ozon, e lì teatralmente funzionava.
Se sarò un un’icona lo diranno i posteri (ride). Stamattina ho chiesto un paio di informazioni a delle donne che hanno dapprima hanno la sensazione di avermi già vista, gli uomini non tanto. Ho una popolarità straordinaria, posso fare quello che voglio: prendo l’autobus, il tram, sono in mezzo alla gente e non vedo segni di svenimenti. È importante per me perché mi permette di osservare le persone, guardarmi intorno anche per prendere ispirazione per lavorare senza calca.
Non è mai stata coinvolta in episodi d’odio o insulti?
No, a parte una pazza che secondo me non aveva preso la pillola della tranquillità. Mi urlava “Eva Robin’s deve morire”. Mi ha dato l’idea per la mia autobiografia, con sottotitolo “tanto prima o poi tocca a tutti”.
Invece come donna che voto si darebbe?
Direi femmina e mi darei come voto sette e mezzo. Ora vado a letto come le galline e al mattino, riesco a svegliarmi molto presto e mi vien comodo per prendere qualunque aereo anche nella notte.
E come uomo quanto come si valuterebbe?
Sono un discolo. Ho avuto un’educazione frammentaria, perché non sono mai stato un uomo, sono stata ragazzina, poi così detta ragazza. Sono un uomo pessimo, direi quattro e mezzo.
Severa…
No, lo dico lucidamente, non ho riferimenti maschili, vedo poi gli uomini intorno a me per la strada e penso “no io avrei fatto questo, io sarei stata così”.
Parlando di uomini e donne, dove sta l’amore per Eva Robin’s?
Dunque, intanto acchiappo più le donne, non so come mai, forse ho ereditato qualcosa da mio padre che era un Latin Lover ma faccio più colpo su di loro. Gli uomini hanno bisogno di altre caratteristiche per essere accalappiati e io non ho più voglia di mettermi in gioco. Noto una seduzione anche più sfaccettata, nei miei confronti, non verso la sessualità e noto più sfumature su questo.
Eva Robin’s ha l’amore in questo momento?
Esiste. Anche indirizzato verso più cose ed in questo momento verso più persone. Ho una compagna, è un rapporto speciale che non ha a che vedere con i rapporti tradizionali. Da 20 anni, io mi prendo le mie libertà e lei pure, poi ci ricongiungiamo e ci “lecchiamo le ferite”.
Se le dico 1982 cosa le viene in mente?
L’invito al Maurizio Costanzo show, mi volle conoscere.
Posso chiederle un pensiero privato vostro che c’è stato tra di voi?
Maurizio era molto colpito dalla mia fisicità, il fatto che avessi un organo in un corpo con una mente femminile. Ogni volta mi chiedeva se mi fossi “liberata”, me lo chiedeva però davanti a tutti. Nel privato era una persona affettuosa. Mi ha sempre circondato di gentilezza, sempre. Mi diceva di applicarmi, di studiare, anche nel momento in cui fossi diventata “imparata”.
Che emozione ha provato appena è iniziata la puntata?
Non ero cosciente di quello che stava accadendo, ricordo i balbettii miei.
Che rapporto ha con il suo pubblico dopo 40 anni di carriera?
Rapporti molto cordiali, riesco ad essere autoironica. Non essendo un personaggio magari come Valeria Marini mi permette di avvicinare le persone, scambiare qualche parola anche su cose leggere. C’è un trasporto veloce non esistendo una mia barriera del “divismo”. Questa cosa non mi allontana dalla gente, è un rapporto molto speciale che ho con una persona normale non famosa. Non ho mai subito nessuna violenza sinceramente, a parte che io non l’abbia chiesta (ride, capisco dopo la battuta).
Facendo qualche ricerca sul suo nome d’arte, come mai ha scelto di chiamarsi così?
Eva deriva dal personaggio di Eva Kant di Diabolik, visto che mi hanno sempre trovato una forte somiglianza. Il cognome Robin è preso da uno scrittore Harold Robbins (scrittore statunitense), nella casa in vacanza di Paolo Villaggio mi venne regalato un libro appunto di Robbins. La trasformazione con la S con la virgola costruisce il genitivo sassone inglese, e la traduzione di Eva Robin’s in italiano diventa l’usignolo di Eva.
Quindi legato alla transizione sessuale; ma in questo momento deciderebbe di completare il passaggio?
Le dirò una cosa che può decidere di scrivere o meno: di orifizi ne ho abbastanza. Oggi come oggi poi si tende ad allungarlo il membro, non toglierlo (ride).
Cassandra, psudonimo usato al posto di Eva Robin’s, dei tempi cantava, che fine ha fatto?
Disco Panther è stato tenuto fermo dalla casa discografica che già produceva Amanda Lear. È rimasta bloccata per evitarLe possibili intralci alla carriera, anche se sarebbe stato impossibile; ti dico, è una supposizione mia.
Una curiosità: lei e la Lear avete qualcosa in comune?
Si, il colore dei capelli, l’ironia molto queer.
E fisicamente?
Lei è molto alta, io sono piccolina. Lei fa giustamente il suo lavoro facendo certe domande, ma capita di non ottenere alcune risposte (ride).
Estratto dell’articolo di Michele Brambilla per repubblica.it il 7 maggio 2023.
La casa di Eva Robin's al Pratello è un'esplosione di solo apparente disordine: si cammina in ristretti spazi fra quadri, sculture, vasi, maschere antiche, vetrate. […] Ci sediamo nel salottino e lei comincia a raccontare un amore ormai troppo lontano.
Lontano quanto, Eva?
"Avevo 23 anni".
Come nacque?
"Durante una fuga. Ero in motorino e stavo scappando dai carabinieri".
E che cosa aveva mai combinato per essere inseguita dai carabinieri?
"Niente. Non avevo niente da nascondere. Ma loro sapevano chi ero, e a quei tempi... Ero una ragazza avventurosa, giravo anche di notte, in bici o in motorino. Mi capitava spesso di essere inseguita e fermata per 'controlli'. Come negli aeroporti: quando vedevano i miei documenti, con il nome maschile, volevano controllare. E mi perquisivano. Era un'epoca così: i transessuali non erano ben visti".
Torniamo a quella sera.
"Eravamo a Bologna, zona tribunali. Riuscii a seminare i carabinieri infilandomi in un senso vietato. Loro rimasero bloccati. Mi rifugiai al Centro Natura di via degli Albari. Era tardissimo, ma erano anche gli anni in cui a Bologna potevi cenare pure di notte. Mi sedetti e ordinai da mangiare".
Sola?
"Sola. Ma incrociai lo sguardo con quello di un ragazzo. Non ricordo se fui io o se fui lui, a prendere il coraggio. Ma presto ci trovammo seduti allo stesso tavolo".
Era bello?
"Piccolino, ma assomigliava un po' a James Dean e un po' a Charlie Chaplin. Ha presente che James Dean aveva un problema ai denti? Una specie di corona da canino a canino che ogni tanto si toglieva? Ecco, anche lui".
Sta dicendo che si innamorò di un ragazzo con la dentiera?
"Non proprio una dentiera, ma insomma, aveva dei denti non belli, rifatti. Però le mani... Guardando le mani mi faccio un sacco di fantasie. Le guardo sempre, sia agli uomini che alle donne".
Com'erano le mani di quel ragazzo?
"Callose. Mi piacevano molto. Erano le mani di un arrampicatore. E infatti faceva trekking, teneva dei corsi su come andare in montagna. Poi rimasi attratta anche da un occhio. […] Quello sguardo mi aveva stregato".
[…] Lui sapeva chi era lei?
"Sì, sì. Sapeva tutto. Sapeva che ero transessuale. Mi accompagnò a casa, allora abitavo in via Marsala. Salimmo. Guardammo la tv. E basta. Lui aveva una fidanzata, e poi era intimidito. Non mi volle, insomma. E io ero in una fase della mia vita in cui pensavo che la seduzione fosse la mia arma vincente. Quella volta rimasi sconfitta".
Uno smacco?
"Sì, uno smacco. Ero nel pieno della spavalderia e della superbia giovanile. All'epoca mi era molto facile sbottonare dei pantaloni. Quello fu il primo grande rifiuto. Ma mi è servito".
E dopo quella sera non vi vedeste più?
"Al contrario! Quella sera cominciò un grande amore durato cinque anni. Anche se mai consumato".
Mai consumato?
"Mai. Ma prendemmo a frequentarci con assiduità. Mi presentò i suoi amici, i suoi fratelli... Quell'anno andammo in vacanza tutti insieme in Jugoslavia, in tenda: girammo mari, laghi, fiumi, montagne. […] Quel viaggio continuo nella natura mi compensava della mancanza di un rapporto sessuale con lui […] anche dal punto di vista fisico è uno degli uomini che mi hanno dato di più".
[…] È stato un amore unico, per lei?
"Sicuramente un amore diverso da tutti gli altri rapporti di quel tempo. Allora ero una regina del sesso. Il suo rifiuto fu un duro colpo alla mia vanità".
Lei fu gelosa di lui?
"No, non me lo potevo permettere. Ma in genere non sono mai stata gelosa di nessuno. Poi credo che le persone gelose siano, alla fine, quelle meno fedeli. La loro immaginazione, che li porta a sospettare del compagno o della compagna, è dovuta alla propria esperienza di traditori".
Pianse per lui?
"Tantissimo. Ho avuto anche altre relazioni, in quegli anni. Ma io volevo lui. Il desiderio vive sulla mancanza. Si può desiderare solo una cosa che non c'è".
[…] Come finì quell'amore di tanti anni fa? E quando? E perché?
"Avevo ventotto anni, andai a Londra a fare un corso di inglese. Ero ospite in una famiglia. Presi il coraggio per scrivergli una lettera e dichiarargli tutto il mio amore. Non l'avevo mai fatto prima".
Lui rispose?
"No. Ma, stranamente, il fatto di averglielo detto mi liberò dall'incantesimo. Avevo buttato fuori tutto. E mi passò. L'avessi saputo prima, che sarebbe bastata una lettera, avrei evitato tanta sofferenza".
Lo rivide?
"Sì, sì. Quando tornai da Londra lui venne a casa mia, e a quel punto avrebbe voluto consumare. Ma a me era passata. Ero io a non averne più voglia". […]
Barbara Costa per Dagospia il 23 aprile 2023.
“Avete ridotto l’Italia a una montagna di m*rda!!!”, e se lo grida Gesù non solo c’è da crederci, ma da genuflettersi, e correre con Lui in strada, a manifestare, contro i politici, i potenti, i corrotti, industrialotti e alte cariche militari, untuosi e falsi, tutti, e clero compreso, clero vizioso e viscido, che fa Ultime Cene scatologiche e orgiastiche, con cortigiane nude, a 4 zampe, prone a ogni turpe circo sadomaso.
Ma rieccolo, il Gesù Cristo di prima, sempre più allucinato, pompato, scaz*ato, che li scaccia via, tutti 'sti p*rconi e relative m*gnotte, Gesù che però, ad esser sinceri, pure Lui ha commesso atti impuri, tra un miracolo e l’altro, tra ciechi e storpi e lazzari resi alla vita, Gesù ha sc*pato, con una, vieppiù tossica, da Lui salvata provvidenzialmente dallo stupro di una schiera di magnaccia, e questa fanciulla, si chiama Maria Maddalena.
Dove trovare un Gesù più alterato, gasato, saldamente indomito nel redimere l’umanità dai suoi peccati? E se poi questa umanità è italiana, sessantottina pure se è il 1979, ubriaca di strategie della tensione e servizi segreti deviati e stragi di stato e appelli pipposi di "io so" pasoliniani, attorniati di ammucchiate fetish… questo Gesù è passato al cinema, al genere eccentrico, filone erotico barra lugubre, nella prima prova cinematografica del regista Antonio D’Agostino, uno che il porno assolutamente non lo voleva fare, anche se, dopo questo debutto – andato malissimo! – si è buttato per ripicca e disperazione (ma ottimi introiti) nel porno, arrivando a flirtare con quello zoorastico.
Il film in questione è "La Cerimonia dei Sensi", che in origine si intitolava "Dimensione Delirio" e davvero questo titolo cassato avrebbe in pieno centrato quel che è un farneticante sgangherato calderone, a impianto cristologico, impasticcato di stomachevole e banale politichese. Film che è un porno ma che non doveva per il suo regista esser tale, bensì di denuncia, sociale, totale, di una Italia come la tacciava (ancora!!!) a fine anni '70 chi si fregiava impegnato e si pensava e esaltava senza il minimo dubbio dalla parte giusta della Storia (per me, sc*pavano poco).
L’Italia è da rovesciare, bruciare, intera da rivoluzionare, e che bello farlo da dietro la macchina da presa secondo un plot che, è chiaro, per il regista D’Agostino era il massimo e che fila come segue: siamo talmente rivoluzionari e all’avanguardia che ci rifacciamo a Gesù e a ciò che Pasolini ha salmodiato nei suoi ultimi film, ceeeeerto, e ci mettiamo la morale in scene immorali e di sesso che è brutto, sporco e cattivo: in questa maniera noi puri salviamo la Nazione dall’etico strapiombo.
Sicché, per Antonio D’Agostino, Gesù torna sulla Terra non veramente ma (scelta parac*la) nella mente KO di uno stuntman in coma dopo un incidente stradale e stuntman che, tra la vita e la morte, sogna di essere un Gesù protestatario e agitatore che fa il casino che ho descritto prima, e che delirante partecipa alle manifestazioni politiche (nei '70 ci stavano fissati, e specie nelle grandi città, in strada a strillare e a menare perché qualcosa di meglio non si aveva da fare né da pensare) e un Gesù che è il Bene pure se transige il Sesto Comandamento. Un Gesù che il popolo italiano non aspettava altro, e ci va dietro, convinto. Un Gesù che dal Potere è fermato, infine chiuso in manicomio.
Questo film è passato alla Storia non per il suo messaggio a cui il regista Antonio D’Agostino tanto teneva, e nemmeno per i mal di stomaco dei critici (che lo hanno recensito “squilibrato, irrisolto, ambizioso, eccessivo, surreale, trash”) ma per l’esordio nel porno di Eva Robin’s, che qui nemmeno si fa chiamare come nei porno successivi, Eva Coatti, il suo vero cognome, ma unicamente Eva, nella locandina strombazzato “l’unico vero ermafrodito!”.
Strano che il lungimirante D’Agostino non abbia sbraitato di fronte a tal decisione edoni-consumistica, ma forse non è potuto intervenire perché locandina e frame sono parte del massacro su questo film operato dai distributori, i quali, in netta contrarietà ai voleri del regista (che li denuncia) trasformano "La Cerimonia dei Sensi" in un porno fantapolitico, con scene hard aggiunte, realizzate con performer top secret. Il clou dell’ultima cena orgia, a antipasto di fellatio, con Eva Robin’s che sbuca da dietro un divano a forma di labbra e si scatena in un rapporto non si sa se fino in fondo orale e penetrativo con Annj Goren è, se non sbaglio, l’unica sequenza di sesso che D’Agostino avrebbe diretto.
Invece i distributori ve ne immisero tantissime altre, massimamente porno, allungando la solfa dagli iniziali 86 minuti a un’ora e 53, con momenti senza audio, e mi dicono circoli una versione con pornoattori che fanno sesso non simulato sguazzanti in una vasca colma di polistirolo.
De "La Cerimonia del Sensi" ci sono tre versioni "ufficiali": quella originale del regista, una con sequenze soft (che talvolta passa persino in TV, ma purgata), e una con atti porno fatti e finiti. Ne esistono altresì versioni vendute ai mercati francese e spagnolo e, se i porno-guardoni d’oltralpe si sono potuti gustare spezzoni porno soft inseriti a caso ma in cui si denuda la pornostar Sandy Samuel, quelli spagnoli, oltre ad eccitarsi davanti a copule porno che con la trama un cavolo c’entrano, hanno in bonus la scena di un ritorno di Mussolini (da loro, Franco era caduto da poco…!), resuscitato dal Cristo protagonista rimbambito dai più destrorsi. Scena prontamente troncata dai censori governativi italiani.
Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2023.
Un genere tutto suo e il destino di essere «un manifesto politico vivente». In due parole Eva Robin’s. Attrice, cantante, personaggio tv, classe 1958. Eva è stata uno dei primi personaggi trasngender ad occupare e sconvolgere, ma sempre con ironia e eleganza, il mondo dello spettacolo italiano. La intercettiamo in viaggio tra Pisa, dove vive, e Milano dove in questo fine settimana, al Teatro San Babila, è in scena con L’Avaro di Moliere per la regia di Andrea Buscemi che è anche il protagonista, Arpagone.
Torna a teatro all’indomani di una giornataccia pre-elettorale... (era candidata in una lista, Centro, capitanata proprio da Buscemi che puntava a diventare sindaco di Pisa).
«Penso che ieri sia crollato tutto. Sono durata 24 ore (ride). Avevo fatto questa scelta per affetto ma quando ho capito che stava diventando un caso, ho lasciato. Non mi raccapezzo con la politica, con le dinamiche dell’informazione che se ne occupa. Non ho fede nella politica».
Ci consenta una battuta in più. Tra Renzi e Calenda che litigano a Roma e il suo candidato sindaco che si ritira a Pisa, ieri per i centristi è stato un vituperio...
«Che dirle... Ho capito che i politici sono come i pannolini, vanno cambiati spesso perché si sporcano». (sorride)
[…]
L’Avaro fa pensare alle ricchezze materiali. Lei che rapporto ha con il denaro?
«Ne ho avuto molto nei periodi fiorenti quando c’erano, negli anni ‘80 e ‘90, grande popolarità, i programmi in tv, i film. Poi col tempo ho dovuto essere più parsimoniosa perché scivolava via che era un piacere. Averne meno, però, mi ha insegnato molto di più che averne tanto. Faccio di più i conti con l’esistenza, pur non essendo un’economa...».
Nella sua vita ha incontrato amanti particolarmente avidi di danaro o tirchi?
«Sono un po’ di anni che non ho relazioni con uomini. Né generosi né con la manina corta. Sono una che prende il suo piacere in fretta e poi cerco di sbolognarli subito, l’ho imparato anche un po’ da loro... Non mi faccio offrire nemmeno una pizza. Per il resto ormai faccio parte di un gineceo di amiche. Gli uomini sono giusto delle saette che passano veloci. Anche perché il mio medico mi ha detto che devo avere rapporti ogni dieci giorni!». (ride)
Ogni dieci giorni, li trova pure veloci…
«Velocissimi! Tanto che non me li ricordo neanche!».
Lei ai tempi del Rubygate e delle olgettine, a proposito di un non avaro, difese Silvio Berlusconi. Ha mai conosciuto l’ex premier?
«Purtroppo non l’ho mai incontrato Berlusca, se non una volta da lontano quando venne in azienda a salutare noi che lavoravamo nei programmi di Antonio Ricci. Beh di quelle ragazze che altro dire: sono state delle ingrate».
Le piacerebbe tornare a fare tv, magari proprio con Ricci, il suo scopritore?
«Oggi con il politically correct quel tipo di televisione avant-garde che facevamo in programmi come Lupo solitario e L’araba fenice negli anni 80 non è più possibile. Io poi che non mi sono mai schierata devo stare ancora più cauta perché non ho le spalle protette da nessuno se non da me stessa. La tv comunque non è più il mio mezzo, preferisco la distanza del teatro».
E se la chiamassero per un reality?
«In realtà dovevo fare la 2ª edizione de L’Isola dei Famosi in Rai ma al direttore di rete di allora non piaceva l’idea di vedermi in costume. Avevo già il contratto in mano, quando ho letto su Dago che a questo direttore non andavo bene. Poi è andata Luxuria e ha vinto».
A proposito di “correct”, nel ginepraio di definizioni della comunità lgbt lei come si definisce: transessuale, transgender, donna trans?
«Mamma mia! Ormai non si capisce più niente. Sono uno dei generi che decide di non oltrepassare la frontiera. Mi vedo già finita e rifinita come sono, senza dover fare dei passaggi ulteriori, diciamo così».
Lei in passato disse di essere innamorata di una donna da molti anni. È ancora vero?
«È ancora così. Per fortuna non l’ho sposata per proteggerla. Allora non c’erano ancora le unioni civili».
Tecnicamente, mi passi il termine, sarebbe stato un matrimonio eterosessuale...
«Ma l’avrebbero definito adultero! Sarebbe stato comunque un colpo giornalistico perché uno dei due sposi era la Robin’s. Per questo non l’ho sposata, per proteggere lei e il buon nome della sua famiglia. Però siamo diventate ancora più amiche, ancora più salde. Il nostro non è il canonico rapporto sentimentale.
Ci vogliamo molto bene. Dormo spesso da lei che ha una bellissima tenuta. Io mi sposto dal centro, lei vive nella prima collina. Con gli animali, cani e gatti, come se fossero i nostri figli. Abbiamo ricreato una famiglia almodovariana. E stiamo bene così. Poi ogni tanto mantengo il mio vizietto, le sveltine di cui parlavamo prima». […]
Ezio Greggio.
Estratto dell’articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l'1 luglio 2023.
Yuppies, Montecarlo Gran Casinò, Vacanze di Natale '90: Ezio Greggio è stato il mattatore delle commedie di successo che hanno connotato gli anni Ottanta. Proprio a quell'epoca lontana, simbolo di euforia e speranza dopo il buio del terrorismo, rende omaggio il Conero Film Festival che si chiude stasera a Numana (Ancona) sotto la direzione artistica di Enrico Vanzina. E Greggio, 69 anni […] è tra gli ospiti d'onore.
[…] Cosa c'è da rimpiangere degli Anni Ottanta?
«Un po' tutto, e non solo da parte di chi faceva la tv come me. Per tutti gli italiani è stato un periodo magnifico all'insegna di spensieratezza, nuovo benessere, leggerezza. Un clima perfettamente descritto dai nostri film».
In che modo?
«Le nostre commedie avevano per protagonisti gli yuppies, professionisti rampanti che dalle loro scrivanie andavano alla conquista del mondo, gli italiani che scoprivano le vacanze a Cortina, a Montecarlo...»
Oggi la leggerezza si è persa del tutto?
«Temo proprio di sì. Il mondo è cambiato e ogni Paese affronta problemi enormi. […]».
[…] Ma i diktat del pensiero politicamente corretto vi lasciano lavorare?
«Al politically correct indirizzo un sincero "vaffa", sia chiaro senza connotazione politica alla Beppe Grillo. È un terrificante bavaglio alla satira, che si nutre di attualità, e alla stessa libertà di espressione sancita dalla Costituzione. Io sono per la linea di Checco Zalone e Striscia la notizia di cui ho condotto 35 edizioni: per far ridere non si fanno sconti a nessuno».
[…] Derivavano dal politically correct anche gli attacchi da lei ricevuti sui social per aver offerto aiuto alla mamma che aveva abbandonato il suo bambino appena nato? «Qualcuno ha cavalcato l'episodio in senso politico senza pensare all'aspetto umano della vicenda. Ma a darmi ragione sono stati i migliaia di ringraziamenti che ho ricevuto e i 18mila neonati che abbiamo salvato con le incubatrici donate dalla mia associanzione benefica. Vorrei sapere cosa hanno fatto per queste creature i miei accusatori».
Nel suo libro racconta gli scherzi. Il più cattivo?
«Durante la registrazione di Drive In, lasciammo per oltre un'ora appeso al soffitto Enrico Beruschi che faceva l'angelo. Ancora me lo rinfaccia». […]
Estratto dell'articolo di Laura Rio per “il Giornale” – settembre 2016
Ezio Greggio, un' intera carriera (33 anni) passata dentro Mediaset, vivendo e vedendo la storia della televisione privata italiana.
Quando è stata la prima volta che ha incontrato Berlusconi?
«La prima volta non si scorda mai, soprattutto col Cavaliere. 1983: ero appena entrato nella scuderia. Lo incontrai in via Rovani, molto simpatico, mi raccontò la sua visione della tv e quello che voleva fare. Negli anni successivi realizzò tutto quello che mi aveva anticipato. Parlammo di tutto. Di televisione, di case, di calcio».
Il debutto a Canale 5 nello storico Drive In di Antonio Ricci...
«Fu Giancarlo Nicotra, il regista recentemente scomparso, che mi portò a Canale 5. D' Angelo lo chiamammo dopo, quando nacque Drive In. Conobbi Ricci subito dopo il mio arrivo. Ad Antonio Berlusconi aveva chiesto di realizzare un varietà, voleva una sorta di Domenica In. Ricordo una riunione da lui in cui c' eravamo Ricci e io che gli mostrammo la puntata zero di Drive In. Ogni tanto si voltava dietro di noi e ci lanciava delle occhiatacce.
Dissi ad Antonio: Mi sa che ha capito che il nostro Drive In con Domenica In c' entra una beata mazza! Ci caccia a calci in c.... Finita la puntata ci disse: Non è quello che vi avevo chiesto...; gli allungammo la mano in sincro per salutarlo e andarcene, ma aggiunse: ...comunque intuisco che è forte: lo facciamo. Drive In durò 5 anni e cambiò la storia del varietà tv».
Come sono stati in tutti questi anni i rapporti con lui? Si faceva sentire spesso? Si racconta che intervenisse nella preparazione dei programmi...
«Ci si sentiva e ci si vedeva spesso, passava anche negli studi a salutare. Alle volte mi telefonava perché non gli piaceva come era pettinata Tini Cansino. All' epoca la tv era certamente uno dei suoi interessi primari. Alle volte si andava a cena con lui e lì scattava la gara delle battute e delle barzellette, di cui è sempre stato patito. Erano serate sempre molto divertenti.
E c' erano solo uomini: lui, Ricci, Urbano Cairo e io. Una sera una mia battuta lo fece scompisciare dalle risate, si voltò verso Urbano e dandogli una pacchetta sulle spalle gli disse scherzando: Perché non mi fai ridere come Ezio?. Urbano forse non raccontava bene le barzellette ma sicuramente aveva altre doti, infatti è diventato uno degli imprenditori più importanti del nostro Paese».
(...)
Capitolo calcio: il tifo per la Juventus lui glielo ha perdonato?
«Sul calcio e su Silvio potrei scrivere un libro. Appena comprò il Milan, a una cena da Giannino mi disse: Ma tu Ezio tifi per il Milan?. E io: No sono Juventino, sono nato in Piemonte. E lui: Guarda che Emilio Fede era juventino ma ora tifa Milan. Risposi sorridendo: Ahahah... no Silvio, sono e rimarrò sempre tifoso della Juve. Si fermò un attimo a pensare, diventando quasi serio e poi sbottò bevendo il caffè: Allora mi compro anche la Juve!.
Un' altra volta andai da lui a discutere un contratto, perché all' epoca con certi big trattava direttamente. La discussione riguardava un aumento di cachet. A un certo punto cominciammo a parlare di calcio, perché gli raccontarono che giocavo ancora in una squadra dilettantistica e qualche gol lo facevo.
All' improvviso mi disse: Ma se io mercoledì ti facessi giocare 10 minuti nell' amichevole che il Milan gioca al Bernabeu contro il Real, rinunceresti all' aumento?. Non esitai: Non c' è cifra. Certo, rinuncio subito. Non giocai a Madrid ma mi diede l' aumento senza più continuare la discussione. This is Silvio!».
Fabio Concato.
Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per repubblica.it sabato 8 luglio 2023.
(…) “Temo di sì. Prendiamo le donne: a parte Madame, una fuoriclasse, una che appena senti due note pensi ‘questa è Madame’, quasi tutte sono ottime fotocopie di voci anche belle, però troppo simili”.
(…)
Ci perdoni, non possiamo non chiederle del suo marchio di fabbrica: quanto è ancora bestiale, quella domenica?
"Oh, per me lo è stata moltissimo. A un certo punto non ne potevo più. E mi torna in mente quello che mi disse Gino Paoli: ‘Questa canzone finirai per odiarla, perché dovrai cantarla per tutta la vita. Farà la fine di Sapore di sale’”.
Aveva ragione?
"In effetti, io e Domenica bestiale per un po’ ci siamo allontanati, però il pubblico quasi mi menava se non la cantavo. Io ci restavo un po’ così, finché ho capito che la gente paga il biglietto anche per lei. A mente fredda, devo ammettere che Domenica bestiale è la canzone per antonomasia, pressoché perfetta nella scrittura. Non sono un falso modesto. E comunque, con Domenica bestiale siamo tornati a vederci non più di nascosto…”.
Un altro suo brano, “E ti ricordo ancora”, fu sospettato di omosessualità. Come andò?
"In tanti ci rimasero male quando spiegai che era solo un ricordo della scuola elementare, un’ingenua carezza tra bambini. Quando la composi, i miei discografici mi chiedevano: ‘Fabio, sei proprio sicuro? Vuoi cambiare qualcosa?’. Io non li seguivo, non capivo, non ci vedevo alcuna malizia”.
(…) Lei si è molto impegnato per i bambini, ha pure scritto una canzone per Telefono Azzurro: perché?
"Anche da ragazzo i bambini mi interessavano. E quando vidi un manifesto con il viso di un bimbo gonfiato di botte - ricordo che ero in coda in automobile, davanti a un cantiere - ho cominciato a pensarci davvero, e dopo un mese è nata la canzone. Non conoscevo le reali, drammatiche proporzioni del problema. I bambini sono fragili, e anche i ragazzi lo sono sempre di più: la pandemia ci ha trasformati in vittime vive, i più giovani specialmente. Alcuni hanno sbarellato”.
Telefono Azzurro significa opporsi alla violenza più subdola e quotidiana, quella tra le pareti di casa. Come combatterla?
"Evitando di abituarci, altrimenti si arriva a ritenere quasi normale picchiare un bambino o uccidere una donna. Ecco gli argomenti per i quali si dovrebbe scendere in piazza”.
Settant’anni cosa sono?
"Un modo per accettare di più sé stessi e meno gli altri. Però non è male, dài”.
Cosa dice nonno Fabio alla sua nipotina, la figlia di “Fiore di maggio”?
“Lei è ancora piccola, ed è difficile trovare le parole giuste per spiegare un mondo a volte inspiegabile. Ma qualche punto fermo resta. Tipo: mai essere asettici, seguire sempre il proprio gusto e la propria natura. E ricordarsi che la buona creanza non è debolezza o mancanza di carattere. Essere gentili non significa essere coglioni”.
Roberto Faben per “la Verità” sabato 8 luglio 2023.
Fabio Concato è così, come le canzoni che scrive e interpreta. Racconta una quotidianità minimalista, in cui si sogna di evadere da problemi piccoli e grandi, dalle follie della società, per trovare sollievo, magari in una gita domenicale in cui potrebbe consolidarsi un affetto, nascere un momento della migliore allegria, quella del condividere cose semplici. Classe 1953, è nato a Milano e ci ha sempre vissuto. Del 2020 è la sua prima canzone in dialetto milanese, L’umarell, storia di un anziano nella Milano atterrita dal Covid e ha vinto l’Ambrogino d’oro. Nel 2022 gli è stato assegnato il premio «Luigi Tenco».
Un commento su You Tube alla sua canzone Guido piano (1984): «La frase: “E quando mi sveglierò sarò migliore” ha fatto sì che io vincessi la mia guerra contro l’eroina. Grazie Fabio».
Allora non è vero che le canzoni non possono migliorare il mondo.
«A parte il piacere che fa questa notizia, che non sapevo, credo che la musica sia sempre servita. Sa quante vite sono state salvate con le canzoni? Lo so per canzoni di Eros Ramazzotti, Vasco Rossi, Antonello Venditti. Quando una canzone che scrivo è pubblicata, diventa degli altri. Ho visto persone malate di Alzheimer non riconoscere la mamma o la sorella, ma ricordarsi di una canzone».
Nel 1988 ha pubblicato l’album 051-222525, proventi devoluti a Telefono azzurro.Perché un genitore percuote un figlio?
«Chi lo sa quali sono i meccanismi. Mi accorsi che esiste Telefono azzurro negli anni Ottanta. Ero fermo in macchina, bloccato da uno dei tanti cantieri di Milano.
C’erano questi giganteschi manifesti. Quel faccino era vicino a whisky, automobili, collant, mi ha fatto ancora più effetto per questo. Qualche settimana dopo, in Toscana, ho scritto questa canzone. Ho registrato a Bologna, tutti lavorando gratis».
Immaginava che a picchiare il figlio fosse un padre alcolista…
«Era una delle possibilità. Il problema dell’alcol mi sembrava uno dei più evidenti. Ma ci sono altri motivi. Più l’infelicità aumenta più questo rischio c’è, la frustrazione gioca brutti scherzi. Non è casuale che, sotto le feste, i casi aumentino, c’è il Natale, a volte l’impossibilità di fare dei regali, la moglie ti fa magari capire che sei uno sfigato…».
(…)
Come ricorda la Milano della sua infanzia, la via dove abitava?
«Abitavo in una strada non molto bella, allora era periferia, via Massarenti, zona piazzale Brescia, che oggi è tutt’altro che periferia. Davanti a casa mia non c’era niente, solo un campo dove trovavamo grossi pneumatici di camion, con mio fratello andavamo in cerca di lucertole e poi abbiamo scoperto l’oratorio di San Protaso, di via Osoppo e lì è stata una svolta».
Come la trova oggi la città?
«La vedo peggiorata, purtroppo, sempre nei soliti posti, mi piacerebbe che le periferie fossero un po’ più animate, illuminate. Se vedo miglioramenti, è dove c’è la ricchezza e questo mi dà un po’ fastidio. Se intendiamo che City Life, con i suoi grattacieli o la torre dell’Unicredit siano un miglioramento, ciò è molto opinabile».
(…)
Fabio De Luigi.
Fabio De Luigi: «Ero un giocatore di baseball. Ferreri al suo ultimo film voleva picchiarmi sul set». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.
L’attore e comico, 54 anni: «Mai dire Gol? Gli amici mi criticavano». Tra Milano, sport e rivincite, come il suo ultimo film da regista, Tre di troppo
Un altro al posto suo non si sarebbe più ripreso. Preso a male parole da Marco Ferreri, uno dei suoi idoli, su uno dei suoi primi set. Ma Fabio De Luigi non si è lasciato scoraggiare. «Ho un ricordo molto vago, devo aver un po’ rimosso. Stava girando a Rimini il suo ultimo film, Nitrato d’argento . Io all’epoca ero abbastanza conosciuto in zona, facevo i miei spettacoli, e la casting director mi contattò per propormi un paio di pose. Giravamo una scena all’interno del celebre cinema Fulgor, dove si proiettava La grande abbuffata . Io interpretavo uno del pubblico. In uno dei ciak sbagliai non so più cosa. E ho urlato: Stop! Mi voleva picchiare. È uscito dalla sua postazione e mi ha urlato dietro. Io: mi scusi. Non l’ho mai rivisto. Il vantaggio, diciamo, è che da lì tutto è stato in discesa».
Non è il tipo da farsi prendere dal panico De Luigi. Cinquantacinque anni compiuti lo scorso ottobre, tanto mestiere declinato tra cabaret, televisione, cinema, ha imparato forse dal baseball — sport che ha praticato da professionista — l’arte di attendere il momento giusto. Anche per le rivincite. Com’è stata la sua seconda volta da regista, Tre di troppo , dove ha recitato al fianco di Virginia Raffaele, che, uscito il 1° gennaio,ha superato i 4.700.000 euro di incasso. Un vero lusso di questi tempi.
Buona la seconda?
«Mi era rimasta la voglia di misurarmi con la regia, dopo la prima esperienza, con Tiramisù del 2016. C’erano cose che non mi erano piaciute, errori, ingenuità, cose che avrei potuto gestire meglio nel doppio ruolo di regista e attore. È una commedia familiare su un tema che mi divertiva ma non solo, un film di coppia dove potessi lavorare con un’attrice che stimo come Virginia, ho pensato subito a lei».
Fare l’attore non le basta più?
«Mi sembra importante raccontare dal mio punto di vista, ho il sacrosanto desiderio di farlo. Ho sempre seguito da vicino, collaborato con i registi. Con la mia opera prima, Tiramisù , sono severo, sono il peggiore critico nei miei confronti. Cerco, spesso pur facendo commedie larghe o popolari, di metterci attenzione e amore».
Questa volta racconta una coppia che non vuole figli ma se ne trova, letteralmente, in casa tre e entra in crisi. Perché questo tema?
«La rottura dell’equilibrio in genere è voluta, si sceglie di diventare genitori, sapendo che cambieranno gli equilibri in casa. In questo caso i due protagonisti si trovano da un momento all’altro trascinati in una realtà inaspettata».
Lei recita, dirige, e balla. Di Virginia Raffaele conoscevamo già le doti, danza anche con Roberto Bolle. Lei invece l’avevamo lasciata ai balletti di Mai dire gol. Ha studiato?
«La passione dei due per il ballo era un modo per raccontare un’affinità di coppia che funziona. Sul set abbiamo preso un bravo coreografo, mi ritagliavo qualche ora per fare esercizio. Mi muovo a tempo, credo. Ma non ho le basi. Diciamo che ho lavorato di montaggio».
Abatantuono: «Le notti con Fo e Jannacci valevano un mese a scuola»
Teresa Mannino: «Per un amante ho rischiato di perdere la parte in un film. Clooney? Meglio Camilleri»
Francesco Pannofino: «Ho conquistato mia moglie con la voce di Banderas. Doppiavo anche i film hard»
Drusilla Foer: «Piena di corteggiatori. Ornella Vanoni prova le canzoni al telefono con me. Il mio marito scomparso? È tutto quello che avrei voluto avere»
Il momento più bello sul set da regista?
«La cena di fine produzione. Come tutti gli impegni di lavoro, li affronto con lo stesso spirito: spero di scavallarli».
Tra le tappe della sua biografia ci si imbatte anche nel baseball. Ha fatto sul serio.
«Ero un buon giocatore, un giocatore onesto».
Perché non scelse il calcio come tutti?
«Io sono di Santarcangelo, da noi quando ero ragazzino c’erano quattro o cinque squadre di baseball di quartiere, come possono esserci in una cittadina Usa o a Cuba. Erano i primi anni ‘80, c’era il mito del gioco del baseball».
Che ha regole molto complicate da capire, per alcuni impossibili.
«Con il senno di poi, mi viene da pensare che forse io mi sono avvicinato proprio perché non ne capivo le regole, per curiosità. Giocavamo nel vecchio campo da calcio riadattato. Ci sono delle bolle di questo gioco in Italia: Nettuno, Milano, nate speso intorno alle basi Nato».
Le capita ancora di fare qualche partita?
«Non posso più giocare, è troppo complesso. Non è come dare due calci a un pallone».
Si ricorda cosa voleva fare da bambino?
«Volevo fare quello che faccio, ho sempre voluto fare questo mestiere. Ma non l’avevo confessato a nessuno, tranne che a me stesso. Mi sembrava impossibile, solo la fantasia di un bambino. Dunque pensavo a strade alternative, tipo grafico pubblicitario, che allora era un mondo in espansione. C’era una scuola a Urbino a numero chiuso, ho tentato quel percorso, poi l’Accademia di Belle Arti. Ma era un modo per perdere tempo. Poi ho fatto il concorso Zanzara d’oro a Bologna, la selezione era selvaggia, mille persone al Teatro Duse. Mi presero».
Come reagirono a casa?
«Con una discreta dose di imbarazzo lo dissi ai miei, minimizzando».
Ma poi non smise più e se ne andò a Milano.
«C’era lo Zelig, il locale, che mi dava la possibilità di trovare quello che cercavo. Era come la Fiera campionaria dei comici. Se conquistavi una settimana lì ti vedevano in tanti e ti chiamavano ovunque. Iniziavo a lavorare molto anche dalle mie parti anche in piccoli teatri all’italiana come quello che è una vera bomboniera di San Giovanni in Marignano. Mi scrivevo i miei spettacoli, cominciavano a chiamarmi, grazie al passaparola».
Avrebbe potuto trasferirsi a Milano come tanti suoi colleghi, oppure a Roma, ma non ha mai lasciato Santarcangelo dove continua a abitare. Perché?
«Perché facevo questo mestiere, è un posto piacevole dove stare, proprio perché mi muovo tanto. Non so dire se sia stata una scelta ponderata. Come se ci fosse un elastico che mi riporta qui. A Roma, Milano, vado per lavorare. L’equilibrio vero lo trovo in autogrill»
Lei è nipote di Tonino Guerra. Che rapporto ha avuto con lui, le ha dato consigli?
«Ho ricordi bellissimi. In realtà ci siamo frequentati dopo che ho iniziato a fare questo mestiere. Qualcuno deve avergli detto che lo facevo. Fratello di mia nonna, io lo conoscevo come lo zio Tonino che scriveva i film e viveva a Roma. Ogni tanto andavo a trovarlo. Un poeta, un narratore, che c’entravo io?»
È stato un legame importante?
«Come si ha con le persone a cui ti lega l’affetto e un senso di appartenenza».
Negli anni in cui si è fatto conoscere in tv c’erano le scuole, i gruppi. Lei è sempre sembrato un cane sciolto. Sbaglio?
«Ho seguito la mia strada. Sì, sono stato abbastanza un cane sciolto. Non è che mi sia legato a qualche gruppo particolare, se mi piaceva una cosa, andavo».
I personaggi creati per «Mai dire gol» restano popolarissimi, tutti glieli chiedono ma lei non ama rievocarli.
«È che anche lì con la Gialappa’s, il mio desiderio era sempre cambiare. Anche nel caso dei più amati, io cercavo di mollarli per non sedermi, non annoiarmi. Ogni anno provavo a inventarmi altro. Per dire, sono stato felice dell’invito di Marco Mengoni al suo Lido di Sanremo per il podcast Caffè col limone. È un’idea nuova».
È sempre molto autocritico.
«Errori se ne fanno tantissimi, sono più forse le cose positive che devo cercare. Ma mi serve tutto, uso tutto, soprattutto gli sbagli».
In «Tre di troppo» mostra una gamma di genitori. Di sé stesso aveva detto a Chiara Maffioletti: « Sono un grande campione del passato di cambio pannolini. Ora i figli sono grandi, ho appeso il talco al chiodo. Ero anche un discreto cullatore e un grande inventore di storie della buonanotte. Mi interrogo su quante cose mi rinfacceranno da grandi». Si avvicina il momento.
«Adesso sono adolescenti. È necessario un aggiornamento costante con i figli. I grossi errori spero di evitarli. Mi dedico molto al ruolo, faticosissimo. È stata una scelta, abbiamo consapevolmente deciso di riprodurci. Il dispiacere è, semmai, averli avuti troppo tardi».
Cosa le dicono del suo lavoro?
«Io non ho mai spinto per fargli conoscere le mie cose. Credo si siano informati da soli, come per il sesso. Ho cercato di proteggerli, di normalizzare tutto della mia vita».
Cosa la fa ridere?
«Temo di non aver affinato il gusto. Le risate di pancia, fino alla lacrime, arrivano per cose basiche. O maestri come Peter Sellers. Posso rivederlo cento volte ne La pantera rosa , e mi diverto sempre. Le sospensioni. L’imbarazzo, cose che uno fa in buona fede. E mi fa ridere l’arroganza delle persone che però mi fa anche arrabbiare».
Quando ha capito che era arrivato, che ce l’aveva fatta?
«È stato credo a un Sanremo con Gialappa’s, passavo vestito da personaggio e mi riconoscevano. Ma non è che tutti mi hanno preso sul serio. Dopo la prima puntata di Mai dire gol, ho incontrato un vecchio amico. Ti ho visto in tv mi dice, fa veramente cagare, era molto meglio prima. C’era stato un rivoluzionamento del cast, dopo Aldo Giovanni e Giacomo, Albanese, era arrivato un gruppo quasi nuovo. Ho ostentato tranquillità e gli ho detto: grazie. Ma ci ero rimasto un po’ male».
Hobby?
«No francobolli o modellismo. Mi piace molto camminare, con o senza cane e andare in bicicletta. Cose un po’ da anziani. E poi disegnare mi rilassa parecchio».
Amici?
«Quelli storici, non sono tanti».
Prima l’ex ministro Toninelli, di recente il ponte sullo stretto rilanciato da Salvini. Non c’è pace per l’Ingegner Cane, non lo lasciano andare in pensione.
«L’ingegnere Cane, diciamolo, è colui che ha gettato il primo mattone. Il ponte sullo stretto va su tutto, come il tubino nero. Tutti calano l’asso. È un po’ un incantesimo che ti dà l’idea di non invecchiare mai. Ci tiene giovani».
Fabio Fazio.
Il Bestiario, il Fazigno. Giovanni Zola il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il Fazigno è un leggendario animale che per quarant’anni ha occupato la tv di stato inventandosi il buonismo televisivo
Il Fazigno è un leggendario animale che per quarant’anni ha occupato la tv di stato inventandosi il buonismo televisivo.
Il Fazigno è un essere mitologico conosciuto anche come The King of the Buonism. Il Fazigno è il massimo sostenitore dell’atteggiamento che si basa sull’essere buoni, tolleranti e comprensivi a discapito del realismo e dell’uso corretto della ragione. E’ quell’atteggiamento che passa per essere peculiare degli intellettuali, ma che in realtà nasconde un provincialismo disarmante, che tende a relativizzare i problemi sociali e morali. Il buonismo, in realtà, è solo un atteggiamento di facciata che nasconde ben altri intenti.
Il buonismo televisivo del Fazigno è sempre contro. Non è un valore assoluto, è una ideologia che nascostamente, dietro un sorrisetto e una battutina, si scaglia contro chi la pensa diversamente. Il Fazigno ha l’abilità di non metterci mai la faccia, perché lui deve apparire veramente buono e paziente, e fa fare il lavoro sporco ai suoi gregari, comici, virologi, attori e capitani di vascello, che finge di tenere a freno nel grande gioco delle parti. Così i suoi alter ego si possono permettere di dire la qualsiasi contro il nemico arrivando anche all’insulto personale perché non c’è peggior violento di un buonista.
Il Fazigno finge di essere un libero pensatore, ma non lo è per nulla. Esso ripete pari pari il copione scritto dal potere del pensiero dominante, anch’esso buonista e corretto. Il Fazigno è infatti assolutamente prevedibile, i suoi argomenti ricalcano la scaletta di un qualsiasi telegiornale. Il paradosso del Fazigno è che gioca a fare la vittima al potere. Tutto il mondo è contro di lui e dei suoi compari che si consolano con guadagni milionari.
Per mantenere la sua posizione che è durata ben quaranta anni, come la vituperata Democrazia Cristiana, il Fazigno ha leccato con abbondante saliva coloro che gli hanno consentito di mantenere il suo ruolo di mattatore più pacato della televisione di stato. Ma non era pacatezza era noia. I suoi fan lo difendono per essere stato l’inventore di un format televisivo culturale, dimenticando che un conduttore che intervista ospiti e comici sta solo copiando il Letterman Show e che la vera cultura appartiene a tutti altrimenti si chiama propaganda ideologica di parte.
Il Fazigno migrerà con i suoi compagni verso altri lidi continuando a seminare buonismo televisivo al fine di ingrassare il suo portafoglio di povero compagno di sinistra vittima di coloro contro i quali si è scagliato impunemente.
Anticipazione da “OGGI” mercoledì 11 ottobre 2023.
Alla vigilia del debutto sul Nove, dopo 40 anni di televisione e 20 di “Che tempo che fa” Fabio Fazio dice a OGGI, in edicola domani, che cosa tiene e che cosa butta: «Tengo il programma perché è la mia creatura. La vera sfida non saranno solo gli ascolti: c’è tutto da costruire, una rete da fare. Non sarà semplice riconquistare il pubblico e contaminare il canale con i nostri contenuti. Cosa butto? Ogni tipo di rancore e non perché sia buono: è un fardello che inquina».
Fazio torna sulla ricostruzione proposta dalla Rai e da alcuni giornali dei motivi del “divorzio”: «Ci sono giornali e trasmissioni fatti per menare. Io li ignoro. La verità è molto semplice: a maggio non si era ancora fatto vivo nessuno per il mio rinnovo e so bene che cosa significa nel codice aziendale. Il mio contratto in Rai non è stato confermato, è arrivata una proposta da Discovery- tra l’altro esposta su tutti i giornali - ma nessuno di viale Mazzini si è fatto vivo».
Intervistato anche sui suoi 40 anni di televisione racconta trasmissioni, puntate, interviste che ha più nel cuore, i «no» più difficili da digerire («Quello di Vasco Rossi, più volte. Mi dispiace, credo che abbia un mondo incredibile da raccontare»), qualche errore («Nell’ultimo Sanremo peccai di presunzione e di pigrizia, lo feci uguale a quello che avevo presentato l’anno prima e non andò bene. Lezione imparata») e molti aneddoti. Per esempio su Silvio Berlusconi: «La sua assistente mi chiamò il giorno stesso dell’intervista: “Il presidente le vuole parlare in privato”… Corro da lui che fa uscire tutti dal camerino, mi prende la mano e mi dice: “Posso darti un consiglio? Tagliati la barba. Ciao”».
Fabio Fazio: «La Carrà il primo turbamento. Non mi sento un martire. I soldi? Ora sono fatti miei». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2023.
«La Rai sta passando dal servizio pubblico a quello governativo. Se fossi davvero organico al Pd sarei ancora lì»
Fabio Fazio, domenica prossima si ricomincia.
«Ricomincio da Nove».
Quanti anni di Rai?
«Quaranta».
Esordio?
«Imitatore a Pronto Raffaella: 10 ottobre 1983. Non avevo ancora compiuto 19 anni, l’età di mio figlio adesso».
Chi imitava?
«Grillo, Troisi, Benigni, Corrado, Enzo Tortora. E poi quelli che non faceva nessuno».
Chi?
«Gli eroi del Mundial: Paolo Rossi, Antognoni, Bearzot. Più avanti, Gianni Minà».
Come arrivò da Raffaella?
«Dopo due provini. La Rai aveva lanciato il concorso “un volto nuovo per gli anni 80”. Era la risposta alle tv commerciali: loro ci portano via i personaggi, e noi li costruiamo. Il primo provino si fece a Genova, il secondo a Roma. Mi accompagnò mio papà, perché ero troppo ragazzino per andare a Roma da solo. Era la prima volta in vita mia».
Non era mai stato a Roma?
«No. Solo a Parigi, col dopolavoro ferroviario di Savona, con 300 mila lire risparmiate con fatica. Era il maggio 1983, la Roma aveva vinto lo scudetto. Andai a San Pietro e al Colosseo: c’era Venditti al pianoforte bianco che registrava il video di Grazie Roma. La giornata era fatta».
Cosa faceva suo papà?
«Il ragioniere. Impiegato alla provincia».
Chi la esaminò?
«Bruno Voglino e Guido Sacerdote, il più grande produttore della Rai, che con Falqui aveva firmato tutti i grandi varietà tv, mutuati dal teatro: un’autorità morale. Mi chiese cos’avessi di nuovo rispetto al provino di Genova».
Cos’aveva di nuovo?
«Niente: non pensavo che mi avrebbero chiamato. Facevo l’ultimo anno di liceo. Sarebbe come se adesso mi chiamassero per fare il corazziere al Quirinale».
Raffaella com’era?
«Me la trovai davanti in ascensore, mi salutò con un cenno del capo. Stavo salendo dagli autori, che erano Magalli e Boncompagni, e non sapevo se mi aveva riconosciuto o se dovevo presentarmi come il nuovo ragazzo delle imitazioni. Pensai con stupore che Raffaella era a colori. L’avevo sempre vista in bianco e nero».
Il tuca-tuca.
«Il primo turbamento, insieme con Lola Falana, che era bellissima, e Sylvie Vartan».
Ci sono ancora le immagini del suo esordio.
«Avevo un vestito di colore cangiante tra il grigio e l’azzurro, una sorta di reato, ero andato a comprarlo con mia mamma nel corso principale di Savona. Cravattina blu, piccolissima e strettissima, capelli a cespuglio tipo Napo orso capo… un’ingenuità incredibile. Finii a fare il programma della Carrà per cinque giorni, di cui uno di sciopero, e pensavo che questo esaurisse l’obbligo della Rai nei miei confronti. Invece la storia è andata avanti. Più di due terzi della mia vita».
Perché ha lasciato la Rai?
«È come se uno ti dicesse che non ti rinnova l’affitto di casa: o dormi per strada; o vai a cercare un’altra casa. Non me ne sono andato di nascosto. Ho avuto un’offerta importante ed entusiasmante per un ricominciamento. Da Warner Bros Discovery, un gruppo che mi cercava da sei anni».
Sì, ma con la Rai cos’è successo?
«A marzo l’amministratore delegato mi disse che non sarebbe rimasto e non poteva rinnovare il contratto. A quel punto cominciò la trattativa con Discovery. Lo scrissero i giornali, in Rai lo sapevano tutti: non sono scappato di nascosto col favore dell’oscurità. Semplicemente non si è fatto vivo nessuno e dunque ho capito che la storia finiva lì. A quel punto sono andato felicemente verso quella che considero una seconda vita. Penso sia la cosa giusta. È bello sentirsi voluti. Sono molto contento, e sono enormemente grato a Discovery con cui ho inizio una nuova avventura entusiasmante. Non dirò mai nulla contro la Rai, dopo tanto tempo passato non a mangiare nel piatto ma a cucinare quel piatto. È chiaro che questo lavoro si fa se si è voluti, e se si è utili».
«Belli ciao» vi ha salutati Salvini.
«Ha firmato l’uscita».
È vero che ha contato gli attacchi di Salvini contro di lei?
«Ero arrivato a 124. Poi ho perso il conto».
E il Pd?
«Se fossi organico al Pd o a chiunque altro sicuramente sarei ancora in Rai. Non sono mai stato difeso, con buona pace degli illustri colleghi secondo cui ero tornato su Rai3 grazie al Pd. Non ho mai avuto nessun tipo di aiuto, e non mi sognerei di chiederlo».
Perché?
«Perché se chiedi aiuto hai finito di fare il tuo lavoro. La libertà è una sorta di solitudine. Non vivo a Roma ma a Milano, con la mia famiglia. Non frequento quasi nessuno. Se avessi avuto qualcuno dietro, i miei anni sarebbero stati diversi, sarei ancora su Rai1 dove ero arrivato nel 2017. Guardo avanti senza rimpianti. Le cose fatte sono fatte, e hanno costruito quel che siamo. Oggi quel che siamo lo mettiamo al servizio del futuro. Comincio una nuova avventura, abbiamo quattro anni di tempo in cui possiamo finalmente provare a fare cose diverse e nuove. Sono molto sereno».
Qualcuno ha detto: Fazio fa il martire e va a guadagnare di più.
«Mi trovi una sola affermazione in cui faccio il martire. Ho detto che vado in un’azienda in cui mi sento benvoluto, a fare un lavoro ben pagato. E ho semplicemente raccontato come sono andate le cose».
Ben pagato quanto?
«L’aspetto meraviglioso di lavorare nel privato è poter rispondere a questa domanda: fatti miei. Mi hanno sempre chiesto quanto guadagnavo in Rai; non mi hanno mai chiesto quanto ho fatto guadagnare alla Rai. “Che tempo che fa” portava alla media di Rai3 oltre un punto di share. E un punto di share vale alcuni milioni di euro. Per 20 anni».
Avrete avuto anche dei costi.
«Mi fermo qui. Dico solo che se non avessimo avuto un valore, non ci avrebbero preso gli altri e non avremmo avuto mercato».
Su Rai3 lei andava in doppia cifra. A quale share punta adesso?
«Il paragone è impossibile. Discovery la domenica sera è attorno al 2. Mi piacerebbe raddoppiare».
Come funzionerà la trasmissione?
«Comincia alle 19.30, con un prologo tra me e Nino Frassica. Accanto a Luciana Littizzetto ci sarà Ornella Vanoni: una farà l’editoriale e l’altra il commento… Ci voleva qualcuno fuori dalle righe, del tutto libero, e abbiamo pensato a Ornella».
Lei Fazio senza la Littizzetto ormai non vive.
«Non credo ci siano altri casi al mondo di un comico, tra l’altro donna, che fa un pezzo di mezz’ora in tv ogni settimana da 15 anni».
Altre novità?
«Ubaldo Pantani fisso. Poi faremo qualche test, e vediamo come va».
Ospiti della prima puntata?
«Patrick Zaki, e spero un’altra meravigliosa sorpresa. L’importante è che i nostri telespettatori ritrovino il programma».
In Rai è davvero cambiato qualcosa con la destra?
«In Rai, ma onestamente più in generale nel Paese, si ha l’impressione che si sia abdicato all’idea di ciò che sempre è stato considerato pubblico, trasformandolo in governativo. Non è spoils system; è come se, quando cambia il sindaco, cambiasse il tragitto dell’autobus. E questa è una grande perdita. Perché sono sempre di meno i valori acquisiti, a prescindere dalle maggioranze che si alternano».
In Rai si è sempre fatto così.
«Non lo so, ma so che la tv si è sempre fatta aggiungendo, mai togliendo. È proprio l’idea in generale di servizio pubblico che trovo molto trasformata, e non vale solo per la tv. È come se ci fosse un premierato di fatto. Tutti considerano normale che pure la scuola o la sanità debbano rispondere al governo. Invece esistono valori che dovrebbero essere acquisiti. I vaccini, ad esempio: non è che sono utili o inutili a seconda di chi vince».
Come trova la Meloni?
«Nulla di peggio dei conduttori tv che parlano di politica…».
Insisto: come trova la Meloni?
«Ha fatto quello che pensavo facesse. Non potendo fare granché, sta dedicando molta attenzione a battaglie identitarie, nessuna delle quali mi sembra accettabile».
La Schlein?
«Ci sta provando, in una situazione complicata. Temo che la strada sia molto lunga e irta di difficoltà».
Salvini?
«Mi ha colpito quando ha detto che i migranti arrivano con il telefonino e le scarpe. Passi il telefonino. Ma le scarpe sono una cosa che definisce la nostra umanità. Gli animali non hanno le scarpe; gli esseri umani sì. L’ho trovata una frase di una violenza definitiva, senza ritorno».
Come ha fatto ad avere ospite il Papa?
«Frequento la comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante e don Davide Banzato. Incontrai il Papa anni fa, e gli dissi del mio banale desiderio. Qualche volta ci siamo scritti o salutati per interposta persona. Poi ho sentito che fosse il momento opportuno per invitarlo, e lui mi ha fatto rispondere: il Papa ha detto che quando sarà il momento lo sentirà. Un mercoledì pomeriggio ricevo una telefonata da un numero privato, pensavo fosse il commercialista. Era lui».
Cos’ha risposto?
«O mamma mia! E lui: no, Papa mio».
E Macron?
«Si era nel pieno della crisi dei Gilet Gialli. Lui fu affettuoso con il pubblico italiano, con Mattarella, ma in Rai non furono entusiasti. Eppure avevo intervistato il presidente della Repubblica francese, non il capo dell’Isis…».
Cosa succede a Mediaset?
«Mi sembra che Pier Silvio Berlusconi abbia avviato un nuovo corso. Ogni novità è divertente, muove il mercato, muove lo statu quo».
Tra quarant’anni avremo ancora la tv?
«Di sicuro non ci sarò più io…».
Dico sul serio.
«Già ora la tv è fatta di frammenti, la vocazione generalista è sempre meno forte. L’importante sono i contenuti, che i giovani seguono su varie piattaforme o sui social. Tra quarant’anni ci sarà ancora la visione a distanza, ci sarà sempre il modo di comunicare; ma che l’intrattenimento passi dalla tv mi pare difficile».
Lei è della Samp, Vialli e Mancini erano i suoi idoli oltre che suoi coetanei. Come ha preso l’addio del ct della Nazionale?
«Auguro ogni bene a Roberto, ma penso che l’uscita non sia stata felice. Avrebbe dovuto spiegare meglio i motivi».
I soldi.
«Mi pare ingeneroso e superficiale: non credo ne avesse bisogno. Sarebbe interessante conoscere le circostanze che l’hanno portato a prendere una decisione raccontata male».
Rai, Enrico Mentana: "Chi lascia l'azienda non deve fare il martire. Non esiste il diritto a essere sempre in onda". La Repubblica il 03 Giugno 2023.
I casi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata e l'intervento del direttore del Tg di La7 al festival di Dogliani. "Se accetti di lavorare in Rai sai che ci sono i partiti. Ogni volta ci sarà qualcuno che tenta di mettere i suoi uomini o le sue donne ma non c'è mai lesione della democrazia: c'è lo spoil system"
Chi lascia la Rai farebbe bene a evitare di voler passare da "martire" perché non esiste alcun "diritto inalienabile a dover essere sempre in onda". Da giornalista, con un'esperienza in tutte le grandi tv generaliste italiane, Enrico Mentana interviene, dal Festival di Dogliani, sui casi recenti di giornalisti che hanno deciso di lasciare la tv di Stato, come Fabio Fazio e Lucia Annunziata.
"Io credo che non ci sia niente di meglio che interrompere un rapporto senza fare scene madre o i martiri di Belfiore, senza lasciar intendere che con te o senza di te la libertà e la democrazia cessino di esistere. Nessuno di noi è insostituibile" dice il direttore del Tg de la7, "nessuno è nato con la missione divina di fare giornali o trasmissioni: un po' ce li siamo conquistati, un po' siamo scesi a patti. Ma non esiste il diritto di restare né di epurare", ha aggiunto il giornalista, per poi continuare: "Se accetti di lavorare in Rai sai che ci sono i partiti. Ogni volta ci sarà qualcuno che tenta di mettere i suoi uomini o le sue donne ma non c'è mai lesione della democrazia: c'è lo spoil system. Basterebbe una riforma di una riga, quella per sottrarre la Rai al controllo dei partiti".
Secondo Mentana "è molto semplice e gratificante fare il ruolo di chi è martire ma sarebbe più semplice fare delle scelte, motivarle ed avere fair play. È evidente e chiarissimo di cosa parliamo: non esiste un Maradona, tutti siamo onesti lavoratori. Nessuno ha il diritto inalienabile di essere sempre in onda".
Poi, certo, ci sono le differenze: per un Fabio Fazio, il cui "contratto di certo si fa in tre mesi non in tre giorni" ci sono altre situazioni come quella di Lucia Annunziata. Lei "a differenza di Fazio non ha un'altra tv in cui andare: se ne è andata dignitosamente dicendo però che non accetta questo governo. Ma non puoi lavorare nel servizio pubblico e dire di non accettare chi governa. Chi governa deve stare sotto il controllo dell'opinione pubblica e dell'informazione: a maggior ragione se non sei d'accordo devi stare lì".
Estratto dell’articolo di Paolo Festuccia per “la Stampa” il 28 maggio 2023.
“Ma quale Tele-Kabul o TeleMeloni Meloni d'Italia. Ti pare, «uno con la mia storia, democristiano da una vita che conosce come pochi altri il ventre e la pancia di quest'azienda si mette a epurare qualcuno…”.
Roberto Sergio ex grande capo della Radio pubblica è da solo pochi giorni (meno di dieci) al timone della Rai ma di fatti ne sono già accaduti tanti. È successo che Fabio Fazio dopo una vita lascia la Rai per Discovery, che Lucia Annunziata sbatte la porta e si dimette, che qualche altro big si dice pronto a fare le valige, che le nuove nomine e le decisioni importanti sono arrivate a minoranza come accadeva ai tempi di Baldassarre con il cda smart, e che per Rainews24 si accendono i riflettori della Commissione di Vigilanza.
[…] Del resto, la nuova geografia del potere a trazione meloniana chiede spazio per la sua narrativa sovranista e ha bisogno di interpreti e protagonisti originali per rappresentarla sul palcoscenico mediatico: nei talk, nelle reti ma anche e soprattutto (e qui li ha già avuti) nelle testate.
Di certo assicura Roberto Sergio, «nessuno di noi ha voluto cancellare o ridimensionare qualcuno», spiega. «Il mio primo atto in cda è stato quello di confermare tutti i programmi: a cominciare da Cartabianca, Mezz'Ora in più e Report», spiega.
Anzi, «con Fazio ci conosciamo dai tempi del Gioco del Lotto, una vita, dagli anni novanta, siamo amici e l'ho ringraziato». Non a caso, aggiunge, «ha annunciato la sua partenza il giorno prima che mi insediassi».
Un segno di «attenzione» secondo lei… «Un modo per dire che questa gestione non c'entra nulla». Già, e in verità, il contratto di Fazio è stato a lungo fermo - raccontano fonti ben informate - al settimo piano sulla scrivania dell'ex Ad Carlo Fuortes. Per questo dopo critiche e accuse, più volte lo stesso Roberto Sergio sfogandosi con i suoi diceva «ma cosa c'entro io, cosa c'entriamo noi…».
[…] Naturalmente, la commissione di Vigilanza poi valuterà la correttezza di Rainews24 per il comizio in diretta del centrodestra da Catania ma di certo, pare puntualizzare il capo azienda di viale Mazzini, «nel mio compito non c'è l'indicazione, né la richiesta di censurare qualcosa o qualcuno». Massima collegialità, insomma, pluralismo.
[…] Chi sostituirà Fazio, chi condurrà "In Mezz'ora" al posto di Lucia Annunziata? «Presto, ancora troppo presto per conferme o smentire ma siamo al lavoro». «Per mia fortuna – spiega Roberto Sergio – conosco perfettamente l'azienda e conosco anche tutti i molteplici aspetti che la contraddistinguono, così come conosco pregi e difetti dei professionisti che ci lavorano […]».
Un segnale questo a professionisti interni come Manuela Moreno o Annalisa Bruchi, che non esclude però l'arrivo di nuovi innesti esterni con il ritorno (ma non subito) forse da gennaio di Massimo Giletti orfano ormai di una rete e di un programma. Per queste ragioni, ma non solo, assicura Roberto Sergio: «Faccio ripartire il comitato editoriale […] composto da me, il direttore generale e tutti i direttori di genere in questa azienda era sparito, ora torna la collegialità». […]
«[…] Ora, non posso preoccuparmi anche per quelli che nessuno pensava di rimuovere ma che hanno scelto di lasciare l'azienda perché dicono di sentirsi minacciati, ma da chi…Il mio obiettivo sono rilancio dell'azienda, ascolti, mercato. Non sono qui per togliere ma aggiungere». […]
Il livore di Santoro contro Lucia Annunziata mette grande tristezza. Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023
Ospite di Floris su La7, Michele Santoro, pieno di livore contro Fazio e Lucia Annunziata. Mosso dalla rabbia e dal rancore. Come se ci fosse qualcosa di personale. Forse è solo la rabbia di chi è fuori dai giochi e nessuno lo chiama a condurre un programma tv.
Santoro e la Annunziata sono entrambi di Salerno, ma il loro cammino è stato molto diverso. Forse ci sono antichi rancori fra i due, ma quel livore ha messo una grande tristezza. (Aldo Grasso)
Santoro non li sopporta. Massimo Gramellini su Il Correre della Sera l'1 giugno 2023
Ha ragione Aldo Grasso: il Michele Santoro che a «Di martedì» sprizzava livore da tutti i pori contro Fazio e Annunziata mette una certa tristezza. E spiega una delle ragioni per cui in Italia la destra è più solida della sinistra. Immagino che nemmeno Vittorio Feltri, Belpietro e Sallusti si amino alla follia, però non li sentirete mai parlare male l’uno dell’altro in tv. E Matteo Salvini sopporta la Meloni ancor meno della Littizzetto, ma si guarda bene dallo spernacchiarla in uno dei suoi tweet adolescenziali.
La sinistra, politica e giornalistica, si divide invece tra massimalisti e riformisti, con i primi che considerano i secondi i veri nemici da abbattere. Conte e i suoi suggeritori mediatici detestano molto più il Pd di Fratelli d’Italia. E neppure il particolare che Fazio e Annunziata siano nel mirino polemico della stampa di destra induce quelli come Santoro a sospendere per un attimo le ostilità ed esprimere un minimo di solidarietà nei loro confronti. Anzi, sembrano quasi seccati, i massimalisti, che qualcuno osi scippare loro la palma di unici martiri autorizzati di qualunque regime filoamericano e capitalista.
I Santoro sono la cuccagna della destra, che li usa per dividere lo schieramento avversario e batterlo separatamente. È una storia che si ripete immutabile nei secoli: chi si sente in missione per conto della Rivoluzione finisce sempre per aiutare la conservazione e talvolta per propiziare la reazione.
Estratto da open.online il 31 maggio 2023.
Per la Rai gli addii di Fabio Fazio prima e Lucia Annunziata dopo sono stati certamente una perdita «perché sono professionisti validi» dice Michele Santoro che però a DiMartedì su La7 taglia corto sui due: «Io non sopporto nessuno dei due».
Al giornalista con una lunga e travagliata esperienza in Rai commenta con la solita schiettezza le polemiche sui due personaggi, contestando quel racconto il racconto vittimista al limite del martirio che accompagna le vicende di Fazio e Annunziata: «Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche – dice Santoro – Non è vero che Fazio è stato 40 anni ininterrotti in Rai, è andato via a lavorare a La7 quando era di Telecom, non ha fatto nemmeno una puntata…», a proposito di quel progetto detto “TeleSogno” che non è mai decollato, come ricorda l’AdnKronos.
«Fazio uscì da quell’avventura devastato, era molto più ricco di prima ma la gente lo guardava storto. Io non rientrai in Rai. Lui, invece, sì. Non è rientrato solo per i buoni uffici del suo agente, è rientrato anche perché la politica ha voluto che lui tornasse…».
L’Annunziata e “l’editto bulgaro”
Non è certamente più morbido Santoro quando passa a parlare di Annunziata: «Quando lasci la Rai dicendo che non sei d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che è stata il presidente di garanzia quando a governare era Silvio Berlusconi. Lucia Annunziata è subentrata a Paolo Mieli, che si dimise dopo aver posto come condizione il rientro di Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro.
Lucia Annunziata è subentrata. Questi due colleghi sono stati il perno attorno a cui è ruotata una politica culturale in Rai fatta di esclusioni». Santoro torna a ribadire che «l’azienda avrebbe fatto bene a tenerseli. Ma io non sono l’azienda e non sono un servizio pubblico che tiene fuori un pensiero diverso, che era fuori anche prima, quando loro erano al centro del babà…».
Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” il 31 maggio 2023.
Me lo ridica, per favore. «91». Non è vero. «È vero. Sono i miei anni. Come è vero che questo governo ha sulla Rai una incomprensibile voglia di vendetta».
Pensa a Fazio? «Anche». Quasi umiliante parlare con Bruno Voglino. Ha fatto tutto in tv. E se ricominciasse da capo lo rifarebbe di nuovo meglio di chiunque altro. Non c'è controprova.
Ma è ovviamente così. Vincitore indiscusso del Gran Premio Creazioni Autoriali (da Non Stop a Quelli che il calcio), leader mondiale nella scoperta di talenti. Cervello instancabile. Ha inventato Fazio. Ma prima Villaggio. E poi, alla rinfusa, e per difetto, Verdone, Troisi, Chiambretti, I Giancattivi (ci tiene molto ai Giancattivi). E ha fatto volare la tv delle ragazze. Nessuno meglio di lui per capire "Che tempo che fa" (affermazione banale, lui non l'avrebbe fatta).
Bruno Voglino, dopo 40 anni Fabio Fazio lascia la Rai.
«Non voglio esagerare. Ma c'è qualcosa di drammatico e di molto malato nel fatto che un professionista di quel calibro sia costretto ad andare altrove».
[...] L'addio era inevitabile?
«Sì. Era una questione che si trascinava da troppo tempo. [...] negli ultimi anni Fabio è stato isolato».
Che cosa significa?
«Che l'alto management aziendale l'ha ignorato del tutto, negandogli un rapporto chiaro e sincero. Sembra una cosa incredibile, considerando gli ascolti che ha fatto e il prestigio che ha portato alla Rai con i suoi programmi. Eppure è andata così: l'hanno trattato da ospite sgradito (...) Purtroppo questo governo è convinto che vincere le elezioni voglia dire decidere in solitudine. Ma in democrazia non funziona così».
In realtà chi vince le elezioni fa sempre così.
«Qui è peggio. Penso a un ministro che si chiama Salvini e si aggira di qua e di là dotato di mannaia cercando di colpire tutti i cittadini che non la pensano come lui».
(...) Questo governo ha un'incomprensibile voglia di vendetta». [...]
I maligni dicono: di che si lamenta, 40 anni pagati a peso d'oro.
«Pagati, banalmente, quel che meritava. A parte che il suo contratto prevedeva centinaia di puntate, se ti danno i soldi tu li prendi. E nella differenza tra il costo delle puntate e gli incassi dell'azienda, la Rai ci ha sempre guadagnato».
Salutando il pubblico Fazio ha detto: senza Voglino non sarei mai esistito. È stata la mia mamma televisiva.
«Bé, è stato molto carino, come sempre. È una delle poche persone che nell'ambiente si ricordano chi è stato determinante per loro. Spesso chi fa fortuna (anche meritatamente) tende a dimenticare chi li ha trasformati da bruco in farfalla».
(...)
Cosa la colpì di Fazio, 40 anni fa?
«Se ci ripenso ora mi viene da ridere. Per anni mi hanno perseguitato con gli sfottò.
Mi dicevano: ma quanto rompi con questo Fazio. E io: è intelligente, capace e vi stupirà. Solo Raffaella Carrà si accorse subito del suo valore».
Gli altri quanto ci misero?
«Parecchio. La svolta arrivò con Quelli che il calcio. Feci una litigata storica con Angelo Guglielmi per imporlo alla guida del programma».
Chi voleva Guglielmi?
«Dario Fo. Gridammo a tal punto che mezza Rai si affacciò nei corridoi. Gli dissi: la trasmissione l'ho ideata io e decido io. Molti anni dopo Guglielmi, che era un uomo serio, spiritoso e leale, mi ringraziò. Ora capisce perché Fazio mi considera la sua mamma televisiva?».
Meglio Fazio o Chiambretti?
«Chiambretti è stato un genio della televisione».
Però?
«Aveva un limite. Era straordinario, rapido, afferrava tutto al volo. L'ho amato e ammirato molto. Lo ammiro ancora, in effetti. Ma era un distruttore di cattedrali. Le buttava giù senza sapere come ricostruirle. E negli anni, continuando a fare ottima tv, ha perso un po' di quella eccezionalità».
(...)
Voglino, anche Lucia Annunziata lascia.
«La stimo molto. Mi dispiace davvero. Ma conoscendo il suo orgoglio professionale, la sua determinazione e il suo carattere, capisco che non poteva rimanere».
Gli ascolti della tv pubblica sono destinati a precipitare o è solo una paturnia della sinistra?
«Questa è una domanda impertinente, ma, certo, il rischio c'è. Non sente anche lei tutti questi dibattiti sugli intellettuali di destra?».
Sì, ma che c'entra?
«C'entra. La destra italiana è da anni una specie di rifugio degli sconfitti della Repubblica di Salò».
Durissimo. Per non dire ingiusto.
«Dice? Quelli bravi a destra sono pochi. E i mediocri molti. I veri intellettuali a destra si contano sulle dita di una mano. Massimo due” (…)
Nomi?
«Mi guardo ben dal farli. Non vorrei che diventassero dei suggerimenti. Questo governo non ha bisogno del mio aiuto per le sue malefatte».
Lei la guarda Discovery?
«Io guardo poca televisione, ormai. I Tg e il Toro. L'unica cosa che nessuno deve mettere in dubbio è la mia fede granata».
(...)
"Fazio e Annunziata? Se ne sono andati perché "hanno mercato..." Claudio Velardi, spin doctor ed ex braccio destro di Massimo D'Alema, commenta le recenti polemiche che hanno investito la Rai. Francesco Curridori il 28 Maggio 2023 su Il Giornale.
"È tutto normale e giusto perché penso che il mercato sia il miglior regolatore delle vicende umane". Claudio Velardi, spin doctor e braccio destro di Massimo D'Alema per la seconda metà degli anni '90, commenta così le polemiche sorte dopo l'addio di Fabio Fazio e Lucia Annunziata dalla tivù pubblica.
Fazio e la Annunziata, quindi, hanno fatto solo una scelta professionale?
“Il caso di Fazio è nato semplicemente perché ‘ha mercato’, nel senso che lui ha avuto da Discovery un’offerta che gli è piaciuta e ha deciso di accettare. Fine. Anche le dimissioni dell’Annunziata, al di là degli aspetti politici che secondo me sono secondari, riguardano il fatto che lei è una professionista che ritiene di poter far bene anche altrove. Non credo che lei non sia attenzionata. Anzi, è una professionista sufficientemente brava e capace da conquistarsi uno spazio nel mercato dell’informazione. Le dichiarazioni che hanno fatto sono quelle che devono dare, ma se entrambi pensassero di restare disoccupati, non le avrebbero fatte. Il vero problema è la Rai, carrozzone vecchio e in crisi di bilanci e ascolti, che non riesce a trattenere quelli bravi”.
Per quanto riguarda le nomine, invece, si è parlato di lottizzazione e di occupazione della Rai da parte della destra…
“Ma la Rai è lottizzata per definizione perché è un servizio pubblico che dipende dai partiti e dagli equilibri politici. È un ente para-statale in cui i partiti pensano di poter occupare delle caselle, ma sono solo illusioni perché i giornalisti che oggi si piazzano delle pecette sostenendo di appartenere, di volta in volta, ai Cinquestelle oppure a Fratelli d’Italia, se ne infischiano delle appartenenze e delle ideologie. Sono giornalisti che vogliono far carriera e si appiccicano un’etichetta, ma lo hanno già fatto altre 10 volte in passato con partiti di diverso orientamento. I poveracci che devono essere appaltati ai partiti sono dei giornalisti un po’ di serie B. Quelli che, invece, possono consentirsi di non essere appaltati a nessuno sono coloro che hanno un mercato. Tutto dipende da questo: chi ha mercato e chi no”.
PD e M5S hanno chiesto al direttore di Rainews di venire a riferire in commissione di Vigilanza Rai dopo che è stato trasmesso un comizio della Meloni. Ma con Draghi e Conte non vi era situazione analoga?
“Sì, queste cose, grosso modo, sono sempre successe. Non c’è nulla di nuovo. Il punto di fondo è che la commissione di vigilanza andrebbe sciolta. Su cosa vigila? Su quanto è presente un partito dentro la Rai? È un meccanismo grottesco che dipende dal fatto che la Rai è emanazione dei partiti”.
Il centrosinistra ha chiesto che Luca Barbareschi non vada in onda col suo programma per le sue frasi sessiste. Non si tratta di un caso di censura?
“Barbareschi è sempre abituato a queste uscite sopra le righe. Il suo pensiero non è omologabile. Se fa un’uscita del genere e, poi, viene imbeccato da qualcuno, essendo uomo di spettacolo e comunicazione, lui rincara la dose perché sa che, in questo modo, tutto fa più notizia”.
Anche Miss Italia è stata presa di mira in quanto sessista…
“Il concorso di bellezza mi pare un fenomeno molto vecchio e provinciale. Il principio però è un altro: se questi programmi fanno ascolti e la Rai acquisisce pubblicità con la quale pagare un po’ dell’enorme debito che ha accumulato e che paghiamo noi cittadini non c’è problema. Se è così, teniamoci pure il concorso di bellezza tanto io non lo guardo… La Rai trasmette tanti programmi solo per fare soldi oppure pensiamo ancora veramente che debba svolgere un ruolo pedagogico ed educativo?”
La faziosità di Fazio che non sta in piedi nella vicenda Rai. Fazio era esattamente quello che serviva al governo in carica, molto di più di quanto non sia servito a quelli precedenti. Giampiero Casoni su Notizie.it il 22 Maggio 2023
Ci sono due linee di pensiero nella vicenda Fazio-Rai che ancora “peppia” nel calderone delle cose che dividono: da un lato gli analisti pelosi che spiegano come il conduttore abbia “mollato” su input del governo di destra-centro, governo che proprio in questi giorni ha piazzato un suo “pasdaràn” storico come Giampaolo Rossi come Dg. Dall’altro quelli più talebani che credono, fermamente credono, che Fazio sia stato “cacciato” senza se e senza ma “dal governo” medesimo, ma senza il maquillage di protocolli sfumati perché oggi il governo Meloni delle prove di forza bruta è campione mondiale. Ed all’interno di queste due categorie, a voler flaggare ancora, ve ne sono altre due, le solite italiane, quelle polarizzate e in dicotomia sdrucciola.
Ci sono cioè quelli che sull’abbandono di Fazio della Rai ci hanno stappato la sciampagna e gli altri che ci vedono un nuovo diktat sul modello di quello berlusconiano contro Biagi, Santoro e Luttazzi illo tempore. Sbagliano entrambi ma pare tutto molto definito, netto ed incasellato alla perfezione in una serie di categorie che da sempre sono il rovello atavico degli italiani che di studiare un sistema complesso ed individuare uno scenario intermedio non ne hanno mai voluto sapere dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini.
I numeri monstre di un programma “sgradito”
Il dato cardine su cui poi poggerebbe l’intera faccenda sarebbe rappresentato dalla presunta “faziosità” del conduttore, che in virtù della stessa (e di numeri monstre per la rete pubblica) è rimasto saldamente in postazione fin quando a Palazzo Chigi ci sono state particolari tipologie di governo. Si, ma quali? Ovvio, almeno secondo il mainstream italiota: o di centrosinistra, quindi a Fazio graditi e in gradimento di Fazio, o di centro destra ma soft, quindi rispettosi in maniera sorniona di una pluralità che era la migliore bandiera della loro necessità di non essere troppo di destra. Il berlusconismo maturo infatti non avrebbe mai permesso, a differenza della sua primissima versione “bulgara”, che un programma come Che Tempo che Fa diventasse totem degli avversari. Insomma, come la si leggeva leggeva il dato di un “faziofazioso” sembrava essere inattaccabile, e da lì erano discesi gli attacchi di chi in quella linea ci vedeva un baluardo e di chi ci scorgeva una quinta colonna da abbattere.
Cosa è successo con l’arrivo del governo Meloni
Nel frattempo a Palazzo Chigi infatti è arrivato un governo non più di centro-destra, ma di destra-centro, ed è evidente che il distinguo non è quello formale della sequenza di collocazione ideologica, ma quello sostanziale di una nuova rotta che concede molti meno sconti o deroghe a certe posizioni prog. Attenzione perché è nelle prerogative di qualunque governo dare la rotta alla televisione pubblica, a meno che non la si rifondi sul modello della BBC britannica, del tutto scollegata cioè dalla politica attiva. Quello capitanato da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini con Silvio Berlusconi gregario (fra anagrafe tiranna e problemi di salute) è un esecutivo molto più manicheo nella proposizione brutale dei suoi valori fondanti. Lo è perché è un gruppo che non fa più perno su forze politiche a loro volta reduci da esperienze di governo, ma che ha la sua polpa, numerica e di prestigio, in un partito che ha conosciuto solo l’opposizione.
Un partito che, tranne che con l’Europa dove per questioni di danè deve fare di necessità virtù, vive ancora di polarizzazioni intense quanto scevre da compromessi. Ma Fabio Fazio è veramente così fazioso? E soprattutto, la sua presunta appartenenza ad una scuola di pensiero non certo di centro destra è stata davvero motivo sufficiente e condizione necessaria affinché lo si spedisse a far guadagnare Discovery al posto di Mamma Rai? No, assolutamente no, Fazio è andato via perché a Discovery gli hanno offerto di più e lui le skill per fare pesare sul tavolo la sua massa mainstream le ha e le usa. Legittimamente.
La faziosità spinta di Fazio che non sta in piedi
Che non dovesse essere lasciato scappare poi è un altro discorso. Basterebbe cambiare approccio e renderlo meno sanguigno per capire che Fazio era esattamente quello che serviva al governo in carica, molto di più di quanto non sia servito a quelli precedenti. Perché? Perché il conduttore ha sempre avuto posizioni nette ma morbide, ha assunto toni sempre concilianti e non ha mai fatto tracimare la sua creatura nel settarismo, piuttosto in una legittima collocazione d’area che sarebbe stata sponda perfetta per un universo politico in cerca di una patente di credibilità. E la riprova che la faziosità c’entra poco e quando c’entrasse è stata usata malissimo sta nel fatto che programmi come Report e Mezz’ora in più sono stati confermati in palinsesto, mentre un programma che richiedeva 450mila euro a puntata ma ne faceva un milione con step pubblicitari da 40mila euro a passaggio è stato resettato brevi manu e senza appello.
Il che significa una sola cosa: che il problema non era e non è tanto la faziosità di Fazio o le pulsioni epurative del governo, ma la leggerezza tecnica di chi non ha saputo fare strategia su un valore aggiunto solo perché valore eccentrico rispetto al nuovo pensiero dominante. Valore caro ma capace di ripagarsi e lasciare una robusta mancia.
Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 23 maggio 2023.
Com’era prevedibile, la dipartita di Fabiofazio dalla Rai è stata lamentata dalle prefiche pidine come le Coefore la morte di Agamennone: “Un nuovo editto bulgaro!”. Al che il de cuius ha umilmente dichiarato: “Nessun vittimismo e nessun martirologio: detesto entrambe le forme di autocommiserazione”. Implicando però che ne avesse motivo (ancora non si sapeva cos’era successo).
Che detesti il vittimismo, peraltro, fa sbellicare. Il giorno dopo l’editto bulgaro (il giorno dopo!) usò Repubblica per infilarsi fra le vittime della Rai berlusconiana: “Non sono gradito”. Occhiello: “Il conduttore attacca: ‘C’è stato un veto sul mio nome’”.
Fiorello l’aveva invitato a Stasera pago io (Rai1), ma la partecipazione era saltata. “Scelte tecniche”, spiegò Giampiero Solari, capo-autori del programma. “La nostra è stata una scelta libera e soltanto artistica. Non c’è alcuna connessione tra le parole di Berlusconi sulla Rai e l’esclusione di Fazio. La puntata era già definita, tutto qui”. Fabiofazio: “Probabilmente non sono una presenza gradita in questo momento. Avrei espresso la mia assoluta solidarietà a Biagi, Santoro e Luttazzi”.
Fabiofazio era fuori dalla Rai, essendo andato a cercare fortuna a La7. E l’aveva trovata: il suo show era stato cancellato a tre giorni dalla messa in onda e lui aveva intascato 28 miliardi di lire tra penali e buonuscite. Pare che il programma costasse troppo. Ammazza, più di 28 miliardi di lire? Chi faceva gli stacchetti, i Rolling Stones? Saccà, direttore generale della Rai, gli diede dell’ingrato: “Fazio deve tanto a Mamma Rai. Anche grazie a noi è diventato famoso e molto ricco. Aveva 19 anni quando lo abbiamo lanciato a Pronto Raffaella?, e, a tappe forzate, quindici anni dopo, gli abbiamo consegnato il massimo, il Festival di Sanremo. E ora?”.
Repubblica: “Ora Fazio è furioso perché gli avete negato perfino una comparsata al programma di Fiorello”. Saccà: “La Rai avrebbe avuto tutto il diritto di chiudere la porta a Fabio. Voglio dire: non siamo mica il Grand Hotel, dove si entra e si esce a piacimento. Un giorno lui se ne è andato a La7, con tanto di messaggino di addio sul cellulare del presidente dell’epoca. E noi siamo rimasti in brache di tela” (Ops, la narrazione dei “40 anni in Rai” scricchiola).
[…]
All’epoca del programma abortito, Fabiofazio se n’era uscito con un’altra chiosa vittimistica, sempre su Repubblica: “C’è una curiosa coincidenza per cui il talk show è un genere che in Italia non si riesce a fare su nessuna rete” (Avevano appena chiuso Satyricon).
Nel 2003 portò quindi in Rai un programma basato sul meteo (Che tempo che fa); ma non funzionava, così l’anno dopo ne cambiò la formula, adottando quella di Satyricon, che tanto non c’era più; e poté continuare, beato lui, per 20 anni, ricevendo pure l’encomio di un ospite eccellente, Berlusconi: “Complimenti per la trasmissione. Le auguro di restare in video per qualche decennio ancora” (La volta prima, al suo elogio di Dell’Utri, Fabiofazio non aveva fiatato). E siccome Salvini lo stava criticando (ma era stata la Rai presieduta da Foa, con Salvini al governo, a rinnovargli il contratto), Fabiofazio, che detesta i vittimismi, replicò: “Insomma, ho qualche dubbio, ma comunque grazie infinite”.
Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 24 maggio 2023.
Riassunto della puntata precedente: Fabiofazio, annunciando il suo addio alla Rai, ha detto e scritto di detestare vittimismi e martirologi, implicando che ne avesse motivo. In realtà sul vittimismo ci ha marciato parecchio.
Abbiamo visto come, grazie alla sponda amica di Repubblica, il giorno dopo l’editto bulgaro provò a infilarsi fra gli epurati […]
Sulle sue tattiche da chiagnefotte è illuminante l’intervista concessa al Fatto nel 2020 (bit.ly/41YkPPg), quando il Cda Rai approvò una norma sacrosanta contro i conduttori-produttori, lo strapotere dei manager di spettacolo, e i compensi stratosferici.
Fabiofazio: “Adesso basta. Trovo ogni limite superato. Qui entriamo nel campo dell’inaccettabile: da tempo mi viene riservato un trattamento che non ha eguali né precedenti. Tre anni fa, quand’ero già serenamente avviato altrove e la Rai mi chiese di restare, mi scappò detto che la politica non doveva più entrare nella tv. Da allora iniziò la guerra, perché quella mia frase fu letta come una questione personale. Uno stillicidio continuo, un linciaggio senza eguali né giustificazioni.”
Fq: “Aveva un accordo con Discovery”. “Non voglio specificare, per policy con la controparte”. “Lo diciamo noi”. “(Sorride) Quando sono rimasto, l’intento dell’azienda era di portarmi su Rai1. Su Rai1 abbiamo coperto dalle 20.30 a mezzanotte per un costo a puntata di 300 mila euro per la mia società, più 100 mila di costi generali Rai”. “400 mila complessivi…” “Sì, ma di solito in quella fascia va una fiction di due ore, a una media di 750 mila euro l’ora”.
Questa classica fuffa vittimistica di Fabiofazio viene utilizzata tuttora dai giornalisti amici che lo difendono, sicché mi tocca riprendere un mio vecchio discorso: Fabiofazio finge di non sapere che le fiction Rai fanno guadagnare molto di più del suo show perché fanno quasi il doppio del suo share e perché, a differenza del suo show, vengono vendute nel resto del mondo.
Fabiofazio: “Prima del mio arrivo, Rai1 faceva in media il 15,19%: con me il 16,3 il primo anno e il 15,49 il secondo”. Altra fuffa vittimistica: si riferisce al dato medio, invece che al dato del prime time, la sua fascia oraria; così evita di dire che lo share atteso per il suo programma era del 18%, in linea con lo share del prime time di Rai1, che era del 18,9% (bit.ly/42KHU9r).
Fabiofazio: “Poi la Corte dei conti ha dimostrato che il programma costa meno della metà di qualunque altro varietà della stessa fascia oraria”. Altra fuffa vittimistica. La Corte dei conti scrisse che il costo-puntata del suo programma era “meno della metà della media dei programmi di intrattenimento del servizio pubblico”. Ma la Rai, da cui la Corte dei conti aveva attinto le informazioni, considera intrattenimento anche le fiction: hanno costi notevolmente superiori a un talk-show, che in paragone sembra regalato.
[…] Innanzitutto, finché la Rai non pubblicherà dati ufficiali sui costi del programma di Fabiofazio, ogni discussione in merito è campata in aria; e dunque anche ogni difesa. Soprattutto: è vero che il programma si ripagava con la pubblicità, come “gli dicevano”?
Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 25 maggio 2023.
Riassunto delle puntate precedenti: negli anni, Fabiofazio ha infarcito di balle vittimistiche il racconto del suo rapporto lavorativo con la Rai […].
Annunciato il passaggio alla Nove, i giornalisti amici (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno subito strumentalizzato la vicenda per fare propaganda anti-governativa, evocando a sproposito l’editto bulgaro; e per sminuire le critiche al programma costosissimo hanno ripetuto in coro che si ripagava con la pubblicità.
Ma è vero? Chi lo dice? Al Fatto, nel 2020, Fabiofazio affermò: “Mi dicono che il mio programma è interamente coperto dalla pubblicità”. Questo “mi dicono” è un capolavoro di fuffa (fa pendant con quello escogitato dal Corriere della Sera la settimana scorsa: “Chi sa di conti assicura che a fronte di una spesa di 450mila euro gli incassi arrivano al milione”. Chi sa di conti chi? Dove sta scritto?).
Fra quanti hanno riportato per l’ennesima volta lo schemino paraculo di Fabiofazio (che nell’ultima versione è: “Il programma costa 450mila euro, 15 secondi di pubblicità costano 40mila euro. Considerando 16 minuti di pubblicità, si fa presto a comprendere costi e ricavi”), solo Francesca Petrucci ha avuto l’onestà intellettuale di puntualizzare che “a onor del vero, tuttavia, bisogna aggiungere che non si hanno dati precisi dai bilanci Rai.
L’azienda, infatti, non comunica gli introiti dei singoli programmi. Quello che fa è rendere noto un conto unico – dove fa rientrare tutti i guadagni – che fa capo alla voce ‘Rai Pubblicità’. Pertanto è impossibile fare un’analisi dettagliata e precisa” (bit.ly/3MIWHff). Affrontiamo dunque la nebbia.
Michele Anzaldi, da segretario della Commissione di Vigilanza Rai, spiegò: “La Corte dei conti parla di un costo a puntata di 409.700 e un incasso stimato di 615.000 con uno share del 18-20%”.
Ora: Che tempo che fa su Rai1 aveva uno share medio del 15%, su Rai2 del 9%, su Rai3 dell’11,8%. Anzaldi: “Ma i costi sono rimasti gli stessi. Se la Corte dei Conti si pronunciasse oggi, come potrebbe sostenere che il programma non sia in perdita?”. E c’è un altro elemento da considerare […]
Lo chiarì Business Insider: “A differenza delle televisioni commerciali, la Rai ha per legge un doppio limite all’affollamento pubblicitario: uno orario, fissato al 12%; e un altro settimanale al 4%, per il quale però si devono considerare Rai1, Rai2 e Rai3 nel loro insieme. In sostanza la media settimanale delle tre reti non può superare i 144 secondi l’ora. Supponendo che la concessionaria della tv di Stato faccia il pienone per le tre ore di programmazione domenicale di Che tempo che fa, bisognerebbe di fatto azzerare le inserzioni pubblicitarie per altre 9 ore: per andare in pareggio, quindi, la raccolta di Fazio dovrebbe coprire almeno i costi di 12 ore di trasmissione. Un utile di 165mila euro (615-450) andrà spalmato su altre nove ore”.
[…]
Riferendosi all’edizione 2017 (Rai3) di Che termpo che fa, la Rai svelò che il costo del programma di Fabiofazio era coperto dalla pubblicità solo per il 54%.
Il Fatto Quotidiano scrisse (cifre mai smentite) che col contratto 2017-2021 i costi del programma di Fabiofazio lievitavano a 73 milioni di euro. Per un programma di interviste! (E oggi nessuno ricorda la spesa a fondo perduto che la Rai sostenne nel 2017 per il nuovo studio faraonico del programma: 1,8 milioni di euro dei contribuenti. “Per sistemare un capannone preso in affitto”, specificò Anzaldi).
Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto Quotidiano” il 26 maggio 2023.
Riassunto delle puntate precedenti: da vent’anni Fabiofazio infarcisce di balle vittimistiche il racconto del suo rapporto con la Rai, dove peraltro ha continuato a lavorare bello paciarotto tutto il tempo. Resta da glossare lo storytelling capzioso con cui i suoi amici giornalisti (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato il suo passaggio alla Nove evocando a sproposito l’editto bulgaro per fare propaganda anti-governativa.
(Consegniamo agli annali del giornalismo italiano anche l’altra anomalia: nessuno dei giornalisti tv che si sono occupati del caso – Gruber, Formigli, Floris, Gramellini, Saviano – ha avvisato l’uditorio di far parte dell’agenzia di Beppe Caschetto, la stessa di Fabiofazio.
E qui, oltre al conflitto di interessi, andrebbe segnalata una stortura di cui nessuno pare accorgersi: ci sono giornalisti che fanno parte di agenzie di spettacolo. Questa prassi dovrebbe essere vietata, per evitare che artisti e giornalisti della stessa agenzia finiscano ospiti, in via privilegiata, in programmi tv di artisti e giornalisti della stessa agenzia, a scapito di chi non ne fa parte: è una forma di concorrenza sleale.
Questo dumping è anche pubblicità ai privilegiati: alla lunga rende campioni televisivi pure le scartine, e solo perché l’agente potentone può piazzare, dove e quando vuole, chi vuole; in Rai, come se non bastasse, tutto a spese dei contribuenti. Sono anni che lo dico, ma è come parlare al vento: adesso capisco come si sentono quelli di Report).
A Piazzapulita, Formigli (Caschetto) ha chiesto l’opinione di Michele Serra (pidino, Gedi, ex autore e monologhista di Che tempo che fa, e amico di Fabiofazio), dopo un montaggio di frasi salviniane anti-Fazio a corroborare la narrazione falsa del martirio politico.
Serra dice: “[...]Possono piacere o non piacere, ma questo sono: questo era Biagi, questo era Luttazzi, questo era Santoro, questo è Fazio. Si sono messi lì da soli, nessuno li ha messi lì per nomina partitica. Ci sono state due onde anomale nella storia del servizio pubblico. La prima è quella del famoso editto bulgaro di Berlusconi, che non aveva molte simpatie per le persone che ha fatto tacere; e la seconda è questa ondata. Le due ondate sono state in coincidenza di governi molto di destra”.
Ma questo paragone è forzato: nessuno ha fatto tacere Fabiofazio. Peccato che Formigli non gli abbia obiettato: “Fabiofazio aveva dalla sua il Pd e Berlusconi e Conte e Renzi, oltre a Repubblica, Stampa, Corriere della Sera ed Espresso: quali condizioni non c’erano più per lavorare serenamente in Rai? Il nuovo governo Meloni? A Pajetta che se ne andava da una Tribuna politica perché ‘qui c’è Almirante, che è un nemico’, questi replicò: ‘E lei di fronte ai nemici scappa?’”.
Formigli avrebbe sollevato un tema importante: Fabiofazio ha detto che se ne andava perché non è “un uomo da tutte le stagioni”; dunque se ne va proprio adesso che la Rai avrà più bisogno di voci alternative alla destra? Questo vale anche per le dimissioni di Lucia Annunziata (pidina, agenzia Caschetto, ex Gedi, pure lei “non ci sono le condizioni”).
Legittimo che Fabiofazio se ne vada in una tv privata dove potrà fare il conduttore-produttore senza i paletti della tv pubblica, ma in tal caso la sua uscita dalla Rai non è quella, sofferta, dell’epurato politico, come lui e i suoi amici giornalisti hanno insinuato per giorni. [...]
Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per il Fatto Quotidiano il 27 maggio 2023.
(...)
Né va dimenticata l’importanza degli appoggi politici per RESTARE in tv, una volta che ci arrivi col tuo lavoro: c’è chi viene epurato da Berlusconi e da quel momento trova ostacoli ovunque; e chi, non inviso a Berlusconi e al Pd, può restare in Rai per decenni, e a ogni scadenza di contratto giocare pure al rialzo, minacciando altrimenti di andare altrove, lui che può farlo: finché a un certo punto, dopo essersi goduto i contratti stratosferici dell’emittente pubblica, se ne va, firmando con una rete privata un contratto ancor più stratosferico, col contratto Rai a fare da vantaggioso precedente.
(...)
Ma Fabiofazio se n’è andato un mese prima della scadenza contrattuale, e prima che s’insediasse il nuovo ad Rai; e la bozza del nuovo contratto che questi avrebbe presentato in Cda il 25 maggio prevedeva un rilancio del programma su Rai1; né va dimenticato che, per contratti come quello con la Nove, servono mesi di trattative, e che, per sua stessa ammissione, Fabiofazio si stava avviando “serenamente” verso Discovery già anni fa, prima dell’ultimo rinnovo di contratto.
Appena Fabiofazio ha lasciato la Rai per fare più soldi altrove (come lasciò l’Ordine dei giornalisti per fare la pubblicità Tim), la stampa amica si è prodigata a elevarne il gesto agitando i turiboli del fumus persecutionis (con Fabiofazio a inzigare: “La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria nei confronti della cosa pubblica con pochi riguardi per il bene comune e con una strabordante ingordigia”); ma la Rai del democristiano Roberto Sergio ha rinnovato Report e la Annunziata, dunque l’accusa di epurazione politica non regge proprio. A parte che Fabiofazio conosce benissimo Sergio, fondatore e dirigente di Lottomatica: per 5 anni il savonese si batté nobilmente contro la ludopatia facendo pubblicità al Lotto
Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 30 maggio 2023.
Riassunto delle puntate precedenti: il programma di Fabiofazio non si ripagava con la pubblicità, tanto meno coi nuovi limiti per l’affollamento pubblicitario in vigore dal 2022 . Passato alla Nove, i giornalisti amici (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato la vicenda con lo storytelling capzioso dell’epurazione politica; domenica pure la Littizzetto (Caschetto): “A mezzanotte scatta lo sfratto definitivo”’.
Lo strano sfratto di chi se ne va da sé. Floris (Caschetto) a Dimartedì: “Che poi non è il caso di una persona, no?, la questione Fabio Fazio. Anche se guardiamo come l’avevano, diciamo, preannunciato nei mesi scorsi, l’approccio nei confronti di un conduttore della Rai, Meloni e Salvini”.
I due filmati, ovviamente, non “preannunciano” nulla: come potevano sapere, Meloni e Salvini, che Fabiofazio avrebbe deciso di andarsene alla Nove? (La Nove gli ha offerto un contratto più stratosferico di quello Rai, pur sapendo che da loro anche un campione come Crozza fa uno share medio del 5,6%. Scrivere, come ha fatto Open, che Fabiofazio “porta in dote” alla Nove 2,4 milioni di spettatori e uno share dell’11,8%, è una stupidaggine: come ricorda Francesco Siliato, analista di Studio Frasi, “il trasferimento di un conduttore non comporta un automatico trasferimento di pubblici da un canale all’altro”).
Poi Floris mostra un tweet di Salvini e dice: “E quando non si trova l’accordo, o meglio, Fabio Fazio trova l’accordo con la rete concorrente e esce dalla Rai, Matteo Salvini rivendica, dice: ‘Belli ciao’. Ciao, andatevene”. Ma “ciao, andatevene” è un’aggiunta tendenziosa di Floris, a suggerire la cacciata. […]
Sta succedendo che si vuole avvalorare l’idea di un’epurazione politica che non c’è stata. Bersani: “Mah, succede un’idea – sommiamo questa vicenda ad altre vicende che sono incommentabili, nelle ultime settimane: di queste trattative che hanno messo assieme la Rai, le società di Stato e, udite udite, per la prima volta che io ricordi, i corpi dello Stato: polizia e guardia di finanza. Nell’immaginario, questo vuol trasmettere un’idea: il comando”.
Ma queste trattative non c’entrano nulla con Fabiofazio, che se n’è andato sua sponte per soldi. Su Twitter anche Saviano (Caschetto, Gedi, ed ex collaboratore di Fabiofazio) accredita la falsa tesi del killeraggio politico (bit.ly/431LPi8). L’incipit è tutto un programma: “‘Fabio Fazio lascia la Rai’, scrivono. Non è così: Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai. Questa è la verità”. No, questa è la balla.
[…] Ma che Fabiofazio sia stato cacciato non è un punto di vista da sposare: è una balla. Quanto ai “racconti” di Saviano, ricordo quello su Israele “sogno di libertà e di accoglienza”, e la replica di Vittorio Arrigoni: “Nelson Mandela sono anni che denuncia il razzismo di Israele contro gli arabi israeliani e contro le minoranze etniche”. Vittorio “Vik” Arrigoni (bit.ly/43irCFf), un pacifista dell’International Solidarity Movement, raccontava sul manifesto cosa accadeva a Gaza: “Caro Saviano, sto parlando di Nelson Mandela, non di Fabio Fazio”.
Fabiofazio che, nel suo programma, invitava i Saviano, non gli Arrigoni. Sfido la Rai a prendere me al posto di Fabiofazio. Il programma lo conosco. Vengo gratis. Poi invito il papa.
Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” l'1 giugno 2023.
Abbiamo già detto dello storytelling capzioso con cui i giornalisti amici di Fabiofazio (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato il suo passaggio alla Nove evocando a sproposito l’editto bulgaro per fare propaganda anti-governativa.
Mi tocca tornarci su perché l’altra sera, a Dimartedì, Floris (Caschetto) ci ha riprovato. Stavolta però aveva di fronte Marco Travaglio e Michele Santoro, che l’hanno suonato a dovere. Prima Travaglio.
FLORIS: “In un mercato che s’è sviluppato rispetto a quando fu epurato Michele Santoro, rispetto a quando fu cancellata la trasmissione di Biagi, quando tu fosti fatto fuori dalla Rai, il mercato è cambiato, no?” (Col cazzo che Floris fa il mio nome, dopo il mio lisciobusso).
TRAVAGLIO: “A me non mi hanno fatto fuori dalla Rai perché io non c’ero. Ero andato ospite una volta da Luttazzi a parlare di un tabù: i rapporti fra Berlusconi e la mafia. Quelle erano epurazioni. Perché? Perché non volevano che si parlasse di certi temi. E fatti fuori Luttazzi, Santoro e Biagi, di quei temi non si parlò più. I casi di cui stiamo parlando adesso non c’entrano niente”.
FLORIS: “Questo giustifica il cancellare due trasmissioni che fanno più del 10%? Arriviamo al dunque industriale”.
TRAVAGLIO: “Non le ha cancellate nessuno”.
FLORIS: “Allora nel non rinnovare i contratti a due professionisti che fanno più del 10%. Arriviamo al nodo industriale e riportiamolo a quello che sta succedendo al resto del Paese”.
TRAVAGLIO: “Ma l’Annunziata mi risulta che era rinnovata. Fazio non gliel’ha rinnovato quello di prima, non ha avuto neanche il tempo di parlare con Sergio, il nuovo Ad...”
[…]
Floris, cercando ripetutamente di sostenere la balla che qualcuno ha epurato Fabiofazio, costringe Travaglio a continue correzioni. Aveva già tentato la sterzata.
FLORIS: “Il mercato è cambiato, no? Quindi la Rai che non vuole più una trasmissione basta che lasci fare il mercato, no? Basta che non ti chiama. Ti sta scadendo il contratto, passa una settimana alla scadenza del contratto, tu lo capisci che aria c’è. Non è che per quello ti devi immolare e smettere di lavorare. Se trovi un’altra trasmissione... Il punto diventa: alla Rai conviene o no che siano andati via Fazio e Annunziata?”
Qui Floris fa lo gnorri. Davvero non sa che MANCAVA UN MESE alla scadenza del contratto di Fabiofazio? Che contratti come quello con Discovery NON SI FANNO IN UNA SETTIMANA? Che il programma di Fabiofazio non si ripagava affatto con la pubblicità, cioè COSTAVA TROPPO? Forse usando le maiuscole si capisce meglio il “nodo industriale”.
Subito dopo, Santoro gli spiegava che nella Rai dell’editto bulgaro Fabiofazio poté rientrare, a differenza di lui, perché “la politica ha voluto che tornasse”.
FLORIS: “Ma che cambia?”
SANTORO: “Cambia molto. E qui ritorna il discorso su Lucia Annunziata”.
FLORIS: “Ma no, così diventa un gossip fra conduttori”.
SANTORO: “No, non è un gossip”. E gli ricorda che l’Annunziata, quando a governare era Silvio Berlusconi, fu presidente di garanzia Rai al posto di Paolo Mieli, che nominato presidente Rai aveva detto: “Accetto se posso riportare in Rai Biagi, Santoro e Luttazzi”. E dopo 24 ore era dimissionario.
FLORIS: “E che cambia? Stai parlando con acrimonia dei tuoi colleghi”.
SANTORO: “Che cambia? Che c’era l’editto bulgaro. Non c’entra l’acrimonia. C’entra che Fazio e Annunziata sono stati il perno intorno al quale è ruotata una politica culturale in Rai fatta di esclusione degli altri, fatta di ammazzamento del pluralismo e della diversità” (applausi del pubblico. E miei).
Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2023.
Martedì sera Giovanni Floris ha scelto di puntare sull’usato sicuro, su un genere televisivo e letterario a se stante: lo sfogone di Michele Santoro. Contro la Rai e l’intero circuito mediatico che ha deciso di fare a meno del suo genio, contro colleghi intenti a scippargli indebitamente l’inverosimile scettro di martire catodico e contro ex (presunti) amici, contro la destra postfascista e la sinistra postsantoriana nonché, sorpresa, persino contro... l’Inps e il Fisco!
[…] Michelone ci risparmia l’amarcord romantico dei suoi esordi maoisti per Servire il Popolo, e va più prosaicamente a quantificare: «Lo sai qual è il mio lordo di pensione? Sono 1970 euro». Seconda domanda retorica: «Sai quanto prendo io? No-ve-cen-to euro», con parola chiave scandita da consumato professionista.
«Dall’Inps però, poi avrai Inpgi, Enpals...» si permette di insinuare Floris […]. «No no, poi prendo l’Inpgi, però te - e il romanesco è il segno linguistico che la misura è colma, ndr - sto spiegando un’altra cosa, se vuoi capire quello che sto dicendo...».
[…] «È che con una pensione di 1970 euro lo Stato in varie forme si becca la maggioranza!». E qui rimbalza una prima notizia, un Santoro quasi neoliberista e nemico del Leviatano che tracima nel (suo) portafoglio, come del resto avviene per tutti gli intellò di tradizione comunista: la redistribuzione è sacra finché non redistribuisce i loro quattrini.
La seconda sarebbe quella di un Santoro nei fatti governativo, visto che dà ragione alla madre di tutte le battaglie della Melonomics: il taglio del cuneo fiscale […]. […]
Amenità a parte, Santoro non vede l’ora di far deflagrare la guerra fratricida tra epurati immaginari, l’altro lo sa e gli butta là i casi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata. «Sono convinto che la Rai abbia avuto una perdita perché sono due professionisti molto validi».
[…] parte il cannoneggiamento, intinto soggettivamente nel livore, ma con ragioni oggettive. «Non sopporto nessuno dei due. Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche» (e detto da uno specialista...). Ad esempio, «Fazio non è vero che è stato 40 anni ininterrotti in Rai, lavorò per La7 quando era di proprietà di Telecom, non fece nemmeno una puntata, quell’esperienza si concluse e andò via con una paccata di miliardi» (detto con l’invidia strozzata del pensionato sottopagato).
[…] Ma […] «il vero problema è come è rientrato in Rai». «Ci è rientrato non solo per i buoni uffici del suo agente, che poi è anche il tuo- Beppe Caschetto, e qui l’allievo impallidisce visibilmente ndr-, ma ci è rientrato perché la politica l’ha voluto». È un montante mica male, ma ce n’è anche, forse di più, per Lucia Annunziata: «Nel momento in cui lasci la Rai dicendo che non sei assolutamente d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che lei è stata il presidente quando a governare era Silvio Berlusconi».
Ovvero, quando «c’era l’editto bulgaro, caro mio!». «Stai parlando con acrimonia di due colleghi», nota eufemisticamente Floris. «Non c’entra l’acrimonia, c’entra il fatto che questi due colleghi sono stati il perno attorno al quale è ruotata una politica culturale in Rai, fatta di esclusione degli altri, fatta di ammazzamento del pluralismo e della diversità».
E qui […] proviamo un moto d’empatia per Michelone. Che se come pensionato indigente è assai improbabile, come smascheratore dell’ipocrisia altrui funziona. Fazio e Annunziata sono perseguitati ancora più “farlocchi” di lui, per dire.
Dagospia il 30 maggio 2023. MICHELE SERRA HA PROBLEMI CON LA MEMORIA O È SOLO "FAZIOSO"? – L’EDITORIALISTA DI “REPUBBLICA”, AUTORE DI “CHE TEMPO CHE FA”, SOSTIENE CHE FAZIO “HA SEMPRE LAVORATO IN AUTONOMIA E NON HA DEBITI POLITICI DA SALDARE”. MA BASTA FARE UN BREVE RIPASSINO DELLA CARRIERA DI FABIOLO, DA SEMPRE ORGANICO AL PD, PER DIMOSTRARE IL CONTRARIO - L’APOTEOSI DEL 2001, QUANDO, AL COMIZIO FINALE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DI D'ALEMA, A GALLIPOLI, FAZIO SI RIVOLSE AL LIDER MAXIMO COSÌ: “SONO LA TUA IVA ZANICCHI”; “MI DISPIACE NON POTERTI VOTARE PERCHÉ NON SONO DI QUESTO COLLEGIO, MA…”
MICHELE SERRA. "LA DESTRA È AGGRESSIVA, HA UN COMPLESSO DI INFERIORITÀ. IN RAI VUOLE LA SUA PROPAGANDA". Estratto da huffingtonpost.it il 30 maggio 2023.
Michele Serra intervistato dalla Stampa, ancora sull'addio di Fabio Fazio alla Rai, prende un argomento sin qui lasciato nelle retrovie dell'analisi sul centrodestra-padrone.
"Se un gruppo di potere decide che la televisione pubblica deve diventare la fabbrica della sua "narrazione" - dice Serra- che è un modo elegante per dire propaganda, uno come Fazio è inservibile. Bene che vada, può essere tollerato. Ma per lavorare bene non ci si può sentire "tollerati", ci si deve sentire sostenuti dal proprio editore. Ha fatto benissimo ad andarsene". Michele Serra, tra gli altri autore per molti anni della trasmissione Che Tempo Che Fa rivendica il professionismo di Fabio Fazio: "Fazio ha sempre lavorato in totale autonomia e non ha debiti politici da saldare. Deve tutto quello che ha solo al proprio lavoro, dunque a se stesso. Ho lavorato con lui per molti anni, fino al 2015, non ha amici politici e non frequenta la politica. Nel mondo partitico/romano che si contende da sempre la Rai, sono qualità controproducenti". […]
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per liberoquotidiano.it – 23 febbraio 2014
Nell'ultimo anno e mezzo il presidente del consiglio in pectore Matteo Renzi ha incontrato più volte Fabio Fazio nella sua trasmissione «Che tempo che fa» che non la moglie Agnese Landini. L'astro nascente della sinistra, dai tempi eroici della Leopolda ai giorni nostri, è stato un ospite quasi fisso del «bravo presentatore» da 1,8 milioni di euro l'anno (Sanremo escluso).
Per rendersene conto basta digitare insieme su Youtube i loro due nomi. Imperdibile il siparietto del 9 marzo 2013, quando Matteo va a commentare il deludente risultato elettorale del suo partito. Fazio esordisce così, giusto per mettere in difficoltà l'interlocutore: «Dicono tutti in questi giorni difficili e anche incerti: con Renzi sarebbe stato diverso». Sorrisetto sornione e affondo: «Visto che lei conosce Renzi che cosa ne pensa di questa frase?».
L'allora sindaco di Firenze, indossa i panni dello statista, e replica da par suo: «Se mia nonna aveva le ruote era un carretto». Tra novembre e dicembre 2013 Renzi è il mattatore di tre puntate quasi consecutive e il forzista Renato Brunetta definisce Fazio «nuovo responsabile della comunicazione del Pd».
In realtà non rammenta che già ai tempi di Walter Veltroni, il presentatore era considerato un intellettuale organico e il leader Pd gradito ospite del suo salottino televisivo.
[…] alla fine degli anni '90 suscita qualche polemica la sua partecipazione a uno spot elettorale per il diessino savonese Roberto Decia. […] diventa apoteosi l'8 maggio del 2001, quando conduce in terra di Gallipoli (Lecce) la serata finale della campagna elettorale di Massimo D'Alema.
Di quella performance qualcuno ha cercato di cancellare le prove, facendo sparire dalla Rete il video della serata, in quanto «privato». Sopravvive, però, per feticisti e posteri, sul sito dei Radicali, la testimonianza audio della kermesse. Quella notte Fazio non si tiene: «Sono la tua Iva Zanicchi» gorgheggia quando appare il lìder Maximo, subito ribattezzato «il nostro candidato».
«Questa luna la dobbiamo a lui» cinguetta. Davanti a un pubblico in deliquio Fazio paragona D'Alema a Silvio Berlusconi: «Guardatelo che bello, ha tutti i capelli veri, non sono disegnati, complimenti (…) la voce è bella con ogni microfono e non ha nemmeno il trucco sulla faccia, ogni ruga è sua». Un trasporto che appare eccessivo allo stesso Fazio: «Spero di non fare dei danni. Io mi lascio un po' prendere dall'entusiasmo, sai che nella mia vita al primo posto c'è Roberto Mancini al secondo ci sei tu».
Dopo le battute di rito su Berlusconi, Mediaset e Bruno Vespa, chiede l'applauso per il candidato diessino: «Esageriamo. Evviva le esagerazioni. Rivendico il diritto di cittadino di essere qui con grande piacere, è un dovere civile».
Quindi per chi non lo avesse capito aggiunge: «Mi dispiace non poterti votare perché non sono di questo collegio, ma è come se lo fossi». Il 13 maggio il Cavaliere vince le elezioni e Fazio capisce che l'aria in Rai non è più respirabile dopo cotanto coming out. E trasloca alla neonata La7, ovvero la rete della Telecom, al cui vertice c'è Roberto Colaninno, uno degli «imprenditori coraggiosi» sponsorizzati dall'allora premier D'Alema nella scalata alla compagnia telefonica.
Non passano neanche tre mesi e la proprietà cambia. Arriva Marco Tronchetti Provera e a tre giorni dall'esordio il Fab show di Fazio viene improvvisamente annullato. «Il mio spettacolo non era gradito» spiega Fabiolo. In cambio, narrano le cronache, incassa, senza essere mai andato in onda, 28 miliardi di lire, tra penali e buonuscita.
[…] il ruolo del martire non è nelle sue corde e nel 2003, in piena epoca berlusconiana, pianta nuovamente le tende nella tv pubblica per lanciare il suo nuovo programma «Che tempo che fa». Uno spettacolo realizzato dalla Endemol, una società di produzione che sino al 2012 ha avuto tra i suoi soci (con il 33 per cento) la sbeffeggiata Mediaset. Fazio sarà anche fazioso, ma sa fare di conto.
Estratto dell’articolo di Roberto Tortora per liberoquotidiano.it il 19 maggio 2023.
Ormai si parla solo dell’addio di Fabio Fazio alla Rai con il suo programma Che Tempo Che Fa che sbarca su Discovery dopo tanti anni di servizio pubblico. A Piazzapulita, Corrado Formigli mostra un video in cui Matteo Salvini spara a zero contro il conduttore appena silurato dalla tv di Stato e poi chiede il parere a Michele Serra, amico e autore storico del programma non più amico del governo in carica.
Queste le sue parole: “La prima condizione per un professionista, per lavorare bene, è poter lavorare serenamente e lui non era più nelle condizioni di farlo. Una cosa che non si dice abbastanza è che ci sono persone che non sono state collocate dai partiti nella tv pubblica, che hanno fatto il loro percorso, carriera, storia nella televisione per meriti professionali, perché hanno fatto il loro lavoro e questo può piacere o non piacere, ma questo sono. Questo era Biagi, questo era Luttazzi, questo era Santoro, questo era Fazio – prosegue Serra - si sono messi lì da soli, nessuno li ha messi per nomina partitica".
Michele Serra, poi, ritiene che spesso le decisioni sul prodotto vengano prese da chi non ne ha le competenze: “Tutti gli altri che parlano di tv e, ahimè, che decidono gli organigrammi della tv pubblica sono invece di nomina partitica.
È come se uno che non sa niente di falegnameria entrasse lì e dicesse di avere il mandato per spiegare come si fanno i tavoli e come si fanno le sedie. Questo è profondamente irritante e controproducente, perché poi la falegnameria funziona peggio”.
Un affare di destra? No, per Michele Serra tutti i partiti sono colpevoli: “Ciò, va detto, è sempre stato uguale per tutti i partiti che si sono comportati in modo predatorio nei confronti della Rai. [...]
Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per “il Fatto quotidiano” il 19 maggio 2023.
[…] Fazio non è affatto un artista “di sinistra”; è un artista Ztl (anche la sinistra italiana lo è, arroccata nel proprio senso di appartenenza e superiorità; ma questo è un altro discorso); a parte qualche politico a cui non si può dire di no (appunto), nulla si muove fuori dalla sua circonvallazione magica, fatta di amici, compagni di area, colleghi di scuderia, che difende con il filo spinato.
Più che buonismo è familismo, ma se lo può permettere. Come conduttore è il migliore su piazza, non ha rivali per garbo, senso della misura, brillantezza. Con gli amici è splendido; tutti gli altri, semplicemente, non li riceve.
È un pezzo unico: metà intrattenitore leggero e metà conduttore serio, ma senza essere né bravo presentatore né giornalista avvelenato, un ircocervo dell’infotainment che ormai fa scuola (il duetto tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona è chiaramente ispirato alla coppia Fazio-Littizzetto).
Dunque, […] un Fabio Fazio non è sostituibile, sebbene come autore abbia rinunciato a inventare qualcosa di nuovo da vent’anni a questa parte […]. Che tempo che fa è un immutabile rito turibolante, dove il confessore è anche il chierichetto, che teoricamente può andare avanti all’infinito. Ma oltre al testo, c’è il contesto. Se Fazio traslocherà in blocco la sua Ztl in forma di talk show nella nuova emittente, il rischio è doppio: in Rai lascerà un vuoto più grande dello spazio che occupava, a Discovery sarà una balena fuor d’acqua. […]
Ville, terreni e aziende: il "tesoretto" milionario di Fazio. Marco Leardi su Il Giornale il 18 Maggio 2023
Il conduttore ligure, secondo quanto si apprende, è proprietario di diversi immobili in Liguria e a Milano. Inoltre possiede una dozzina di terreni e alcuni garage. Non ditelo alla sinistra che vorrebbe la patrimoniale
Fabio Fazio, come noto, traslocherà dalla Rai a Discovery. Già ce lo vediamo a fare scatoloni e imballaggi: da una parte metterà tutti i suoi copioni, dall'altra gli abiti di scena. Sempre sul filo del sarcasmo, qualcuno fa notare che il presentatore non avrà troppa difficoltà a effettuare il cambio televisivo di casa, essendo egli un esperto di abitazioni. Sì, di quelle in mattoni e cemento. Grazie ai lauti guadagni legittimamente ottenuti nella sua carriera, svolta per molti anni in Rai, il presentatore è infatti riuscito ad accumulare un interessante "tesoretto" fatto di immobili e di terreni. Che tempo che fa? Bellissimo, supponiamo, con tutti quei metri quadri a disposizione.
Secondo quanto riporta Affari Italiani, da una visura catastale aggiornata, risulta infatti come Fazio abbia effettuato investimenti immobiliari in particolare nella sua amata Liguria. Tra mare e vigneti. Il conduttore - riporta la testata economica - a Celle Ligure risulta proprietario di due garage per 100 metri quadri, ma soprattutto di una villa di 13 stanze. E, sempre a quanto si legge, nelle proprietà del presentatore Rai pronto al trasloco ci sarebbero anche due case con cinque vani, cui si aggiungono due garage e altre due abitazioni nella vicina Varazze. Bontà sua, Fabio negli anni ha fatturato guadagni importanti derivanti dalla sua professione, dunque si è potuto togliere più di qualche sfizio.
Sempre a Celle Ligure il conduttore Che tempo che fa risulta in possesso di alcuni terreni: 12 - secondo quanto riporta Affari Italiani - di cui 10 adibiti ad uliveto, che occuperebbero una superficie complessiva di 7mila metri quadri. Ma per il popolare presentatore gli investimenti immobiliari non sono finiti: il nostro, infatti, a Milano è proprietario di due abitazioni signorili di 20 stanze e 2 garage, il tutto detenuto per metà. Zitti, però: non ditelo a Elly Schlein e a quelli del Pd, che vorrebbero una bella patrimoniale per "colpire" innanzitutto i più ricchi. Per il povero (si fa per dire) Fazio sarebbe un salasso.
Il conduttore - si apprende dagli organi di stampa - si sarebbe peraltro da poco lanciato in una nuova iniziativa imprenditoriale col 5% e la presidenza della "Dolcezze di Riviera srl", di cui la moglie Gioia Selis ha il 45%. "È l'azienda che ha rilevato la storica fabbrica di cioccolato 'Lavoratti 1938' e che ha chiuso il bilancio 2021 (ultimo disponibile) con soli 76mila euro di ricavi e una perdita di 231mila euro", spiega Affari Italiani. Come noto, il presentatore è poi proprietario al 50% de "L'Officina srl", la società con cui realizza e produce i suoi programmi televisivi.
L'addio di Fazio e le mosse del super manager: chi c'è dietro lo strappo. Fare, disfare e consigliare è il suo lavoro. E lo fa molto bene. Beppe Caschetto è l'influente manager dello spettacolo che segue Fazio e Littizzetto. Ma anche Saviano, Floris, Formigli, Gruber e Crozza. Marco Leardi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.
Dietro al passaggio di Fabio Fazio a Discovery c'è lui. Anche stavolta. Fare, disfare, indirizzare e consigliare è infatti il suo lavoro. E lo fa molto bene, scegliendo di starsene lontano dai riflettori, dietro le quinte. Beppe Caschetto è l'influente agente televisivo che segue gli interessi artistici di molti personaggi noti dello spettacolo e del giornalismo. Tutti o quasi con simpatie progressiste. Tra di essi spicca in particolare il conduttore di Che tempo che fa, balzato ora al centro delle cronache per il suo addio alla Rai raccontato da molti come una cacciata, come un'epurazione perpetrata dai nuovi cattivissimi vertici di Viale Mazzini o addirittura dal governo. Macché: il cambio di casacca è stato piuttosto l'ennesimo colpo messo a segno dal presentatore con il supporto dell'abile manager modenese.
Tra gli addetti ai lavori televisivi in molti parafrasano: nei palinsesti non si muove foglia che Beppe Caschetto non voglia. E questo perché l'autorevole agente dei vip ha a disposizione una scuderia di personaggi tale da poter decretare (più o meno direttamente) il successo di una trasmissione o di uno spazio televisivo. Dell'agenzia Itc2000, gestita per l'appunto dal manager modenese assieme alla moglie e alla figlia, fanno parte - oltre al già citato Fazio - anche la talentuosa Virginia Raffaele, Sabrina Ferilli, Stefano De Martino, Andrea Delogu, Caterina Balivo, Geppi Cucciari, il duo comico Luca e Paolo, Maurizio Crozza. E poi Enrico Brignano, Maurizio Lastrico, Pif, Neri Marcorè, Enrico Bertolino, Brenda Lodigiani, Fabio Volo, Pif, Stefano Bollani e Alessia Marcuzzi. Un lungo elenco di volti di nomi che consente a Caschetto di vedere i propri assistiti in quasi tutte le fasce dei palinsesti. Specialmente le più prestigiose.
Qualcuno avrà poi notato che alcuni degli artisti sopra citati erano spesso ospiti di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto (anche quest'ultima seguita dalla Itc2000): nulla di cui stupirsi, in tv - piaccia o meno - funziona così. Nel 2020 l'allora Ad Rai Fabrizio Salini aveva promulgato delle norme proprio per regolamentare lo strapotere degli agenti televisivi, stabilendo che questi ultimi non potessero rappresentare più del 30% degli artisti ricompresi un una produzione televisiva. Pare che quelle linee guida non abbiano avuto grande seguito. Tornando invece a Caschetto, va aggiunto che il manager segue anche gli interessi televisivi di diversi giornalisti, anche in questo caso non propriamente di destra: Lucia Annunziata, Giovanni Floris, Lilli Gruber, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, Daria Bignardi, Luca Telese.
E nella medesima scuderia di artisti c'è anche Roberto Saviano, che proprio nei giorni scorsi si era stracciato le vesti per la "cacciata" di Fabio Fazio dalla Rai. Ma, oltre al fatto che quella del "martirio" faziesco è una balla, riteniamo invece che quella effettuata dal conduttore ligure sia stata piuttosto un'operazione televisiva come tante ce ne sono, non priva di legittimi interessi personali (sarebbe stato strano il contrario). Su Discovery, infatti, il presentatore avrà un'adeguata remunerazione e non troverà certo un ambiente ostile, grazie anche al supporto del proprio attento manager. Sul Nove (rete del medesimo gruppo televisivo) ad esempio c'è già Maurizio Crozza e chissà che in futuro non arrivi qualche altro nome di peso. Sembra infatti che il tele-mercato estivo possa riservare altre sorprese.
Peraltro, secondo indiscrezioni, Discovery starebbe sondando il terreno per una possibile fusione con La7, rete che attualmente ospita molti personaggi gestiti da Caschetto: per il broadcaster americano, che già vanta un ampio ventaglio di canali, sarebbe un colpo significativo. Ma - eventualmente - tempo al tempo. Intanto anche gli influenti agenti della tv stanno a guardare con particolare interesse.
Estratto dell’articolo di Camillo Langone per ilfoglio.it il 17 maggio 2023.
Vorrei fare […] un bagno di umiltà. […] Alle ultime elezioni (come pure alle penultime, alle terzultime…) non ho votato. […] non ho ritenuto di partecipare ai ludi cartacei. Oggi tuttavia festeggio la liberazione dall’immensa volgarità di Luciana Littizzetto, l’emancipazione da un dominio di bassezze e malignità il cui pedaggio mi veniva estorto con la bolletta della luce, e sento di dover ringraziare chi quella domenica si è presentato ai seggi per votare Fratelli d’Italia. Vorrei ringraziarli uno a uno quegli elettori. (No, non credo alla motivazione esclusivamente economica del passaggio a Discovery, non sono marxista, i soldi spiegano tanto ma non spiegano mai tutto).
In rai ne restano tanti altri peggio di lui. Via un Fazio se ne farà un altro: non dovrà fare domanda per il reddito di cittadinanza. Francesco Storace su Il Riformista il 17 Maggio 2023
Fabio Fazio non dovrà fare domanda per il reddito di cittadinanza. Grazie alla Rai è già ricco di suo e accrescerà notevolmente il suo conto in banca con il succulento contratto che si è assicurato con Discovery assieme a quella simpaticona di Luciana Littizzetto. Entrambi sono il classico buon partito senza bisogno di voti. Pantalone potrà dire che abbiamo già dato e senza rimpianti, né rimorsi.
Gli ululati dei giorni scorsi all’indirizzo della Rai non hanno alcuna ragion d’essere. Si è strillato alla censura. Stiamo ai fatti: se ne va con le sue gambe l’amministratore delegato Carlo Fuortes; fa altrettanto la coppia di “Che tempo che fa”. Non era più “tempo” di restare, tutto qui. Certo, c’era la determinazione quotidianamente manifestata da un centrodestra stufo di subire linciaggi a mezzo tv.
Ma lo stesso Fazio ha dovuto onestamente ammetterlo: è da quarant’anni “che sto in Rai”. Una specie di senatore a vita del servizio pubblico radiotelevisivo. Più di Pierferdinando Casini alla Camera, il doppio di Benito Mussolini, due Ventenni. Decisamente tanto. Forse troppo. A quanti strepitano per “il danno” all’azienda e all’Italia (l’incredibile Enrico Letta…) facciamo notare che sarebbe davvero poca cosa che un’azienda che campa anzitutto col canone versato dagli italiani dovesse fallire perché una trasmissione non sta più in palinsesto. E che sarà mai. Dobbiamo fare l’elenco di quanti programmi applauditi da valanghe di telespettatori hanno poi conosciuto l’oblio?
Anche Massimo Giletti era campione di ascolti, ma la Rai non esitò a farlo fuori. Ed ora che è accaduto anche a La7 sarà più facile che a rimetterci sia proprio quest’ultima che non viale Mazzini. La corazza del servizio pubblico resiste a tutto. La differenza è che allora – con Giletti – non ci fu la ridicola sommossa delle ultime ore. Non si gridò al regime, alla libertà perduta. Solo un silenzio ipocrita.
Anziché singhiozzare come vedove, quelli del Pd, che hanno lottizzato negli anni dal capo azienda fino all’ultimo usciere, dovrebbero riflettere sugli errori commessi. E magari riflettere su una frase che ci è tanto cara, trovata su un libro del “cattocomunista” Federico Scianò. L’autore, purtroppo scomparso, scrisse nel momento in cui passava dall’Avvenire alla Rai, che si era chiesto se dovesse rinunciare alle proprie idee. E la risposta fu che semplicemente doveva tener conto anche dell’esistenza di quelle altrui. Perché la ragione stessa del servizio pubblico sta proprio nella comprensione del pluralismo.
Se Fazio avesse fatto buona memoria di quella pubblicazione dedicata a “sorella tv” magari non avrebbe provocato polemiche in ogni puntata del suo programma. Invece, troppo spesso nelle trasmissioni Rai prevale uno spirito fazio-so che non fa bene al servizio pubblico, che dovrebbe rappresentare l’Italia reale rispetto a quella paludata del Palazzo.
Fazio non si è sottratto alla moda prevalente in azienda, per cui sono da santificare i Roberto Saviano come i Mimmo Lucano da Riace. Il Paese reale non li eleva a propri rappresentanti, perché è stanco di una televisione sempre più lontana dall’opinione comune. E ci sarà un motivo se ogni giovedì sera – nel derby fra televisioni private – Paolo Del Debbio stramazza al suolo con gli ascolti quel Fazio 2 che risponde al nome di Corrado Formigli su La7.
Il pluralismo non può corrispondere all’opinione di uno solo, né di un partito o di uno schieramento. Per carità, il commento del giornalista è sacro, ma semplicemente non può essere usato per nascondere la notizia. Un caso, quello di Cutro. Si è gettata la croce addosso al governo Meloni, nessuno ha mai domandato perché il governo greco non avesse fatto la sua parte per salvare quei poveri disgraziati morti in mare. Neppure Fazio, perché per lui erano più importanti le polemiche casalinghe contro la destra. Ha amicizie importanti in tutto il mondo, mai il tempo di sfogliare l’agendina sui numeri telefonici importanti ad Atene…
Auguri a chi c’è ora a viale Mazzini. Ci sarà da lavorare per riequilibrare l’azienda. Non c’è più Fazio, ne restano tanti altri peggio di lui. Francesco Storace
Estratto dell'articolo di Andrea Giacobino per affaritaliani.it il 17 maggio 2023.
Fabio Fazio oltre che dall’approdo in Discovery ha di che consolarsi dall’uscita dalla Rai grazie al flusso di affitti che gli arrivano in tasca dal suo piccolo impero di mattoni.
Da una visura catastale aggiornata, infatti, si scopre che il conduttore di origini savonesi ha puntato molto sul mattone e sui terreni in Liguria perché a Celle risulta proprietario di due garage per 100 mq, di una villa di 13 stanze e di 2 case con 5 vani cui si aggiungono 2 garage e altre 2 abitazioni nella vicina Varazze.
Sempre a Celle il conduttore possiede molti terreni, per l’esattezza 12 di cui 10 adibiti ad uliveto che occupano una superficie complessiva di 7mila mq, Fazio ha un piede nel mattone anche a Milano con due abitazioni signorili di 20 stanze e 2 garage, il tutto detenuto per metà.
Diverso il discorso di Fazio appena diventato imprenditore col 5% e presidente della Dolcezze di Riviera srl di cui la moglie Gioia Selis ha il 45%. E’ l’azienda che ha rilevato la storica fabbrica di cioccolato “Lavoratti 1938” [...]
Fabio Fazio? "Sapete che i suoi figli...": altra bomba nel giorno dell'addio in Rai. Libero Quotidiano il 14 maggio 2023
Con la notizia dell'addio alla Rai, Fabio Fazio è sulla bocca di tutti. Ed ecco che in molti spulciano nella sua vita privata. Sposato da tempo con Gioia Selis, figlia di Giovanni Selis, noto medico della località ligure, la coppia ha due figli: Michele, nato nel 2004 e Caterina, nata nel 2009. Proprio su di loro si è soffermato tempo fa il conduttore: "La loro esistenza è la ragione della mia" aveva confidato prima di spiegare il rapporto che vanta con entrambi.
"Con mio figlio, che va in moto, abbiamo un appuntamento solo nostro: un giorno alla settimana lo porto in un circuito che c'è sopra Genova". Per quanto riguarda Caterina, invece, la ragazza "va al liceo scientifico, faccio assistenza compiti". Entrambi però non guardano la tv, neanche i programmi del padre. La tv - aveva detto - "è la mia vita, non la loro".
E pensare che in 58 anni di vita, ben 39 Fazio li ha passati in tv. Oggi però per lui si apre un nuovo capitolo. Fazio, dopo aver salutato la Rai, passa a Warner Bros. Discovery con un accordo quadriennale. Ad ufficializzarlo è stata una nota della società che annuncia che il conduttore sarà protagonista sul canale Nove dove debutterà già dal prossimo autunno.
Fazio e Littizzetto lasciano la Rai e arrivano a Discovery: accordo per 4 anni. Salvini: «Belli ciao». Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2024.
Fabio Fazio e Luciana Littizzetto sbarcano sul Nove, lasciando la Rai. Il contratto di Fazio scade il 30 giugno, ma non era stata avviata la trattativa per il rinnovo. Al conduttore non sarebbe arrivata alcuna proposta che prevedesse la sua permanenza in Rai o anche un suo ridimensionamento.
Fabio Fazio lascia la Rai e approda su la Nove, già dal prossimo autunno, con un contratto di quattro anni.
Lo comunica la Warner Bros. Discovery in una nota in cui annuncia «un clamoroso arrivo per la prossima stagione televisiva: Fabio Fazio, uno dei volti più popolari della televisione italiana, sarà protagonista sul canale Nove».
Nelle prossime settimane saranno annunciati i progetti che vedranno coinvolto il conduttore di «Che tempo che fa» e il ruolo che avrà.
Del progetto, viene comunicato, farà parte anche Luciana Littizzetto, protagonista insieme a Fazio di uno binomio artistico consolidatosi negli anni.
La carriera di Fazio, dagli inizi da imitatore a Che tempo che fa
«Belli ciao» è il commento ironico rivolto su Twitter dal leader della Lega e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ai due volti della Rai, neanche provando a nascondere la ruggine nei loro rapporti. Sarcastico anche il pensiero rivolto dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Forza Italia): «Propongo alla Rai di lasciare vuoto lo spazio televisivo mettendo un’immagine fissa al posto di Fazio. Come si può immaginare una televisione pubblica senza Fazio e senza i suoi dibattiti notoriamente equilibrati e privi di accenti polemici? Se Fazio se ne va, Rai 3 lo sostituisca con qualche ora di silenzio senza trasmissioni, nessuno è pari a Fazio, nessuno potrebbe sostituirlo. Tanto nomini nullum par elogium».
Esprimono rammarico invece Enrico Letta, ex segretario del Pd («Che tempo che fa di Fazio è stato uno dei migliori prodotti culturali della tv italiana. La destra al potere sceglie di privarsene e fa un danno alla tv, alla cultura e all'Italia») e Francesca Bria, consigliera Rai (quota Pd): «L’uscita di Fabio Fazio dalla Rai è un danno all’azienda in termini di identità, qualità culturale e ascolti. Una brutta notizia per il paese. Negli anni tante belle pagine di servizio pubblico, fra tutte il Memoriale della Shoah con la Segre. Scelta scellerata mai portata in CdA».
E sono in molti a criticare Salvini per il suo tweet, da Calenda («Se questo è un ministro») a Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd («L'arroganza, l'ottusità e il rancore possono far parlare così. Ma un Ministro non può parlare così»), mentre di «avvio di epurazione» parla l'Anpi.
«Siamo entusiasti di accogliere un fuoriclasse come Fabio Fazio – commenta Alessandro Araimo, GM Italy & Iberia di Warner Bros. Discovery - e orgogliosi che uno dei volti più rilevanti e influenti della televisione italiana abbia scelto Warner Bros. Discovery e il canale Nove per proseguire la sua straordinaria carriera. Il nostro impegno è da sempre quello di attrarre i migliori talenti e l’arrivo di Fabio e Luciana nel nostro gruppo è la miglior conferma possibile. Per questo siamo impazienti di iniziare a lavorare insieme, certi che questa sinergia possa far crescere ulteriormente il nostro ricco portfolio di canali TV e ancor più in generale il gruppo Warner Bros. Discovery in Italia».
L’annuncio del nuovo sodalizio precede il consiglio di amministrazione della Rai di domani, nel quale dovrebbe essere ratificata la nomina del neoamministratore delegato Roberto Sergio .
La scelta dei tempi dell’addio del conduttore non sembra casuale. Il suo contratto biennale era scadenza il 30 giugno e in questi giorni, in cui la nuova gestione della Rai ha cominciato sotto traccia a muovere i primi passi, si sono fatti molti nomi di personaggi dello spettacolo e dell’informazione che stavano trovando una nuova collocazione o una conferma.
Nell’ultimo consiglio dell’amministratore delegato Carlo Fuortes, questi ha fatto presente l’urgenza di prendere una decisione circa il futuro del conduttore ma la sollecitazione non ha avuto seguito. A Fazio non sarebbe arrivata alcuna proposta che prevedesse la sua permanenza in Rai o anche un suo ridimensionamento.
A questo punto si vedrà se il nuovo programma di Fazio su la Nove avrà la stessa struttura e in che misura coinvolgerà lo stesso conduttore nella sua produzione. In Rai Fazio era stato costretto, da una norma interna dell’emittente pubblica che non ammette sovrapposizioni di ruoli, a cedere la propria quota del 50% in Officine, la società che produceva il programma.
Fabio Fazio e la sua carriera in Rai, da «Quelli che il calcio» a «Anima mia» passando per Sanremo. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2024.
Dopo gli esordi come imitatore, il conduttore ha tenuto a battesimo molte trasmissioni di successo in Rai, tra cui anche «Vieni via con me» con Saviano e «Binario 21».
Sì, c’erano stati gli anni come imitatore, quelli in cui in pochi avrebbero ipotizzato la carriera che da lì in poi Fabio Fazio si sarebbe costruito. L’esordio in tv, era stato — fatalità — al fianco di due donne: Raffaella Carrà, in «Pronto Raffaella» e Loretta Goggi in «Loretta Goggi in quiz». Era il 1983.
Quarant’anni dopo, il conduttore saluta la Rai.
Quarant’anni in cui è diventato sempre più un pilastro delle televisione pubblica, con «Che tempo che fa»,che con evoluzioni e spin-off vari conduce dal 2003. Una trasmissione che è diventata sinonimo di uno spazio autorevole, non a caso scelta anche dal Papa per la sua prima intervista in tv. Prima di allora, a decretare il grande successo del conduttore era stato un altro format destinato a diventare un cult televisivo: «Quelli che il calcio». Dal 1993, Fazio lo ha tenuto a battesimo, mostrando come si potesse unire l’intrattenimento al commento della giornata calcistica, visto che la trasmissione seguiva il campionato di calcio di serie A.
«Quelli che il calcio»
Erano anni gioiosi e leggeri, in cui lo «stile Fazio» stava prendendo piede: pacato, composto ma sempre predisposto all’ironia e alla satira. Un comico che si trasformava in un conduttore capace di rendersi perfetta spalla all’occorrenza — e il sodalizio con Luciana Littizzetto non è che una prova —, il primo a divertirsi nei suoi programmi, con i suoi ospiti.
«Anima mia»
Con quello stesso spirito, nel 1997 era stata la volta di «Anima mia», una trasmissione nata per raccontare gli anni Settanta, scherzandoci su, condotta con un inedito Claudio Baglioni. Fu un successo, che confermò la capacità di Fazio di plasmare il suo immaginario e di renderlo un contenuto televisivo.
Sanremo
Sulla scorta di quel successo, arrivò anche il grande passo rappresentato dal Festival di Sanremo: quattro edizioni: 1999, 2000, 2013 e 2014. Furono edizioni di clamoroso successo, epocali anche per gli ospiti: dalla co-conduzione di Renato Dulbecco alla partecipazione di Michail Gorbacëv come ospite.
«Vieni via con me» e «Quello che (non) ho»
Il 2010, invece, è l’anno degli elenchi e del sodalizio con Roberto Saviano. In altre parole, l’anno di «Vieni via con me». Anche in questo caso, il gradimento e il sostegno del pubblico non si era fatto attendere, registrando picchi del 32% di share. Un successo replicato con una trasmissione che era una sorta di evoluzione di questo format, «Quello che (non) ho», in onda su La7.
«Rischiatutto»
Da anni, uno dei desideri di Fazio era rendere omaggio a Mike Bongiorno riproponendo il suo storico quiz, «Rischiatutto». Nel 2016 era dunque riuscito a riproporlo in tv, ricalcandone i basilari come scenografia e jingle. Lo scorso gennaio è andato invece in onda «Binario 21», trasmissione applauditissima in cui il conduttore ha ripercorso al fianco di Liliana Segre la sua esistenza, per non dimenticare.
Se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato. L’addio alla Rai di Fabio Fazio conviene alla destra, alla sinistra e pure a lui. Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Maggio 2023
Breve storia recente della tv italiana attraverso la carriera del conduttore costretto a traslocare a Discovery, a cura di una pinoinsegnista della prima ora.
Se la storia della tv italiana non è la materia a piacere che portereste agli esami di riparazione, è il caso di spiegare chi sia il protagonista delle polemiche della settimana che va a principiare: Fabio Fazio, conduttore televisivo in un Paese che da che ho memoria ama cianciare di mancato ricambio generazionale e di giovani oppressi dalle generazioni precedenti.
Fazio ha meno di ventinove anni quando scompiglia l’idea di cosa debba essere la domenica pomeriggio con Quelli che il calcio; trentadue quando con Anima mia fonda il secolo successivo e i di esso difetti inventando la nostalgia come carattere generazionale; trentaquattro quando dice all’ufficio contratti Rai che, ad affiancarlo a Sanremo, vuole un tizio che ha vinto il Nobel per la medicina, Renato Dulbecco.
Non c’entra, ma c’entra: la carriera di Fabio Fazio non sarebbe esistita se non fosse esistito Bruno Voglino, che era un funzionario Rai quando i funzionari Rai erano intellettuali con una visione del mondo e il coraggio di scommettere sul talento, e non gente che aspetta solo che sia mezzogiorno meno un quarto per prendere il borsellino e andare a mensa.
Non c’entra, ma c’entra: nel 1999 l’ineffabile ufficio contratti Rai offre al professor Dulbecco trecentomila lire per cocondurre Sanremo, con una frase che chiunque abbia avuto a che fare con la Rai conosce, «Non ha un precedente»; frase che forse serve a capire quanto sia disutile trattare un rinnovo contrattuale Rai come fosse una questione che attiene al mercato.
Mai, nella storia di quel perpetuo pasticcio decisionale che è l’esistenza d’una televisione pubblica, s’era visto un esito che convenisse a tutti. Mai, fino al congedo di Che tempo che fa, che ancora per due settimane dovrebbe essere su Rai 3, ma sabato Beppe Caschetto (agente di Fazio da sempre, e personaggio che sta alla tv italiana come Enrico Cuccia stava alle banche) ha chiuso il nuovo contratto, e ieri è arrivato il comunicato di Discovery: da settembre Fazio farà lì il suo il programma, e altro di non ancora specificato.
Fazio che va via dalla Rai conviene a tutti. Conviene alla sinistra, che può dire alla destra ma non vi vergognate, un programma colto, un programma elegante, un programma prestigioso, un programma con ospiti il Papa e Obama, Tom Hanks e Carrère, Fanny Ardant ed Erin Doom, e voi volete metterci Pino Insegno, ce lo vedo Labatut che viene a farsi intervistare da Insegno (conto che dicano «c’avete solo Pino Insegno» col tono con cui i romani dicono ai milanesi «c’avete solo la nebbia»).
Conviene alla destra, che potrà dire al proprio elettorato che, coi-vostri-soldi, non abbiamo rinnovato quella lussuosa produzione, che essendo esterna se viene ospite Beyoncé neppure la manda a dormire nei tre stelle convenzionati Rai, è uno scandalo, è una vergogna, le mani nelle tasche degli italiani, l’hanno mandata al Four Seasons che oltretutto non ha un precedente.
Conviene a Fazio, che ha una carta-martirio e risulta subito elegantissimo non giocandosela (ieri sera in onda ha detto che lui e i suoi non hanno «nessuna vocazione a essere vittime o martiri: siamo persone fortunatissime», subito dopo aver spiegato che non parlerebbe mai male della Rai avendoci lavorato quarant’anni: come gli ex mariti migliori, quelli che non spettegolano e non recriminano); ma va a farsi dare da Discovery come minimo gli stessi soldi che prendeva finora, che sono più soldi di quanti gliene darebbe ora la Rai (che domani, col nuovo amministratore delegato, avrebbe offerto a Fazio un contratto alla metà di quel che prendeva, da cui l’annuncio domenicale che grazie, non sei tu sono io, restiamo amici).
D’altra parte è il paradosso della tv pubblica: gente alla quale il mercato darebbe dieci volte tanto si sente rinfacciare d’essere pagata coi-nostri-soldi, invece che ringraziata perché lavora per un decimo di quel che potrebbe ottenere altrove.
L’unico cui non conviene è Maurizio Crozza, che finora era l’unica star di Discovery, l’unico per cui si ammazzavano vitelli grassi per il prestigio culturale in una rete in cui la carretta viene tirata da programmazione sofisticatissima con titoli quali Cash or Trash? e Il contadino cerca moglie. Il trauma di passare da figlio unico a non più reuccio di casa può essere pesante, ma meno di quel che sarà per Fazio passare dall’ospitare Amadeus che racconta il prossimo Sanremo all’ospitare Conticini che promuove la versione postmoderna di Ok, il prezzo è giusto.
L’ultima volta che Fabio Fazio e il suo gruppo di lavoro avevano lasciato la Rai c’era la lira, i cellulari non facevano le foto, e il più recente Sanremo l’aveva condotto Raffaella Carrà. Telecom aveva comprato Tmc, per trasformarla in La7 e fare di Fazio e del suo programma di seconda serata – era quando non volevano ancora tutti fare Fallon, ma qualcuno voleva fare Letterman – il gioiello della rete.
Poi qualcosa era andato storto, non è interessante ricostruire qui le versioni dei fatti rispetto alla chiusura d’un programma che neanche aveva ancora cominciato ad andare in onda (chiusura peraltro piuttosto remunerativa: Caschetto sa fare i contratti). È interessante un dettaglio che dimostra come la realtà fosse già allora una sceneggiatrice così formidabile da permettersi lussi d’inverosimiglianza per i quali un altro sceneggiatore verrebbe protestato dalla produzione.
Il giorno del 2001 in cui viene comunicato al gruppo di lavoro che spiacenti, abbiamo scherzato, sì abbiamo presentato i palinsesti, sì è tutto pronto per cominciare, sì il terzo polo (il terzo polo televisivo aveva grandi speranze e grandi delusioni da prima di quello politico) – ma, ecco, come non detto, amici come prima, lasciamoci senza rancore – quel giorno lì ovviamente viene stilato un comunicato.
Un comunicato indignato, vibrante, che parla dell’impossibilità di fare tv in un Paese dalle continue ingerenze politiche, dell’invadenza nelle scelte culturali di partiti che dovrebbero pensare a ben altro, di rava, di fava. Mentre lo si sta stilando, qualcuno butta un occhio alla tv senza volume, e chiede cosa sia mai quella stranezza. È un aereo che entra in un grattacielo. Poco dopo un altro.
Come va a finire lo sapete tutti, anche se la storia della tv non è un vostro pallino. La notizia del mancato inizio del Fazio di seconda serata non ha, sui giornali, lo spazio che avrebbe avuto in un’altra settimana.
Questa settimana qui per fortuna non sono previsti attentati, Salvini ha già cominciato coi tweet da seconda media, e insomma dovremmo poterci intrattenere e trascorrere qualche lieto pomeriggio a dirci che sì, comunque era un programma che costava troppo, e poi non mi hanno neanche mai invitato a presentare lì il mio libro, e insomma quel Fazio se l’è cercata, e poi sai che c’è, Pino Insegno m’è sempre piaciuto.
Anticipazione da “Oggi” il 15 maggio 2023.
«La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria nei confronti della cosa pubblica con pochi riguardi per il bene comune e con una strabordante ingordigia. E non solo per quel che riguarda la televisione».
Il settimanale OGGI, in edicola giovedì 18 maggio, anticipa alcuni estratti dalla consueta rubrica settimanale di Fabio Fazio «Senza impegno», che il conduttore, in procinto di lasciare la Rai, apre con queste parole: «Nessun vittimismo e nessun martirologio: detesto entrambe le forme di autocommiserazione. Non è proprio il caso. Semplicemente è andata così: continuerò il mio lavoro altrove e come ogni inizio sarà un’opportunità per inventare cose nuove e nel tempo tentare nuove strade.
Come si sa è cambiata la narrazione. Ma la narrazione un professionista se la scrive da solo, col proprio lavoro e con il proprio curriculum. Non si può far parte di una narrazione altrui, tanto più se per altrui si intende la politica di chi ha vinto in quel momento».
Fazio spiega: «Negli anni scorsi ho sperimentato sulla mia pelle che cosa vuol dire essere adoperato come terreno di scontro senza alcuna possibilità di difesa se non quella dei risultati del proprio lavoro. Anche se servono a poco o a niente, soverchiati come sono dalla potenza di fuoco che ti viene scaricata addosso. La sensazione di essere merce pericolosa e non una risorsa della propria azienda non è gradevole».
E aggiunge: «Il mio lavoro consiste nel fare televisione e non nel cercare un faticoso equilibrio con questo o quell’esponente politico a cui chiedere aiuto. Per fortuna non frequento nessuno e incontro Ministri ed esponenti di partito esclusivamente nello spazio pubblico della trasmissione che conduco. L’essere un irriducibile provinciale è sempre stata una salvezza». In conclusione, una certezza: «Non sentirete mai una mia parola scortese nei confronti della Rai che è parte integrante della mia vita».
Da ansa.it il 15 maggio 2023.
"C'è una libera scelta di un libero conduttore che ha accettato liberamente un'offerta, che spero per lui sia consistente, di un'emittente televisiva privata".
Lo ha detto Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, riguardo al passaggio di Fabio Fazio a Discovery.
"Penso che la Rai, così come l'intero Paese possa contare su tante donne e tanti uomini altrettanto in gamba, senza che nessuno ne faccia una questione di Stato", ha aggiunto.
"Siamo in democrazia, auguri e buon lavoro", ha commentato Salvini, parlando a margine dell'evento di avvio dei lavori del passante Av di Firenze. "Ho tanti cantieri su cui lavorare - ha detto -, che l'ultima cosa che mi interessa fare sono i palinsesti televisivi...".
"La politica dovrebbe stare il più possibile fuori dalle scelte editoriali perché sono qualcosa di molto delicato, ma soprattutto devono riguardare l'intrattenimento e l'informazione dei cittadini. In ultima analisi sono i cittadini a scegliere". Lo ha detto il governatore della Liguria Giovanni Toti a margine di un impegno istituzionale commentando l'addio di Fabio Fazio alla Rai dopo il mancato rinnovo del contratto.
E anche la rassegna stampa mattutina di Fiorello a Viva Rai2! ha parlato di Fabio Fazio, all'indomani dell'annuncio dell'addio del conduttore alla Rai per passare a Discovery.
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 maggio 2023.
«Comunista!». Anzi «comunista col Rolex». «Milionario a carico degli italiani». «Guadagna in un mese quanto me in un anno». Per Matteo Salvini era diventato qualcosa che assomigliava a un’ossessione, il bersaglio di ogni sua inquietudine e rivalsa: Fabio Fazio. Per anni ne ha parlato ovunque, persino nei comizi […] «Cresciamo nonostante i giornali, Fazio e Gruber», s’inorgogliva nelle valli bergamasche. Soprattutto si vantava di non andarci: «Fazio mi sta sulle palle!».
Poi faceva capolino anche un umano dispiacere, a stento represso, per il fatto di non essere stato chiamato, «invita la qualunque, manca solo Cetto, io non sono offeso se non mi invita, la vita vera significa sezioni e gazebo anche sotto la neve, non lo dico per non fare il piagnina».
Più volte, in passato, anche Giorgia Meloni si era lamentata dei mancati inviti («mai uno di destra»). Perché Fazio era ambito, faceva imbattibili ascolti (e vedremo se chi lo sostituirà saprà fare meglio) e le sue interviste, non esattamente urticanti, facevano comodo. […] Con Fazio salta il personaggio che più di tutti, a destra, catalizzava l’acredine buonista, l’odio verso il politicamente corretto e il mainstream, verso quel mondo che il prossimo direttore generale della Rai […] Giampaolo Rossi, ha riassunto nella formula dei «fighetti radical-chic, elitari liberal, bamboccioni antifascisti».
Rossi definì Roberto Saviano […] «un vermilinguo», «il puntuale riempitivo dei salottini televisivi di Fazio da 11 milioni di euro (con i soldi vostri)». E quindi ora siamo al repulisti sognato per anni dai vari Maurizio Gasparri («il contratto di Fazio va stracciato!»), Daniela Santanché («Non tradisce la radice del suo cognome e si conferma Fazio- so»), […]
[…] Fazio, che deve essere un tipo che non dimentica, ha contato ben 123 attacchi. Tuttavia il ministro è stato l’interprete di una corrente di pensiero più ampia, che include anche i giornali d’area […] Quando Fazio intervistò Macron la leader di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione, arrivò a dire: «Si faccia pagare lo stipendio dall’Eliseo!». Per lei Fazio era uno che «tutte le settimane ci spiega come dovrebbe funzionare il mondo. Italiani ribellatevi: non guardate Che tempo che fa!».
E non va dimenticato che Fazio è stato per anni nel mirino anche dei grillini anti casta […] Il contratto di Fazio fu oggetto di una campagna violentissima. Forse l’avrà dimenticato ma anche Roberto Fico lo definì «un comunista col portafogli a destra». […] Questa storia conferma che la tv, in un paese anziano come il nostro, modella ancora il senso comune. […]
Estratto dell'articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 18 maggio 2023.
C’era una gara tra di noi (se non eravamo in qualche guerra nel mondo), come giornalisti ci piaceva molto una cosa del tutto scomparsa, la cosiddetta arguzia (credo se la siano dimenticati anche i vocabolari) e di qualsiasi cosa parlassimo ci mettevamo un minimo di spiritosaggine. Ma allora, come poteva piacerci Fabio Fazio, uno che era nato buonistissimo e sorrideva sempre, e mai ci avrebbe messo di buonumore con un po’ di gentile cattiveria? Anche i nostri cari presi in giro, alla fine, ridevano non noi, e mai si offendevano, e si offendevano solo i gran musoni.
Eravamo un popolo felice e non lo sapevamo. A noi il Fazio ci disturbava col suo essere sempre contento, per non parlare della Littizzetto che non ci faceva ridere parlando di cacca e altro. Ebbene confesso, dopo le prime puntate (avevamo altro da fare) ho smesso di vedere Che tempo che fa e per 20 anni non ne ho saputo nulla.
(...)
Adesso che Fazio deve lasciare la Rai e tutti i suoi buoni propositi, ecco che mi trovo a indignarmi per prima; sono totalmente, sicuramente, dalla sua parte davvero, e vorrei mettermi a capo di un corteo con bandiere e striscioni, più il bastone per sostenermi, per attraversare la città. Perché, cosa ha fatto Fazio di peccaminoso? Ha parlato male di qualche destro? Ha offeso qualche ministro in carica? Ha sputtanato qualcuno molto su, ha dileggiato il Papa?
No, lui ha continuato a parlare bene di tutti e infatti io continuavo a non vederlo, sino a quando deve aver fatto qualcosa di tremendissimo, un assassinio, un feroce assalto tipo baionetta, una bischerata? Io non ho visto la puntata che lo ha reso acerrimo nemico di chi è al potere, che oggi, a questo punto, dovrebbe fottersene tanto pare chiaro che starà lì per un bel po’. Ma deve averne fatta una imperdonabile, un insulto che solo col sangue può essere lavato. Infatti! Ha offeso un ministro, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri! Ha offeso il Matteo Salvini!
Deve essere stata una cosa tremendissima, un’offesa da duello, povero Fazio: alla bella trasmissione di Repubblica, Metropolis, l’altra sera han fatto vedere una serie infinita di sgridate contro Fazio, tenute con brillanti microfonate dal Salvini. Ecco finalmente ciò di cui la destra è ghiotta: La Vendetta! Un uomo che non perdona, uno che se la prende con un soave cherubino che, ricevendo Papa Francesco oppure Obama, li mandava a casa in visibilio. E Meloni ci pensa su e ci mette un Pino Insegno al posto del Fazio e voglio vedere se qualcuno osa. V come vendetta, (2005), che povera vittoria. E per esempio, Vendetta n. 2.
Non si capisce perché Luigi Mascheroni, cattedra di Teoria e tecniche dell’informazione culturale alla Cattolica di Milano, se la prenda in maniera ferocissima con uno, immagino, a lui ignoto signore, di cui andava alla Prima del 7 dicembre alla famosa Scala.
Sull’apposito Il Giornale si lancia con una crudeltà riservata di solito ai Brutti e Cattivi, contro Stéphane Lissner, attualmente sovrintendente del San Carlo di Napoli. Cosa ha fatto il cattivone? Ha compiuto 70 anni! Il Mascheroni lo distrugge come se avesse fatto chissà quale imbroglio, per aver fatto, prima del San Carlo e per 10 anni il sovrintendente alla Scala, facendo, mi scusi giovanotto, un bel lavoro che risanava il bilancio. Ma è francese! È francese di origini russe!
(...)
Promuovendomi, quale onore!, a Simone de Beauvoir (forse una dama, ahinoi un po’ comunista che probabilmente insisteva nel corteggiare un ignoto direttore d’orchestra al posto di Nelson Algren), ha scritto un articolo così pieno di livore assurdo. Ma che gli ha fatto al dottor Mascheroni? Gli ha rubato la moglie? Era un ricatto del direttore del giornale? Era il semplice odio per chi non è nato qui e certo ne sa più di un povero professore sul proprio mestiere? Perché è straniero come pareva normale un paio d’anni fa? Perché si sente europeo e non ahimè, italiano, con tutte le maiuscole malgrado la mafia? Perché l’Italia non è acqua? Però dottore Mascheroni, un po’ di minor invidia, un odio meno delirante: e poi, perché?
Giampiero Mughini per Dagospia il 15 maggio 2023.
Caro Dago, e adesso che Fabio Fazio e i suoi reparti scelti emigrano dalla Rai a un canale televisivo privato chi ci rimetterà di più, la Rai o Fazio? La risposta è facilissima. Fazio continuerà a fare una televisione ben strutturata, accorta nel suonare i vari tasti del pianoforte, attraente per un pubblico “riflessivo”.
La Rai se lo sogna di fare alcunché di garbato ed elegante che sul canale 3 alle ore 20 radunava la bellezza di oltre due milioni di spettatori a botta. E’ semplicissimo. La Rai perde un protagonista, Fabio continuerà invece a fare il mestiere cui si dedica anima e corpo da oltre trent’anni e che lui indossa con la stessa naturalezza con cui uno di noi indossa un abito che s’è scelto e ha voluto a tutti i costi.
E siccome sono un uomo elegante, non farò alcun commento sulle parole ingiuriose che a Fazio ha rivolto Matteo Salvini. Detto questo nessun dramma. Nella vita tutto scorre e tutto passa. Figuriamoci in tv, dove del doman c’è solo la più assoluta incertezza.
Fabio e io ci conosciamo e ci frequentiamo professionalmente da oltre trent’anni. Nei primissimi anni Novanta facevamo combutta in una purtroppo sbagliatissima trasmissione mattutina alla domenica di Rai Tre, una trasmissione che il pubblico punì inesorabilmente. Inviso com’era ad Angelo Guglielmi, l’allora patron del canale 3 della Rai, Fabio venne cancellato dal palinsesto televisivo della Rai.
Ricominciò da zero su un canale privato. E ricordo di essere stato invitato a una puntata di quella sua trasmissione e che a farmi da tassista per andare in studio fu nientemeno che Pupi Avati, il quale assieme al fratello ne era il produttore. Più tardi Fabio traslocò, per volere di Marino Bartoletti, alla conduzione della fortunatissima trasmissione televisiva “Quelli che il calcio” dove fece anche lì benissimo e dove una volta che mi ci aveva invitato mi riferirono che Guglielmi (il quale non voleva bene neppure a me) rimproverò gli autori per avere invitato un tale “cretino” quale il sottoscritto. Così è in televisione, tutto dipende dal fatto che sì o no stai simpatico a qualcuno che può. Nonché dal fatto che azzecchi il comparto di pubblico cui rivolgerti.
Fabio si inventò tutto di “Che tempo che fa” nel settembre 2003 per poi guidarla sapientemente al guinzaglio attraverso tutti e tre i canali Rai, sempre con un gran consenso di pubblico e beninteso di quel determinato pubblico che predilige l’offerta di qualcosa “di sinistra”. Ci trovate qualcosa di strano? Ma nemmeno per idea, se per mestiere fai la comunicazione ti devi pur scegliere una fisionomia e quella fisionomia devi far valere, con il permesso di Salvini. Di quella fisionomia Fabio ha fatto per vent’anni il suo cavallo di battaglia professionale, una televisione comunque di serie A e non è che ce ne siano tantissime.
Ne parlo come uno che in quella trasmissione è stato chiamato talvolta a parlare delle prime edizioni dei libri di un Dino Campana o di un Giuseppe Ungaretti, le faccende per me le più importanti di tutte, e ancora ne sono grato a Fabio. Detto questo tutto scorre e tutto passa e tutto cambia. A cominciare dai nostri capelli, ogni giorno più bianchi, e dalle nostre gambe, ogni giorno più deboli. In bocca al lupo, Fabio.
Giampiero Mughini per Dagospia il 16 maggio 2023.
Caro Dago,
leggo da qualche parte un post in cui Vittorio Feltri lamenta che su dieci libri da lui pubblicati in questi ultimi anni mai una volta Fabio Fazio lo ha invitato a sederglisi accanto, e che perciò lui continuerà a “non vederlo” quale che sia il canale dove lui andrà.
Voglio bene a Vittorio per cento motivi che non sto qui a elencare per filo e per segno, e voglio spiegare perché questa volta non sono d’accordo con lui.
Il fatto è d’una semplicità elementare. Fabio, al quale voglio bene per cento e differentissimi motivi che non sto qui a elencare, nella sua professione di comunicatore s’è scelto un pubblico all’opposto di quello che s’è scelto Vittorio da trent’anni a questa parte, un pubblico che avrebbe spento il televisore ove vi fosse apparso Vittorio. E’ di una semplicità elementare.
Da quanto il mio indimenticato maestro e padre Indro Montanelli s’è messo a fare a pugni con Silvio Berlusconi (auguri, presidente!), Vittorio ne ha preso il posto nel rivolgersi a un pubblico che dirò “conservatore”, a un pubblico fieramente anticomunista (ne aveva ben donde), a un pubblico cui diceva che loro non erano affatto dei pezzi di merda come pronunziava 24 ore al giorno l’artiglieria da campo del “politicamente corretto”.
Beninteso, che Vittorio si rivolgesse a quel pubblico era pienamente nel suo diritto. Un pubblico cui mi sono rivolto anch’io, le volte che Vittorio mi ha chiesto di collaborare ai giornali da lui diretti. Non era il mio pubblico più naturale, ma io lo rispettavo moltissimo. E non una sola virgola di quello che ho scritto sui giornali di Vittorio faceva a pugni con la mia anima.
Di uno che se ne strafotte di tutto e di tutti ma che rispetta sino all’ultima particella tutto e tutti. Perché tutto e tutti fanno parte della scena umana in cui viviamo.
Ora succede che Fabio alle ore 20 della sera sul canale Tre si rivolge a un altro pubblico. Non c’è da scherzare in materia, perché sono in ballo spettatori a milioni e euri a milioni. Tra Feltri senior e Michele Serra, Fazio non ha da esitare.
Il suo pubblico adora Serra (che è un ragazzo in gambissima e al quale io perdono agevolmente di avermi insultato trent’anni fa), e invece odia da cima a fondo Feltri.
Fazio ha il diritto di scegliersi il pubblico cui rivolgersi e di essere lui stesso affine a quel pubblico? Ma certo che sì. Feltri ha il diritto di rivolgersi a quel tutt’altro pubblico e di essere diventato il giornalista italiano meglio pagato degli ultimi vent’anni? Ma certo che sì. E allora dov’è il problema? E’ la vita in tutte le sue infinite sfumature, nient’altro che questo.
Ne sta parlando, lo ripeto, uno che non è mosso dal benché minimo odio verso l’uno o l‘altro pubblico, uno che se ne strafotte di tutto e di tutti e che proprio per questo prende il suo bene ogni volta ora a sinistra, ora a destra, ora al centro. Lo prendo da chiunque con il quale vorrei passare una serata a discutere del più e del meno, talvolta in accordo talvolta in disaccordo. Di certo con gente come Vittorio e Fabio.
Vittorio Feltri: "Ho lavorato con Fabio Fazio, ecco cosa dicono di lui". Libero Quotidiano il 17 maggio 2023
La sinistra piange calde lacrime perché due suoi beniamini, cioè Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, sono sul punto di sloggiare dalla Rai, dopo anni e anni di militanza professionale e politica. La cosa può sicuramente dispiacere al pubblico progressista, però non si tratta di una tragedia dovuta a una censura da parte del governo. Lo sanno anche i morti che quando cambia la musica a Roma, cambiano anche i suonatori. In pratica la destra applica le stesse regole che hanno consentito al Pd e soci di dominare sugli schermi del monopolio per lungo tempo. Se le norme hanno avuto valore e sono state applicate per lustri allorché gli ex comunisti (ex si fa per dire) vincevano le elezioni, non vi è alcun motivo che Fdi, la Lega e Forza Italia non possano controllare l’antenna di Stato. Non mi sembra un ragionamento campato in aria. Chi ha ottenuto più suffragi rispetto ai concorrenti ovvio che comandi. Chi altrimenti?
e non provo alcuna antipatia per Fazio con il quale in tempi lontani ho lavorato per mandare in onda un programma intitolato Forza Italia, logo di cui poi si impossessò Silvio Berlusconi mettendolo in testa al suo partito ancora in vita. Fabio faceva delle imitazioni decenti, io scrivevo i testi. Poi ci siamo persi di vista, lui piantando le tende in Tv e io in vari giornali, di cui ho perso il conto. Egli con la sua trasmissione “secolare” ha avuto un notevole successo e credo pure uno stipendio stellare. Non che il mio sia stato rasoterra, anzi, ma il suo a quel che si dice pare inarrivabile per una persona normale. La specialità del nostro eroe è sempre stata quella di invitare a Che tempo che fa i suoi amici e gli amici degli amici, ovviamente tutti rigorosamente mancini nell’anima. La cosa non mi ha mai sorpreso. Quando un suo sodale scrive un libro, egli lo invita prontamente affinché pubblicizzi l’opera diciamo così letteraria.
Si è guardato bene di ospitare me vicino al suo scranno benché di libri ne abbia scritti circa dieci. Perché? Non sono mai stato rosso neppure di vergogna. Non si stupisca quindi il celebre conduttore se adesso, avendo rotto le scatole da ubbidiente, Fazio fazioso sia stato scaricato. Non sarà comunque in miseria come non lo sono io. Vada in pace in un’altra emittente dove comunque continuerò a non vederlo, non per antipatia ma per stanchezza. A ciascuno di noi capita di fare il proprio tempo, è capitato anche a lui a cui auguriamo tuttavia di consolidare la propria abilità di leccare i potenti, ammesso che siano ancora tali. Senza rancore.
DAGONOTA il 16 maggio 2023.
Che allocchi quei sinistrelli convinti che Fabio Fazio sia stato giubilato dalla Rai dal randello catodico dei cattivoni fascisti. Non sanno, i fessacchiotti, che il conduttore ligure non solo non è un martire della libertà d’informazione, ma è talmente abile a far di conto che ha badato solo alle sue tasche.
Il suo contratto con la Rai, in scadenza il 30 giugno 2023, prevedeva un accordo biennale da 3 milioni e 330mila euro (più di 1,6 milioni l’anno).
Fabiolo non ha neanche aspettato l’insediamento dei nuovi vertici Rai e ha annunciato il nuovo accordo con il gruppo Discovery, per l’approdo al canale Nove. Lui e il suo scaltrissimo agente, Beppe Caschetto, porteranno a casa un quadriennale da 2,5 milioni l’anno (quasi 900mila euro in più ogni 12 mesi rispetto a quanto garantito da Viale Mazzini).
Una mossa che dimostra quanta poca voglia avesse Fazio di mettersi a trattare il rinnovo del contratto. Come scrive Maurizio Caverzan sulla “Verità”: “Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros”.
Non solo c’era un ampio margine di tempo (oltre un mese e mezzo) per un eventuale rinnovo, ma Fazio avrebbe incontrato la disponibilità del nuovo amministratore delegato, il super democristiano Roberto Sergio, che si è affrettato a confermare la messa in onda del ben più urticante “Report”, non così amato a destra, e “Mezz’ora in più”, la striscia settimanale della sinistratissima Lucia Annunziata.
Quel che fa sorridere è che la zampata del tandem Fazio-Caschetto, che ha puntato dritto alla pecunia impipandosene di tutto il resto, viene raccontata dai giornali d’area (Pd) come un colpo di mano dei censori di destra. Lo stesso Fazio racconta il suo addio alla Rai in modo ambiguo: prima ha minimizzato sostenendo di non avere “alcuna vocazione a sentirsi vittima”, e poi, nella sua rubrica su “Oggi”, ha tirato la bordata (“la politica si sente legittimata a comportarsi con una strabordante ingordigia”; “Negli anni scorsi ho sperimentato sulla mia pelle che cosa vuol dire essere adoperato come terreno di scontro”). Ma alla fine cosa resta? Che Fazio andrà a guadagnare una barca di soldi che la Rai non gli avrebbe mai potuto garantire. E lo fa passando pure per “vittima” del governo Meloni. Fesso chi ci casca ma a lui…chapeau.
Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “la Verità” il 16 maggio 2023.
A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. […]
Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno 10 milioni tondi tondi. […] Rispetto al milione e 900.000 percepito in Rai con l’ultimo contratto […] Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli.
[…] senza contare quanto incasserà Officina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3, l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi […]
[…] «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. […] Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. […]
[…] Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai?
Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros.
L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di Officina. […] Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane.
Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa. […]
Antonello Piroso per “la Verità” - ARTICOLO DEL 29 SETTEMBRE 2020
Io odio Fabio Fazio. Come - si parva licet - Antonio Gramsci odiava le persone «cosiddette serie, che cercano - abusando di questo loro carattere da commedia - di truffare la nostra buona fede». Come odia, in realtà, lo stesso Fazio. Arcano svelato da Nino Frassica, presenza gradita nella sua trasmissione: «È un uomo che ama e odia in maniera netta: se gli piaci è per sempre, altrimenti con lui scatta il "mai". Niente grigi».
Fazio, insomma, non è un santo. Semmai un santino della sinistra da salotto televisivo, memori del giudizio che ammiccava a un certo qual suo conformismo di convenienza, emesso da Antonio Ricci, che non lo ama: «Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra».
Per tacere dello scomparso Edmondo Berselli (direttore della rivista Il Mulino ed editorialista di Repubblica e Espresso, quindi non certo un populista-sovranista rancoroso e con la bava alla bocca) che prese posizione «contro il conformismo pensoso di Fazio, contro le modeste volgarità della madamìn Luciana Littizzetto, contro tutti gli idola tribus - gli idoli della tribù - che riempiono continuamente di applausi lo studio di Che tempo che fa, santuario e cenacolo dei ceti medi riflessivi».
Fazio è umano, proprio come tutti noi (solo, sia detto con somma invidia, pagato decisamente un po' meglio). E se almeno dietro le telecamere non è sempre buono, davanti alla luce rossa, invece, o nelle interviste ai giornali, Fazio è un uomo a una dimensione, marcusianamente parlando: quella buonista.
È successo ancora una volta sabato scorso, nell' intervista alla Stampa per il suo ritorno in video (e sarà stato poi un caso ma, domenica sera al debutto, il quotidiano torinese è stato ampiamente inquadrato durante l' intervista a Luigi Di Maio - proprio lui, quello che nel dicembre 2018 sentenziava: «Esiste un caso Fazio in Rai», il che conferma la nota coerenza di Di Maio, ma si sa, come si canta a Napoli e dintorni: «Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato»; il tutto per 2.280.000 telespettatori nella prima parte, un milione in meno nella seconda).
Prima c'è stata una timida domanda sui suoi compensi, che ha consentito a Fazio di vestire i panni del martire, dopo aver scritto in passato su Twitter addirittura di «anni di linciaggio»: «C' è stata una campagna diffamatoria, frutto del populismo » (e te pareva), per poi aggiungere: «La Corte dei Conti ha sentenziato che Che tempo che fa costa la metà di qualunque altro varietà».
E qui si potrebbe opinare che «programmi d' intrattenimento» tipo la fiction Il commissario Montalbano o tipo Ballando con le stelle sono più replicabili e più vendibili all' estero di un talk show, tanto più se gli ospiti sono autoctoni, vedi alla voce Gigi Marzullo e Orietta Berti, e non personaggi internazionali (che peraltro da Fazio non vanno sempre e solo perché sta loro simpatico: il campione del mondo di Formula Uno Lewis Hamilton avrebbe raggranellato 150.000 euro per 25 minuti, cifra mai rettificata).
Tornando alla conversazione con La Stampa, è stato il passaggio successiva a innescare la mia idiosincrasia. Perché esso disvelava, a parer mio, la solita pulsione all'esibizionismo etico - stante la definizione di buonismo della Treccani: «L'ostentazione di buoni sentimenti, tolleranza e benevolenza».
Per Fazio, infatti, mala tempora currunt: «Il populismo non mi sembra, né da noi né all'estero, un fenomeno destinato a un rapido fallimento» (e qui io avrei gentilmente interloquito: «D'accordo, ma non sarà che oggi abbiamo questi qua perché prima c'erano quelli là? E visto che celebriamo i 18 anni del programma, in tutto questo tempo lei non s'era accorto di nulla? E come incalzava i suoi ospiti, magari di sinistra, a fare di più e meglio per scongiurare l'arrivo dei barbari?").
Non basta: «Manca completamente la capacità di analisi, manca il pensiero, l'unica cosa che facciamo è consumare. Ha prevalso ancora una volta l'egoismo e la bulimia».
E qui il Franti che è in me ha avuto un sobbalzo. Perché è davvero cosa buona e giusta preoccuparsi di come il mondo sia un luogo brutto, sporco e cattivo, non meritocratico, tracimante di aberranti sperequazioni e virus generati dalla nostra incontinenza, magari invocando la «decrescita felice», ma com'è che ce ne accorgiamo tutti non prima o durante, ma sempre dopo, quando cioè grazie alle rapaci leggi di mercato siamo diventati economicamente più ricchi?
In fondo è quello che deve ritenere intimamente lo stesso Fazio, se parlando con Di Maio della proposta di «tagliare» gli emolumenti dei parlamentari, se n'è uscito così: «Una cosa sono gli sprechi, una cosa sono i costi, e in una società di mercato il denaro misura il valore delle persone». Et voilà. Forse intendeva «la competenza», ma in ogni caso l'assioma dice tutto (siamo dalle parti del «profitto come segno della grazia divina», evocando Max Weber e il suo L' etica protestante e lo spirito del capitalismo; sì: l'etica e la cotica).
Ergo: se è riuscito a strappare un accordo quadriennale per un programma che costa complessivamente 18 milioni e rotti all' anno (cifre del Sole24Ore nel 2019: 2.240.000 a lui, 10.644.000 alla società che produce il talk e di cui lui detiene il 50%, il resto sono costi industriali), è perché è bravo. Il più bravo.
Di certo a farsi strapagare, beato lui. Da chi? Dalla tv pubblica, appunto. Dove fu trattenuto grazie al renziano - almeno all'epoca - direttore generale Mario Orfeo, e al presidente Monica Maggioni che chiosò (titolo di Repubblica): «Non so se la Rai avrebbe retto senza Fazio. Possibile impatto sistemico, occupazione a rischio». Nientemeno. E perché il pericolo di un trasloco in un'altra azienda fu scampato? Da chi era stata messa in forse la firma? Da Fazio stesso. E perché?
Perché nel 2017 aveva scoperto che, toh, la Rai - dove aveva debuttato nel 1982 alla radio - era lottizzata, lui da sempre indicato come un Walter Veltroni boy, e «colpita al cuore» dalla partitocrazia: «Intrusioni senza precedenti, vulnus forse insuperabile». Forse, appunto. Visto che poi è intervenuto il sontuoso rinnovo. Che poi i partiti a qualcosa sono pure serviti, nella storia della Repubblica e anche in quella sua personale.
Almeno a dar retta a Daniele Luttazzi, che nel 2007 tirò fuori la confidenza che Fazio gli fece nel 1992, quando lavoravano insieme a Tmc: aver evitato il servizio militare grazie a una raccomandazione di Bettino Craxi.
Apriti cielo! Tuoni, fulmini e saette, smentite che non smentivano, il Tapiro di Striscia la notizia, Luttazzi che giustificava il tardivo resoconto con il fatto che qualcuno doveva pur affrontare la «paraculaggine infinita» di Fazio (nonché, andrebbe aggiunto, il fatto che Luttazzi non stima Fazio perché «non si fece scrupolo di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l' idea del mio talk in blocco», delizioso cortocircuito in cui uno accusato successivamente di plagio accusa un altro di furto intellettuale).
Quanto poi all' attaccamento alla maglia di viale Mazzini, anche qui si potrebbe inzigare. Fazio ha sostenuto che in Finivest (dal 1993 Mediaset) gli offrirono ponti d' oro per ingaggiarlo, ma la cosa non si fece per il suo no. Ottimo.
Peccato che a incrinare l' oleografico amarcord sia arrivato quel guastafeste di Roberto D'Agostino, che su Dagospia scrisse: «Sotto raccomandazione del Psi, Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del gruppo. Si racconta che Fazio - forte della sua «copertura» - pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d' Italia, il progetto fu abbandonato».
Per non tirarla troppo in lungo, accantoniamo i rilievi sullo stile avanzati anche da chi da Fazio è andato e pure ritornato. Come Nanni Moretti, che davanti al conduttore in piena estasi adorante, «Tu sei il mio mito», lo ha canzonato: «Lo dici a tutti quelli che vengono qui, sei volte a settimana».
Come Ornella Vanoni, che richiesta di confermare i gossip sul suo incontro con Gino Paoli, ha sospirato rassegnata: «Di nuovo? È la 500esima volta che lo racconto, lo faccio giusto perché mi stai simpatico», e chissà cosa le sarebbe uscito di bocca se il Nostro le fosse stato sugli zebedei.
Come Francesco Vezzoli, artista cui Vanity Fair ha deciso di affidare la direzione di un numero del settimanale e che invece a Che tempo che fa non è mai andato (né mai ci andrà, se ha ragione Frassica): «Si è mai alzato qualcuno per andarsene da Fazio? No. Ed è un peccato. Magari venisse fuori un alito di vita, uno scazzo, una contrapposizione. La vita, l'editoria e il giornalismo non dovrebbero essere soltanto inchini e bomboniere».
Tornando a Gramsci, che ai sepolcri imbiancati preferiva «l'impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di sé stessa e si mostra trionfante alla luce del sole», devo ai lettori una confessione finale.
Non odio Fazio. Diciamo che non lo amo. Perché il mio cuore televisivo batte per Maria De Filippi. Che una volta, a chi la sfruculiava ancora sugli aspetti disdicevoli dei suoi programmi fatti con la gente comune, ritenendoli offensivi per il pubblico, confessò quello che per me è un pregio: «Ho rispetto per i telespettatori perché non mi ritengo migliore di loro».
Fabio Fazio, lo schiaffo di Travaglio: "Le epurazioni bisogna meritarsele". Libero Quotidiano il 16 maggio 2023
Il caso-Fabio Fazio non ha nulla a che vedere con il cosiddetto "Editto bulgaro". Così la pensa Marco Travaglio, che si definisce "una causa scatenante" di quell'editto di Silvio Berlusconi, che nel lontano 2002 chiese "ai vertici Rai di cacciare Biagi, Santoro e Luttazzi, rei di avermi ospitato per parlare dei rapporti fra B. e la mafia". Eppure, "gli epurati non trovarono un’altra tv, malgrado l’enorme seguito". Diverso discorso per Fabio Fazio che, assieme a Luciana Littizzetto, ha deciso di uscire dalla porta della Rai per entrare in quella di Discovery.
"Quella di oggi - tiene a precisare sulle colonne del Fatto Quotidiano - è tutt’altra storia, anche se Salvini rivendica una cacciata di Fazio che non c’è stata". Il motivo? "Fazio sa di piacere solo al Pd, di cui condivide per indole la visione conformista e mainstream, e di stare sulle palle alle destre; ha capito che gli avrebbero messo i bastoni fra le ruote; e ha prevenuto l’attacco firmando col Nove". Insomma, la scelta di lasciare Viale Mazzini ha solo un nome e cognome, quello del conduttore.
"In una qualunque azienda - osserva Travaglio - chi si lascia sfuggire una star di quel calibro verrebbe licenziato con richieste di danni dagli azionisti. Ma la Rai non è un’azienda, è un lupanare (bastava assistere, sabato, al vomitevole 'tank sho' degli scendiletto di Zelensky). Chi s’è lasciato sfuggire Fazio non è il nuovo ad Sergio, ancora in pectore: è quello vecchio, Fuortes, di area Pd messo lì da Draghi, che ha tenuto nel cassetto il rinnovo del contratto per compiacere i nuovi padroni". Ed ecco che è arrivata la notizia: Fazio ha firmato un contratto di quattro anni con Disvovery. "Nessun editto", dunque, "le epurazioni bisogna meritarsele e di Biagi, Santoro e Luttazzi non se ne vedono". Una frase, quest'ultima, con cui Travaglio sembra quasi dare del "pavido" a Fabio Fazio: secondo il direttore del Fatto, gente come Santoro, Biagi e Luttazzi erano di tutt'altra stoffa.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 16 maggio 2023.
In Rai serve un presidente indipendente da tutti i partiti (Massimo D'Alema, 2002); ci vuole una Rai più autonoma dai partiti (Piero Fassino, 2003); la Rai deve essere fuori dalle logiche di lottizzazione (Gianni Alemanno, 2006); la Rai non è e non deve diventare proprietà privata di un governo, se no è regime (Guido Crosetto, 2006);
la Rai deve essere la casa di tutti e non di chi ha vinto le elezioni, la politica faccia un passo indietro (Dario Franceschini, 2006); bisogna eliminare la lottizzazione in Rai (Clemente Mastella, 2007); bisogna andare nella direzione della fuoriuscita dei partiti dalla Rai (Walter Veltroni, 2008); cambiamo le regole, basta con la Rai occupata dai politici (Antonio Di Pietro, 2008);
(...)
evitiamo di mettere i partiti dentro la Rai (Matteo Renzi, 2015); per cambiare le cose in Rai bisogna cacciare i partiti (Luigi Di Maio, 2015); la politica resti fuori dalla Rai (Roberto Fico, 2018); per la Rai cerchiamo persone sganciate dalle logiche di partito (Matteo Salvini, 2018); questo è il momento giusto per riformare la Rai e sottrarla alle ingerenze della politica (Giuseppe Conte, 2021); abbiamo la sistematica occupazione della Rai (Giorgia Meloni, 2016). Che magnifica armonia!
Estratto dell'articolo di Fabio Martini per “La Stampa” il 16 maggio 2023.
Certo, da decenni la più grande emittente di emozioni nazional-popolari del Paese chiamata Rai alimenta gli appetiti della politica e tuttavia ci sono state stagioni nelle quali i partiti hanno avuto l'intelligenza di indicare alcuni tra i migliori professionisti su piazza. Per i ruoli da manager. Per le direzioni di Rete. Per quelle dei Tg.
Ma anche promuovendo giornalisti e personaggi dello spettacolo che sul campo avevano dimostrato le loro qualità.
(...)
Il 3 gennaio 1954, quando iniziarono le trasmissioni tv, la Rai era conservatrice e codina e tuttavia coltivava un'idea di grande azienda, tanto è vero che vi entrarono, attraverso il concorso, personalità antitetiche al clericalismo: personalità come Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Fabiano Fabiani.
Qualche anno dopo, era il 1961, il vecchio Pietro Nenni accostò Amintore Fanfani: «Avrei piacere che venisse in Rai Enzo Biagi…». Fanfani annui e per la prima volta si ruppe in Rai il "monocolore dc": quel Tg fu così innovativo e scapigliato che si arrivò a parlarne in Consiglio dei ministri. Durò poco, Biagi si dimise ma il dado era tratto. Sotto la direzione energica di Ettore Bernabei si susseguono gli esperimenti di grande tv, a cominciare da Tv 7 di Sergio Zavoli.
Ma la svolta che allarga ancora di più il campo matura nel 1975: viene approvata una riforma della Rai che fa passare il controllo dell'azienda dal governo al Parlamento, con l'istituzione della Commissione di vigilanza. Sembrava il viatico legislativo verso la più larga delle spartizioni e invece ebbe inizio un quindicennio di grande tv perché i principali partiti, Dc, Psi e Pci, è vero che lottizzarono, ma lo fecero, mandando i loro migliori professionisti.
Con programmi che hanno fatto epoca su tutte e tre le reti. Tocca anche al Pci giocare le sue carte e dal 1987 lo fa, contribuendo a produrre cultura nazional-popolare di alto livello. Col Tg3 guidato da Alessandro Curzi e con Rai3, dove un intellettuale «colto» anche di tv come Angelo Guglielmi incoraggiò la nascita di trasmissioni apripista come Samarcanda, Chi l'ha visto?, Telefono giallo di Corrado Augias. Ha spiegato anni dopo Enrico Menduni, allora nel Cda per il Pci: «Noi - e anche gli altri - allora sceglievamo i professionisti migliori perché tutti sapevano di dover agire in un ambiente competitivo. E la spartizione divenne, a suo modo, un fatto virtuoso».
Marco Follini, nella seconda metà degli anni Ottanta membro del Cda per la Dc, ricorda: «La lottizzazione era una scienza esatta ma la politica attraeva le energie migliori. La Piovra era una fiction anti-Dc o il massimo sforzo civico nel quale potevano riconoscersi gli elettori-spettatori dc più avvertiti?».
Negli anni della Seconda Repubblica e sino ai giorni nostri l'altalena tra lottizzazione "virtuosa" e "predatoria" ha seguito alti e bassi, ma da qualche giorno i rumors del toto-nomine sembrano indicare un paradosso: la difesa di alcune delle testate premiate dagli ascolti (Tg3 e Radio3 in primis) non sono opera della maggioranza ma del Pd, mentre il resto dell'azienda sembra prepararsi ad una lottizzazione con le parvenze dell'"occupazione". —
Che tempo che faceva: gli ospiti più faziosi di Fazio. Marco Leardi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.
Politici, artisti, attivisti, intellettuali, maître à penser dai discutibili pensieri. Nel programma di Fabio Fazio di ospiti ne sono passati tanti: tutti (o quasi) con simpatie a sinistra
Amici degli amici, compagni di merende e compagni veri e propri. Che tempo che faceva! Ormai dobbiamo declinarlo al passato. Con il suo passaggio a Discovery, Fabio Fazio ha infatti chiuso un'era di cui è stato l'assoluto protagonista in Rai. Per lunghi anni il conduttore ligure ha fatto da cerimoniere a una liturgia consolidatasi poi nel tempo e nelle abitudini del pubblico, grazie anche a un'impostazione piuttosto semplice nella sua struttura. Alla scrivania dell'occhialuto presentatore si sono susseguiti ospiti di vario genere e di varia provenienza. Personaggi politici e dello spettacolo, scrittori, intellettuali, attori, maître à penser dai discutibili pensieri. Tutti (o quasi) accomunati in maggioranza da simpatie orientate a sinistra.
Le ospitate fatte con il bilancino della par condicio certo non ci piacciono, ma nemmeno ci entusiasmano quelle contrassegnate da differenti criteri di parte. Negli anni, difatti, in molti hanno accusato Fazio di invitare con maggior frequenza i soliti amici della parrocchia, ovvero quelli più inclini alla sua sensibilità progressista. Leggenda narra che alcuni personaggi e artisti non di sinistra siano ancora in attesa di un invito da parte sua: campa cavallo. Non avranno soddisfazioni, almeno per quanto riguarda l'esperienza in Rai del conduttore, ormai alle battute finali. Al contrario, ci sono personalità che nei programmi fazieschi sono state degli habitué. Prendete Walter Veltroni. Solo negli ultimi anni, l'intellettuale ed ex leader della sinistra è stato ospite di Fazio sei volte. La più recente, il 19 marzo scorso assieme all'attore Neri Marcorè (altro volto particolarmente simpatico al padrone di casa).
I due presentavano il nuovo film Quando, rispetto al quale Fazio non ha fatto mancare i propri apprezzamenti. Quando c'era un libro, un disco, un programma o un film da presentare, del resto, il conduttore ligure non ha mai negato un'ospitata agli artisti a lui più graditi. Tornando però agli ospiti politici, come non ricordare gli interventi di Paolo Gentiloni, di Pier Luigi Bersani o di Elly Schlein, neo-incoronata alla guida del Pd. In passato il conduttore ospitò anche Pietro Grasso, che nell'occasione mostrò alle telecamere il simbolo della lista elettorale di Liberi e Uguali. I dem (allora renziani) si arrabbiarono: accidenti che cortocircuito. In compenso, le ospitate dei politici di centrodestra si possono enumerare con più facilità, per quanto più sporadiche e circostanziate.
Tra gli ospiti ricorrenti di Fazio, anche l'amico Roberto Saviano sempre foriero di frecciatine a chi non la pensa come lui. Da quegli studi è passato pure Fedez assieme a tanti colleghi cantanti, prontamente omaggiati con salamelecchi e applausi del pubblico in studio. E Michele Serra (che è stato pure autore di Che tempo che fa) non ce lo metti? Avanti, avanti: c'è posto per tutti. Al buon Fazio bisogna altresì riconoscere il merito di aver portato sulla tv italiana alcuni ospiti internazionali di grande richiamo. Peccato che, anche in questo caso, non siano mancati nomi di sinistra: uno tra tutti - forse il più importante - Barack Obama. Ma anche Greta Thunberg è approdata nella trasmissione faziesca per esporre le proprie teorie sul clima. Come non citare poi i riferimenti al tema migranti, con la scelta piuttosto emblematica di ospitare Carola Rackete e le attiviste di altre Ong.
Che tempo che faceva. Ora si chiude però lo Zibaldone degli ospiti progressisti. Fabio Fazio continuerà a scriverlo altrove.
Quanto guadagnerà Fabio Fazio per andare in onda su Discovery. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2023
Il passaggio dalla Rai al gruppo Discovery porterà al conduttore un contratto da 2,5 milioni di euro l’anno (a Viale Mazzini ne guadagnava 2,2)
L’ultima puntata di Che tempo che fa, la prima da ex di Fabio Fazio, è stata vista da 2,5 milioni di spettatori. Un numero simbolico, che coincide con la cifra, in milioni di euro, che il conduttore prenderà per il suo passaggio a Discovery. Contratto quadriennale, quindi i conti sono semplici, il totale fa 10 milioni di euro. Numeri che fanno impallidire noi comuni mortali, ma numeri in linea con il mercato televisivo. In Rai Fazio prendeva 2,2 milioni di euro ed è normale — nel mondo in cui il lavoro viene considerato uno strumento per aumentare i profitti — che nel passaggio da un gruppo editoriale a un altro ci sia stato un upgrade di stipendio. Viale Mazzini tra l’altro è «tirchia» con i suoi conduttori (Fazio era il più pagato) perché a Mediaset si viaggia su cifre che a parità di profilo professionale sono doppie. Solo per fare un esempio Alessia Marcuzzi quando conduceva L’isola dei famosi prendeva 200 mila euro a puntata, 2,4 milioni di euro per 12 puntate.
Per il Nove — il canale di proprietà della multinazionale americana Warner Bros. Discovery — l’arrivo di Fazio accende una nuova luce, calamita su di sé centinaia di migliaia d potenziali spettatori, è il modo per provare a crescere. Fino ad oggi molto è stato nelle mani di Crozza, che con i suoi Fratelli di ha un milione e 100mila fedeli seguaci (5,6% di share). Ma non c’è solo lui, il canale sta vivendo la sua annata migliore, con una media in prima serata del 2,1% share anche grazie a titoli come Don’t forget the lyrics, il quiz condotto da Gabriele Corsi (2,7%).
Il mancato rinnovo del contratto di Fabio Fazio si porta dietro uno strascico di polemiche interne alla Rai, con lo scontro tra la presidente Marinella Soldi e l’ormai ex amministratore delegato Carlo Fuortes. Lui ha fatto sapere che, già nella seduta del 3 marzo, il cda aveva «limitato l’approvazione dei piani di produzione e trasmissione solo fino al 31 agosto 2023», non consentendogli quindi di «procedere alla stipula di contratti e approvazioni di schede relative ai Piani autunnali». La presidente Soldi e il cda hanno respinto però le accuse al mittente: «Fermo restando che nella seduta del 3 marzo i piani di produzione e trasmissione sono stati approvati a maggioranza fino al 31 agosto, ciò è avvenuto su proposta dell’amministratore delegato stesso». Approvazione che peraltro «ha valenza procedurale e non limita le responsabilità e possibilità dell’ad nella cura dell’attività di gestione di programmi delle stagioni a venire. Nessuna proposta su contratti di programmi di rilevanza strategica o di particolare valore — come quello di Fabio Fazio — è stata portata all’attenzione del cda in questi ultimi mesi». Comunque sia andata, il risultato è stato uno stallo evidente, tutti si sono palleggiati le responsabilità, per mesi Fazio è rimasto in attesa, mentre il suo agente Beppe Caschetto — lo stesso di Crozza — ha iniziato a guardarsi in giro per trovare un’offerta adeguata. E pure migliore.
Estratto dell’articolo di Marco Liconti per “il Giornale” il 16 maggio 2023.
Una ristrutturazione dolorosissima, decine di programmi e produzioni cancellati, un kolossal ormai quasi completato come «Batgirl», con un budget da 90 milioni di dollari, rimesso nel cassetto, un indebitamento complessivo di oltre 50 miliardi di dollari, titolo in caduta libera. Soprattutto, migliaia di licenziamenti.
Discovery, la proprietaria di Nove, è reduce da un 2022 «brutale» […]. È improbabile, quindi, che la notizia dell’approdo di Fabio Fazio […] possa fare breccia sulle pagine dei media Usa e risollevare il morale di chi ha perso il lavoro.
Meno che mai, può interessare la coda polemica dell’uscita dalla Rai del presentatore di «Che tempo che fa». Al centro dell’impero (mediatico) hanno ben altro a cui pensare. Non solo un 2022 di lacrime e sangue […].
Il gigante nato nell’aprile del 2022 dall’acquisizione da parte di Discovery Inc. di Warner Media, ceduta dal gigante della telefonia AT&T al costo di 43 miliardi di dollari, si è scontrato da subito con un mercato difficile, nel quale la corsa all’accumulo di programmi e produzioni tv per costruire un magazzino in grado di competere con gli altri giganti dello streaming, come Netflix, ha portato ad un enorme indebitamento.
La scure dei top manager di Warner Bros. Discovery non ha risparmiato nemmeno la Cnn, il «gioiello della corona» dell’informazione tv, ereditata con l’acquisizione di Warner Media. CNN+, il servizio streaming appena lanciato dalla precedente gestione, è stato cancellato. Del resto, la rete all news ultra liberal è alle prese con una grave crisi di ascolti e arranca dietro alla rivale di segno politico opposto, Fox News.
Al punto che, per recuperare terreno nella fascia serale, la più ricca dal punto di vista pubblicitario, dove la fa da padrona l’emittente di Rupert Murdoch, la scorsa settimana è stata costretta a ospitare l’«odiato» Donald Trump. Operazione riuscita, con 3 milioni di spettatori (rispetto agli abituali 500mila), che è però costata alla Cnn una serie di accuse e polemiche.
Discovery si trova anche a fare i conti con lo sciopero degli sceneggiatori Usa. La serrata […] rischia di paralizzare le nuove serie tv e produzioni cinematografiche, con inevitabili ricadute anche per gli spettatori europei. Tutto questo, non ha però impedito ai proprietari statunitensi di Nove di accordare lo scorso anno al chief executive officer David Zaslav un compenso di 250 milioni di dollari, di cui tre quarti in stock option […]. E tuttavia, per il 2023, dopo il «brutale» 2022, Zaslav porterà a casa, oltre al suo salario e agli altri benefit, almeno altri 12 milioni di dollari di bonus.
Le cinque balle sul "martirio" di Fabio Fazio. Andrea Indini il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il martirio, la cacciata, la censura, i 40 anni in Rai e i guadagni: ecco tutte le fandonie usate dalla sinistra per attaccare la Meloni e il governo
Tabella dei contenuti
Il martirio di Fazio
La cacciata dalla Rai
40 anni a viale Mazzini
Che tempo che fa censurato
Il valore (economico) di Fazio
Rai a destra, Fazio lascia. E poi: La vergogna della Rai. Eccoli lì, i titoli d'apertura dei giornali. Fabio Fazio cacciato. Fabio Fazio censurato. Fabio Fazio martire. È partita la gran cassa. In testa, oltre alle schiere di politici, troviamo i soliti. Roberto Saviano, per esempio. "Fazio viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno", ha twittato. "Non per imporre la propria egemonia culturale, ma per imporre la propria egemonia. Di culturale - ha continuato - questa destra non ha proprio nulla". Ma la verità è diversa: Fazio non è un martire perché non è stato cacciato né censurato, in passato se ne era già andato dalla Rai e, a proposito dei lauti contratti siglati grazie a lui, molto ci sarebbe da scrivere. Ma andiamo con ordine.
Il martirio di Fazio
Sgombriamo subito il campo dalla prima balla. No, Fazio non è un martire. Epperò sia a lui sia alla sinistra fa tanto comodo giocarsi questa carta contro il governo Meloni. Sebbene ieri sera, durante la trasmissione, ci abbia tenuto a sottolineare che né lui né Luciana Littizzetto hanno alcuna "vocazione a sentirsi vittime né martiri" e che si sentono persone "fortunatissime" perché avranno "occasione di continuare altrove il nostro lavoro", la narrazione che ha preso piede nei Palazzi romani, tra i corridoi di viale Mazzini e su una certa stampa è (guarda un po') proprio quella del personaggio scomodo fatto fuori dal nuovo corso sovranista della Rai. "È una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale", lamentava a Che tempo che fa Ferruccio De Bortoli. E Fazio subito pronto a sferrare il colpo basso: "Non si può essere adatti a tutte le stagioni. Io non credo di esserlo". E così ha deciso di far calare il sipario al momento giusto. E non tanto in concomitanza dell'imminente finale di stagione della trasmissione, che avrebbe avuto tutto il tempo per ricomparire nei palinsesti autunnali, quanto piuttosto in concomitanza del via libera del cda alla nomina di Roberto Sergio ad amministratore delegato. Un tempismo che, a pensar male, sembra stato scelto proprio per far scoppiare il bubbone.
La cacciata dalla Rai
Fazio non è un martire perché nessuno lo ha cacciato. Eppure c'è chi come Rula Jebreal ha parlato di "neo maccartismo, post verità e post vergogna". Niente di più lontano dalla verità. Partiamo da un dato incontrovertibile: chi avrebbe dovuto lavorare al rinnovo del contratto per tempo, non lo ha fatto. Perché? Non certo perché rispondeva a un diktat della Meloni o di uno dei partiti di maggioranza. Sempre la Jebreal ha puntato il dito contro Matteo Salvini quale mandante dell'"attentato". Alla giornalista e a tutta la sinistra non è andato giù il tweet del leader leghista "Belli ciao". Che con Fazio non corresse buon sangue non era certo un mistero, ma da qui allo scrivere che l'ha fatto fuori lui ce ne passa. Anche da viale Mazzini, d'altra parte, hanno fatto notare che il dossier non era ancora stato affrontato. "Nessuna proposta su contratti di programmi di rilevanza strategica o di particolare valore - come quello di Fabio Fazio - è stata portata all'attenzione del cda in questi ultimi mesi", ha precisato ieri sera, in una nota, lo stesso cda rimarcando che i piani autunnali di produzione e trasmissione erano stati appunto rinviati su proposta dell'ad (uscente) Carlo Fuortes.
40 anni a viale Mazzini
Per rafforzare l'idea del martirio la narrazione di queste ore ha posto, in modo particolare, l'accento sul fatto che Fazio viene cacciato via dalla Rai dopo quarant'anni di onorato servizio. Anche in questo caso la verità è un'altra. E ce la ricorda Nicola Porro sul suo sito ritirando fuori quando nel 2000 il presentatore lasciò viale Mazzini per approdare su Telemontecarlo insieme a Gad Lerner. Un trasloco da 13 miliardi di lire, mica noccioline. Un maxi ingaggio che fece strabuzzare gli occhi persino a Marco Tronchetti Provera quando, rilevando l'emittente, vide i conti in rosso e gli venne uno stranguglione. Spending review immediata e ritorno altrettanto immediato di Fazio da mamma Rai. Con una buonuscita non di poco conto versata sul suo conto corrente in banca. Oggi, come vent'anni fa, ha fatto la sua scelta: ha strappato un'offerta più vantaggiosa (o quantomeno alla pari) e un contratto blindato per quattro anni. In Rai, invece, avrebbe dovuto ricontrattare di anno in anno.
Che tempo che fa censurato
Una scelta, dunque. Nessuna censura. Ma a Repubblica, tanto per fare un esempio, fa comodo venderla in questo modo. E così ecco Michele Serra rivangare, per l'occasione, il momento in cui fu servita sul piatto di Silvio Berlusconi "la testa di Enzo Biagi, con il contorno di quelle di Santoro e Luttazzi". Il famoso "editto bulgaro", altro classico della vulgata progressista. "In un Paese con gli occhi aperti di quello avrebbe dovuto occuparsi la magistratura, altro che cene eleganti". La verità, come abbiamo visto, è un'altra. Nel bel mezzo del cambio dell'amministratore delegato Fazio ha colto l'occasione per passare sulla Nove. Lì continuerà a fare quello che faceva in Rai. Nessuna censura. Quella la lasciamo a Paesi per cui, troppo spesso, la sinistra va in visibilio.
Il valore (economico) di Fazio
E veniamo all'ultima grande balla: Fazio costava tanto ma faceva anche guadagnare tanto. Senza scendere in tecnicismi inutili, già in passato, sono stati molti a confutare questa narrazione. Ancora oggi il Codacons ci ha tenuto a ricordare che "il contratto è sempre stato coperto dal massimo riserbo, anche a causa delle somme esorbitanti riconosciute dall'azienda al conduttore che, secondo le indiscrezioni e le cifre circolate, avrebbe ricevuto per anni un doppio compenso al punto che Che tempo che fa potrebbe aver raggiunto in cinque anni il costo record di 100 milioni di euro". Una cifra esorbitante che difficilmente può essere parametrata ai ricavi pubblicitari incassati nello stesso arco di tempo.
Il Codacons sul caso Fazio: "Quanto ci è costato". La cifra monstre. Compensi stellari e ingiustificati finiti più volte all’attenzione della Corte dei Conti. Per l’associazione dei consumatori è un bene che il conduttore abbia lasciato la televisione di Stato. Ignazio Riccio il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I “conti” del Codacons
L’esposto alla Corte dei Conti
Una trasmissione di parte
L’addio del conduttore televisivo Fabio Fazio alla Rai e il suo passaggio a Discovery hanno creato una serie di polemiche tra il centrodestra e il centrosinistra. Diversi gli esponenti politici e gli opinionisti che sono intervenuti sul passaggio di rete del presentatore ligure. C’è chi si lamenta dell’epurazione, che sarebbe stata effettuata in maniera chirurgica dal governo Meloni, e c’è chi parla di una libera scelta di Fazio, che andrà a percepire un lauto compenso nel nuovo canale televisivo. In pochi, però, hanno analizzato in profondità gli anni di permanenza in Rai di uno degli artisti più pagati dalla televisione di Stato. Lo ha fatto il Codacons che si è preoccupato di capire quanto siano costate le sue trasmissioni.
Chi è Fabio Fazio e perché ha lasciato la Rai
I “conti” del Codacons
“Per le tasche dei cittadini italiani che finanziano la Rai attraverso il canone – hanno spiegato i vertici del Codacons – l'addio di Fabio Fazio è sicuramente una buona notizia”. L’associazione a tutela dei consumatori ha fatto i "i conti" su quanto il conduttore e la sua casa di produzione siano costati agli utenti negli ultimi anni.“Il contratto che legava Fabio Fazio alla Rai è sempre stato coperto dal massimo riserbo – hanno aggiunto – anche a causa delle somme esorbitanti riconosciute dall'azienda al conduttore che, secondo le indiscrezioni e le cifre circolate, avrebbe ricevuto per anni un doppio compenso al punto che la trasmissione ‘Che tempo che fa’ potrebbe aver raggiunto in cinque anni il costo record di 100 milioni di euro”.
L’esposto alla Corte dei Conti
Il Codacons, proprio per vederci chiaro, ha presentato non molto tempo fa un esposto alla Corte dei Conti, nel quale ha elencato una serie di criticità su cui non sono mai state fornite spiegazioni. “Fazio – hanno evidenziato i rappresentanti dell’associazione di categoria – avrebbe percepito 2,2 milioni di euro all'anno a titolo di cachet personale e 10,6 milioni di euro tra costi di produzione e diritti sul format 'Che tempo che fa’ pagati dalla Rai alla società 'Officina Srl', di cui Fazio era proprietario al 50%”. In più, ci sarebbero i costi di rete, scenografia e redazione, per altri 2,8 milioni di euro, e infine 2,6 milioni di euro per costumi, trucco, riprese interne e collegamenti esterni che avrebbero portato la spesa totale per la trasmissione a 18,3 milioni di euro all'anno”.
Il finto buono che trasforma tutto in soldi e ideologia
Una trasmissione di parte
Il presidente di Codacons Carlo Rienzi si è soffermato infine sull’aspetto politico delle trasmissioni di Fazio. “Per anni – ha dichiarato – il conduttore ha dettato legge in Rai, imponendo le due condizioni alla rete e conducendo una trasmissione faziosa e di parte, dove si dava spazio solo agli ospiti graditi a Fazio, con presenze fisse controverse e contestate, contrarie ai principi del servizio pubblico, come quella del virologo Roberto Burioni”. Rienzi ha concluso: “Ma sono proprio i costi eccessivi di 'Che tempo che fa’ e i maxi-compensi riconosciuti negli anni a Fazio a rendere una buona notizia l'addio del conduttore alla Rai, che potrà ora utilizzare meglio le risorse raccolte presso i cittadini attraverso il canone”.
Saviano difende Fazio e attacca il governo: "Siete il peggio". Il conduttore ligure dice addio alla Rai e Saviano sferra l'ennesimo attacco al governo: "Destra xenoofoba vuole imporre la propria egemonia". Nel suo mirino anche Salvini: "Deve elaborare traumi personali..." Marco Leardi il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.
"Cacciato dalla Rai". Roberto Saviano ha emesso la propria sentenza: il trasloco televisivo di Fabio Fazio è colpa alla destra. Sai che novità. Sull'addio del conduttore al servizio pubblico, lo scrittore campano non poteva far mancare la propria filippica, arrivata a 24 ore esatte dall'annuncio del discusso trasferimento televisivo. In un lungo post pubblicato sui social, l'autore di Gomorra ha sostenuto che il presentatore ligure non avrebbe lasciato la Rai ma sarebbe stato rimosso dal governo. Mancano le prove, ma chissenefrega. "Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai. Questa è la verità", ha denunciato Saviano. Una tesi in realtà diversa rispetto alle parole pronunciate ieri dallo stesso volto noto del piccolo schermo.
Caso Fazio, l'ultimo attacco di Saviano
"Non tutti i protagonisti sono adatti per tutte le narrazioni. Me ne sono reso conto...", aveva affermato il presentatore, lasciando intendere di aver fatto valutazioni in tal senso. Nessuna allusione però ad alcuna "cacciata". Ben più drastica invece la ricostruzione proposta da Saviano. "Fabio Fazio in Rai ha sempre svolto il suo lavoro come pochissimi professionisti avrebbero saputo fare. Viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno. Non per imporre la propria egemonia culturale, ma per imporre la propria egemonia", ha tuonato lo scrittore, facendo partire un siluro contro l'invisa maggioranza di centrodestra. "Di culturale questa destra xenofoba non ha proprio nulla. Evidentemente sono state troppe le promesse fatte in campagna elettorale e ora vanno mantenute", ha aggiunto Roberto.
“Fabio Fazio lascia la Rai”, scrivono. Non è così: Fabio #Fazio viene cacciato dalla #Rai. Questa è la verità. Fabio Fazio in Rai ha sempre svolto il suo lavoro come pochissimi professionisti avrebbero saputo fare. Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa… pic.twitter.com/06kOtHACfv
— Roberto Saviano (@robertosaviano) May 15, 2023
Nel suo intervento in favore del conduttore, Saviano ha poi ringraziato quest'ultimo per lo spazio concessogli nei propri programmi. "Ringrazio Fabio che mi ha consentito di parlare di infiltrazioni criminali nel tessuto imprenditoriale del Nord, che mi ha permesso di disambiguare la comunicazione che alcuni quotidiani campani (premiati ad Atreju da Giorgia Meloni) fanno, come quando hanno insinuato che Don Peppe Diana fosse stato ucciso perché nascondeva armi mentre decantavano le doti amatorie di Nunzio De Falco, il mandante dell’omicidio di Don Diana. Questo è il giornalismo che piace al governo Meloni", ha scritto l'autore campano. Anche quei suoi interventi televisivi, in realtà, erano stati motivi di polemica. Nel 2010, ad esempio, nel programma Vieni via con me Saviano disse che "al nord la 'ndrangheta interloquisce con la Lega", provocando le prevedibili ire del centrodestra.
Le accuse al governo e gli insulti a Salvini
"È da Fabio che, per la prima volta, ho raccontato di Anna Politkovskaja, è a Che tempo che fa che ho avuto la possibilità di portare 'I racconti della Kolima' di Šalamov. A Vieni via con me abbiamo raccontato la storia d’amore tra Mina e Piero Welby, affrontando il tabù dell’eutanasia. Miracoli che solo la televisione che adempie alla sua missione può fare", ha proseguito Saviano nel suo post. Poi l'ulteriore attacco all'esecutivo: "Siamo fatti delle parole che utilizziamo, siamo fatti dei racconti che facciamo, siamo i punti di vista che sposiamo. E questo governo è il peggio che ci potesse capitare". E l'insulto a Matteo Salvini: "Non è che, perché uno parla di libri, deve starle per forza antipatico. I traumi personali ognuno deve elaborarli da solo".
Nell'ideale climax ascendente del proprio messaggio, lo scrittore campano non poteva che riservare l'ultimo graffio al leader leghista. "Non immagina nemmeno quante persone 'Bella ciao' aspettano di poterla cantare quando presto - per le vostre stesse scelte d'incompetenza - cadrete", ha inveito Saviano, concludendo la propria difesa a spada tratta dell'amico conduttore.
Selvaggia Lucarelli: "Fabio Fazio non è un martire". Selvaggia Lucarelli si sfila dal piagnesteo della sinistra per il passaggio di Fabio Fazio dalla Rai a Discovery, ma non perde occasione di attaccare "la peggiore destra di sempre". Francesco Curridori il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.
"Leggo una partecipazione commossa per l’arrivederci di Fabio Fazio alla Rai, una partecipazione così addolorata che per un attimo, aperto twitter, ho pensato che Fazio ci avesse lasciati ed ero addolorata pure io. Poi per fortuna ho scoperto che va tutto bene, ha chiuso un contratto milionario con Discovery". L'invettiva arriva dalla persone più insospettabile, Selvaggia Lucarelli, che su Instagram ha pubblicato una lunga dissertazione sulla Rai.
"Attenzione, non sto ridimensionando nulla, sto solo cercando di non partecipare a funerali di gente che è, per fortuna, in buona salute, e che scappa da dove in definitiva rischiava una pallottola", continua la Lucarelli che respinge l'idea che Fabio Fazio sia stato "cacciato", ma che se ne sia voluto andare dopo aver capito "che tirava una brutta aria". Secondo l'opinionista del Fatto Quotidiano, in Rai, non sta accadendo nulla di diverso rispetto al passato, ossia che chi governa detta le regole. "Sta succedendo più o meno quello che succede da sempre: amici, pedine o soldatini piazzati nelle roccaforti dei tg, dell’informazione e dell’intrattenimento, scambi di favori e qualche bilanciamento per accontentare pure gli altri, nulla di nuovo sotto il sole", sentenzia la Lucarelli che, poi, ritorna a parlare del conduttore di Che tempo che fa precisando che lui non rientra affatto nella categoria dei raccomandati o dei mediocri.
"Fazio è sicuramente un fuoriclasse sotto molti aspetti, ma di fatto, con la sua tv ha sempre fatto politica, almeno su alcuni temi, immigrazione su tutto", ammette la Lucarelli che aggiunge: "Ha scelto ospiti, spesso politici e intellettuali, vicini alla sua idea di mondo civile e ne ha chirurgicamente evitati altri, ha fatto una tv gentile e onesta, mai rivoluzionaria, sotto alcuni aspetti perfino reazionaria". Insomma, Fazio si è circondato"amici e appartenenti alla scuderia del suo potentissimo agente" e, in definitiva, ha fatto "politica". Ma sottolinea: "Per me ha fatto bene, sia inteso". La Lucarelli invita a "non fare di Fazio un martire, perché non lo è", dal momento che lo attende il contratto con Discovery "lo renderà ricco" e visto che molto probabilmente il suo pubblico gli resterà fedele. Ma non solo. Il vero problema è che "la politica in Rai ha sempre tagliato teste, a destra e a sinistra", ma gli altri sono stati epurati "senza funerali". Secondo l'opinionista, il governo Meloni sta "presidiando con convinzione tutti gli spazi della cultura".
Ammesso pure che questo corrisponda al vero (ma non è così) è alquanto discutibile quanto sostiene subito dopo, ossia che la sinistra abbia ceduto "spazi a gente di destra che si spacciava per gente di sinistra". Non poteva, poi, mancare l'attacco a Matteo Salvini per il suo tweet "da bulletto del liceo" e agli esponenti di centrodestra descritti come "orrendi e ben determinati a rimpiazzare quella che loro credono sia una pericolosa egemonia della sinistra". Insomma, secondo la Lucarelli, il centrodestra manca di "eleganza" perché, in realtà, "non c’era alcuna egemonia" e, in fondo, i leader sono stati accolti bene da quella parte di sinistra "che - scrive parafrasando la citazione fatta da Elly Schlein - li ha visti arrivare (cit.)" e che anziché lasciare le "proprie poltrone" ha preferito cambiare "il colore della tappezzeria". In conclusione, le critiche più feroci la Lucarelli le riserva "per chi resta al suo posto fingendo di presidiare qualcosa, mentre strizza l’occhio alla peggiore destra di sempre".
Dialoghi de L'Espresso. Fabio Fazio: «Vi racconto la mia tv. Via dalla Rai? Temo per una banale antipatia personale». Gli esordi, Mike, il piacere della costruzione passo per passo. La radio con Vaime («Da lui ho imparato a pesare le parole») e il successo sul Nove («Sono molto felice di stare qua per quattro anni»). Gli aneddoti e il gusto della memoria. Un racconto a tutto campo dell'uomo che in televisione ha passato i suoi primi quarant'anni. Beatrice Dondi su L'Espresso il 7 dicembre 2023
Fabio Fazio entra nel suo ufficio, in centro a Milano, ogni pomeriggio, dalle 3 alle 8 per preparare con la sua squadra “Che tempo che fa”. La mattina studia tutti i dossier, le schede degli ospiti. E la sera guarda i film che servono per la settimana. Insomma, lavora sempre. Tranne il lunedì, come i parrucchieri. «Ed è per questo che non ci vado mai», dice. «Però da maggio a settembre sono in vacanza, quattro mesi, come se non avessi mai smesso di andare a scuola». Ed è stato anche promosso. La pagella parla chiaro, il programma più visto della storia del Nove. «Sì ma quattro anni sono tanti, non potrà andare sempre così. Per questo tutti i giorni dico: ma perché non la chiudiamo qua?». E ride, con un filo di timidezza, che ancora conserva dopo quarant’anni di carriera giusti giusti. «Ho scritto alla Rai per partecipare al concorso per i volti nuovi il giorno esatto del mio diciottesimo compleanno. Avevo una sola ambizione, andare a Roma a vedere gli studi, ma niente di più. Quando ho fatto il provino sono impazzito di gioia, ricordo tutto di quel giorno, persino l’orrendo maglione a rombi sul tono dell’azzurro che indossavo. E il 10 ottobre del 1983 mi hanno chiamato per un nuovo programma che si intitolava “Pronto Raffaella”. Onestamente non ho pensato neanche per un attimo che potesse essere il mio lavoro; invece, è andata come diceva Enrico Vaime: entrare in televisione è difficile, uscirne è praticamente impossibile».
Però i tempi sono abbastanza cambiati dagli anni Ottanta, quel piccolo schermo si è frammentato in mille possibilità differenti. «Vero, per la mia generazione l’unico cortile comune era la televisione e quello che veniva trasmesso. Oggi per i ragazzi la tv è un oggetto obsoleto, come tutto ciò che implica una fruizione condivisa. Ma nessuno si chiede più come ricostruire un immaginario che appartenga a tutti. Ormai i numeri sono cambiati, a guardare i palinsesti delle generaliste sono rimasti in pochi rispetto al passato. Nell’84, facevo le imitazioni su Rai Uno al “Loretta Goggi quiz” e dopo una puntata al secondo anno facemmo una grande riunione con tutti i dirigenti, arrivò il capostruttura che all’epoca era Brando Giordani, praticamente Gesù, e il tema era: per la prima volta siamo scesi sotto i 14 milioni. Una tragedia. Oggi se fai un programma da cinquecentomila persone diventi una prima serata di successo. Il problema è che bisognerebbe chiedersi come restituire alla tv pubblica l’appartenenza perduta».
Cioè parliamo di progettualità, che sembra di questi tempi quasi una brutta parola a cui non sembra si pensi granché. «E non è una novità. Inventare qualcosa dovrebbe essere obbligatorio, invece da decenni tutti mandano in onda gli stessi programmi. Gli autori che ci mettono la faccia per tirare fuori dal nulla qualcosa di nuovo, ormai li conti sulle dita di mezza mano». Ma perché sono pigri o perché non sono più capaci? «Semplicemente perché non serve più a nessuno. Sarebbe come pretendere di costruire una sedia a mano quando ci sono quelle industriali stampate in plastica. Peccato che il bello e l’utile non coincidano quasi mai. Ciò che è bello è più costoso, è artigianale, e poi rischi perché può andare anche male. Ma è proprio quel processo lì, dell’azzardo, del salto nel vuoto che ti fa crescere».
Quindi non si investe, non si rischia, non si crea. Come se ci fosse una cesura totale tra ieri e oggi. Partiamo da ieri però, chi sono i nomi che stringe a sé? «Beh, Renzo Arbore ha insegnato alla mia generazione una lingua che prima non esisteva. Con lui siamo passati da “Signore e signori in questa splendida cornice…” a un signore che quella cornice l’ha rotta. Poi ovviamente Pippo Baudo, Enzo Tortora, e Mike Bongiorno. Mike è la televisione. La nostra prima volta? Andai a proporgli per “Quelli che il calcio” una diretta in cui lui sciava e io gli davo i risultati delle partite. Ne venne fuori un collegamento incredibile».
E la tv di oggi? C’è un nome su cui puntare? «Direi Stefano De Martino. Ha la fortuna di essere bello, è un ragazzo intelligente. Mi piace il suo programma “Bar stella”, è un po’ arboriano». Ma cosa è cambiato davvero rispetto al passato? «Guardi io ho avuto la fortuna di incontrare Bruno Voglino che mi ha letteralmente preso per mano, mi ha fatto crescere e non a caso ancora oggi lo chiamo mamma. Su di me hanno fatto un grande investimento ma perché la tv pubblica era questo, l’avere un progetto, una vocazione, la voglia di allevare i talenti. E no, tutto questo non c’è più». Meglio guardare la radio allora. «Ah che bella la radio. Ho fatto “Black Out” per 25 anni, ma i primi dieci partivo da Savona tutte le settimane in treno, in cuccetta con quattro sconosciuti per risparmiare e poi a piedi dalla stazione Termini a via Asiago, praticamente un viaggio della speranza. Però lavoravo con gente incredibile, Luciano Salce, Guido Sacerdote ed Enrico Vaime, un uomo di un’intelligenza e di una dolcezza estrema. La prima volta che lo vidi gli dissi buonasera. E lui: non ne vedo la ragione. Capisce che livello? Mi ha insegnato tutto, a partire dal concetto di patente. In tv e in radio, mi spiegava, non puoi pensare di dire tutto quello che ti passa per la testa o credere sia giusto farlo: è necessaria la patente. Che è molto difficile da prendere, serve l’esperienza, la pazienza e la consapevolezza di chi sei tu e di chi è il pubblico. Ecco, da lui ho imparato a pesare le parole».
Certo oggi anche di maestri ce ne sono pochini. «Perché anche i maestri non servono più, la funzione della televisione è completamente cambiata. Negli anni ’60 raccoglieva le persone più colte, coloro che sapevano tutto di teatro e che dovevano trasferire il varietà dal teatro alla televisione. Si cita sempre Umberto Eco tra i dirigenti Rai, certo, ma per la tv scrivevano anche Ennio Flaiano, Marcello Marchesi, Angelo Guglielmi, c’erano le eccellenze. Per questo era involontariamente pedagogica perché se tu sei l’eccellenza anche quando costruisci una scenografia, quella scenografia sarà naturalmente elegante e quel concetto verrà trasmesso a chi la guarda. Poi questa cura, questo tipo di funzione è finita piano piano con la tv commerciale sino a che la politica non è intervenuta. Adesso è ancora diverso, la televisione per legge dipende dal governo ed è del tutto naturale che obbedisca alle esigenze del momento». Che evidentemente ora non comprendono la televisione di Fabio Fazio. «Senta, adesso io sono per quattro anni al Nove, felicemente a Discovery, dove sto benissimo e dove voglio rimanere. Ma non mi si deve attribuire niente di più. Io non ho fatto niente se non prendere atto di una situazione che temo fosse frutto di una cosa di estrema banalità, ovvero una semplice antipatia personale».
Un bel clima non c’è che dire. «Beh, se ci pensa viviamo in un periodo in cui un ministro può far fermare un treno. A dire il vero adesso ho paura di viaggiare, ché metti che salgo sul vagone con Lollobrigida mica lo so dove arrivo. Però, parlando seriamente, oggi il clima è questo e se c’è qualcuno che dice “lui via”, lui lo mandano via davvero, e fine. Basta un attimo». Quindi una cosa del tutto personale che si è riflessa sul servizio pubblico, che appartiene a tutti. «Io facevo la mia tv tranquillo e beato e pensavo che sarebbe potuta andare avanti così. Invece era diventata intollerabile, perché non c’è sempre bisogno di gridare per essere evidentemente antagonisti. La Rai è sempre stata una somma di cose diverse, ma questo è un momento in cui governare non è più amministrare la cosa pubblica ma è diventato comandare».
Un cambiamento che è arrivato quasi all’improvviso, ma che le avrà fatto venire voglia di fare tante cose, immagino. «Allora, io voglio fare il morto in un film ma nessuno mi prende sul serio, l’ho chiesto anche a Tarantino, ma niente. Per il resto, onestamente ho fatto quasi tutto quello che volevo, sono stato fortunatissimo anche per un cosa meravigliosa come Binario 21 con Liliana Segre che per me vale tutta la carriera. Poi avevo preparato una piccola storia della tv per i 70 anni della Rai, ma gli eventi come sappiamo sono andati in modo diverso». Lo sa che l’hanno affidata a Carlo Conti la serata? «No, non lo sapevo, vabbè, io faccio sempre il tifo per la Rai perché è anche mia ma è anche sua, dobbiamo augurarci che regga. In fondo è come la Chiesa, ha una storia millenaria, è un tale patrimonio di memoria e di possibilità che sarebbe un peccato non sfruttare. Anche se fino a che non riuscirà a raggiungere un’autonomia dalla politica non c’è niente da fare».
Alla fine si torna sempre sulla memoria. «Ma lo sa che è vero? Molto di quello che ho fatto gira intorno a questo. “Anima mia” per la prima volta restituiva il valore al passato che apparteneva a ognuno di noi. Anche “Quelli che il calcio”, in assoluto il mio programma preferito, era la memoria della radiolina e delle domeniche pomeriggio con l’autoradio “nella mano destra e un canarino sopra la finestra”».
E poi c’è stato “Rischiatutto”, due anni di lavoro maniacale con cui ho praticamente ricostruito un ricordo». Bello, e romantico. Ma già che ci siamo, caro Fazio, lei come vorrebbe essere ricordato? «Io? Ma per carità, mica ho inventato la penicillina». Poi ci pensa un po’ e dice: «Mah, se qualcuno dirà che ho portato un po’ di buonumore sono contento, ma non sono così presuntuoso. No, dai, nessun ricordo, e giuro nessun libro di memoria. Tanto per fortuna non mi ricordo niente».
Fabio Fazio: «Conobbi mia moglie a una recita scolastica. Un errore? Quando decisi di cantare». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022
L’intervista a Fabio Fazio: il conduttore si racconta. L’amore, le interviste, il Papa e il rapporto con Salvini
Alle sue spalle c’è una gigantografia del Cervino. Perché?
«Perché è la prossima vetta che vorrei raggiungere. Ma non so se alla mia età...».
Appena 58 anni.
«Ma mi sento un boomer, già è tanto che io sia riuscito ad arrivare, camminando, sul Monte Bianco. Hervé Barmasse, straordinaria guida alpina che mi onora della sua amicizia, mi ha lasciato una dedica di incoraggiamento».
Non tutti conoscono questa sua passione per la montagna.
«Sono tante le cose che di me non si conoscono. E c’è da dire che mi sento molto a disagio nel parlare di me. Cerco di fare mia la lezione del grande Enzo Biagi: l’intervista perfetta è quella in cui chi fa domande resta un passo indietro, lasciando spazio a chi deve rispondere».
Con Flavio Caroli, suo grande amico e compagno di avventure televisive, ha scritto «Voi siete qui», un libro sull’arte. E lei in questo caso non fa solo domande, vero?
«Per la maggior parte sì, Flavio è il grande esperto. Io faccio la parte di quello che vuol saperne di più, cosa vera, peraltro. Con esempi, aneddoti e analisi da parte sua, abbiamo cercato di far passare il messaggio che l’arte non è qualcosa di freddo e distante, ma è vicina a noi. È per strada, nella vita, nelle case dove entriamo».
Lei colleziona opere d’arte?
«No, ma colleziono ricordi. In vent’anni di Che tempo che fa ho avuto la fortuna di incontrare artisti, architetti e designer straordinari. Ricordo per esempio Vico Magistretti. O Ettore Sottsass. Quello che più mi ha colpito è stato Julian Schnabel: semplice, rigoroso, umile».
Che cosa voleva fare da ragazzo?
«Il giornalista».
Ce l’ha fatta, no?
«Più o meno. Nella mia testa il giornalista vero è ancora quello che passa le ore in redazione o per strada a cercare le notizie. A casa mia, a Savona, non mancava mai il Secolo XIX, era una bibbia. Ma anche La Stampa e, ovviamente, il Corriere della Sera. Ho un grande rispetto per i giornalisti, tanto è vero che ho avuto l’onore di conoscere bene Biagi».
Lei lo invitò in trasmissione nel 2004, in un momento difficile della sua vita.
«Mancava dalla Rai da due anni, da quando era stato ignominiosamente cacciato (la trasmissione Il fatto venne chiusa nel 2002 con una coda di polemiche, ndr). Fu un rischio per la mia carriera? Certo. Lo rifarei? Ovvio. Ho sopportato per anni l’etichetta di buonista, non è stato facile, mi creda. Non sono un buonista, cerco solo di non essere un professionista dell’aggressività. Anche perché non lo so fare».
Vogliamo chiarire meglio questo punto?
«Ci sono giornaliste e giornalisti che vengono invitati in tv o che scrivono libri solo perché utilizzano l’arma dell’aggressività, dell’intrusione nelle vite degli altri. Ma così si smette di essere giornalista, si diventa qualcosa d’altro. Non dimenticherò mai la lezione che ricevetti da Fernanda Pivano. Mi disse che Hemingway una volta corresse un tema a sua nipote perché la bambina aveva iniziato il componimento con la parola “io”. Ci vorrebbe meno “io”, secondo me».
«Io» e «Dio», due termini che il grande Scalfari accostava volentieri con spirito critico. Però lei ha intervistato il Papa. Com’è?
«Incredibile, se posso usare questa parola. Quell’uomo per me è una costante fonte di conforto. Quando mi sembra che tutto vada a rotoli, io rileggo le sue parole, così vere e piene di umanità. Era da tempo che, tramite i suoi bravissimi collaboratori, cercavo di invitarlo in trasmissione. Lui, la prima volta, mi disse: “Fabio, non è ancora il momento, quando arriverà ce ne accorgeremo entrambi, accadrà e basta”».
E poi che cosa avvenne?
«Poi un giorno mi trovavo in studio a fare il montaggio del programma, quando suonò il telefono. Numero sconosciuto. Di solito non rispondo mai quando non riconosco chi chiama. Però quel giorno, non so perché, risposi. Dall’altra parte arrivò una voce: “Sono il Papa”. E io dissi: “Oh, mamma mia”. E lui: “No, al massimo può dire oh, Papa mio”. Iniziò così una delle avventure più belle della mia vita».
Me ne racconta un’altra?
«In trasmissione da me sono davvero venuti tutti. Posso raccontarle l’emozione di intervistare un grande scrittore come David Grossman, il quale aveva da poco perso un figlio. Non parlammo mai di quella perdita, ma lasciammo che trasparisse dalle sue parole. Spesso è più importante quello che non viene detto. Lo capisco adesso, che sono vicino alla pensione».
La pensione?
«Eh cara mia, ho quasi sessant’anni, lavoro da 40 e se dovesse passare la cosiddetta “quota 103” io tra due anni lascio. Ho fatto tanto, ho visto tanto, ho una bellissima famiglia. La pensione non mi spaventa».
Due figli, Michele e Caterina, un lungo e felice matrimonio con Gioia Selis. Come vi siete conosciuti con sua moglie?
«Devo proprio parlare di me?»
Onoriamo Cesare Zavattini e il suo indimenticabile «Parliamo tanto di me».
«Io e Gioia ci siamo conosciuti durante una recita scolastica, pensi un po’. O, meglio, lei recitava e io ero parte della giuria che doveva dare i voti. Evidentemente quei voti furono buoni perché siamo ancora qui a parlarne».
Le ha mai detto «ti amo»?
«Più di una volta».
Perché i salviniani detestano così tanto Fabio Fazio?
«E che ne so».
Forse perché lei è assimilato alla sinistra.
«Se così fosse, ogni volta la sinistra dovrebbe difendermi dagli attacchi, non crede? Invece, silenzio. Evidentemente non sono uno inquadrabile, sono un bersaglio facile perché non ho etichette anche se, certo, sono un progressista».
Salvini è stato ospite nella sua trasmissione, ma fuori vi siete mai incontrati?
«Va bene tutto, ma incontrarci anche fuori...».
Troppo, vero?
«Be’, quando tu sei a tavola con la famiglia, con la tv accesa e dal telegiornale arrivano attacchi diretti, diciamo che non fa piacere».
E poi lei è amico di Saviano.
«Un gigante».
Ed è amico di Burioni.
«Era necessario un presidio scientifico in televisione, specie in questa epoca così anti scientifica».
Ed è amico della Littizzetto.
«Non sono solo suo amico, il talento di Luciana è qualcosa di indiscutibile».
Qual è la cosa più cattiva che lei abbia mai detto?
«Non ci casco».
Allora la cosa che più la annoia.
«Mi annoio da solo, mi creda. Non riesco a stare in mia compagnia per più di un giorno, poi devo avere qualcuno con me».
L’errore più clamoroso nella carriera?
«Quando, a Sanremo, mi ostinai a cantare. Lo feci assieme a Laetitia Casta e fu un disastro. Lì sopravvalutai le mie capacità e fu un errore, perché avrei dovuto avere maggiore consapevolezza dei miei limiti. Penso però che gli errori più grandi siano le occasioni sprecate».
I rapporti con Berlusconi?
«Guardi, ultimamente ogni volta che lo incontro mi raccomanda di tagliarmi la barba. È ossessionato dalla mia barbetta che impunemente mi sto lasciando crescere anche se in fondo lui ha ragione, ormai è bianca, sarebbe da tagliare».
Nel libro scritto con Caroli lei dice che il più bel museo d’Italia è Albisola, in Liguria.
«Lo penso davvero. Una terra in cui la ceramica viene realizzata da quattrocento anni con la stessa tecnica e nelle stesse fornaci. C’è un’antica e straordinaria produzione di ceramiche e non tutti sanno che sia ieri che oggi i grandi artisti internazionali sono venuti qui a farsi fare le opere con questo materiale, compreso il coccodrillo di Lucio Fontana. E Albisola è un museo a cielo aperto. Tutto il libro è concepito come un invito a guardare l’arte con occhi liberi, senza preconcetti. A osservare le sculture che sono nelle nostre città, a entrare in un museo. Il bello è un grande antidoto alle cose più tristi di oggi».
Qual è una cosa triste?
«L’uso irresponsabile delle parole. Posso citare ancora Biagi?»
Certo.
«Mi disse: “Ricordati che le parole che adoperiamo possono fare molto male, bisogna usarle con grande cautela”».
Con alcuni degli intervistati in trasmissione sono nate amicizie, nel tempo?
«Con alcuni sì. Con altri restano cose tangibili. Per esempio, Paul Auster mi consigliò un ristorante ottimo a Parigi dove io adesso vado regolarmente. Di Carlo Fruttero non ho solo un bellissimo ricordo, ma oggi possiedo la sua macchina per scrivere, ce l’ho a casa».
È vero che adesso lei si è lanciato nella produzione di cioccolato?
«Con grande incoscienza! È successo che durante le chiusure per la pandemia, una famosa fabbrica di cioccolato, la Lavoratti di Varazze, ha interrotto la produzione. Non per motivi economici, ma perché si fermava tutto quello che non era essenziale, se ricorda. Allora quel luogo che per me è un ricordo d’infanzia, rischiava di chiudere. Con l’amico Davide Petrini decidemmo allora di rilevarlo e di rilanciarlo. Adesso è diventata per me una fabbrica di idee: lavoriamo su progetti culturali, facciamo cioccolata in forma di libro, edizioni speciali. Sono felice».
Come un bambino?
«Esatto, come un bambino. In fondo, io sono rimasto quel bambino che a Savona sognava la grande città. Ricordo quando l’uomo mise piede sulla Luna. La mia generazione ha saputo coltivare dei sogni e forse questo è l’augurio che mi sento di fare ai più giovani. Forza!».
Fabio Rovazzi.
Fabio Rovazzi: «Voglio cantare la realtà. Con Fedez ci siamo dati un bacino». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.
«Niente è per sempre» è il nuovo singolo del cantautore: «Stiamo vivendo un periodo storico incredibile eppure nessuno lo racconta nelle canzoni»
Non c’è il videoclip. Non ci sono feat. Non è estate. Eppure c’è Fabio Rovazzi. Il non cantante, non rapper, non influencer, non attore-regista, non conduttore, ma ha fatto tutto questo, torna alla musica che gli ha regalato la popolarità nel 2016 con «Andiamo a comandare». Da Capodanno sarà in radio il nuovo singolo «Niente è per sempre» (sulle piattaforme dal 3), brano dove la dance da tormentone lascia spazio a un pop melodico accompagnato da un testo che legge con ironia i tic della contemporaneità.
Ha sempre detto che le canzoni erano scuse per fare la regia dei video e questa volta niente immagini...
«Vorrei fosse un brano solo da ascoltare. Non ci sarebbe un valore aggiunto nello spiegare con immagini quello che raccontano le parole. E poi i video non vanno più. Anche se uno lo avevo in mente...»
Ce lo racconta?
«Nell’intro c’è l’inquadratura di un vinile che gira, la telecamera va su di me e sulla prima frase vengo investito da un auto. Da lì in poi camera fissa sull’asfalto e il testo che scorre come un lyric video».
Un Rovazzi invernale?
«È un brano con un testo conscious, che si pone delle domande: non sarebbe adatto all’estate. Il testo è una cartolina del momento. Viviamo una fase storica incredibile e sono stupito dal fatto che nelle canzoni di oggi nessuno racconti di nulla. E allora lo faccio io».
«Il panino ha troppa salsa/ Chissà come si sta in Ucraina». Sono i social, la foto al ristorante e subito dopo quella della bandiera della pace?
«Sono stato in Moldavia con l’Unicef. Ho visto code di profughi in auto che potrebbero essere le nostre. È gente che ha perso tutto. Tornato a casa mi sembrava che i problemi di cui mi parlavano gli altri, tipo “sai cosa mi è successo oggi sul lavoro” fossero nulla. Le priorità sono altre».
«C’è qualcuno che si ammazza/ Ho la soluzione in tasca/ Non chiamo l’ambulanza, filmo». L’omicidio di Civitanova l’ha colpita?
«Quello come quello di George Floyd in America, come lo stupro di Piacenza ripostato da Meloni... Chi filma pensa di denunciare, ma in realtà non sta facendo nulla».
«Dell’elmo di Scipio nessuno sa niente». Patriottico?
«Questa mi è venuta in mente sentendo l’inno di Mameli a un moto Gp. Ho iniziato a chiedere a tutti quale fosse il significato e nessuno lo sapeva. E allora sulla copertina ho messo l’elmo in un prato, abbandonato».
Lei conosce il significato?
«Simboleggia l’Italia che torna a combattere. Il senso che voglio dargli è quello della perdita delle nostre origini, di quello per cui siamo famosi nel mondo».
Scivola a destra?
«Non mi schiero. Dobbiamo riscoprire ciò per cui siamo diventati forti. Al di là di qualche auto, il made in Italy non è più oggetto di desiderio, si sta estinguendo. Dall’eleganza che ci distingueva siamo passati ai bomber».
Indossa una felpa e un cappellino di brand streetwear...
«Non punto il dito, sono il primo».
Tra le altre cose che non durano per sempre cita Achille Lauro e Boss Doms.
«Ci hanno accompagnato in questi anni come stelle lucenti e vedere un Sanremo senza loro farà effetto. Ma avrei potuto mettere i Thegiornalisti o altri».
Anche Rovazzi e Fedez?
«Al concerto di Salmo a San Siro ci siamo dati un bacino. Un piccolo ma grande passo. Per il futuro vedremo».
Tornando a Sanremo, ha mandato il brano ad Amadeus che l’aveva voluta come conduttore dalla nave?
«Ne abbiamo parlato, ma la mia carriera è iniziata con un “non sono un cantante” e mi sembrerebbe strano andare al festival della canzone. Poi non amo i live anche se prima o poi ci dovrò pensare... Ho bisogno di imparare veramente a cantare. In studio ho rifatto tutto mille volte, ripetendomi quanto facesse schifo la mia voce. Alla fine però mi sono trovato a mio agio con me stesso e con la voce e non ho sentito bisogno di un feat. Volevo essere proprietario delle parole al 100%. Con questa canzone ho ritrovato soddisfazione nel fare musica. Mi ha dato tutto e me ne stavo dimenticando. Voglio fare più musica rispetto al passato».
Cosa non è per sempre nella sua vita?
«A parte le persone che non ci sono più e di cui ho parlato in passato (il papà e i nonni, ndr), i momenti spensierati dell’infanzia, quelli in cui non ti rendi nemmeno conto di essere felice. Lo capisco rivedendo i video dei gicattoli che desideravo allora».
Fabrizio Bentivoglio.
Fabrizio Bentivoglio: «Casanova è un collega... Fare una scena di nudo a 66 anni? Nessun imbarazzo». Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2023
L’attore e il rapporto con il regista Salvatores: «Mi aspetto sempre una sorpresa. Ne ‘Il ritorno di Casanova’ raccontiamo come affrontare il tempo che passa»
Fabrizio Bentivoglio nel ruolo del libertino Giacomo Casanova (1725-1798) per il film di Salvatores «Il ritorno di Casanova», dal 30 marzo in sala con 01 distribution
I l Gabriele Salvatores che non ti aspetti. Ma solo se non ti chiami Fabrizio Bentivoglio, suo scudiero in altri cinque film prima di questo. A cominciare da Marrakech Express, 34 anni orsono. E passando per Turné, lui la sceneggiatura de Il ritorno di Casanova se la compulsava in mano già dai tempi de Il ragazzo invisibile, praticamente 10 anni fa. «Sicuramente», concede Bentivoglio, «è qualcosa di nuovo rispetto a quello che Gabriele ha fatto sin qui. Ma lui ci ha sempre abituato a scarti. Come quando fece Nirvana, ha sempre cercato di scartare verso l’inaspettato e questo secondo me è uno dei suoi enormi pregi. Io mi aspetto sempre una sorpresa da lui, in fondo. E penso che questo sia anche quello che si attende il pubblico».
L’impressione è quella di un uomo, Salvatores/Casanova, che si ripiega su sé stesso, riflette sul tempo che passa (il libertino veneziano qui è raccontato al passaggio dei 60 anni; ndr) in modo molto sincero e disarmato.
«Però non lo chiamerei ripiegamento».
E come?
«Il film è una riflessione sul tempo che passa e su come ognuno di noi si rapporta a questo: c’è chi lo accetta, chi lo rifiuta, chi si oppone. Era questo anche il tema del racconto dallo stesso titolo di Arthur Schnitzler a cui il film si ispira».
Riflessione e basta, allora, senza inflessioni negative, d’accordo. Però ammetterà che le vostre due vite sono molto diverse: Salvatores ha superato da un po’ il traguardo dei 70 anni senza figli, lei a 66 ne ha tre ancora piccoli...
«Effettivamente mi verrebbe da dire che siamo più simili di quello che sembra. È la vita che ti porta a fare delle curve, delle scelte. Sono cose che non si fanno da soli, non dipende neanche soltanto da te se hai realizzato o non realizzato certe cose. Il nostro è anche un lavoro che può rischiare di sostituirsi alla vita. Il film parla pure di questo. Dipende solo da te separare la vita vera dal cinema, che è il tuo lavoro. Oppure se il cinema, che è questo nostro mestiere così totalizzante, diventa anche la tua vita».
Possiamo dire che almeno per lei non è andata del tutto così?
«Mah... parliamoci chiaro: questo mestiere non si può fare se non diventa la tua vita. Qualche stoico riesce anche a ritagliarsi una vita vera. Non è facile. Ci si prova, tutto qui».
Anche il film prova a dirlo.
«Il film dice: la vita vera, altro che il cinema. Cioè quello che ti succede veramente, non quello che reciti che ti succeda. A me sembra evidente che ci sia un abisso tra le due cose, anche se poi sappiamo che raccontare la vita aiuta a vivere la vita stessa. Insomma, la cosiddetta bugia dell’attore è una bugia finalizzata a dire la verità. È un gioco molto ambiguo sicuramente, quindi molto difficile da giocare».
Che cosa c’è di Giacomo Casanova in Fabrizio Bentivoglio, ammesso ci sia qualcosa?
«Non sono così bulimico... Noi l’abbiamo trattato come un attore, Casanova. Essendo lui figlio di attori e attore lui stesso. Come uno di quegli attori assetati di parte, in grado quindi poi di cambiare a seconda di chi hanno davanti, dell’interlocutore. Ecco, in questo senso mi ci sono riconosciuto: è un collega...».
In un duello alla spada con un rivale la vediamo recitare nudo. Ha provato qualche imbarazzo?
«Sinceramente, nessun imbarazzo. Sapevo che Gabriele non è che ci volesse giocare più di tanto con quella scelta. È evidentemente un qualcosa di simbolico, ereditato dal racconto originale di Schnitzler e anche secondo me imprescindibile: quel duello non si poteva fare vestiti ma solo così. E poi è parte del rischio che ognuno di noi si deve assumere quando fa le cose. Se non sono implicati dei rischi non succede niente in realtà. Non ci si diverte noi ma non si divertirà neanche chi guarderà dopo il film. Chiaramente ti devi divertire tu, altrimenti come puoi pretendere che si diverta qualcun altro?».
I suoi figli appena e non ancora adolescenti si divertono ai suoi film?
«Io non gli faccio vedere niente di mio: se vogliono guardare un mio film lo fanno, ma non è importante. Dipende da loro. Se sono incuriositi lo vedranno. Scialla, ad esempio, guarda caso, l’hanno visto».
Sono passati ormai 16 anni dal suo unico film da regista, Lascia perdere, Johnny! Non ha voglia di riprovarci?
«I progetti nel cassetto non è che ci siano al momento. Ma le cose mutano. Il mio ritorno dietro la macchina da presa è legato all’esistenza di un progetto che sentirò di poter fare solo io, come è successo allora. Fare un film dietro la macchina da presa è un’impresa che dura anni, è molto diverso dall’impegno dell’attore che invece è più concentrato su brevi periodi. Un regista è anche una chioccia che deve curare questo progetto per un tempo assai lungo e ci deve sempre essere: se si assenta il progetto si siede».
Non ci sarà anche un po’ di pigrizia?
«Ah, ah, no: per esperienza diretta ho visto che quando scatta quell’urgenza di cui sopra non ci sono santi che tengano. Quella cosa va fatta e io la faccio. Costasse quel che costasse. Solo che certe volte ci vuole tanto perché io mi convinca... Mi prendo i miei tempi, questo sì, non me lo sono mai precluso. Non so se è uno stile ma non potrei fare diversamente: posso fare solo così».
Una ricetta per salvare o almeno far resistere a lungo il cinema italiano?
«Bisogna crescere e porsi come obiettivo non solo il bene ma il benissimo, il superlativo, il meraviglioso. La strada per sopravvivere è fare cose molto belle. Così come ogni cosa bella fa poi bene a tutti, ogni cosa brutta fa male a tutti. Ecco, prima di fare un brutto film bisogna pensarci molto bene».
Lei è attivo anche nelle serie tv con Le avventure di Carlo Monterossi , tratte dai libri di Alessandro Robecchi. Vinceranno sui film?
«Confesso di non essere un grandissimo fruitore di serialità ma ce n’è una fatta molto bene, che si beve tanto cinema per essere chiari. Sia dal punto di vista formale che narrativo. In Italia invece la trama gialla sembra una costante: i nostri autori non hanno espresso una grandissima fantasia. Ma quel che manca ormai è il rito del cinema. La gente sembra essersi disabituata ad andare al cinema. Prima della pandemia c’era il sabato dedicato, c’era anche il giovedì per il prezzo ridotto: entrambi erano appuntamenti canonici. Poi si decideva dopo che film si sarebbe visto. Ma si sarebbe andati al cinema. Era il rito. Porco Giuda, noi l’abbiamo perso e la Francia invece no. Ma perché?».
Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli.
Estratto dell’articolo di Renato Franco per “il Corriere della Sera” martedì 7 novembre 2023.
Ci sono le piattaforme di streaming, il pubblico fa fatica a uscire di casa, il cinema soffre: come mai un film in sala? «Perché siamo idioti, ce lo siamo detti fin da subito».
I Soliti Idioti 3 è il film che segna il ritorno al cinema di Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli nei panni dei tanti personaggi che li hanno resi celebri, «cinque storie parallele con il tema comune della famiglia che è la cosa di cui si discute di più; molti dicono che la società deve ripartire dalla famiglia, ma cosa deve essere la famiglia? Noi abbiamo dato la nostra risposta».
Quindi parola al rozzo e volgare Ruggero e al vessato (e laureato) figlio Gianluca; agli (im)moralisti, coppia benestante che ogni volta fallisce nel tentativo di essere politicamente corretta; agli «zarri» che leggono sempre la Gazzetta, hanno un lessico di sole quattro parole, peraltro scurrili, ma ora «svapano e vanno in monopattino»; al metallaro Sebastiano alle prese con la sfiancante postina Gisella; alla coppia gay che tenta in ogni modo di avere un figlio. […]
Riportare sullo schermo personaggi «vecchi» non è un rischio?
«Anche noi ci siamo chiesti se i nostri personaggi erano fuori tempo, ma ci siamo resi conto che stavano tornando grazie ai social, senza il nostro controllo. È come se ci avessero chiamato loro e quando abbiamo provato a immergerli nei tempi di oggi abbiamo visto che funzionavano ancora; quegli archetipi rimangono. L’italiano quello è. E quello rimane».
Tra padre e figlio non è cambiato nulla?
«Ruggero si sveglia dopo 10 anni di coma e Gianluca crede di essersi fatto una vita nel frattempo, ma dimentica che l’unico obiettivo del padre è rimanere attaccato al figlio: se non gli rompe i coglioni la sua vita non ha senso. Tra loro c’è sempre la stessa dinamica ma immersa nella contemporaneità. È uno scontro, un dualismo, tipico di questo mondo che i social hanno sempre più polarizzato, diviso in due: sono d’accordo o contro, io vedo bianco e tu nero...
I personaggi sono le nostre armi, ma poi conta lo sguardo sulla realtà. Non saranno mai stantii perché sono lenti attraverso cui osservi il mondo che ti circonda: qualsiasi cosa tu guardi si deforma secondo questi personaggi; per questo sono contemporanei».
I Soliti Idioti hanno sempre spinto sul politicamente scorretto...
Biggio: «Noi non spingiamo, la nostra comicità è questa, non ci poniamo il problema se è corretto o scorretto. Noi siamo questo, non l’abbiamo mai fatto con la malizia di essere scorretti. Scegliamo se ci fa ridere o no. Se vuoi essere forzatamente scorretto ti sgamano. E noi non siamo furbi, siamo idioti».
Mandelli: «Non abbiamo paura delle reazioni, anche violente; oggi è tutto più estremizzato, ma siamo tranquilli. L’importante è non essere gratuiti, e poi le shitstorm sui social durano un giorno».
Qual è stata la madre (o il padre) di tutte le liti tra voi?
«Eravamo appena tornati dal Festival di Sanremo che ci aveva dato una bella botta di stress: ti allontani e non te ne rendi conto, non ci parlavamo più, non c’era empatia nei confronti dell’altro, ognuno andava per la sua strada.
Ci siamo visti davanti a un baretto per chiarirci, ma è finita a recriminazioni uno contro l’altro; perché io, perché tu; le frustrazioni, le incomprensioni. Oggi invece c’è molta cura rispetto all’altro, affrontiamo subito anche la più piccola nuvola perché sappiamo che può diventare grande».
Il successo è una brutta bestia?
Mandelli: «Il successo ti dà una spinta perché ti dicono che sei grande, che sei bravo e si mette in mezzo a rovinare l’amicizia. È un elemento, ma non è solo quello. Quando cominci a rosicare il mostro dell’ego viene fuori e non ti fa più ragionare in maniera lucida».
Biggio: «Io però non l’ho visto come scontro di ego, abbiamo fatto sempre senza problemi e con piacere uno la spalla dell’altro. Erano problemi di coppia, non ti dici le cose e diventano enormi».
[…]La domanda che vi fanno più spesso?
«E l’altro ‘ndo sta?».
Di fronte alla sinagoga è stata disposta una lunga fila di passeggini con appoggiati volantini con i volti degli ostaggi rapiti da Hamas. […] «Nel 1945 avevo 15 anni. Ne ho 93 e devo ancora essere qui? - aggiunge amaramente Segre -. Vedere queste fotografie mi fa venire in mente quando nel 1945 sono tornata da Auschwitz e a settembre e ottobre venivo tutti i pomeriggi alla comunità ebraica, che era allora in via Amedei. Era pieno di fotografie di gente che non sarebbe mai tornata e mi chiedevano se mi ricordavo di qualcuno. Avevo 15 anni. Ne ho 93 e devo essere qui? Non c'è niente da dire. L'importanza di essere qui è sottintesa».
[…]
Fabrizio Biggio, lite e riconciliazione con Mandelli, chi è la moglie Valentina: sette cose che non sapete di lui. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.
Torna lunedì 16 la fortunata trasmissione «Viva Rai2!» con Fiorello e con il comico toscano. È stato lui che ha spolierato in diretta social la gravidanza di Nina Zilli
Il ritorno con Fiorello
Il 16 gennaio ricomincia il fortunato programma “Viva Rai2!: con Fiorello c’ è anche Fabrizio Biggio, nato a Firenze il 27 giugno 1974. Un volto noto della televisione italiana diventato celebre nel duo “I soliti Idioti” con Francesco Mandelli: dopo aver condotto diversi programmi su MTV, nel 2017 ha guidato “Stracult Live Show” , in seconda serata su Rai2, con Andrea Delogu e Marco Giusti.
Gli esordi
“Ho iniziato con i fumetti” ha detto Biggio in un’intervista. Dopo aver condotto un programma per una piccola tv locale,è stato chiamato per un provino da MTV. “Passano sei mesi e non mi chiamano, allora creo un fumetto: io che aspettavo la loro telefonata e la mia vita che nel mentre diventava un disastro. Dopo due settimane mi chiama MTV: “ti vogliamo incontrare” ha detto. Da lì ha avuto un grande successo.
Il rapporto con Mandelli
Il duo de “I soliti idioti” è formato da Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli che hanno dichiarato di aver interrotto i rapporti un bel po’ di tempo al termine della loro esperienza insieme. Biggio in particolare ha spiegato: «Ci siamo separati bruscamente, ci siamo lasciati male, proprio come succede nelle storie d’amore. In questi anni non ci siamo più sentiti, niente vie di mezzo: ognuno coi suoi giri. Ma ripensavo spesso alle nostre dinamiche». Pare sia stato per merito di Fiorello che i due si siano riavvicinati.
Spoiler
Biggio è “colpevole” dello spoiler della gravidanza di Nina Zilli: durante una diretta social con Fiorello si è lasciato scappare infatti la notizia. Sempre con Fiorello ha spoilerato anche il numero di cellulare di Alessia Marcuzzi.
La vita privata
Fabrizio Biggio è sposato: sua moglie è Valentina De Ceglie. I due stanno insieme da diverso tempo. Biggio stesso ha dichiarato di essere molto disordinato e quasi tutte le sue ex sono “scappate” proprio per questo motivo
A Sanremo
Col duo “I soliti idioti” Biggio è approdaro Sanremo, per ben due volte. La prima volta al Festival, nel 2012, erano semplicemente ospiti, mentre la seconda volta, nel 2015, erano in gara con il brano “Vita d’inferno”.
Doppiatore
Nella sua vita professionale c’è anche il cinema. Ha sbancato il botteghino con il film de I soliti idioti, ma Biggio è anche doppiatore: ha prestato la voce all’ottava stagione di “Beavis and Butt-head” e al mostro a due teste "Terry e Terri del film di animazione “Monsters University”.
Fabrizio Bracconeri.
Estratto dell'articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it il 28 maggio 2023.
Fabrizio Bracconeri, classe 1964, nasce e cresce a Roma. Il suo volto un po’ paffuto e la sua chioma di ricci rossi diventano presto noti al grande pubblico. Giovanissimo ottiene una nomination ai Nastri d’Argento per il film Acqua e sapone di Carlo Verdone per poi arrivare a un successo senza precedenti alla fine degli anni’ 80 con la serie televisiva I ragazzi della 3 C. Tra gli anni ‘90 e i primi anni del 2000 sarà uno dei protagonisti al fianco di Rita dalla Chiesa di Forum su Rete4. [...] Mio padre era tipografo del Popolo poi del Corriere dello Sport. Mia madre faceva la casalinga.
Che famiglia era?
Una famiglia normale di Trastevere. Abitavamo in via della Lungara. Mio zio aveva un’officina dove aggiustava le auto a Campo de’ Fiori. E là ho fatto l’incontro che mi ha cambiato la vita.
Racconti.
Uno dei clienti era Carlo Verdone. Io nel frattempo ero riuscito ad avere una piccola parte nel film Arrivano i gatti del gruppo comico “I gatti di Vicolo Miracoli” di cui ero fan.
Però Verdone era Verdone ed ero venuto a sapere che in quel momento stava scrivendo Acqua e sapone. convinto?
L’ho preso per sfinimento, ogni volta che lo vedevo in officina dicevo: “Verdo’ famme fa’ un film, famme fa’ un film, famme fa’ un film”. E alla fine Enrico Oldoini che era il co-sceneggiatore disse: “Se ci rompe tanto le scatole proviamolo, magari è bravo”.
Enrico Oldoini è morto pochi giorni fa, il 10 maggio.
Ma davvero? Nooo (lunga pausa). Che notizia che mi ha dato! Ma che dolore!
Come lo ricorda?
Il baffone! Era un ottimo sceneggiatore e regista. Una persona squisita. Pensi che la sua ex moglie è stata la mia agente per tanto tempo. Che dispiacere, davvero!
Torniamo a Verdone.
Verdone è un grande. Ce ne sono pochi come lui che riescono a scoprire i personaggi e poi a valorizzarli. A me spiegò dalla A alla Z quello che dovevo fare sul set. Non avevo nemmeno 18 anni. Mi ricordo che nella scena del film in cui guido una macchina rossa non avevo ancora la patente.
Con Verdone non ha fatto più nulla, come mai?
Deve chiederlo a lui. Forse non è capitata l’occasione giusta. La farei subito una parte per lui. Dopo più di 40 anni sarebbe bello.
Nel 1987 arriva il trionfo della serie I ragazzi della 3 C. Per tutti diventa lo studente Bruno Sacchi un po’ bistrattato dai professori.
Ancora oggi in tanti mi fermano per strada chiamandomi Bruno Sacchi. Non sa quanti mi incontrano e mi dicono, come faceva il finto prof: “Sacchi!? Tre”. Sicuramente è il mio personaggio più famoso.
I ragazzi della 3 C, serie televisiva 1987-1989. Che esperienza è stata?
Incredibile e totalizzante. Avevamo tutti tra i 20 e i 25 anni, si creò subito un certo legame che dura ancora oggi. Fu bravissimo il regista Claudio Risi, perché all’inizio eravamo abbastanza tranquilli e sulle nostre, poi dopo il successo della prima serie ci sentivamo tutti Robert De Niro e Al Pacino.
Diventare famoso così giovane può avere qualche effetto collaterale.
Be’ è stato strano. In quel periodo uscire di casa e andare in giro per Roma era diventato davvero difficile. La gente ti circondava sempre. Mi è toccato chiamare spesso la polizia per uscire da un negozio. Per girare la seconda stagione addirittura hanno dovuto mettere le transenne a 100 metri dal set perché c’era il delirio. Un mucchio di persone veniva a vederci. Il massimo lo abbiamo raggiunto quando abbiamo vinto il Telegatto per la prima stagione.
Cosa è accaduto?
Quando siamo entrati nella strada che ci portava al teatro dove si sarebbe tenuta la premiazione, c’erano 3-4mila persone. Quando sono sceso dalla macchina il boato della gente mi ha tagliato le ginocchia. Insomma, i nostri concorrenti erano Happy Days e Dallas e abbiamo vinto noi, mica male! Ma ha presente chi è Henry Winkler?
Il mitico Fonzie di Happy Days.
Ecco. Durante la cena dopo i Telegatti Henry Winkler addirittura mi ha fatto da cameriere. Capito? Un’esperienza unica.
Avete mai pensato a un sequel dei Ragazzi della 3 C?
Non solo ci abbiamo pensato, lo abbiamo anche scritto e non ho capito perché finora Mediaset non l’abbia voluto fare. Ora pare che ci sia una produzione che voglia realizzare qualcosa con tutto il gruppo degli attori che richiami quel periodo. Credo sia la volta buona. Su Facebook ce lo chiedono ogni giorno: perché non fate una nuova serie? Tra chi ha 40 e 60 anni se lo ricordano tutti. C’è addirittura un fan club che ci scrive e ci chiede di partecipare ai loro incontri.
Ma con gli altri attori si sente ancora?
Quasi tutti i giorni. Abbiamo una chat su WhatsApp in cui ci salutiamo, scriviamo le nostre cavolate e proviamo a organizzare qualche cena anche se con le famiglie non è mai semplicissimo.
Uno degli sceneggiatori della serie è stato Enrico Vanzina premiato da poco con il David di Donatello alla carriera.
Questo David arriva molto in ritardo. Enrico e l’indimenticabile Carlo Vanzina hanno fatto la commedia all’italiana. Per molto tempo sono quasi stati ignorati i cinepanettoni, ma sono film ben fatti e divertenti. Ma i Vanzina soprattutto sono stati bravi a lanciare i giovani attori.
Ricordo il film Amarsi un po’ girato insieme a Claudio Amendola e Tahnee Welch: in tre non arrivavamo a 65 anni. Ci vuole coraggio. Per il sequel dei Ragazzi della 3 C Enrico Vanzina deve essere sceneggiatore e regista.
Arriva il successo, arrivano i soldi. Ha fatto qualche follia in quel periodo?
Ma no! A 22 anni ero già sposato con la mia prima moglie e a 23 avevo una figlia. Poi ne ho avuti altri tre. Diciamo che mi piacevano molto le automobili. Tolte la Ferrari e la Porsche, le ho avute tutte. Mercedes, Bmw, Audi, Volvo, Lancia: non me ne sono fatta mancare una. E i modelli più belli!
Dopo I ragazzi della 3 C, partecipa a un’altra serie per giovani: College. Lei fa la parte del cadetto un po’ imbranato Carletto Staccioli.
È stato un lavoro diverso, più faticoso. C’erano molti attori stranieri e due registi tra cui lo scrittore Federico Moccia. Non si è creata l’atmosfera dei Ragazzi della 3 C. [...]
Gli anni poi passano anche per lei e arriva Forum. Come viene scelto?
Ai tempi dei Ragazzi della 3 C c’era un programma che si chiamava Forum di sera con Rita dalla Chiesa e il giudice Santi Licheri. Una sorta di spin off di quel Forum che oggi tutti conosciamo. Una sera andai come ospite e ci fu un boom di ascolti.
L’anno dopo uguale. Quando decisero di portare Forum alla mattina per tutta la settimana la signora dalla Chiesa propose di inserirmi in trasmissione. Poi capirai, Pier Silvio Berlusconi è uno dei miei più grandi fan. Mi hanno fatto un contratto di un mese e sono rimasto 13 anni. Con un piccolo momento di stacco perché mi ero un po’ stancato.
Bracconeri con Rita dalla Chiesa, che ha affiancato in Forum per 13 anni Qual è il suo rapporto con Rita dalla Chiesa?
Rita è come se fosse mia sorella, l’adoro e lei adora la mia famiglia. È stata la mia testimone di nozze. Pensi che quando glielo chiesi, già si sapeva che mi sposavo. Quando sono entrato in camerino si mise a piangere: "Pensavo che non me lo chiedessi”. Ci teneva molto. Per me è stata una nave, quando avevo problemi mi aggrappavo a lei. E lei c’era sempre.
Nel 2013 finisce anche l’esperienza di Forum.
Qualcuno ha detto che ce l’avevo con la nuova conduttrice, Barbara Palombelli. Non è assolutamente vero. Credo che quando si cambia conduttore sia giusto anche cambiare la squadra. Se mi avessero chiesto di rimanere dopo Rita dalla Chiesa avrei detto no.
Poi arriva la politica, nel 2014 si candida alle elezioni Europee con Fratelli d’Italia senza essere eletto. Mi sa che ha sbagliato periodo. Credevo e credo in quel partito.
Magari il prossimo anno può ritentare.
Se Giorgia Meloni mi chiede “Ti vuoi candidare alle Europee?”, be’ sarebbe difficile dirle di no. Anche se dell’Unione europea penso tutto il male possibile. Comunque conosco la premier da un po’ di tempo ovvero da quando mi chiese di farle la campagna elettorale per la candidatura a consigliere regionale nel Lazio.
Vi sentite ancora?
Si, ci siamo scritti per Natale. Un mese e mezzo fa sono stato nel suo ufficio.
In passato ha definito la presidente del Consiglio “una piccola donna con delle palle grandissime”. Conferma?
Confermo e non cambierò mai idea. Credo che Giorgia Meloni abbia delle doti che pochi politici hanno. Basti pensare al successo che ha avuto lei, una donna, in una società machista come l’Italia. Va be’, non credo di riuscire a convincerla visto come la pensa Repubblica. Bracconeri con Giorgia Meloni al mercato di Primavalle a Roma, 2021
In che senso scusi?
Be’ siete molto critici e tirate fuori ancora la storia del fascismo.
Non crede che dentro Fratelli d’Italia ci sia qualche nostalgia?
Per me il fascismo è morto e sepolto. Io odio tutti i regimi totalitari. Ho sposato una donna rumena, mia moglie Monica, che è scappata, ripeto scappata, dal comunismo e da Ceausescu.
Quindi lei come si dichiara?
Democratico di destra.
Nel gennaio 2018 in un tweet ha accusato l’allora presidente della Camera, Laura Boldrini, di essere responsabile dell’omicidio di Pamela Mastropietro uccisa da un pusher nigeriano. Si è pentito?
Io quel tweet lo riscriverei, ma era una polemica politica. E poi non ce l’avevo con lei, era scritto al plurale.
Non le sembra di aver esagerato?
Ma scusi, Boldrini allora era presidente della Camera e difendeva a spada tratta gli immigrati clandestini. Non ho insultato nessuno, ho solo polemizzato contro un certo tipo di immigrazione. Il problema spesso è la religione, molti musulmani non hanno rispetto per le donne e credono che siano esseri inferiori. Insomma, non mi pare siano portati per l’integrazione.
Per quel tweet è stato condannato per diffamazione aggravata.
Sì, devo pagare una multa di 1.500 euro ma credo che farò ricorso. Anche perché la polizia postale mi ha fatto vedere gli altri messaggi contro la Boldrini: quelli fanno accapponare la pelle, non certo il mio tweet.
Torniamo alla tv. In Rai stanno cambiando un po’ di cose, magari le fanno condurre un programma.
Ma magari! Tutti si stracciano le vesti perché Fabio Fazio se ne va a Discovery. Parliamoci chiaro: lui non è stato cacciato ma se ne va a prendere una decina di milioni. Poi Fazio è bravissimo, ma con i mezzi che ha la Rai lo posso fare pure io quel programma.
Si sta per caso candidando?
Io sono a disposizione e sono contento che ci sia un ricambio, era ora. Anche se forse mi piacerebbe più tornare a Mediaset che considero un po’ la mia casa.
E cosa le piacerebbe fare?
Il Bracco show, che poi è quello che già faccio adesso nel mio format online A muso duro, in onda sul canale YouTube “Antipathy Media”. Sono interviste faccia a faccia dove parlo con personaggi tipo Vittorio Sgarbi o l’ex magistrato Luca Palamara in cui si discute a ruota libera dicendo quello che altrove non si può dire. Inoltre do voce alle persone comuni che hanno avuto problemi come il sovraindebitamento.
[...]
Per suo figlio ha scritto un libro e fatto anche un film. Che rapporto ha con lui?
È un rapporto particolare, faticoso e solo chi lo prova sa di cosa parlo. Ma gli voglio un bene dell’anima. Certo, la nostra vita è un po’ particolare ed è così quella di tanti altri genitori d’Italia.
Il nostro Stato potrebbe fare di più per queste famiglie?
La disabilità andrebbe messa in Costituzione e soprattutto dovrebbe essere aiutata. Alcune famiglie sono disperate perché non ce la fanno ad assistere i propri figli, pagando 35 euro all’ora qualcuno che dia una mano.
Io bene o male posso permetterlo, ma sono fortunato. Queste cose bisogna capirle. Se in Italia si spendessero i soldi per realizzare in tutte le regioni strutture come quella dove va mio figlio, sarebbe un grande passo in avanti.
Fabrizio Corona.
(ANSA giovedì 30 novembre 2023.) - Fabrizio Corona, tornato libero lo scorso 23 settembre dopo avere finito di scontare il cumulo delle pene definitive, è stato condannato a 7 mesi per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Lo ha stabilito il giudice della decima sezione penale del Tribunale di Milano, ritenendolo colpevole dei reati commessi l'11 marzo del 2021, quando il Tribunale di Sorveglianza aveva deciso che l'ex agente fotografico doveva rientrare in carcere.
Avuta la notizia, lui aveva protestato ferendosi alle braccia, urlando contro la polizia e spaccando un vetro dell'ambulanza che era arrivata sotto casa per portarlo in ospedale. Le scene erano state tutte documentate in alcuni video.
Il giudice Cristina Dani ha invece assolto l'ex re dei paparazzi dalle imputazioni di oltraggio a pubblico ufficiale perché il fatto non costituisce reato e da quella di tentata evasione dal reparto di psichiatria in cui era stato ricoverato dopo l'episodio. Su richiesta del difensore Ivano Chiesa di convertire la pena in pena pecuniaria, il Tribunale dovrà acquisire le dichiarazioni dei redditi e la documentazione patrimoniale di Corona entro il 20 gennaio 2024, così da stabilire una somma. Il processo è stato quindi rinviato al prossimo 25 gennaio per l'integrazione del dispositivo.
La Procura di Milano, ripercorrendo le varie fasi dell'episodio che erano anche state documentate in alcuni video, ha chiesto di condannare l'ex re dei paparazzi a un anno. Per la difesa, invece, doveva essere assolto da tutti i capi di imputazione. Secondo l'avvocato Ivano Chiesa, Corona in questi anni "ha subito un'autentica persecuzione" perché "ogni volta che starnutisce nasce un processo penale o arriva la polizia". In uno dei passaggi della sua arringa ha poi sottolineato che "lo Stato italiano ha avuto una particolare attenzione" nei suoi confronti, trattandolo "come un criminale" quando "è solo un uomo eccentrico". Fuori dall'aula dopo la lettura del dispositivo, il difensore ha comunicato che nonostante la sentenza sia "accettabile", farà ricorso in Appello perché "voglio che Fabrizio sia assolto da tutto".
Da leggo.it giovedì 19 ottobre 2023
Il cachet da oltre 30mila euro che la Rai ha
versato a Fabrizio Corona continua a far discutere. E mentre l'ex paparazzo
attacca Avanti Popolo e la conduttrice Nunzia De Girolamo perché, a suo dire,
sarebbe stato «censurato», c'è chi non ha digerito la notizia del cachet
stellare che la Rai ha pagato per poterlo intervistare in ben tre trasmissioni.
Tra questi, anche l'inviato di guerra Cristiano Tinazzi.
Cristiano Tinazzi, attualmente in Ucraina per seguire lo guerra con la Russia,
ha pubblicato un tweet al veleno contro la Rai e Corona: «È bello sapere che la
Rai paga un cialtrone 40mila euro per farsi trattare a pesci in faccia quando
poi i freelance come noi li paga 0 per chiamarli come ospiti in trasmissione
dalle zone calde del mondo e che io quella cifra la guadagno passando circa 8
mesi in zona di guerra», ha detto.Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti
per “la Repubblica” giovedì 19 ottobre 2023
Un noioso e borioso pluripregiudicato si è preso un’ora di trasmissione Rai,
quasi senza contraddittorio, tra applausi in sala e deboli silenzi della
conduttrice. L’ospitata a pagamento di Fabrizio Corona sulla terza rete, nel
programma Avanti popolo presentato da Nunzia De Girolamo, era stata annunciata
come una nuova pagina di cronaca sulla vicenda delle scommesse dei giovani
calciatori, e invece si è rivelata non solo un flop in termini di ascolti (meno
di 800 mila spettatori, 4,3% di share), ma anche un lungo e imbarazzante momento
di servizio pubblico.
[…]
Terminata la pena lo scorso 23 settembre per avere ricattato David Trezeguet
usando fotografie compromettenti, solo l’ultimo episodio di una storia
giudiziaria che è costata a Corona una quindicina d’anni di condanne, il “re dei
paparazzi” è salito in cattedra pontificando su svariate questioni. Senza
vergogna, ha detto «ti devi vergognare» a Spalletti ed «è vergognoso quello che
ha fatto Mancini».
Ha dileggiato la stessa Rai che lo stava ospitando, e pagando («Quello che fa
Report in quattro mesi, io lo faccio in tre giorni»), ha contestato la messa
alla prova stabilita per Fagioli. Ma, soprattutto, ha portato a De Girolamo
video anonimi dove personaggi non meglio identificati raccontano, con voce
distorta, le loro verità sulla ludopatia di Fagioli e Zaniolo, salvo poi
lamentarsi, lo stesso Corona, per una presunta censura (questo, però, il giorno
dopo).[…]
Confuso nell’esposizione e piuttosto scosso, a proposito delle minacce ultrà,
Corona ha detto: «Nella mia follia totale preferisco morire così, almeno divento
un mito, un personaggio storico, e i diritti li lascio ai parenti». Ancora: «Ho
fatto più soldi dei calciatori, guido una linea editoriale, ho il dono della
notizia, me l’ha dato mio padre, ho un milione e 400 mila follower, sono
l’emblema del successo». Dimostrando che non solo i giovani atleti ludopatici
hanno bisogno di un sostegno dello psicologo, ma pure lui.
Il tutto con intermezzi nei quali ha trovato modo di dire «sei diventata
bellissima» alla conduttrice, che peraltro ha abbozzato. E lo ha più volte
ringraziato mentre il pubblico non faceva mancare apprezzamenti, come quando
Corona ha proposto una specie di riforma della giustizia.
Gli spettatori che martedì non hanno visto il programma, cioè la stragrande
maggioranza, ma che in parte lo hanno reso possibile con i soldi del loro
canone, sappiano che un ricattatore può ormai avere pari dignità, nei canali
Rai, rispetto a qualunque altro invitato. Sappiano, inoltre, che non si sono
persi niente, perché la trasmissione non ha aggiunto elementi di cronaca. E che
non faceva solo tristezza, ma pure dormire.
Aldo Grasso per il Corriere della Sera - Estratti
giovedì 19 ottobre 2023
Non si sa se sia più cialtrone Fabrizio Corona o chi lo ospita in tv. Preciserò
meglio. Intanto, per la terza volta, Corona è stato ospite pagato di una
trasmissione del servizio pubblico. Adesso dice di fare l’investigatore (come
parte in commedia non c’è male: l’ex pregiudicato che diventa poliziotto),
gestisce un sito, vuol mettere al gabbio tutti i calciatori implicati nelle
scommesse. Martedì sera, ospite di Nunzia De Girolamo, non ha rivelato nulla,
nonostante annunci e strombazzamenti vari.
(...) Non tocca a lui fare indagini, non toccherebbe alla Rai pagare un simile
personaggio, uno che da anni ha deciso di violare tutte le regole per essere
sempre al centro dell’attenzione (e apparire in tv). Parla dunque di censura e
poi va a spiattellare presunti nomi a Striscia.
Ma forse sbagliamo noi nel credere ancora che certi programmi, cosiddetti d’approfondimento, desiderino veramente approfondire qualcosa. Ogni talk show fa a gara per invitare il mattoide, il freak, il mostro da esibire, qualunque sia la professione con cui viene presentato: scrittore, ambasciatore, professore, ex galeotto, giornalista, opinionista. Sperando che le cose degenerino, tanto c’è sempre l’audience a coprire ogni magagna.
Del resto, l’unica ragione sociale di ogni trasmissione, anche la più perbenista, è fare audience. Dobbiamo scandalizzarci, dobbiamo esibire la fedina penale o i curricula taroccati dei partecipanti, dobbiamo strapparci i vestiti? La notizia più grottesca è che il Pd sarebbe in imbarazzo a rispondere sul caso Corona perché De Girolamo è la moglie di Francesco Boccia, capogruppo al Senato del Pd (lo sappiamo, li abbiamo visti tubare in video). Non è solo un problema di cialtronaggine, sono le leggi di questa tv. Possiamo noi cambiarle?
Estratto dell’articolo di Giovanni Valentini
per “il Fatto Quotidiano” giovedì 19 ottobre 2023
È vero che, a volte, i giornali sono costretti a pagare le fonti, come un
ricatto o un riscatto. E succede, ovviamente, anche alle televisioni. Ma quando
c’è di mezzo il servizio pubblico, finanziato dai cittadini attraverso il canone
d’abbonamento, allora il discorso è diverso e può assumere perfino i contorni
del peculato ovvero della distrazione di denaro pubblico. Materia da Corte dei
Conti, insomma.
L’idea di invitare a pagamento Fabrizio Corona, ex fotoreporter e pregiudicato,
per fargli raccontare l’ultimo scandalo del calcioscommesse, ultimo in ordine di
tempo, diventa così uno scandalo nello scandalo. A ospitarlo sarà la nuova
traballante trasmissione Avanti popolo di Nunzia De Girolamo, ex parlamentare ed
ex ministra, un’ex politica prestata alla tv che in quanto tale dovrebbe avere
ben altro concetto del servizio pubblico.
Se poi aggiungiamo il fatto che questa è la terza apparizione in meno di un mese
del medesimo personaggio sulle reti Rai, dopo Belve di Francesca Fagnani e
Domenica In di Mara Venier, sempre a cachet […]
Siamo, dunque, alla prostituzione della tv di Stato. Allo sperpero di denaro
pubblico, tanto più che ora il canone si riduce di 20 euro all’anno. Da Rai Play
a Rai Perpay. Una degenerazione commerciale del servizio pubblico che tradisce
il suo ruolo e la sua funzione. E fa bene perciò il verde Angelo Bonelli a
interpellare la Commissione di Vigilanza che s’è mostrata così attenta e
sensibile alla difesa del giornalismo d’inchiesta. Ma, quello, bisogna lasciarlo
fare ai duemila professionisti che già affollano le redazioni della Rai.
Dal profilo twitter di Selvaggia Lucarelli giovedì
19 ottobre 2023
Un pluripregiuricato con non so quante nuove denunce all’attivo apre un sito che
ha il nome di un delinquente e lo slogan “solo i fuorilegge saranno liberi”. Un
sito pieno di insulti, gossip beceri, contenuti che non definisco (l’altro
giorno ha pubblicato il nome di una persona che lavora con me sotto il mirino di
una pistola)
Intanto, per mesi, promuove scommesse calcistiche su Telegram promettendo a migliaia di utenti vincite sicure e robaccia varia. Mentre la procura di Torino sta indagando sul calcioscommesse lui scopre la cosa e brucia il lavoro costringendo la procura a agire prima di aver terminato l’indagine. Comincia a annunciare che darà nomi dei coinvolti uno alla volta sui social in una modalità a dir poco vessatoria e rivelando le fonti.
Poi, dall’alto del suo curriculum adamantino, dà lezioni di legalità e parla di ludopatia (“con quella faccia da bravo ragazzo quel calciatore è ludopatico, ha una grave dipendenza”). Detto da lui. In tutto questo nessun giornalista ha nulla da eccepire, anzi, grande promozione al sito con nome dedicato a un delinquente (interviste su Repubblica e Corriere) e vari inviti in tv al personaggio borderline in preda ad esaltazione. Naturalmente, a breve nuovi casini, la stampa che fa finta di non essere complice della resurrezione del mostro, poi lui torna in pista e si riparte dal via. Mi sembra un mondo surreale.
Da leggo.it giovedì 19 ottobre 2023
Fabrizio Corona si è scagliato contro Selvaggia Lucarelli. Tra i due non corre buon sangue e le loro differenze di vedute sono ormai storiche, ma questa volta, Fabrizio Corona, non gliel'ha mandate a dire e nelle sue Instagram stories ha deciso di sfogarsi contro la giornalista e giudice di Ballando con le Stelle. Alla base della discussione pare ci siano gli attrati tra i due che negli anni hanno portato, oggi, all'apice delle divergenze: «Selvaggia Lucarelli insegna giornalismo senza tesserino», questa l'ultima accusa di Fabrizio Corona. Scopriamo insieme cosa le ha detto.
Rita Rapisardi e Nello Trocchia per editorialedomani.it mercoledì 18 ottobre 2023.
Da qualche giorno Fabrizio Corona, l'ex re dei paparazzi, pare che tenga in pugno le sorti del calcio italiano.
(…)
Un altro mistero, l'ultimo dei tanti in questa storia che l'ex re dei paparazzi sta cavalcando rilanciando se stesso e il sito Dillinger.
(…)
Poco o nulla, finora, si conosceva però dei compagni di avventura di Corona, della macchina che gestisce gli introiti pubblicitari di Dillinger srl e dei suoi veri proprietari. Domani ha ricostruito chi c’è dietro il sito, usando documenti societari e investigativi.
Partiamo dall’inizio. Il socio unico di Dillinger Srl è un commercialista, sconosciuto ai più: originario di Vibo Valentia, in Calabria, si chiama Andrea Betrò. Betrò è anche il socio dell'azienda Montecarloadv, insieme a Pubbliemme, la società dell’editore di LaC, emittente calabrese. Montecarlo si dovrebbe occupare della pubblicità, ma non è ancora attiva.
Mai indagato, il suo nome è citato in alcuni atti giudiziari riguardanti le infiltrazioni dei clan nel settore petrolifero. Non solo: a parte i misteri di Betrò, risulta, dall'analisi del canale Telegram ufficiale di Corona, legami del pregiudicato con il mondo delle scommesse sportive. Proprio quelle che lui denuncia e che stanno terremotando il calcio italiano.
Corona è stato sentito dalla procura di Torino come persona informata sui fatti per le notizie sui calciatori dipendenti dal gioco rivelate da Dillinger. Luca Arnaù è il direttore responsabile della testata, già guida di molte riviste di gossip. Lui è uno dei membri della «banda», come Corona ama chiamare la redazione, che ha preso in prestito il nome della testata da John Dillinger: un gangster statunitense degli anni della grande depressione.
Il suo faccione è replicato sui social della testata, il cui slogan è in inglese. Tradotto suona così: «Solo i fuorilegge saranno liberi». Corona non è l'azionista di Dillinger. I soldi li mette Betrò. Capitale sociale da 10 mila euro, è stata costituita a Roma il 19 luglio 2023. Il nome di Betrò compare in alcuni atti di due anni fa sulle infiltrazioni della 'ndrangheta e della camorra nel settore petrolifero. Betrò è citato solo perché è stato socio, nella Multijet srl, con Domitilla Strina, la quale ha poi ceduto la sua partecipazione nel 2020. Strina è la figlia dell'ex showgirl Anna Bettozzi, con cui aveva la Max petroli.
Di Bettozzi si è parlato molto due anni fa: coinvolta nell'operazione sul clan Moccia e l'affare milionario del contrabbando di carburanti. Strina non è stata coinvolta dall'indagine (risulta un controllo in auto con due amici del clan), ma Bettozzi è stata arrestata come braccio imprenditoriale della camorra e condannata, di recente, a 13 anni e due mesi di carcere in primo grado.
Betrò e Strina si sono ritrovati consiglieri anche nella società Mediolanum holding fino allo scorso anno, oggi la srl è in liquidazione così come è in fallimento la Mediolanum oil srl.
Betrò è citato anche in una segnalazione della Banca d'Italia su alcune operazioni sospette riconducibili in particolare ad Antonio Di Fazio, l'imprenditore della Milano bene, di recente condannato per violenza sessuale, e Mauro Russo, quest'ultimo in passato condannato in via definitiva per fatti di camorra.
Nella segnalazione sui due si menziona la Multijet srl con un riferimento a un'indagine giudiziaria risalente al 2019. Domani ha contattato Betrò che ha risposto alle nostre domande.
Partiamo da Corona e dalla sua asta per le notizie. «Lui è collaboratore di Athena con la quale la mia Dillinger ha un contratto. Ho fatto questo investimento perché volevo una rivista di gossip, non mi aspettavo questo inizio e questo scoop. Corona l'ho conosciuto tramite Arnau», dice Betrò, che avverte Corona: «Se dovesse eccedere ed esagerare gli chiederò di allontanarsi. Vediamo come andrà in Rai e poi tireremo le somme».
Oltre a Dillinger, Corona usa anche Telegram per rilanciare gli “scoop”. Nel suo seguitissimo canale c'è ancora traccia di un'altra sua passione: le scommesse sul calcio. Il 19 aprile Corona consiglia una giocata sulla sua squadra del cuore, l'Inter: «Entrateci e stasera (anche con soli 10 euro) vi vedete la partita vincendo altri 60 euro facili».
Il giorno della finale di coppa Italia, il 24 maggio pronostica la vittoria dell'Inter: «L'Inter che vince la Coppa Italia a Quota 4 (invece di 1,50)», clicca e rimanda al sito della Snai, post visualizzato da 72mila persone.
Tanti di questi consigli rimandano a un altro canale Telegram, quello di “Prof. Reggio”, all'anagrafe Fabrizio Iaquinta, 30 anni, un tipster che dispensa consigli sulle scommesse da fare. Con lui anche “Paolo”, amico di vecchia data, con cui fonda il canale nel 2020, dopo anni a studiare l'ambiente scommesse.
(...)
In un mese il servizio pubblico ha garantito a Corona lauti compensi, come emerso nei giorni scorsi intorno ai 30mila euro. Quasi quanto la vincita vantata su Telegram scommettendo grazie al suo tipster Prof Reggio.
L’editore di Corona replica a Domani: «Chiederemo alle autorità di individuare la vostra fonte». Il Domani il 19 ottobre 2023
«Formulo la presente nell’interesse del Dott.
Andrea Betrò», inizia così la lettera che l’avvocato dell’editore di Fabrizio
Corona ha inviato al quotidiano Domani. Noi confermiamo quanto scritto, nella
nostra inchiesta era riportata anche la replica di Andrea Betrò e le sue
risposte a ogni notizia pubblicata
Formulo la presente nell’interesse del Dott. Andrea Betrò, che sottoscrive la
presente sia in proprio che n.q. di legale rappresentante della “Dillinger Srl”
a fini adesivi e di ratifica, in relazione all’articolo di cui in oggetto a
firma di Rita Rapisardi e Nello Torchia, per rappresentare quanto di seguito.
Il Dott. Betrò intende mio tramite prendere integralmente le distanze dal
contenuto del Vs. articolo, poiché profondamente lesivo della propria
reputazione personale e professionale, oltreché apparendo non pertinente
l’oggetto della pubblicazione rispetto all’attività in parola con effetti
altamente diffamatori aggravati dalla pubblicazione peraltro ripresa da
molteplici testate.
In particolare già dal titolo dell’articolo risulta evidente l’intento denigratorio che caratterizzerà l’interezza della notizia.
Difatti, l’accostamento dell’assistito a persone
delle quali questi non ha alcuna conoscenza, risulta intento rappresentativo
della volontà di ingenerare nel lettore una visione profondamente negativa
dell’immagine del Dott. Betrò – come da Voi riferito, mai indagato ed
incensurato - che al contrario è un brillante imprenditore e commercialista, che
nell’arco della propria seppur giovane carriera ha avuto modo di incontrare
molteplici persone con le quali i rapporti si sono limitati all’espletamento di
attività professionali, che – come nella naturalezza delle logiche di mercato –
hanno avuto esiti a volte migliori e a volte meno fausti. Medesime affermazioni
del tutto infondate da cui il Dott. Betrò intende prendere le distanze quelle
riferibili alla ventilata vicinanza con soggetti riconducibili al mondo della
criminalità organizzata.
Inoltre il Dott. Betrò intende con la presente rivendicare la bontà
dell’iniziativa imprenditoriale denominata “Dillinger News” e nega di avere
anche solo minimamente paventato l’allontanamento nei confronti di Fabrizio
Corona, con il quale invece auspica di proseguire nella proficua collaborazione
già avviata.
Si contesta da ultimo la veridicità della presunta
segnalazione per operazioni sospette in Banca d’Italia del nominativo del Dott.
Andrea Betrò, informazione di cui l’assistito mai ha avuto alcuna contezza e
rispetto alla quale è già stato dato incarico allo scrivente studio legale di
adire le Autorità Competenti allo scopo di comprendere la fonte e la modalità di
acquisizione di tale notizia, informandoVi altresì che tuteleremo l’immagine e
l’onorabilità dell’assistito in ogni sede per il contenuto della pubblicazione
di cui in oggetto.
Quanto alle società andate in liquidazione o fallite (Mediolanum Oil Srl e
Mediolanum Holding Spa) sarebbe bastata una semplice visura per riscontrare la
vendita della partecipazioni detenute dal
Dott. Andrea Betrò in un momento in cui, nel 2020, lo stato di salute delle
ridette società era in bonis. Si chiede espressamente che la Vs. testata
divulghi la presente nella propria interezza, auspicando il rispetto di replica
e l’immediato “riparo” al danno arrecato.
La risposta di Domani
Confermiamo ogni parola di quanto scritto, nella nostra inchiesta era riportata anche la replica di Andrea Betrò e le sue risposte a ogni notizia pubblicata. Ne.Tro. Ri.Rap.
Il ritorno di Fabrizio Corona oggi avvocato, magistrato e giudice inseguito dai giornalisti. L'ex re dei paparazzi è tornato in auge e al centro delle cronache a causa dei presunti scandali legati al mondo del calcio in relazione alle scommesse. Corona sta vestendo i panni della 'triplice toga', quella di avvocato (di se stesso), magistrato (che indaga sul caso) e giudice (che condanna o assolve le persone implicate). I giornalisti gli vanno dietro, l'autorità giudiziaria e le forze dell'ordine? Intanto, lo scoop sta diventando gogna mediatica, culminata con lo show avvenuto sui campi di Coverciano. Da Corona, profondo conoscitore della società italiana, ci saremmo aspettati un pò più di garantismo: intanto, però, lui ha già vinto la partita. Andrea Aversa su L'Unità il 17 Ottobre 2023
Corona è tornato e lo ha fatto nel suo stile, in pompa magna. Da gran conoscitore dei media e della società ‘pop’ italiana, ha saputo costruire una strategia che ha stregato l’opinione pubblica obbligandola a rivolgergli di nuovo grande attenzione. La prima mossa, preparare il terreno. Corona da qualche tempo, al netto delle sue vicende giudiziarie, è tornato a far parlare di sé con interviste e comparsate televisive. I temi sono stati sempre gli stessi, il gossip, il trash, lo spettacolo. Questa volta l’argomento è stato il calcio. E qui entra in gioco la seconda mossa: parlare dello sport più popolare e seguito nel Paese. Terzo step, la ‘serialità social’: attraverso i suoi seguitissimi canali, Corona ha annunciato scoop e novità, creando suspense e attesa.
Il ritorno di Fabrizio Corona
Il tema è ovviamente stato quello del calcio scommesse. Ed ha avuto ragione. L’ex paparazzo, piaccia o non piaccia, ha vinto anche questa partita. Per il ‘popolo‘ è diventato colui che ha tirato fuori una parte marcia di questo sport. Per i giornalisti è diventato l’unica fonte da seguire e pagare. Per il ‘sistema calcio’ è diventato una spina nel fianco, o un’opportunità. Lo scopriremo nei prossimi mesi. Non è chiaro, invece, cosa Corona sia diventato per l’autorità giudiziaria, i cui esponenti stanno ancora indagando ed effettuando accertamenti sul caso. E qui veniamo alle note dolenti. Alle distorsioni che stanno travolgendo per l’ennesima volta il sistema mediatico e giuridico.
La strategia
Corona ha dettato la linea ai media. Ha tirato fuori le notizie, non si sa se abbia spiazzato gli inquirenti. Quello che è certo è che nelle ultime ore sono accadute cose strane. Alcune hanno riguardato la misteriosa ‘gola profonda‘ dell’ex paparazzo. Quest’ultima e presunta sarebbe comparsa in un podcast dove avrebbe ritirato tutto ciò che precedentemente aveva infangato il calciatore Zalewski. E arriviamo, dunque, al nocciolo della questione. L’azzardo di Corona sta scatenando contro le persone coinvolte nel caso una feroce gogna mediatica ancora prima che vengano fatti i dovuti processi. Lo show è culminato con l’arrivo delle forze dell’ordine sul campo della Nazionale a Coverciano.
I media al seguito e l’autorità giudiziaria
L’ex paparazzo, nei panni di avvocato, magistrato e giudice, sta spargendo con violenza quel giustizialismo del quale troppe volte è stato lui stesso vittima in passato. Per questo da Corona ci saremmo aspettati più delicatezza, più senso del garantismo. Ma evidentemente lui è ben consapevole del fatto che i media e gran parte dei cittadini, sono affamati di scoop e colpevoli da ‘linciare’. Lo ha vissuto egli stesso. Avrà imparato poco dai suoi errori e da quelli del ‘sistema’. A proposito, vediamo come agiranno magistrati e giudici. Gli unici, fino a prova contraria e secondo Costituzione, che in Italia possono ufficializzare accuse ed emettere sentenze.
Andrea Aversa 17 Ottobre 2023
Da leggo.it - Estratti lunedì 16 ottobre 2023.
Nina Moric torna su Instagram e si mostra con il figlio dopo una lunga assenza. L'ex modella croata aveva spesso fatto riferimenti a Carlos e al fatto che fosse il suo unico grande amore.
Stando a quanto detto da Fabrizio Corona a Belve pare che i rapporti madre-figlio fossero gravemente compromessi. Carlos e Nina però hanno smentito l'ex paparazzo.
(...)
Nina si fa seria e cambia tono: «Chiunque ha parlato», con riferimento alle parole di Corona, e Carlos afferma: «Cosa vuoi da me?», e lei: «Bravo amore, cosa vuoi da me, la risposta più giusta che tu possa dire, perché gli altri parlano a vanvera. Chi ti ha descritto aveva intenzione di descrivere se stesso, non te».
La verità di Carlos
A quel punto Carlos spiega: «Chi ha parlato aveva interesse di andare in tv ed essere pagato e dire le cose per gratificare il suo ego. Io vorrei dire le cose come stanno, secondo me. Il problema è che la gente, anche per colpa mia, ha un'idea distorta delle cose. Quello che dicono che mia madre è sparita, non è così, e non c'è nessuna guerra in atto, nessuno ha offeso o insultato, c'è stato un grande chiacchiericcio. Io posso vedere mio padre, mia madre, quando voglio, siamo persone civili».
Poi aggiunge: «Non c'è nessun conflitto, quello che è stato riportato sono cose travisate, non sono cose attendibili. Non c'è stato nessun tipo di furto, potete crederci o no, io non ci ricavo nulla. Comunque voglio dire che l'importante è fare le cose con libertà e spontaneità, perché uno se lo sente e lo vuole fare».
Sembrano discorsi confusi quelli di Carlos, ma il messaggio finale resta chiaro, smentire l'intervista del padre a Belve. Il tutto si conclude in modo ironico con il figlio di Corona che dà un messaggio al "popolo di instagram": «Sapete che il sonno è importante, cara gente che lavora e fatica, buonanotte e un abbraccio»
Figlio d'arte. Chi era Vittorio Corona, il giornalista padre di Fabrizio Corona: “Era il mio idolo, mi chiamava Dillinger”. Redazione Web su L'Unità il 15 Ottobre 2023
Fabrizio Corona, se fosse ancora vivo suo padre Vittorio Corona, non saprebbe cosa dirgli, “non sarei capace di condividere i sentimenti”. Lo ha detto lui stesso, l’ex “Re dei paparazzi”, in un’intervista a la trasmissione Belve. Corona, da poco scarcerato, è tornato al centro dell’attenzione mediatica con gli scoop sul nuovo scandalo Calcioscommesse esploso in Italia, retroscena pubblicati sul nuovo portale di informazione Dillingernews, che si propone come il nuovo Dagospia. Quel nome, Dillinger, è stato ispirato proprio da Vittorio Corona.
Vittorio Corona era figlio di Aurelio Corona, capocronista del quotidiano La Sicilia di Catania, e fratello del giornalista Puccio Corona. Laureato in filosofia, entrò nella casa editrice Rizzoli, lavorò per Novella 2000 e divenne vicedirettore del settimanale Annabella. Dopo un breve rientro in Sicilia a Telecolor, tornò a Milano e divenne vicedirettore di Amica prima di passare in Rai, a partire dal 1983. Fu direttore dei mensili Moda e King e realizzò diverse rubriche settimanali per RaiDue.
A partire dal 1991 passò a Studio Aperto, su Italia1, come vicedirettore. Quando la direzione di Studio Aperto passò a Paolo Liguori, si dimise da Fininvest e nel 1994 passò come vicedirettore a La Voce, la nuova testata fondata da Indro Montanelli. Dal 1995, dopo la chiusura de La Voce, diresse il mensile Village e il periodico di Mondadori Star Tv. Fondò anche una sua società, la “Corona & Corona”. FNSI lo ha definito un inventore e innovatore dei mensili e dei rotocalchi che ha diretto e con cui ha collaborato.
Vittorio Corona ebbe tre figli dal matrimonio con Gabriella Previtera, tra cui Fabrizio. Quest’ultimo ha dedicato al padre anche una canzone, scritta da lui stesso. Papà Vittorio, aiutami tu. Una specie di lettera, forse scritta mentre era detenuto in carcere. La canzone è stata incisa dal cantante Fabrizio Chiarelli, vi hanno collaborato il compositore e fonico Federico Pedichini, il bassista Maurizio Mazzanti, il chitarrista Emanuele Volpi. Vittorio Corona è morto nel gennaio 2007, a 59 anni, dopo una lunga malattia.
A Diva e Donna Fabrizio Corona ha raccontato come Vittorio non fosse “solo mio padre, era il mio idolo”. Lo ha definito come un uomo incorruttibile, l’esempio del vero giornalismo. Vittorio Corona si ammalò quando il figlio era già molto famoso. Il nuovo portale è stato ispirato a John Dillinger, famoso rapinatore e criminale americano, perché Vittorio Corona chiamava così il figlio. “Se fosse ancora vivo mio padre, forse i rapporti con mia madre non sarebbero questi, e forse mia madre non sarebbe questa, e forse io avrei ragionato e penserei in modi migliori”. Redazione Web 15 Ottobre 2023
Chi è la fidanzata di Fabrizio Corona, la modella Sara Barbieri: “Solo con lei condivido i miei sentimenti”. La coppia sta insieme da due anni. "A me sembrano dieci". La modella 23enne avrebbe rifiutato la proposta di matrimonio dell'ex "Re dei paparazzi". Redazione Web su L'Unità il 14 Ottobre 2023
Sara Barbieri è “l’unica persona con cui sono capace di condividere i miei sentimenti, le mie paure e le mie problematiche paradossalmente è la mia fidanzata di 23 anni, con cui condivido gioie, pianti, dolori. Cosa che non ho mai fatto. fondamentalmente siamo due anime dannate, simili”. Lo ha detto intervistato alla tramissione Belve, Fabrizio Corona. L’ex “Re dei paparazzi”, com’era stato soprannominato, ex di Nina Moric e Belén Rodriguez, da poco ritornato in libertà, di nuovo al centro dell’attenzione mediatica per i retroscena e gli scoop del nuovo media Dillingernews, un portale di informazione che si propone come il nuovo Dagospia con cui Corona sta collaborando.
Corona ha annunciato che nello scandalo che sta travolgendo il calcio italiano ci sono almeno altri 10 calciatori, 5 o 6 procuratori. Le prossime notizie e le prossime anticipazioni, dopo i nomi di Fagioli, Tonali e Zaniolo – Zalewski della Roma ha negato ogni coinvolgimento e i legali avrebbero preparato una querela per diffamazione – saranno concesse dallo stesso Corona alla trasmissione di Rai3 condotta da Nunzia De Girolamo “Avanti Popolo” martedì prossimo dopo la partita della Nazionale contro l’Inghilterra.
Fagioli indagato per le scommesse “clandestine”, il calciatore della Juventus nei guai: rischia lunga squalifica
Gli scoop sul calcioscommesse hanno rimesso al centro dell’attenzione mediatica Corona. La fidanzata vorrebbe che non si mettesse nei casini. “Ha ragione, mi vorrebbe a casa, tranquillo, fare la coppia normale che si guarda Netflix, ma sono così, glielo spieghi tu?”, ha commentato Corona nel lungo articolo di Mowmag dedicato allo scoop di Corona. Barbieri è di sei anni più giovane di Corona, ha 23 anni. È una modella, ha partecipato a diverse campagne pubblicitarie di abbigliamento e gioielli e per marchi come Dolce & Gabbana. Sui social è seguita da oltre 60mila persone.
La coppia sta insieme da due anni. “Mi sembrano dieci”, ha replicato lei al Corriere. A dare per primo la notizia della relazione è stato il settimanale Oggi. “Sara è la prima donna della mia vita che io non ho non ho sfruttato, che non ho utilizzato, che non mi è servita per fare qualcosa”. Secondo quanto raccontato dallo stesso Fabrizio Corona, la ragazza avrebbe rifiutato la sua richiesta di matrimonio. Redazione Web 14 Ottobre 2023
Certi amori non finiscono. Il party, le nozze, i guai giudiziari: la storia d’amore tra Fabrizio Corona e Nina Moric. La storia d'amore tra Nina Moric e Fabrizio Corona – durata otto anni – è iniziata nel 1999 con l’incontro a un party e è finita nel 2007 con un burrascoso divorzio. Novella Toloni il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Il colpo di fulmine a Los Angeles
Gli anni della televisione
Il "re" dei paparazzi e le nozze
L'aborto poi l'arrivo di Carlos Maria
Gli impegni e la crisi
L'annuncio della separazione
I fotoricatti e il carcere
La scarcerazione e il ritorno di fiamma
Il divorzio e la lunga battaglia legale
Prima di Belen Rodriguez Fabrizio Corona ha vissuto un altro grande amore, quello con Nina Moric. La modella croata e Corona hanno avuto una relazione fatta di alti e bassi. La grande passione esplosa negli anni d’oro delle feste in Costa Smeralda, le copertine, le serate e le paparazzate. Poi l’addio e la lunga battaglia giudiziaria a segnare la fine di un amore durato otto anni.
Il colpo di fulmine a Los Angeles
È il 1999 Nina Moric è all’apice del successo. Oltre a essere una delle modelle più richieste in passerella, la croata diventa un sex symbol mondiale grazie al video "Livin’ la vida loca", dove Nina è protagonista al fianco di Ricky Martin. Corona è già nella squadra di Lele Mora e partecipa a un party esclusivo organizzato da Roberto Cavalli a Porto Cervo. Alla festa c’è anche Nina, già incontrata un paio di anni prima a Los Angeles, e tra i due ci sono sguardi di fuoco per tutta la sera. Nina, però, è con il fidanzato e Corona deve attendere ancora il suo momento. Due settimane dopo l’evento, Fabrizio incontra la Moric per caso in un bar e senza pensarci due volte invita la modella fuori a cena. "Da quella sera non ci siamo più lasciati", rivelerà poi Corona.
Gli anni della televisione
È il 2000. La storia tra Nina Moric e Fabrizio Corona procede spedita. Il loro amore è solido e passionale e nei locali milanesi la coppia non passa inosservata. Nina passa dalle passerelle al piccolo schermo prima come valletta al fianco di Giorgio Panariello in "Torno Sabato" e Luca Barbareschi ne "Il grande bluff". Poi diventa co-conduttrice di "Convenscion" e "Uno di noi" sui canali Rai. Fabrizio Corona invece è uno dei volti di Inter Channel, dove lavora come conduttore per alcuni mesi. Ma Corona sogna in grande e si stacca dall'ala protettiva di Lele Mora per spiccare il volo.
Il "re" dei paparazzi e le nozze
Il 2001 è un anno cruciale nella storia di Fabrizio e Nina. Durante una cena romantica, Corona sorprende la Moric con un vistoso anello di fidanzamento e le chiede di sposarlo. Le nozze si celebrano pochi mesi nella Chiesa di San Marco a due passi dal quartiere Brera. Testimone dello sposo è Lele Mora. Nello stesso anno Fabrizio fonda la sua agenzia fotografica, la Corona's, e diventa il "re" dei paparazzi tra scoop e servizi fotografici di cronaca rosa rivenduti a quotidiani e settimanali.
L'aborto poi l'arrivo di Carlos Maria
Nina e Fabrizio non perdono tempo, il desiderio di allargare la famiglia è forte e la modella croata rimane incinta di due gemelli, ma a causa di un aborto spontaneo finisce in ospedale. Nonostante la dolorosa perdita a inizio 2002 la Moric rimane nuovamente incinta. La sua attività di modella, però, non si ferma e a luglio - un mese prima del parto - sfila a Roma per Gattinoni. Sulla passerella Nina sfoggia il pancione in un abito disegnato apposta per lei da Guillermo Mariotto e finisce su tutte le copertine delle riviste. Poco dopo, l'8 agosto, viene alla luce Carlos Maria.
Gli impegni e la crisi
È il 2004. Il lavoro assorbe Fabrizio Corona, che è sempre più al centro dei gossip e della cronaca rosa grazie alla sua agenzia. Nina si occupa di Carlos Maria e posa senza veli per il calendario della rivista "For Men" oltre a condurre due trasmissioni "Shake" e "Bravo Grazie". Le voci su una presunta crisi, però, si fanno insistenti. La modella e il "re" dei paparazzi si fanno vedere spesso insieme e non mancano di presenziare a eventi e feste, ma c'è chi è pronto a giurare che il rapporto sia al capolinea e la coppia non smentisce le indiscrezioni.
L'annuncio della separazione
Giugno 2005. Il settimanale Oggi dedica la cover story a Nina Moric che annuncia di volersi separare da Corona. "Fabrizio non sa amare" lo accusa la moglie in una lunga intervista esclusiva, dove parla dei motivi della rottura. Il narcisismo di Corona e il lavoro prima di tutto hanno minato il matrimonio e Nina non sembra voler tornare sui suoi passi. Pochi mesi dopo però, a inizio 2006, la coppia viene paparazzata all'estero, a Miami Beach, insieme con il piccolo Carlos a godersi il caldo sole della Florida. La separazione sembra essere scongiurata, ma Corona finisce nel mirino della giustizia.
I fotoricatti e il carcere
Maggio 2006, Corona è al centro dell'inchiesta sui fotoricatti ai vip del pm di Potenza Henry John Woodcock insieme a Lele Mora. Le accuse vanno dall'estorsione allo sfruttamento della prostituzione. Francesco Totti, Gilardino e altri calciatori famosi accusano Corona di averli ricattati con foto e servizi compromettenti. Un anno dopo, il 13 marzo 2007, Fabrizio venne arrestato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'estorsione. Nina e Carlos rimangono da soli, ma per la Moric è l'occasione per porre fine a un matrimonio finito molto tempo prima. Lei stessa finisce al centro dell'inchiesta-scandalo Vallettopoli con l'accusa di riciclaggio, poi decaduta. Nina Moric finisce addirittura in ospedale, per una sospetta overdose, ma la modella parla di un malore causato dallo stress.
La scarcerazione e il ritorno di fiamma
Dopo oltre due mesi di carcere, a maggio 2007 Corona ottiene gli arresti domiciliari e si riavvicina all'ex moglie Nina Moric. A metà giugno, al settimanale "Di Tutto", Fabrizio racconta che dal carcere ha continuato a scrivere lettere d'amore a Nina e al momento della sua scarcerazione lei era lì ad aspettarlo. "Dividiamo i conti, ma subito dopo torniamo insieme e ci risposiamo. La separazione è fissata per il 21 giugno, ma nessuno si muove da questa casa", assicura Corona ma l'idillio dura poco e i due si dicono addio.
Il divorzio e la lunga battaglia legale
Fabrizio vive la sua vita fuori e dentro al carcere e dal 2009 ha cominciato una relazione con Belen Rodriguez. Quando nel 2012 riesce a ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali, però, al suo fianco c'è l'ex moglie, con la quale è tornato in buoni rapporti. Il divorzio definitivo tra Nina e Fabrizio arriva nel 2013 e da quel momento inizia un'aspra battaglia a colpi di accuse, recriminazioni e minacce, che si trascinano fino ai giorni nostri. Oggi Fabrizio Corona è tornato in libertà per avere scontato la sua pena ed è fidanzato con la giovane modella Sara Barbieri, mentre Nina è single, reduce da gravi problemi di salute.
Marco Zonetti per Dagospia l'1 ottobre 2023.
Dopo l'ospitata da Francesca Fagnani a Belve su Rai2, che ha aiutato non poco il successo della puntata d'esordio della nuova stagione, ecco che Fabrizio Corona è stato chiamato anche da Mara Venier a Domenica In nel pomeriggio di Rai1.
L'ex paparazzo più famoso d'Italia, tornato in libertà da pochi giorni, si è profuso in lunghe dissertazioni sul "senso della vita secondo Fabrizio Corona", con qualche parolaccia bacchettata dalla Venier e riferimenti alla vita in carcere e ai vari personaggi che hanno incrociato la sua vita spericolata.
Dai magistrati ai giudici ingiusti, dall'ex moglie Nina Moric all'ex fidanzata Belen a Stefano De Martino (che "neanche esisterebbe", dice Corona, se lui non fosse andato in carcere). Da Lele Mora (innamorato di lui) ai giornalisti corrotti, dalla madre alla nuova giovanissima fidanzata (presente in studio) e così via.
Attimi d'imbarazzo al momento dell'allusione di Corona al più grande artista televisivo italiano, un sessantenne siciliano che avrebbe trovato la serenità dopo un periodo burrascoso, una serenità della quale l'ex paparazzo si dice non invidioso perché preferisce continuare "a prendere le pillole" e a vivere a tutta velocità.
"Non fare il nome, non dire il nome!" continuava ad ammonirlo la Venier, anche se, all'unanimità, in rete hanno creduto di riconoscere nel personaggio misterioso il mattatore Fiorello. Avranno avuto ragione? Chissà.
La colorita (eufemismo) ospitata di Corona a ruota libera nel pomeriggio domenicale di Rai1 ha infiammato molti commentatori che hanno deplorato la scelta della tv pubblica, per il pessimo esempio che darebbe ai giovani in un programma per famiglie.
Qualcuno ha sottolineato come la Rai abbia bloccato il programma di Roberto Saviano per poi accogliere a braccia aperte Corona, altri hanno criticato aspramente gli attacchi alla giustizia o i riferimenti agli psicofarmaci, oltre ovviamente alle parolacce pronunciate qua e là.
Subito dopo Corona, è comparsa nello studio di Domenica In Pamela Prati, in passato oggetto di polemiche ai tempi della sua liaison fake (sbugiardata da Dagospia) con Mark Caltagirone, che finì addirittura nel mirino della Commissione di Vigilanza Rai per le ospitate nelle trasmissioni del servizio pubblico.
Una Domenica In vissuta pericolosamente, insomma, quella di oggi pomeriggio. Riuscirà a battere Canale5 con la soap turca Terra Amara e Verissimo di Silvia Toffanin?
Emanuele Fiocca per lanostratv.it l'1 ottobre 2023.
Fabrizio Corona e il rapporto travagliato con la mamma: “Faccio quello che c***o voglio”
C’è stato un momento di tensione nella lunga intervista che Fabrizio Corona ha rilasciato nella puntata di Domenica In andata in onda oggi, 1 ottobre 2023, come sempre a partire dalle 14.00 su Rai1. Parlando del rapporto difficile con sua madre Gabriella, Fabrizio ha detto infatti una parola che Mara Venier non ha gradito, bloccandolo subito. “Tua mamma ha sofferto per tanti anni, adesso sei libero, potresti stare un po’ con lei” ha detto la conduttrice al suo ospite, il quale ha replicato:
"Per quindici anni ho dovuto subire e stare agli ordini di persone che mi dicevano cosa fare 24 ore su 24. Ora a cinquant’anni, da uomo libero, penso di meritare di fare il c***o che voglio!" sono state le parole di un animato Corona.
La conduttrice di Domenica In rimprovera il suo ospite: “Non dire parolacce qui”
“Si ma non dire parolacce a Domenica In“ è stata la risposta piccata di Mara Venier, mentre Fabrizio Corona ha continuato il suo sfogo dicendo: “Non voglio stare con il pensiero di quello che dice mia madre”.
Successivamente l’attenzione si è spostata sul suo rapporto di un tempo con Lele Mora: “Ormai sono diventato anaffettivo, credo pochissimo nei sentimenti veri. Ho una fidanzata che mi vuole bene e un avvocato che mi vuole bene” ha detto Corona. “Anche Lele, però, ti ha voluto molto bene, per te ha fatto tanto” è stata la risposta della conduttrice di Domenica In, e Fabrizio ha replicato: “Si, ma da parte sua c’era sempre un interesse…”.
Se sei innamorato di una persona che non può darti quello che vuoi, quella persona ti ama lo stesso, questo è l’amore […] Se una persona dice “devi stare con me, non mi devi tradire ecc.” questo non è amore. L’amore è fare in modo che una persona sia felice
ha spiegato Fabrizio, e Mara ha commentato: “Lui quindi voleva qualcosa che tu non potevi dargli…”.
Fabrizio Corona clamoroso a Domenica In: “La mia psicologa si è innamorata di me”
Non solo il difficile rapporto con la mamma Gabriella e i terribili anni trascorsi in carcere: a Domenica In Fabrizio Corona ha fatto anche una confessione divertente, dicendo “In passato sono stato da una psicologa per un problema giudiziario… si è innamorata di me! Mi capita spesso questo”.
Parte il ferormone quando arrivo io, che non è l’ormone, è un’altra cosa
“Io non lo so cos’è il ferormone” ha risposto ridendo Mara Venier. “Quindi tu pensi di piacere ancora molto alle donne” ha detto inoltre Mara al suo ospite, prima che l’attenzione si spostasse sulle sue ex donne, da Nina Moric a Belen: su quest’ultima Mara ha detto “Ti sento molto affettuoso nei suoi confronti ultimamente”, “io a Belen voglio molto bene” ha risposto Fabrizio.
Estratto da corriereadriatico.it sabato 30 settembre 2023.
Giacomo Urtis ama Fabrizio Corona e vuole sposarlo. Il chirurgo dei vip […] torna a parlare del presunto matrimonio. «Solo buffonate? Lui mi ha strumentalizzata, ma io sono innamorata e il prossimo anno lo voglio sposare», ha detto a La Zanzara su Radio24. Urtis si è presentato in trasmissione vestito da sposa: «Ho messo il velo da sposa in segno di protesta, per tutte le donne scaricate da Corona», ha detto.
[…] «Quest'estate mi ha chiesto di sposarlo e mi ha dato l'anello, invece mi ha scaricato a Belve. Le sue parole? Ovvie, c'era la fidanzata che lo guardava in studio, ma l'ha detto anche lui che ha dato degli "assaggi". Ho avuto esperienze sessuali con lui. Diceva che sentiva le farfalle nello stomaco quando mi vedeva, in discoteca faceva il geloso e marcava il territorio», ha continuato Giacomo Urtis.
Sulla transizione, invece, ha raccontato: «Mi farò il seno, essendo alto non posso farmi un seno piccolo, penso di farmi almeno una quarta».
Poi, sulle sue finanze ha svelato: «Mio padre gestisce quasi tutte le mie finanze, è come il padre di Britney Spears. Mi dà la paghetta di 200 euro a settimana. Poi, quando devo fare un viaggio, lo dico all'amministrazione che mi fa un bonifico. Ci sono molti italiani nella mia situazione»
Ivan Rota per Dagospia mercoledì 27 settembre 2023.
I dolori del giovane Urtis, o della giovane Giacomina: il trans-dermatologo plastico ci è rimasto molto male dopo avere sentito l’intervista ieri sera a Belve di Francesca Fagnani a Fabrizio Corona. L’ ex re dei paparazzi ha detto di aver chiesto alla sua ragazza di sposarlo e che lei ha risposto picche. Ha cosí smentito il ventilato matrimonio con Urtis che lo aveva confermato anche ai microfoni de La Zanzara.
Corona ha detto: “ …Come va la preparazione del matrimonio con Urtis? Eh vabbè stiamo organizzando . Io e lui siamo amici da anni e ci gioco. Mi sono fatto una risata…Se lui c’ha creduto al matrimonio? Sì e adesso sarà spaventato da quello che dico adesso. Sarà davanti alla tv a vedere tutto. Ma se ho chiesto alla mia fidanzata di sposarmi non c’è altro da dire. Mica ho un ripiego e vado con lui. Tra me e lui c’è un bene immenso. E no, non ho avuto esperienze con lui. Magari se diventerà donna potrà essere. Ora si chiama Jenny e chissà. No, non ho avuto esperienze con uomini. Io sono il più grande profumiere che esiste al mondo”.
Urtis nella notte ha pubblicato una storia Instagram triste e allo stesso tempo commovente: “ Ci sono cascata di nuovo. Avevo creduto alle sue parole quando mi diceva quest’estate che “ero bellissima” e che “ero perfetta così” tanto da parlare di matrimonio.
Lui, non io! Ho combattuto a lungo per trovare la mia serenità’ tanto da arrivare a stravolgere il mio corpo alla ricerca di un’accettazione. In questo caso non è né Giacomo né Jenny a scrivere queste parole, ma è un’anima alla ricerca di una nuova identità che in questo caso è stata strumentalizzata senza nessuna considerazione. Eppure ci avevo creduto”. Se è tutto vero, l’ atteggiamento di Corona é stato sbagliato, ma in molti pensano a un’ abile sceneggiata…
Da perizona.it giovedì 28 settembre 2023.
Fabrizio Corona torna in Rai dopo 13 anni e dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Milano gli ha concesso la liberazione anticipata a 10 anni dal primo arresto. L’ex agente fotografico si accomoda nel salotto di “Belve” e non si sottrae a nessuna delle domande poste dalla padrona di casa Francesca Fagnani a cui in passato non ha risparmiato critiche. Dall’intervista emergono tutte le principali problematiche dell’ex re dei paparazzi di cui lui per altro non ha mai fatto mistero: dal senso di onnipotenza (“Io sono Dio”) all’ossessione per il denaro (“Mi porterò almeno 3 milioni di euro a pezzi da 100 nella bara”).
Oggi Fabrizio Corona è un uomo libero ma fondamentalmente solo. Ha infatti rotto i ponti con la famiglia d’origine con cui i rapporti sono sempre stati altalenanti. Al suo fianco c’è la giovane fidanzata Sara Barbieri, una modella di 23 anni a cui ha fatto la proposta di matrimonio ricevendo come risposta un secco “no”.
Fabrizio Corona parla anche dell’ex moglie Nina Moric che starebbe talmente male da non essere in grado di fare la madre. Il loro unico figlio Carlos, affetto da una malattia genetica, vive con lui. L’ex agente fotografico ha fatto in modo che qualcuno pensi a lui qualora dovesse succedergli qualcosa. Nel finale, una dichiarazione che ha scioccato i telespettatori, ovvero che Carlos attualmente non è la persona più importante della sua vita. Fabrizio Corona è “in guerra” con i demoni che albergano ancora in lui. Al centro della sua vita, pertanto, c’è questa lotta che sembra infinita.
L’intervista comincia con la domanda di rito: “Che belva si sente?”. “Non mi sento nessuna belva perché la belva è una persona crudele e cattiva – replica Fabrizio Corona – Io sono tantissime cose, cinico, spietato, furbo, approfittatore, calcolatore, uno che ha venduto l’anima al diavolo ma non sono né cattivo né crudele. Una belva non è spietata. Essere spietati è diverso da essere crudeli e cattivi. Sono un animale indefinibile”. “Sono innamorato di me – prosegue – Mi vedi?
C’ho 50 anni, ho fatto 10 anni di galera, 15 anni di pena, mi è successo di tutto. Sono sereno e credo che non esista una persona più intelligente di me, più preparata di me, più simpatica di me e più bella di me”. “Diciamo che la modestia non le fa difetto”, commenta la conduttrice. “Sono genio ma anche imbecille – sentenzia – Più che imbecille sono un po’ cogl**ne perché faccio tantissime ca**ate senza rendermene conto perché faccio le cose di impulso senza pensarci. Il genio e la sregolatezza fanno parte dei grandi personaggi. Sono caz**ne nel modo di divertirmi ma nella testa non lo sono. Sono mezzo Dio e mezza me*da. In che percentuali? 50 e 50. Per essere quel Dio che sono devo essere quel 50% di me*da. Con il mestiere che faccio da 30 anni devi essere per forza una me*da, altrimenti non puoi essere quel Dio lì. Faccio soldi muovendomi alle spalle del mondo dello spettacolo”.
“Se mi buttassi dal quarto piano, non morirei. Ci credo veramente! – svela Fabrizio Corona – Mi sento immortale perché mi sono successe talmente tante cose, incidenti, incontri, gente che mi voleva ammazzare che alla fine ne sono uscito senza un graffio. Mai! Se credo in Dio? No, assolutamente. L’unico Dio in cui credo sono io”. “Ho sempre avuto gravissimi problemi con i vicini quando abitavo nella mia casa precedente – confessa – Mi sono comprato un loft a pianterreno e non ho vicini. Davo loro fastidio perché urlavo, schiamazzi, litigi, non c’erano orari.
Venivano due gruppi quotidianamente: la polizia e i ladri. I ladri venivano una media di 10 volte l’anno, cercavano i famosi soldi nei muri. Quelli nei tetti li ha trovati la polizia ma io per anni ho avuto soldi nei muri. Non ce li ho più, ora dichiariamo tutto”. “Oggi sono più amato che odiato – afferma – Chi mi odia è uno sfigato che vorrebbe essere come me e non lo sarà mai. Chi mi ama evidentemente riesce a vedere la mia essenza, alla fine sono una persona buona”.
“Nel momento in cui sono arrivato da Lele Mora, ero già pazzo – confida – Lo sono diventato nel 2016-2017, però ero buono, pulito. Ho messo una maschera e sono diventato quella maschera. Oggi non c’è differenza tra quella maschera e quello che sono realmente. Dell’ipocrisia ho fatto un business ma non sono mai stato un ricattatore. Ho svelato i veri misteri”
“A 14 anni mi buttai in una piscina vuota, da allora sono fuori di testa”
“Non esiste oggettivamente un uomo più bello di me – insiste l’ex agente fotografico – Tendenzialmente sono bugiardo. Don Mazzi ha detto che ho la capacità satanica di manipolare la realtà? Lui ha la capacità satanica di sfruttare il messaggio di Dio per i suoi interessi. Un mio pregio? La simpatia. Sono una delle persone più simpatiche sulla faccia della Terra. Il mio peggior difetto? Con l’età assolutamente malato di precisione e di lavoro. E’ un’ossessione. Su determinate cose sono molto pignolo”.
“A 14 anni mi buttai in una piscina vuota. Volevo fare il bullo e farmi vedere, mi buttai di testa e da lì diventai completamente fuori di testa – racconta – Un altro evento che cambiò la mia vita fu quando mi feci una canna un po’ troppo carica e un altro è una pallonata a causa della quale persi la memoria per tre giorni. Secondo me mi avevano dato una canna tagliata male”. “Se non fossero successe queste cose, lei oggi sarebbe un capo scout”, ironizza Francesca Fagnani. “Se non fossero successe queste cose, io mi sarei suicidato – sentenzia – Io amo la mia vita così com’è, non potrei vederla se non così”.
(…)
“Prendo 100 pillole al giorno, per allenarmi, per dormire, per fare l’amore”
“Il carcere non mi ha insegnato nulla, in carcere diventi soltanto più cattivo e più aggressivo – dichiara Fabrizio Corona – E’ come quando metti un cane in gabbia e poi quando esce diventa più cattivo. Lì mi è successo di tutto: abusi da parte della polizia penitenziaria, litigi con i detenuti, vedi delle cose strane, è come essere in una giungla. Ho passato anche dei momenti molto divertenti, in alcuni casi mi sono anche riposato. Non ho mai pensato al suicidio.
Quando sono uscito, sono andato in comunità di recupero perché facevo uso di cocaina. Senza la droga ho vissuto più follemente di quando mi drogavo. Oggi bevo ancora tanto quando esco, anche se non potrei. Mi piace bere, non è una forma di dipendenza. E’ più forte l’ossessione del fisico che la dipendenza dall’alcol. Sono totalmente dipendente dagli psicofarmaci. Se non dormo, vedo i mostri. E’ come se vivessi un grande film dell’orrore, il mio cervello non si ferma mai. Se ogni sera non prendo 25-30 gocce di Xanax, un Tavor e mezzo e lo mischio con dolciumi, non dormo e sto male. In media prendo 100 pillole al giorno, per allenarmi, per dormire, per stare in piedi, per fare l’amore”.
“Se oggi Nina Moric sta così male è per colpa mia. A Belen ho fatto delle cose brutte ma mi ha perdonato”
La conversazione si sposta sulle donne della sua vita: “Ho avuto modo di vedere Nina Moric qui a ‘Belve’ e mi ha fatto una pena incredibile. Se lei sta così male oggi ed è arrivata a quello che è oggi è colpa mia e del mondo in cui siamo entrati. Lei prima di me. Io ero assetato di fama, potere, successo e denaro. Le feci fare qualsiasi cosa e noi diventammo una cosa unica col mondo dello spettacolo.
Il problema è stato l’amore perché lei era molto innamorata, io mi sono innamorato di Belen e fu una cosa che non auguro a nessuna donna. Fondamentalmente non ho mai amato nessuna di queste donne. A Belen ho fatto delle cose brutte, cose che uno non fa se ama veramente.
Lei mi è rimasta amica e mi ha perdonato perché a differenza di Nina ha saputo vedere oltre le cose brutte e mi conosce nell’anima e nel profondo. La cosa più brutte che le ho fatto? Alle Maldive i miei paparazzi ci hanno fatto le foto completamente nudi mentre facevamo l’amore. Le foto sono uscite perché le avevo vendute io e lei è stata male per cinque giorni chiedendosi ‘come è potuto succedere?’, ‘chi è stato?’. Ma grazie a quelle foto lì Belen è diventata Belen. E’ stato un bene perché è arrivata dove voleva lei”.
Se mi buttassi dal quarto piano, non morirei. Fabrizio Corona nega di avere avuto delle esperienze sessuali. “Se le avessi avute, lo direi perché non ho paura di niente – sentenzia – Ma non le ho avute e non ho avuto esperienze sessuali con Giacomo Urtis. E’ un amico. Magari ora che diventerà donna può essere, ora si chiama Jenny e manca una parte della transizione. Io sono il più grande profumiere che esiste sulla faccia della terra. E’ sempre stato tutto strumentale, sia con gli uomini che con le donne. Se piaccio ancora tanto alle donne?
A te piaccio ancora? Ci conosciamo da tanti anni. Magari ti fidanzeresti con uno più giovane. Siccome sono innamorato e fedele non lo faccio ma potrei mettermi all’opera in diretta. Se spegniamo le luci, eliminiamo il pubblico, mettiamo una musica in sottofondo e sappiamo che non c’è più niente intorno a noi, magari un bacio scatterebbe”.
Fabrizio Corona, la confessione a Belve sul figlio Carlos: "Ha una seria patologia psichiatrica". Nell'intervista rilasciata a Belve Fabrizio Corona ha rivelato che il figlio, avuto da Nina Moric, soffre di una seria patologia psichiatrica. Novella Toloni il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La confessione su Carlos Maria
Le parole di Nina Moric sulla malattia del figlio
Cos'è la psicosi transitoria acuta
C'è grande attesa per l'intervista che Fabrizio Corona ha rilasciato a Francesca Fagnani e che andrà in onda questa sera, martedì 26 settembre, nella prima puntata della nuova stagione di "Belve". L'ex re dei paparazzi torna in Rai da uomo libero grazie alla liberazione anticipata, che gli ha permesso di ridurre di un mese e mezzo il fine pena. Sullo sgabello più scomodo della televisione italiana Corona ha parlato di tutto: dalla fantomatica proposta di matrimonio a Giacomo Urtis agli anni drammatici vissuti in carcere fino al suo privato con la rivelazione choc sulla salute del figlio: "Carlos sta male".
La confessione su Carlos Maria
In rete circola un'anticipazione dell'intervista che Corona ha rilasciato a Belve e nel filmato Fabrizio Corona parla per la prima volta apertamente della malattia del figlio Carlos Maria, avuto vent'uno anni fa dalla compagna Nina Moric. "Si tratta di un malessere genetico", ha chiarito l'ex re dei paparazzi, spiegando: "Non potrà gestire la sua vita da solo ma ho messo le persone giuste nel posto giusto. Quando non ci sarà più sarà sicuro che non è solo". Poi ha parlato del suo sconforto nel dover accertare l'irreversibilità della malattia del figlio: "Ho lottato per anni e anni, in questo momento sono in una fase molto brutta mia: ho un po’ abbandonato la speranza. Devo ritrovare la forza per ritornare. Ma sai che la vita gli ha dato questo e lo devi affrontare, ci devi convivere".
Le parole di Nina Moric sulla malattia del figlio
Dalla Fagnani Corona non ha dato un nome alla malattia di Carlos Maria. A farlo ci pensò Nina Moric a maggio dello scorso anno, facendo un appello su Instagram affinché qualcuno intervenisse. "Carlos soffre di psicosi transitoria acuta deve essere curato! Se non prende i farmaci associati all'analisi sarà la fine per lui", disse accusando l'ex compagno di essere un cattivo padre. La modella croata si disse disperata e annunciò di volere denunciare Corona: "Si merita l'ergastolo, non lo mai detto ma è così". Denuncia per la quale, tra qualche settimana, i due ex si ritroveranno in tribunale l'uno di fronte all'altra.
Cos'è la psicosi transitoria acuta
Quando si parla di psicosi si parla di un disturbo psichico cognitivo per il quale il soggetto perde il contatto con la realtà. Chi soffre di psicosi transitoria acuta ha deliri, allucinazioni o altri sintomi psicotici di durata variabile, ma anche sintomi meno gravi come difficoltà di concentrazione, umore depresso, ansia e sospettosità nei confronti degli altri. Le cause scatenanti possono essere molteplici - da quelle psicologiche alle malattie fisiche fino all'abuso di sostanze - ma alla diagnosi definitiva si arriva solo dietro una valutazione psichiatrica.
Estratto dell'articolo di Francesca Del Boca per fanpage.it venerdì 22 settembre 2023.
Sarà molto presto un uomo libero Fabrizio Corona, l'ex agente fotografico dei vip arrestato nel gennaio 2013 per l'esecuzione delle condanne definitive (tra cui quelle per alcuni foto-ricatti).
Dopo oltre 10 anni, e per la precisione nella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, finirà infatti ufficialmente di scontare la sua pena (anticipata per effetto della cosiddetta "liberazione anticipata" concessa dal Tribunale di Sorveglianza, che prevede uno sconto di 45 giorni ogni 6 mesi).
Corona era stato arrestato nel gennaio del 2013 in Portogallo, dopo una fuga di alcuni giorni, quando era diventata definitiva la condanna per il cosiddetto foto-ricatto ai danni dell'ex calciatore della Juventus David Trezeguet: a questa sentenza, inoltre, si erano sommate al computo della pena totale una serie di altre condanne.
"Da dopodomani Fabrizio avrà saldato definitivamente il suo debito con la giustizia. Sarà un uomo libero anche fisicamente. Nella testa e nel cuore lo è sempre stato", l'annuncio social dell'avvocato Ivano Chiesa, che lo assiste proprio dal 2013. "Sono passati più di dieci anni. Dieci anni di battaglie, di guerre, di fatiche".
"Grazie avvocato per aver lottato insieme a me", commenta lo stesso Fabrizio Corona, condividendo il video. "Solo noi sappiamo quello che abbiamo vissuto".
Il 49enne, che negli anni è passato più volte dal carcere ai domiciliari, ha comunque altri processi ancora in corso a Milano (tra cui uno per danneggiamento di un'ambulanza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, reati commessi quando gli agenti erano andati a prenderlo a casa per portarlo in cella).
Sarà il gup, invece, a decidere se mandare Corona a processo con l'accusa di estorsione per un presunto ricatto a una donna con un video intimo.
Fabrizio Corona da domenica 24 settembre torna libero: «Grazie avvocato, solo noi sappiamo cosa abbiamo vissuto». Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.
L'ex agente fotografico era stato arrestato nel gennaio 2013. Poi è passato più volte dal carcere ai domiciliari.
Fabrizio Corona, l'ex agente fotografico che fu arrestato nel gennaio 2013 per l'esecuzione delle condanne definitive, tra cui quelle per foto-ricatti a vip, dopo oltre 10 anni sabato prossimo finirà di scontare la pena e nella notte tra sabato e domenica tornerà ad essere libero. A Corona, difeso dall'avvocato Ivano Chiesa e che attualmente era da tempo in affidamento terapeutico come regime alternativo alla detenzione, la Procura generale ha comunicato giovedì che «la data di fine pena» è fissata per il «23 settembre 2023», anticipata per effetto della cosiddetta «liberazione anticipata», concessa dal Tribunale di Sorveglianza. «Finisce la pena di Fabrizio. Dopo troppo, decisamente troppo tempo. Sarà un uomo libero, anche fisicamente. Nella testa e nel cuore lo è sempre stato. Come me». Così l'avvocato Ivano Chiesa, legale di Fabrizio Corona, ha commentato il provvedimento. «Grazie Avvo. Solo noi sappiamo quello che abbiamo vissuto», ha invece commentato Corona sui social.
Corona era stato arrestato nel gennaio del 2013 in Portogallo, dopo una fuga di alcuni giorni, quando era diventata definitiva la condanna per il cosiddetto «foto-ricatto» ai danni dell'ex calciatore David Trezeguet. Si erano sommate al computo della pena totale una serie di altre condanne. In questi anni, poi, l'ex agente fotografico è passato più volte dal carcere ai domiciliari per cure, anche per la tossicodipendenza, e viceversa, perché più volte gli sono state contestate violazioni. Dal maggio 2022, infine, è passato dalla detenzione domiciliare all'affidamento terapeutico in una comunità in provincia di Monza e Brianza, dove doveva andare ogni venerdì per quattro ore. A carico di Corona sono ancora aperti alcuni processi a Milano, ma in passato, ad esempio, era anche stato assolto da un'accusa di intestazione fittizia di beni in un'inchiesta della Dda milanese.
Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per “la Repubblica” domenica 24 settembre 2023.
L’annuncio sulla libertà riconquistata dopo oltre dieci anni tra carcere, domiciliari, sorveglianza speciale e affidamento ai servizi sociali, l’ha dato lui stesso una settimana fa su Instagram. […] Fabrizio Corona è già immerso nella sua nuova vita. «Sono malato di lavoro, sono a Cagliari a preparare un evento. Andrò presto a Parigi, la mia città, dove ho fatto il modello, dove portavo le fidanzate per le mie fughe d’amore. Poi andrò a Los Angeles, dove conto di trasferirmi sei mesi l’anno».
Come ci si sente da uomo libero?
«Ormai lo sapevo, i calcoli li avevo fatti, lo sconto sulla pena dovevano farlo perché mi ero comportato bene. Questa volta ho trovato un magistrato serio e rigoroso ma intellettualmente onesto che ha analizzato i fatti. A differenza del precedente, per il quale mi sono dovuto tagliare le vene, con ottanta punti di sutura, che mi rimandò in carcere con un provvedimento che gridava giustizia a Dio, e infatti poi mi hanno scarcerato dopo 15 giorni».
Come ha vissuto l’attesa?
«Negli ultimi cinque mesi avevo un rientro alle due di notte. Ho avuto la possibilità di lavorare, sono stato ad agosto in Sardegna e a Pantelleria. Ho fatto quaranta giorni di vacanza».
[…] «Ho creato progetti televisivi, docufiction, film, e poi iniziavo a realizzarli fuori. Poi mi ributtavano dentro, e riprogettavo. Sia nel 2016 che nel 2019, mi sono arrivate importantissime richieste di case di produzione che mi volevano come conduttore. Avevo già firmato, poi mi arrestavano e finivano i progetti».
[…] Chi le è stato vicino in questi anni?
«In questo momento sono una persona molto sola, per scelta, ma tra le pochissime persone che porto con me c’è il mio avvocato Ivano Chiesa, un fratello maggiore. È difficile comprendere il momento in cui lui è arrivato in carcere e ha preso la mia difesa per cercare di abbattere la pena, con tredici anni e due mesi di condanna e 40 processi da fare».
Si considera un perseguitato?
«Perseguitato dal potere giudiziario moralista, che pensa che tu debba adeguarti a un certo modo di vivere. Poi all’inizio io me la sono cercata, perché ho fatto l’arrogante e lo sbruffone davanti ai giudici, però la magistratura me l’ha fatta pagare come non mai».
Pensa di aver fatto del male a qualcuno?
«Mai a nessuno».
C’è qualcuno che le ha voltato le spalle?
«Tutti i miei migliori amici, cui ho insegnato un mestiere. Uomini finiti. Ma non gioisco, provo solo pena per loro. Fotografi, autori, giornalisti, imprenditori, manager, artisti. Ho dato vita e denaro a tantissimi. Ne parlerò anche martedì a “Belve”, su Rai2, il mio ritorno in tv».
C’è qualche rivincita che vuole prendersi ancora?
«Voglio soltanto il riconoscimento delle mie doti, realizzare progetti televisivi sia italiani che esteri. Voglio provare ad avere anche successo internazionale. Finora ho avuto soltanto popolarità. Ora voglio avere successo e riconoscimento».
“Tentato ricatto con video intimo”: Fabrizio Corona di nuovo a rischio processo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Settembre 2023
La richiesta della procura di Milano dopo la denuncia della presunta vittima. L'ex fotografo dei vip respinge le accuse
Fabrizio Corona a rischio processo ancora una volta. Il pm Antonio Cristillo della procura di Milano infatti ha chiesto il suo rinvio a giudizio a seguito di una denuncia ricevuta oltre un anno fa da una donna per un filmato sexy, assistita dall’avvocato Angelo Morreale. La presunta vittima che ha presentato la denuncia, sposata e con figli, si era rivolta a Corona nel 2021 per servizi editoriali e pubblicitari su un libro da pubblicare ed, invece, avrebbe subito un ricatto per un video intimo che la ritraeva e che Corona aveva realizzato. Accuse queste sempre respinte dal suo difensore. Sottoposto a perquisizione nell’aprile 2022 da parte dei Carabinieri , su questa vicenda c’è anche un procedimento civile in corso. La procura ha stralciato la contestazione di “tentata truffa” e ha chiuso le indagini chiedendo il processo nei confronti di Corona per “tentata estorsione“.
“Voleva pubblicare un libro ed è stato pubblicato” – aveva già dichiarato l’avvocato Ivano Chiesa difensore di Corona, – e poi, siccome non è rimasta contenta delle vendite, se l’è presa con Fabrizio” facendo presente che tra i due c’era stata una relazione alla in seguito, era scaturita anche una causa civile.
Corona nelle scorse settimane, dopo la chiusura dell’inchiesta, si è fatto interrogare per difendersi, ma inutilmente secondo la Procura che ha chiesto il suo rinvio a giudizio. Secondo la denuncia della donna, che aveva già versato soldi all’agenzia di Corona per la sponsorizzazione del libro, lui invece con quel filmato a luci rosse ad un certo punto l’avrebbe ricattata, minacciando la possibilità di diffonderlo. Adesso l’ultima parola se mandare a processo Fabrizio Corona processo o meno sarà del giudice nell’udienza preliminare. Redazione CdG 1947
Fabrizio Corona, la mamma: «Mio figlio ha crisi da pazzo, è malato, per questo è aggressivo». Disposta perizia psichiatrica. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2023
L'ex re dei paparazzi è a processo per i fatti di marzo 2021, quando aveva rotto il vetro di un'ambulanza perché non voleva essere riportato in carcere. Aveva anche tentato di uscire da una finestra dell'ospedale
Il giudice della decima penale di Milano Cristina Dani ha disposto una perizia psichiatrica su Fabrizio Corona con un «quesito standard», affidato alla psichiatra Marina Verga, per valutare la sua capacità di intendere e di volere al momento dei fatti e l'eventuale pericolosità sociale. «Ha avuto una crisi, ho pensato "finisce che muore", si dimenava, ha dato un pugno e ha rotto il vetro, è stato preso con la forza dai poliziotti anche con una mano alla gola», aveva raccontato poco prima in aula la madre, Gabriella Privitera. Fabrizio Corona, imputato a Milano per danneggiamento, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e per un tentativo di evasione. Fatti che risalgono al marzo 2021, quando il giudice di Sorveglianza aveva deciso che l'ex agente fotografico doveva rientrare in carcere (provvedimento poi bocciato da altri giudici e ora Corona è in affidamento terapeutico) e lui aveva protestato ferendosi alle braccia, urlando contro la polizia e spaccando un vetro dell'ambulanza che era arrivata a prenderlo sotto casa e lo aveva portato in ospedale.
«Ho provato una disperazione totale - ha detto la donna davanti al giudice della decima penale - dicevo agli agenti "lasciatelo, è malato, più lo tenete più la sua rabbia sfocia in queste crisi da pazzo", mio figlio ha problemi psichiatrici, lui è sempre aggressivo perché ha questa malattia, io più che amarlo che devo fare?».
Privitera, chiamata a testimoniare dal legale di Corona, Ivano Chiesa, ha spiegato che l'ex re dei paparazzi «ha tentato di farsi del male anche in ospedale». E ancora: «Questa pagina degli ultimi anni della vita di Fabrizio è la più drammatica».
L'accusa di tentata evasione si riferisce, secondo la Procura, al fatto che, quando era ricoverato nel reparto di psichiatria del Niguarda prima di essere trasferito in carcere, avrebbe cercato di uscire da una finestra. «Ero a 30 metri e non ci sono balconi, come evado? Muoio. Magari era un tentato suicidio, no?», aveva detto lo stesso Corona. Sono stati chiamati a deporre anche amici e conoscenti dell'ex agente fotografico, tra cui la sua collaboratrice Francesca Persi. Due agenti sono parti civili nel processo.
Dato che al centro del processo, ha spiegato il giudice, ci sono «gesti di autolesionismo e un successivo ricovero in Psichiatria», è doveroso che il Tribunale «nomini un perito per queste valutazioni psichiatriche con un quesito standard». Il giudice, in sostanza, ha chiarito che lo farebbe in altri casi e che ha deciso di farlo anche in questo, «perché la legge è uguale per tutti». Corona, che era in aula con a fianco il suo legale Ivano Chiesa, ha accolto favorevolmente la decisione del giudice. Già negli atti del Tribunale di Sorveglianza di Milano è stato evidenziato più volte che soffre di una «patologia psichiatrica», oltre al fatto che si è a lungo curato, mentre scontava il cumulo di pene, dalla dipendenza dalla cocaina.
L'incarico alla psichiatra per la perizia sarà conferito nell'udienza dell'11 maggio, quando dovrebbe essere sentito anche un ultimo testimone della difesa. E poi a luglio il processo dovrebbe arrivare alla fase della discussione delle parti. Il giudice ha già precisato che non ritiene di dover approfondire con altri testi l'accusa di tentata evasione. «Non mi interessa, mi sembra sia stato solo un colpo di teatro, come evasione è illogica», ha chiarito. Intanto l'ex agente fotografico, con dichiarazioni spontanee, è tornato a parlare di quella presunta resistenza agli agenti (due sono parti civili), raccontando che aveva avuto quella reazione perché uno di loro gli avrebbe «rubato il telefono». E ha sostenuto ancora: «Hanno fatto un atto illegale, ero cornuto e bastonato, dopo la revoca illegale dei miei domiciliari mi è stato preso il telefono. Io non li querelo - ha aggiunto - noi non perdiamo tempo a fare queste cose, la stessa presidente del Tribunale di Sorveglianza Di Rosa, che è persona rigorosissima, all'epoca mi ha chiesto scusa». Corona ha anche ribadito che verserà un risarcimento per il vetro dell'ambulanza che ha rotto.
Fabrizio Moro.
Fabrizio Moro. Estratto dell'articolo di Chiara Maffioletti per il Corriere della Sera il 28 maggio 2023.
«La verità è che a me fa male la tv», spiega Fabrizio Moro. Sa di apparire spesso ombroso, corrucciato. «È che davanti alle telecamere sono sempre un po’ in imbarazzo.
Ma sono molto diverso da quella immagine lì, e anche solo chi viene ai miei concerti lo sa». Sono stati tanti, negli ultimi mesi. È appena uscito il suo nuovo ep, «La mia Voce vol. 2».
«L’ho scritto nel 2020, durante la pandemia. Avevo tempo per riflettere».
Pare essersi concentrato parecchio sull’amore, stando alle canzoni.
«In quel periodo ho vissuto una solitudine pazzesca: non avevo una compagna, me ne stavo chiuso dentro casa e pensavo».
Ha scritto di relazioni non sane, tossiche.
«Un problema in cui mi sono perso diverse volte, per via di quella ricerca costante di un po’ di adrenalina. Nel nostro immaginario pensiamo di ambire alla pace, alla serenità, però poi, alla fine, mi sono accorto che nelle relazioni andavo sempre alla ricerca di sensazioni forti, quelle che ti danno i rapporti quando iniziano: è come se generassero sostanze che ti fanno sentire vivo e che, al tempo stesso, creano dipendenza».
(...)
Dove è cresciuto?
«Nella periferia di una periferia: Setteville nord, periferia di San Basilio. Mi ci sono trasferito a 14 anni: non c’era niente. Non c’erano strade asfaltate, non c’era un bar... c’erano solo 50 ville con solo il primo piano finito e sopra tutto da fare. In quel contesto, noi ragazzini ci siamo conosciuti e siamo cresciuti, attorno a un muretto del quartiere. Passavamo Natale insieme, le vacanze insieme... si era creata questa piccola comune. E nei miei ricordi di allora c’è sempre il sole».
Nell’ep c’è anche un brano dedicato a quelle persone, che si intitola proprio «Il sole».
«Mi riaggancio ai momenti più belli che abbiamo vissuto assieme, in estate. Molti amici li ho persi. Alcuni morti per la droga, perché allora circolava ancora in maniera importante. Altri sono morti in incidenti stradali. Tra loro, il mio migliore amico: morto in moto, a 23 anni. Quando subisci la prima morte violenta smetti di essere un adolescente e cresci di colpo. Diventi uomo in un minuto, perché realizzi che le cose possono accadere e non dipende tutto da te, anche se da adolescente ti mangeresti il mondo».
(...)
Ed è nato l’amore con quello strumento.
«Me la portavo ovunque, anche in vacanza. Non c’erano i telefoni, quindi per noi amici il sabato sera era chitarra, birra e risate: modificavamo i testi delle canzoni famose per prenderci in giro. Ricordo una mia versione di “Bar Mario” che faceva ridere tutti... Sono stato fortunato: ho amato molte persone che mi hanno amato».
E con la sua famiglia?
«Siamo uniti ma non posso dire di avere lo stesso legame. Ci vogliamo bene, certo. Ma non siamo empaticamente così affiatati. Mio padre fa il contadino: un calabrese che si è trasferito a Roma da piccolo, lavora nei campi da quando aveva 12 anni... non è un sognatore, ha mantenuto sempre i piedi per terra».
E quando gli ha detto che voleva fare il cantante?
«Mi diceva: tu sei pazzo. Non erano contemplati sogni del genere nelle nostre vite. Di base, il rapporto tra noi è rimasto così. Mio padre questo disco non l’ha ancora sentito... magari se lo va a comprare da solo, ma senza dirmi nulla. Di certo non è il padre che mi dà consigli».
(...)
C’è un momento in cui ha realizzato tutta la strada che ha fatto, partendo da quel muretto e dalla chitarra con quattro corde?
«La prima volta che ho suonato in curva, all’Olimpico, nel 2018: è stata un’emozione molto forte. In quello stesso posto avevo assistito ad alcuni dei concerti più belli della mia esistenza: Vasco, Ligabue, Springsteen, gli U2. Trovarmi lì è stata un’emozione che mi ha invaso l’anima».
Ha conosciuto qualcuno di questi suoi miti?
«Aprivo i concerti di Vasco ma non l’ho mai incontrato perché entrava subito dopo di me: ci siamo scritti in qualche occasione, su Instagram. Abbracciarlo è un mio desiderio. Ho diretto un video di Ligabue: è una persona molto seria e la prima volta che l’ho incontrato ero quasi a disagio, non è il tipo che ride e scherza subito e io nemmeno. Sentivo una forte responsabilità. Ci ha aiutato una partita: giocava l’Italia, l’abbiamo vista assieme e ci siamo sciolti».
È anche regista. Farebbe mai l’attore?
«Mi hanno proposto diverse volte di recitare: mi sono arrivate proposte da tre registi molto importanti che ho rifiutato perché non me la sentivo. Ma mai dire mai. Uno di loro, un nome davvero grosso, mi ha chiamato per recitare nel remake di uno dei miei film preferiti. Non ho accettato pensando che un giorno me ne sarei pentito, perché poi so che mi divertirei. Ma credo anche che non si debba esagerare nel fare troppe cose: rischi di diventare un pagliaccio».
Le hanno mai detto che non avrebbe mai sfondato?
«La maggior parte delle persone che ho incontrato nella musica... discografici... per questo ho creato la mia etichetta indipendente. Mi sono sempre ispirato alle persone che hanno fatto qualcosa di importante nella vita: spesso hanno avuto storie difficili. Ma tutte hanno in comune una cosa: sono andate avanti e hanno resistito, anche a chi non credeva in loro».
Fanny Ardant.
Estratto dell’articolo di Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2023.
Finalmente Fanny e i suoi pensieri liberi che rimandano a un’epoca in cui era possibile dire tutto. Al Bif&st di Bari Fanny Ardant, il 29, porta due film, il franco-belga Couleurs de l’incendie di Clovis Cornillac, e l’opera prima di Marescotti Ruspoli, Amusia (nelle sale in aprile per 102 Distribution), dove interpreta la madre di una ragazza affetta da una malattia cerebrale, un disturbo uditivo causato dalla musica, che si innamora di un ragazzo che invece combatte la solitudine con la musica.
[…] Lei ha mai sofferto di depressione, come il suo personaggio nel film?
«No. Sono stata disperata e ho desiderato di morire. Ma depressa, mai. Sono troppo vitale. Provare un grande dolore non significa essere depressi. Lo si diventa quando non hai più gusto per nulla. In guerra non c’era depressione, ma lotta per sopravvivere».
Perdoni, quando ha desiderato di morire?
Ride: «Spesso, ma non le direi mai quando è successo. Tante volte mi sono detta basta, me ne vado. Poi la vita è più forte e ti riprende».
Vittorio Gassman, suo compagno di set, era depresso.
«Lo ricordo quando bussava al mio camerino e diceva: posso pranzare con la più grande rompiscatole? Era un bell’ingresso».
Ma rompiscatole perché?
«Era la mia reputazione, amo discutere, gli argomenti impegnativi. Mastroianni era tutto diverso, attraversava la vita con la sua finta leggerezza. Notti a bere, a fumare, a raccontarsi barzellette. E non sapevi mai dei suoi dolori e dei suoi pensieri oscuri. Lo trovo molto elegante. Era un gran gentiluomo. […] Tanti progetti che non hanno avuto successo mi hanno reso felice lo stesso. È come il fatto che io non mi riveda mai nei film, ricordo solo i momenti dove li ho vissuti. Gli artisti si dimenticano velocemente. Provi a chiedere a un giovane chi è Anna Magnani. La cosa più preziosa è il tempo presente».
Ha visto gli Oscar? La vincitrice Michelle Yeoh e Lady Gaga hanno sorpreso.
«Non ho visto niente. Detesto l’America. Sapevo che era candidata Cate Blanchett e tifavo per lei. La vincitrice, non più giovanissima, ha detto che nessuno deve pensare che il suo momento migliore è passato? Sono d’accordo, nessuno sa cosa è la vita e cosa ci riserva.
E se Lady Gaga è andata senza trucco e in jeans è positivo, va contro i diktat della società, se n’è fregata dei giudizi. […]
Detto questo, io non l’avrei fatto. Amo l’idea del travestimento, mi piacciono le mascherate. Non potrei mai dire prendetemi come sono, sarei un’ipocrita. Forse è l’orgoglio».
Lei disse di non amare il suo corpo.
«Sì, nemmeno da giovane. Le labbra troppo grandi, il viso spigoloso… Io mi sono dovuta costruire, ho lottato contro la bruttezza. E a questo punto della mia vita, più mi nascondo dietro una falsa età e più è difficile invecchiare.
Quando sono infelice sono contenta di essere brutta. Così vai ancora più a fondo, scendi nel buco. Della vita non bisogna mai lamentarsi di invecchiare e di pagare troppe tasse. Se ne paghi troppe vuol dire che guadagni bene. A 15 anni capisci che nella vita c’è un inizio, uno sviluppo e una fine. Voler nascondere il tempo mi sembra da vigliacchi».
Prima diceva di detestare l’America.
«L’America con la sua falsa libertà, il perbenismo, il dominio dei social media per cui non esistono più democrazia e giustizia».
Instagram c’è anche in Europa.
«Tutti i peccati americani prima o poi arrivano sempre da noi. Siamo i loro valletti. Oggi il mondo è dominato dall’alleanza di virtù e profitto. Così si perde la compiutezza della natura umana. Non c’è più il pensiero libero».
Lei è una delle più grandi attrici del mondo. Ma se ripensa ai suoi inizi…
«Mi vengono in mente i provini andati male. Una volta per un film di Roger Vadim chiesi la trama, mi risposero che ero una rompiscatole. Insistendo, mi dissero che ero una ragazza assassinata i cui occhi venivano messi su una tavola. Scoppiai a ridere e mi cacciarono». […]
Fedez e Chiara Ferragni.
Salvatore Riggio per corriere.it - Estratti venerdì 8 dicembre 2023.
Una denuncia al «Centro operativo per la sicurezza cibernetica», cioè alla polizia postale. Fedez ha sporto ufficialmente denuncia per le minacce che un hater ha rivolto al figlio Leone di 5 anni.
Sabato scorso il bambino ha figurato tra gli accompagnatori dei calciatori del Milan prima della partita contro il Frosinone accompagnando Theo Hernandez. La Lega Calcio aveva poi pubblicato un tweet in cui definiva il bimbo, figlio del rapper e di Chiara Ferragni, «accompagnatore speciale». Questo aveva scatenato una serie di polemiche sull'opportunità di definire così il figlio di un vip, legato al Milan da un contratto di sponsorizzazione della sua bibita Boem.
Ma tra le polemiche e le critiche era comparso anche chi aveva mostrato su Instagram una foto di Theo Hernandez con il piccolo Leone vestito in gialloblù e scritto «avete solo un proiettile, a chi sparate?». Così Fedez aveva assicurato di avere intenzione di procedere a una denuncia formale mentre l'account incriminato scompariva dai social.
Mercoledì pomeriggio Federico Leonardo Lucia, vero nome di Fedez, ha pubblicato nelle storie la foto della denuncia: «Una promessa è una promessa». Già nei giorni scorsi, nelle sue storie, aveva stigmatizzato l'accaduto con dei video in cui spiegava: «Sono perfettamente cosciente del fatto che su Twitter ci sia questo giro di tifosi che si divertono a fare battute sul mio tumore al pancreas e ad augurarmi la morte. Continuate pure a farlo, perché onestamente non me ne frega un c...o. Però nel momento in cui toccate i miei figli allora avete un problema, un problema bello grande. Ve ne accorgerete, non vi preoccupate. Poi posterò il nome di questa persona e di tutti quelli che hanno risposto che sparerebbero a mio figlio».
Bambini accompagnatori in campo: come fare per diventarlo, come vengono scelti
Insomma, denuncia fatta come promesso. Ma questa vergogna nei confronti del piccolo Leone non si sta esaurendo.
Anche in queste ore, da un profilo hater di X, c’è un utente che augura a Leone «di beccare un tumore al polmone destro». Fedez ha replicato così: «Saresti così coraggioso da dirmi il tuo nome e cognome? O continuiamo a fare i codardi da dietro uno schermo?». Per poi pubblicare un altro video: «Cari amici del Twitter calcio, lo so che vi state crogiolando perché pensate: “Ho augurato un tumore a un bambino di 5 anni, non possono farmi niente perché non costituisce reato”.
Tranquilli, a me interessa solo sapere chi siete, il vostro nome e cognome». La sua intenzione è quella di stanare gli hater che hanno minacciato il figlio dietro un profilo falso. «Voi sapete chi sono, dove abito, sapete tutto di me, io non mi nascondo dietro un nickname, mi assumo le responsabilità di quello che faccio. Voi no. Ed è giunta l’ora che diventi così anche per voi. Credete che non ci riesca? Ve lo giuro sulle cose che ho più care nella mia vita: vi spacco il c..o, ve lo spacco quel c..o di m…a. Conigli infami che non siete altro. A presto». Infine: «Venite sotto casa mia e venite ad augurare la morte di mio figlio. Mi vedete allo stadio? Augurate un cancro a mio figlio. Volete sparare a mio figlio? Ditemelo in faccia, fate le cose da uomini quali siete. Acceleriamo i tempi, io sono qua».
Ma non solo calcio e non solo le offese al figlio. Perché Fedez ha risposto anche a chi per difendersi gli rimprovera le risate quando al podcast «Muschio Selvaggio» parlò del rapimento di Emanuela Orlandi: «Io ci metto la faccia, ho chiesto scusa e ho cercato di rimediare.
Fedez a «Domenica In»: «Ero in una profonda depressione. Non ho fatto gesti estremi grazie alla mia famiglia». Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera domenica 3 dicembre 2023.
«Devo dire che sto bene, mi sto riprendendo. Un po’ di acciacchini ma sto bene». Fedez è tornato in Rai e lo ha fatto da Mara Venier, a «Domenica In». La conduttrice, gli ha detto, riferendosi all’emorragia che lo ha colpito qualche mese fa: l’utilma volta hai preso un po’ di paura? «Abbastanza paura — ha ammesso lui —. La mattina avrei avuto un volo per Los Angeles: fortunatamente ho avuto dei sintomi la mattina. Se avessi avuto quello che ho avuto in volo, sarebbe stato fatale». Emorragie dovute a due ulcere «e un principio ischemico allo stomaco, per fortuna i medici se ne sono accorti in tempo... La paura è ancora tanta: ho 34 anni e ne ho viste. Il mio fisico ha reagito a delle cose invasive, ma se c’è il corpo da una parte, dall’altra c’è la mente e non bisogna mai sottovalutare la cosa. Si è portati a pensare che è importante che il fisico sia sano e trascuriamo la mente, ma spesso la mente è una prerogativa più importante».
Poi il cantante ha iniziato a parlare di salute mentale, un tema a lui caro: «Io posso parlare per la mia esperienza. Mi sono trovato a dover fare i conti con la possibilità di morire, devi affrontare una cosa grande e farlo in maniera così precoce non è sano per la tua mente. Dopo l’intervento, dopo aver curato la malattia ci sono stati degli strascichi. Avevo questa volontà di fare indigestione di vita, dormivo poco, uscivo sempre, ero bulimico di vita... mi sono ritrovato a prendere così sette tipi di farmaci e ho avuto un attacco ipomaniacale. Ho messo a rischio la stabilità della mia famiglia oltre che la mia stabilità». Quindi, è sceso nel dettaglio: «Io dopo Sanremo ero nel culmine della mia poca lucidità. Quindi succede che dopo qualche settimana la mia bocca smette di funzionare: inizio ad avere dei tic nervosi alla bocca e non riesco più quasi a parlare. Quindi stoppo tutti gli antidepressivi e i farmaci che prendevo, senza scalare. Ho avuto l’effetto da rebound. Non riuscivo a distinguere i sogni dalla realtà, sudori freddi, disorientamento. Ma la fase più difficile è arrivata dopo quando non avevo più farmaci e sono caduto in una depressione profonda».
Ne è uscito «facendomi seguire da professionisti e trovo assurdo sia ancora un privilegio, deve essere un diritto per tutti e non un privilegio per pochi. Così come si cura il corpo va curata la mente». Quindi, la confessione: «Se io oggi sono ancora qua è semplicemente per la mia famiglia se no il dolore è talmente forte che pensi anche a gesti estremi per farlo finire. Il pensiero di recare un danno così grande alle persone che ami di più è una cosa che ti frena». Dice di non aver ancora imparato a farsi passare in fretta le arrabbiature: «Ho un carattere fumantino e anche la malattia non mi ha ancora insegnato a farmela passare in fretta». Quindi Venier ha confessato di essere stata a sua volta ricoverata per depressione, invitandolo, per quanto possibile, ad osservare il mondo con leggerezza.
Poi è passato a parlare di sua moglie, Chiara Ferragni. «Il primo messaggio me lo ha mandato lei ma poi io sono andato a gamba tesa. È incredibile come siamo uno l’antitesi dell’altro, lei ha un approccio alla vita completamente diverso dal mio ma ci siamo trovati su quelle due o tre cose veramente importanti, una scala di valori, cose intime che a me hanno fatto dire che, senza ombra di dubbio, fosse la persona con cui volevo stare per tutta la vita». Quindi, ha rievocato la proposta di matrimonio: «La sera prima avevamo litigato moltissimo, ma proprio del tipo che anche i miei amici avevano litigato con i suoi, un Armageddon. Quindi avevo anche un po’ il dubbio sulla sua risposta, ma prova a dire di no davanti a 12mila persone».
Quello che non sopporta dei commenti social è una cosa: «Quando faccio qualcosa di benefico non accetto mi si faccia il processo alle intenzioni: ha fatto questa cosa per ottenere fama. Come fai a comprovare che non sia mosso da un fine sano?». Il suo sogno, ora è «aprire un centro di aggregazione che possa accogliere ragazzi e ragazze con problemi di salute mentale che possano trovare aiuto gratuitamente. Inoltre sto valutando di produrre un documentario su Franco Basaglia, lui che ha fatto moltissimo per togliere lo stigma su chi soffre di salute mentale».
Il Bestiario, la Chiarigna. La Chiarigna è un animale leggendario disposto a tutto pur di arricchirsi. Giovanni Zola il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.
La Chiarigna è un animale leggendario disposto a tutto pur di arricchirsi.
La Chiarigna è un essere mitologico che, rischiando di finire in penombra dopo le gesta sanremesi, ha deciso di tornare sulle prime pagine dei giornali con un’operazione culturale di alto profilo, capace di oscurare terrificanti guerre che hanno visto neonati con teste mozzate e migliaia di bambini seppelliti dai bombardamenti, facendosi fotografare a gambe aperte con la benemerita pixellata.
La Chiarigna ha così raggiunto un’altra volta il suo unico intento, quello di monetizzare. Alla Chiarigna infatti interessa una sola cosa: fare soldi. Tutto il resto è funzionale: la famiglia, il marito, la malattia, i figli, il femminismo, l’attico, la beneficenza, donare il sangue, schierarsi dalla parte della comunità Lgbtq, etc. etc.
Gli esperti però sono pronti a dimostrare che sotto il pixel non c’è di più. Rischiando di deludere i fan, si può facilmente provare che sotto il pixel ci sono le mutande, perché tra un pixel e un non pixel si passa in un attimo dal successo mediatico alla rovina. Il modus operandi è sempre lo stesso: la Chiarigna mostra i seni, ma solo disegnati sul vestito, l’utero, ma solo se appeso al collo e le mutande, ma solo sfuocate. La Chiarigna è la grande testimonial della “rivoluzione” femminista postmoderna che piace tanto alla gente che piace. D’altra parte gli estremismi non pagano. I soldi si fanno con il vedo non vedo, con il predico ma non credo, con la libertà del pensiero unico.
Tant’è che la grande abilità della Chiarigna è ammantare la cupidigia di “valori”. E il valore dei valori, per la Chiarigna milionaria, è che la donna sia libera in quanto indipendente dal giogo del patriarcato. Questo va di moda, questo lei dice, con questo lei guadagna. Alla Chiarigna poco importa della realtà del 99% delle donne che vive le circostanze della vita a salario minimo con un marito disoccupato.
La Chiarigna dimentica di essere un punto di riferimento per milioni di ragazzine. Ebbene sì, la decadenza culturale permette che una Chiarigna insegni alle donne del futuro ad essere libere. Se non comprende oggi il fardello di tale responsabilità, le sarà più chiaro quando la figlia quattordicenne imiterà a social unificati le gesta della madre. Lo permetterà?
Infine la Chiarigna fa leva sui frustrati che guardano dalla serratura la vita degli altri per poter esistere e che disperano di possedere alcun potere per cambiare il mondo. Se i giovani non soccomberanno all’analfabetismo culturale indotto dalla mancanza di educazione di cui sono vittime delle famiglie, della scuola e del Festival di Sanremo, prima di spegnere totalmente il cervello, si spera da parte loro, un ultimo moto di dignità nel pigiare quel dannato “non mi piace più”.
Imputazione coatta per Fedez. Cosa rischia adesso. Nuovo capitolo dello scontro tra il rapper e l'associazione dei consumatori: il caso riguarda una raccolta fondi di solidarietà per la pandemia da Covid-19. Massimo Balsamo il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Nuovo capitolo dello scontro senza esclusione di colpi tra Fedez e il Codacons. L'associazione dei consumatori ha reso noto che il Gip del Tribunale di Roma, Annalisa Marzano, accogliendo le richieste avanzate dall'associazione, ha disposto l'imputazione coatta del rapper per il reato di calunnia. Il caso risale al 2020, in piena pandemia da Covid-19. L'organizzazione presieduta da Carlo Rienzi puntò il dito contro la raccolta fondi di solidarietà lanciata dai Ferragnez, denuncia che portò alla sanzione dell'Antitrust verso la piattaforma Gofundme per pratiche commerciali scorrette diffuse nei contenuti sui social network. Il caso riguarda la contro-accusa di Fedez nei confronti del Codacons circa la pubblicazione sul proprio sito di un banner ingannevole relativo ad una raccolta fondi sul coronavirus.
“Volgare”, "Non fu truffa". Cosa è successo tra il Codacons e Fedez
L'addebito del giudice di X Factor nei confronti del Codacons è stato però respinto dal tribunale, ritenendo corrette le informaioni rese dall'associazione dei consumatori sul web."Il Giudice rileva, dai banner presentati agli atti e dalla lettura degli stessi, che non vi sia alcuna pubblicità ingannevole, rilevando che nei banner si faceva esplicito riferimento al supporto del Codacons per la battaglia dei cittadini sul Coronavirus, rilevando, appunto, che tale è l'oggetto e la destinazione dell'associazione […] Il Giudice ritiene che emergano gli elementi strutturali del delitto di calunnia in capo al Lucia (Fedez, ndr), ritenendo sorretto anche l'elemento soggettivo anche alla luce dei tempi con i quali il Lucia si determinava a sporgere querela nei confronti del Codacons", si legge nel provvedimento.
Il giudice ha dunque ordinato al pubblico ministero di formulare l'imputazione coatta. Il procuratore Stefano D'Arma ha formulato l'accusa, ora attesa al vaglio del gip Marisa Mosetti all'udienza in programma il prossimo 12 febbraio 2024: "Accusava falsamente il Rienzi di aver pubblicato un messaggio ingannatorio sul sito internet del Codacons con il quale si faceva credere che la raccolta fondi promossa sulla pagina internet codacons.it nel mese di marzo del 2020 fosse destinata alla battaglia contro il Coronavirus nell'ambito della situazione pandemica all'epoca in essere, così inducendo un numero indeterminato di utenti ad aderire alla suddetta campagna, al fine di procurarsi donazioni che invece venivano impiegate a vantaggio esclusivo del Codacons; nella stessa denuncia-querela, il Lucia accusa falsamente il Rienzi di aver utilizzato espressioni lesive della propria reputazione, nell'ambito di un comunicato stampa del 24.3.2020 e di diversi video pubblicati su Youtube, in cui Rienzi rivendicava la correttezza del proprio operato".
In base a quanto previsto dall'ordinamento, in caso di condanna Fedez rischia fino a 6 anni di reclusione. Nel commentare la decisione del gip romano, il Codacons ha chiesto "scuse formali da parte di Fedez, della stampa e della politica": "Nei giorni caldi della battaglia tra Fedez e il Codacons schiere di giornalisti e politici affamati di like si sono schierati dalla parte del rapper senza nemmeno prendersi la briga di andare sul sito del Codacons e leggere cosa c'era scritto sul nostro banner.Il tempo è galantuomo e il tribunale romano ci ha dato ragione, riconoscendo la correttezza del nostro operato e contestando quello di Fedez". L'associazione ha evidenziato di sperare nell'assoluzione del rapper, puntando il dito contro il mondo della stampa e della politica che troppo spesso "cavalcano occhi chiusi le assurdità degli influencer al solo scopo di ottenere consensi e visibilità".
Fedez: «Ho perso metà del mio sangue, sono stato moribondo. Devo curare la salute mentale, Chiara è al mio fianco». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera sabato 7 ottobre 2023.
Intervista esclusiva al rapper uscito dall’ospedale: «Tra le mie terapie anti depressive anche le scosse al cervello. Da Francesca Fagnani andrei anche gratis, ma la Rai non mi ha voluto. E ho trovato spiacevole il comunicato, anche perché io ero ricoverato. Vialli? Mi è stato vicino, con lui ho pianto al telefono»
Fedez, come sta?
«Bene, rispetto a prima. Sono convalescente, ho perso molto sangue».
Quanto?
«La metà del sangue che avevo in corpo. La cosa più assurda è che quel mattino avevo un volo transoceanico. Se non mi fossi accorto di quanto stava accadendo, sarei stato male sull’oceano, su un aereo diretto a Los Angeles, e non so come sarebbe finita».
Come se n’è accorto?
«Ero a casa, avevo messo a letto i bambini. Avevo già avuto cali di pressione, ne è arrivato uno più importante, e sono svenuto. Poi ho chiamato l’ambulanza. Ero bianchissimo, non che ora sia esattamente come Carlo Conti, ma insomma ero ancora più bianco di adesso. Ho passato la notte al pronto soccorso, e la mattina mi sono reso conto di avere la melena».
Cosa vuol dire?
«In francese? Letteralmente “cagavo sangue”. E avevo l’emocromo a 7, anziché a 14. Così sono intervenuti d’urgenza, per fermare l’emorragia, cauterizzare, insomma fare tutto il necessario per fermare il sanguinamento delle ulcere. Ho dovuto anche fare due trasfusioni: oltre a ringraziare i medici, in particolare il dottor Marco Antonio Zappa, le infermiere e gli infermieri del Fatebenefratelli che mi hanno curato, voglio ringraziare tutte le persone donatrici di sangue. Appena tornerò in forze voglio fare qualcosa per l’Avis, per invitare altri a donare sangue; personalmente senza quelle trasfusioni non sarei qui a parlare con lei».
Poi però è stato di nuovo male.
«Ho avuto un altro problema, un’emorragia ischemica sempre allo stomaco. Così hanno dovuto riaddormentarmi, e intervenire nuovamente».
C’è qualche rapporto con l’intervento del marzo 2022?
«Come ho raccontato pubblicamente, a causa di un tumore ho subito la resezione della testa del pancreas, del duodeno, la rimozione della cistifellea, e di un pezzo di intestino: è possibile che là dove ci sono le cuciture effettuate durante quell’intervento si siano formate delle ulcere. Ma in verità ho avuto altri problemi di salute quest’estate, tanto da aver perso molti chili negli ultimi mesi».
Quali problemi?
«Sostanzialmente molte malattie o disturbi di origine psicosomatica. Prima il fuoco di Sant’Antonio, poi forti gastriti da stress. Insomma, un generale stato di salute molto debilitato dallo stress».
Stress? Lei è un artista di grande successo. I suoi 15 milioni di follower su Instagram la considerano fortunato, se non privilegiato.
«Certo, sono consapevole di essermi conquistato una condizione di privilegio, tanto più se considero che provengo da una famiglia di classe subalterna e operaia».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Papà l’artigiano, poi perse il lavoro e andò a fare il magazziniere. Mamma l’impiegata, anche lei perse il lavoro, con i soldi della liquidazione aprì un bar di cui aveva la licenza ma non le mura. Lo vendette. Non la pagarono, e restò persino fregata perché le tolsero la licenza perché gli acquirenti non avevano pagato i propri debiti. Io ho frequentato il liceo artistico, e mi formò molto uno stage alla Fondazione Pomodoro, gratis s’intende; quando arrivava Arnaldo Pomodoro dovevo dire, giustamente per carità, “salve maestro”; di quella esperienza ricordo come un trauma che mi rubarono l’unico mio mezzo di spostamento, il motorino».
Dicevamo dello stress.
«Lo stress è una condizione non legata alla propria classe sociale o al denaro. Il fatto di essere ricchi non ci rende immuni da paure o stress emotivi. Nel mio caso aver avuto una diagnosi di tumore al pancreas a 33 anni è la ragione preponderante. Che poi, a pensarci bene, le malattie sono come la livella di Totò: non guardano in faccia a nessuno, e portano con sé ricadute anche sulla salute mentale che possono essere davvero importanti».
Salute mentale?
«Sì, dopo la malattia ho avuto seri problemi di salute mentale. Li ho dovuti affrontare, li sto affrontando tuttora. Non ho pudore o vergogna a parlarne. Ho attraversato una depressione acuta e mi ha aiutato tantissimo ascoltare le esperienze altrui, cioè come altri stavano o avevano affrontato una diagnosi nefasta. Sa perché avevo accettato l’invito di Francesca Fagnani a Belve?».
Perché?
«Perché volevo parlare, specie ai giovani e a chi si sente incompreso, di salute mentale. La salute mentale è un tema che riguarda molte persone giovani, ragazzi e ragazze. Forse ascoltare la mia esperienza, proprio quella di una persona che si pensa sia felice perché possiede tutto, li avrebbe potuti aiutare a sentirsi meno soli o a dirsi: be’, allora può succedere davvero a chiunque. A me cercare un riferimento è servito moltissimo: quando ho scoperto la malattia, ho cercato chi stesse vivendo la mia stessa situazione o comunque simile alla mia».
Chi?
«Quando mi hanno diagnosticato il tumore al pancreas, non conoscevo nessuno che avesse il tumore al pancreas. Ho fatto come si fa in questi casi: sono andato su Google. E quello che ho letto è stata una sentenza di morte».
Con chi ha parlato allora?
«Tramite conoscenze comuni, sono entrato in contatto con Gianluca Vialli. Mi emoziono mentre lo ricordo. Le poche interviste che aveva fatto erano riuscite a suscitare speranze. Rileggerle mi aveva aiutato a non farmi sentire la solitudine estrema della malattia, l’ingiustizia estrema della malattia. La malattia non è una vergogna. Per questo ho avvertito l’esigenza di raccontarla, a modo mio».
Come fu la conversazione con Vialli?
«Entrambi dovevamo affrontare un tumore al pancreas, e io dovevo superare lo stesso intervento chirurgico che lui aveva superato. Fu la prima volta che piansi al telefono con una persona che non avevo mai visto. Fu una cosa molto forte. Gianluca Vialli era una persona fantastica. Mi è stato molto vicino sia prima sia dopo l’operazione».
Come ha appreso della sua morte?
«Con profondo dolore. E mi fermo qui».
Stava parlando di Belve.
«Sia per me, sia per Francesca Fagnani, sia per il produttore Tombolini era una straordinaria occasione per parlare di temi importantissimi. I dati ci dicono che la salute mentale sarà sempre di più il tema del futuro, e delle future generazioni. E secondo me c’è bisogno di parlarne. Poi ho scoperto questa... lei come la definirebbe?».
Censura?
«L’ha detto lei».
Diciamo che la Rai le ha ritirato l’invito.
«Diciamo che non ero bene accetto. Non mi volevano. E hanno fatto un comunicato che ho trovato sinceramente spiacevole. Sa perché? Perché ero in ospedale, letteralmente moribondo, e non avevo alcuna possibilità di replicare. Ho trovato la cosa anche particolarmente poco attenta sul piano umano. E poi dalla Rai avevo imparato una cosa: quando vai su un palco a parlare di politici, alla Rai non piace perché non c’è il contraddittorio. Ma anche nel mio caso non c’è stato modo di avere un contraddittorio. Dunque prendo atto che è una regola unilaterale, che applicano solo quando pare a loro».
Non era neanche una questione di soldi?
«Prima avevano lasciato trapelare questo, poi hanno rettificato. In ogni caso, sarei stato e sono disponibilissimo ad andare del tutto gratuitamente. Avevo l’intenzione di fare una bella cosa, e spero in futuro di riuscirci, in qualche modo, con Francesca Fagnani, una giornalista con la schiena dritta che ringrazio per aver sostenuto la posizione del suo invito. Non ho carichi pendenti, non ho mai evaso le tasse, non ho busti di Mussolini in casa, ma comunque per loro non rientro nel codice etico...».
Che cosa pensa abbia infastidito di più dello scorso Sanremo? La foto stracciata del sottosegretario Bignami? O il bacio con Rosa Chemical?
«Bella domanda, ma la mia risposta dovrebbe chiederla alla Rai. Per la foto di Bignami non dovrei essere io a vergognarmi: non era un fotomontaggio, si è vestito lui da gerarca nazista. Il bacio sicuramente non fu un atto compiuto con premeditazione. Ma ricordo su quel palco palpate di testicoli e anche palpate nei confronti di donne... evidentemente i tempi cambiano».
Posso chiederle a che punto è la sua malattia? Sta facendo la chemio?
«No. L’esame istologico ha rilevato che non ci sono più cellule cancerogene, ma ovviamente non esiste medicina sicura al cento per cento. Per esempio in termini di recidive. Forse anche per questo ho avuto una depressione acuta, sfociata in attacco ipomaniacale».
Che cosa significa?
«È difficile da spiegare. Significa che arrivi completamente a perdere la lucidità. Dunque per curarmi ho iniziato ad assumere degli psicofarmaci, che però talvolta non sono privi di effetti collaterali. Allora per curare gli effetti collaterali di un farmaco ti prescrivono un altro farmaco, e così via. Il risultato è stato che balbettavo, tremavo, non riuscivo più a pensare lucidamente. Sono arrivato a un punto in cui ho dovuto smettere tutto di botto, avendo una cosa che si chiama effetto rebound».
Com’è?
«È tosta. Quando si deve affrontare uno stato depressivo, e la tua mente si è abituata a un sostegno farmacologico, se non ha più quel farmaco lo stato depressivo si acuisce. A oggi sono seguito da uno psichiatra e da uno psicoterapeuta. Ho provato tantissime cose per star meglio, anche le stimolazioni transcraniche».
Come funzionano?
«Sono scosse elettromagnetiche al cervello».
Sono dolorose?
«Piacevoli non sono».
E fanno effetto?
«Ci sono studi scientifici più autorevoli di me... Vorrei chiudere un ciclo annuale prima di pronunciarmi».
Chiara le è stata vicina?
«Chiara è qui con me in questo momento» (si sente la voce di Chiara Ferragni che saluta i lettori del Corriere ).
Tutto bene tra voi?
«Amo tantissimo mia moglie. Era a Parigi, a fare una cosa molto importante con una star internazionale, non posso dirle chi è. E Chiara ha mollato tutto ed è tornata a casa, per me. Si trattava di una grossissima opportunità per la sua carriera».
Ai figli Leone e Vittoria ha detto la verità?
«Non so quale sia la strada giusta da percorrere. Abbiamo scelto di non nascondere che papà è in ospedale, che papà ha dei problemi; del resto è difficile nascondere una cicatrice da venti centimetri nella pancia. Cerchiamo di edulcorare il racconto. Ma non avrebbe senso tenerli all’oscuro».
Lei e la sua famiglia vivete la vostra vita in pubblico. Non è pesante?
«In questi giorni mi sono reso conto di come sia stata giusta la scelta di raccontarmi, di non delegare a nessuno il racconto di me e della mia vita. Le faccio un esempio: in questi dieci giorni in ospedale non ho mai toccato il telefono o pubblicato qualcosa sui social; eppure c’erano giornalisti fuori dall’ospedale, e ogni giorno si parlava di me sui giornali, peraltro con notizie non sempre verificate».
Quali notizie?
«Si interrogavano sul mio lavoro, su chi mi avrebbe sostituito nelle trasmissioni televisive. Si sono inoltrati nell’aspetto tecnico delle mie operazioni, senza saperne niente. Ma è una deriva che chiamiamo click bait: non serve una notizia, serve un clic per fare aumentare le interazioni. Non serve un articolo, ma un titolo acchiappa click. È poi tanto diverso dalle dinamiche sui social? Ci rifletta».
Questo a volte è vero. Alcuni titoli annunciano tragedie e catastrofi, poi il contenuto le ridimensiona, ma intanto è scattato il click.
«Ho sperimentato che, se sparisco dai social, c’era qualcun altro a intromettersi nella mia vita, a cercare di raccontarla, e persino a cercare di lucrarci. Lei al posto mio cosa farebbe? Preferirebbe che a raccontare la sua vita fosse lei o fossero gli altri?».
Io non avrei mai iniziato.
«Ma ormai io l’ho fatto, e anche molti anni fa, quando in fondo non era del tutto prevedibile questo potere dei social. Comunque, questo è il motivo per cui ho deciso di raccontare la mia malattia, la mia vita, la mia famiglia: per evitare che a raccontare la mia e le nostre vite fossero gli altri al posto mio».
Guardi, Fedez, che la Rete funziona così: la gente cerca notizie, i siti fanno il loro mestiere.
«Anche i giornali danno notizie sulla vita privata dei personaggi pubblici, andando a scovare cose nella maniera più morbosa possibile. Non solo i siti di gossip, tutte le maggiori testate on line hanno queste sezioni un po’ morbose, che magari sono quelle che vanno di più. E questa morbosità è socialmente accettata quando è fatta da una testata giornalistica. A questo punto, alla morbosità degli altri preferisco la mia».
Quando torna a XFactor?
«I live iniziano il 26 ottobre, facendo gli scongiuri potrei farcela. Sono giorni cruciali, l’emocromo è risalito a 9, mi sento meglio».
Cos’ha pensato mentre era in ospedale?
«La degenza ti permette di fare un riordino delle priorità, la malattia ti fa capire chi sono le persone veramente vicine a te, veramente importanti per te. È molto bello scoprire queste persone, e meno bello scoprire l’assenza di altre».
A chi si riferisce?
«A nessuno in particolare. Si ricordi di una cosa: dietro i personaggi esistono le persone, con le proprie fragilità. Se oggi vivo una situazione di privilegio economico, persino di un certo potere, questo non significa non soffrire mentre sei in ospedale e ci sono persone che ti augurano la morte. Anzi, è molto doloroso».
Insisto: la Rete funziona così. Molti ti amano, qualcuno ti odia.
«Può capitare di scrivere fesserie. Ma gioire per la morte altrui, com’è accaduto per Silvio Berlusconi e per Michela Murgia, è orribile. Mi ha rattristato scoprirmi dentro il gioco del fantamorto...».
Cos’è?
«Una specie di fantacalcio, ma con i morti. Quelli che avevano scommesso su di me al fantamorto speravano di vincere. Questo mi ha fatto male».
Cos’altro le è rimasto di questi giorni?
«Alla fine in certe situazioni non conta l’estrazione sociale, non contano i privilegi: siamo tutti delle persone. E siccome devo trovare un senso a tutto questo, affinché non sia solo dolore, spero che le mie esperienze possano servire a costruire qualcosa di bello per gli altri, possano essere d’aiuto a chi sta affrontando o affronterà cose analoghe a quello che ho vissuto e sto vivendo».
Il volo cancellato, il 118 e l'endoscopia: nuove rivelazioni sul malore di Fedez. Fedez rimane ricoverato in ospedale in attesa di nuovi accertamenti, ma intanto emergono nuovi dettagli sul malore e la corsa in pronto soccorso. Novella Toloni l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Il volo annullato, la corsa in ospedale
L'endoscopia e la scoperta dell'emorragia
Gli accertamenti e le cure
Fedez rimane ricoverato in ospedale in attesa di nuovi accertamenti. Il rapper si sta sottoponendo alle cure per guarire dall'ulcera gastrica, che gli ha procurato un'emorragia interna, costringendolo a un ricovero d'urgenza all'ospedale Fatebenefratelli di Milano. Come spiegato dal dottor Massimo Falconi, che un anno e mezzo fa operò Fedez per rimuovere il tumore, l'ulcerazione che ha colpito il cantante è una conseguenza relativamente rara dell'intervento a cui il cantante si è sottoposto nel marzo 2022. "Si tratta di un’ulcerazione (una lesione della mucosa intestinale) che si forma in prossimità dell’anastomosi, ovvero dove noi chirurghi abbiamo 'cucito', suturato", ha riferito Falconi al Corriere della Sera. Ma come si è accorto Federico Lucia di ciò che gli stava succedendo?
Il volo annullato, la corsa in ospedale
Secondo quanto riferito da La Stampa, Fedez stava per imbarcarsi su un volo destinazione Los Angeles. Mentre Chiara Ferragni era a Parigi per la Fashion Week, il rapper aveva pianificato una trasferta negli States, ma su quel volo il cantante non è mai salito. Alla vigilia della partenza Federico Lucia ha accusato un malore, forti dolori addominali che lo hanno costretto a chiamare il 118. Quando l'ambulanza è arrivata a City Life, i medici hanno subito capito che era necessario un ricovero d'urgenza e una volta arrivati in pronto soccorso, i sanitari hanno sottoposto Fedez a un esame endoscopico.
"Mi hanno salvato la vita". Fedez rompe il silenzio dall'ospedale
L'endoscopia e la scoperta dell'emorragia
Grazie all'endoscopia, un esame diagnostico che permette di visionare l'apparato gastro-intestinale attraverso una sonda con telecamera, lo staff medico ha individuato due ulcere e una grave emorragia interna. "Una complicanza che è stata risolta con terapie farmacologiche e con un trattamento endoscopico per fermare il sanguinamento", ha spiegato dottor Massimo Falconi. A causa dell'abbondante perdita di sangue, però, Fedez è stato sottoposto anche a due trasfusioni che gli "hanno salvato la vita", ha fatto sapere il rapper su Instagram, parlando dall'ospedale.
Gli accertamenti e le cure
In attesa dei prossimi accertamenti, Fedez rimane ricoverato nel reparto di Chirurgia e prosegue le cure, che i medici gli hanno prescritto. "In questi casi protettori gastrici che riducono le secrezioni acide normalmente rilasciate dallo stomaco. In genere il ricovero dura pochi giorni, nell’arco di un mese l’ulcera guarisce e il problema è risolto", ha concluso Falconi parlando con il Corriere. Una volta rientrato a casa, però, il rapper dovrà attenersi a rigide prescrizioni sia farmacologiche che alimentari per scongiurare che il problema si ripresenti. Al momento, accanto a lui, rimane la moglie Chiara Ferragni. Novella Toloni
Dal tumore alla depressione fino al virus: gli ultimi difficili anni di Fedez. Da marzo 2022, quando gli è stato diagnosticato un tumore al pancreas, Fedez ha avuto una lunga serie di problemi di salute, l'ultimo dei quali lo ha visto nuovamente finire in ospedale. Novella Toloni il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
La scoperta del tumore
I nuovi controlli medici
La depressione e il post Sanremo
L'apatia e il fuoco di Sant’Antonio
Le ultime notizie danno Fedez ricoverato in ospedale per ulcera gastrica. Secondo indiscrezioni non ancora verificate, il rapper sarebbe stato operato a seguito di alcune emorragie dovute presumibilmente alle ulcere. Se le voci venissero confermate si tratterebbe dell'ennesimo problema di salute, che il rapper si vede costretto ad affrontare da un anno e mezzo a questa parte. Dalla scoperta del tumore al pancreas, diagnosticato a marzo dello scorso anno, infatti, Federico Lucia ha dovuto affrontare un lungo percorso di riabilitazione costellato da inconvenienti, depressione e altri malanni.
La scoperta del tumore
Il 17 marzo 2022 Fedez annuncia di avere un tumore al pancreas. Una rara neoplasia neuroendocrina diagnosticata in tempo, per la quale il rapper si sottopone a un delicato intervento chirurgico. Operato d'urgenza all'ospedale San Raffaele di Milano, il cantante rimane ricoverato fino al 31 marzo e poi viene dimesso per un lento e progressivo ritorno alla normalità. La fase post-operatoria è la più delicata per Fedez, che arriva a perdere oltre dieci chili a causa di un regime alimentare più rigido dovuto alla rimozione di alcuni organi.
"Sopravvivenza superiore al 60%". Parla il medico che ha operato Fedez
I nuovi controlli medici
Ristabilitosi in tempi record, Fedez torna sul palco a giugno 2022 con il maxi concerto benefico LoveMi, ma a settembre si sottopone a nuovi accertamenti medici. Dopo una risonanza magnetica di routine per valutare il buon esito dell'intervento di marzo, Federico Lucia rivela: "L'esame istologico evidenza che il tumore non ha preso i linfonodi e del cancro non c'è più traccia". La guarigione fisica non va di pari passo, però, con quella psicologica. Il tumore ha destabilizzato e traumatizzato Fedez che, tra la paura della morte e la voglia di reagire, va in depressione.
La depressione e il post Sanremo
A febbraio, quando Fedez e Chiara Ferragni sono protagonisti al festival di Sanremo, Fedez è già sotto psicofarmaci ma la terapia non lo fa stare meglio e i medici optano per un cambiamento di cura, che gli provoca una serie di effetti collaterali. Sui social il rapper appare in forte difficoltà, si esprime male e sembra essere su di giri così, alla fine, arriva la confessione: "Ho subito l'effetto rebound, oltre a darmi un annebbiamento a livello cognitivo mi ha provocato spasmi alle gambe che per giorni mi hanno impedito di camminare, vertigini, nausea, perdita di peso". L'ennesima battuta d'arresto dopo un anno difficile.
"Rischio Fedez" sugli psicofarmaci: scatta l'allarme
L'apatia e il fuoco di Sant’Antonio
Con la nuova cura tutti si aspettano che Fedez torni quello di un tempo, ma le aspettative vengono tradite. Il rapper torna in tv come giudice di "X Factor" a giugno per registrare le nuove puntate, ma l'apatia e quella sensazione di essere poco presente si vede chiaramente in video. "Sta male, si capisce", dicono in molti sul web e - a seguito della polemica esplosa attorno a Morgan per i fatti di Selinunte - Fedez spiega che ad agosto non si è sentito bene a causa del fuoco di Sant'Antonio. Da allora il marito di Chiara Ferragni si è mostrato su Instagram nella sua quotidianità, ma il suo volto ha sempre lasciato trasparire una certa sofferenza, che oggi potrebbe spiegarsi nel ricovero d'urgenza in ospedale. Quattro anni fa, Fedez aveva anche rivelato di avere ricevuto una diagnosi di demielinizzazione, cioè l'assottigliamento o la perdita completa della guaina mielinica che interessa il sistema nervoso e può avere tra le conseguenze più gravi l’insorgere della sclerosi multipla.
Chiara Ferragni in The Ferragnez: «Mi sono sentita tradita da Fedez a Sanremo». Lui: «Non ero lucido». Renato Franco su Il Corriere della Sera giovedì 14 settembre 2023.
«The Ferragnez: Sanremo Special» svela il dietro le quinte e la lite tra i due al Festival di Sanremo. Lui: «È stato un gran casino, ero fuori di me». Lei: «Ti avevo chiesto di essere lì come spettatore, non come performer. Mi sono sentita tradita»
Una seduta di coppia dallo psicologo, ma a favore di telecamere.
La vita di Fedez e Chiara Ferragni è la perfetta rappresentazione della società dell’apparire, quella che vive in un eterno presente personale con la vetrinizzazione di se stessi e l’enunciazione dell’ undicesimo comandamento del vivere quotidiano: non avrai altro Io all’infuori di Me.
The Ferragnez: Sanremo Special, ora disponibile su Prime Video, è un episodio speciale che segue l’imprenditrice digitale che tutti invidiano («che ci vuole? Lo so fare anche io») nella sua avventura come co-conduttrice dell’ultimo Festival di Sanremo al fianco di Amadeus. Qui c’è finalmente la risposta a un dubbio che lo scorso febbraio tolse il sonno (sì, non siamo messi bene...): i due hanno veramente litigato dopo il bacio di Rosa Chemical a Fedez?
Estratto dell'articolo di Renato Franco per corriere.it giovedì 14 settembre 2023.
Una seduta di coppia dallo psicologo, ma a favore di telecamere. La vita di Fedez e Chiara Ferragni è la perfetta rappresentazione della società dell’apparire, quella che vive in un eterno presente personale con la vetrinizzazione di se stessi e l’enunciazione dell’ undicesimo comandamento del vivere quotidiano: non avrai altro Io all’infuori di Me.
The Ferragnez: Sanremo Special, ora disponibile su Prime Video […] i due hanno veramente litigato dopo il bacio di Rosa Chemical a Fedez? Spoiler. La risposta è sì. […]
Il dietro le quinte è subito agitato. Fedez raggiunge Chiara: «Mi ha limonato lui, non l’ho limonato io». Lei non è ancora del tutto stizzita: «Meno male che non dovevi fare niente». In camerino però la rabbia inizia a salire: «Non lo possiamo portare da nessuna parte», ammette con una frase tipica che si usa per il parente svitato che ti fa fare brutte figure.
A mente fredda lei ripercorre l’accaduto: «Non penso abbia capito completamente quanto io ci sia rimasta male, quanto per me sia stata una cosa scioccante. […] Mi ha fatto ancora più male di quello che potevo immaginarmi. Ero arrabbiata, triste e delusa. È stato difficile tornare su quel palco con il sorriso». Il racconto si alterna con il backstage di quei momenti. Finita la diretta, lei festeggia in camerino, lui passa a salutare per andarsene. «Ehi, puoi stare con me? Non farmi questo, in questo momento», lo prega lei. Ma lui se ne frega: «Voglio solo andare via».
Cala il sipario e passa un mese. Fedez ammette: «È stato un gran casino, non ero in bolla, ero completamente fuori di me, non ero completamente lucido. Ti ho rovinato una delle esperienze più importanti della tua carriera». Chiara Ferragni spiega: «Mi sono sentita tradita nella fiducia che ti avevo dato, sapevi assolutamente quanto ci tenevo e non me la sono presa affatto per il bacio. Per una volta ti avevo chiesto di essere lì come spettatore e non come performer». A questo punto Fedez punta al ricatto facile: «Le cose che mi sono successe non sono semplici», dice piangendo e alludendo al tumore. E così ancora una volta finisce che è lei a consolare lui («sono sempre io a dover seguire i suoi problemi»).
[…]
Eterno adolescente, egocentrico, a tratti scostante, Fedez non ne esce benissimo. […] Su Instagram, dopo l’uscita della puntata, ha aggiunto: «Avrei dovuto supportare Chiara come lei ha sempre fatto con me. Purtroppo come tutti sapete non è andata così. Era un periodo in cui non ero lucido ed è venuta fuori una parte della mia persona di cui non vado fiero. Sono molto dispiaciuto per ciò che non sono riuscito a fare per ciò che ho fatto. In questi mesi sto lavorando molto su me stesso. La mia salute mentale e sulla mia relazione cercando di migliorarmi soprattutto per il bene della mia famiglia».
[…]
La scena più surreale è quella della mamma e della sorelle di Chiara Ferragni che guardano insieme il Festival di Sanremo. La telecamera filma loro che filmano lei che è in tv. La certificazione estrema di un’esistenza che dubita di se stessa.
Neo, ex, post Ferragnez. Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Settembre 2023
Il ferragnismo come ultimo rifugio delle femministe e altre ipotesi per la nuova stagione
L’episodio sanremese della saga familiare è una delusione. Ma vediamo che cosa sta covando Chiara per la prossima sceneggiatura della sua vita: l’adozione di un terzo figlio, una terza gravidanza o la separazione?
«Da sempre noi donne ci vergogniamo del nostro corpo». Al minuto ventuno, Chiara Ferragni va dallo psicanalista di scena a spiegargli che mettersi a Sanremo un vestito con sopra un disegno di tette che lo faccia sembrare trasparente non è esibizionismo, non è consapevolezza di cosa funzioni nella società dello spettacolo, non è vocazione alla fotogenia: è una presa di posizione femminista.
È in quel momento che su una parete di casa mia si forma una piccola crepa causata dalle testate che do durante la visione della nuova ora di “The Ferragnez”, la tanto attesa puntata sanremese della saga tamarra più amata dagli italiani, quella le cui riprese erano state parzialmente differite per la piccola crisi seguita al marito della Ferragni che aveva baciato uno sul palco del festival condotto dalla moglie.
Crisi che ovviamente è diventata parte (troppo piccola ma interessante) della puntata in questione, da ieri su Prime: la società dello spettacolo è come il maiale, non si butta niente. Ma anche: la società dello spettacolo è come i culti religiosi, non prevede originalità di pensiero.
Nessuno dirà a Chiara Ferragni che non è vero che da sempre (da sempre contando da quando?) le donne (quali donne? Le braccianti? Le soubrette? Le principesse? Le mendicanti?) si vergognino del loro corpo (intendiamo che ne hanno pudore o che lo ritengono esteticamente migliorabile?).
Nessuno glielo dirà perché questo tipo di prodotto televisivo non funziona integrando un contraddittorio (e meno male: già in tv ce n’è troppo, di contraddittorio), e nessuno glielo dirà perché Chiara Ferragni è come sempre la regina della medietà, la versione di successo di tutte le disgraziate che accendono la telecamera del telefono e ci spiegano quant’è difficile essere donne con la sponsorizzazione di qualche reggiseno col ferretto, si tagliano la frangia in solidarietà alle iraniane con la sponsorizzazione di qualche prodotto per le doppie punte, cianciano di privilegio del maschio bianco mentre ci piazzano un codice sconto.
La cosa più somigliante al ferragnismo che si veda in questi giorni sui social è un’idea semplice e perfetta. Un’inutile mostra romana fatta fotografando cento e spicci tizie semifamose, con la copertura culturale che ti dà l’essere un progetto di beneficenza (per Terre des Hommes).
Copincollo da articoli a loro volta copincollati dal comunicato stampa: «L’intento è di rendere più consapevoli bambine e ragazze dei loro diritti, ispirarle a coltivare i propri talenti, per essere davvero protagoniste del loro futuro».
Ma tu pensa. Io credevo che l’intento fosse fare una bella foto in bianchennero a Tizia Con Velleità Engagé, mettergliela gigante in mostra facendola sentire figa e importante, e garantirsi così che Tizia instagrammi abbondantemente la mostra facendola divenire la mostra fotografica con più copertura social d’Italia. Per garantire che Tizia si senta lusingata e instagrammi con zelante voluttà, la mostra s’intitola “Straordinarie”.
Ma per carità, non è che siamo vanitose e ci piace essere ben fotografate o mettere vestiti di Dior, macché: è che vogliamo rendere consapevoli bambine e ragazze dei loro diritti, il principale dei quali è evidentemente una telecamera alla quale dire la loro. D’altra parte se stessimo a casa a studiare saremmo meno instagrammabili.
In una società in cui non fossero stramorti il dibattito pubblico e la civiltà della conversazione, sarebbe bello interrogarsi su quel «Da sempre noi donne ci vergogniamo del nostro corpo, non riusciamo a vivere liberamente nel nostro corpo». Sarebbe bello analizzare i non detti assai più veri di questo assai posticcio detto.
Da sempre noi donne sappiamo che commercializzare le proprie foto in mutande d’acrilico (o, prima che esistessero l’acrilico e Instagram, posare nude per i pittori) è una forma di guadagno, una forma d’esibizionismo, entrambe le cose. La libertà c’entra pochino, a meno che non s’intenda libertà commerciale.
Da sempre noi donne siamo consapevoli che il nostro corpo è una merce di scambio. Che, se esso ben figura, può essere indispensabile a procurarci sostentamento, sia esso in termini di mercimonio sessuale, o di procurarci un marito che ci mantenga, o in casi più elitari di farci diventare gente che con quel corpo ci fa la moda, il cinema, la televisione (tre cose che fanno anche gli uomini – nel primo dei settori guadagnando assai meno delle donne – ma con criteri estetici ben meno selettivi).
Prego coloro che si accingono a obiettare che la moda e il cinema e la televisione si fanno col cervello e non col corpo di tornare a leggere le fiabe della buonanotte e di non disturbare gli adulti che tentano di capire il mondo, e continuo coi non detti.
Da quasi sempre, diciamo da almeno un secolo, gli unici impedimenti alla libertà assoluta (che non sto dicendo sia auspicabile) di noialtre rispetto al nostro corpo sono costituiti dall’industria cosmetica e da quella della moda, le quali fondano il loro prosperare sui condizionamenti estetici. Che siano le due industrie grazie alla quali Chiara Ferragni è una macchina da fatturato costituisce certamente una coincidenza.
Poiché il formato della serie televisiva autobiografica è quello, tutti danno corda alla convinzione di Chiara Ferragni d’essere la Carla Lonzi della sua generazione. Per primo il marito, che non teme le iperboli e scandisce senza mettersi a ridere «Credo che Chiara rappresenti per il nostro paese qualcosa di importante», e giura sia «la prima volta che gli occhi sono tutti sulla coconduttrice e non sul conduttore».
A integrare la convinzione d’essere rivoluzionaria c’è infatti, in Chiara Ferragni, un altro tratto fondativo della sua generazione: la convinzione che tutto quel che accade a lei stia accadendo per la prima volta. I giornalisti in conferenza stampa fanno domande cercando di portare a casa un titolo? Ce l’hanno con lei, ce l’hanno tutti con lei, il mondo ostacola il suo eroico cammino.
A quel punto il manager – il vero coniuge, quello sulla cui spalla Chiara piange in camerino e in villa, camerino e villa cui il legittimo coniuge non ha accesso perché lei deve stare tranquilla – le dice che è la sua forza, che lei ce la fa sempre contro tutti, perché oltre che il format della serie è anche quello della vita ferragna così come quello di tutte le persone abbastanza ricche da non essere circondate da amici ma da uno staff retribuito: nessuno dice mai loro «Smettila, mitomane».
Se pensavate che questa puntata servisse a farci vedere le reazioni al marito che sale sul palco e limona Rosa Chemical arrubbando il riflettore alla moglie conduttrice, reazioni che in effetti sono gustose nel loro essere deliranti, sappiate che dovrete aspettare un’ora tonda. Prima di dare al pubblico ciò che vuole, Chiara Ferragni – che sono ragionevolmente certa abbia l’ultima parola sul montaggio, e che evidentemente intende questa puntata come risarcimento al suo trionfo incompleto di figlia naturale di Gloria Steinem e Pippo Baudo – ci ammolla un’ora intera di glorificazione di sé.
Quelle Ferragni in sessantaquattresimo che sono le femministe di Instagram ci spiegano da anni quant’è maschilista Amadeus a cambiare coconduttrice ogni sera, senz’accorgersi che è proprio lo stare lì una sera che fa diventare le donne sul palco il centro dell’attenzione (vi assicuro che entro il giovedì eravamo già stufi marci di concentrarci sulla rivalità Cuccarini-Parietti, quando Sanremo era Sanremo).
E, se le regole del gioco non le capiscono le osservatrici esterne, può mai saperle leggere Chiara Ferragni da dentro al frullatore? Può mai capire Chiara Ferragni che, di Chiara Ferragni che si prova i vestiti e ci spiega che lanciano messaggi, ne abbiamo avuto più che abbastanza a febbraio? Chiara Ferragni che, oltre che in media con questo secolo, è anche arcitaliana: arrivando nel retropalco per la sua prima uscita, si fa il segno della croce, come la moglie del Gattopardo prima di scopare.
Chiara Ferragni che sono molto curiosa di vedere cosa stia covando per la prossima stagione della sua vita e la terza della serie Prime. Due sono gli sbocchi possibili. Il marito nei mesi scorsi ha detto varie volte che gli piacerebbe un terzo figlio da adottare, e questa è sicuramente una scelta narrativa sensata: la terza gravidanza sarebbe copia di mille riassunti, l’adozione aprirebbe nuovi rivoli di racconto.
Più duratura, però, sarebbe la scelta della separazione. Il tempo di superare la promozione di questa puntata sanremese, le settimane della moda, le correnti gravitazionali. Nella stagione del tartufo, annunciare che si vogliono ancora molto bene ma purtroppo eccetera. Sono almeno cinque anni di storytelling, come lo chiamano in questo secolo.
Nuovi fidanzati, allargamento del cast, moltiplicazione delle nuove case, magari persino fratellastri e sorellastre per quei due contenuti Instagram che sono Leone e Vittoria Lucia Ferragni. “Keeping up with the Kardashians”, modello di “The Ferragnez”, ha messo in scena non so più quanti divorzi (e persino il patriarca che diventa donna) e prospera da ventuno stagioni (ora ha un titolo diverso, ma immagino lo stesso fatturato).
Magari una separazione è quel che ci vuole per far sembrare le crisi isteriche meno velleitarie e stabilizzare gli incassi. Certo, la moglie del Gattopardo non avrebbe mai cacciato di casa il Principone, ma neanche l’avrebbe mai relegato in una villa minore per non farsi distrarre nella settimana sanremese. Chiara, sei più postmoderna o più arcitaliana?
Estratto dell'articolo di Giulia Turco per fanpage.it domenica 10 settembre 2023.
Matrimonio “low profile”, almeno dal punto di vista mediatico, per Francesca Ferragni che sabato 9 settembre ha sposato il compagno Riccardo Nicoletti. I due, già genitori del piccolo Edoardo nato nel 2022, si sono scambiati il fatidico sì, per poi festeggiare alla presenza di amici e parenti in una location da sogno in provincia di Piacenza, ma non tutti gli inviati sembrano apprezzare.
L’arrivo degli sposi, tra gli invitati Fedez si fa notare
Nelle ultime ore ha fatto discutere infatti un video trapelato dai profili social degli invitati. Le immagini raccontano l’arrivo degli sposi nell’area adibita alla cena. Mentre tutti sono già seduti a tavola, Francesca Ferragni e Riccardo Nicoletti fanno il loro ingresso trionfale. Tutti applaudono, urlano di entusiasmo e fanno video, tranne Fedez, che sembra restare impassibile e immobile davanti alla scena seduto a tavola, senza nemmeno voltarsi.
“Qualcuno potrebbe dire a Fedez che sarebbe al matrimonio dei cognati?”, scrive un utente tra i commenti al video. “Fedez sempre molto partecipe”, commenta qualcun altro. “Fedez non si è nemmeno girato a vederli, mah! Auguri”. Non è escluso che la scena sia stata ripetuta più volte a favore di telecamere, magari per poter immortalare il momento nel migliore dei modi, ma ad ogni modo “l’entusiasmo” di Fedez nelle situazioni di famiglia non ha convinto i fan.
Nel complesso comunque si può considerare un matrimonio piuttosto discreto, quello che si è svolto presso il Castello di Rivalta [...] La stessa Chiara Ferragni ha pubblicato una manciata scarsa di Stories sulla giornata, senza parlare di Fedez, che sui suoi social non ha nemmeno menzionato l’evento
Francesca Ferragni, il look di sposa e damigelle. In chiesa e al party su Il Corriere della Sera domenica 10 settembre 2023.
Il giorno dopo il matrimonio di Francesca Ferragni, sono stati svelati tutti gli abiti di sposa e damigelle (Valentina e Chiara). Tutte hanno scelto il bridal brand Atelier Emé. Per la cerimonia Francesca era una vera principessa: abito bianco, in pizzo all over, dal corpetto bustier e gonna con strascico lungo removibile e manicotti. Chiara e Valentina invece damigelle della sposa, in un mood quasi da ancelle contemporanee, entrambe avvolte con abiti celesti raffinati.
Valentina, accompagnata dal nuovo fidanzato Matteo Napolitano, ha scelto un modello a sirena con bretelline, Chiara con una mise dallo scollo all’americana e strass. L’imprenditrice digitale per la festa poi ha optato un longdress da sera nero, impreziosito con inserti in tessuto lucente, ancora firmato Atelier Emé. Invece il secondo abito della sposa aveva un profondo spacco e pelle a vista sul fianco. Elegantissima mamma Marina con un abito senza spalline tempestato da cristalli.
Antitrust estende caso-Balocco a società di Chiara Ferragni
(ANSA 19 luglio 2023.) - L'Antitrust ha esteso alle società Fenice e TBS Crew, riconducibili a Chiara Ferragni, il procedimento avviato nei confronti della Balocco Industria Dolciaria per pratica commerciale scorretta in relazione all'iniziativa commerciale denominata "Chiara Ferragni e Balocco insieme per l'ospedale Regina Margherita di Torino".
Lo annuncia la stessa autorità garante della concorrenza e del mercato precisando che oggi i suoi funzionari hanno svolto ispezioni nelle sedi di Fenice e di TBS Crew con l'ausilio del Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza. Il 14 giugno scorso l'Autorità aveva comunicato l'avvio di un'istruttoria per pratica commerciale scorretta nei confronti di Balocco.
Secondo l'Antitrust, il modo in cui veniva presentata l'iniziativa di vendita dei pandori con l'immagine della Ferragni per l'ospedale Regina Margherita poteva indurre in errore i consumatori i quali potevano pensare di contribuire alla donazione in favore dell'ospedale. La società aveva invece già deciso l'ammontare a prescindere dall'andamento delle vendite del prodotto.
Estratto dell’articolo di Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" giovedì 20 luglio 2023.
La confezione era rosa, come lo zucchero a velo in dotazione[…]. “Pink Christmas”, mica a caso, il pandoro Balocco di Chiara Ferragni.
L’influencer, l’imprenditrice, la star di Instagram, la regina dei social, Ferragni. Solo che oggi, di tutto quel rosa, non resta un granché: resta, semmai, un’istruttoria dell’Antitrust, al secolo l’Autorità garante della concorrenza del mercato, aperta già un mese fa, cioè a metà giugno, nei confronti dell’industria dolciaria di Fossano, in Piemonte, e che, ora, si estende ad altre due società, la Fenice e la Tbs Crew, entrambe riconducibili, appunto, a Ferragni.
Breve passo indietro: a inizio estate l’Antitrust comincia a “indagare” sull’iniziativa commerciale “Chiara Ferragni e Balocco insieme per l’ospedale Regina Margherita di Torino” che si è conclusa nel 2022, è stata in piedi tra novembre e dicembre. […]
È una trovata commerciale ma anche solidale, quella del pandoro “griffato”: e comunque sia andata l’intento è meritorio. Il prodotto […] serve a sostenere la ricerca sull’osteosarcoma e sul sarcoma di Ewing […] nel nosocomio torinese. Ma […], secondo l’Antitrust, è tutto il resto (la campagna di comunicazione, la sua presentazione, il lancio pubblicitario) che non quadra, perché induce in errore il consumatore facendogli credere che acquistando al super il pandoro rosa si contribuisca all’ammontare di una donazione per le casse della clinica piemontese quando, invece, la cifra destinata alla beneficienza è già stata decisa, ben prima che il prodotto arrivi sugli scaffali e a prescindere dalle sue effettive vendite.
Una sorta di “pubblicità ingannevole”, insomma, che, ancora secondo l’Autorità, fa leva sulla sensibilità dell’utente finale che crede di incidere direttamente sulla compera di un nuovo macchinario medico per i reparti del Regina Margherita mentre la Balocco ha già disposto il totale della somma da versare. Succeda quel che succeda. Fine. Anzi no, dato che a distanza quattro settimane il “caso” si riapre.
O meglio, si allarga. Ad annunciarlo è, di nuovo, l’Antitrust che precisa pure come i suoi funzionari stiano svolgendo, nelle sedi sia di Fenice che di Tbs Crew, grazie anche all’aiuto del Nucleo speciale e degli uomini della Guardia di finanza, delle ispezioni.
Una possibilità che, a quanto si apprende, era stata sollevata dal Codacons, […] tra i primi (parliamo di gennaio 2023) a depositare un esposto sulla questione […]
[…] Soddisfazione in casa Codacons, quindi, che ha intenzione di proseguire la battaglia: «Ora, se l’Antitrust confermerà la pratica commerciale scorretta, e se saranno accertate responsabilità da parte delle società coinvolte, avvieremo una azione legale contro la Balocco e contro Chiara Ferragni, chiedendo ai due soggetti di rimborsare il costo del pandoro a tutti i consumatori che hanno aderito all’iniziativa di solidarietà».
La beneficienza, e su questo non ci piove, c’è stata: e pure questo, di aspetto, va detto e ribadito. Quello su cui l’Autorità della concorrenza vuole fare piena luce, però, sono le modalità con cui è stata messa in atto. E a scorgere la reazione della Codacons pare non sia una vicenda destinata a finire troppo presto.
Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 5 giugno 2023.
Le donne più criticate d’Italia sono due: Giorgia Meloni e Chiara Ferragni. Entrambe, pure muovendosi in campi diametralmente opposti, hanno qualcosa in comune, un elemento che suscita incontenibile invidia: hanno costruito il proprio successo da sole, con le loro mani, sfruttando talenti, capacità, forza di volontà, determinazione, tenacia, quando nessuno avrebbe scommesso un soldo sudi loro, anche perché la tendenza a sottovalutare le signore è universale e costituisce uno dei nostri più gravi limiti.
Ad ogni modo, oggi è di Chiara Ferragni che vorrei parlarvi in quanto la notizia relativa alla clamorosa crescita delle sue società e del suo marchio, oltre che dei brand di cui ella è testimonial, crescita ascrivibile allo scorso anno, mi ha spinto a compiere alcune riflessioni su questa giovane tanto amata quanto odiata, o forse più odiata che amata.
Del resto, anche l’odio che viene nutrito nei nostri confronti può divenire redditizio, perfino più dell’amore, ammesso che si sia in grado di metterlo a frutto. E si dia il caso che Ferragni abbia una vocazione naturale a trasformare in oro qualsiasi oggetto tocchi, le basta un autoscatto improvvisato per macinare centinaia di migliaia di euro.
L’unica cosa che possiamo fare è ammirarla per questo, dal momento che non ruba, non uccide, non froda nessuno per produrre tonnellate di denari. Invece, poiché l’Italia è un Paese provinciale e l’italiano, anche quello di città, è tendenzialmente un paesano, dalla mente chiusa e dall’occhio torvo, più attento a cosa fa il prossimo piuttosto che concentrato sui propri obiettivi (il più delle volte inesistenti), allora Chiara Ferragni viene costantemente presa di mira da donne e pure da uomini, le prime infastidite dalla circostanza che una ragazza, senza un uomo alle spalle e senza bisogno di patrocinio, abbia messo in piedi un impero; i secondi infastiditi dal fatto che una donna possa essere di gran lunga più in gamba di loro.
[…]
Nei giorni in cui Ferragni, lo scorso febbraio, condusse il Festival di Sanremo, in particolare in occasione del suo monologo, che era una lettera alla se stessa di ieri, ovvero alla se stessa bambina, l’imprenditrice fu passata al setaccio, o meglio al tritacarne, perché sarebbe stata ingobbita, o troppo magra, o troppo denudata, o troppo volgare, o troppo banale.
Ora aveva la cellulite, ora era troppo ossuta, ora non aveva culo, ora non aveva tette. Io, personalmente, quella sera, su quel palco, ho visto una ragazza timida, con la postura tipica dei timidi, che se ne stava come ripiegata su se stessa proprio a causa di insicurezze che neppure il successo è riuscito a demolire o a cancellare.
Ho rivisto persino me stesso in lei. Ho provato tenerezza. Intanto Chiara, nonostante tutti i difetti che ci impegniamo a notare e a fare notare, difetti inesistenti o irrilevanti, qualsiasi cosa compia, in qualsiasi avventura si butti, qualsiasi indumento indossi, in qualsiasi posa si faccia immortalare, contribuisce a sollevare il Pil, ovvero a creare ricchezza.
[...] essendo per noi prioritario imbastire dibattiti di lana caprina riguardanti il fatto che Chiara abbia pubblicato su Instagram una foto in mutande, qualcosa che – così si dice – una madre non dovrebbe fare.
Siamo malati di perbenismo e moralismo, che adoperiamo soltanto per travestire le nostre personali frustrazioni. Ciò che ci fa rabbia di Chiara Ferragni non è la foto delle sue chiappe, bensì che sia una donna realizzata, libera, indipendente, autonoma, felice, capace di fottersene delle critiche altrui poiché si è messa da sola nella posizione di fregarsene altamente.
Ci fa rabbia che questa biondina di provincia il cui sorriso ha campeggiato a Times Square, nel cuore di New York, sia più sveglia di noi. Più che un profilo social, ella dovrebbe essere ritenuta un esempio da seguire: si è inventata un mestiere, raggiungendo un successo planetario.
Davanti a questi risultati forse sarebbe opportuno smetterla di farne un caso, e una rovente polemica, ogni volta che Ferragni posta una fotografia in intimo, rimproverandole di essere una svergognata e addirittura accusandola di essere una cattiva madre, come se la capacità genitoriale si misurasse da certe sciocchezze.
Insomma, ora che le donne ci hanno dimostrato ampiamente di non avere bisogno di essere figlie di, mogli di, sorelle di, nipoti di, per rivestire ruoli apicali nel pubblico e nel privato, di essere “di potere”, e per “potere” non intendo riferirmi al peso specifico economico o alla influenza, ma all’abilità di rendersi autonomamente felici, ovvero di realizzare se stesse in totale libertà e in ogni ambito, forse è giunta l’occasione di finirla di giudicarle con tanta intransigenza e con tanto rigore.
"È un sinistroide arricchito...". Così Rocco Siffredi asfalta Fedez. Storia di Novella Toloni su Il Giornale il 25 maggio 2023.
Fedez provoca, Rocco Siffredi risponde. L'attore e regista hard ha rispedito al mittente le accuse mossegli dal rapper sul rifiuto a partecipare a una puntata di Muschio Selvaggio. "Voleva gli sghei e a Muschio di sghei non ne diamo", ha fatto sapere il marito di Chiara Ferragni negli scorsi giorni, facendo un lungo elenco dei personaggi famosi che gli hanno detto "no, grazie" in questo ultimo anno di registrazioni. Così il pornoattore - senza peli sulla lingua - ha replicato a tono: "Ha bisogno di farsi pubblicità. Fedez ha detto la verità: lui si fa ospitare dappertutto gratis, ma a me chiedeva che mi pagassi pure l'aeroplano... ma se ne vada... dove dico io!".
La questione non è tanto il compenso economico, quanto il fatto che Rocco Siffredi - che risiede in pianta stabile in Ungheria - avrebbe dovuto sostenere le spese della trasferta per fare un "regalo" a Fedez ed essere protagonista di una delle puntate del suo podcast Muschio Selvaggio. A conti fatti a guadagnarci sarebbe stato soprattutto il rapper non certo Rocco Siffredi, che non ha bisogno di un'ospitata da Fedez per ottenere visibilità. Quest'ultimo ha voluto, però, rivelare il "no" che Siffredi gli ha rifilato e a quel punto il pornoattore ha deciso di rompere il silenzio, rispondendo alla provocazione del marito di Chiara Ferragni attraverso il magazine MOW.
Video correlato
"Fedez? Un sinistroide arricchito"
"Lui, ovunque si trova, vuole l'ospitalità e ville da 100mila euro al mese... ma gratis", ha ironizzato Rocco Siffredi riferendosi ai modi di fare di Fedez, che sembra amare molto la parola "gratis": "Lo so perché una era la villa di un mio amico. E chiede gratis solo perché si chiama Fedez. Invece, se ti chiama lui, ti devi pagare anche l'aereo e l'hotel?". Nessuna questione personale, ma Rocco Siffredi a passare da materialista non ci sta proprio e l'ironico affondo a Fedez è arrivato quasi naturale. "Ma, qualche anno fa, lui non prendeva in giro i... 'comunisti col rolex'? Adesso invece è lui che fa la figura del sinistroide arricchito, che va a sbafo ovunque. Ma quando c'è da cacciare un euro...", ha detto a MOW Mag l'attore hard, citando un celebre brano del rapper e chiudendo la questione con una sonora frecciata all'indirizzo dell'artista milanese.
Fedez, il contaballe: tutte le giravolte (per soldi) di un rapper incoerente. Francesca Galici il 10 Aprile 2023 su Il Giornale.
Si professa paladino della causa Lgbtq ma poi sbrocca quando si sospetta la sua omosessualità, dice di non voler andare a Sanremo ma ci va 2 volte in 3 anni: ecco l'incoerenza di Fedez
Fedez è incoerente: questa sembra essere l'epifania che ha colpito molte persone nel giorno di Pasqua. Strano, perché sull'incoerenza del marito di Chiara Ferragni sono state scritte pagine e pagine nei mesi e negli anni passati. Possibile che gli italiani abbiano la memoria così corta? Il rapper ha sempre fatto il contrario di quanto detto e solitamente, dietro questi sospetti cambi di direzione, dietro ci sono solo meri interessi economici. Nulla di strano per chi ha imparato a conoscerlo in questi anni e ha avuto modo di constatare che quando ci sono di mezzo proposte a diversi zeri o comunque ritorni di immagine e di popolarità massicci, che possono portare a conseguenti ritorni economici. Nelle ultime ore il caso è montato perché, dopo aver definito Dubai come "Disneyland con i cadaveri sotto il tappeto", in queste ore si sollazza con tutta la famiglia nella città degli Emirati Arabi, ospite di un lussuoso albergo che probabilmente ha proposto a sua moglie una vacanza all-in in cambio di un po' di pubblicità.
Bufera su Fedez: la vacanza a Dubai finisce nelle polemiche
È importante ricordare che Fedz è lo stesso che nel 2014 diceva che a Sanremo si va "quando le cose vanno male". E poi ha deciso di parteciparvi in gara nel 2021 in coppia con Francesca Michielin, arrivando secondo dopo la massiccia campagna per il televoto della moglie. E, non pago, quest'anno si è presentato a Sanremo in "quota Ferragni", all'interno del pacchetto che prevedeva la partecipazione di sua moglie come co-conduttrice per due serate, le più prestigiose. Infatti, Fedez non solo è salito sul palco come guest degli Articolo 31 nella serata dei duetti, durante la quale ha fatto le sue solite sceneggiate contro Giorgia Meloni, ma è stato anche ospite della nave Costa, ovviamente senza smentirsi e mettendo in imbarazzo la Rai con un siparietto borderline contro il governo.
Ma di incoerenze se ne possono trovare a manciate nella storia di Fedez. Per continuare sui riferimenti recenti, che dire, per esempio, dello sbrocco totale avuto nelle storie di Instagram per accusare la trasmissione di Mario Giordano di aver organizzato un servizio per rivelare la sua omosessualità? Tralasciando che tutto questo sia stato smentito dal giornalista, proprio lui che si è sempre proclamato paladino della causa Lgtbtq si inalbera a quei livelli solo perché qualcuno ipotizza un orientamento sessuale diverso da quello da lui conclamato? Ma anche in questo caso mica ci sarebbe da stupirsi, perché Fedez è sempre quello che professa il gender-fluid con gli "smaltini" ma solo qualche anno fa cantava: "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi: 'Ciao sono Tiziano non è che me lo ficchi?'".
Ma continuando sulla scia delle ipocrisie di Fedez, bisogna ricordare che nel 2021 è stato premiato con "l'Oscar dell'inclusività" insieme a sua moglie per la "sensibilizzazione sul ddl Zan e la lotta agli stereotipi, passando per la condanna di atteggiamenti omofobi e discriminatori". Ed è la stessa persona che nello sfogo contro Mario Giordano ha dichiarato, imitando successivamente la voce del giornalista: "Voglio sapere se Mario Giordano ha ancora i testicoli attaccati allo scroto (...). Ciao Marietto". E per non farci mancare nulla, in quello stesso contesto, il rapper che si batte contro il bullismo, ha minacciato la giornalista che a suo dire avrebbe cercato notizie sul suo orientamento sessuale: "Potrei farla piangere, non ci metto niente. Non lo farò, ma potrei".
E si potrebbe continuare senza sosta, ricordando per esempio quando, nel comporre l'inno per il Movimento 5 stelle, cantava: "Caro Napolitano te lo dico con il cuore, o vai a testimoniare oppure passi il testimone". Ma poi si è fatto portavoce delle istituzioni e, a tratti, vorrebbe anche farsene garante contro il governo di centrodestra. Ma perché stupirsi? Fedez è l'incoerenza personificata e lui stesso, anni fa, lo ha ammesso: "L’artista nasce e muore incoerente, fatevene una ragione. I rapper sono come i politici, si fanno corrompere e cambiano idea ogni cinque minuti".
Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 12 marzo 2023.
[…] Un mese è stato un tempo lunghissimo per Chiara Ferragni e Fedez, tanto che oggi sembrano quasi due persone diverse rispetto alla coppia che, solo trenta giorni fa, era sul palco di Sanremo. Non va tutto bene. Lo ha scritto ieri lei […]. «Ora è il momento di tirare dritto e provare a far funzionare le cose, di aggiustarle senza fingere che tutto vada bene, ma provando a farle andare bene veramente», […]
Non va tutto bene e non andava tutto bene nemmeno un mese fa. Si era intuito, dagli occhi sgranati dell’imprenditrice dopo l’esibizione di Rosa Chemical, durante la finale: prima aveva twerkato su Fedez, poi si erano baciati. La conferma, immediatamente dopo, con la scomparsa del cantante dai social di lei: non più una foto insieme, non un generico grazie per il supporto. Nulla. […]
«Sanremo, ora posso ammetterlo, è stato durissimo, mi sono sentita fuori dalla mia zona di comfort», […] «Ho dovuto esserci per la mia famiglia, provare ad essere forte per tutti, capire come risolvere problemi più grandi di me con la paura di non farcela come moglie e mamma, perché con i tuoi bambini devi essere tu quella forte, sempre».
Parole che rappresentano la risposta ai tanti che, nelle scorse settimane, avevano parlato della crisi tra i due, arrivando a ipotizzare un imminente divorzio. Suggestioni alimentate dal silenzio in cui si era chiuso Fedez. […] Poi era tornato, sporadicamente, con delle storie pubblicate su Instagram in cui era in preda a una inedita balbuzie.
Pochi giorni fa, la spiegazione: «Partiamo da quando mi è stato diagnosticato il tumore al pancreas: per quanto privilegiato possa essere, è stato un evento molto traumatico e solo oggi ho realizzato di quanto non mi sia preso cura della mia salute mentale rispetto a questo evento e mi sia affidato solo a psicofarmaci che ho cambiato nel corso dei mesi fino a trovarne uno che proprio non era indicato a me», ha raccontato, riaprendo una nuova finestra sulle sue condizioni.
«Ad oggi non sono al 100%, ma va meglio — ha concluso —. Per quanto questo periodo sia stato particolarmente infelice, mi ha fatto capire quanto io voglia focalizzarmi sulla mia salute mentale, sulla mia famiglia e su mia moglie, sulla quale ne sono state dette di ogni ed è l’unica che mi è stata accanto... e mi dispiace quello che ha dovuto subire». Solo dopo quelle parole, sono ricomparse sui profili di entrambi le immagini delle mani intrecciate, come dire: siamo ancora qua. Diversi, come dopo uno scossone che fa paura. […]
Ancora Ferragnez. Lo psicofarmaco sbagliato di Fedez e la pazienza di Chiara, l’Enrico Cuccia della nostra epoca. Guia Soncini su L’Inkiesta il 7 Marzo 2023
Il marito della Ferragni svela che hanno sbagliato a prescrivergli la cura e per questo non è stato sé stesso. La moglie, anziché mostrarsi come una compagna amorevole, tace come solo il leggendario banchiere siciliano sapeva fare
Una settimana fa stavo aspettando che mi facessero una tac. Non lo dico per alimentare l’illusione che sappiate delle cose della mia vita e il meccanismo nevrotico per cui ci si preoccupa della salute delle sconosciute quanto di quella dei propri cari: lo dico per fornirvi il contesto comico.
Il contesto in cui, la prima volta che ti arriva il link e sei nella sala d’attesa d’una clinica e non hai le cuffie in borsa, non vai a guardare le storie di Instagram in cui il marito della Ferragni risponde a non so più quale polemica; la decima, però, capisci che dev’esserci qualcosa se tutti ti scrivono «ma che cos’ha, perché balbetta». La decima volta vai in un corridoio e ti metti a guardarle tra infermiere che passano scuotendo la testa.
Quando sono uscita dalla tac, nel mio telefono c’erano già molteplici ipotesi sulla salute del marito della Ferragni: in un mondo in cui farci i fatti degli altri ci pare normale, farci quelli della famiglia Ferragni ci pare doveroso. I più allarmisti ipotizzavano una metastasi al cervello che gli avesse fatto partire un disturbo neurologico. Frequento gente mediamente razionale, eppure la famiglia Ferragni fa quest’effetto qui: facciamo le diagnosi a distanza. Un po’ ce ne vergogniamo, ma neanche poi troppo.
A quel punto erano già due settimane abbondanti che il marito della Ferragni era scomparso dai social della moglie, e muto sui propri. Lei quel pomeriggio avrebbe postato una foto delle loro due mani unite, ma per il resto era da Sanremo che aveva un Instagram da madre single. Poiché guardiamo gli Instagram degli altri e c’illudiamo perciò di conoscere le loro vite, l’assenza social della coppia ci faceva sentire autorizzati a fare illazioni.
La più ricorrente era: ogni volta che lei sta per lasciarlo, lui si ammala. Che è anche un meccanismo psicologico abbastanza banale, non è che serva proprio una squadra di luminari viennesi per diagnosticarlo.
Mentre il mondo continuava a fare illazioni, cercarlo in angoli di foto di lei, sentirsi Woodward e Bernstein perché aveva visto la coppia insieme per strada o in un bar, ieri sera il marito della Ferragni è ricomparso su Instagram, raccontando una storia che ai più istruiti ha fatto venire in mente i prodromi del suicidio di David Foster Wallace. La storia più temuta da chi ha consuetudine con la psichiatria: lo psicofarmaco sbagliato.
Ha raccontato che dopo il cancro non si è preso cura «della mia salute mentale», che si è affidato solo agli psicofarmaci, solo che lo psicofarmaco che gli hanno prescritto gli dava controindicazioni talmente importanti da aver dovuto smettere senza décalage. Ne sono seguiti gli ovvi sintomi della crisi d’astinenza, che – racconta – gli hanno impedito di fare il suo lavoro, di andare a testimoniare in tribunale, di fare tutto ciò che bisogna essere in sé per fare.
Mentre scrivo quest’articolo non è ancora partita la polemica che mi aspetto sia già in corso quando leggerete. Ah, quindi ritieni che farsi prescrivere degli psicofarmaci non sia prendersi cura della propria salute mentale, diranno i neolinguisti della polemica, aggiungendo poi sempre in neolingua che in questo modo si contribuisce allo stigma. Quel che in italiano si direbbe: vuoi screditare gli psicofarmaci. (Consiglio per ravvivare la polemica: semmai vuole screditare l’abilità professionale dello psicoterapeuta da cui Prime ha mandato la coppia).
In tutto ciò il dettaglio interessante mi pare la moglie. Il marito di Chiara Ferragni dice che lei non ha fatto altro che stargli vicino, e che gli dispiace che si sia presa perciò insulti per settimane. Confesso di non sapere di cosa parli – non si può star dietro a tutto, e gli insultatori della Ferragni li recupererò dopo che avrò letto Musil – ma c’è un elemento molto interessante nel silenzio di questi venti giorni.
Sono settimane che la lettura collettiva dell’assenza della coppia dai social è: lei non l’ha ancora perdonato per il bacio a Sanremo, lei madre frigorifero lui bambino pentito. Non m’interessa cosa sia vero e cosa no, ma mi sembra interessante riflettere sulla possibilità che, mentre noi spettegoliamo sulla loro vita dicendo che lui dorme sul divano e lei gelida lo respinge, lei gli stia invece tenendo delle pezze fredde sulla fronte; e, nel tempo libero dall’accudire il coniuge, non dica una sillaba in propria difesa, non si precipiti a ripristinare la propria reputazione di moglie amorevole, si distacchi da uno spirito del tempo in cui tutti – dirigenti Rai, ministri, io, voi – ci esibiamo ogni giorno nella nostra interpretazione di Quelo, lamentando che tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina, la bambina ha vomitato.
In un mondo che ha inventato il mestiere dello spiegatore di come si gestiscono i danni d’immagine, e in cui questi spiegatori fatturano dicendo a milionari fragili che bisogna precisare, raccontare, dare la propria versione dei fatti, non lasciare un vuoto comunicativo mai perché esso vuoto verrà riempito da cattiverie, Chiara Ferragni è la Enrico Cuccia della sua generazione. Una che, per quante fantasie sul suo matrimonio e sul suo carattere e sulle sue giornate legga in giro, non smentisce, non rettifica, non dà pubblicamente mostra d’agitarsi.
Non saprà evitare di mettersi la matita più scura del rossetto, non avrà una gran dizione, sarà pure il segno che non avremo mai più un vero star system, ma nell’epoca in cui ha vinto la linea di Diana Spencer, che sconfisse il motto reale circa il mai scusarsi, mai dare spiegazioni, mai lamentarsi, Chiara Ferragni è l’ultima Elisabetta II che ci è rimasta.
Fedez torna su Instagram e racconta i suoi due mesi: «Ho sospeso uno psicofarmaco e sono crollato». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 7 Marzo 2023
E parla di Chiara Ferragni: «L’unica che mi sia stata vicino ed è stata sommersa di m.». Fedez e la malattia, cosa è successo: «Annebbiamento a livello cognitivo, forti spasmi muscolari, vertigini, mal di testa, nausea terribile: ho perso 5 chili in 4 giorni»
Dopo tanto silenzio, illazioni e supposizioni Fedez è tornato a parlare sui social per raccontare «i due mesi di merda che ho vissuto». Altro che crisi con Chiara Ferragni. Chiarisce subito: «Sono girate voci sulla mia famiglia che non sono corrispondenti al vero».
Poi riavvolge il nastro a quando tutto ha inizio: «Non appena mi è stato diagnosticato il tumore al pancreas — per quanto privilegiato io possa essere — ho vissuto un evento molto traumatico e solo oggi ho realizzato di quanto non mi sia preso cura della mia salute mentale e mi sia affidato solo a psicofarmaci... A gennaio mi è stato prescritto questo psicofarmaco antidepressivo molto potente che mi ha cambiato, mi ha agitato tanto e mi ha dato anche effetti collaterali molto forti dal punto di vista fisico fino al punto da provocarmi dei tic nervosi alla bocca e da impedirmi di parlare in maniera libera. Correvo dei rischi importanti e quindi ho dovuto sospenderlo in maniera repentina, senza scalarlo e questo mi ha provocato il cosiddetto effetto rebound: una cosa che non auguro a nessuno. Oltre a provocarmi un annebbiamento importantissimo a livello cognitivo, mi ha dato dei forti spasmi muscolari alle gambe che mi hanno impedito per diversi giorni di camminare, vertigini molto intense, mal di testa incredibili, nausea terribile fino a perdere 5 chili in 4 giorni. Non una bella cosa». Sono questi i motivi — spiega il rapper — per cui ha sospeso i suoi impegni di lavoro: «Ho dovuto disertare la conferenza stampa di Lol e non ho potuto presenziare al processo per la strage di Corinaldo».
Ora va bene, ma non benissimo: «Ad oggi non sono al 100%, ho ancora vertigini, scalmane, sudorazioni, ma giorno dopo giorno miglioro». Fedez si commuove, interrompe il video per le lacrime e riprende: «Ho vissuto un periodo parecchio infelice che mi ha fatto capire tante cose... Mi ha fatto capire quanto io voglia focalizzarmi sulla mia salute mentale e sulla mia famiglia». Ringrazia soprattutto sua moglie, Chiara Ferragni: «In questo periodo ne sono state dette di ogni, ma mia moglie è l’unica persona che mi è stata al fianco. Mi dispiace abbia dovuto subire una tempesta di m. mediatica totalmente immeritata».
«Abbiate cura della vostra salute mentale ed emotiva» - La foto apparsa sul profilo Instagram di Fedez: la sua mano che stringe quella di Chiara Ferragni
Si rivolge ai follower: «Prendetevi cura della vostra salute mentale, delle vostre ferite; se non lo farete saranno le vostre ferite a reclamare il bisogno di essere curate». Ribadisce: «Questo è il riassunto dei miei due mesi di m. Ci tenevo ancora a ringraziare mia moglie, ha dovuto badare a una famiglia intera e a me, non è per niente scontato. Sono un uomo fortunato». A chiudere le stories due mani intrecciate: la sua e quella di Chiara. Per la crisi c’è tempo.
Chiara Ferragni, sul suo account Instagram, ha invece pubblicato una foto con Fedez di qualche tempo fa (lui ha i capelli scuri): nello scatto marito e moglie si guardano negli occhi e sorridono. La didascalia è semplice: «Così» corredata da un cuore.
Estratto da open.online il 19 febbraio 2023.
«Gente che invoca la libertà, parla di libertà, dice di difendere la libertà e poi insulta, deride, offende. Amicizia e solidarietà a Mario Giordano, gigante nel giornalismo e nella vita».
Così il leader della Lega Matteo Salvini prende le difese del direttore di Fuori dal Coro dopo lo scontro esploso ieri, 18 febbraio, con Fedez.
Il rapper si era scagliato contro la trasmissione televisiva dopo che una giornalista ha tentato di indagare sulla sua sessualità, chiedendo ad amici di infanzia se fosse gay o meno.
Avvertito da qualcuno di loro, il cantante ha deciso di chiamare la reporter in questione, di registrare la chiamata e di condividere alcuni spezzoni tra le stories. Giordano ha poi smentito con un post su Instagram dalla pagina della trasmissione.
[…] Il rapper nelle sue storie su Instagram si è anche lanciato in attacchi personali contro il giornalista di Mediaset: «Vi chiedo per favore: io voglio sapere se Mario Giordano ha ancora i testicoli attaccati allo scroto. Me lo domando da una vita, e se lo domandano in tanti secondo me. Ciao Marietto, ciao Marietto».
Frasi che hanno scatenato le reazioni da parte di politici e opinionisti di centrodestra, intervenuti a sostegno del giornalista sui social. A Salvini sono seguiti i tweet di Hoara Borselli, […] Francesco Giubilei fino a Diego Fusaro: «Fedez contro Mario Giordano: ‘Nello scroto…’. Insulti choc su Fuori dal coro” (“Il Tempo”). Ma non erano per l’inclusività e per la messa al bando dell’hate speech loro, i guerriglieri dell’arcobaleno?». […]
Da adnkronos.com il 20 febbraio 2023.
Dopo il tweet di Salvini, che ha definito il giornalista Mediaset "un gigante del giornalismo"
Non solo Matteo Salvini. Dopo il tweet del ministro che ha definito Mario Giordano "un gigante del giornalismo", ecco arrivare nuovi post contro Fedez nella diatriba social con il conduttore di 'Fuori dal coro'.
"Fedez sempre più piccolo, Mario Giordano sempre più grande. E non c’è altro da aggiungere", scrive infatti su Twitter l'ex presidente della Rai, Marcello Foa. , seguito dalla conduttrice tv e deputata di Forza Italia Rita Dalla Chiesa: "Credo che Fedez debba chiedere scusa a Mario Giordano. Per i toni, per l’atteggiamento arrogante, e per quella mancanza di rispetto che si deve, comunque la si pensi, a un grande professionista come lui. Che non si occupa di gossip, ma dei malesseri dei cittadini".
All'attacco anche la giornalista Hoara Borselli, con ben due tweet. "Ecco gli inclusivi che bullizzano. Una sequela di insulti violentissimi contro Mario Giordano. Giù le mani da Giordano!", scrive, per poi aggiungere in un secondo post: "Ma poi la verità da cogliere è che Fedez, che si racconta così sensibile alle cause Lgbtq, che si erge a convinto paladino dei diritti, spercula Giordano chiedendo se ha le palle, scimmiottando la voce effemminata. Capite le contraddizione e l’ipocrisia?"
(LaPresse il 20 febbraio 2023) - "Trovo umiliante e ridicolo vedere il mondo dell'informazione andare dietro alle volgari provocazioni di Fedez. Ma chi è? Cosa rappresenta? Cosa dice di tanto interessante da sollevare un dibattito pubblico? Cantasse che gli viene pure bene: ha delle intuizioni felici.
Per il resto più ridicolo di lui è un pezzo di Paese che gli regala attenzione e si misura con lui legittimando le sue puerili esternazioni. In Italia gli omosessuali si possono unire civilmente tant'è che io sono unito con il mio compagno.
Che senso ha baciarsi in prima serata e inscenare un atto sessuale? Non è arte, quella è paracullagine acuta che, come tutte le cose fatte in cattiva fede, si trasforma in gratuita volgarità". Lo dichiara Pierluigi Diaco, conduttore di 'BellaMà' su Rai 2, interpellato da LaPresse sul caso Fedez-Rai sollevato da un esposto di Carlo Giovanardi.
Lo scontro fra Fedez e Mario Giordano (con Salvini che attacca il cantante): ecco cos’è successo. Renato Franco su il Corriere della Sera il 20 Febbraio 2023.
L’accusa del rapper: «Un’inchiesta sulla mia sessualità». La replica del giornalista: «Non ne so niente, contro di me ha fatto body shaming»
Fedez torna a parlare sui social, ma niente spoiler sulla crisi con Chiara Ferragni (sono ai ferri corti o no? Sopravviveremo lo stesso...). Da parecchi giorni però il rapper è una calamita di polemiche. L’ultima rientra nel campo del «presunto». Perché lui parla di un’inchiesta di Mario Giordano sulla sua presunta omosessualità. Ma il giornalista risponde che di questa presunta inchiesta non sa nulla.
La miccia la accende Fedez che su Instagram racconta di diverse telefonate fatte da una giornalista di «Fuori dal coro» ad alcuni suoi amici per chiedere se fosse o meno gay. «Ecco, cara giornalista, io non sono omosessuale: se lo fossi lo direi, ma credo che il lavoro del giornalismo d’inchiesta mal si concili con inchieste tipo queste. Siete la cloaca del giornalismo». Il rapper poi se la prende con Mario Giordano, conduttore di «Fuori dal coro» (il talk di Rete 4) e scivola a un livello decisamente basso, prendendo in giro la voce del giornalista e facendo considerazioni inequivocabilmente volgari.
Come è successo a Sanremo, la polemica prende un colore politico con l’intervento di Matteo Salvini via social, la piazza dove ormai tutto accade: «Gente che invoca la libertà, parla di libertà, dice di difendere la libertà e poi insulta, deride, offende. Amicizia e solidarietà a Mario Giordano, gigante nel giornalismo e nella vita». A Fedez però piace avere l’ultima parola e commenta il tweet del leader della Lega con una sua immagine insieme a Saviano: «Su “gigante del giornalismo” abbiamo riso tantissimo».
Intanto Mario Giordano respinge al mittente ogni addebito: «Non ho mai dato indicazioni di fare un’inchiesta sulla presunta omosessualità di Fedez. Casco dal pero — giura il giornalista —. Non esiste. Io non ho mai programmato e non ho in programma nessun servizio di questo tipo a “Fuori dal coro”. Domani (oggi, ndr) andranno in onda inchieste sui temi di cui mi occupo da sempre e che interessano la vita di tutti i giorni dei cittadini: parlerò di crisi economica e di disoccupazione, di sicurezza e di sanità». Eppure Fedez assicura che una giornalista ha contattato i suoi amici: «È una collaboratrice che lavora per diversi programmi Mediaset e anche per noi, ma non posso rispondere di tutto quello una persona fa: se accoltella qualcuno per strada, io non posso essere certo ritenuto responsabile». Dunque è un’iniziativa personale della giornalista? «Ripeto. Non ho mai pensato di fare un’inchiesta sull’omosessualità di Fedez».
Mario Giordano però non ha gradito l’uscita del cantante: «Ha usato parole e toni nei miei confronti che mi sembrano oggettivamente esagerati. A partire dal body shaming: è vero, ho una voce brutta e una faccia brutta, ma voglio essere criticato per quello che faccio, non per il mio aspetto fisico». Anche lui ha visto Sanremo e parecchie cose non gli sono piaciute: «Ma il gesto che mi ha dato più fastidio è l’atto sessuale mimato; stavo guardando in tv il Festival con i miei figli e quella scena non mi è piaciuta, è stata la cosa più volgare ma quella di cui si è parlato di meno». Volenti o meno, Fedez è uno dei personaggi più popolari della nostra società: «È molto furbo, riesce a cavalcare polemiche che gli danno visibilità e poi si trasformano in ricavi economici. Io però preferisco modelli diversi».
Metodo Fedez: deridere chi lo critica. Dopo esserci sorbiti per mesi da Fedez e compagnia cantante i sermoni sul "valore dell'inclusività", sull'importanza del "rispetto" e via dicendo, Federico Leonardo Lucia si mostra per ciò che è realmente. Francesco Giubilei su Il Giornale il 20 Febbraio 2023.
Dopo esserci sorbiti per mesi da Fedez e compagnia cantante i sermoni sul «valore dell'inclusività», sull'importanza del «rispetto» e via dicendo, Federico Leonardo Lucia si mostra per ciò che è realmente esplicitando la propria ipocrisia e volgarità. Che l'influencer milanese non fosse un campione di eleganza, era già emerso con lo spettacolino a Sanremo in cui aveva simulato un atto sessuale con Rosa Chemical ma le parole rivolte sabato sera contro il giornalista Mario Giordano (a cui va la vicinanza e solidarietà) sono qualcosa di cui vergognarsi.
Tutto nasce dall'accusa di Fedez a una giornalista della trasmissione Fuori dal Coro di indagare sulla sua sessualità chiedendo agli amici di infanzia del rapper se fosse gay. Dopo essere stato avvertito, Fedez ha chiamato la giornalista e, registrata la conversazione, ne ha condiviso alcune parti sulle sue storie di Instagram. Da qui gli insulti a Giordano: «Vi chiedo per favore: io voglio sapere se Mario Giordano ha ancora i testicoli attaccati allo scroto. Me lo domando da una vita, e se lo domandano in tanti secondo me» concludendo con un'imitazione di cattivo gusto della sua voce «Ciao Marietto, ciao Marietto».
Dopo queste accuse, è arrivata la risposta di Giordano che ha smentito l'esistenza dell'inchiesta: «Caro Fedez ti sei sbagliato. Fuori dal coro non ha mandato nessuna giornalista a fare domande sul tuo orientamento sessuale. Mi spiace deluderti ma questa settimana manderemo in onda come sempre inchieste sulla sanità, sulla sicurezza, sulle case occupate, e nessun servizio su di te. Per cui ti pregherei di rivolgere altrove le tue frasi insolenti».
Sebbene questa vicenda possa essere derubricata a una semplice lite social, è in realtà emblematica del doppio standard che caratterizza il modo di agire di Fedez e sodali: immaginiamoci cosa sarebbe accaduto se a pronunciare le sue frasi fosse stato un giornalista o un opinionista vicino al centrodestra.
Sulla diatriba è intervenuto anche il vicepremier Matteo Salvini che su Twitter ha scritto: «Gente che invoca la libertà, parla di libertà, dice di difendere la libertà e poi insulta, deride, offende. Amicizia e solidarietà a Mario Giordano, gigante nel giornalismo e nella vita». Status poi condiviso da Fedez con una foto insieme a Roberto Saviano e la didascalia «su gigante del giornalismo abbiamo riso tantissimo». Ennesima dimostrazione che nella vita si può ottenere visibilità, fare polemiche che si trasformano in soldi e diventare vip ma ci sono cose che non si possono acquistare come l'eleganza e l'educazione che rimangono sconosciute a Fedez.
Fedez il “paladino”: così si fa porta bandiera dell’odio social contro Anna Oxa. Anna Oxa ha attirato su di sé odio e violenze verbali solo perché fuori dall'ordinario. Eppure a Sanremo ha portato l'unica cosa che si chiede a un cantante: la voce. Francesca Galici su Il Giornale il 13 Febbraio 2023.
Anche questo Sanremo ce lo siamo messi alle spalle. Ha vinto Mengoni e non si può certo dire sia stata una sorpresa. Il cantante di Ronciglione era favorito fin dalla vigilia, anzi da ben prima. Una gran noia tutta questa ovvietà, che nemmeno il televoto è riuscito a ribaltare. La classifica, come nelle più radicate tradizioni sanremesi, è stata criticata e considerata sbagliata e possiamo stare qui ore a dire che Giorgia non meritava il sesto posto in classifica, ma tanto questo non cambierà. Ma c'è un elemento in quella classifica che infastidisce e spinge a fare qualche riflessione e non solo per il posto occupato ma per tutto quello che si è generato attorno alla figura dell'artista. Lei, Anna Oxa, è tornata sul palco del teatro Ariston a qualche anno di distanza ed è stata quasi "bullizzata", solo per il fatto di essere... Anna Oxa. E proprio per questo, sotto molti aspetti, ha vinto lei.
"Un'ora dietro le quinte con la Oxa". Ecco cosa c'è dietro al bicchiere-gate
Non ha indossato abiti d'alta moda, non ha sponsorizzato un brand e non ha cercato a tutti i costi il colpo di teatro di teatro. Ma sul quel palco Anna Oxa ha portato quello per il quale è stata invitata: la sua voce. La canzone può piacere o meno ma quanto subito dall'artista è deprecabile. La cattiveria attorno ad Anna Oxa ha trovato, come al solito, la sua massima espressione sui social ma ad alimentare quel clima di disprezzo attorno ad Anna Oxa si è impegnato anche il "signor Ferragni". Fedez, con una diretta successiva alla serata dei duetti, ha raccontato che l'artista è passata davanti a lui e agli Articolo 31 durante le prove.
L'ha fatto nella sua comfort zone social, perché chiedere spiegazioni personalmente ad Anna Oxa, forse, era troppo strong per lui. Meglio farlo davanti a uno schermo, anzi, meglio raccontare e "sputtanare" davanti a uno schermo, senza contraddittorio. "Ma parlarne direttamente ad Anna Oxa no, vero, Federico? Approfittiamone a giocare ai paladini, smerdando qualcuno in diretta senza nemmeno sentire ragioni", ha commentato un utente. "Fedez si è accorto che a nessuno è fregato niente delle sue barre controverse, tanto meno della sua partecipazione con gli Articolo, quindi siccome se non ha l'attenzione a tutti i costi non è contento, ha sparato sta cosa su Anna Oxa. Ma avrà fatto bene a non cagarti, Federico", è un commento social che racchiude il pensiero di molti, schifati da un simile atteggiamento.
Sanremo 2023, ecco il nostro pagellone: tutti i top e i flop del Festival
Anna Oxa è fuori dalle dinamiche social, non ha schiere di follower pronti a idolatrarla in ogni sua uscita e forse nemmeno le interessa. È andata a Sanremo per cantare, a differenza di quanti sono andati lì per aumentare i follower (citofonare Rosa Chemical, sempre in coppia con Fedez). Non è stata perfetta, non è stata impeccabile, non aveva forse una canzone che le rendesse giustizia. Ma a tutti quei ragazzini che impazziscono davanti all'ennesimo fenomeno con l'autotune, chiediamo, e vorremmo una risposta onesta, se a loro giudizio i loro idoli sarebbero capaci di duettare con il violoncello cone Anna Oxa ha fatto con la sua voce. Le cose vanno rimesse nella loro giusta dimensione: ci sono gli artisti, ci sono i cantanti, e poi ci sono gli irraggiungibili.
E tra questi c'è Anna Oxa, in compagnia di pochi eletti. Quanto subito dalla cantante in questi giorni si può riassumere con un tweet che si trova sui social: "L'astio nei suoi confronti è quello tipico degli ignoranti, che hanno portato alla morte artisti come Mia Martini. Di pessimo gusto il trattamento riservato su quel palco. Ha una voce da usignolo, delle melodie balcaniche, ideale per Eurovision 2023".
"Siete la cloaca del giornalismo". Fedez attacca Mario Giordano: “Inchiesta di ‘Fuori dal coro’ sulla mia omosessualità, fate schifo!”. Redazione su Il Riformista il 19 Febbraio 2023
Dopo la settimana ad alta tensione del Festival di Sanremo, che aveva visto Fedez – nome d’arte del cantante Federico De Lucia, marito dell’influencer imprenditrice Chiara Ferragni – protagonista assoluto con fuori programma e siparietti scabrosi, ecco che il rapper torna all’attacco: questa volta del giornalista Mario Giordano e della sua trasmissione su Rete4 “Fuori dal Coro”. Colpevoli, secondo l’accusa di Fedez, di aver lavorato a un’inchiesta sul tema: Fedez è gay?
Il cantante ha pubblicato una serie di stories in cui ha prima mostrato un pezzo registrato di una conversazione telefonica avuta con una giornalista – una presunta giornalista di “Fuori dal coro”, al momento non risultano essere emerse altre prove – e poi ha lanciato un messaggio al conduttore e al programma. Stando alla ricostruzione del cantante la giornalista della trasmissione di Rete4 stava interrogando diversi suoi amici d’infanzia chiedendo loro della sua presunta omosessualità – Fedez è sposato con Ferragni, i due hanno due bambini, Leone e Vittoria.
“Oggi ho facilitato il lavoro della giornalista d’inchiesta, una giornalista di ‘Fuori dal coro’, che ha contattato tutti i miei amici di infanzia chiedendo se io sia omosessuale, chiedendo se ho cose da nascondere. Ecco, cara giornalista, io non sono omosessuale, se lo fossi lo direi. E credo che il lavoro del giornalismo d’inchiesta mal si concili con inchieste del ca*zo tipo queste. Quindi, caro Mario Giordano, cari amici di ‘Fuori dal coro’, per me siete la cloaca del giornalismo e fate schifo al ca*zo“, ha detto senza troppi giri di parole Fedez.
“E perché mai Fuori dal coro ha la priorità di fare un’inchiesta su di me, per vedere se sono omosessuale o meno? Perché ho fatto vedere le foto dei vostri amici fascistelli vestiti da nazisti? Vi siete presi male, eh? Mario Giordanino… teste di ca*zo”, ha aggiunto facendo riferimento riferendosi alla performance andata in scena a Sanremo sulla nave Costa Smeralda, in cui ha strappato una foto del viceministro Bignami vestito da nazista.
“Mi sento veramente troppo buono oggi, perché io non posso fare e dare lezioni di morale o di coerenza a nessuno però ci metto sempre la faccia – prosegue -. E mi sembra veramente ingiusto non taggare il profilo della giornalista, però non lo faccio perché se no piangerebbe da oggi fino a che non uscirebbe il servizio. Quindi va bene così, non vedo l’ora di vedere questa grande inchiesta su Fedez e se Fedez era gay quand’era adolescente…”. Per finire anche un riferimento, un insulto a Giordano e alla sua voce.
Il giornalista ha in seguito risposto con un post nel quale ha smentito qualsiasi inchiesta di suoi giornalisti e della sua trasmissione sull’argomento. “Caro Fedez ti sei sbagliato – si legge nel post del programma-: “Fuori dal coro” non ha mandato nessuna giornalista a fare domande sul tuo orientamento sessuale. Mi spiace deluderti ma questa settimana manderemo in onda come sempre inchieste sulla sanità, sulla sicurezza, sulle case occupate, e nessun servizio su di te. Per cui ti pregherei di rivolgere altrove le tue frasi insolenti”.
"Invoca la libertà e poi insulta". Salvini asfalta Fedez. Matteo Salvini si schiera dalla parte di Mario Giordano, accusato gratuitamente da Fedez nelle ultime ore: "Parla di libertà e poi offende e insulta". Federico Garau su Il Giornale il 19 Febbraio 2023.
Tabella dei contenuti
L'attacco di Fedez
La replica di Giordano
La difesa di Salvini
Anche Matteo Salvini si schiera dalla parte di Mario Giordano dopo l'attacco gratuito subito da quest'ultimo nelle scorse ore da parte di Fedez. Il cantante aveva puntato il dito contro il conduttore di "Fuori dal coro" per il fatto che, secondo lui, un'inviata della trasmissione televisiva avrebbe tentato di ottenere informazioni sul suo orientamento sessuale facendo pressioni su alcuni amici di infanzia. Una questione, questa, che ha iniziato a conquistare sempre più spazio sul web per via di quanto accaduto a Sanremo.
L'attacco di Fedez
Fedez aveva scelto di utilizzare Instagram per lamentarsi di queste presunte ingerenze. "Una giornalista ha contattato tutti i miei amici di infanzia per chiedere se io sia gay", ha raccontato ai suoi followers il cantante tramite una Storia. "Non sono gay, non avrei problemi a dirlo se lo fossi". L'obiettivo è la trasmissione condotta da Mario Giordano. "Ho facilitato il lavoro di una giornalista di Fuori dal Coro che ha contattato tutti i miei amici di infanzia chiedendo se fossi omosessuale o se avessi cose da nascondere", ha proseguito. "Cara giornalista, non sono omosessuale. Se lo fossi, lo direi", ha aggiunto, prima di affondare il colpo direttamente contro il conduttore del programma. "Caro Mario Giordano, cari amici di Fuori dal Coro, siete la cloaca del giornalismo. Perché Fuori dal Coro ha la priorità di fare un'inchiesta su di me per vedere se sono omosessuale? Forse perché ho mostrato le foto dei vostri amici fascistelli vestiti da nazisti?", ha concluso provocatoriamente.
La replica di Giordano
Il giornalista di Mediaset, certo del fatto suo, non si è scomposto e ha rispedito al mittente le accuse rivolte a lui e alla sua trasmissione televisiva. "Caro Fedez ti sei sbagliato. Fuori dal coro non ha mandato nessuna giornalista a fare domande sul tuo orientamento sessuale", ha replicato Giordano tramite il profilo Twitter del programma di Rete 4. "Mi spiace deluderti ma questa settimana manderemo in onda come sempre inchieste sulla sanità, sulle case occupate, e nessun servizio su di te", ha aggiunto in conclusione, "per cui ti pregherei di rivolgere altrove le tue frasi insolenti".
La difesa di Salvini
Anche il vicepremier Matteo Salvini si è schierato dalla parte del giornalista. "Gente che invoca la libertà, parla di libertà, dice di difendere la libertà e poi insulta, deride, offende", ha scritto il ministro dei Trasporti in un post su Facebook. "Amicizia e solidarietà a Mario Giordano, gigante nel giornalismo e nella vita", ha concluso.
Solidarietà nei confronti di Giordano è stata espressa anche sotto il messaggio di Salvini."Grande Mario Giordano che seguo sempre con molto piacere!", commenta un follower. "Caro Signor Giordano, ogni occasione per Fedez è motivo di pubblicità. A volte dimentica che la vita è fatta di problemi da cui lui è fuori, per cui il suo orientamento sessuale è lontano dalle menti di molti italiani", replica un altro intarnauta."Grande Giordano. Parlare di un simil deludente, per non dire peggio, personaggio è solo farlo esistere. È meglio ignorarlo per farlo scomparire", considera un utente.
Estratto dell’articolo di Ottavio Cappellani per “La Sicilia” il 19 febbraio 2023.
[…] Quello che sta accadendo ai Ferragnez è tanto vero quanto inaspettato. Gli occhi da pazza della Ferragni dopo il “tradimento” (perché di questo si tratta, di un “tradimento” dell’uomo con un altro uomo in diretta televisiva), gli occhi lucidi di Fedez, la crisi della coppia.
Chi parla di operazione di marketing non sa che la vita a volte supera la narrazione perché è la narrazione che imita la vita, non il contrario.
Certo, gli sceneggiatori di Prime Video si stanno ritrovando tra le mani un regalo piovuto dal cielo: la perfezione di un racconto che non permetterebbe alcuna identificazione se non ci fosse questo momento di crisi, come c’è e come deve esserci in un qualsiasi romanzo rosa, che è il “gender” al quale appartengono i due come narrazione di genere.
E’ una vera crisi di coppia. Anche se fosse dettata, come sostengono alcuni, dal sorpasso di popolarità di Fedez nei confronti della Ferragni, che cambia?
Nella vita vera non esistono coniugi in competizione? Nella narrazione classica interveniva il “deus ex machina” a risolvere lo stallo.
Oggi siamo più smagati e il “deus” va nascosto tra le righe delle nostre azioni.
Che si tratti di sceneggiata” non toglie alcuna “verità” a questa meravigliosa narrazione. Bravi! (Speriamo lo siano altrettanto gli sceneggiatori).
La super manager del nulla che s'è presa tutto. Anche la Rai. Influencer, imprenditrice, brand vivente: è l'indiscussa numero 1. Non sa presentare, né cantare, né recitare: perfetta per Sanremo. Luigi Mascheroni il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Quando la Mattel annunciò di voler produrre una versione della bambola-icona a sua immagine, Chiara Ferragni, dopo aver fatto un post, esultò: «Sono una Barbie, il mio sogno da bambina è diventato realtà». Il fascino irresistibile di un blondismo leggendario. Da fashion doll a fashion blogger è un Instagram.
Ventotto milioni e mezzo di follower, 35 anni, 27 tatuaggi, una carriera imprenditoriale che inizia come Diavoletta87 su Flickr, preistoria del web, passa nel 2009 da un fortunatissimo blog di insalata mista e arriva alla Business School di Harvard come case study; già «l'influencer di moda più importante al mondo» per Forbes, tre aziende e un impero economico da 40 milioni di euro, testimonial di vari marchi (cosmetici, gioielli, intimissimi...), un guadagno medio secondo calcoli recenti di 82mila dollari a post sponsorizzato, un film-biopic, una docuserie su Amazon Prime, una crew di assistenti, truccatori e fotografi, due sorelle, le celebrities minori, una madre ex venditrice di campionari Blumarine oggi blogger anche lei, e persino scrittrice, Wow! tre bambini da accudire - Leone Lucia, quattro anni; Vittoria Lucia, due anni, Federico Leonardo Lucia, 33 anni, detto Fedez - una vita vissuta allo specchio (domanda: ma qual è il discrimen fra esibizionismo e pornografia nello sfoggiare in rete gli affetti privati?), Chiara Ferragni, da Cremona - Turòon, Turàs e Tetàs - sul puro piano del successo è inattaccabile. Ogni sua mossa, da anni, è un'epic win. Chi più di lei?
Non è laureata in nulla, ma studiata nelle università, bocconiana fallita ma vale più di una legione di top manager, è una fashion blogger, influencer, brand ambassador, stilista, digital businesswoman, è lei stessa un brand, capofamiglia di una factory così potente che prima ha contestato la Rai, oggi se l'è presa, una golden goose, una modella e un modello della social-sfera. C'è qualcuno che non vorrebbe essere lei?
Un dubbio, però: chi sarebbe Chiara Ferragni se domani Mark Zuckerberg cancellasse il suo profilo Instagram?
Poi, è vero: come dice una nostra elegantissima collega giornalista, «Quando mi sento un po' giù, penso che ci sono donne che hanno come icona di stile la Ferragni». Front row, chiappe al vento, rossetti glitterati, filantropia, buone cau$e, promoter del mondo LGBTQ e Versace latex leggings. Odiata dalle altre influencer, è la più amata dagli haters. Motto latino per #rosiconi: «Invidiam ferre aut fortis aut felix potest», Publilio Siro. «L'invidia può sopportarla solo chi è forte o felice».
Forte di milioni di fan, felice di una vita da favola incorniciata in un display, Chiara Ferragni, detta Ferry, che si porta la camomilla Bonomelli a Sanremo per placare l'ansia, oggi è la vedette del festival: sarà lei a postare la prima e l'ultima serata, taggando magari Amadeus. Non sa cantare, non sa presentare, non sa ballare, non sa recitare e a parte quelle di Instagram non ha mai fatto una diretta. Perfetta per l'Ariston. Pensate: avremo non uno, ma ben due monologhi della Ferragni. Uno sarà riparatorio, su #EmanuelaOrlandi; l'altro? Azzardiamo: o contro la violenza sulle donne (applausi, ndr), oppure sul tema «Io non volevo diventare famosa». Ha già messo gli hashtag avanti con i suoi follower: «Ho paura di non essere all'altezza». Non preoccuparti, Chiara. È il festival che farà fatica a stare al tuo livello. L'influencer si valuta su chi esercita la propria influenza. Il termometro, oggi, è la platea di Sanremo: ascolto medio dell'ultima edizione, 11 milioni di spettatori. Che sono un terzo dei tuoi follower.
Buoni motivi per guardare Sanremo 2023, oltre la Ferragni: è un programma che di solito non tira mai tardi; non è noioso; al quarto anno Amadeus saprà di nuovo sorprenderci; interverrà Zelensky, e poi ci sarà anche Fedez. Olé!
Uno dei pochi casi in Italia per cui una donna famosa non è «la moglie di», ma è il compagno «il marito della», Chiara Ferragni, raro esempio in cui lavoro e vacanza coincidono - la vita come un reality h24 che secerne post, tweet, foto, streaming, clic, scandali, indignazione è anche la più brava di tutti a usare qualsiasi cosa come materiale narrativo. Il matrimonio, un compleanno, le malattie, la nascita dei figli, i cuoricini a Beppe Sala, quelli sulle tettine. Come ha detto Giampiero Mughini: «Gli intellettuali non sanno più raccontare il nostro tempo, solo Chiara Ferragni ne è capace».
Un guardaroba personale che trabocca di smalti, collanine, orrende ciabattine, borse, borsette («la mia prima Speedy Bag di Louis Vuitton, indimenticabile!!!!»), stivali di plastica e magliette con la scritta We should all be feminists (ma anche no), la Ferragniz sponsorizza collant velati e culotte, gli Uffizi, pandori griffati, il Memoriale della Shoah, bottigliette d'acqua liscia a otto euro, il DdlZan, il concertone del Primo maggio. Tra Bella ciao e il Versace Fashion Show non c'è differenza.
E così, assurta a leader naturale delle partigiane in paillettes da influencer di moda a promoter del Pd basta rifarsi l'account, dal Consiglio di amministrazione di Tod's alle Brigate Bulgari dei diritti civili è sufficiente un like testimonial di se stessa, designer di qualsiasi cosa e icona dell'italianità nel mondo (una volta il cognome nazionale più famoso all'estero era Ferrari, pensa te), Chiara Ferragni incarna il concetto stesso di invidia sociale. Carisma e Dior. Bella, ricca, intelligente, furba, creativa, preparata e progressista che promuove i valori democratici, egualitari e solidaristici... Difficile non ammirarla. «Ma quanto siamo cute?!?». Emoji.
Stories della vita di Chiara Ferragni da salvare. Quando frequentava il liceo Daniele Manin a Cremona e già alcuni compagni la amavano, letteralmente, e altri però non la sopportavano, «e la stessa cosa valeva per noi professori. Per alcuni era intelligente, sveglia e dalle idee rivoluzionarie. Per altri tutto fumo e niente arrosto». Quando Piero Chiambretti, e non glielo perdoneremo mai, la invitò in trasmissione, 2010, e da lì fu il boom. Quando, di recente, è spuntata una vecchia foto di Chiara Ferragni a un evento dei giovani del Popolo della Libertà, e meno male che Silvio c'era. Quando poi è diventata la Chiara Kuliscioff della sinistra massimalista milanese, diritti dei lavoratori e luxury Penthouse Libeskind a Citylife. Quando noleggiò un elicottero per un aperitivo su un ghiacciaio in Svizzera, e la sua amica Greta ebbe un malore. Quando Matteo Salvini mandò a letto la piccola Chiara rimboccandole le coperte: «Ferragni sta tranquilla, non aboliremo la 194». Quando Chiara Ferragni disse ai suoi follower di votare per non fare nascere «il governo ideologicamente più estremista di tutta la storia della Repubblica», ma solo lo zerovirgola del suo Instagram le diede retta. Perché i giovani adoreranno anche i Ferragnez, ma poi scelgono la Melogniz.
E per il resto, come fece a tempo a scrivere il compianto Gianni Mura - che non era neanche su Facebook - il giorno che lesse del matrimonio tra il rapper Fedez e l'influencer Ferragni: «Rapper e influencer, due mestieri che un tempo non esistevano e di cui non si sentiva la mancanza». Parlemm del folber, che l'è mèj.
Estratto dell’articolo di Carola Uber per “Chi” il 22 gennaio 2023.
«Oggi andiamo a fare una cosa molto bella, ma non so se posso dirvela»: esordiva così Fedez in una diretta mattutina su Instagram di qualche giorno fa. «Ferri, posso dire cosa?», chiede alla moglie Chiara Ferragni. E lei, tassativa: «No!».
A svelare il segreto sono le immagini che vi mostriamo in queste pagine, in cui si vedono i Ferragnez in gita sul Lago di Como: è il loro posto del cuore, quello dove da anni sognano di acquistare una casa e dove tornano spesso, ospiti di alberghi e dimore da favola (vedi il Grand Hotel Tremezzo o Villa Bonomi).
Ma questa volta non è lì che si sono diretti, bensì a una villa sulla sponda orientale del lago, di cui avrebbero già concluso l'acquisto: 900 metri quadrati su due piani (più uno interrato), parco, piscina e spa. Valore totale, pare, intorno ai 5 milioni di euro, esclusa ristrutturazione (in corso). Vi hanno fatto visita accompagnati da Filippo Fiora, architetto e designer amico di Chiara, e altri consulenti. […]
L’incomprensibile entusiasmo del Pd per la Ferragni. Chiara Ferragni ha annunciato in pompa magna di donare il compenso di Sanremo per le donne ma pare non voglia condividere con le altre protagoniste la ribalta. Francesca Galici il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Chiara Ferragni devolverà l'intero cachet del festival di Sanremo in beneficenza per un'associazione in difesa delle donne. "Ha fatto metà del suo dovere", direbbe qualcuno. Per annunciare questo slancio benefico non si è limitata ad aspettare che la stampa che se ne accorgesse, perché tanto se ne è accorta, ha indetto niente meno che una conferenza stampa. Ora, al di là del fatto che la solidarietà sia sempre un gesto ben accetto, e ci mancherebbe, è tutto il contorno a risultare stucchevole e inutilmente laudatorio.
Partendo dal presupposto che la donazione a fini benefici è il minimo che Chiara Ferragni potesse fare, considerando anche il fatto che il suo cachet è frutto anche delle tasse pagate dagli italiani e che a lei quei soldi non cambiano certo la vita (o il conto in banca), perché il Pd ha sentito il dovere di consumare tutta la saliva per sperticarsi in elogi all'influencer?
Attenzione, il Pd ma anche il Movimento 5 stelle, perché sia mai che gli esponenti dell'uno o dell'altro partito non si mettessero in mostra con l'imprenditrice digitale. Prima di Chiara Ferragni ci sono stati tantissimi altri ospiti che hanno deciso di devolvere il loro compenso, talvolta ben più sostanzioso, a enti benefici. C'è chi ha scelto addirittura di andare gratis, senza per questo indire conferenze stampa per annunciarlo. Dov'erano in quel momento Laura Boldrini, Stefano Bonaccini, Alessandra Moretti e tutti quelli che oggi fanno a gara per tessere le migliori lodi a Chiara Ferragni?
Difficile commentare la figura barbina della sinistra italiana, prostrata ai piedi di un'influencer solo perché questa con i suoi milioni di follower può loro dare visibilità. Ed è inutile anche commentare il basso livello di questa sinistra, che ha bisogno di un'influencer per riconquistare il favore degli elettori, non avendo più idee da spendere.
Su Chiara Ferragni c'è poco da dire. Il protagonismo assoluto non è una novità per lei ma almeno un po' di coerenza ce la si aspetta. Perché se ti presenti in conferenza stampa con una maglia con su scritto "girls supporting girls" e il giorno dopo esce fuori che non vuoi fare le foto di gruppo con le altre co-conduttrici del Festival ma pretendi di farle da sola... Beh, allora è davvero inutile qualunque altra parola.
Ferzan Ozpetek.
Estratto dell’articolo di Stefania Ulivi per il “Corriere della Sera – Sette” sabato 14 ottobre 2023.
Quando arrivò a Roma, diciassettenne, per seguire la sua passione, in città i cinema erano almeno il doppio rispetto a oggi: si poteva fare indigestione di film, quasi a ogni ora, di prima, seconda, terza visione, d’essai. Era la fine degli Anni 70, le sale erano luoghi di ritrovo in cui nascevano legami diversi, destinati a durare o a bruciarsi nel giro di un cambio di rullo di pellicola sul proiettore.
Di quel mondo e di tutto quello che si muoveva dentro e intorno, Ferzan Ozpetek ha una grande nostalgia, a cui ha voluto dare una forma nel suo quattordicesimo film, Nuovo Olimpo, il primo a uscire direttamente in piattaforma, il 1° novembre su Netflix, dopo l’anteprima alla XVIII Festa di Roma. […]
Sembra che qui abbia voluto giocare molto liberamente con le sue passioni, la sua biografia, i miti e le ossessioni pubbliche e private. Giusto?
«Alla base di tutto c’è una vicenda che mi è successa davvero in quei miei primi anni romani. Un incontro mancato, ci aspettavamo in due luoghi diversi. Da tempo lo volevo usare come spunto, così come, pur avendo sempre dato molta rilevanza ai sentimenti non avevo mai raccontato una vera e propria storia d’amore, più interessato a storie corali. Però scrivendo con Gianni mi sono reso conto che parlando di Enea e Pietro, quei miei ricordi si mescolano a quelli di altri. Ne è uscito un film sulla memoria come unica fedeltà possibile». […]
Si è divertito a autocitarsi nella scena in cui Enea, regista di successo, in un incontro con il pubblico risponde alla domanda: perché sempre gay nei suoi film? A cui replica: “Non metto l’omosessualità, sono gli altri che la tolgono”.
«Con il senno di poi, credo di aver precorso i tempi. Ho sempre raccontato la vita com’è. Fin dai tempi de Il bagno turco che fece scandalo ma andò benissimo».
In Nuovo Olimpo ci sono scene di sesso tra Enea e Pietro molto esplicite.
«Anche qui con grande naturalezza, e attenzione per gli attori che avevano chiaro che stavano interpretando dei personaggi. Come anche Enea e Alice. Non è una forzatura io facevo sesso con la mia amica, andavamo al cinema, poi scappavamo a casa, e io le parlavo del ragazzo che avevo incontrato».
Vuol dire che si era più liberi nel 1978?
«Per tanti versi sì. Era molto più facile conoscere le persone, al bar, al cinema, si organizzavano cene all’ultimo momento, un piatto di pasta al sugo e tu magari portavi una bottiglia di rosé Mateus. Nascevano amicizie. Anche lasciate al caso: non c’erano i telefonini, a volte era impossibile ritrovare qualcuno.
Non c’erano i gay bar oppure le chat. Anche i cinema erano luoghi di incontro. Mi piaceva molto perché vedevo il film, poi rimanevo a rivederlo e magari ti poteva capitare di rimorchiare. Io all’epoca avevo una fidanzata, appunto, uscivo con lei e le raccontavo del mio incontro con qualche ragazzo. Si mescolavano molto i rapporti, senza preoccuparsi di dare definizioni precise».
Oggi si parlerebbe di fluidità.
«Allora la vita era così, si sperimentava, si coglieva l’attimo. Non stavi a dire io sono bisessuale. Era una mentalità aperta che poi è cambiata con l’arrivo dell’Hiv, quando si è chiuso tutto».
Tra gli omaggi c’è anche quello a Anna Magnani.
«Un’attrice che amo moltissimo. Solo un caso che capiti nel cinquantesimo anno dalla scomparsa, non era detto che sarebbe uscito proprio adesso. Mostro due film suoi, Mamma Roma e Nella città l’inferno, l’avrò visto almeno 30 volte. È una presenza viva per me».
Lei sembra capace di far convivere i vivi e i morti.
«Esatto. Io vivo tra di chi c’è e chi non c’è più. Mi vengono in mente tutte le persone che ho perso in questi anni, sento la perdita ma anche la presenza, le porto sempre con me».
Il film sarà dal 1° novembre su Netflix che dal 15 ottobre propone molti suoi film, compresi i tre nuovi cortometraggi della Istanbul Trilogy. Un paradosso per un film che celebra la meraviglia della sala.
«È la prima volta che mi capita e sono onorato che prima passi alla Festa di Roma. È una strana sensazione anche molto bella, nel senso che l’idea di uscire contemporaneamente in 190 Paesi, dalla Thailandia all’ Australia, è una bella soddisfazione».
[…] Continua a andare al cinema?
«Sempre. Ho amato Io capitano di Matteo Garrone, l’ho trovato molto forte, così come Green Border di Agnieszka Holland. Viviamo in un mondo in fase di grande confusione e cambiamenti, questi film raccontano in modo diverso una realtà: l’immigrazione non si può fermare. I processi umani vanno governati non negati».
Ficarra e Picone.
Ficarra e Picone: «Il nostro Dio, figo e evoluto, spedisce sulla Terra un angelo maldestro che...» Il Corriere della Sera martedì 5 dicembre 2023.
«Il nostro Dio è figo e evoluto, è leggero, mi piace e spero che Lui, lassù, somigli a quello che raccontiamo noi», dice Valentino Picone, provocando il sorriso complice di Salvo Ficarra. Fanno coppia da trent’anni, il 14 esce in oltre 600 copie per Medusa il loro ottavo film, Santocielo di Francesco Amato. La ricetta è la stessa, comicità caustica ma gentile, tocco delicato e niente parolacce. Stavolta non si rovesciano gli stereotipi sui siciliani ma i pregiudizi di tutti. Lo spunto è Dio (Giovanni Storti: «Un ruolo che non si può rifiutare»>) che si cruccia del genere umano, le guerre, l’avidità, l’egoismo, la crudeltà, e deve decidere se far finire il mondo con un secondo Diluvio universale o mandare un altro Messia per salvarlo. Messo ai voti nel Parlamento del Paradiso, si spedisce un angelo (valentino con parrucchino biondo alla Nino D’Angelo) col compito di insufflare il seme divino nel grembo di una nuova Madonna per far nascere il Salvatore. Solo che qualcosa va storto. E incinto si ritrova un uomo, Salvo, vicepreside messinese bigotto e maschilista: «A uno così maschilista capita di vivere l’esperienza più forte che una donna possa vivere». L’idea dell’uomo col pancione fu già portata sullo schermo da Mastroianni («Niente di grave suo marito è incinto»), che dai Nostri è stato «visto e rivisto ma l’affrontiamo in modo diverso», e da Schwarzenegger («Junior»). «Poteva sembrare un’idea blasfema e provocatoria – dice Salvo - invece sembra quasi naturale». Ci sono due personaggi femminili azzeccati, la suora di Maria Chiara Giannetta che darà un casto bacio all’angelo Picone («io da non credente dico che la fede è credere senza avere un riscontro, e pazienza se Dio non ascolta le preghiere»), e Barbara Ronchi, l’ex moglie di Salvo, la psicoanalista che non ne combina una giustasul lavoro, e che scopre «che ci si può voler bene anche da separati». I temi sono importanti: l’accoglienza, la famiglia che è dove c’è sentimento e l’amore che non ha bisogno di regole, la preghiera che non fa sentire soli, lo sguardo femminista che permette al mio preside di evolversi. Il regista sottolinea venature di umorismo ebraico «nell’attinenza di argomenti come la psicoanalisi, il gusto di misurarsi sui temi teologici con leggerezza, l’autoironia sulle cose che ci fanno soffrire». Valerio Cappelli
Filippa Lagerbäck e Daniele Bossari.
Filippa Lagerbäck: «Famosa per una birra. Daniele Bossari? Mi ha messo più in difficoltà la depressione del tumore». Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera lunedì 28 agosto 2023
La conduttrice scandinava: «Amo Bossari, non capii il suo disagio. Mi sento italiana in Svezia e svedese in Italia»
Filippa Lagerbäck, si sente italiana o svedese?
«Italiana in Svezia e svedese in Italia. Gli italiani sono un po’ permalosi, ma hanno passione e gioia, doti che a noi del nord Europa mancano. È anche per questo che sono venuta qui, scoprendo che c’era curiosità verso di me: per strada volavano complimenti e fischi. Pensavo: che cosa vogliono? In Svezia nessuno ti dice nulla».
Papà psicologo, mamma medico: una famiglia «seriosa».
«Un disastro (risata). Mamma viene da una famiglia strutturata ed è rigida. Ho cominciato a fare la modella dopo il liceo, ma lei mi voleva subito all’università. Invece mi sono presa un anno sabbatico per provare a fare fortuna: ecco, sono ancora nel mio anno sabbatico…».
Di carattere è più simile al papà o alla mamma?
«Probabilmente a mia madre, donna attiva e amante della natura. I genitori hanno divorziato quando avevo pochi mesi: sono quindi cresciuta in una famiglia divisa e questo faceva sì che mamma, con la quale vivevo, imponesse le regole. Invece con papà, che vedevo soprattutto in vacanza, potevo essere più aperta».
In Italia è venuta grazie alla pubblicità della birra Peroni. All’epoca lo spot con la tedesca Solvi Stübing irritò le femministe.
«Davvero? Incredibile... Per me è stato un biglietto da visita, oltre che il simbolo della storia con mio marito: Daniele voleva “quella bionda per la vita”. Comunque all’estero la figura di una modella non era così enfatizzata».
Lei è femminista?
«Amo l’universo femminile e sono fortunata ad essere nata in un Paese nel quale la donna è molto libera. È fondamentale ribadire che uomo e donna devono essere sullo stesso piano: c’è ancora strada da fare, ma non si va avanti cambiando “avvocato” in “avvocata”; di recente è poi montato un polverone che non condivido. Quando Stella era piccola mi chiedevano: Daniele ti aiuta? Io andavo fuori di testa. Aiuta chi? Aiuta sé stesso e la famiglia».
Nel cinema ha debuttato nel 1996 con «Silenzio… si nasce». La critica non è stata molto tenera. Con il film, non con lei.
«Mi è bastato così, ma è stata un’esperienza utile. Ho però capito che il cinema non è per me».
Con Fiorello ha fatto «Superboll» su Canale 5.
«Rosario decise per la diretta, ma non andò come pensavo. Per lui è stato un periodo un po’ sfortunato, poi ha trovato la strada giusta. È un grande e lo adoro».
Filippa Lagerbäck si lega a filo doppio con «Che tempo che fa». Ma la trasmissione non andrà più sulla Rai e passa a Nove. Lei alla fine ha annunciato che seguirà Fabio Fazio e Luciana Littizzetto.
«Prendo questa situazione come un’opportunità: sono contenta di intraprendere una strada nuova con l’altra mia famiglia, quella televisiva di Fabio e Luciana. Il programma dura da 20 anni, io sono coinvolta da 18: sono… maggiorenne. Noi tre, poi, ci sosteniamo a vicenda: non ci vediamo molto al di fuori della trasmissione, ma forse è il segreto per cui è tanto che stiamo assieme».
F abio Fazio e Rosario Fiorello: mettiamoli a confronto.
«Rosario è un mattatore imprevedibile. Fabio, oltre ad avere la battuta pronta, è preparato in modo incredibile su più temi. Lo ammiro e gli dico grazie».
Quale altre trasmissioni le sono nel cuore?
«Sono affezionata anche ai programmi di cicloturismo. La bici è il simbolo della mia libertà, ma non immaginavo di proporre in Tv la scoperta del territorio. Ricordo poi “Controvento”: sul caicco ospitavo artisti che cantavano dal vivo».
Lei è stata a Sanremo come «proclamatrice».
«Sempre a fianco di Fazio. Mi vedrei come conduttrice? Non tutti sognano quel palco e io non voglio essere a tutti i costi una primadonna».
Ha fatto programmi pure nel suo Paese: possiamo definirla la Carrà della Svezia? Raffaella era un’italiana diventata famosa in Spagna, lei una svedese affermatasi in Italia.
«Raffaella era impareggiabile. Io, comunque, rifuggo dai confronti: non sgomito, voglio essere quella che posso essere».
Pregi e difetti: ce li descrive?
«La pazienza è la mia dote migliore. Il difettuccio? Posso diventare comandona».
È vero che ha una gamba più corta dell’altra?
«È un’esagerazione da smentire. Tanti hanno una differenza di qualche millimetro tra i due arti e un ortopedico – lo dissi in un’intervista – mi segnalò la mia, avvisandomi che avrei potuto avere qualche guaio con la schiena. Ma sto benissimo e non ho alcun problema».
Come vive i 50 anni in arrivo?
«Eccola qua la domandona: pum!! I 40 anni non mi hanno toccato, invece i 50 sono tosti: fai un bilancio e pensi al futuro. Qual è la mia analisi? Regalare del tempo a chi ami è la cosa migliore».
Dopo una certa età alcune donne pensano al chirurgo estetico...
«È la pressione della società che spinge a certe scelte. Contano anche le frasi: l’affascinante cinquantenne; è ancora una bella donna; sessant’anni, ma non li dimostra. Che palle!! Non si sente mai dire lo stesso sugli uomini. La mia idea? Bisogna saper invecchiare con dignità».
Anche Michelle Hunzinker cominciò con la pubblicità, quella famosa del «lato B» e degli slip di Roberta. Lei avrebbe accettato?
«Devi anche avere “attributi” giusti per poterla fare: quel dettaglio non era il mio forte. Tornando a Michelle, mi piace perché è solare e sa essere sempre al top».
Come vede le ragazze di oggi?
«Sono omologate: tutte vogliono avere nasino, sopracciglia e bocche uguali. È la ricerca di una perfezione non raggiungibile: non è così che si sta bene con sé stessi».
Lei coltiva la terapia del sorriso.
«Sorridere è meraviglioso. Mia nonna mi diceva di farlo: non mi voleva con la frangetta lunga, dovevo far vedere le sopracciglia che si inarcano quando sorridi. Regalare un sorriso ha l’effetto dei cerchi sull’acqua: la magia si allarga».
Filippa, una donna «positiva».
«Non entro mai nel loop della negatività. Se passeggio, guardo il palazzo bello e non quello brutto. Cerco poi di dare input senza regole: il gna-gna-gna non mi va, la carota è più efficace del bastone».
È vero che era timida?
«Fino a 25 anni non parlavo con nessuno. Ma con gli amici o in famiglia facevo il clown, trasformando la timidezza in comicità. All’inizio sul lavoro mi sentivo inadeguata: temevo arrivasse la fatidica frase “ci siamo sbagliati, non hai alcuna possibilità”».
La Filippa moglie, la Filippa mamma.
«La famiglia è al primo posto e sono una mamma presente. Spero di non essere stata ingombrante, ma me lo dovrà dire mia figlia. Ho puntato ad ascoltarla anziché imporre la presunta ricetta giusta».
Le vicende difficili di suo marito, Daniele Bossari, che cosa le hanno insegnato?
«Ha avuto due travagli duri. Nel secondo, legato al tumore alla lingua, è stato più facile aiutarlo perché potevo essere più concreta nell’assisterlo. Invece durante la depressione lo scenario era complicato».
Ha detto di non aver capito il suo disagio.
«La sofferenza mentale è complessa, non hai terapie pronto uso. Non capire mi faceva sentire come se non appartenessimo più alla nostra vita. Ho anche pensato di avere la chiave della felicità. Ma se l’avessi posseduta non avrebbe funzionato nella sua “serratura”: era lui che doveva trovare le risposte giuste».
Siete personaggi dello spettacolo: a casa quanto parlate di lavoro e quanto d’altro?
«Detto che non siamo molto mondani, parliamo di tante cose. Daniele ha interessi differenti dai miei: ama libri, musica, astronomia, minerali. E si domanda: perché siamo qui? Qual è il nostro destino? Io invece risolvo questioni pratiche: che cosa mangiamo oggi? Che cosa facciamo nel week end? La diversità genera equilibrio».
Quanto è donna di casa?
«Tanto. Quando ero modella a Parigi mangiavo il merluzzo impanato già pronto o i ravioli in scatola; dopo ho imparato a cucinare e dato che Daniele è celiaco ho una sfida in più. La casa mi piace molto: è la tana nella quale rifugiarmi. Infine, non sono attaccata alle cose: quindi amo cambiare arredamento».
Lei è una spendacciona?
«Il giusto. Amo la moda, le tappezzerie, i mobili vintage e il modernariato. Preferisco però desiderare una cosa e non esaudire subito la “voglia”, seguendo il motto di mamma, “risparmiare in piccolo per spendere in grande”. Mi piace poi riciclare gli abiti, passandoli alle amiche, oppure donarli. Ogni anno regalo vestiti a un negozio di Varese: gli oggetti possono avere più vite».
Aveva un fidanzato svizzero al quale ha lasciato mobili e altro.
«Pure barche e auto. Ripeto: non sono attaccata agli oggetti. Ho voluto coltivare l’amore per Daniele, ma non era giusto sradicare lui dalla realtà creata insieme. Quindi ho portato via solo i ricordi di mia nonna».
Si guarda all’ecologia e in prima linea c’è la svedese Greta Turnberg. Ma non crede che sia stata anche strumentalizzata?
«Greta è pura. Però magari c’è chi la usa. Questo non cambia il giudizio: ha dato un input a una generazione e l’ha cambiata».
Le danno la possibilità di modificare un aspetto dell’Italia: qual è la sua priorità?
«Mi piacerebbe fare rete e battere il campanilismo. Bisogna poi essere fieri del proprio Paese e quest’idea qui un po’ manca: ma amo l’Italia e il suo popolo».
Filippa Lagerbäck è una funambola della vita?
«La definizione mi piace. E cerco di non cadere dalla fune».
Filippa Lagerbäck e la malattia del marito Daniele Bossari: «L'abbiamo affrontata tenendoci per mano». Simona De Ciero su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.
La conduttrice televisiva svedese (naturalizzata italiana) è madrina alla cena benefica organizzata da Fondazione Umberto Veronesi a Stupinigi
La conduttrice televisiva svedese (naturalizzata italiana) Filippa Lagerbäck sarà madrina (il 10 maggio) alla cena benefica organizzata da Fondazione Umberto Veronesi a Stupinigi.
Filippa, bentornata in città. Per lei Torino è come casa.
«Sì è vero. La città è adorabile e mi ricorda molto la Francia, ma i torinesi, invece, sono proprio come noi svedesi: riservati, gentili, discreti».
Viene spesso in città?
«Sì, ma sempre troppo di corsa. Non posso fare a meno di notare, però, quanto Torino sia cambiata nel tempo».
In meglio?
«Decisamente. Dieci anni fa, qui, ho girato anche una puntata del mio programma “in bici con Filippa”. Allora c’erano pochissime biciclette in strada mentre oggi il centro è un’onda di bici che si muovono. Merito anche della comunicazione, capace di sensibilizzare sul tema green».
«Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo», insomma…
«Esatto. Ognuno può e deve impegnarsi per migliorare il mondo in cui viviamo. Non ci sono scuse».
Per questo è testimonial di Fondazione Veronesi? E di altre che lottano contro i tumori e fanno prevenzione?
«Penso che ogni personaggio noto dovrebbe spendere parte del suo tempo per sensibilizzare su temi così importanti. Umberto Veronesi e suo figlio Paolo sono di casa da noi a “Che tempo che fa”. Li conosco bene e so quanto sia seria la Fondazione. E come aiuti chi vive nonostante il cancro».
Malattia che ha colpito anche suo marito Daniele Bossari. Come sta adesso?
«È in fase di follow up ma, si sa, prima che un paziente oncologico senta pronunciare la frase “guarito definitivamente” passano anni».
Come avete affrontato un periodo così difficile?
«Tenendoci per mano. Quando la tempesta incalza, si lotta meglio in due. Perché l’amore dà forza. Ovvio, le crisi ci sono state. Siamo umani e la paura è ineludibile anche per me».
Non è solita avere paura?
«Sono un’ottimista cronica e anche durante la fase più acuta della malattia di Daniele non ho mai pensato al peggio. Ho fatto ciò che era giusto. Ci siamo affidati alla scienza e abbiamo fatto come quello che suggerivano i medici».
Ovvero?
«Vivere a pieno e giorno per giorno, facendo progetti per il futuro. “Voi pensate a star bene che al resto pensiamo noi” ci hanno detto. Sono molto grata per questo approccio. E sono altrettanto grata a eventi come quello di questa sera, indispensabili per la ricerca scientifica».
Spesso però il cancro è ancora un tabù.
«E non dovrebbe. Vogliamo essere sostenuti da amici e parenti quando siamo in crisi? Allora non dobbiamo vergognarci di una cosa tanto devastante come la malattia. Parliamone, diamo modo a chi ci vuol bene di starci vicino».
Gira voce che Fabio Fazio sia in uscita dalla Rai. E lei?
«Di questo si chieda conto a Fabio. Quello che posso dire è che la nostra è una collaborazione-amicizia consolidata da quasi un ventennio. E al di là del canale».
Daniele Bossari: «Le cure per il tumore sono state belle invasive. La depressione? Una fiammellina: resta sempre lì». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023
Il conduttore si racconta a tutto tondo, soffermandosi molto sul rapporto con la moglie
«Quando arriva la diagnosi ti tremano le gambe». E, a Daniele Bossari, l’anno scorso sono tremate. Cancro. Un carcinoma alla base della lingua. Per affrontarlo, il conduttore ha dovuto sottoporsi a pesanti cure. «Oggi sai che la scienza ti dà più possibilità di guarigione, ma all’inizio mi sembrava di vivere in un incubo, si disintegrano tutte le certezze. Il primo risultato è la distruzione dell’ego: di colpo non puoi fare niente se non affidarti agli altri». E gli altri, per lui, ci sono stati. «Ho ricevuto l’amore immediato di Filippa (Lagerbäck, sua moglie da cinque anni e compagna di vita da 22), ma anche della mia famiglia, che ho sentito ancora più vicina: mio padre, che era da sempre un esempio di forza, un uomo tutto d’un pezzo, impostazione rigida, una carriera militare, non faceva che ripetermi “ti voglio bene”. Mia mamma pregava. Trovo affascinante notare come in queste tempeste si cerchi sempre un aiuto trascendentale».
Lo ha fatto anche lei?
«Io mi sono affidato completamente alla scienza per il corpo ma non ho chiuso la speranza metafisica. Ho pregato anche io, come mia mamma, e mi sono rifugiato nell’amore. Dopo le cure, che sono state belle invasive, ho deciso di raccontare questa esperienza che avevo tenuto riservata con il pensiero che potesse fare bene ad altri, visto che anche io ero alla costante ricerca di altre esperienze simili da leggere».
Ora come sta?
«Sto bene, sono in una fase molto bella, produttiva. Ho voglia di solarità, di vita e amore: sto esplorando la sua potenza a livello universale. E ho sperimentato una interconnessione profonda con l’universo; mi fa ridimensionare i problemi e le arrabbiature: scivola tutto più velocemente. Intervisto ricercatori, scienziati ma con consapevolezza diversa rispetto al passato».
Il suo interesse per la spiritualità e l’esoterismo ha, in realtà, radici lontane.
«La mia ricerca è cominciata guardando il cielo d’estate, in riva al mare, da ragazzino. Mi ero fatto le classiche domande ancestrali: chi siamo, da dove veniamo. Volevo cercare di raggiugnere una consapevolezza circa la nostra posizione nell’universo e quindi avevo iniziato a leggere testi di astronomia, ma non mi bastava. Ho virato sui testi esoterici, sulla filosofia, sull’antroposofia, cercando anche di fare uno studio parallelo delle religioni. Fino a quando ho incontrato una figura molto importante, Franco Battiato».
Cosa ha rappresentato per lei?
«In lui ho trovato un maestro, anche se non amava farsi chiamare così. Ma nel mio caso lo era. Facevo meditazione in maniera selvaggia, come diceva. Lui mi ha insegnato le tecniche, gli esercizi di respirazione e di consapevolezza che faccio ancora oggi: danno dei picchi di benessere e ti fanno capire che non siamo che piccoli granelli di sabbia nell’universo».
Come vi eravate conosciuti?
«Nel 2007: lui era in promozione con un suo disco ed era venuto in radio, dove lavoravo. Io ero abbastanza timoroso perché aveva la reputazione di essere un ospite abbastanza difficile da gestire. In realtà ci siamo trovati subito e abbiamo iniziato a scambiarci una serie di informazioni: è scattata un’affinità e un’amicizia. Senza contare che mi ha dato subito una lezione: mi aveva promesso di inviarmi la copia master di un film a cui stava lavorando, Niente è come sembra; a me sembrava impossibile e invece dopo una settimana mi è arrivato il pacchetto da parte sua. Da lì abbiamo iniziato a sentirci con regolarità e abbiamo anche scritto un libro».
Ha iniziato la sua carriera come dj.
«Era eccitante, bellissimo. E, inconsapevolmente, avevo già messo in pratica una serie di tecniche, come il visualizzarsi. Nel mio lavoro, insomma, sono partito dall’immaginazione: avevo un sogno ben chiaro, cioè lavorare in radio e in tv. Ascoltavo Jovanotti su radio Deejay e sentivo che volevo appartenere a quel gruppo, fare quello stesso mestiere. Prima te lo immagini e poi cerchi di realizzarlo».
E lei come ci è riuscito?
«Un passaggio chiave è avvenuto una sera, in un locale a Milano, il Propaganda. C’era una serata revival, organizzata da Cecchetto: era l’occasione della mia vita. Sgattaiolando, mi sono infilato nel privé, mi sono fatto coraggio e sono andato da Claudio dicendogli: “Sono Daniele, vorrei lavorare in radio”. Mi rispose: “Ok, chiamami domani”. Io me ne sono andato felicissimo, realizzando solo dopo che non sapevo dove chiamarlo. Per un paio di settimane telefonavo tutti i giorni in radio ma non me lo passavano mai. Una sera però, tornando a casa, ho trovato un biglietto dei miei genitori: “Ti ha chiamato Pierpaolo Peroni (allora braccio destro di Cecchetto, ndr.), dice di richiamarlo”. Il giorno dopo alle 7.30 l’ho fatto e mi ha dato un appuntamento il lunedì per un provino. Jovanotti lo sentì e disse: “Bravo questo ragazzo” e quindi andai in onda. Io volavo: avevo 21 anni e mi fa ridere pensare che ho iniziato con un programma in cui parlavo di viaggi mentali».
Poi arrivò anche la tv.
«Un altro mio sogno. Avevo visto su Mtv un promo che diceva: se già sei un dj, trasformati in vj. Così presi una telecamerina super 8, feci una cassettina in cui mi presentavo e la consegnai a mano nella sede di Milano di Mtv. Dopo qualche giorno arrivò la chiamata: preso, vai a Londra».
Un altro sogno realizzato.
«Incredibile. Continuavo la radio facendo i collegamenti da una postazione allestita nell’infermeria di Mtv: arrivavano ogni tanto queste ragazze con il mal di pancia, magari per il ciclo, e io nel mentre trasmettevo. Mi facevo la regia da solo, inventandomi la figura di questo presunto regista, Alfred, a cui davo la colpa quando sbagliavo qualcosa: mi sono divertito tantissimo».
Il successo è stato una vera esplosione, vero?
«Ma io, vivendo a Londra, all’inizio non mi rendevo conto. Il mio agente mi diceva che non potevo andare in giro da solo in Italia ma non ci credevo così un giorno l’avevo fatto: ricordo scene allucinanti, dove è dovuta intervenire la polizia per la ressa che si era creata, con tanto di vestiti strappati. Nel tempo mi sconvolgevo nel vedere che se mi mettevo un piercing nel pizzetto, dopo poco se lo mettevano tutti».
Poi c’è stato il passaggio a Mediaset.
«A un pubblico più grande, con programmi come Fuego, WhatsApp. Grandi successi».
In quegli anni è arrivata Filippa Lagerback.
«L’avevo vista la prima volta in un poster pubblicitario e forse anche lì ho visualizzato, visto che ho pensato subito: ok, sarà la donna della mia vita. Ho avuto modo di incontrarla proprio a Fuego e ho cominciato a chiedere agli autori di invitarla il più spesso possibile. Era il mio corteggiamento. Lei ci ha messo un po’ più di tempo a decidersi».
Cosa l’ha conquistata oltre all’immagine su quel poster?
«La sua ironia. La capacità che ha di farmi ridere fino alle lacrime con sagacia e acume: è velocissima nel fare battute su tutto e questa cosa non l’avevo trovata in nessuna. Penso che lei, in generale, sia molto più evoluta di me come essere umano e lo è naturalmente, senza leggere tutti i libri che leggo io: lei ha innato il rispetto per gli altri, l’amore, la dolcezza, la responsabilità, il senso civico, il legame con la natura. In tutti questi anni mi è sempre stata vicina e per sempre intendo dire sempre, anche nei miei momenti di depressione e dolore: lei c’era».
Litigate mai?
«Capita di discutere ed è sempre per colpa mia. Davvero: sono una testa calda. In più, avendo un carattere ipersensibile, alterno picchi di gioia a momenti di sconforto: è una oscillazione difficile da gestire per chi mi sta vicino, anche se l’ho capito solo dopo con un percorso terapeutico e psicologico».
Ha parlato della sua depressine in televisione, durante il «Grande Fratello Vip».
«Penso sia giusto parlarne, che ci sia una certa urgenza di cercare una condizione di felicità: per ottenerla bisogna parire da noi stessi, provare a meditare anche se si pensa di non avere tempo. Nessuno si apre ai mondi interiori: appena c’è un momento di pausa si prende in mano il cellulare e non ci si ferma mai ad ascoltare i propri pensieri. Ma farlo apre già una porta».
La sua depressione appartiene al passato?
«Secondo me rimane sempre, anche se l’ho curata. Adesso ne riconosco i segni: è come se fosse un ciclo, un respiro. Quando capisco che ricominciano ad affacciarsi gli spettri, so però come affrontarli: ci sono arrivato dopo anni di terapia e ricerca introspettiva. Ma la depressione è come una fiammellina: resta sempre lì».
Quando si è accesa?
«Negli anni del grande successo mi sentivo onnipotente: ero solare, affrontavo la vita in modo propositivo, avevo soldi, fama, tutto. E pensavo che sarebbe stato così per sempre. E invece le botte le ho prese ed è stata una delle lezioni della vita: è nata lì la crepa che mi ha fatto scivolare giù, nella depressione».
Come mai ha deciso di chiedere a Filippa di sposarsi dopo tanti anni insieme?
«Prima non ne sentivamo l’esigenza in effetti: il sigillo del nostro amore è stata Stella, nostra figlia. Gliel’ho chiesto durante il Grande Fratello ma, nonostante sia avvenuto sotto gli occhi delle telecamere, avevo maturato in me questo desiderio e mi sono buttato: per fortuna ha detto sì ed è stato bellissimo proprio perché eravamo maturi e consapevoli della nostra scelta».
Cosa visualizza ora, nel suo futuro?
«Considero un traguardo aver imparato a concentrarmi sul presente: questo è il mio vero cambiamento interiore. La mia focalizzazione è legata all’amore, al circondarmi di persone interessate a fare del bene, curando le emozioni: siamo sommersi da tempeste emotive ma nessuno ci insegna a gestirle. Vorrei provare a farlo».
Fiordaliso.
Estratto dell’articolo di Maria Volpe per corriere.it sabato 7 ottobre 2023.
Inquilina super
Sta facendo un ottimo «Grande fratello», in barba a chi diceva che era «vecchia» e che avendo realizzato già i suoi sogni, doveva lasciar spazio ad altri. In realtà ha la leggerezza di una ventenne, gioca, ride e fa molto gossip, attirandosi molte simpatie. Aveva voglia di leggerezza e persegue la leggerezza con tutta la sua forza
Gli esordi
Fiordaliso, pseudonimo di Marina Fiordaliso, è nata a Piacenza, il 19 febbraio 1956. Prima di sei figli, Marina inizia giovanissima a studiare pianoforte e canto, ed esordisce all’età di 13 anni nell’orchestra “L’allegra compagnia” dove suo padre suonava la batteria, poi nel 1971 all’età di 15 anni rimane incinta del primo figlio che nascerà a Milano il 10 febbraio 1972. La carriera da cantante di Fiordaliso prosegue negli anni settanta entrando a far parte dell’orchestra spettacolo Bagutti.
I figli Sebastiano e Paolo
Fiordaliso ha due figli, Sebastiano Bianchi e Paolo Tonoli. La cantante ha avuto la prima gravidanza a 15 anni ed è nato Sebastiano […]
Il papà appena scomparso
Fiordaliso ha perso lo scorso 6 maggio il padre Auro, al quale è stata legata da un profondo rapporto intentificatosi particolarmente negli ultimi mesi, quando la cantante si è presa cura del genitore. […]
Le violenze subite
La cantante Fiordaliso si è sposata a soli 15 anni, dopo essere rimasta incinta. Nel 1972, infatti, è nato il suo primo figlio Sebastiano Bianchi. Nel 2015 a Domenica Live, Fiordaliso ha raccontato per la prima volta di essere stata picchiata dal suo ex marito durante i loro quattro anni di matrimonio: «Era un amico di scuola di due anni più di me, di cui mi sono innamorata a 15 anni. Sono rimasta incinta di Sebastiano e sono andata in un centro per ragazze madri. Quando sono tornata l’ho sposato, contro il volere di mio padre, che mi ha mandato via da casa.
Il matrimonio però non è stato felice, anzi, c’erano le botte. Però, in quel periodo, per una donna era normale. A quell’epoca (era 43 anni fa) se tu dicevi alla gente che eri stata picchiata da tuo marito era come dire che avevate discusso», ha raccontato Marina Fiordaliso. E ha concluso: “Io voglio dire alle donne che ce la possono fare, bisogna andare via subito. Io ce l’ho fatta, sono stata aiutata dalla mia famiglia, mio padre mi ha salvata”. […]
La pace dei sensi
Di recente, a precisa domanda se abbia accanto un uomo dopo le esperienze del passato e le cicatrici che le hanno lasciato addosso, era stata netta: “Ora sono single e non mi interessa. Non ho più libidine, istinto, voglia di fare l’amore. Ho trovato la pace dei sensi e sto da Dio” era stata la tagliente risposta. Anzi, ammettendo di non avere partner da alcuni anni, in un’altra circostanza aveva candidamente ammesso di non essere “mai stata così bene in vita mia”.
Il Festival di Sanremo. Fiordaliso è una delle signore di Sanremo: in gara nove edizioni, di cui otto tra il 1982 e il 1991
La morte della mamma per Covid
Tre anni fa il Covid si è portato via sua madre.
«Non voglio mica la luna»
FIORDALISO. Il 1984 è l’anno di “Non voglio mica la luna”, il suo più grande successo presentato al Festival di Sanremo. «La scrissi insieme a Enzo Malepasso, che ai tempi era il mio compagno. Poi ci fu il colpo di genio di Luigi Albertelli, il grande paroliere che ai tempi faceva anche i jingle per la Coca Cola, con questa frase un po’ dialettale, “non voglio mica la luna”, che poi sfruttarono gli operai delle fabbriche, gli studenti durante le proteste a scuola».
Fiorella Mannoia.
Le contraddizioni di Fiorella Mannoia. Like e post condivisi di continuo in favore della Palestina: Fiorella Mannoia schierata nel conflitto in Medio Oriente dimentica i bambini di Israele. Francesca Galici il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.
Fiorella Mannoia su X si definisce cantante-parlante ma, forse, è giunto il momento di cambiare bio: cantante-militante è una descrizione più appropriata per la rossa, di capelli e di intenti, interprete di alcune delle più belle canzoni del repertorio musicale italiano. Non che sia una novità, visto che anche questo tratto del suo essere ha contribuito al suo successo, ma da quando di è riacutizzato il conflitto tra Israele e Palestina, la nostra ha risvegliato quel mai sopito senso di ribellione sinistra. Una cosa va detta: di artisti che in questo momento si stanno schierando in questo conflitto ce ne sono pochi. E meno male, si potrebbe aggiungere, visto che non si tratta di una partita di pallone. Ma Mannoia ha deciso di fare il paio con Zoro e con pochi altri, condividendo e mettendo like a tutto spiano senza timore di schierarsi: di questo le va dato atto, almeno non si nasconde e porta avanti coerentemente le sue idee.
Le argomentazioni che piacciono alla cantate sono diverse, ma inevitabilmente a senso unico. Non che stupisca, ovviamente, ma vedere sulla bacheca di Mannoia il retweet e il like a un post secondo il quale questa è "la guerra di Israele contro i bambini" fa un certo effetto. Che nessuno mai neghi che nei bombardamenti di Israele nella Striscia di Gaza stiano morendo i civili, e che anche un solo innocente che perde la vita è un innocente di troppo, ma se poi si condivide il post di Selvaggia Lucarelli in cui si stigmatizza la "disonestà intellettuale", allora si entra in un cortocircuito. Hamas ha usato i civili, insieme ai miliziani, per i suoi assalti ai kibbutz e al rave party del 7 ottobre, e continua a usarli come scudi umani contro i razzi di Israele. Ma chi "tifa" Palestina questo lo dimentica.
Continuando a scorrere la bacheca dei mi piace di Fiorella Mannoia si trova anche il "mi piace" a un post in cui si dice che "tutti i bambini sono nostri figli": vero, verissimo. Ogni bambino ha il diritto di vivere, di crescere e di scoprire il mondo facendo ogni errore che gli venga consentito. Anche i bambini israeliani che sono stati barbaramente uccisi e rapiti il 7 ottobre ne avevano diritto, però. Anche quelli erano nostri figli, anche quelli che ora sono nelle mani di Hamas e vengono usati per scoraggiare gli attacchi di Israele contro i terroristi sono nostri figli. Quelli che vengono ritratti nei manifesti "kidnapped" in giro per il mondo, che vengono strappati dai sostenitori della Palestina, sono nostri figli.
Ecco, è bene non dimenticare mai le atrocità che hanno portato agli assalti di queste settimane: e se davvero Mannoia crede davvero che tutti i bambini siano nostri figli, allora inserisca nel suo flusso social anche le immagini di quegli altri. Lei come chiunque oggi riempie la sua bacheca con appelli pseudo-pacifisti che vorrebbero essere spacciati come commenti superiori ma sono alla stregua della tifoseria da stadio. Francesca Galici
Fiorella Mannoia: «La mia Taranta in difesa delle donne». Storia di Sandra Cesarale su Il Corriere della Sera lunedì 21 agosto 2023.
«La Taranta è femmina», dice Fiorella Mannoia, maestra concertatrice della serata di Melpignano, il 26 agosto, che porterà sul palco i ritmi del Salento e tante storie di donne. Ospiti, Arisa, Brunori Sas e Tananai.
«Di solito a noi, che non siamo del posto, queste canzoni piacciono e ci fanno ballare — dice Fiorella — Ma quando entri dentro a quel mondo antico e straordinario come ho dovuto fare io, ti accorgi che sono quasi tutte storie di donne». Per questo Fiorella ha coinvolto cantanti dell’Orchestra Popolare della Notte della Taranta. «Tanti brani parlano d’amore, spesso ci sono storie di violenza, matrimoni obbligati, sfruttamento del lavoro. Sembrano canzoni allegre, e alcune lo sono davvero, ma molte racchiudono tanta sofferenza. Per me, Fimmine fimmine che esorta alla ribellione e all’unione è il simbolo di tutta la Taranta».
Per il suo ruolo da maestra concertatrice è stata aiutata da Gigi Chiriatti. «Era la memoria storica della Taranta, purtroppo se n’è andato una settimana dopo che l’ho conosciuto, ma è stato uno degli incontri più belli della mia vita: sono entrata in casa sua e mi ha regalato tutto il suo sapere, mi ha spiegato cosa le canzoni nascondono tra le righe». Promette una grande festa Fiorella, anche se sabato cercherà di farsi «pizzicare un po’ meno». «La prima volta che sono salita su questo palco — ricorda — era il 2016, quando mi invitò la maestra concertatrice Carmen Consoli. Ero così coinvolta che ho ballato senza sosta e mi sono rotta un piede».
A Fiorella sta a cuore la voce delle donne: il 26 settembre, con le sue amiche e colleghe, salirà sul palco dell’Arena di Verona per il concerto «Una nessuna centomila», ora anche una fondazione creata da lei con Giulia Minoli, Celeste Costantino e Lella Palladino. «I nostri obiettivi sono ambiziosi, non solo raccoglieremo fondi per i centri antiviolenza, ma vorremmo proporre una iniziativa di legge per far insegnare nelle scuole il rispetto per l’essere umano. Dobbiamo cambiare la mentalità, partendo dalle elementari. Parlare non basta, è urgente agire. Ce lo ricordano gli ultimi fatti di cronaca come lo stupro di gruppo a Palermo e le statistiche: ogni tre giorni una donna è vittima di un femminicidio».
È un’estate piena di impegni per Mannoia che ha iniziato a lavorare («con calma») al nuovo album e continua il tour «Luce» con Danilo Rea, voce e pianoforte per alcune delle canzoni più belle della musica italiana: da Battiato a Vasco Rossi. «È stata una scommessa, siamo partiti timidi, con una quindicina di date che sono diventate più di 30, tutte sold out. È un concerto di musica e di canzoni, senza altre pretese. Ma non è facile perché quando tocchi delle melodie che sono nell’immaginario collettivo devi offrire un valore aggiunto, altrimenti fai l’effetto karaoke. E noi non lo vogliamo».
Non lo vuole soprattutto lei, grande interprete della canzone d’autore che riesce a fare suo persino un brano complesso come Sally di Vasco Rossi: «La ascoltai per la prima volta per radio, mentre guidavo. Accostai per non perdere il segnale e decisi che l’avrei cantata». Qualcuno che l’ha messa a dura prova c’è stato. «Lucio Dalla, un grande cantautore sì, ma per me è al primo posto come cantante, aveva un’estensione vocale che io non ho e quando incisi il disco dedicato a lui non sono riuscita a cantare Apriti cuore e Futura».
Nel 2024 Fiorella spegnerà settanta candeline. «Sarà un anno di festa perché è un traguardo importante. È più di mezzo secolo che canto». Le pesa l’età? «No, non ci penso perché la testa è rimasta quella dei trent’anni. È lo specchio che me la ricorda».
Fiorella Pierobon.
Fiorella Pierobon: «Ero più popolare di Cuccarini, Pertini mi invitò al Quirinale. Ora dipingo (e non sono diventata milionaria)». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2023.
L’ex volto tv, oggi pittrice: «Ho un atelier in Costa Azzurra e oggi vendo i miei quadri ovunque. Un’amica? Gabriella Golia»
Ieri, 1983: «Sandro Pertini fece un intervento a Superflash, il programma di Mike Bongiorno in cui io ero diventata la signorina del detersivo dello sponsor, quello che “più bianco non si può”. Al momento di congedarsi, il presidente della Repubblica dice all’inviato che lo sta intervistando: “...E mi saluti tanto la vostra Petit Fleur!”. “E chi sarebbe?”. “Ma come chi sarebbe? La vostra Fiorella!”».
Oggi, quarant’anni dopo. «Nel mio atelier, a Nizza, c’è chi mi chiede: “Ma perché non torna in tv?”. Poi si guardano i dipinti: “Ma lei è bravissima, perché non ha fatto questo per tutta la vita?”». Fiorella Pierobon ha vissuto due vite in una. Nella prima è stata una dei volti più riconosciuti della televisione commerciale italiana, consacrata da un sondaggio che trent’anni fa la promosse come il volto femminile più popolare dell’intera Fininvest, davanti a Lorella Cuccarini. Nella seconda è un’artista affermata, quotata, invitata già nel 2011 a esporre alla Biennale di Venezia. Artisticamente francese, con galleria in Costa Azzurra, orgogliosamente cittadina italiana. Assieme al marito Alberto ha fondato una radio Radio Francigena, per cui ha intervistato moltissimi personaggi del mondo dello spettacolo che condividono la passione per le camminate.
Televisione e arte. Le due cose insieme no?
«Dalla fine degli anni ’70 a quando nel 2003 ho lasciato Mediaset la mia vita in tv era totalizzante. Una mattina uscii di casa all’alba per farvi ritorno dopo due giorni. La mattina a Milano 2 a fare Buongiorno Italia, poi la registrazione degli annunci, quindi un’intervista a Paolo Villaggio e Amanda Lear, a seguire i raccordi per il programma domenicale che trasmetteva il meglio della settimana, Rivediamoli, il primo programma Fininvest a mettere in difficoltà Linea Verde della Rai, dopo ancora le telepromozioni. Nel pomeriggio, una macchina mi aspettava per portarmi a Rieti per fare una convention aziendale con Beppe Grillo. Mi riportò indietro a Milano 2 per la giornata successiva, senza passare da casa».
In lire sarà diventata miliardaria?
«Macché. Non pensi alle cifre di oggi. Era un altro mondo».
Come ci era entrata, in quello della tv?
«Credo di essere stata la prima persona in assoluto a fare le telepromozioni in Italia. Seduta nel pubblico del programma La Ciperita, condotto da Raffaele Pisu su Telealtomilanese, mi chiamano sul palco a fare la promozione della rivista Tuttouncinetto. Comincio così: “Su Tuttouncinetto in edicola questa settimana troverete...”. Era il 1977, non ero neanche maggiorenne».
Fa subito il grande salto?
«Passo a Telenord e inizio a fare di tutto. Rispondo alle telefonate, compilo le scalette per le emissioni, faccio gli annunci pubblicitari e un programma in diretta. Salto senz’altro, non so se lo definirei grande».
La gavetta, insomma.
«Poi a un certo punto Silvio Berlusconi compra Telenord ma tiene a lavorare soltanto i tecnici. Noi presentatori andiamo a casa, Berlusconi aveva già i suoi. Dal 1980 passo a Canale 51, diretta da Paolo Romani. Da cui me ne sarei andata nel 1982 perché, diciamo così, erano tutti un po’ nevrotici e lavorare là dentro era diventato stressante. Quando non ne posso più chiamo Romani e gli dico: “Io me ne vado”. Lascio gli studi di Canale 51, torno a casa e squilla il telefono: Roberto Conforti, presidente di Italia 1, stava cercando qualcuno che sostituisse Gabriella Golia».
Di nuovo Berlusconi.
«Poco dopo, così com’era successo per Telenord, Berlusconi avrebbe comprato un altro mio posto di lavoro. Alla cena di presentazione della nuova Italia 1, si sedette al centro tra me e Gabriella Golia. Gli dissi: “Dottore, era proprio destino”».
Faceva l’annunciatrice di Italia 1, giusto?
«Fino a che un giorno non squilla il telefono. “Fiorella, Mike ti vuole a Bis e poi a Superflash”. Fu in quel programma che Pertini, intervistato, mi mandò i suoi saluti. A fine trasmissione presi contatto con i suoi addetti stampa e venni invitata al Quirinale. Al momento dei saluti, prima di lasciare il Colle, dissi al presidente: “Mica mi vorrà far andare via senza fare una foto?”. La foto con Pertini ce l’ho ancora. E oggi penso ancora a lui come al “mio” presidente».
Lei votava a sinistra?
«Votavo liberamente. Più le persone che i partiti».
Il pressing di Forza Italia sui volti Mediaset fu asfissiante anche per lei?
«Fu molto più complicato continuare a essere tifosa dell’Inter. A Mediaset eravamo circondati da milanisti e in tanti cambiarono la propria squadra per il Milan».
Tolto Emilio Fede, che era juventino, chi altri aveva cambiato bandiera?
«Non ha idea quanti. Cesare Cadeo, per esempio, prima non era propriamente milanista».
È vero che sfiorò la partecipazione a Sanremo?
«Avevo inciso dei dischi. Nel ’93 mi chiama Mogol per farmi interpretare a Sanremo un pezzo scritto con Gianni Bella. Io e Gianni arrivammo quasi a essere ammessi in gara, poi evidentemente quell’anno al Festival decisero di chiudere le porte ai volti televisivi. Ma la musica è sempre stata parte della mia carriera. Ho partecipato al Festivalbar come cantante e un anno Vittorio Salvetti mi affidò due cantanti all’epoca sconosciuti da presentare in gara: Biagio Antonacci e Luciano Ligabue».
L’invidia dei colleghi?
«Secondo un sondaggio ero il volto femminile di Mediaset più popolare, davanti a Lorella Cuccarini. Per l’invidia non c’era tempo. Lavoravo tutto il giorno e quando finivo correvo a casa da mio figlio. Vita sociale coi volti della tv zero, salotti idem».
Amici che le sono rimasti da quell’epoca?
«Con Gabriella Golia ci sentiamo spesso».
Perché decise di chiudere con la tv?
«Da quando Costanzo era diventato direttore di Canale 5 non c’era più spazio oltre gli annunci. Mi voleva Italia 1 ma ero considerata un volto di Canale 5. Mi voleva anche la Rai ma ero considerata un volto Mediaset. Ho preferito staccare la spina. E poi, rispetto a decine e decine di chiamate per fare l’ospite o la concorrente di un reality show, anche il telefono».
Quanto vale un Pierobon oggi?
«Dipende dalla grandezza. Un dipinto di un metro per uno può arrivare a cinquemila euro. I miei quadri sono ovunque, in cinque continenti. Una volta mettevo le bandierine sui posti che avevo visitato; ora li metto sui luoghi raggiunti dalle mie opere. I secondi sono molti di più».
Fioretta Mari.
Eugenia Nicolosi per “la Repubblica” il 9 gennaio 2023.
In oltre cinquant' anni di carriera ha da raccontarne «cose inenarrabili», Fioretta Mari. All'indomani delle storie di abusi subiti da diverse artiste e del racconto dei processi in atto per molestie raccontati da Repubblica , rivela le aggressioni e i ricatti che ha subito nel corso della sua lunga attività come attrice.
La "bambina prodigio" dello spettacolo italiano, come descritta da alcuni biografi, è nata a Firenze nel 1942 e ha recitato con i nomi più noti del teatro e del cinema. Oggi recita ancora e insegna alla scuola di Simona Izzo e al Lee Strasberg Institute di New York, ma molti la ricordano come la acting coach del programma Amici di Maria De Filippi.
È mai stata molestata?
«Oltre trenta volte: hanno tentato di portarmi a letto nei modi più spaventosi. A volte tutto fila liscio e poi all'improvviso ti saltano addosso e ti trovi ad augurarti di invecchiare perché ti lascino in pace».
Sono state situazioni molto difficili...
«Ricordo con orrore quando il marito di un'amica mi ha assalita nella loro villa in Sicilia. Stavamo per fare il bagno quando mi chiese se volevo vedere una foto, dentro casa. Gli dissi di sì: mi ha aggredita con la mia amica che nuotava a pochi metri. Gli ho chiesto se non si vergognasse».
Era un collega?
«Un importantissimo organizzatore di spettacoli».
Ha avuto paura?
«No, ho avuto paura quando un noto regista con cui lavoravo, che oggi non c'è più, mi ha seguita in bagno e ha chiuso la porta a chiave mentre in casa c'era un evento di famiglia. Non avevo via d'uscita e non potevo urlare perché oltre la parete c'erano bambini. Se lo avessi pregato di non toccarmi sarebbe diventato ancora più cattivo, perché è così che ragionano i predatori. Allora gli ho detto una cosa violentissima e si è spaventato. L'indomani mi ha estromessa dalla fiction con una scusa surreale. Avevo il contratto per 11 episodi e ne feci uno. Ma mi pagarono per intero».
Non c'è più, perché non fare il suo nome?
«Non è il solo predatore a essere morto. Anzi, l'unico vivo ha una bella età. Ma non ha senso distruggere oggi figure che nel frattempo hanno fatto la storia di Rai e Mediaset ».
Perché non denunciò allora?
«Non ero la guerriera che sono oggi, avrebbe significato non lavorare più e minacciare la carriera di mio zio (Turi Ferro ndr ), che era amico di tutti loro.
Senza denunce mi hanno comunque tolto moltissime parti, alcune cucite su di me».
Parti scritte per lei?
«In una trasmissione avevo il personaggio di una toscana con il mio temperamento. Arrivo nell'ufficio del regista ed era da solo. Mentre parliamo si alza, viene alle mie spalle e inizia a toccarmi. Io penso "Oddio eccoci". Sono andata via, ho avuto la parte? No. La stessa cosa a Siracusa: avevo il contratto per due stagioni, ne feci solo una perché ho rifiutato il produttore, sempre molto famoso, quando mi è saltato addosso».
Pensava che lei fosse disponibile?
«Lo danno per scontato. Inoltre io non ero di quelle timidine e rimanevano ancora più di sasso quando li allontanavo. La cosa grave è che invece di prenderla a ridere stracciano i contratti».
I predatori sono ovunque...
«Per questo prego le giovani di non restare mai da sole con questi uomini e di andare ai provini sempre con amiche o amici».
Francesca Alotta.
Francesca Alotta: “Cantavo Non amarmi, ma oggi cerco l’amore”. Redazione su L'Identità il 12 Agosto 2023
Intervista a Francesca Alotta di SACHA LUNATICI
Cantante di origini siciliane, di strada ne ha fatta Francesca Alotta da quando, agli inizi degli anni Novanta, con Aleandro Baldi ha incantato le platee del Festival di Sanremo con Non amarmi, brano entrato nella storia della musica italiana. Da allora, tanta musica (Fragilità, Un anno di noi, Diversa), televisione (Music Farm, Ora o mai più, Tale e quale show) e una nuova passione, il teatro (2 Pezzi da Novanta 2).
Francesca, a quale progetto ti stai dedicando attualmente?
A metà settembre uscirà il mio nuovo singolo, scritto da me, Avanti a pugni chiusi, corredato da un videoclip a cui tengo molto. Questa canzone è un inno alla vita e alla gioia, dedicato a tutte quelle persone che hanno avuto la forza di reagire nella vita o a chi deve trovare una spinta per farlo. Sono convinta che la musica debba dare voce a chi purtroppo spesso non ce l’ha.
Nel videoclip hai voluto fortemente al tuo fianco Ivan Cottini, il ballerino che da anni lotta contro la sclerosi multipla…
Siamo amici e lo considero un po’ la mia guida: rappresenta l’essenza della forza e della capacità di essere gioiosi e coraggiosi anche di fronte alle sfide che la vita ci chiama ad affrontare. Non ho avuto nessun dubbio, doveva esserci e lui ha accettato con entusiasmo.
Quale messaggio ti piacerebbe lanciare con questo brano?
Non bisogna mollare mai: essere sempre positivi perché comunque nei momenti difficili ci sono degli insegnamenti che possono darci una chiave di svolta.
Nel brano canti “Vivi ogni attimo”: c’è stato un momento preciso nella tua vita in cui hai avuto questa consapevolezza?
Assolutamente. Nel 2020, dopo che il mio ginecologo non aveva capito di cosa si trattasse, mi è stato diagnosticato un tumore all’utero che era già molto esteso: sono stata operata d’urgenza e ho fatto la radioterapia. La frase “speriamo di essere in tempo” è stata come una scintilla per me. Da quel momento mi sono resa conto di quanto fosse prezioso ogni attimo e che non andava sprecato neanche un momento. Ho cominciato a circondarmi solo di persone che mi vogliono bene: su tutte, tre mie ammiratrici che conoscendo la mia situazione durante il lockdown si sono traferite da me e mi hanno tenuto compagnia per cinque mesi. Ora sono come sorelle: posso proprio dire che mi hanno salvato la vita. Fortunatamente, anche se con queste malattie non bisogna abbassare mai la guardia, oggi sto bene.
Quali sono le tre tappe del tuo lunghissimo percorso professionale che reputi più significative?
La prima sicuramente è quando vinsi il Cantagiro nel 1991 con Chiamata urgente. La seconda tappa racchiude le mie due partecipazioni al Festival di Sanremo: nel 1992, quando insieme ad Aleandro Baldi abbiamo trionfato nella sezione “Novità” con Non amarmi, e poi l’anno successivo, quando ho partecipato in gara tra i big con Un anno di noi. Un altro momento fondamentale nella mia carriera è stato Tale e quale show, una sorta di rinascita per me.
Non amarmi ebbe un successo clamoroso…
E pensare che molti dei nostri discografici, tranne Mario Ragni che era il direttore artistico della Ricordi, non ci credevano: pensavano fosse una storia d’amore poco credibile quella che cantavamo. La nostra fu una partecipazione ‘last minute’, addirittura abbiamo comprato i vestiti lì a Sanremo perché l’abbiamo saputo all’ultimo che partecipavamo. Fortunatamente però si sbagliavano: Non amarmi, oltre a vincere, fu il singolo più venduto in Italia nel 1992. Qualche anno dopo Jennifer Lopez, insieme a Marc Anthony, ha inciso una cover, No me ames, che ha ricevuto una nomination ai Latin Grammy Award come “miglior performance di un gruppo o duo”. La soddisfazione più grande per me, però, è vedere bambini molto piccoli che ai miei concerti cantano ancora questa canzone.
Ti piacerebbe tornare in gara a Sanremo?
Certo e ti dirò di più. Ho pronto un pezzo di Marco Colavecchio. Incrocio le dita…
Se ti proponessero di partecipare ad un altro talent o ad un reality accetteresti?
Mai dire mai nella vita. Anni fa ho partecipato a Music Farm poco dopo la scomparsa di mio padre e devo dire che era arrivato nel momento giusto perché mi aveva dato l’occasione per stare sola con me stessa, pensare ed elaborare quello che mi era successo. Il mio sogno più grande oggi è quello di partecipare a Ballando con le stelle. Ne sarei onorata: trovo sia una trasmissione bellissima, dove ci si mette in gioco imparando qualcosa di nuovo.
C’è qualcuno a cui senti di dover dire “grazie”?
In primis Giancarlo Bigazzi. E poi Mario Ragni che ha creduto in me e a Non amarmi, così come Adriano Aragozzini, direttore artistico di quel fantastico Festival.
Guardando al passato hai qualche rimorso o rimpianto?
Odio le parole rimpianto e rimorso, non serve a niente provarli. Se dovessi rinascere, però, forse affrontare con la vita in maniera così forte come lo sono in questa fase della mia vita. E poi, sicuramente, mi dispiace di non aver potuto avere dei figli. Ma ho tanti figli pelosi (ride, ndr) che raccolgo per strada che mi danno tanto amore. Invito tutti a non abbandonarli e, soprattutto, a salvare tanti animali che vivono nei canili.
Cosa sogni dal punto di vista professionale?
Quest’anno mi sto dedicando al nuovo disco che uscirà con l’anno nuovo. L’arrangiatore di tutti i pezzi, tranne che il brano che ho proposto per Sanremo, è Max Marcolini, già arrangiatore di Zucchero da quasi venti anni. L’album si intitolerà Diversa, un brano pubblicato mesi fa che nasce dalla constatazione di come ancora oggi ci siano pregiudizi che non riusciamo a superare. Con Ciro Castaldo, inoltre, sto scrivendo un soggetto teatrale dedicato a Mia Martini, dove reciterò e canterò, e che porteremo in scena nel 2025.
E nella vita privata?
In questi ultimi anni sono stata da sola per capire perché trovassi sempre la stessa tipologia di persona, magari un po’ egoista. Se non impari a star bene da sola non puoi trovare il vero amore, perché poi senti il bisogno di riempire i vuoti. E io non voglio questo. Sto aspettando di trovare una persona con cui condividere le gioie della vita e le passioni. Ci credo ancora: prima o poi arriverà.
Francesca Michielin.
Estratto dell'articolo di Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” martedì 4 luglio 2023.
«Non amo stare al centro dell’attenzione. Anche per questo sono tornata a vivere in provincia dopo 6 anni a Milano». Lo dice Francesca Michielin, una che ha scelto una carriera che al centro dell’attenzione ti ci mette per forza: su un palco come le capiterà dal 9 luglio con il suo tour in cui presenterà anche la nuova «Fulmini» o davanti alle telecamere come conduttrice di «X Factor» che torna da settembre su Sky (e in streaming su Now) . «E dire che sono sempre stata una che amava stare in gruppo, nel branco, ma non al centro».
(…)
Torniamo alle parole: come le usa nelle canzoni?
«Non sono rigida nell’uso degli accenti, ma sulle scelte grammaticali sono più attenta. Per “Magnifico” con Fedez ad esempio il testo proposto dagli autori diceva “è possibile che ho”: ho discusso e difeso il congiuntivo ed è diventato “abbia”».
Com’era da adolescente?
«Sono contenta di un’adolescenza che non aveva paura della solitudine. A volte stavo anche a casa al sabato sera, non sono mai stata schiava del dover uscire per forza. Ero timida e fragile ma avevo ben chiaro cosa mi facesse stare bene e cosa no».
Ricorda il primo bacio?
«Purtroppo no... forse perché è stato brutto...».
A 16 anni vinse «X Factor» e la sua dedica fu: «a tutti quelli che ci sono a prescindere e sanno chi sono e non cosa sembro»...
«Che pesantona... Esteticamente non ero niente di che, non stavo dritta con la schiena, non mi truccavo, mi vestivo normalmente: mi feriva sentirmi ripetere quanto fossi bruttina e goffa. Anche questa è mentalità provinciale: ti devono mettere in un gruppo per definire la tua identità. E io non stavo né con i fan dei Tokio Hotel, né con i truzzi: ero in mezzo e ascoltavo i Jefferson Airplane. Quella vittoria fu una conquista perché non era legata all’estetica: il pubblico aveva capito che c’era qualcosa. Oggi, anche se non è vero, mi dicono che sono figa...».
Si sente così?
«Ho un rapporto più bello con il mio corpo e l’immagine che mi sono scelta. E sono anche fiera di poter abbracciare le mie contraddizioni: sono tutte e nessuna».
Come, dicono gli hater, fare un post sull’impegno sociale e quello dopo sulle sfilate di moda.
«Ne parlavo di recente con mio padre... Alle persone non va giù che una donna possa avere più interessi. Quando scrivono “pensa a cantare” sotto a un post su un tema sociale lo vivo come un insulto pari a “vai a pulire i piatti”. Sui social sono stata subissata di hating e insulti sessisti per sei mesi per aver sbagliato la definizione di una tecnica chitarristica».
A Sanremo nessuna donna nei primi 5, nella classifica album del 2022 8 su 100: anche la musica è un settore maschilista?
«Siamo in una fase complessa. La narrazione che si fa delle donne è ferma e la narrazione che fanno le donne di se stesse è avanti. Da un lato sono in voga i testi maschilisti della trap. I ragazzini sentono queste cose e finiscono per dire: “le donne sono tutte puttane”. Allo stesso tempo ci sono artiste consapevoli di una nuova e diversa e femminilità, non quella della ragazza che canta bene e basta, che rivendicano la propria complessità e finiscono per stare antipatiche perché secondo qualcuno non dovrebbero pensare di poter discutere con i politici, come ad esempio fa Elodie».
Cita spesso la famiglia...
«Papà artigiano falegname e mamma ragioniera con un suo ufficio. Loro sono di quella generazione veneta in cui finivi le superiori e andavi a lavorare. Ci hanno tenuto che sia io che mio fratello non facessimo solo scelte pragmatiche. Mi fa impressione vedere adolescenti che giocano a calcio perché i campioni sono ricchi: è allucinante».
In autunno torna a condurre «X Factor» su Sky...
«Quel programma mi ha permesso di crescere, di andare alla ricerca di un linguaggio e una cifra stilistica tutta mia, imparando a mettermi sempre più in gioco. Condurlo è stata una delle esperienze professionali e umane più belle che abbia fatto e sono felicissima di essere di nuovo la padrona di casa. In questi primi giorni di audition mi sto divertendo un sacco. E sono molto contenta anche della giuria».
Ritroverà Fedez con cui ha collaborato più volte, e Morgan, uno dei coach dell’edizione che lei vinse...
«Sono persone che stimo. Morgan mi regalò le “ Gymnopédies ” di Satie che mi fece superare il primissimo esame al conservatorio. Con Fede ho condiviso tanta musica e esperienze importanti come il palco di Sanremo. So che io e lui sembriamo opposti. Abbiamo attitudini diverse ma su certe cose siamo sulla stessa lunghezza d’onda: ha dei valori morali simili ai miei».
(…)
Estratto dell’articolo di Luca Dondoni per “la Stampa” il 21 febbraio 2023.
Cantautrice, presentatrice, divulgatrice, ambientalista, promotrice di numerose campagne per i diritti civili Francesca Michielin sta per compiere 28 anni […] «Spesso l'errore che si fa con noi donne è rifiutare la nostra complessità. Non posso andare a una sfilata di Moschino o Prada e twittare contro l'ascesa della destra nel nostro Paese sennò, certa opinione pubblica, mi bolla come incoerente; non sono stata fuori luogo poiché non facevo riferimento alla resistenza partigiana, nemmeno ci ho pensato, ma a qualcuno faceva comodo usare il mio tweet».
Canta: «Voglio essere scorretta crescere ma senza fretta». Una denuncia alla gerontocrazia che fa da tappo ai giovani?
«Mio padre è un grande fan di Paul Mc Cartney e se lui ha voglia di suonare alla sua età è giusto che lo faccia, io spero di non seguire le sue orme».
McCartney a 16 anni scrisse When I'm 64 immaginandosi in pensione, ora ha 81 anni e pensa al prossimo tour.
«A 64 anni non penso che farò questo mestiere e spero di godermi la vita. Faccio un esempio: la Vanoni è un mito ed è stata una figata sentirla cantare a Sanremo però penso che da anziani si debba lavorare se si hanno cose da dire. Finché una persona più grande è un riferimento va bene ma se un "grande vecchio" si limita a dire che i giovani sono incompleti e superficiali non va bene. Mi sono spesso sentita incompleta e per citare Calvino: "quando ti senti incompleto sei solo giovane"». […]
«[…] Mancano i politici e allora si chiede agli artisti di fare i politici. La sinistra si è concentrata troppo sui social piuttosto che ricordarsi quanto disagio c'è tra i ricchi e poveri e di un sacco di altre cose a cui dovrebbe porre attenzione».
Francesca Neri.
La scintilla sul set, Rocco, le malattie: la storia d'amore tra Claudio Amendola e Francesca Neri. Dopo una relazione durata venticinque anni, Claudio Amendola e Francesca Neri si sono detti addio nel 2022, ma la loro storia rimane una delle più belle. Novella Toloni il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'amore nato sul set
Lontani ma vicini
La nascita di Rocco
Sei mesi di addio
Il matrimonio a New York
Gli anni d'oro
La malattia di Francesca Neri
Il malore di Amendola
Gli anni bui e il libro
La smentita poi l'addio
Un quarto di secolo. Tanto è durata la storia d'amore tra Francesca Neri e Claudio Amendola. Un amore sbocciato sul set e proseguito sotto ai flash dei fotografi per venticinque anni, periodo nel quale la coppia ha vissuto momenti bellissimi, forti crisi e periodi dolorosi.
L'amore nato sul set
È il 1997, Claudio Amendola e Francesca Neri vengono scelti dal regista Franco Bernini per interpretare i protagonisti del film "Le mani forti". Insieme i due attori hanno già lavorato nel film del '96 "La mia generazione", ma sul set succede qualcosa. Il feeling è immediato e la vicinanza per esigenze di copione si trasforma in qualcosa di più. Claudio è reduce da una lunga relazione con Marina Grande, dalla quale ha divorziato da pochi mesi e Francesca, che è sua coetanea, è una boccata d'ossigeno per il suo cuore. Nonostante la passione bruci sin da subito, Claudio e Francesca aspettano il 1998 per uscire allo scoperto. Ma la loro prima foto, scattata sul set del loro primo film, segna l'inizio della loro lunga relazione.
Lontani ma vicini
Il cinema li ha fatti incontrare e innamorare, ma li tiene anche distanti per lunghi periodi. La Neri è impegnata sui set di film come "Carne tremula" di Pedro Almodóvar, grazie al quale vince il Nastro d'Argento, poi viene scelta da Cristina Comencini per il film "Matrimoni". Amendola è invece impegnato sui set di "Altri uomini", "Santo Stefano" e "Mare largo". Lontano dalle cineprese, però, la coppia vive una storia d'amore travolgente ma rimasta sempre molto privata.
La nascita di Rocco
Nel 1999 Francesca Neri rimane incinta. La gravidanza, però, non la tiene lontana dal set e l'attrice recita al fianco di Francesco Nuti nel film cult "Io amo Andrea". La nascita di Rocco stravolge, però, l'equilibrio della coppia, che pochi anni dopo vive la prima forte crisi.
Sei mesi di addio
È il 2003, Rocco ha tre anni e Amendola e Francesca Neri sono professionalmente molto impegnati, il primo in tv mentre lei è sul film de "La felicità non costa niente". La coppia è sempre più distante e i due decidono di separarsi ma la decisione è soprattutto di Francesca Neri. "Io per mio figlio mi sono separata. I sei mesi di separazione da Claudio li ho voluti anche per quello: i bambini, per quanto piccoli, assorbono il disagio. Rocco era dai nonni a Trento. Io e Claudio siamo andati a riprenderlo insieme, ricordo il suo sorriso: aveva capito tutto", raccontò anni dopo per riassumere quanto accaduto nel 2003.
La cocaina, il divorzio, i premi (mai arrivati): Claudio Amendola si "confessa" a Belve
Il matrimonio a New York
Dopo tredici anni di fidanzamento Claudio e Francesca decidono di sposarsi in gran segreto a New York. L'attore romano è atteso a Madrid per una prima importante, ma in Spagna c'è anche Francesca e i due decidono di fare una pazzia, volando negli States. È l'11 dicembre 2010 e Amendola e la Neri si dicono "sì" in una gelida giornata newyorkese. Di quel giorno, però, non ci sono foto e, come tutta la loro storia d'amore, anche questo momento importante rimane privato.
Gli anni d'oro
Tra il 2011 e il 2014 la coppia vive un momento d'oro. Francesca Neri è impegnata in un paio di progetti cinematografici - vincendo il Premio Cusumano alla commedia per "Una famiglia perfetta" - mentre Amendola è il re delle fiction televisive. Insieme partecipano a numerosi eventi e si mostrano in perfetta sintonia, felici e sereni. Le riviste dedicano loro articoli e copertine.
La malattia di Francesca Neri
Dal 2015, l'attrice inizia a soffrire di forti dolori al basso ventre, che solo dopo anni scoprirà essere dovuti alla cistite interstiziale cronica. Il dolore cronico e invalidante la costringe a prendere le distanze dal mondo del cinema e dello spettacolo: il film "The Habit of Beauty" segna la fine della sua carriera.
Il malore di Amendola
Settembre 2017. Claudio Amendola è nella sua casa di Roma insieme alla moglie quando ha un malore. Dolori al petto e respiro affannato, sintomi di un infarto in corso, fanno immediatamente preoccupare Francesca, che lo convince a recarsi al pronto soccorso. L'attore viene ricoverato nel reparto di cardiochirurgia del Policlinico Umberto I a Roma, dove rimane sotto osservazione per le successive ventiquattro ore prima di venire dimesso. La vicenda rimane privata e solo un anno dopo, quando Amendola è ospite di Silvia Toffanin a Verissimo, la storia viene raccontata: "Ho smesso di fumare e ho perso dodici chili".
Il dolore di Amendola: "Mia moglie è malata"
Gli anni bui e il libro
Gli anni successivi sono difficilissimi. Claudio Amendola rimane vicino alla moglie, che soffre atrocemente tanto da pensare addirittura al suicidio. Nel settembre 2021, Claudio Amendola parla per la prima volta della malattia della compagna: "Mia moglie Francesca ha una malattia, un dolore fisico enorme, una difficoltà nel vivere le sue giornate. Anche nella malattia, cerca la forza per stare bene. Ne ha parlato nel suo libro che presenterà presto". Prima della fine dell'anno esce "Come carne viva", edito da Rizzoli, e si scopre quanto sono stati dolorosi gli ultimi anni della Neri. La coppia, però, appare molto unita anche nella sofferenza ma a inizio 2022 iniziano a circolare rumor sulla crisi.
La smentita poi l'addio
La voce di un possibile divorzio si fa insistente, Dagospia dà per certo l'addio ma Claudio Amendola sceglie il settimanale DiPiùTV per smentire le indiscrezioni. "Non è assolutamente vero, per carità. Non capisco chi possa avere messo in circolazione una voce del genere. Vi prego, non scherziamo". È agosto 2022. Pochi mesi dopo, è ottobre, la coppia annuncia la fine del loro amore. "Non c’è dolore, ma soltanto il dispiacere di non essere stati in grado di arrivare fino in fondo", ha confessato di recente Claudio Amendola parlando della fine del matrimonio. Oggi l'attrice vive la sua vita da single, mentre l'attore sembra avere ritrovato già l'amore al fianco della 45enne Giorgia.
Estratto dell'articolo di oggi.it il 12 giugno 2023.
Francesca Neri parla per la prima volta della fine dell’amore con Claudio Amendola. L’attrice era rimasta in silenzio fino a ora, dopo che lo scorso ottobre i due avevano comunicato di essersi lasciati dopo ben 25 anni insieme. E ora lei non le manda certo a dire a lui. Anzi, non gli fa nemmeno uno sconto
“STO MOLTO BENE” - Francesca Neri si confida laconicamente ai Lunatici. Ed è velenosissima: “[…] Io non ne ho mai parlato, non ho parlato del mio matrimonio, figuriamoci se parlo della fine del mio matrimonio”, aggiunge. “A meno che non ci siano delle ragioni molto valide. Questo fa parte del mio modo di essere. Sto molto bene, sto vivendo finalmente la mia vita, sto vivendo finalmente nella verità e nella libertà, questa è l’unica cosa che vi posso dire”. Insomma, nessuno sconto all’ex Claudio Amendola.
“NON GIUDICO” – Francesca Neri dice anche di non essersi stupita per il clamore nato attorno alla fine dell’amore con Claudio Amendola. Anche perché, dopo ben 25 anni… “Il clamore non mi ha stupito”, dice. “Siamo abituati al fatto che ci siano persone che amano vivere e condividere la loro vita privata sui giornali o sui social, non giudico, ognuno deve riflettere il proprio modo di essere”. [...]
Dagospia l'8 giugno 2023. Da “I Lunatici” – Rai Radio2
Francesca Neri è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai2 tra l'una e venti e le due e trenta circa.
L'attrice ha parlato di diversi argomenti. Interpellata sulla fine del suo matrimonio con Claudio Amendola: "Io non ne ho mai parlato, non ho parlato del mio matrimonio, figuriamoci se parlo della fine del mio matrimonio. A meno che non ci siano delle ragioni molto valide. Questo fa parte del mio modo di essere.
Il clamore non mi ha stupito, siamo abituati al fatto che ci siano persone che amano vivere e condividere la loro vita privata sui giornali o sui social, non giudico, ognuno deve riflettere il proprio modo di essere. Preferisco in questo momento non parlarne. Sto molto bene, sto vivendo finalmente la mia vita, sto vivendo finalmente nella verità e nella libertà, questa è l'unica cosa che vi posso dire".
Sulla sua malattia, la cistite interstiziale: "Sto bene, oggi siamo qui e parliamo, questo è importante. Ne ho parlato in un libro, ho parlato tanto con molte persone, ho cercato nel mio piccolo di aiutare, queste malattie croniche non molto conosciute e riconosciute hanno bisogno che se ne parli. Ci sono dentro, ci convivo, negli anni tutto quello che ho fatto è tornato utile. Tanti professionisti mi hanno ringraziato per averne parlato e mi hanno coinvolto in diverse iniziative.
Io sono un personaggio pubblico ma non ho mai parlato tanto di me, però essendomi fermata, anche con il mio lavoro, e avendo deciso di aprirmi, l'ho fatto fino in fondo. Questa malattia è parte integrante del mio essere oggi, del mio essere donna, dell'aver smesso per un periodo di fare l'attrice.
L'importante è che se ne parli, che continui la ricerca. Se oggi io sono più forte è anche grazie a tutte le fragilità che ho e la malattia è una di queste. Non la vivo più come un limite, ma come un qualcosa che ho imparato a conoscere e con cui convivere".
Sulla sua carriera: "Il film 'Al lupo al lupo'? Secondo me è uno dei più bei film di Verdone. Forse il più autobiografico. C'è quella malinconia che gli appartiene. Carlo ha una capacità, soprattutto sui personaggi femminili, di disegnarli con mille sfaccettature. Non è sempre scontato, soprattutto se lo sceneggiatore o il regista è un uomo.
Quel film per me rappresenta un momento importante della mia carriera, anche l'incontro con Verdone e Rubini. Se ho voglia di tornare sul set? Adesso sì. Sento lo stimolo a rimettermi in gioco. Massimo Troisi? In questo periodo, forse anche perché il Napoli ha vinto lo scudetto, è sempre presente. Nel mio cuore, ma credo ovunque. È una delle persone più fragili e geniali che abbia conosciuto in questo mestiere.
Sicuramente il più sensibile. Io amo tantissimo Napoli per merito suo, è l'unica città dove vivrei a parte Roma. Massimo è stato e sarà sempre una delle persone più importanti della mia carriera e della mia vita. Il #metoo? Non mi è mai capitato di ricevere proposte indecenti".
Sulla società contemporanea: "Momento delle donne? Il problema sono alcuni uomini e chi le educa. La scuola e le famiglie. Sicuramente la nostra è una società maschilista e lo sarà sempre. Ma l'educazione, la sensibilizzazione, la possibilità di cambiare, crescere, maturare, vanno inseguite.
Bisogna tornare a parlare di esseri umani. Servirebbe l'educazione sentimentale come materia di studio al liceo. Ci dovrebbe essere, obbligatoria. E' più importante di religione. Non è una bestemmia, è la verità, ve lo giuro. Educazione sentimentale".
Francesca Reggiani.
Fulvio Abbate per Dagospia il 3 Febbraio 2023.
Come ti racconto, come ti annuncio, lo show di Francesca Reggiani, attrice, performer, creatura che si nutre di una verve che risponde un talento da figlia unica, irresistibilmente comica, di se stessa?
Esattamente Francesca, ragazza, romana, un lungo avvenire davanti a sè. Grazie al suo sguardo, al suo sarcasmo, al suo osservare quasi da entomologo le piccine cose dell’ormai trascurabile politica. E ancora irresistibile, su ogni altra possibile circoscrizione condominiale.
Francesca che domani sera, su Raitre, occuperà il palinsesto con le sequenze del suo spettacolo, “Gattamorta”, così in attesa, si spera, di una striscia tutta propria che oscuri, ce lo auguriamo, perfino ogni memoria di Bruno Vespa, dello stesso Biagi.
Dunque, ora e sempre Francesca Reggiani che, non molte settimane fa, ancor prima del trionfo della destra-destra al governo e del tonfo quasi abissale del Pd di Enrico Letta, ci ha fatto d’improvviso dono di una straordinaria, inarrivabile doppia intervista Giorgia Meloni-Concita De Gregorio (a chi l’avesse persa se ne consiglia caldamente l’immediata visione) che surclassava qualsiasi possibile editoriale d’autore su carta stampata, senza mai precipitare nella subcultura dei meme che a loro volta sembrano avere cancellato ogni possibile elzeviro.
La prosopopea, il birignao amichettistico di Concita De Gregorio, sovrapposti, comparati, collazionati al registro pop rionale della non ancora presidente del Consiglio, Giorgia. “Me volevo fa’ chiamà Giorgio, me sembrava però troppo…”. Gli sguardi della Meloni sulla De Gregorio meglio d’ogni trattato di antropologia comparativa.
La domanda capitale, facendo caso a Francesca Reggiani in scena, l’interrogativo assoluto muove, appunto, sul funzionamento della dinamo, meglio, l’autoclave primaria e segreta della comicità, già cosa determina il riso?
Dice il filosofo Bergson, nel proprio saggio dedicato esattamente al significato del comico, dice che una faccia triste non fa ridere, due facce tristi, l’una accanto all’altra, scatenano invece ilarità, determinano il miracolo della risata.
Bene, cosa scatena la nostra incontenibile ilarità osservando in scena Francesca Reggiani pronta a trasfigurarsi in uno nessuno centomila nella galleria del gattamortismo? Ecco, sì, l’attesa, la certezza che, d’improvviso, la fiocina della sua intelligenza comica, il dono del bradisismo gestuale e mimico, si manifestino.
Uno scrittore può scrivere un modesto romanzo, un comico ha invece l’obbligo della perfezione, d’essere sferico nel consegnare il proprio obiettivo, bersaglio, la propria trousse, il proprio beauty-case occupato dal sarcasmo, dalla resa a ogni disincanto che impone nient’altro che la risata seppellitrice, liberatoria.
Da Oscar alla carriera, la riflessione sulle smagliature che portano afflizione al decoro e soprattutto all’autostima femminile: “Non sono smagliature, è un codice a barre”.
Anche in questo caso Francesca Reggiani abbatte ogni possibile retorica attraverso la trasfigurazione d’ogni inestetismo in una riflessione istantanea sul tramonto dell’Occidente capitolino dei punti neri.
Si sappia che assai presto l’intervista doppia De Gregorio-Meloni, si arricchirà di un nuovo “Ahò”, magari questa volta in forma istituzionale. Gli occhi, le smorfie di “Giorgia” a compulsare ancora il birignao da zuppa di farro capalbiese dell’altra, la radical-chic. Le ciocie da mercatino rionale Vs. le Jimmy Choo.
Quando poi sempre lei, Francesca, scoprirà che il nuovo paniere degli italiani, accanto ai deambulatori prevede un bonus per i massaggi (in attesa del voucher ulteriore per l’“happy end”) la sua stand-up comedy sarà più significativa perfino d’ogni possibile saggio filosofico sulla fine del pensiero debole stesso, che già era a un passo dall’abisso della Tangenziale. Applausi. Bis.
Ps: Grazie Francesca, per avere fatto giustizia con il tuo talento di tutte le Geppi Cucciari del mondo con la loro comicità da cucirino.
Francesco Baccini.
Estratto dell’articolo di Sandra Cesarale per il “Corriere della Sera” il 24 luglio 2023.
(…)
Francesco Baccini negli anni '80 «emigrò» da Genova a Milano per fare musica. A Sanremo è andato una volta sola («Nei '90, con una canzone sui luoghi comuni del festival») ma è stato premiato con due Targhe Tenco. Cantautore imprevedibile, ironico e, dice lui, sottovalutato. Anche criticato: la sua Le donne di Modena è stata accusata di sessismo («Ridicolo, era una presa in giro del gallismo italiano»).
A fine settembre uscirà su Amazon Prime il suo docufilm su Luigi Tenco, Tu non hai capito niente.
«A 28 anni ero uguale a lui. Arbore, De André e Dalla erano impressionati dalla somiglianza. Fabrizio mi parlava come se ci conoscessimo da duecento anni, ogni tanto mi chiamava Luigi: “Fumate anche allo stesso modo”».
Con Faber eravate molto amici.
«Ci siamo conosciuti perché Dori Ghezzi lo portò al mini-concerto per la presentazione del mio primo disco, Cartoons . Li avevo intravisti dal palco, ma pensavo fosse un miraggio. Invece alla fine della serata Fabrizio mi invitò a cena a casa sua. È iniziata così ed è andata avanti fino alla sua morte. De André non dormiva la notte, io neanche. Facevamo mattina a parlare di qualsiasi cosa, con me rideva molto».
Enzo Jannacci.
«Il numero uno tra i miei punti di riferimento. Tragicomico, il più poeta di tutti, anche se non è riconosciuto perché in Italia l’ironia è di serie B. Mi definiva un errore temporale: “Hai meno anni di noi ma sei dei nostri”. Aveva aperto un locale, La bolgia umana, sempre vuoto. Mi diceva: “Dai, andiamo a mangiare lì, almeno ci saranno due persone».
Lucio Dalla.
«Ero stato invitato a una rassegna in provincia di Avellino con nomi pazzeschi. La sera del mio concerto piove e l’organizzatore mi propone di esibirmi il giorno dopo con Lucio. Ero uno sconosciuto, salgo sul palco e Dalla mi fa: “Bac ora sono c... tuoi”. Io canto due, tre, dieci pezzi e la gente continua ad applaudire. Alla fine mi chiede: “Cosa fai martedì? C’è l’ultimo concerto mio e di Morandi a Urbino. Vieni?». Suonai davanti a duemila persone».
(…)
Lei, invece, a vent’anni cantava nei locali di Genova.
«Almeno lì mamma non mi poteva controllare. A casa, quando intonavo qualche canzoncina urlava dalla cucina: “Mica stai cantando?”. Poi cominciai a scrivere i miei brani. Erano strani...Quando ascoltò Figlio unico voleva chiamare lo psicoterapeuta».
A 23 finì al porto di Genova come papà e nonno.
«Camallo per un anno, poi mi spedirono in amministrazione. “Farai carriera”, dicevano. Papà non c’era più, mia sorella studiava, il capofamiglia ero io. Non era la vita che volevo. Pensavo: se rimango qui dentro divento un serial killer. Facevo casini e continuavano a spostarmi da un ufficio all’altro. Mi misero al centralino. Ma m’annoiavo e iniziai a fare numeri a caso in tutto il mondo: “ Hallo, here is Porto di Genova”. Quando arrivò la bolletta del telefono quadruplicata si spazientirono: “Baccini, questa è l’ultima volta, qui non puoi sbagliare”.
Invece...
«Stavo in una stanza, da solo. Il mio compito era, una volta al mese, prendere i tabulati del centro meccanografico e metterli in una macchina che tagliava le buste paga».
Tutto lì?
«Sono durato trenta giorni. Pensavo di aver fatto un lavoro perfetto. Mi chiamò la direzione: “Non ti far vedere per i prossimi venti giorni ci sono diecimila operai che ti vogliono uccidere”. Avevo sbagliato e per la prima volta il Porto di Genova posticipò di dieci giorni la consegna degli stipendi.
Ne approfittai, diedi la liquidazione a mamma, le lasciai un biglietto e scappai a Milano con 100 mila lire in tasca, sulla mia Renault 9 a gas, aveva un vetro rotto e un faro spaccato. Vivevo in macchina come un barbone. Suonavo in un locale in cambio della cena».
Alla fine riuscì nel suo intento.
«La prima persona che accettò si incontrarmi fu Mara Maionchi, allora direttore artistico di una discografica, ho fatto X-Factor ante litteram. Era uguale adesso solo un po’ più magra. Poi mi iscrissi a un concorso e firmai un contratto con la Cgd. Ci presentammo in 1.800, rimanemmo in quattro».
Una strada in salita.
«Per farmi incidere un disco mi tolsero il pianoforte e mi trasformarono in un cantante confidenziale. “L’ironia non vende. E tu sei genovese, hai mai visto ridere Gino Paoli o Luigi Tenco?”. Devo ringraziare Gastone Razzi che lavorava in Cgd, capì tutto ma non aveva potere».
La portò a Roma da Vincenzo Mollica.
«Non sapevo chi fosse, entrai nel suo ufficio e lui mi chiese di cantare i miei brani, al pianoforte. Si gasò: “Quando inciderai questo album?”. Io: “Mai”. Mi fece uscire dalla stanza e lo sentii urlare al telefono. Da allora ho avuto la libertà di fare le canzoni che volevo».
Quali errori non rifarebbe?
«Non me ne andrei via dalla major discografica, lì avevo la mia storia, invece ho sparpagliato i miei album in cinque etichette differenti. E non farei Music Farm». Fu mandato via per una bestemmia. «In quel periodo avevo subito una truffa gigante dal mio ex manager. Mi sono svegliato una mattina e non avevo più niente. Siccome non ho il file della depressione ho ricominciato daccapo e accettai di andare in tv perché mi offrirono un cachet importante. Dopo un po’ lì dentro pensi che non uscirai più. Ero impazzito. Mi sembrava di fare un viaggio senza ritorno in una navicella che va su Marte con Iva Zanicchi».
E l’infatuazione per Dolcenera?
«È nata perché gli autori mi dicevano: “Sai che parla sempre di te?”. Io manco me ne accorgevo, ma ho finito per crederci».
(…)
Estratto dell'articolo di Massimo Calandri per genova.repubblica.it il 29 maggio 2023.
Camallo, figlio di camallo, nipote di camallo. Migrante, gli diceva Faber. Genovese da esportazione. Francesco Baccini (1960), nato e cresciuto a San Teodoro, oggi vive sul lago di Como. Non ha nostalgia. "Solo del Genoa. E del pesto". Lontano da questa città - anche lui - si sente "genovesissimo". "Ma se ghe pensu è bella. Però la canta uno che sta morendo, dall'altra parte del mondo".
"Le donne di Genova portano gonne strette. Non ridono per niente. Pensano sia normale mettersi a letto e leggere il giornale". Questa l'ha scritta lei.
"Genova è una città immobile nella sua chiusura, nel modo di pensare. Divisa in caste, rioni. Antropologicamente. Uno di Albaro ha la faccia diversa di uno di via Bologna. Siamo refiosi, antipatici come un calcio nelle palle. È difficile fare anche le cose più semplici, tipo andare in bicicletta.
È tutto stretto, non c'è spazio. Però l'incazzatura si trasforma in un centro di energia: ecco perché tanti poeti, comici, cantautori. E se te ne vai, dopo aver fatto quella palestra ecco che i nuovi ostacoli sembrano una barzelletta. È la storia dei genovesi da esportazione, come me".
Come Fabrizio De André: diventaste amici a Milano.
"Veniva a Genova solo per prendere il traghetto, e raggiungere la Sardegna. 'Noi siamo migranti' mi ripeteva. Come Colombo, nel mio Genova Blues".
Lei è nato in una traversa di via Bologna, San Teodoro.
"Da Rosa e Carlo, detto Lilla: mi ha lasciato il lavoro in porto come aveva fatto suo padre, immigrato col fratello a inizio secolo da Scandicci. Pensava di essere immortale: reduce da Mauthausen, la mattina prima di lavorare si faceva una doccia fredda.
Si è vaccinato quando c'era l'epidemìa di colera: astemio, ha preso la cirrosi epatica. Gli hanno dato 6 mesi, e sono stati quelli. Ma da bambino mi portava a Granarolo dove c'era l'erba, potevo tuffarmi. Altrimenti si giocava sulla strada, i maglioni a fare da pali: portiere. Gli osservatori delle squadre giravano per i quartieri a caccia di talenti. Un giorno un signore della Sampdoria bussa a casa nostra, e chiede di u figgiu du Lilla".
Vuol dire che ha giocato portiere nella Samp?
"E Lilla veniva a vedermi giocare, furibondo di stare in mezzo ai doriani. Da piccolo mi aveva fatto il lavaggio del cervello, ma io non ero così appassionato per il Genoa. Poi una volta sono andato allo stadio, ho visto quei colori: e mi sono innamorato".
La sua non è stata una gioventù semplice.
"Mia mamma aveva perso una bimba di 3 anni, prima di me. Era molto apprensiva, ancora di più dopo la morte di papà. Un giorno mi ha visto zoppicare, mi ha trascinato al San Martino e tanto ha insistito che mi hanno fatto un esame approfondito: epifisiolisi, un problema alla testa del femore.
Sono rimasto un anno intero a letto, ne avevo 17, ingessato come una mummia. Sono aumentato 30 chili, perché lei e la nonna mi rimpinzavano. Ma ho ripreso a suonare il pianoforte. 'Non vorrai mica fare il cantante?', ha gridato, dalla cucina. Quasi per ripicca, ho scoperto che sapevo usare la voce. Per gioco, ho cominciato a scrivere canzoni".
I primi concerti alla Panteca, in cima alla scalinata di via Balbi.
"Suonavo col cappello in testa, mi chiamavano Luigi perché assomigliavo a Tenco. Con le stesse canzoni, 5 anni dopo mi hanno dato la Targa Tenco. Al mattino lavoravo in porto: un anno da camallo, poi impiegato alla Fantozzi. Un giorno ho detto basta.
Me ne sono andato a Milano, dormivo in auto come un barbone, senza neppure i soldi per la pizza. Ma al pianoforte avevo qualcosa dire: potevo raccontare una vita da schifo. Perché l'arte è una sublimazione di ciò che ti manca. Penso ai ragazzi che fanno musica oggi, cos'hanno da raccontare: che sono stati in vacanza?".
Una sera, al 'Magia', dove suonavano anche Elio e le Storie Tese, tra il pubblico si siede De André.
"Era venuto a vedermi perché facevo capolino in un filmato mandato in onda sulla Rai da Vincenzo Mollica: 'Non può essere Tenco, è a colori', si era incuriosito Fabrizio. Dopo il concerto sono andato a cena da lui, è nata un'amicizia fortissima".
I genovesi migranti, da esportazione.
"Gli ero molto legato. Come a Enzo Iannacci e a Freak Antoni degli Skiantos. 'Sto meglio con voi, che coi miei coetanei'. Ogni tanto a casa di Faber veniva Paolo Villaggio: intelligente, sarcastico, stimolante. Sampdoriano, purtroppo: erano gli anni del loro scudetto, ma anche del nostro quarto posto. Si provocavano in continuazione".
Quanto vi ha fatto soffrire, il Grifone.
"Mi ricordo un derby, loro con Vialli e Mancini, noi con Eloi: 20 minuti ed era già tutto finito. Ma non abbiamo mai mollato. Pippo Spagnolo, il più grande dei tifosi, mi telefonava: 'Ragazzo, sei convocato'. Quella volta a Marassi mi ha presentato un anestesista del San Raffaele: Zangrillo. E poi il mio amico Carlo Pernat, rossoblù e 'genovese da esportazione': a cent'anni sarà ancora il giro per il mondo, con le sue moto. Quest'anno, che festa. La vita è un'altalena: lasciatemi sognare il Genoa in Champions e la Sampdoria in B. Mi fa piacere che oggi i blucerchiati soffrano un po', ma non che spariscano: sarebbe un peccato, per la città".
Questa Genova le piace?
"Negli anni Settanta era di una tristezza incredibile: grigia, tesa. Ha cominciato a rinascere con le Colombiane, nel '92. Col sindaco Bucci ho parlato parecchio, mi sembra intelligente. Toti direi che è simpatico, come persona. Ma con la politica ho chiuso nel secolo scorso".
(...)
Francesco De Gregori.
Morta Francesca Gobbi, moglie di Francesco De Gregori. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 21 luglio 2023.
È morta Chicca Gobbi, moglie di Francesco de Gregori. La notizia è stata confermata dall’entourage del cantautore. A quanto si apprende, la donna, che aveva 71 anni, era affetta da un tumore e la situazione è precipitata nell’ultima settimana. Il cantautore romano era sposato con la Gobbi dal 10 marzo del 1978, e dalla loro relazione sono nati due gemelli, Marco e Federico. Si erano conosciuti a scuola, uniti da una grande passione per la musica. In un’intervista De Gregori aveva detto: «Lei è sempre più brava e non lo dico da sposo, ma da musicista. A lei piace moltissimo ed è diventata molto più espressiva e compiacente verso il pubblico. Al punto che adesso suona anche il tamburello e fa i coretti su Rimmel, che peraltro è una canzone che ho scritto quando Chicca ancora non stava con me, cosa che l’ha divertita ancora di più». La coppia aveva fondato insieme anche una p iccola azienda che produceva un olio pregiato a Sant’Angelo di Spello, a Perugia. In un’intervista al , Francesco De Gregori aveva raccontato quando ha convinto la moglie a cantare con lui Anema e core (il video qui sotto). Nel testo si legge: «”Sembra strano che De Gregori canti in napoletano. Figuriamoci poi se lo fa con la sua ragazza...”. La prima volta che la fecero assieme, in un club a Nonantola, lei gli prese la mano. “Era emozionata e divertita allo stesso tempo. Con quel tanto di atteggiamento di assoluta normalità che non guastava. Confesso che anche io un po’ di emozione l’ho avvertita”. Tutto è nato da un gesto di altrettanta tenerezza del Principe. “Lo scorso anno per il compleanno di Chicca, il 21 agosto, siamo andati in gita a Napoli. C’è una trattoria dove vado spesso e di solito c’è un posteggiatore”. Parentesi linguistica per i non napoletani. Il posteggiatore non è quello che si occupa delle macchine dei clienti e le parcheggia, ma il cantante che intrattiene la sala. “Avevo pensato di chiedergli Anema e coree dedicarla a Chicca. Un po’ come fa Berlusconi-Servillo con Fabio Concato in Loro 1 di Sorrentino. Quella sera il posteggiatore non si è presentato e allora l’ho fatta io”». Nella mattinata di oggi era circolata la notizia che il concerto di De Gregori insieme a Venditti previsto per domani a Villa Bertelli a Forte dei Marmi era stato posticipato al 18 agosto. I funerali si terranno domani 22 luglio a Roma.
Da ilsussidiario.net il 21 luglio 2023.
Francesca Gobbi era la moglie di Francesco De Gregori, il cantautore romano amato da critica e pubblico.
Il grande amore tra i due è nato tra i banchi di scuola quando erano entrambi giovanissimi, ma solo molti anni dopo hanno deciso di sposarsi. Il matrimonio è stato celebrato il 10 marzo del 1978 e a far da testimone di nozze è stato l’allora segretario della FGCI Walter Veltroni. Un amore importante suggellato anche dalla nascita dei figli gemelli Marco e Federico. Una coppia nella vita, ma anche nel lavoro visto che Francesca condivide con il marito la grandissima passione per la musica a tal punto da esibirsi diverse volte anche insieme.
Francesca, per gli amici più stretti semplicemente Chicca, è cresciuta a stretto contatto con il mondo della sette note pur essendosi occupata per tantissimi anni dell’azienda di famiglia. La Gobbi, intervistata da Il Corriere della Sera, ha raccontato l’incredibile esperienza di calcare il palcoscenico con il marito; una grande emozione che però la donna, che in passato ha cantato per il Coro del Testaccio di Roma, ha vissuto con grande naturalezza.
(...) Proprio De Gregori, intervistato da La Sicilia, ha parlato della moglie dicendo: “lei è sempre più brava e non lo dico da sposo, ma da musicista. A lei piace moltissimo ed è diventata molto più espressiva e compiacente verso il pubblico. Al punto che adesso suona anche il tamburello e fa i coretti su Rimmel, che peraltro è una canzone che ho scritto quando Chicca ancora non stava con me, cosa che l’ha divertita ancora di più”.
Dagospia il 24 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:
Da “Posta e risposta” - “la Repubblica” il 24 luglio 2023.
Caro Merlo, è morta Chicca Gobbi, la moglie di Francesco De Gregori, 45 anni di matrimonio, una vita insieme sin dai banchi di scuola. Trovo che sia una grande, bellissima storia d’amore.
Francesca Banti - Pisa
Risposta di Francesco Merlo: La ricordo spiritosa, discreta, profonda, elegante. So che Francesco De Gregori ha fatto tutto con lei e per lei, rivedo la delicatezza di uno sguardo pieno d’affetto che “molceva il core”. E non è questione di miracoli e di pensieri romantici, ma della lunga vita insieme di una coppia di poeti che era coppia ovunque, nella musica e a casa, per strada e nei sogni, una di quelle coppie che gli altri guardano con rispetto inquieto, con ammirazione stupita o con compiacimento diffidente, le coppie che non si separano perché ciascuno riempie l’altro di sé, ma non lo ingombra mai.
È l’amore coniugale del pur disordinato Montale, “ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale”. E poi è arrivata la malattia, con quel pensiero che Saba per discrezione mette tra parentesi (“e non potere – come vorrei – dargli questa mia, della quale oggi ho vergogna, inutile salute”).
Aveva 71 anni: “Bellamore Bellamore / non mi lasciare / tu che non credi ai miracoli / ma li sai fare”. C’è Chicca in tutte le canzoni di De Gregori, le loro tante bellissime canzoni che sono diventate le nostre canzoni.
Francesco Facchinetti.
Estratto da sportmediaset.mediaset.it mercoledì 27 settembre 2023.
Francesco Facchinetti è pronto a intraprendere una nuova carriera. Dopo una vita nel mondo della musica, il figlio del cantante dei Pooh Roby si è buttato da qualche anno sulla comunicazione e ora è pronto a sbarcare anche nel calcio: ha infatti superato l'esame per diventare agente Fifa […]. "Sono tornato bambino, sto impazzendo, sono felicissimo – ha scritto nelle storie su Instagram - Per tanti di voi non vuol dire niente, ma per me vuol dire tantissimo. Esame passato. Seicento pagine in inglese, venti domande, potevi fare al massimo cinque errori, la prima volta mi hanno bocciato per sei errori e la seconda è stata quella buona. Ho studiato per due mesi e mezzo, ma ce l’ho fatta, ringrazio quelli che mi sono stati vicino. Sono libero di operare sul mercato mondiale”.
Francesco Facchinetti: «Perdevo i capelli, ho risolto con una patch cutanea. Ormai mangio solo piante». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.
Il talent scout e figlio di Roby Facchinetti si racconta: «Ho avuto relazioni con donne molto belle, Aida Yespica è una di queste. Mi sono ritrovato su un’isola deserta con lei, cosa potevo chiedere di più?»
A un concerto dei Pooh di colpo mancò la corrente.
«Dietro il palco c’era questa leva gigante del generatore, con la scritta Off. “Vediamo che succede se la tiriamo giù”, ci siamo detti io e Daniele Battaglia, bambini, afferrandola a quattro mani. Pof. Buio. Silenzio. Abbiamo confessato il misfatto solo dieci anni dopo», si ri-autodenuncia Francesco Facchinetti, 43 anni, conduttore radio e tv, dj, doppiatore (se serve pure attore), imprenditore, cacciatore di talenti e a breve, per non farsi mancare niente, agente di calciatori. Oltre che, orgogliosamente e per sempre «figlio di Roby», lo stesso che al momento lo sta martellando di telefonate sul cellulare. «Più gli sbatto giù e più richiama a manetta. Come tutti gli artisti è convinto che il mondo gli giri intorno, non molla eh». Del resto il dna da Duracell è quello e non mente.
Mi sa che fate sempre così, voi due.
«Siamo teste dure, ci scontriamo spesso, discutiamo ogni santo giorno, su qualunque cosa. E da buoni bergamaschi ci diciamo tutto in faccia. Poi però ci passa e finisce lì».
Anni fa siete partiti per la Lapponia.
«Papà si avvicinò a una renna per accarezzarla e quella gli mollò un calcio in faccia che per poco non perde un occhio. Poi gli organizzai un volo sul girocottero, quella specie di elicotterino che ti costruisci da solo. Funziona. A 300 metri da terra il pilota ha spento il motore lasciandosi precipitare per qualche istante, prima di riaccenderlo. Quel matto di papà si è divertito».
Pure lei ogni giorno se ne inventa una.
«Sono un climber, scalo montagne. E al diavolo se è difficile».
Del resto se da piccolo ti chiamano Attila...
«Parevo un vichingo, occhi azzurri, capelli quasi bianchi. Un casinista nato. Mi sono fatto cacciare dalla Montessori, unico al mondo. Ero scappato dall’asilo per farmi un giro».
La sua migliore scorreria da baby Unno.
«Dodi aveva una bellissima Golf cabrio parcheggiata in giardino. Spalancai lo sportello, tolsi il freno a mano e restai a guardare l’auto correre e schiantarsi nel bosco. Ringrazio il cielo che nessuno dei miei figli ha ripreso da me».
A 14 anni era un improbabile catechista.
«Frequentavo il liceo classico di Comunione e Liberazione vestito da punk con la cresta multicolore. Ai bambini insegnavo religione e le mosse di wrestling. Nella mia testa ero convinto di essere un genio e di poter andare avanti senza aprire un libro. Ho recuperato dopo, studiare mi ha aiutato a non sentirmi a disagio».
Nascere figlio dei Pooh è stato un marchio?
«Una figata, dai. Però non ho mai osato paragonarmi a papà, lui è una rockstar, un genio della madonna. Lo apprezzavo persino nella fase da punkabbestia, quando ascoltavo i Sex Pistols e frequentavo il laboratorio anarchico. Nessuno lo sapeva, capirai, i Pooh, il simbolo borghese. Quando lo scoprirono fui cacciato».
La cosa più insensata che ha fatto?
«A 18 anni sono partito per Cuba, solo e senza meta. “E ora che faccio?”. Impari ad affidarti alla Provvidenza. E scopri che la vita è piena di sorprese. A Los Angeles, mi sono ritrovato alla festa di compleanno di Quincy Jones che mi suonò al piano Man in the Mirror di Michael Jackson».
Gli anni da pr all’Hollywood.
«Mi affidavano Leo DiCaprio, Britney Spears, George Clooney, Jim Carrey, ero una sorta di giullare che li portava a spasso in quel paese dei balocchi che era Milano, da mezzanotte alle sei del mattino, quando può accadere di tutto».
«Porta in alto la mano/Segui il tuo capitano/Muovi a tempo il bacino/Sono il capitano uncino», cantava nel 2003 il suo alias Dj Francesco. Ci è affezionato o ha rimosso?
«E perché dovrei? È stato un momento bellissimo della mia vita, ero un pischello mezzo svitato di Mariano Comense, mi sono ritrovato primo in classifica per venti settimane, la Canzone del Capitano la cantavano tutti».
Vanta persino un duetto con Pavarotti.
«Ero in macchina con Claudio Cecchetto. Mi chiede: “Che ti andrebbe di fare?”. “Scelsi la risposta più assurda: Un pezzo con Pavarotti”. Lui imperturbabile: “Va bene, chiamo Nicoletta”. Luciano si divertì un sacco a cantare con questo schizzato con metà testa rasata e metà no».
Naufragò all’Isola dei Famosi con Aida Yespica.
«Ho avuto relazioni con donne molto belle, Aida è una di queste. Mi sono ritrovato su un’isola deserta con lei, cosa potevo chiedere di più?».
Ha condotto quattro edizioni di X Factor. A 43 anni ha capito il suo qual è?
«Non sono un uomo di talento, sono portato a fare troppe cose insieme, però ho un pregio: sono un visionario, riesco ad immaginare prima quello che potrà accadere. Cecchetto l’aveva capito: “Diventerai come me”. Io invece sognavo di essere Jovanotti».
Sua moglie Wilma le è (letteralmente) caduta tra le braccia.
«Ci siamo conosciuti su una chat tra amici, si programmava una vacanza di gruppo a Marrakesh. Per un po’ è rimasto un rapporto epistolare e basta. Quando finalmente ci siamo incontrati, uscendo dalla porta finestra della cucina, Wilma è inciampata ed è caduta ai miei piedi. Da lì è cominciata. Due persone agli opposti, bianco e nero, che si attraggono con intensità».
Ha ammesso di essere un marito faticoso.
«La vita con me è complicata, piena di continui imprevisti. Ogni tanto ho bisogno di stare solo, perdermi nei pensieri, trovare stimoli».
Vive attaccato al cellulare, per questo siete finiti in terapia di coppia.
«Ho smesso di parlare al telefono tre anni fa, comunico solo per WhatsApp, dalle sei del mattino a mezzanotte, spaziando tra fusi orari diversi. Lei si inserisce in questo flusso lanciandomi dietro cose, verbali e no. E io le ricordo: guarda che se sto a casa tutto il giorno poi è peggio».
Il suo difettaccio.
«Che è anche il mio miglior pregio: sono testardo. Non ascolto consigli, voglio sbagliare perché l’ho deciso io».
Con la sua ex Alessia Marcuzzi avete allestito una gioiosa famiglia allargata.
«Io e Alessia siamo molto simili, abbiamo una grande considerazione di noi stessi, un forte amor proprio, che ci ha portato a realizzarci nella vita. Se decidi di fare un bambino con una persona, è chiaro che c’è amore, c’è passione, c’è tutto. E tra noi è stato così. Quando è finita, è rimasta una grande amicizia, l’affetto. Resto sempre legato alle persone con cui ho condiviso una parte di vita, ancor più se è la madre di mia figlia. E il nostro obbiettivo era ed è il bene di Mia. Creare una zona protetta ci è venuto naturale».
Sua sorella Alessandra ha raccontato di quando la cacciò di casa, esasperata.
«Mamma mi aveva già buttato fuori e lei mi accolse come un pulcino bagnato. Appena arrivato, lanciai la borsa e spalancai la porta. Prendendo in pieno uno specchio del Cinquecento grosso tre metri che si era comprata con i primi risparmi. Si ruppe in cinquantamila pezzi, lei si buttò in ginocchio a piangere. Facevo feste su feste, disastri continui, capirai, era una casa in centro a Milano e io avevo 19 anni. I vicini presentarono non so quanti esposti per schiamazzi, la donna delle pulizie fece la spia, svelandole che ci dormivamo in ventidue».
Sta sempre a dieta pollo, bresaola e riso?
«Ormai sono quasi vegano, mangio piante. Mi dedico al massimo a lavoro e famiglia perciò non posso stare male e questa è l’unica dieta che me lo permette. Non fumo e non bevo, nemmeno la birra, lo so, sono triste».
Con la sua Newco, oltre a seguire i Pooh, ha lanciato oltre 100 artisti — tra cui Frank Matano, Fedez, Mariasole Pollio, Elettra Lamborghini, Irama, Rocco Hunt e Mr Rain. Se n’è lasciato scappare qualcuno da sotto il naso?
«Come no. Blanco. Avevo intuito il potenziale ma non ho avuto tempo di seguirlo e dopo era tardi, porca vacca. E Ultimo. Mi piaceva molto, non ho intercettato il momento. Matteo Paolillo, prima che esplodesse in Mare fuori. Quelli che spaccano però prima o poi li ho visti tutti».
E adesso metterà in scuderia i calciatori.
«Un progetto che parte da lontano, con una nuova società, ci ho messo 5 anni. Intanto mi occupo già dei diritti di immagine di Sergej Milinkovic-Savic e Sandro Tonali. Poi passerò alla procura, ho un patentino inglese, spagnolo e quello Fifa, l’unico impossibile è quello italiano, bisogna passare un esame da avvocato. Il calciatore è un artista, un’icona, un supereroe».
Era stempiato, poi si è ripresentato con il ciuffo e lo ha raccontato ai quattro venti.
«Ho sempre avuto questo problema dei capelli che mi trapanava il cervello. Li perdevo e ho provato di tutto. Fialette, polverine colorate, un disastro, sporcavo il cuscino, imbarazzante. Poi ho trovato la soluzione con una patch cutanea e l’ho ammesso, pazienza se mi dicono che ho in testa un gatto morto, mi sento meglio».
Ha ancora la Rolls Royce?
«Più d’una, mi piace collezionare auto di lusso come le Rolls, in onore al mio idolo John Lennon che la sua la dipinse a fiori. Le ho avute nere, verdi, bianche, me le merito perché mi sono fatto un c..o quadrato. Ci giro, non le tengo in garage. Ma crescendo capisci il giusto peso da dare ai beni materiali, che non sono fondamentali».
Il suo stile nel vestire è piuttosto originale.
«Il mio scopo è stare comodo e perdere meno tempo possibile. Per cui: o tuta o pigiama, ai piedi ciabatte, sneakers o espadrillas. Wilma è disperata. Non metto jeans da dieci anni, non li sopporto, come fate? Tirano. Sfregano. Senza attrito sulle cosce mi sono ricresciuti i peli».
Insegnò a Berlusconi i segreti del web?
«Mi aveva scelto come punto di riferimento per la sua discesa in campo digitale e mi convocò ad Arcore. Gli dissi: “Presidente, lei è l’italiano più famoso al mondo, più di Leonardo da Vinci, ma ha meno follower della Boschi”. Si illuminò. Però ero un consulente costoso e alla fine non se ne fece niente».
Francesco Guccini.
Fulvio Paloscia per firenze.repubblica.it giovedì 30 novembre 2023.
A Pavana tutto può succedere. Anche che una storia si snodi in occasioni storiche diverse: le prime elezioni del 1948, la guerra civile spagnola del 1936 e l’Italia del 1972, quando la giornalista Penelope Rocchi si trova a dipanare il filo rosso che le lega. Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli intrecciano le epoche nel nuovo giallo a 4 mani Vola Golondrina (Giunti, il 6 dicembre alle 18.30 da Giunti Odeon la presentazione). I tre anni non sono capitati a caso nell’officina creativa dei due autori. Soprattutto il più recente. La parola a Guccini.
Le elezioni del 1972 sono passate alla storia per il clamoroso avanzamento del Msi. È un caso che abbiate scelto proprio quel momento, visto il vento che tira oggi?
“No, è un riferimento al presente della destra al governo. Solo che 50 anni fa chi era di quell’idea si nascondeva, ora invece loro adoperano il potere con grande arroganza e insipienza. Mi colpisce il fatto che si stiano impadronendo della cultura, che non è mai stato il loro settore.
Un’appropriazione che mandano avanti soprattutto con la forza della tivù, ma quanti nomi della sinistra e quanti della destra hanno avuto un peso reale nella cultura in Italia? Sappiamo benissimo da quale parte pende la bilancia”.
A Lucca l’amministrazione di centrodestra non ha voluto intitolare un strada a Pertini mentre a Grosseto il Comune, del medesimo colore, ha inaugurato via Almirante.
“Un partigiano contro un collaboratore della Difesa della razza, rivista antisemita fascista. La destra è così: la gente ci ha eletto, quindi combiniamo quello che ci pare. Ma se facciamo la proporzione tra gli elettori di Fratelli d’Italia e chi non è andato a votare?”.
Perché stavolta a indagare è una donna?
“Nel 1972 le conquiste femministe del Sessantotto erano ancora giovani, e Penelope è una figlia di quelle lotte: una ragazza emancipata, sa quello che vuole e può farlo, anche se limitata da una redazione maschilista. È un momento in cui le conquiste del mondo femminile ancora cozzano con la prepotenza virile”.
È stato difficile calarsi nei panni femminili?
“Mi hanno aiutato le tante amiche con cui sono in contatto”.
Il mondo femminile è una costante delle sue canzoni, e della vita. L’aggettivo “patriarcale” la riguarda?
“La famiglia Guccini era un clan dove le donne avevano un potere gestionale. Curavano gli animali, ma tenevano i rapporti con il mondo esterno, mentre gli uomini se ne stavano sempre chiusi al mulino. Certo, era un nucleo patriarcale nelle tradizioni, ma anche qualcosa di diverso. Mia nonna, ad esempio, era figlia unica, una rarità all’epoca. Si trovò un’eredità che le permise di gestire un suo potere. Fu lei a far studiare mio padre con quei soldi, contro la volontà dei tempi, di mio bisnonno soprattutto che si era trovato capofamiglia a sedici anni e certe sue posizioni, sotto un certo punto di vista, si possono anche capire. Per lui mio padre doveva faticare al mulino, e visse il gesto di mia nonna come una ribellione”.
Cosa ha imparato dalle donne della sua famiglia?
“A stare sul palcoscenico. Mia madre era una chiacchierona, spiritosa e permalosa, a suo agio in mezzo alla gente”.
(…)
Francesco Guccini ci ricorda il bello delle canzoni in osteria. "Bella ciao", "Hava Nagila", "La tieta". Il nuovo disco raccoglie un'antologia di titoli famosi che invitano a condividere passioni e allegria. Gino Castaldo su L'Espresso il 21 novembre 2023
Evviva evviva, il Maestro è tornato, o forse a ben vedere non se n’è mai andato. Tra le tante inaspettate comunicazioni che arrivano dal mondo della musica c’è quella di un nuovo disco in uscita di Francesco Guccini, il quale, non dimentichiamolo, ha iniziato il suo percorso alla metà degli anni Sessanta. C’è una singolare circolarità nel suo lavoro.
Dopo aver abbandonato le scene, dischi e concerti, per dieci anni, ha deciso di tornare mantenendo solo il proposito di non proporre più canzoni nuove, che è comunque una prova di onestà intellettuale di cui pochi sono capaci. E così, visto che di idee abbastanza buone per pezzi nuovi non ne ha, si è tolto la somma soddisfazione di incidere i suoi pezzi preferiti, prima in un disco dell’anno scorso intitolato “Canzoni da intorto”, poi, provandoci gusto, tornando quest’anno con un altro disco di cover intitolato “Canzoni da osteria”, in cui c’è di tutto, da “Bella ciao” a “La tieta” del catalano Juan Manuel Serrat, dalla ebraica “Hava Nagila” fino alle rimembranze americane dei “Cotton fields” di Huddy Leadbetter.
Ma in fondo quello che colpisce davvero è quella circolarità perfetta che incornicia la sua carriera. In osteria ha cominciato e in osteria, almeno come evocazione, ritorna. In osteria da dove non si è mai fino in fondo allontanato, perché corrisponde a una precisa visione della musica. La verità è che anche quando dalle osterie bolognesi ha iniziato a essere un personaggio celebre, abituato a cantare davanti a migliaia di persone, non ha mai perso la convinzione che un concerto fosse prima di ogni altra cosa una forma di condivisione, quello che appunto si faceva in osteria e che lui ha continuato a perseguire in ogni luogo, perfino nei freddi e rumorosi palasport.
È un bel pensiero, che ci riporta a una domanda essenziale: perché si fa musica? Sembra scontato, ma non lo è. La musica si può fare per mille ragioni e tutte legittime, ma sicuramente ce ne sono alcune migliori di altre. E quell’idea di condivisione e forse la più bella di tutte.
Francesco Guccini e le sue «Canzoni d’osteria»: «La mia Bella Ciao dedicata alle ragazze iraniane». Matteo Cruccu su Il Corriere della sera l'11 novembre 2023
Il Maestrone presenta il nuovo album dopo i successi dell’ultimo, il più venduto tra i dischi fisici: «Gli oppressori ci sono anche da noi, basta vedere come è andata in Rai»
L’osteria per anni è stata la sua coperta di Linus, luogo d’elezione dove scambiare idee, scriver canzoni (e bere vino, molto vino). «Oggi no, vado a dormire al massimo alle 11. E sull’Appennino, dove vivo, osterie non ce ne sono». Sì, il Maestrone, Francesco Guccini, ad anni 83 ha archiviato da tempo le gozzoviglie nell’album dei ricordi. Epperò a quelle tavole conviviali frequentate in gioventù ha voluto dedicare un album che si intitola per l’appunto «Canzoni da osteria», 12 cover dalle più varie tradizioni popolari di tutto il mondo.
Un disco che segna il ritorno dopo un anno. In quel caso erano le «Canzoni da intorto», diventate l’album fisico più venduto del 2022: perché del Guccini dell’ultimo periodo non esistono, per sua espressa volontà, versioni digitali. «Non me ne intendo e non ne voglio sapere niente» taglia di netto lui, all’interno di un’Aula Magna dell’Università Statale di Milano, gremita di studenti, tutti potenziali pronipoti del nostro. Scelta non a caso: «Molti dei brani sono quelli che cantavamo quando studiavo io». Come «21 Aprile», scritta contro i Colonnelli greci dal suo amico di quel tempo, Alexandros Devetzoglou che Francesco canta nella lingua d’Omero. L’antifascismo chiude il disco. E lo apre: con una versione della sempiterna «Bella ciao». Riveduta e corretta però: «L’ho dedicata alle ragazze iraniane perseguitate dal regime. Vi ho messo delle parti in farsi, la loro lingua, e l’ho declinata al femminile». Mentre l’invasore si trasforma in «oppressore». Guccini però non ce l’ha solo con gli ayatollah: «Gli oppressori sono anche da noi. E per sapere chi sono basta chiederlo a Fazio, a quelli cacciati della Rai».
Nel disco c’è anche una canzone in ebraico, «Hava Nagila», composta dal musicologo sionista nel 1918 Abraham Zwi per festeggiare la vittoria degli inglesi in Palestina e la dichiarazione Balfour, pietra angolare del futuro Stato d’Israele. Canzone che potrebbe far discutere: «In realtà — controbatte il Maestrone — l’avevo messa in cantiere ben prima di questa tragica guerra, per dedicarla a un altro amico di università, l’israeliano Elisha. Del resto su questo conflitto ho le idee molto chiare». Guccini non sopporta le «tifoserie che vedo in tv. Io sto con chi sta in mezzo, le vittime». Ed evoca una vignetta del compianto amico Staino, di cui ha partecipato ai funerali: «Prendendo a prestito il mio Il vecchio e il bambino, disegnò l’anziano con la bandiera israeliana e il piccolo con quella palestinese». E ricorre ancora al suo straordinario canzoniere, Francesco, citando il finale della celeberrima Auschwitz «Io chiedo quando sarà/che l’uomo potrà imparare/ a vivere senza ammazzare/ e il vento si poserà» e chiosando «Sarà retorica, ma io la penso così». Capisce però le ragioni di Zerocalcare: «Anch’io ho fatto i miei boicottaggi: quando non ero d’accordo con Berlusconi, non sono mai andato nelle sue reti. Anche se nessuno mi chiamava, quindi non ho fatto troppa fatica».
Dall’attualità della politica a quella della musica dice di non «ascoltare il 90 per cento di quello che passa in radio o sulle piattaforme». E di trovarsi d’accordo con Riccardo Muti: il direttore ha detto che si parla troppo dei Måneskin e poco della cultura italiana. Anche se pensa che «facciano un buon lavoro se sono ascoltati in tutto il mondo». Il suo più grande rimpianto però è di non poter più riuscire a leggere per i problemi alla vista, lui che è sempre stato un divoratore di libri e un apprezzato scrittore di gialli: «Un peso enorme e questo mi fa soffrire: mi sento come Borges, oggi che posso avere tutti i libri del mondo, a differenza di quando ero un giovane squattrinato, non li posso leggere». E se magari qualche altro giallo ce lo regalerà (ed è l’occasione per lanciare una bordata anche al ministro della Cultura Sangiuliano «lui di sicuro non li leggerà come non ha letto quelli del Premio Strega»), quello di cui si dice certo è che «non ci sarà un terzo disco di cover, anche perché non riesco più a reggere giornate faticose come queste». L’aveva già detto in passato però: speriamo cambi, di nuovo, idea.
Biasanott da osteria. Guccini e i frasifattisti incapaci di scansarsi e farcelo ascoltare. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Novembre 2023
Alla presentazione del suo nuovo album di canzoni di altri, il cantautore 83enne ha preso la parola dopo troppi minuti, che a noi in platea sono sembrati ore, di discografici e professori capaci solo di dire banalità
«Avevo 29 anni, adesso ne ho 83: devo ammettere che tra le due cose c’è una certa differenza». Francesco Guccini era un grande vecchio già prima dei trent’anni, e infatti questa è la risposta a una domanda su “Canzone delle osterie di fuori porta”: aveva 29 anni quando si alzava tardi tutti i giorni e tirava sempre a far mattino, 34 quando uscì la più precisa canzone sull’invecchiare mai incisa. Come facesse a sapere già tutto non lo sa nessuno, secondo me neppure lui.
«Io non sento praticamente niente di quello che hanno detto loro». Alla presentazione di “Canzoni da osteria”, il suo nuovo album di canzoni di altri, il massimamente dispettoso autore che ha deciso di non scriverne più di proprie prende la parola dopo non so quanti minuti, percepiti come ore o forse giorni da noialtri in platea, che sappiamo che Francesco Guccini è un oratore formidabile.
Lo sappiamo tutti, tranne il discografico che sale per primo sul palco e ci spiega che lui è della Bmg ma col disco c’entra anche non so bene cosa la Universal, e ora ci spiega il titolo che è diverso da quello della raccolta precedente epperò il progetto è lo stesso (avvincente, valeva la pena non dar subito la parola a Guccini).
Lo sappiamo tutti, tranne i professori che avrebbero il compito d’intervistarlo nell’aula magna della statale di Milano, e che trascorrono minuti (percepiti: mesi, anni) a: ripetere «tutti e tutte», sia mai ci sentiamo escluse; spiegarci che Francesco Guccini è un intellettuale (ah vedi, pensavo centravanti); recitarci la voce Wikipedia di Guccini, tot libri, tot dischi, tot anni di carriera; dire imperdibilità come «sono, lo dico senza retorica, emozionato».
Quando finiscono di compiacersi ascoltando loro stessi, e io finisco di dirmi che per forza gli studenti sono asini, con professori così incapaci di sintonizzarsi con coloro cui parlano, allora Guccini, che a 83 anni ha più senso dello spettacolo dei trapper, finge di non avere per un problema di diffusione sentito quel che è stato detto fino ad allora, così da poter passare a rispondere quel che gli pare. Professionista.
«Passo per un grande esperto di osterie: ne ho frequentate tre», e a quel punto Guccini dice cose che suonano diverse se sei cresciuta a Bologna. «Si chiamava Osteria dei poeti, il che illudeva molti di noi». Era in via dei Poeti, dove lui non lo sa ma abitava la mia amichetta del cuore, quella dalla quale da piccolissima copiai tutti i consumi culturali, Guccini compreso.
Era, spiega Guccini, cosa diversa dai bistrot di cui adesso è piena Bologna (lui non usa la parola «bistrot» perché è una persona seria): «I vini erano di due tipi, bianco o rosso, trebbiano albana o sangiovese, 25 lire. Adesso dicono: sentore di frutti di bosco. Mio nonno diceva “cazzo, sa di frutti di bosco”, e lo cacciava via: altra generazione». Per altre 25 lire, rievoca, se avevi fame ti davano un uovo sodo: «C’era grande scelta».
“Canzoni da osteria” si apre con “Bella ciao”, di cui Francesco Guccini dice che è «un piccolo omaggio alle donne iraniane», sottolineando – consapevole che da soli i giornalisti presenti mica lo noterebbero – che per adattarla ha cambiato «l’invasor» in «oppressor», «lì non c’è invasione ma c’è oppressione», e che però sa che «son cose che non servono a niente»: nel secolo che s’interessa solo ai gesti simbolici, è commovente sentire qualcuno consapevole del fatto che i simboli non hanno niente di concreto.
Contiene anche, “Canzoni da osteria”, due canzoni in bolognese, che «saranno le più criticate. Dai bolognesi». L’uomo che ha passato la più parte della propria vita artistica a Bologna, che ha titolato un disco col suo indirizzo bolognese, quell’uomo lì è di Modena, «e già questo getta un’ombra inquietante» su di lui per i bolognesi «convinti che Bologna sia la capitale del mondo».
La Bologna di quell’osteria di fuori porta in cui invecchiava da ventinovenne è una Bologna che non ci fu più quasi subito, quella del ristorante della stazione aperto tutta notte, ma poi arrivò l’austerity del ’73, l’attentato dell’80, e finì il tempo in cui si poteva mangiare una lasagna all’alba, il tempo dei biasanott, parola bolognese per dire quelli lì che vivevano la notte e ai quali Francesco Guccini vorrebbe che Bologna intitolasse una targa.
I biasanott che lo fermavano e gli dicevano Francesco ma che belle canzoni, Francesco ma che canzoni incredibili, hai mica cinquemila lire da prestarmi? La Bologna dove nessuno dormiva mai e, se Guccini portava gli studenti americani alla festa dell’Unità e quelli si meravigliavano che fosse proprio uguale alle sagre loro, lui poteva rispondere: sì, uguale, ogni tanto mangiano un bambino ma a parte questo uguale.
Al pranzo successivo alla conferenza stampa, sua cognata racconta del primo Natale con la famiglia di Raffaella, la moglie, quando Francesco portò un tartufo «grande come un melone», e nei decenni a venire ne ha portati di molto più piccoli, tanto ormai l’aveva conquistata, e io penso che è un’immagine che sembra scritta da Guccini, burattinaio di parole.
Uno di fronte al quale, per ragioni misteriose, nessun inadeguato intervistatore ritiene mai di dire: so che non siete qui per ascoltare me, e poi tacere. Questa pagina prende il nome da un’invettiva del Guccini trentaseienne (un brano che Guccini ritiene minore, giacché nessuno è meno in grado degli autori di giudicare le opere). Ci ripenso quando uno dei due professori sul palco dell’aula magna premette all’ultima domanda «Il tempo è tiranno»: penso che «mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d’un cantante» era un verso che aveva senso in un secolo in cui l’università ci pareva un’istituzione seria. Non un posto di frasifattisti incapaci di scansarsi e farci sentire Guccini.
Francesco Leone.
Francesco Leone: “grazie a Fosca supero le mie paure”. Nicola Santini su L'Identità il 4 Gennaio 2023
Tra i protagonisti della serie tv diretta da Giulio Manfredonia, anche in queste nuove puntate, ci sarà uno degli attori che ha già ottenuto consensi nella prima edizione: Francesco Leone. Alla vigilia del ritorno sul piccolo schermo e in attesa di debuttare al cinema con una produzione internazionale, Leone si racconta a L’Identità.
Francesco, quali novità ci saranno su Pino Ricci, il personaggio che interpreti?
Diciamo che è un personaggio che prova un po’ a superare le sue paure: se lo scorso anno il blocco era legato ai timori di entrare in azione sul campo, quest’anno farà i conti con una situazione sentimentale che lo metterà particolarmente in crisi.
Com’è stato tornare sul set di Fosca Innocenti?
Una grande emozione, quella sensazione tipica di quando torni a casa, in famiglia, insieme a persone a cui vuoi bene. Il tempo è letteralmente volato!
Secondo te cosa il pubblico ha apprezzato di più nella prima stagione ?
La bellezza della normalità. Rincorriamo spesso e volentieri effetti speciali per emozionarci, dimenticandoci che la vita è straordinaria nella sua semplicità. Fosca Innocenti racconta la storia di un commissariato di provincia con le vite dei suoi protagonisti che potrebbero essere tranquillamente quelle di ognuno di noi in ogni sua sfumatura emotiva. Credo che il pubblico abbia percepito questa voglia di leggerezza, di normalità, questa vicinanza tra il mondo di Fosca e lo spettatore.
Come nasce la tua passione per la recitazione?
Nel 2015 a Pantelleria, dove mi trovavo in vacanza. Luca Guadagnino stava girando “A bigger splash” e mi sono ritrovato a fare la comparsa nel film. Vedere il set, gli attori, il regista alle prese con la troupe… è stato un colpo di fulmine, è nato tutto da lì.
Generalmente cosa ti spinge ad accettare un ruolo?
La voglia di cimentarmi in qualcosa di nuovo. Mi stimola l’idea di portare sul set ruoli magari anche lontani dal mio modo di essere. Credo che questa sia la parte più bella del mestiere dell’attore.
Quali sono stati e sono i tuoi punti di riferimento?
Film come La grande bellezza, È stata la mano di Dio. Sono capolavori che non smetterei mai di guardare. Tony Servillo è un maestro, uno di quegli attori da cui non smetti mai di imparare: ogni volta che vedi un film con lui capisci quanto sia straordinaria la sua capacità di indossare maschere sempre credibili.
Il ruolo dei tuoi sogni?
Essere protagonista di un film d’azione, ne sarei entusiasta.
Il regista da cui ti piacerebbe essere diretto?
Nutro profonda ammirazione e stima per tutti i registi italiani perché credo che fanno un lavoro incredibile nel portare avanti con orgoglio e credibilità il cinema del nostro Paese. Se dovessi scegliere ti direi Paolo Sorrentino perché come ti dicevo amo in maniera particolare i suoi film. È un genio.
Nel tuo curriculum spiccano anche un’esperienza televisiva accanto a Enrica Bonaccorti: si tratta di una parentesi oppure non escludi in futuro di ripetere esperienze di un certo tipo?
Con Enrica ho fatto un programma su Tv8 che si chiamava “Ho qualcosa da dirti”. È stata un’esperienza che mi ha lasciato dei bellissimi ricordi, sia umani che professionali. La tv è molto diversa dal cinema, ma altrettanto affascinante. Perché no? Qualora si presentasse una bella occasione coerente con il mio percorso la valuterei con interesse.
Lontano dal set, come ti piace trascorrere le tue giornate?
Con gli amici, con la mia famiglia, mi piace ascoltare musica, fare sport. Mi piacciono le cose semplici, penso che siano fondamentali per restare in armonia con se stessi.
Che rapporto hai con le tue origini siciliane?
Un rapporto viscerale, amo profondamente la mia terra e sono molto legato a Palermo, la mia città. Quando mi hanno proposto di essere protagonista di Sicilian Holiday, un film ambientato a Sciacca con la regia di Michela Scolari e prodotto anche dal premio Oscar Adam Leipzig, che uscirà prossimamente. Di questo film, però, altro non posso ancora dire, se non che per me è stata la sintesi perfetta di cosa mi rende felice: un film girato nella mia terra.
Francesco Nuti.
Francesco Nuti compie 68 anni: gli inizi, l’incidente domestico, come sta oggi, 7 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2023.
Il regista di «Caruso Pascoski» e «Tutta colpa del paradiso», che a luglio sarà premiato con un Globo d'Oro alla carriera, è nato a Firenze il 17 maggio del 1955
Il Globo d'Oro alla carriera
Il Premio alla Carriera della 63ma edizione del Globo d'Oro (riconoscimento cinematografico assegnato dall’Associazione della Stampa Estera in Italia) sarà conferito il prossimo 5 luglio a Francesco Nuti. L’attore, regista, compositore e produttore fiorentino - che proprio oggi compie 68 anni - sarà rappresentato da sua figlia Ginevra. «Siamo molto emozionati per questa sessantresima edizione - hanno detto i direttori artistici Claudio Lavanga e Alina Trabattoni - non solo perché torniamo in uno dei luoghi storici del premio, Villa Massimo, che per anni ha accolto i gala del Globo d'Oro, ma anche perché il comitato ha scelto di conferire il Globo alla Carriera a uno dei protagonisti tra i più significativi, che ha rappresentato un punto di snodo per il nuovo cinema italiano, Francesco Nuti. Non ci sarà lui, per ragioni legate alla sua purtroppo precaria salute, ma sua figlia Ginevra, che ringraziamo per aver accettato il nostro invito».
Gli inizi con i Giancattivi
La carriera artistica di Francesco Nuti - nato a Firenze il 17 maggio del 1955 - è iniziata sul finire degli anni Settanta insieme ai Giancattivi: è entrato a far parte del trio cabarettistico, già composto da Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, in sostituzione di Antonio Catalano. Nel 1981 l’esordio cinematografico: quell’anno Benvenuti dirige il film «Ad ovest di Paperino». Negli anni successivi Nuti, dopo aver lasciato i Giancattivi, prende parte ad alcuni film che gli conferiscono una certa notorietà, diretti da Maurizio Ponzi: «Madonna che silenzio c'è stasera» (1982), «Io, Chiara e lo Scuro» (1983) e «Son contento» (1983). «Per Io, Chiara e lo Scuro» Nuti si aggiudica il David di Donatello ed il Nastro d'argento come migliore attore protagonista e il Globo d’Oro come Miglior attore rivelazione.
Dietro alla macchina da presa
Nel 1985 Francesco Nuti esordisce dietro alla macchina da presa: dirige «Casablanca, Casablanca» (1985) che gli farà vincere il premio come miglior regista esordiente al Festival internazionale del cinema di San Sebastián e il secondo David di Donatello come miglior attore. Tra la seconda metà degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta realizza una serie di pellicole di grande successo: «Tutta colpa del paradiso» (1985), «Stregati» (1986), «Caruso Pascoski (di padre polacco)» (1988), «Willy Signori e vengo da lontano» (1989) e «Donne con le gonne» (1991). Nel 1994, dopo una lunga e travagliata produzione, dirige l'ambizioso «OcchioPinocchio», che però non incontra i favori del pubblico. Nel 1998 esce «Il signor Quindicipalle», seguito da «Io amo Andrea» (2000) e «Caruso, zero in condotta» (2001).
Dietro alla macchina da presa
Nel 1985 Francesco Nuti esordisce dietro alla macchina da presa: dirige «Casablanca, Casablanca» (1985) che gli farà vincere il premio come miglior regista esordiente al Festival internazionale del cinema di San Sebastián e il secondo David di Donatello come miglior attore. Tra la seconda metà degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta realizza una serie di pellicole di grande successo: «Tutta colpa del paradiso» (1985), «Stregati» (1986), «Caruso Pascoski (di padre polacco)» (1988), «Willy Signori e vengo da lontano» (1989) e «Donne con le gonne» (1991). Nel 1994, dopo una lunga e travagliata produzione, dirige l'ambizioso «OcchioPinocchio», che però non incontra i favori del pubblico. Nel 1998 esce «Il signor Quindicipalle», seguito da «Io amo Andrea» (2000) e «Caruso, zero in condotta» (2001).
L’incidente
In quegli stessi anni però, a livello personale, Francesco Nuti vive un lungo periodo buio: inizia a soffrire di depressione e a cercare rifugio nell’alcol. «La sua dipendenza è sorta quando ha raggiunto il successo, che ha faticato a gestire. In quei momenti non c’è niente e nessuno che possano aiutarti, se non sei tu il primo a credere di poter guarire», ha raccontato nel 2021 a Domenica In Annamaria Malipiero, attrice e compagna del regista dal 1992 al 2000 (dall’unione nel 1999 è nata una figlia, Ginevra). Alla vigilia del suo ritorno sul set nel settembre del 2006 Francesco Nuti entra in coma (a causa di un ematoma cranico dovuto ad un incidente domestico): viene ricoverato e operato d'urgenza presso il Policlinico Umberto I di Roma. Segue una lunga e faticosa riabilitazione. Nel 2016 viene nuovamente ricoverato, al CTO di Firenze, in seguito ad una nuova caduta. Viene poi trasferito in una clinica romana specializzata, dove vive ancora oggi.
La figlia tutrice
«È in una struttura perché ha bisogno di assistenza continua - ha raccontato Ginevra Nuti a Domenica In nel 2021 -. Gli leggo i messaggi dei fan che mi arrivano tutti i giorni e lui è contento». Nel 2017, quando ha raggiunto la maggiore età, Ginevra ha chiesto di diventare tutrice di suo padre («È e sarà sempre il mio papà anche se non può più parlare, muovere le mani e camminare ed è giusto che mi occupi di lui»). «Papà è stabile - ha detto, sempre nel 2021 -. Lui vive a Roma con me, dove io continuo gli studi. Io e lui riusciamo a capirci con gli occhi, con lo sguardo. Lui è sempre stato molto espressivo e ci capiamo. Mi riconosce, è contento quando vede me e quando vede la mamma. Tutti mi dicono che ci rassomigliamo, soprattutto gli occhi. Anche i suoi fan cominciano sempre dall’analogia del volto. Lo vivo con gioia. Abbiamo anche lo stesso carattere».
«Francesco Nuti... e vengo da lontano»
«Francesco Nuti... e vengo da lontano», documentario a lui dedicato, viene presentato nel 2010 al Festival Internazionale del Film di Roma. L’anno successivo esce la biografia «Sono un bravo ragazzo - Andata, caduta e ritorno» (edita da Rizzoli), curata dal fratello Giovanni Nuti. Dal volume saranno tratti gli spettacoli teatrali «Sono un bravo ragazzo», diretto da Milo Vallone e interpretato da Francesco Epifani, e «Francesco Nuti - Andata, caduta e ritorno», per la regia di Valerio Groppa con l'attore e cantautore pratese Nicola Pecci.
La serenata di Giovanni Veronesi
«Lui non fa parte della mia famiglia, ma è come se fossimo fratelli. Se non ci fosse stato lui il mio mestiere non sarei riuscito a farlo in questo modo, entrando dalla porta principale. A parità di talento ne ho visti tanti rimanere al palo, io non mi reputo Kubrick, so benissimo quali sono miei limiti. Sono stato aiutato un po’ dalla fortuna e molto da Francesco, che nei primi anni della mia carriera mi ha spalleggiato, mi ha prodotto film, me li ha fatti scrivere». Legatissimo a Francesco Nuti è Giovanni Veronesi. Il regista di «Manuale d'amore» va spesso a fargli visita nella clinica in cui è ricoverato e nel 2019 - durante il suo programma tv Maledetti amici miei - ha dedicato una serenata all’amico (lui, il fratello di Nuti Giovanni e Ginevra hanno cantato, seduti su una panchina del giardino della clinica, la canzone «Pupp’a pera»). «Per come lo conoscevo io, ormai 25 anni fa, sono convinto che in cuor suo avrebbe apprezzato... ma poi si sarebbe affacciato e ci avrebbe detto: “Fate poco casino”» ha detto poi Veronesi al Corriere.
Francesco Pannofino.
Francesco Pannofino: «Ho conquistato mia moglie con la voce di Banderas. Doppiavo anche i film hard». L’attore di Boris: «Difficile superare René Ferretti. Mi piacerebbe lavorare con Sorrentino e Verdone. Anche Pupi Avati mi piace. Quando mi vede dice “Sei Alberto Sordi”, ma poi non mi chiama». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.
Elvira Serra per “il Corriere della Sera” l’8 gennaio 2023.
Lei un pesce rosso ce l’ha?
«No, l’ho avuto quando ero più giovane. Ma morivano in fretta».
E sul set di Boris come è andata?
«Subito dopo le riprese, il pesce rosso di turno veniva spostato dalla boccia di vetro all’acquario. Un po’ di sacrifici ci sono stati...».
Di quale regia è più orgoglioso René Ferretti: «Gli occhi del cuore», «Medical dimension», «Libeccio»?
«Di nessuno. Il suo tormento è aver voluto fare tante cose di qualità e non esserci mai riuscito».
E qual è il tormento di Francesco Pannofino?
«Non ne ha! Sono talmente contento di quello che ho fatto e che faccio: non posso lamentarmi. Ho avuto tutto quello che ho desiderato. Ho deciso di fare questo mestiere negli anni di piombo con incoscienza e tanta faccia tosta».
È credente?
«Sì. Non proprio bigotto, ma ho un buon rapporto con la fede. Ognuno poi la vede come je pare. Ma poi alla fine che cos’è, la fede, se non conforto e consolazione?».
Frequentava l’oratorio?
«Sì, a Imperia: sono cresciuto lì fino ai 14 anni, poi ci siamo trasferiti a Roma. A quei tempi se volevi giocare a pallone, o andavi all’oratorio o eri fregato. Era stata mia madre, pia donna, a portarmi dai frati. La messa è un bellissimo spettacolo: solo alcuni preti lo fanno male, io adoro quelli vivaci e coraggiosi. Io facevo il chierichetto e leggevo gli atti degli apostoli: le esibizioni mi riuscivano bene».
Cosa voleva fare da grande?
«Il calciatore. I miei miti erano Rivera, Mazzola e Riva. Allora, però, andavano i giocatori olandesi e quelli della mia età erano alti il doppio di me. O ti chiamavi Maradona, o non avevi speranza di sfondare...».
Francesco Pannofino è una delizia di uomo e di attore. Ci incontriamo nella Sala Albertini del Corriere della Sera e lui si guarda intorno come un bambino nella casa di Babbo Natale, con meraviglia e circospezione. Sarà che a un certo punto avrebbe voluto fare il cronista sportivo, ma in lui c’è autentico rispetto. Che non gli impedisce, naturalmente, di immaginare proprio in questa sala una storia per René Ferretti, il suo fortunato alter ego in Boris, che ha per protagonista un direttore corrotto che tratta male i suoi redattori. Non è il nostro!
«Vi son passato accanto/ vi son passato vicino/ era il 16 marzo/ le 9 e 5 del mattino»: di chi sono questi versi?
«Miei. È Sequestro di Stato, che fu usata come canzone finale nel film Patria, di Felice Farina. La scrissi in una delle pause di Boris, nel mio camerino, con la chitarra».
Il 16 marzo 1978 lei passò in via Fani poco prima dell’agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta.
«Dovevo prendere l’autobus per l’università, il motorino era rotto. Mi sono fermato in edicola a prendere il Messaggero. Stavo leggendo in prima pagina la notizia della Juve che era riuscita a passare contro l’Ajax grazie a Zoff, quando sono partite le raffiche.
Sono scappato sul lato opposto della strada e con una vicina ci siamo nascosti in una viuzza laterale. Non è durato tanto. Quando sono ritornato indietro c’erano le vittime a terra, i bossoli, il sangue. Sembrava un film. Ma ho realizzato la gravità della cosa a casa: in tivù non si parlava d’altro».
Lo ha raccontato anche davanti alla Commissione stragi del Senato.
«Quarant’anni dopo. Sono stati anni in bianco e nero. Io ero figlio di un carabiniere e non lo dicevo certo in giro».
All’università studiava Matematica.
«Mi ero diplomato all’Istituto tecnico industriale. L’università mi serviva per rimandare il militare e Matematica aveva pochi esami».
Però erano difficili.
«Infatti ne diedi solo tre: Algebra, Geometria 1 e Analisi 1».
Il successo è arrivato a 50 anni, con «Boris», ma lei lavorava già da trenta.
«Nella mia carriera di doppiatore non mi sono fatto mancare niente, come i film porno. Ricordo certe convocazioni il sabato, otto ore, 90 mila lire. Uscivo in debito di ossigeno».
Conquistò sua moglie Emanuela Rossi con la voce di Antonio Banderas.
«Beh, in qualche modo si può dire così: ci siamo conosciuti doppiando Donne sull’orlo di una crisi di nervi, dove io facevo appunto Banderas. A quei tempi si doppiava insieme, nella stessa stanza. Però l’approfondimento lo abbiamo fatto con Forrest Gump: poi è nato Andrea».
Anche lui è doppiatore?
«Un po’ doppiatore e un po’ attore. A 17 anni mi disse solennemente che non avrebbe mai recitato. Poi ha cambiato idea. Del resto, è figlio mio e di sua madre».
Ha recitato anche in «Boris»?
«Sì, una piccola parte nella quarta serie. Certo, è un privilegiato perché ha avuto la possibilità di entrare in campo. Il rovescio è il confronto con i genitori. Sta a lui dimostrare che è bravo».
A quale attore che ha doppiato è più affezionato?
«A George Clooney e a Denzel Washington».
Li ha mai conosciuti?
«Clooney solo per telefono: mi disse che ero bravo, ma era ubriaco: in vino veritas... Denzel lo vorrei conoscere, perché lui recita con gli occhi. Una volta ho incontrato Michael Madsen, cui avevo prestato la voce in Kill Bill. Fu divertente. Mi disse: I love you».
Ha senso il doppiaggio oggi, con le serie tv in lingua originale sottotitolate?
«Il doppiaggio morirà quando tutti impareranno l’inglese. Per come la vedo io, è come la traduzione di un libro: ci dobbiamo fidare del doppiatore. Diciamo che è un trucco cinematografico: te ne accorgi solo se è venuto male».
Ha lavorato anche con John Travolta, per lo spot di una compagnia telefonica.
«Sì, e con Michelle Hunziker. Lui è una persona molto carina. Girammo vicino a casa sua, in Florida: sarebbe anche venuto in Italia pilotando il jet privato, ma il viaggio costava più che far spostare tutti noi in business class».
Ci sono dei lavori ai quali è più legato?
«Agli Esercizi di stile di Raymond Queneau, nella trasposizione teatrale di Jacques Seiler, con Gigi Angelillo e Ludovica Modugno. Facemmo quasi duemila repliche. Nella stessa serata puoi interpretare 60 personaggi! E poi, certo, Boris: il personaggio di René Ferretti è difficile da superare».
Sembra cucito su misura per lei.
«Non so quanti attori hanno fatto il provino. Ma dopo aver visto me dissero: fermi tutti, lo abbiamo trovato».
Un suo ricordo di Mattia Torre?
«Aveva il guizzo dell’ultimo secondo, oltre all’umorismo intelligente. Quelli come lui hanno studiato, non improvvisano. Fu sua l’idea di far recitare mia madre nel film».
Mamma Angela, sarta, nel ruolo della madre di René.
«Era passata lì per salutarmi. Mattia la vide e se ne uscì con questa cosa. Capirai, lei non vedeva l’ora. Fu bravissima, non guardò mai in macchina da presa. Poi ci prese anche gusto e mi chiese di dire al mio agente che se usciva qualche altra piccola parte lei era disponibile».
È venuta a vederla anche a teatro in «Mine Vaganti», di Ferzan Özpetek?
«In questa nuova tournée no, prima sì. È mancata il 27 dicembre. Era ricoverata all’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, dove hanno provato a curarla davvero fino all’ultimo. Sono riuscito a salutarla il giorno di Natale, con mia moglie e mio figlio, ma già non ci riconosceva».
Mi dispiace molto... I suoi genitori credevano nella sua carriera di attore/doppiatore?
«Mio padre non tanto, mia madre sempre. Poi quando hanno visto che guadagnavo più di loro si sono tranquillizzati».
È più bello fare cinema, teatro, una serie tv o il doppiaggio?
«Io preferisco diversificare. La cosa più intrigante è il cinema, però è insidioso. Perché è vero che se una scena va male la puoi rifare tante volte, ma poi quello che hai fatto resta. Il teatro è effimero».
Con quale regista vorrebbe lavorare?
«Mi piacerebbe con Paolo Sorrentino. O Verdone, di cui amo l’umorismo. Anche Pupi Avati mi piace. Quando mi vede dice: “Sei Alberto Sordi!”, però poi non mi chiama».
Le è capitato di incontrare i suoi miti?
«Altroché: De Gregori, Venditti, Lucio Dalla, Enrico Ruggeri di cui sono diventato amico».
E si è emozionato?
«Certo. De Gregori lo incontrai la prima volta nel 1983 a Roma in viale Angelico, mentre mangiava con la moglie fuori da una trattoria. Ero in macchina e quando lo riconobbi non resistetti: avevo appena fatto una tournée al Teatro Stabile di Trieste e la mia colonna sonora era stata per tutto il tempo Titanic, conoscevo le canzoni a memoria. Così mi avvicinai e lui cominciò a gridare: “Nooooo, ti pregoooooo”. Ci rimasi malissimo, volevo solo stringergli la mano e dirgli quanto lo stimassi».
Beh, però era in un momento privato.
«Ma sì. Poi l’ho rivisto 40 anni dopo al concerto di Ruggeri, che mi aveva invitato in camerino, e lo trovai lì. Appena mi vide disse: “France’” e mi abbracciò».
Vantaggi e svantaggi della notorietà?
«I vantaggi superano gli svantaggi. Devo ammettere, però, che quando mi svegliano in treno mentre mi sono appena appisolato non è bellissimo. Uno si scusò: “Signor Pannofino, non potevo farne a meno, lei è un mio fan!”. Beh, a mia volta non potei che replicare: “Genio!”».
Ha ceduto anche lei all’autobiografia. È appena uscito per Aliberti editore il libro-intervista «Dài, dài, dài. La vita a ca**o di cane», scritto con Roberto Corradi .
«Corradi ha insistito tanto, io non lo volevo fare, un po’ perché sono rispettoso del lavoro degli altri. Poi, visto che i giornalisti fanno teatro e i cantanti cinema, ho pensato che potevo farcela anch’io!».
Francesco Renga.
Certi amori non finiscono. Sanremo, i figli, la rottura: la storia d'amore di Ambra Angiolini e Francesco Renga. Novella Toloni l'8 Luglio 2023 su Il Giornale. Undici anni d'amore, due figli e ancora tanta stima e affetto nonostante l'addio. La storia d'amore di Francesco Renga e Ambra Angiolini
I motivi della rottura
La storia d'amore tra Ambra Angiolini e Francesco Renga ha incantato il pubblico tra il 2005 e il 2015. Dieci anni vissuti intensamente tra successi, crisi personali e due figli, che hanno reso la coppia una vera famiglia. Nonostante l'addio, avvenuto nel 2015, la coppia è ancora unita da profondo affetto e stima reciproca per questo rimane una delle preferite del pubblico.
Galeotto fu Sanremo
L'incontro tra l'ex volto storico di Non è la Rai e il cantautore avviene nel 2001. Ambra Angiolini conduce il programma radiofonico Ambra & gli Imbranati insieme al Trio Medusa. Francesco Renga esordisce sul palco del festival di Sanremo nella sezione Giovani con il brano "Raccontami" e colpisce al cuore critica e pubblico. Durante un'ospitata in radio, il cantante rimane folgorato da Ambra e la corteggia per molto tempo. Il tempo passa e la Angiolini cede alle lusinghe ma la passione e l'amore con la "a" maiuscola esplodono nel 2003.
La nascita di Jolanda
La passione è così travolgente che Ambra rimane incinta della prima figlia pochi mesi dopo l'inizio della relazione con il cantante e nel gennaio 2004 nasce Jolanda. L'arrivo della bambina è una tempesta emotiva per la Angiolini - come ammetterà lei stessa anni dopo - ma non la tiene lontana dal lavoro. L'artista conduce il remake di "Speciale per voi" di Renzo Arbore su Rai 2 e il Cornetto Freemusic Festival, oltre a presentare le prefinali di Miss Italia a San Benedetto del Tronto. Nel 2005, Francesco Renga torna a Sanremo con il brano "Angelo" dedicata proprio alla figlia e vince il Festival. La foto di Ambra, che abbraccia il compagno dopo la proclamazione, è rimasta negli annali della storia della kermesse canora.
Ambra di nuovo incinta
La storia prosegue a gonfie vele mentre entrambi sono impegnati nelle rispettive carriere e così arriva l'annuncio della seconda gravidanza. Ambra sceglie di dare la notizia in modo singolare, mostrando il pancione in diretta tv nel corso della prima puntata del suo programma "Dammi il tempo", format della seconda serata di Rai 3. Le riviste di gossip fanno a gara ad accaparrarsi le foto di Ambra Angiolini in dolce attesa e la coppia è seguita con affetto dai fan. Leonardo, il secondogenito della coppia, viene alla luce alla fine del 2006 e sigilla l'amore tra i due.
La separazione e poi la bulimia. Ambra Angiolini senza filtri: "È un tumore dell'anima"
Ambra - Renga, la carriera decolla
Renga e Ambra scelgono di vivere a Brescia per crescere i loro figli lontani dal clamore e dal caos di città come Roma e Milano. La loro vita è come quella di tutti i genitori: scuola, attività sportive e impegni, tutto gravita attorno ai due bambini. Ma le loro carriere prendono comunque il volo. Ambra è richiestissima dai registi sia di fiction che di film per il cinema, mentre Renga pubblica nuovi album e gira l'Italia con tour e live. La coppia riesce a incastrare alla perfezione i propri impegni con la crescita dei figli e sui giornali non si accenna mai a una crisi, sebbene Ambra confessi di essere molto gelosa del suo compagno.
Le nozze mai celebrate
La stampa e i fan iniziano a chiedersi come mai, nonostante l'amore appaia solido e ci siano due figli, la coppia non annuncia il matrimonio. Ma sono loro stessi, durante un’intervista doppia rilasciata a Le Iene, a spiegare il perché delle mancate nozze. "Non c'è tempo", scherza il cantante, mentre Ambra replica: "Non me lo ha mai chiesto". In realtà, in più di una occasione, l'attrice ha ammesso di non avere mai sentito l'esigenza di mettersi un anello al dito per sentirsi realizzata come compagna.
La crisi nel 2012
Nel 2012 iniziano a circolare le prime voci di crisi. Secondo il settimanale Gente, Ambra e Francesco si sarebbero rivolti agli avvocati per accordarsi sull'affido dei figli e vivrebbero in due case separate. La smentita della coppia, però, arriva repentina. Attraverso i social network l'attrice commenta risentita la notizia, mentre Renga la butta sullo scherzo: "Che Gente! Ah ah ah... Ciao a tutti. Intanto lavoro, io".
"Come una Barbie, piangeva in camerino". La rivelazione su Ambra Angiolini
La separazione nel 2015
Due anni e mezzo dopo sono le foto dei paparazzi a raccontare della crisi in corso tra Ambra Angiolini e Francesco Renga. Il settimanale Chi sorprende l'attrice a piangere in strada mentre il cantautore è al suo fianco e le parla con il volto serio. È settembre e poche settimane dopo i fotografi fanno un nuovo scoop. Questa volta è il cantante a fare un gesto, che parla di crisi e pentimento, lasciando un biglietto sul cruscotto dell'auto della compagna: "Ogni tempesta lascia qualcosa per ricominciare. Ti voglio bene". E il segnale evidente che qualcosa si è rotto e l'annuncio dell'addio non tarda ad arrivare. A novembre 2015 la coppia annuncia la separazione.
I motivi della rottura
"C'era una ferita sanguinante e io ho deciso di prendere la medicina per curarla", ammette Ambra Angiolini poche settimane dopo l'addio, ma né lei né Francesco mettono in discussione quello che c'è stato. Il rispetto, la stima e l'affetto rimangono. "Sono piena di amore per Francesco: un sentimento gigantesco nei confronti di un uomo al quale non sono più costretta a piacere", dichiara Ambra nel 2015, ma questo non le evita di finire in una profonda depressione, che solo con il tempo e un nuovo amore riuscirà a superare. Oggi, a otto anni di distanza dall'addio, la coppia vive una relazione familiare serena, di stima e affetto. Lo testimoniano i video e le foto, che immortalano Ambra e Francesco insieme sui social felici e sorridenti. Per la gioia dei figli e dei loro tanti fan.
Francesco Salvi.
Renato Franco per il “Corriere della Sera” - Estratti venerdì 10 novembre 2023.
Tormentoni non sense («saluto tutti tranne che a illo, perché illo ha fatto appelloso»), canzoni demenziali di successo («c’è da spostare una macchina, è un diesel»), pubblicità inventate («l’amaro Qualunque, l’amaro per l’uomo inutile»), Francesco Salvi è stato una star comica degli anni 80 — Drive In e MegaSalviShow su tutti — con la sua ironia asimmetrica, lo sguardo dispari e trasversale. Quanto di più vicino a un folle. Nato a Luino, un posto che non offre niente, «per questo ci sono mille pulsioni che ti spingono ad andare via».
Chi era «illo»?
«Mio fratello non voleva saperne del latino, mia madre lo ripeteva con lui ogni giorno, ille illa illud , ma lui si ricordava solo l’ablativo, illo . Così inventavamo un gergo che diventava segreto nel nostro giro di amici. Per dare forza a una frase poi bisogna mettere sempre un’eccezione, quindi saluto tutto tranne che a illo».
Tutti pazzi in famiglia?
«Una certa follia positiva è sempre albergata in casa. Mio papà era avvocato, era particolare, era uno dei pochi uomini italiani che non guidava, faceva guidare mia mamma senza meta e ci trovavamo sempre spersi in Paesi stranieri senza permessi di soggiorno; in Svizzera o in Austria, era epico. Poi non voleva mai far benzina, secondo lui la macchina andava lo stesso e così rimanevamo fermi in mezzo alla campagna. Quanti weekend abbiamo passato io e mio fratello a spingere l’auto».
È nata da lì «C’è da spostare una macchina»?
«Forse in modo inconscio...Anni dopo mi trovai a dover fare la sigla musicale al MegaSalvi , eravamo nel garage di una villetta a Vimodrone quando arriva il tipo del piano di sopra incazzato: C’è da spostare una macchina che non posso entrare!».
(...)
Al «MegaSalvi» giocava da solista, ma il primo successo arrivò a «Drive In», due anni irripetibili, 1985-1987.
«Drive In è stato uno spartiacque, una parodia dell’America, con le ragazze appariscenti, con il costumino a stelle e strisce, le moto, questa comicità veloce. Un programma di rottura, perché allora la tv era leggermente avanti rispetto al pubblico, ma il pubblico poi ti seguiva».
Un successo strepitoso...
«Già due giorni dopo essere andato in onda feci una serata e mi pagarono 10 volte di più rispetto alla volta precedente. Un milione di lire negli anni Ottanta. Un botto».
Tanti comici, come lei, arrivavano dal Derby, il locale milanese del cabaret.
«Eravamo tutti semidisperati. Ricordo una foto con Beppe Viola, Jannacci, Abatantuono, Porcaro, Mauro Di Francesco e Faletti a presentare un programma che non esisteva, che forse avremmo fatto. Jannacci per rincuorarci diceva: dopo ti spiego , ma tanto quando parlava lui non si capiva niente».
(...)
C’era anche Antonio Ricci al Derby.
«Quando era sul palco a un certo punto gli usciva sangue dal naso e doveva scappare.
Tutte le volte. E si prendeva pure l’applauso in più di incoraggiamento e commiserazione; la verità è che doveva prendere l’ultimo treno per andare ad Alassio che partiva a mezzanotte. Era incredibile, proprio come se avesse un pulsantino nel corpo che lo faceva sanguinare».
Leggende su «Drive In»?
«Che Berlusconi veniva a trovare le ragazze, ma non è vero. Gli studi erano in periferia a Bande Nere prima, poi a Quarto Oggiaro, una zonaccia; la prima volta che sono andato lì mi hanno rubato l’autoradio, la seconda volta che ci sono tornato l’ho rubata io».
Gianfranco D’Angelo?
«Tranquillo, educatissimo, ma diversissimo sul palco e giù dal palco. Nelle registrazioni era scatenato, nella vita era di una tranquillità spaventosa. Ricordo che aveva uno dei primi telefonini, lo aveva sempre all’orecchio ma stava sempre in silenzio, forse ascoltava la segreteria telefonica: non parlava mai, ogni tanto si addormentava e dovevamo svegliarlo la mattina dopo».
Greggio?
«Faceva vari personaggi sempre ispirati ad attività truffaldine, da incantatore di serpenti — Verdiglione, l’asta tosta —, sempre al centro di grandi imbrogli. Lui è così. Se non avesse fatto il comico sarebbe stato il signor Aiazzone».
Beruschi?
«Era la vittima preferita degli scherzi. Aveva una paura pazzesca dei cani. Una volta, in inverno, faceva un freddo cane, a Beruschi andava bene che facesse freddo, ma non che fosse cane... io su istigazione di Ricci gli misi il paltò sul cane lupo che c’era fuori dal ristorante. Tornò a casa senza e per due giorni è stato a letto con la febbre».
(...)
Il «MegaSalvi» non ebbe un seguito.
«Quando una cosa funziona arrivano funzionari che vogliono metterci mano e rovinano tutto, alcuni si adattano, io non sono il tipo».
Si è sentito un incompreso?
«No, anzi. Purtroppo mi hanno compreso troppo».
Francis Ford Coppola.
Estratto dell'articolo di Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2023.
Tutto inizia con un primo incontro molto riservato nella Cattedrale di Matera. E finisce con un volo molto riservato su di un aereo molto esclusivo e speciale da Bari a Roma, con atterraggio all’Aeroporto di Ciampino.
Nel giugno di una quindicina di anni fa, mi venne proposta un’intervista esclusiva al grande regista Francis Ford Coppola. L’appuntamento era proprio nel capoluogo della Basilicata, per raccontare una sua nuova e piuttosto inedita iniziativa. Lo «zio d’America» tornava nella terra degli avi, per riscoprire e rilanciare le sue origini e anche, perché no, creare un po’ di business.
Originario di Bernalda, un paesino di circa 13 mila anime, dove sono nati suo nonno Agostino e suo padre Carmine, il grande regista sognava di intraprendere un’attività alberghiera (sogno poi realizzato con la trasformazione del Palazzo Margherita, un palazzo dell’Ottocento, in resort di lusso per clientela internazionale) e soprattutto culturale in Basilicata.
(...)
La prima cosa che mi disse, fu: «Mi piacerebbe aiutare questa Regione, che preferisco chiamare Lucania e non Basilicata. Vorrei avviare un nuovo tipo di turismo, che unisca le bellezze dei luoghi alla loro storia, alla cultura e alle prelibatezze alimentari».
(...)
«Non mi interessa il turismo di massa — sottolineava determinato Coppola — Voglio creare delle opportunità per i giovani lucani, affinché possano sfruttare al meglio le loro risorse. E proprio a Bernalda intendo ristrutturare un antico palazzo e trasformarlo in un albergo con poche suite. Inoltre, voglio dare impulso a un centro di formazione per nuovi sceneggiatori, scrittori di teatro, musicisti, artisti visivi».
Il centro cui si riferiva era già esistente ed era diretto da suo cugino, Michele Salfi Russo, molto più giovane di lui: si trattava del Castello Torremare, vicino a Metaponto, dove venivano realizzate rassegne estive. E lo «zio d’America» disse: «Intendo dare una mano a mio cugino per intensificare questa attività, per renderla duratura e permanente. L’idea è quella di portare qui turisti che siano curiosi di conoscere la Magna Grecia, le origini storiche e artistiche del Mediterraneo».
Non era la prima volta che Coppola tornava nella sua terra e ci sarebbe tornato più volte: anche per il matrimonio della figlia Sofia, che si è sposata proprio a Bernalda.
Mi raccontò nel suo brooklyino delizioso, misto a battute in dialetto: «Nei primi anni Sessanta sono stato il primo della famiglia emigrata negli Stati Uniti a tornare alle origini: da allora ho sempre avuto un’idea fissa. Rivalutare il mio paese d’origine. Sento che è arrivato il momento di avverare questo sogno. Per lanciare il progetto ci vorranno almeno 5 o 6 milioni di euro».
Si era fatta l’ora di pranzo e, dagli organizzatori dell’incontro, venimmo condotti in uno dei ristoranti più eleganti nel cuore labirintico dei Sassi: cucina tipica, tra orecchiette, strascinati con le cime di rape, e poi la pignata con la carne di pecora, la cialledda...
per concludere con le strazzate materane.
Tra un piatto e l’altro, io prendevo freneticamente appunti, per poi costruire l’articolo. A un certo punto, gli ricordai che, proprio in quei luoghi, Mel Gibson aveva girato La Passione di Cristo .
Coppola mi rispose con malcelato distacco: «Non ho visto il film. Io, piuttosto, ricordo il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini».
Arrivati al dolce e poi al caffè, ci eravamo inoltrati nel primo pomeriggio e io, ovviamente, dovevo precipitarmi in hotel, dove mi era stata riservata una camera per trascorrere poi la notte e ripartire il giorno seguente, per scrivere l’articolo e mandarlo alla redazione: doveva essere pubblicato il giorno dopo, davvero cotto e mangiato.
Di materiale ne avevo a iosa, avrei potuto snocciolare un romanzo intero, tante erano state le chiacchiere, i racconti, gli aneddoti regalati dal grande regista, che invece sarebbe partito la sera stessa con il suo aereo privato. Ma prima di congedarmi da Coppola e dal suo ristrettissimo staff, per andare a lavorare, mi lamentai di un fatto: «Che peccato! Mi dispiace rimanere qui stasera, da sola, in hotel... davvero un peccato che lei, Francis, riparta subito». E lui non esitò un attimo: con grande gentilezza e piglio deciso, mi disse che non c’era problema e mi propose di partire con loro.
Mi raccomandò soltanto di essere celere nello scrivere l’articolo, per rispettare i tempi tecnici aeroportuali. Gioia immensa: corsi in albergo, svolsi ovviamente il mio compito e mi ricongiunsi al ristretto gruppo, per raggiungere l’aeroporto barese. E qui comincia la seconda parte dell’avventura. Innanzitutto resto sbalordita quando mi appare sulla pista il suo jet: era tutto colorato. Fusoliera gialla, ali e timone di coda blu, un motore rosso e l’altro verde: sembrava l’aereo di Topolino, l’aereo più pazzo del mondo. All’interno, elegantissimo: comode poltrone, servizio di accoglienza straordinario, due piloti al comando. Durante il volo, Francis non è stato zitto un attimo.
Parlava soprattutto della sua adorata Sofia che si era appena fidanzata con Quentin (Tarantino): lo definiva un giovane genio del futuro cinema americano. Ma non basta. La cosa più sorprendente è che non solo cominciò a cantare a squarciagola canzoni come ’O sole mio , e un accenno alla Traviata con De’ miei bollenti spiriti , assolutamente intonato, ma poi scansò uno dei due piloti e si mise alla guida, esclamando: «Ora piloto io!».
Un brivido mi percorse la schiena, tuttavia arrivammo sani e salvi nella capitale con atterraggio perfetto: per me era l’approdo definitivo a casa, per Coppola si trattava semplicemente di una fermata obbligatoria per fare rifornimento di carburante e ripartire subito dopo per Parigi, dove avrebbe raggiunto la figlia. Nell’aerostazione di Ciampino, il regista, nel suo completo giacca e pantaloni di lino beige, decise di non attendere la ripartenza in una sala riservata: era una bella giornata estiva e ci sedemmo tutti insieme sugli scalini esterni, per continuare a chiacchierare, godendoci gli ultimi raggi di sole nell’imminente tramonto. Allora chiamai al telefono mio marito, dicendogli: «Se ti sbrighi a venirmi a prendere, ti presento Francis Ford Coppola».
Franco Nero.
Franco Nero, lacrime in tv con Vanessa Redgrave: “Ti penso ogni giorno, sono alla fine”. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 29 ottobre 2023
L’attrice ha inviato un videomessaggio durante il programma di Rai 1 ‘Da noi a ruota libera’ condotto da Francesca Fialdini
Come assistere ad una grande storia d’amore in diretta tv. Emozioni, commozione e vere lacrime nella trasmissione Da noi...a ruota libera su Rai1 regalate al pubblico da due grandi del cinema, Franco Nero e Vanessa Redgrave, che dopo tanti anni si amano ancora. Franco Nero è ospite di Francesca Fialdini per raccontare la sua storia cinematografica quando a sorpresa interviene la grande attrice inglese Vanessa Redgrave, suo grande amore. "Franco, penso ogni giorno a te. Sono quasi alla fine, tu meriti di vivere ancora per molto...".
Lui scoppia a piangere. Ospite di Fialdini ripercorre la sua carriera e la sua vita. Allievo di Giorgio Strehler, a ventisei anni grazie al successo di Django in Italia era già un'icona degli spaghetti western. Ma a lui non è mai bastato essere il bello e, appena possibile, lasciava l'Italia per lavorare con maestri come Luis Buñuel e Rainer Werner Fassbinder. Oggi ha alle spalle oltre duecento film e tante serie tv. Ma se la carriera è importante, al centro della vita di Franco Nero c'è una storia d'amore da romanzo, quella con l'attrice britannica Vanessa Redgrave.
Franco Nero e Vanessa Redgrave si conobbero nel 1967 sul set del film Camelot e fu amore a prima vista: la coppia ha avuto un figlio, Carlo Gabriel, ma la relazione è destinata a terminare poco dopo. Seguono matrimoni e nuovi amori. A 40 anni di distanza, il ritorno di fiamma nel 2006, tenuto inizialmente segreto e poi rivelato al grande pubblico tre anni più tardi.
Da allora i due sono inseparabili e restano uniti ancora oggi. Tanto è vero che l'attrice interviene a sorpresa con un videomessaggio profondo e appassionato che lascia di stucco l'attore: "Mio carissimo. Penso ogni giorno a te. Non ci vediamo spesso, avrei voluto vederti molto più sovente... ma ho i polmoni che non funzionano bene, come sai.Abbiamo sempre provato a fare del nostro meglio e ci sono stati momenti favolosi... davvero fantastici! – prosegue Vanessa Redgrave – io sono quasi alla fine, ho 86 anni, molti più di te! Tu devi vivere molto ancora... Ti raccomando caro mio... carissimo mio! Ti voglio tanto tanto bene". Da quando si sono ritrovati nel 2006 i due sono inseparabili e restano uniti ancora oggi.
Arianna Finos per la Repubblica - Estratti sabato 4 novembre 2023.
“Con Vanessa ci siamo conosciuti nel ’66, la nostra storia dura da 57 anni. Ed è una storia strana. Come ha detto lei in tv, abbiamo avuto momenti fantastici e qualcuno brutto. Ma la maggior parte fantastici”. Franco Nero è di passaggio nella sua casa romana, tra un set e un altro, “sono da poco tornato dal Brasile, poi tre giorni a Palermo per un set, oggi qui, tra due giorni riparto.
Come mia nonna ho un’indole gitana, mi piace il viaggio e sono tanto curioso”. È quasi a disagio per la grande commozione suscitata in tv dal videomessaggio che Vanessa Redgrave gli ha fatto avere, una grande dichiarazione di amore. “che vuole che le dica, il nostro rapporto sembra il copione di un film”.
“In genere ci si conosce, ci si sposa, si hanno figli, poi ci si lascia ed è finita, si divorzia. Noi no. Abbiamo lasciato che questa storia andasse avanti. Anche i figli, sulla spinta dei nostri nipotini, hanno voluto tutti che tornassimo ancora insieme. Con Vanessa ho vissuto i momenti più belli e più terribili della nostra vita, come ha detto lei. Il più bello è stata la nascita di nostro figlio Carlo, i più drammatici quando ha perso il nostro secondo figlio, fu un dolore immenso. E quando è morta Natasha. Non posso immaginare una vita senza Vanessa”.
(...)
Nella sua biografia, Django e altre storie, parla dei suoi incontri con Sordi, Mastroianni, Gassman.
“Il primo incontro con Sordi fu in vacanza, lui era con Piero Zuffi, uno romanissimo e l’altro emilianissimo, sentirli parlare mi faceva ridere. Con Alberto facemmo I promessi sposi, io Fra Cristoforo, lui don Abbondio. Veniva da me, ‘a Nero ma come si pronuncia ‘sta frase? Il suo inglese era maccheronico. Gassman l’ho frequentato quando tutti e due eravamo a Los Angeles, io giravo Il pirata da Harold Robbins.
Vittorio era solo, senza Diletta. Io avevo una bella casa, mia madre cucinava e lo invitavo a mangiare. E lui diceva no, che aveva da fare. Poi richiamava, “ho pensato che…”. Amava la buona cucina e aveva una gran fame. Diceva le cose in modo buffo, quasi a malincuore. Con lui e Mastroianni avevamo il progetto di un film su tre italiani in America, nato dalla mia esperienza, un giovane attore chiamato a Hollywood che si porta avvocato e agente.
Purtroppo, diedi l’idea a Fernando Ghia, produttore che ebbe la green light dalla Fox al progetto ma puntava in alto, voleva Billy Wilder, il tempo passava e l’opzione dopo un anno scadeva. Gli ultimi giorni ci siamo inventati un progetto che Alan Ladd jr, il presidente della Fox si portò a vedere ai collaboratori. Era la storia di un italiano – Mastroianni - che tra i tavoli di Las Vegas incontra un tizio - Gassman – che lo invita a vivere con lui perché la moglie – avrebbe dovuto essere Shelley Winters – era un po’ ninfomane e lui aveva bisogno di aiuto. Alla fine, chiamavano me, perché ero giovane, ma io finivo per innamorarmi della figlia della coppia, Goldie Hawn. Il lunedì dopo il weekend Alan Ladd disse: il progetto non si fa, mia moglie ha detto che siete “sciovinist pigs”, c’era stata la ribellione delle mogli”.
Tra i suoi primi titoli c’è Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli.
“Ricordo benissimo quando girarono la scena in cui Tognazzi balla il tip tap per fare colpo su produttore Enrico Maria Salerno. I personaggi maschili del film sono tutti negativi, a parte il garagista che ero io, avevo vent’anni. Pietrangeli avrebbe voluto girare un film con me e Vanessa, ma fece un errore.
Vado a prendere Vanessa all’aeroporto, andiamo a incontrarlo e lui era un po’ ubriaco. Quando siamo tornati a casa lei dice ‘io con quello non ci lavoro’. E così abbiamo girato il film con Elio Petri, Un tranquillo posto di campagna. Fu piacevole, tra fattoria, vacche e vitelli si lavorava e la sera si stava con i contadini, c’erano tante cose da fare. Con Vanessa stavamo bene, a volte litigavamo, la sera non parlavamo ma il giorno dopo tutto era come prima. Lì girai una scena esilarante con l’ottimo George Gerét, che interpretava il custode, ma il suo inglese con l’accento francese era così terribile che nella nostra scena insieme io continuavo a ridere come un pazzo. L’abbiamo provata tante volte e alla fine Petri mi diede uno schiaffo: ‘Basta!’.”
Ha lavorato con tanti registi italiani.
“Mi divertivo ad alternare un film d’autore e uno commerciale. Mi piacque girare con Marco Bellocchio Marcia trionfale, ma anche girare i film con Damiani, Corbucci. E ho fatto dieci film con Enzo G. Castellari. Il più divertente era Gigi Magni, e lui ricambiava. Sul set ero Garibaldi e gli dicevo ‘ma tu con me ti annoi, hai lavorato con tanti attori comici’, rispondeva ‘Non hai capito un cazzo, nella vita non sono divertenti. Io con te faccio i duelli’. È vero, facevamo i duelli western, uno chiamava ‘fire!’ e si vedeva chi sparava per primo. Stavamo sempre a giocare”.
Qualche disavventura sul set?
“A cavallo sul set di Camelot, con tutta l’armatura, si rompe la cinghia della sella e volo. Per non dire di Django. Sono andato in ospedale, mi hanno riempito di massaggi con l’alcol perché mi avevano tenuto per ore dentro una palude in pieno inverno”.
Passiamo a Hollywood. L’incontro più clamoroso?
“Quello con Frank Sinatra. Mi avevano preso per Camelot, avevo convinto il regista con il mio Shakespeare imparato sui dischi. Arrivo a Los Angeles distrutto, il mio agente mi porta al ristorante e al tavolo vicino c’era Sinatra con Mia Farrow, s’erano appena sposati: ‘E’ un attore italiano’. Iniziamo a parlare poi Sinatra mi fa ‘ma sei stanco?’. Rispondo di no anche se non mi reggevo in piedi. Mi porta con lui in studio dove incide That’s life con l’orchestra.
Ero seduto con Mia Farrow, ogni tanto Frank interrompeva, veniva, mi dava un’occhiata, dava un bacetto a Mia come a dire ‘ao’ non ce provà’. L’ho incontrati tanti anni dopo a Monte Carlo al concerto Pro Celebrity, torneo di tennis che mischia una celebrità e un professionista. Eravamo seduti io Sinatra e Roger Moore. Mio figlio in campo, 17 anni, bravissimo, con un’attrice e di fronte un professionista e Barbara Sinatra. Mio figlio tirava pallate tremende e con una colpisce Barbara. Frank scatta incazzato “ma chi è questo?” interviene Moore, “è il figlio di Franco, è stato un incidente, non succederà più. Sinatra non era uno da fare arrabbiare”.
E Roger Moore?
“Una delizia, ho ancora alcuni quadri, mi ha fatto diversi ritratti. Era stupendo, aveva humor inglese ma parlava bene l’italiano per via della moglie Luisa. Ho fatto un film con la figlia in Colombia, Deborah Moore, lui mi chiamava, “mi raccomando, da un’occhiata a mia figlia, insegnale”. Avrebbe voluto che avessimo una storia, ma non è successo”.
A proposito di coppie. Lei conosceva Burton e Taylor.
“Con Burton legammo subito. E una sera facemmo un duetto sulla canzone di Camelot, che lui aveva fatto a teatro e io al cinema. Liz e Richard litigavano in continuazione. Feci un cammeo in Wagner, miniserie di cui lui era protagonista. Vado a Vienna e eravamo invitati al ballo delle diciottenni, un teatro enorme vicino all’albergo. Andiamo solo io e Richard, che ha litigato con Elizabeth e si mette a bere. A un certo punto vicino a noi c’è il famoso chirurgo Barnard e lui prende a offenderlo, a dirgli cose terribili. E io “Basta”, una figuraccia tremenda. Alla fine, ho dovuto accompagnarlo, sorreggerlo fino all’albergo”.
Il suo divo preferito?
“William Holden, il sogno è stato fare un film con lui: 21 ore a Monaco, del ‘77, sulle Olimpiadi del ‘72. Stavo sempre a baciarlo. Da ragazzo vedevo i suoi film sei, sette volte, Picnic lo avrò visto dieci volte. Era bello, era sexy”.
S’era innamorato di Holden?
“Sì, ma in modo platonico. Quando girai il western Keoma gli chiesi di interpretare mio padre, lui voleva ma poi non siamo riusciti, è dovuto tornare negli Stati Uniti”.
Con chi ha ancora rapporti?
“Con Quentin Tarantino. Mi adora. Fino a poco tempo fa ogni volta che volavo a Los Angeles cenavamo in un locale che oggi è chiuso. Da quando è sposato e con prole, la cosa si è un po’ allentata. Ho rapporti anche con Harrison Ford. Mi ha anche fatto gli auguri per il compleanno.
Quando girava Indiana Jones volevo prendere i diritti di Schlinder’s List, ma per un giorno Spielberg mi ha fregato. Allora chiamai Harrison, “fammi un favore, dì a Spielberg che quel ruolo devo farlo io. Lui ci ha parlato ma Spielberg ha detto che lo avrebbe girato più in là. Infatti, l’ha fatto dieci anni dopo. E ha preso mio genero, Liam Neeson. L’ha visto a teatro con Natasha, è andato nel camerino, “farei questo film”. E di quello che era successo prima non l’ho mai detto a Liam”.
Vi vedete spesso?
“Sì, l’ultima volta a Roma è venuto a girare un film e abbiamo cenato con Vanessa. Una bella serata. Con i suoi figli ho un rapporto incredibile, mi chiamano nonno. Michael fa l’attore, e Daniel fa business con il Margarita, che era il drink preferito di Natasha”.
Un suo amico era Kirk Douglas.
“Sì. Con Kirk ci conoscemmo a Los Angeles, andai con Goldie Hawn, mi ero fermato a casa sua e lui si mise a cantare gli stornelli romani. Poi è venuto a Roma, voleva fare un film da regista e mi voleva come protagonista. E voleva andare a trovare Elsa Martinelli. Ma l’episodio divertente è che organizza una cena, io quella sera lavoravo con Telly Savalas, li raggiungo al ristorante e c’era lui, la moglie, gli invitati e tutti mangiavano. Ma alla fine nessuno pagava. Nessuno chiedeva il conto al cameriere. Così mi sono rotto i coglioni e ho pagato io. Cose che succedono”.
(...)
Francois Ozon.
Francois Ozon: «Il regista non è il padrone assoluto». Il regista francese racconta storie di cronaca nera col tono leggero della commedia. E sulla possibilità di fare serie tv: «Me l’hanno proposto ma per me due ore sono il formato ideale per raccontare una storia». Fabio Ferzetti su L’Espresso il 29 marzo 2023
isto dall’Italia François Ozon fa quasi paura. Non ha mai vinto Cannes, non ha mai vinto Venezia e nemmeno un César, anche se è stato candidato infinite volte. Però dal 1998 ha girato 23 film molto personali, spesso di grande successo, più una ventina di corti. E soprattutto ha alternato e a volte mescolato gli stili e i generi più diversi, da “Sotto la sabbia” a “Otto donne e un mistero”, da “Frantz” a “È andato tutto bene” passando per “Grazie a Dio”, Orso d’argento a Berlino. Fino a tornare con “Mon crime - La colpevole sono io” (in sala dal 25 aprile) a una delle sue specialità. Riscrivere il passato per illuminare il presente. Conciliando la spietatezza del tema con la leggerezza del tono.
«Sono partito da una pièce di Georges Berr e Louis Verneuil già adattata a Hollywood nel 1937 in una commedia svitata, “La moglie bugiarda”, con Carole Lombard, Fred McMurray e John Barrymore», dice il regista francese, classe 1967, una lontana carriera da fotomodello interrotta per dedicarsi al cinema. «Mi piaceva l’idea di una donna che si accusa di un crimine mai commesso, per poi ottenere gloria e successo grazie all’ottusità e alla corruzione del sistema giudiziario».
A confessare di aver ucciso il produttore che voleva violentarla è una giovane attrice spiantata (l’emergente Nadia Tereskiewicz) che divide una mansarda sotto i tetti della Parigi anni ’30 con una coetanea avvocata (Rebecca Marder). In realtà nessuno sa chi abbia fatto fuori il produttore, ma la sua morte fa comodo a molti. Così, malgrado le manovre isteriche di un giudice ridicolo (Fabrice Luchini), il processo-spettacolo fa dell’attricetta una star. Fino a quando una verità inattesa non riapre i giochi.
«Naturalmente ho riscritto in buona parte il testo originale», racconta Ozon: «mantenendo il ritmo frenetico della “screwball comedy”. All’epoca in Francia gli scandali nel mondo degli affari e nella polizia erano frequentissimi. Quello era il quadro. Oggi si pensa piuttosto al MeToo, all’uguaglianza tra i sessi». Sullo sfondo di “Mon crime” passano anche protagoniste della cronaca nera come le sorelle Papin, che ispirarono “Les bonnes” di Jean Genet, o la parricida Violette Nozière, soggetto nel 1978 del film omonimo di Claude Chabrol con Isabelle Huppert. Che appare anche nel film di Ozon, rubando la scena a tutti, nei panni di un’ex-diva del muto assai sopra le righe. «Ho inserito questi riferimenti perché mi sono reso conto che quei delitti riletti oggi cambiano segno. Allora queste donne erano mostri, oggi diventano vittime», spiega il regista. «Vista con i nostri occhi quella di Violette Nozière, stuprata ripetutamente dal padre, è la storia di un incesto. Il nostro sguardo è mutato. La stessa Huppert, quando le ho detto ma lo sai che il padre la violentava, ha sgranato gli occhi: me n’ero dimenticata... Perfino negli anni ’70 di questo aspetto ancora non si parlava!».
Anche nel cinema oggi tutto è diverso. Un autore come Ozon, che ha spesso spinto molto in là il confine del visibile in fatto di sesso, basti pensare all’incipit ginecologico di “Doppio amore”, come ha visto cambiare non solo i film ma il lavoro sul set? «Credo che a lungo il regista sia stato visto come il padrone assoluto. Dal regista si accettava tutto perché era per definizione geniale. Un atteggiamento di cui molti hanno approfittato per diventare dei mostri, ma tirannia e abuso di potere non sono un obbligo. Si possono instaurare rapporti di fiducia e di piacere. È chiaro che il potere resta a me, ma cerco l’armonia. Oggi ad esempio non si potrebbe più lavorare come Maurice Pialat, grande cineasta ma molto violento con attori e tecnici. O come Hitchcock, che molestava Tippi Hedren sul set de “Gli uccelli”. Il paradosso è che con questo sistema si possono creare grandi film, ma un genio dev’essere un mostro per fare capolavori? Non credo».
Ci sono casi controversi, in Francia ad esempio si è discusso molto di “Ultimo tango a Parigi”... «Ah certo, molte femministe non vogliono più vederlo. Io penso che Brando e Bertolucci siano stati sessisti, non erano obbligati a manipolare Maria Schneider, potevano parlarle, spiegarsi. Gli attori sono intelligenti, questa ossessione di voler sorprendere, rubare qualcosa, non è necessaria, si può lavorare senza manipolare. Anche la scena d’apertura di “Doppio amore” non l’ho certo estorta, ne ho parlato all’attrice, il cinema è uno scambio costante, tanto vale che sia alla pari». E nessuno ha mai detto no? «Certo, se qualcuno legge la sceneggiatura e dice questa scena non la faccio va benissimo, vuol dire che non lavoreremo insieme. Gli attori hanno sempre ragione. Se dicono no, inutile insistere. I problemi si affrontano prima, non sul set».
A proposito di registi onnipotenti, l’avvento delle serie tv oggi sembra consegnare lo scettro a sceneggiatori e showrunner. «Forse negli Usa, ma in Francia vige ancora la politique des auteurs, grazie alla Nouvelle vague il regista impone il suo punto di vista e detiene il “final cut”. Forse cambierà, oggi i giovani vanno meno al cinema, ma per ora siamo un po’ come Asterix e Obelix, resistiamo!». Niente serie dunque per Ozon? «Me l’hanno proposto ma per me due ore sono il formato ideale per raccontare una storia. Finché ho la libertà e la fortuna di fare film per le sale lo farò». E se le dessero carta bianca? «Al limite mi interesserebbe fare come Fassbinder con “Berlin Alexanderplatz”, un grande romanzo diviso in 15 ore e mezza. Un giorno, chissà».
Per ora Ozon ha rifatto un classico di Fassbinder cambiando sesso alla protagonista, non più donna ma uomo. Titolo: “Peter von Kant”. In Italia a metà maggio, dopo “Mon crime”... Capito perché fa un po’ paura?
Frank Matano.
Frank Matano: «In Usa mi chiamavano Totti. Dopo il mio scherzo il Papa incontrò Brosio». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.
Il comico: «L’emozione più grande? Io e Steven Spielberg soli in una stanza per venti minuti»
«Mi sono sempre sentito straniero. A Carinola mi chiamavano tutti «’o ‘mericano»; negli Usa ero soprannominato Totti perché il mio vero nome è Francesco e l’Italia aveva appena vinto i Mondiali». Comico di nuova generazione, quelli digitali nati tra i bit di YouTube, non quelli analogici cresciuti sulle assi dei teatri, Frank Matano — «sono incensurato» tiene a sottolineare — ha costruito una carriera eclettica, che tocca la tv e il cinema. Preceduto dalla sua risata sgangherata, la sua è una comicità di pancia, slapstick, con un personaggio che a volte sconfina nel finto goffo, altre assomiglia a un Peter Pan da fumetto. Eterno ragazzo a 33 anni.
Padre italiano e madre statunitense, lei è cresciuto in provincia di Caserta ma dai 15 ai 18 anni ha vissuto negli Stati Uniti.
«Sono arrivato in America nel 2006 e la vittoria dell’Italia ai Mondiali fu fondamentale per integrarmi. Cercavo un lavoretto da fare per guadagnare qualcosa e il fatto che fossi italiano me l’ha fatto trovare subito. La mia tattica era di partire dal ristorante migliore della città per andare giù giù verso il peggior fast food. Mi presento subito nel posto più figo e all’ingresso c’è un signore messicano, uno dei manager, che indossa la maglietta di Luca Toni. I’m looking for a job . Ok, inizi domani, sei italiano, l’Italia ai Mondiali mi ha fatto impazzire».
La scuola com’era?
«Non andavo né bene né male ma avevo l’obbligo di studiare una lingua straniera. Io sono cittadino americano e ovviamente scelsi italiano. Mi sentivo Rain Man perché i compiti in classe erano tipo: completa la frase aggiungendo l’articolo determinativo, tutti mettevano “il” radio, io scrivevo “la” radio ed ero considerato un genio. Ho partecipato a un concorso interstatale, ho vinto 300 dollari arrivando primo nel Rhode Island e secondo in tutti gli Stati Uniti».
L’ironia per lei funzionava da acceleratore per l’integrazione o da compensazione per l’esclusione?
«Chi decide di fare il comico lo fa perché non si sente completamente a suo agio nelle situazioni sociali e quindi deve sviluppare un radar, una specie di termometro che misura la conversazione a cui sta partecipando. La comicità è una risposta alla paura, può essere anche terapeutica, ti obbliga a pensare alla realtà che ti circonda e a cercare un punto di vista diverso».
Si sentiva inadeguato?
«Da adolescente non ho mai avuto il coraggio né di ammettere di voler fare questo mestiere, né di partecipare a provini o live. Ma ho avuto la fortuna di essere un ragazzo di 18 anni che cresceva insieme a YouTube, così a casa, da solo, per quanto mi sentissi inadeguato potevo fare i miei esperimenti comici».
Ha iniziato con gli scherzi telefonici postati su YouTube. Uno scherzo di cui si è vergognato?
«A un centro di assistenza per computer. Facevo finta di essere un anziano, dicevo che stava per arrivare mia moglie e che non riuscivo a bloccare dei video che mi si aprivano automaticamente. In sottofondo si sentivano suoni pornografici, era divertente, ma ho fatto perdere una marea di tempo a quel poveraccio che stava lavorando».
Per «Le Iene» fece credere al devotissimo Paolo Brosio di aver parlato al telefono con Papa Francesco. Non si è sentito da schifo?
«Sì, mi sono sentito una merda, mi è dispiaciuto. Ma c’è stato il lieto fine perché il Papa ha visto lo scherzo e l’ha incontrato davvero».
La faccia tosta da dove le viene?
«Sono molto timido e da ragazzo lo ero ancora di più. Ma se sei molto appassionato a qualcosa è più facile che tu esca dalla tua comfort zone, quindi mi diverte sempre moltissimo l’idea di quello che sto per fare, ma non è detto che mi senta completamente a mio agio nel farlo, soprattutto nel caso delle candid camera. Il divertimento però supera la vergogna».
Non è credibile come timido...
«Nel mio lavoro ho imparato a gestirmi, ma soprattutto nelle relazioni sociali sono timido, giuro».
Tutti si aspettano sempre qualcosa da un comico: far ridere sempre è una condanna?
«Il ruolo del comico è quello di una persona che ti aspetti che ti faccia ridere. Non penso che ci sia premessa peggiore per un comico, e nonostante questo esistono persone che vogliono farlo. La chiave del comico è essere imprevedibile, sorprendere ma questo crea un cortocircuito nella sua stessa definizione. Sentirsi addosso il pregiudizio di essere sicuramente divertente è tosto, anche perché far ridere è difficilissimo».
Le visualizzazioni, i like sui social, non rischiano di diventare un’ossessione?
«Per me no, perché questo è il mio lavoro: la misura della risposta del pubblico dice se sono stato bravo o meno nel mio lavoro. Ma se non lo fai di mestiere quest’ossessione può entrare nella tua intimità e ferirti. Se mettiamo in mano i social a qualunque persona di qualunque periodo storico credo che li userebbero così, esattamente come li usiamo noi: la mania dell’ego, il costante bisogno di approvazione da parte di sconosciuti sono quasi naturali. Oggi per come usiamo i social siamo nell’epoca delle sigarette sugli aerei, un giorno qualcuno dirà: ma voi eravate fuori di testa».
Gli incontri della sua vita da incorniciare?
«Mi sento fortunato a fare questo mestiere perché mi ha dato la possibilità di poter andare a cena con alcune delle persone più divertenti della nazione: Bisio, Abatantuono, Lillo, Maccio, Elio... Ma un incontro che mi ha emozionato tanto è stato quello con Spielberg. Prima dell’intervista siamo rimasti da soli in una stanza per 20 minuti, non sapevo cosa dirgli e ho preso spunto dai poster dei film che erano appesi sul muro. Come prima domanda gli ho chiesto di Shining di Kubrick... Non il massimo. Mi è andata bene perché anche se non era un film suo era andato sul quel set».
Il lusso che si è concesso?
«Mio nonno aveva una Mustang del ‘65 che mi piaceva tantissimo e così me la sono comprata anche io, arriva dal Sud America. Ce l’ho ancora, ogni tanto la uso ma è davvero sgarrupata».
Il Paradiso e l’Inferno come li immagina?
«Il Paradiso è un karaoke con Totò, Troisi e un mio antenato. L’inferno è un karaoke dove canta solo quella signora che non molla mai il microfono».
La sua risata è esagerata, sguaiata, sembra finta. È un format?
«Ho la stessa risata di mio padre, identica. Mi chiedo se sia ereditaria... Da giovane mi ha dato parecchi problemi: in chiesa, a scuola... oggi invece si è rivelata un’interessante fonte di reddito».
Frankie Hi Nrg Mc.
Frankie Hi Nrg Mc: «C'è scarsa educazione all’ascolto. Il pubblico si è abituato non cercare sostanza»
«La parola è uno strumento di dissenso: e lo scopo fondamentale dell’arte è generare dissenso. Ma un tempo si parlava di ciò che accadeva fuori da sé, ora le canzoni esplorano solo la psiche dell’autore». Emanuele Coen su L'Espresso il 5 Settembre 2023
«Ma don Vito Corleone / Oggi è molto più vicino: sta seduto in Parlamento / È il momento/ Di sferrare un’offensiva terminale decisiva / Radicale distruttiva». È il primo febbraio 1992, la vigilia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando le rime di “Fight da faida” - sferzanti, colte, potenti, spietate, con quello scacciapensieri e quella strana filastrocca in siciliano – accendono i riflettori su mafie e corruzione e risuonano nelle radio underground da Torino a Palermo.
La canzone “spacca”, come dicono i rapper, spopola e consacra Frankie Hi-Nrg Mc come il profeta del rap politico italiano, punto di riferimento per diverse generazioni di artisti, Fabri Fibra fra tutti. Trent’anni dopo gli occhiali con la montatura nera e spessa assomigliano a quelli di allora, la barba è più lunga e brizzolata, ma la capacità di analizzare la realtà è identica. Per ripercorrere tutto dall’inizio Francesco Di Gesù, 54 anni, rapper, compositore, fotografo, conduttore televisivo e videomaker, ha scritto “Faccio la mia cosa” (Mondadori), il suo primo libro, un po’ autobiografia un po’ saggio sulle origini dell’hip hop, negli Stati Uniti, che poi è diventato un monologo teatrale che il rapper porta in giro per l’Italia. Anche in queste settimane, mentre l’hip hop compie mezzo secolo tra celebrazioni, tributi, memorie.
Frankie Hi Nrg Mc, l’hip hop festeggia i suoi primi cinquant’anni. Qual è il suo stato di salute?
«Già poter parlare di stato di salute dell’hip hop mi sembra una notizia straordinaria. I peggiori detrattori di questa cultura gli avevano dato massimo sei mesi di vita, invece è diventato il genere musicale più diffuso al mondo e quello che è riuscito a influenzare qualunque altro genere musicale, compresa la lirica».
Canzoni come “Fight da faida” o “Libri di sangue” hanno segnato l’epoca dell’impegno sociale e politico dei rapper, quasi trent’anni fa.
«In quegli anni io e tanti altri scegliemmo il rap come strumento per raccontare temi sociali, prima che politici. Non ero un attivista dei centri sociali ma avevo idee politiche abbastanza ben definite. Una cosa è sicura: il mio schieramento non era quello del neoliberismo imperante che si stava affacciando in maniera prepotente nei salotti. All’epoca c’era una bella sensibilità, uno dei pochi momenti in cui la sinistra, soprattutto quella militante, sembrava d’accordo con tutte le proprie componenti. Si intuiva un nuovo stile di fare politica, ovvero comperare i palazzi e il consenso delle persone attraverso una smaccata operazione mediatica, promossa dai nuovi padroni del vapore, anticipando quello che sarebbe successo con i social media. Non è un caso che Berlusconi fosse anche un magnate dell’universo calcistico: lo stile da tifoseria non evoluta ha caratterizzato finora l’approccio alla critica politica».
In quegli anni accadevano anche cose strane. Una volta collaborò con Vittorio Gassman.
«Un giorno torno a casa, trovo mia madre pallida che mi dice: “Ascolta la segreteria telefonica”. Trovo un messaggio: “Buongiorno, sono Vittorio Gassman, sto cercando Frankie Hi Nrg”. Voleva chiedermi di realizzare la musica per un brano di un suo spettacolo intitolato “Camper”, per il Festival dei Due Mondi di Spoleto. La settimana dopo Gassman si presenta a un mio concerto al teatro Palladium di Roma. L’ho visto ascoltare la mia musica, dall’inizio alla fine del concerto, nel suo elegante cappotto di cammello. Alla fine si è alzato e mi ha applaudito. È stato un bel momento».
Le sue canzoni si sono sempre basate sull’importanza delle parole. A partire da “Verba manent”, il suo album di esordio, nel 1993. E come “Potere alla parola”, uno dei suoi brani di maggior successo.
«È importante mettere in parola il proprio pensiero. Quando una cosa si mette in parola inizia ufficialmente a esistere. Non è un caso che la Bibbia cominci con l’espressione “In principio era il verbo”, “E la luce fu”, perché nel nominarla appare la luce. E avviene anche a livello personale: quando hai problemi e vai dall’analista, lui non fa altro che spingerti a mettere in parola quello che senti. E così i problemi diventano reali, oggettivi, li riesci a vedere e affrontare. Il senso di quella canzone, comunque, è utilizzare la parola come strumento di dissenso, lo scopo fondamentale dell’arte. Generare dissenso».
Che potere ha la parola oggi nell’hip hop?
«Oggi esiste una scarsa educazione all’ascolto, una diffusa tendenza a non farsi capire, a mascherare la propria voce. I rapper agiscono sul nonsense, cercano formule a effetto, rime forzate con parole straniere, usano marche di abbigliamento o prodotti stranieri perché le rime con le consonanti vengono più facili. Il tutto rivolto a un pubblico abituato a cercare poca sostanza».
Nella trap come viene utilizzata la parola? Spesso prevalgono testi poco comprensibili, il suono a effetto viene prima del significato...
«Ammetto di non avere molti strumenti per comprendere la trap. Se la devo analizzare secondo il paradigma dei rapper anni Novanta mi viene da dire che c’è una una certa involuzione nella proposta del messaggio. Sembra quasi un ritorno al rap delle origini, dove si parla di se stessi in maniera molto reboante. Rispetto al passato, l’introspezione è assai più presente negli autori contemporanei. Un tempo si parlava sempre di ciò che accadeva fuori da sé, oggi le canzoni esplorano la psiche dell’autore, parlano di sentimenti. Negli anni Novanta non si parlava mai d’amore nelle canzoni, quando ci hanno provato i Sottotono li hanno mangiati vivi».
Come sottolinea Paola Zukar nel suo libro “Rap. Una storia italiana” (Baldini+Castoldi), esistono almeno cinquanta canzoni trap intitolate “disturbo da stress post-traumatico” registrate da giovani star della trap americana. È il segno di un disagio diffuso?
«Il disagio non è diffuso tra i trapper, ma nella società. Senza scomodare la pandemia, i nostri adolescenti vivono male, decisamente peggio di noi alla loro età. Noi spesso non siamo capaci di gestire le loro difficoltà: parlano molto di più di se stessi, di sentimenti. Considerano normale essere seguiti dal punto di vista psicologico, avere un analista, per noi figuriamoci. Oggi penso, porca miseria se avessi avuto l’analista a 15 anni probabilmente sarei cresciuto diversamente, sarei una persona diversa, forse più risolta, se avessi dato potere alla parola prima e nel senso più profondo del termine».
A proposito di parole, nei social impazza il fenomeno del dissing, rapper che fanno a gara di insulti reciproci. È una deriva inevitabile?
«Il dissing è un eccellente sostituto degli uffici stampa: attraverso gli insulti crei una notizia che si autoalimenta. A differenza delle notizie, tuttavia, che richiedono l’intervento di un ufficio stampa, il dissing è uno strumento molto pratico per far parlare di sé. Nel bene e nel male. Purché se ne parli».
Il brano “Quelli che benpensano”, manifesto di una generazione, risale al 1997. «Poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono/ Parton dal pratino e vanno fino in cielo/ Han più parabole sul tetto che San Marco nel Vangelo». Chi sono “quelli che benpensano” nel 2023?
«Tutti quelli che si sono sempre abbeverati a quel capezzolo e non hanno mai smesso. Quelli che desiderano il successo in quanto tale, che utilizzano la metrica del denaro per stabilire una classifica. Non mi riferisco necessariamente a una parte politica. Nella mia canzone, inoltre, quelli che benpensano sono quelli che non hanno queste ricchezze ma ambiscono ad averle. Invidiano e ammirano la ricchezza e la furbizia altrui».
Come vede l’Italia di oggi? Le piace o vorrebbe fuggire alle Maldive?
«Alle Maldive no, sarebbe tremendamente noioso. Però è vero che l’Italia è un Paese artatamente difficile: potrebbe essere tutto molto più semplice, ma essendo fondato su nepotismo, regalie, tutela degli interessi di parte, leggi ad personam è diventato sempre più difficile da tenere in piedi. Potrebbe andare molto meglio ma dovremmo cambiare tutti. Ma abbiamo capito che la rivoluzione non siamo capaci di farla».
Gabriel Garko.
Dagospia il 14 marzo 2023. Comunicato stampa
Gabriel Garko a Belve racconta a Francesca Fagnani che è stato a un passo dal togliersi la vita. “C’è stato un episodio che le ha fatto toccare il fondo?” Chiede la Fagnani. E lui: “ci sono stati dei momenti molto duri, molto faticosi. La mia analista era sorpresa che non mi fossi suicidato o drogato”.
La Fagnani a quel punto chiede: “non ricorda un episodio?” E Garko: “c’è stata una volta in cui ho pensato di farla finita. Ho avuto dei pensieri, perché non mi andava più di andare avanti, ma non avrei mai il coraggio di farlo. Anche nel brutto voglio sempre sapere come va a finire”.
Un’intervista molto intima e senza filtri, in cui l’attore ha parlato del “sistema ares”, basato sull’omertà che avrebbe condizionato la vita degli artisti che gravitavano intorno al mondo del produttore Alberto Tarallo. E quando la Fagnani gli chiede chi è stato omertoso, Garko risponde: “si diventava un po’ tutti omertosi. Era un sistema e io non ne conoscevo altri”.
La Fagnani chiede, allora, se durante quel periodo Garko abbia subìto manipolazione e lui risponde: “c’era una dose di inconsapevolezza molto forte. È difficile spiegare oggi come si viveva negli anni novanta, volendo fare questo lavoro, con le regole che esistevano. Se andiamo indietro nel passato ci sono tantissimi miei colleghi molto più famosi di me che hanno fatto anche peggiori, non soltanto nel nostro ambiente. Penso che o così o pomì, per fare un lavoro bisognava omettere determinate cose”.
Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, finalmente in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.
Gabriel Garko, amatissimo attore e sex symbol degli anni Novanta, racconta a Belve l’esperienza avuta in Senso 45 di Tinto Brass. Alla domanda della Fagnani su quante scene di sesso ha girato, racconta un divertente aneddoto: “Una volta c’era una scena in cui ero nudo ma avevo una calza per coprire le parti intime.
C’era una ragazza che doveva simulare un atto orale, e quando Tinto ha dato azione lei girava intorno e diciamo che una reazione c’è stata. Tinto ha chiamato lo stop e ha urlato “spruzzino!” ed è arrivata una persona con l’acqua fredda. Io ero in imbarazzo totale, ma sono cose che capitano!”.
Sull’essere trattato in modo ingeneroso dalla critica, Garko commenta serafico: “Ho imparato che quando va male per la critica va bene per il pubblico e viceversa. Quindi preferisco il pubblico”. E quando la Fagnani chiede se c’è stato snobismo nei suoi confronti, risponde sicuro:
“Sì, e non ho problemi né a dirlo, né a farmelo dire, né ad ammetterlo”. Perché? Chiede la Fagnani. E lui: “Ho fatto tante fiction in un periodo in cui c’era uno snobismo nei confronti delle fiction. Non erano viste di buon occhio da attori e critici; gli stessi che anni dopo avrebbero pagato oro per farle”.
E sulle finte fidanzate, quando la Fagnani chiede se aveva libertà di scelta o gli venivano imposte, Garko racconta: “Era motivo di litigio perché io non volevo. Inizialmente ho detto “ok, non posso dichiararmi per la mia natura, allora non dichiaro nulla e non voglio fingere”, ma purtroppo era così e reggevo”.
E sulla domanda della Fagnani se qualcuna ha creduto di essere la sua fidanzata davvero, Garko confessa: “Con Manuela Arcuri è stata una storia vera”. Sulla sua attuale situazione sentimentale rivela: “Sono innamorato, ho una persona vicino a me”.
Estratto dall’articolo di Emilia Costantini per il Corriere della Sera il 5 marzo 2023.
L’ultima fan invasata, convinta di poter diventare la sua nuova fidanzata, gli è capitata nei giorni scorsi.
«Diceva di essere Marilyn Monroe e si era piantata davanti a casa — racconta Gabriel Garko, che abita in una villa a Zagarolo, vicino Roma —. Minigonna, tacchi a spillo e tette di fuori, non voleva andarsene e una volta è riuscita persino a entrare dentro casa. Sono riuscito a farla uscire con le buone maniere, ma poi ho dovuto chiamare i carabinieri, perché un giorno mi si è addirittura buttata sotto le ruote dell’auto... una matta... era diventata pericolosa e non mollava!».
Le succede spesso di essere assediato dagli ammiratori?
«Purtroppo sì e, oltretutto, non è tanto facile scovare la mia abitazione... bisogna conoscere bene la zona e venirci apposta. Cerco di essere sempre disponibile con loro, ma c’è un limite a tutto, non posso accettare l’invasione della mia vita privata, diventare il bersaglio di gente invasata: è una privazione della libertà».
Il successo è una prigione dorata?
«In passato l’ho vissuto come tale: una volta, vedendo la mia immagine sulla copertina di una rivista, mi sono addirittura spaventato. Ma ormai mi sento più libero. Oggi le persone sui social vendono la loro vita che è finta. Lo star system vende sogni e, se non sei molto equilibrato e la tua vita non è serena, si vive male, perché devi nascondere la tua vera identità interiore, cosa che ho fatto anche io per anni. Ho tante volte interpretato personaggi che non avevano nulla a che fare con me e il dover restare sempre nascosto non è facile. Il lavoro però mi ha fortificato».
Talmente fortificato che a «Ballando con le stelle» si è rotto prima un braccio e poi una gamba...
Ride di cuore. «Sono un tipo atletico, ma ho sempre fatto un tipo di allenamento che non ha nulla a che vedere con la danza: i ballerini hanno un genere di muscolatura diversa dalla mia che, negli allungamenti, rischia di strapparsi... quello che è accaduto a me. Comunque comincio a stare meglio: il braccio sto iniziando a muoverlo e per quanto riguarda la gamba mi muovo ancora con le stampelle, ne avrò fino ad aprile...».
Finalmente libero e fortificato anche da quando ha fatto il coming out riguardo alla sua omosessualità?
«Preciso subito che non sono molto d’accordo col coming out: la vera normalità ci sarà quando non sarà più necessario doverlo fare. Innanzitutto, non è che tutti devono sapere i fatti tuoi, non è assolutamente giusto che una persona debba confessare pubblicamente la sua omosessualità solo perché la società impone che tutti devono essere eterosessuali. E se il mondo fosse al contrario? E se gli etero dovessero fare coming out?».
Uno dei personaggi da lei interpretato con successo è stato proprio Rodolfo Valentino...
«Eh già... e all’epoca sua, l’ambiguità sessuale era un problema davvero serio. E pensare che è stato un’icona, il latin lover per eccellenza e, quando è morto, le donne si sono suicidate per lui...».
I suoi genitori l’hanno lasciata libero di dichiarare la sua verità?
«Assolutamente sì. Hanno sempre saputo la mia verità, erano molto evoluti, non erano bigotti, non mi hanno trasmesso dei tabù e sono sempre stati miei complici. Quindi credo che, se in una famiglia normale padre e madre dicessero ai figli che esistono l’uomo etero, quello gay, la donna lesbica, il trans... eccetera, tra vent’anni non ci sarebbero più problemi nel dichiararsi serenamente in un modo o nell’altro».
E lei, tempo fa, ha anche espresso il desiderio di diventare padre. Sarebbe d’accordo con la maternità surrogata, il cosiddetto «utero in affitto»?
«No, non vorrei mettere al mondo una nuova vita, semmai sarebbe bello adottare un bambino, per dagli la possibilità di una vita migliore e, per esempio, non capisco per quale motivo i single non possano assumere questo ruolo, oppure una famiglia arcobaleno. L’importante è che siano delle brave persone e che possano assicurare la giusta, dovuta dignità a un orfano. Però... aggiungo che, pur avendo pensato spesso a compiere questo passo, oggigiorno forse non mi sento più motivato a diventare padre: non mi piace la società in cui viviamo e detesto l’accanimento morboso che impazza sui social. Oggi più che mai, i giovani devono poter contare su una famiglia sana alle spalle, per difendersi dal mondo virtuale, dove tutti si sentono in diritto di giudicare tutti».
(...)
Una realtà che, quando lei lavorava col produttore Alberto Tarallo, doveva negare?
«Non voglio nominarlo, perché è in corso un’inchiesta. Posso solo dire che nei primi anni Novanta non si potevano pubblicamente dire certe cose sulla propria sfera privata».
Nessun bel ricordo degli anni in cui con la produzione Ares ha realizzato tanti progetti?
«Lavorativamente parlando sono stati anni costruttivi, ma non posso tornare indietro e non so se, magari, avrei potuto fare anche altro, accettando altre proposte. Non sono abituato a sputare nel piatto dove ho mangiato e comunque ho lavorato al meglio delle mie possibilità. Oggi, cinquantenne, mi sento libero nelle mie scelte».
E pensare che ha iniziato la carriera a 17 anni diretto dal grande Dino Risi, nella miniserie-tv «Vita coi figli», a fianco di attori come Giancarlo Giannini, Monica Bellucci...
«Avevo una particina, interpretavo il fidanzatino della figlia di Giannini ed ero terrorizzato. Ma Risi era un uomo molto paziente e mi ha insegnato come studiare bene la parte. Però, quando poi mi sono rivisto nel film, mi son detto: che cane che ero!». Però poi è stato diretto sul grande schermo da Franco Zeffirelli e, in teatro, persino da Luca Ronconi... «Due maestri eccelsi e oltretutto grazie a loro ho lavorato con attori sublimi».
(…)
Gabriele e Silvio Muccino.
Gabriele Muccino: «Così la mia saga familiare si tinge di crime». Storia di Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023.
In settembre sarà sul set del nuovo film, il suo tredicesimo in 25 anni. Ma per adesso Gabriele Muccino ha a cuore solo la nuova stagione della fortunata serie A casa tutti bene, in arrivo su Sky dal 5 maggio (e in streaming su Now). Ritroviamo passioni impeti e furori dei Restuccia, la madre Alba (Laura Morante), i figli Carlo (Francesco Scianna), Sara (Silvia D’Amico ) e Paolo (Simone Liberati), i partner e gli ex. E i Mariani: Maria (sorella del capofamiglia Pietro che gli ha lasciato una quota del ristorante di famiglia) con i figli Sandro (Valeria Aprea) e Riccardo (Alessio Moneta con la compagna Luana, Emma Marrone). Segreti e bugie, più grida e sussurri in otto episodi in cui nelle relazioni umane, spiega il regista che l’ha scritta con Muccino con Barbara Petronio, Camilla Buizza, Gabriele Galli e Andrea Nobile, «si infiltra il crimine». Alla base, la saga familiare affrescata nell’ omonimo film del 2018, già un esempio di analisi collettiva e autoanalisi che in tv, assicura, va più nel profondo. «La serialità permette di raccontare meglio la complessità dell’animo umano, il suo lato più oscuro fino a un punto di non ritorno. Le virate della psiche, a volte così ottusa e miope, quello che rende gli umani così fallati. È tutto un altro terreno di gioco rispetto al cinema, adesso ho un’ora di tempo per raccontare ogni personaggio. Il tempo è il vero lusso della serialità». Che gli ha permesso di superare i limiti, dice. «Ho sempre cercato di raccontare quanto fosse difficile stare al mondo, ma non avevo avuto come regista il coraggio di entrare nella zona oscura dell’essere umano dove, per salvarti, arrivi anche a uccidere un’altra persona. È un impulso che segna la storia dell’umanità. C’era in me la voglia di entrare nell’abisso e qui mi sono sentito di avere la piena libertà e il coraggio per farlo. Non ho l’angoscia di portare la gente al cinema come accade quando giri un film. Tolta l’ansia da box office e la paura di non portare la gente in sala, mi sono liberato della parte di me che nell’esplorazione dell’animo umano si fermare prima di dire cose anche spiacevoli e provocatorie dal punto di vista morale».
Muccino ha fatto suo il monito di Tolstoj («Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo») Muccino: sull’indagine intorno all’infelicità domestica ha costruito la sua filmografia. «La famiglia è un microcosmo che riflette tutte le dinamiche, migliori e peggiori della società. In tutta la mia filmografia ho sempre affrontato le diverse declinazioni dei nuclei familiari nel bene e nel male». Ma avverte: «Non sono un sociologo e neanche uno psicanalista. Sono una persona ordinaria: ho letto libri, visto film, vissuto tante vite, quelle reali e quelle specchiandomi nei personaggi amati al cinema. Mi sembra di averne vissute venti, non una. Mi ha fatto pensare che non esistono le famiglie felici». Ai suoi figli, dice, qualche consiglio lo dà. «Due o tre coordinate per vivere meglio. Due o tre cose per salvarvi la vita. Per esempio se moi padre mi avesse detto evita di seguire donne che anno avuto problemi con il padre sarebbe stato meglio», scherza ma non troppo.
Per tornare al generale, sottolinea di non sentirsi neanche un testimone. «Ho sempre raccontato quello che sentito io, mai avuto ambizione di raccontare il mio tempo. Ma non sono impermeabile. Se nell’Ultimo Bacio,, raccontavo ragazzi che erano divoratori di vita, che puntavano alla fuga, in Ricordati di me Ora è l’era dei social: siamo sempre isolati anche se comunichiamo con chiunque. E non ci sono sogni rivoluzionari, anzi c’è una marcia indietro sui diritti, un revisionismo storico forte e l’uso dei social ha creato una disfunzione preoccupante negli adolescenti». Non testimone, dunque, ma narratore. Di personaggi in balìa degli eventi. «Non volevo spolverare bambole impolverate. Volevo raccontare degli antieroi come ce ne sono stati tanti nel nostro cinema, basta pensare a Alberto Sordi. I personaggi che, in quanto tali, devono avere la consapevolezza di essere degli sconfitti. La consapevolezza delle nostre miserie è infatti la condizione necessaria perché l’antieroe non sia respingente. Pensate a Alberto Sordi». Di terza stagione è presto per parlare. Ma con Muccino il finale è aperto. «Diciamo che è plausibile. L’esplorazione dell’animo umano è infinita. E troppo intrigante».
Gabriele Muccino: «Volevo fare il veterinario. Una volta un leone mi fissò, aveva fame: era erotico». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023.
Dai documentari nella Savana ai film a Hollywood, «dove l’eroe è colui che ce la fa. Il nostro invece è un cinema nato dalle macerie di una guerra perduta e questo senso di sconfitta ce lo siamo portato dentro». Un cinema di antieroi, come il suo «A casa tutti bene», diventato serie Tv. Dal 5 maggio su Sky con la seconda stagione
Gabriele Muccino, romano, 55 anni
«È partito tutto un po’ per gioco, dovevo dare dei cognomi ai miei personaggi e ho usato quelli dei miei amici del liceo. Nel secondo film, mi sono detto: bè, è andata bene, riproponiamolo». Così Gabriele Muccino - romano, 55 anni, regista e sceneggiatore -, spiega la scelta di quella parola “Ristuccia” che dal film d’esordio Ecco fatto accompagna la sua produzione attraverso 25 anni, fino alla seconda stagione di A casa tutti bene - La serie, che debutta su Sky il prossimo venerdì 5 maggio. «Da L’ultimo bacio in poi per me è diventato facile iniziare a scrivere partendo da Giulio, Paolo o Carlo Ristuccia, a quei nomi corrispondono tre modi di stare al mondo: so già come questi personaggi cresceranno nella storia, so qual è la loro psiche. Quel cognome è stata una chiave di cui mi sono servito per tratteggiare soggetti che hanno caratteristiche che conosco ormai bene e che nel tempo non sono mai mutate profondamente. Tutti noi cambiamo, ma di fatto una parte del nostro io resta la stessa ed è quella che cerca di fare i conti con la vita».
Riavvolgiamo il nastro e partiamo dai documentari dedicati alla savana girati nel 1996 in Kenya, Tanzania, Sudafrica: cosa le hanno insegnato quelle riprese lente e dettagliate?
«È stato un momento di definizione enorme. Eravamo in tre: uno girava, uno riprendeva il suono e l’altro - che ero io - parlava. A volte con noi c’era un ranger, altre eravamo soli. La notte nella savana è il momento della resa dei conti, quello in cui si va a caccia: eravamo in tenda, ma sentivamo la legge della vita che riecheggiava rimandandoci in modo ancestrale a ciò che siamo, prede o predatori. Questo prendere contatto continuo con la vita e la morte è la sostanza del vivere la savana così come l’ho vissuta io per sei mesi. In quei posti scopri l’uomo primitivo che è in te, capisci quanto sei vulnerabile. Ti rendi conto che sei incompleto davanti a un animale: non corri veloce, non ti arrampichi sugli alberi, non hai artigli, non hai denti affilati».
Un’esperienza intensa e pericolosa.
«Anche quando meno te lo aspetti. Una volta stavo in un allevamento di mucche, ma ero anche a metà tra loro e dei predatori. E stavo facendo pipì. Ho alzato lo sguardo e dopo un po’ - perché si mimetizzano davvero molto bene - mi sono accorto che a 15 metri c’era un leone che mi fissava. Nei suoi occhi c’era uno sguardo che definirei erotico. Non era quello che vedi quando sei a bordo della jeep e fai il giro con i turisti, in quel caso gli animali non ti guardano nemmeno. Allora invece io ero la preda e lui mi guardava con fame. C’erano anche cinque o sei leonesse pronte alla caccia».
E lei cosa ha fatto?
«Sono rimasto immobile, ci siamo guardati come in una sfida alla Sergio Leone, chi cedeva per primo era finito. Dopo un po’ la prima leonessa se n’è an data. Avrà pensato: ma lasciamolo stare questo qua, così le altre l’hanno seguita. Il leone è rimasto ancora a guardarmi, forse chiedendosi: ma io che devo fa’ con te, te magno o nun te magno ?!? Io intanto pensavo che alla fine quella di essere mangiato da un leone poteva essere una morte anche giusta perché facevo parte del ciclo della vita. Invece lui ha deciso di graziarmi e ha seguito le leonesse».
Dopo i documentari, il corto Io e Giulia , diventato una sorta di anticipazione del film Ecco fatto , un’opera prima in cui c’erano già alcuni degli attori che la seguiranno in tutta la sua carriera come Claudio Santamaria e Giorgio Pasotti. Quindi il successo con L’ultimo bacio , l’esperienza americana, il ritorno al cinema italiano e un film corale, A casa tutti bene visto da un milione e mezzo di spettatori con un incasso che, all’uscita nel 2018, ha superato i 9 milioni di euro. Perché farlo diventare una serie tv?
«Quel film era un pezzo di me. Chiudeva un capitolo della mia storia con l’America, ero tornato molto stanco di quel sistema, di quelle vite sterili. In Italia avevo ritrovato il calore, l’empatia, la nostra convivialità, tutte cose preziosissime per l’anima. Ero felice e straziato di staccarmi da quei personaggi così come il film lascia mentre tornano alle loro vite, ognuno a casa propria. Sentivo che era la premessa di qualcosa che avrei voluto raccontare. Già durante le riprese, spesso istigati da Gianmarco Tognazzi, partiva il coro da stadio: “Famo la serie, famo la serie”. Si tratta di personaggi molto forti e diametralmente opposti. Nella serie ho avuto la possibilità di raccontarli in modo vero e autentico, con un tempo che il cinema non ti concede: in un film corale, su due ore, a ciascuno potrai dedicare 10-20 minuti; nella serie, puoi arrivare a un’ora e l’evoluzione che gli permetti di compiere è molto più ampia svelandone le complessità, l’animo, i momenti bui, i ripensamenti. Quello che ho provato a fare è portare il linguaggio del mio cinema nella serialità».
«”A CASA TUTTI BENE ERA UN PEZZO DI ME”, DURANTE LE RIPRESE SPESSO PARTIVA IL CORO, LANCIATO DA GIANMARCO TOGNAZZI: “FAMO LA SERIE, FAMO LA SERIE”...»
Come ha incastrato personalità così diverse senza che uno prevalga su di un altro o lo oscuri?
«È avvenuto in modo naturale, non ho faticato a gestire 19 trame. Ho la forte impressione che lo spettatore non ne smarrisca mai nessuna, sono congegnate in un modo che seppure sembrino tanti cavalli al galoppo, in realtà corrono tutti nella direzione della serie».
È una saga di antieroi, ma chi erano gli eroi di Gabriele Muccino bambino?
«Prima di pensare e sognare di fare il regista volevo diventare veterinario. Sono sempre andato tantissimo al cinema, era una delle cose che mi piaceva di più, era quasi meditazione. I film che amavo erano quelli in cui l’antieroe era protagonista, quelli italiani degli Anni 50-60. Il nostro è un cinema di antieroi, persone che sono consapevoli del proprio essere difettosi, che combattono per riuscire a rammendare quello che è sfilacciato. Pellicole come Una vita difficile di Dino Risi sono l’emblema di questo, come lo è l’antieroe Gassman ne Il Sorpasso o in C’eravamo tanto amati. Il pubblico soprattutto italiano, e poi anche francese, ha sempre accolto questi personaggi senza condannarli».
In contrasto con il cinema americano.
«Sì, lì l’eroe è colui che ce la fa. È Will Smith ne La ricerca della felicità, è chi combatte combatte combatte e alla fine deve farcela. Il nostro invece è un cinema nato dalle macerie di una guerra perduta e questo senso di sconfitta ce lo siamo portato dentro e l’abbiamo metabolizzato e filosofizzato».
Chi ha creduto per primo in lei come regista?
«Mio cugino. Produceva e vendeva reportage e servizi giornalistici. È stato lui a commissionarmi il mio primo cortometraggio. Gli piacque e lo fece vedere a Giovanni Minoli che me ne chiese altri tre per Mixer. È stata un’ottima palestra».
«IL NOSTRO È UN CINEMA NATO DA UNA GUERRA PERDUTA, I PROTAGONISTI SONO ANTI EROI. QUESTO SENSO DI SCONFITTA CE LO SIAMO PORTATO DENTRO E L’ABBIAMO METABOLIZZATO»
L’ultimo bacio (2001) ha avuto 13 milioni di euro di incassi ed è stato in programmazione al cinema per sei mesi. Oggi sarebbe impossibile.
«Erano almeno dieci anni che un film drammatico, o comunque non comico, non aveva un riscontro così importante. I grandi successi arrivavano soprattutto da Verdone, Pieraccioni, Aldo, Giovanni e Giacomo. Ha stupito e forse anche destabilizzato un po’ i critici e il pubblico».
Con la pandemia ci siamo abituati a vedere film anche direttamente sulle piattaforme: cosa cambia quando si gira per il grande o per il piccolo schermo?
«Da un punto di vista grammaticale e di contenuti - se c’è libertà piena - è la stessa cosa. Ma nonostante ci siano schermi anche da 75 pollici, a casa c’è il rischio di essere disturbati o distratti. Poi si perde la convivialità dell’andare insieme a vedere un film. E non c’è la scatola ottica. Ci sono dei limiti tecnici forti, che però tante persone non conoscono perché non sono state educate al cinema».
Cosa succede quando non c’è libertà?
«Nasce un film smussato, devitalizzato, povero».
Quanto è importante essere “educati al cinema”?
«Dovrebbe essere insegnato nelle scuole, ha segnato un secolo e mezzo di storia dell’uomo. Noi siamo i film che abbiamo visto. Andare con i professori nelle sale dovrebbe essere parte dell’insegnamento perché permette di staccare dai maledetti smartphone che hanno ristretto la capacità di concentrarsi dei ragazzi. Si distraggono troppo facilmente. Insegno a giovani attori in una scuola e mi rendo conto che non hanno idea di cosa sia successo nel nostro cinema o in quello americano degli Anni 70, c’è un’ignoranza enorme».
Come nasce una sceneggiatura?
«La testa di chi fa questo mestiere è una sorta di piazza in cui le persone sono idee che si incontrano, lottano tra di loro, litigano, se ne vanno, scompaiono e a volte rientrano più forti».
Ha ancora un sogno nel cassetto?
ROMANO, TRE FIGLI - Nato a Roma il 20 maggio 1967, Gabriele Muccino ha una sorella, Laura, e un fratello, Silvio che ha diretto in Come te nessuno mai e Ricordati di me. Tra i due i rapporti sono freddi ormai da anni. Dal 2012 è sposato con Angelica Russo. Ha 3 figli: Silvio Leonardo, Ilan e Penelope
IL SUCCESSO Nel 2001 - Con L’ultimo bacio (nella foto) si aggiudica cinque David di Donatello tra cui quello per il miglior regista. Il film viene presentato anche al Sundance Festival e distribuito negli Stati Uniti.
L’AMERICA - A Hollywood gira La ricerca della felicità (2006) con Will Smith che viene candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. Seguono Sette anime (2008) ancora con Smith, Quello che so sull’amore (2012) con Gerald Butler e Jessica Biel, Padri e figlie (2015) con Russell Crowe e Amanda Seyfried
NON SOLO CINEMA - Nel 1996 lavorò in Africa realizzando documentari sulla savana. L’anno successivo ha girato il corto Io e Giulia, una sorta di anticipazione del suo primo film Ecco fatto. Ha anche diretto videoclip musicali per Laura Pausini, Jovanotti e Biagio Antonacci
Gabriele Muccino e la rottura con il fratello Silvio: tutte le tappe della vicenda tra dichiarazioni e accuse. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023
Il rapporto tra il regista di «A casa tutti bene» e suo fratello si è interrotto anni fa: ecco cosa è successo
«Con mio fratello ho vissuto un lutto»
«Con lui ho vissuto un lutto, un lutto di una persona vivente, che non vedo dal 2007. È stata una esperienza per me aberrante da un punto di vista psicologico: mi ha scarnificato. Rimane una delle cose più incomprensibili, ingiustificabili e forse anche imperdonabili». Così diceva lo scorso anno al Corriere Gabriele Muccino (mercoledì 12 aprile arriva in chiaro su Tv8, in prima serata, la serie «A casa tutti bene», reboot dell’omonimo film del 2018 diretto dal regista) a proposito del rapporto con suo fratello Silvio. Ormai interrotto: «A un certo punto quando questo lutto si è elaborato, quando ho smesso di soffrire, sono passati ormai 15 anni. Lì ti rendi conto che quella persona non la vuoi più incontrare, non hai più nulla da raccontare perché fondamentalmente non la stimi, non la ammiri e non la conosci più. Se mancano questi tre elementi, il resto cosa è? Forma?». A proposito di un possibile chiarimento il regista ha dichiarato: «Quando tuo fratello scompare senza neanche dirti perché per una vita intera, il corpo soffre, soffri psicologicamente, ti svegli nel cuore della notte come se ti mancasse l’aria, perché hai voglia di tuo fratello. Era un pezzo di me. Mi ha tolto un parte enorme della mia vita e ora quella parte lì se ne è andata. La nostra difesa naturale nell’elaborazione delle sofferenze fa in modo che si crei uno spessore sulla cicatrice tale da far diventare quella cicatrice insensibile. È lì, la vedi ma è talmente spessa la carne che la riveste che siamo diventati insensibili, a dispetto di quello che vorremmo. Ma è fisiologico difendersi da un dolore così penetrante».
Le accuse contro Carla Vangelista
La vicenda è venuta alla luce diversi anni fa. Ripercorriamo tutte le tappe, partendo da quando nel 2010 Gabriele Muccino rilasciò un’intervista a Repubblica, e rivelò che non parlava con suo fratello Silvio da tre anni: «Il cruccio più grande è che ho un fratello che si è isolato dalla famiglia e naturalmente da me. Certo, non lo vedo da tre anni, non risponde se cerco di contattarlo, non si fa vivo». Negli anni successivi, in alcuni tweet, il regista attribuì la colpa di quel prolungato silenzio a Carla Vangelista, scrittrice e sceneggiatrice con cui Silvio collaborava da tempo: la accusò di aver «plasmato» e «reso irriconoscibile» il fratello allontanandolo dalla famiglia (lei poi nel 2015 citò Gabriele Muccino in giudizio per diffamazione).
L’intervista a «Le Invasioni Barbariche»
Nel febbraio 2015, ospite di «Le Invasioni Barbariche», Silvio Muccino ruppe il silenzio: «Il problema di questa dichiarazione così violenta, aggressiva e spregiudicata - disse in riferimento all'accusa di plagio - è che non si tratta di una affermazione corroborata dai fatti, ma è un'affermazione detta da lui a una donna che nemmeno conosce e che non ha mai visto. Per questo rimango basito davanti alle dichiarazioni di Gabriele che mi violentano ogni volta. Io non lo chiamo perché ho chiesto il silenzio, basta avere rispetto per il dolore dell'altro. Io ho avuto sempre molto rispetto per il dolore di Gabriele, infatti non ne ho mai parlato. Quello che vorrei ora è il rispetto».
La lettera di scuse
Nel 2016 arrivarono le scuse pubbliche di Gabriele Muccino per le affermazioni fatte via social contro Carla Vangelista: «Con questa lettera che intende essere pubblica, poiché deve rispondere a dichiarazioni che via social network ho scritto e che, quindi, sono diventate di pubblico dominio, voglio chiedere scusa pubblicamente alla Signora Carla Vangelista, collaboratrice da molti anni di mio fratello Silvio, a fronte di improprie esternazioni delle mie opinioni, nelle quali le attribuivo la responsabilità dell'allontanamento di Silvio da me e dalla mia famiglia. Esternazioni che hanno plausibilmente intaccato la credibilità e la rispettabilità della signora Vangelista, che del resto conosco appena. Ho avuto un fratello sparito da un giorno all'altro dalla mia vita ed è naturale che abbia distribuito responsabilità ad una persona che sapevo essergli vicina. La responsabilità di questa sofferenza è da cercare altrove. Mi scuso ancora per l'impulsività che i nuovi social media agevolano molto e soprattutto per inesattezze, insinuazioni e altro di cui sono stato responsabile. Nella viva speranza che le mie scuse verranno accolte, invio un caro saluto».
Le dichiarazioni a «L'Arena»
A distanza di qualche giorno dalle scuse pubbliche, sempre nel 2016, in diretta a «L'Arena» Silvio lanciò una serie di accuse molto pesanti nei confronti di suo fratello Gabriele: «Sua moglie Elena (l’ex moglie di Gabriele Muccino Elena Majoni, ndr.) spesso mi raccontava che lui veniva alle mani ed era violento e aggressivo. Ci sono stati ripetuti episodi di violenza domestica». Raccontò poi: «Un’estate poi eravamo nella casa di campagna di Gabriele, lui era nervoso e andò in camera da Elena. Quando mi avvicinai alla porta la vidi uscire con una mano sull’orecchio e le lacrime agli occhi. Non sentiva più niente: uno schiaffo le aveva perforato un timpano e ha dovuto subire una timpano-plastica per riacquisirlo in parte». Silvio aggiunse che, quando si trovò davanti ai giudici per fornire la sua versione dei fatti, non ebbe il coraggio di raccontare la verità: «Sono stato indotto a mentire e ho negato questo schiaffo davanti ai pm. La mia famiglia ha fatto figurare che fosse un incidente avvenuto in piscina. E alla fine io ho reso falsa testimonianza. Era una mia responsabilità e scelsi la mia famiglia anziché la verità, non me lo sono mai perdonato, avevo 24 anni e feci crac». Risale a quel preciso momento la decisione di allontanarsi dai familiari. «Il malessere subito in famiglia è stato elaborato in maniera diversa da me e Gabriele. Lui l’ha portato fuori, anche con atteggiamenti fisicamente violenti. Spero che questa sia la parola fine sulla vicenda. La verità rende liberi».
Il racconto di Elena
«Non sono una bugiarda, non lo sono mai stata». Relativamente alle forti dichiarazioni fatte da Silvio Elena Majoni disse nel 2017 in un'intervista al Corriere: «A seguito di quell'episodio la cui verità è stata volutamente occultata durante il processo di separazione, Gabriele Muccino ha cavalcato l'onda mediatica definendomi come arrampicatrice sociale con la sola finalità di ottenere soldi e pubblicità e sostenendo come io rivelassi menzogne. E affermava questo nonostante la certificazione medica che espressamente riconduceva la rottura a uno schiaffo di tale forza da rendere necessario un intervento chirurgico che a tutt'oggi mi ha lasciato un evidente cicatrice. È altrettanto evidente che il mio ex marito abbia avuto con me un atteggiamento talmente violento da arrecarmi un danno che ha pregiudicato non solo la mia carriera di violinista ma anche il mio quotidiano». A proposito di Silvio aggiunse: «Silvio ha sempre sofferto molto per quella testimonianza. Che poi è uno dei motivi principali per cui ha rotto con la sua famiglia. Conoscendolo sapevo che prima o poi avrebbe fatto emergere la verità. E il suo gesto, a mio parere, è stato importante sia ai fini giudiziari che per la mia personale credibilità». All’intervista del Corriere Gabriele Muccino replicò su Facebook: «La vanità, ahi la vanità! Ex mogli che infangano ex mariti omettendo, mistificando, imbrattando. Quante ne abbiamo viste di queste storie...». In seguito il regista sporse querela contro l’ex moglie: «Gabriele Muccino è stato negli ultimi 12 mesi bersaglio di una gravissima campagna diffamatoria, con la quale è stato offeso il suo onore e la sua reputazione personale e professionale a mezzo di affermazioni false e prive di fondamento - scrissero i legali Carlo Longari, Ernesto De Toni e Giambattista Casellati -. Considerata prevalente la necessità di preservare la vita privata dei figli, tutti minorenni, nonché della figura materna della sua ex consorte, Gabriele Muccino ha preferito, fino ad oggi, non replicare pubblicamente a quanto diffuso sul suo conto, seppur gravemente falso, distorto e mistificato».
La denuncia ritirata
Gabriele Muccino querelò anche il fratello Silvio per diffamazione. Poi, nel gennaio 2020 alla prima udienza del processo, ritirò la sua denuncia: «Non volevo che mio fratello fosse condannato. Se Silvio torna, sa dove trovarmi. Io sono qui e l’aspetto», spiegò Gabriele al settimanale Oggi. L’avvocato Carlo Longari, che ha rappresentato il regista, disse: «Il mio assistito ha deciso di ritirare la querela. Si è comportato da fratello maggiore chiudendo una vicenda che lo aveva molto ferito». L’avvocato Michele Montesoro, della controparte, aggiunse: «La brutta lite tra fratelli è stata composta. Adesso potranno continuare la loro professione senza dover comparire in tribunale».
Pagine dolorose
Nel 2021 Gabriele Muccino ha dato alle stampe la sua autobiografia: «La vita addosso», realizzata con Gabriele Niola (Utet editore). Dolorose le pagine dedicate a Silvio: «Non lo vedo dal 2007 - ha detto al Corriere -, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto, non ha voluto incontrare me, in nessuna occasione, i miei figli, i miei genitori, mia sorella, ma anche Giovanni Veronesi, Carlo Verdone, ha fatto terra bruciata intorno a sé, lontano da tutti quelli che lo hanno amato. La sua scomparsa ha lacerato il tessuto familiare, a ognuno manca un fratello o figlio. Rimane inspiegabile, farà lui il bilancio della sua vita. A un certo punto ha fatto dichiarazioni su di me talmente gravi, descrivendomi come uomo violento. Sono state il napalm. Le carte giudiziarie dicono l’opposto, la vicenda si è chiusa con l’archiviazione. Nel libro ho voluto raccontare tutto, non mi faccio sconti come uomo e padre». Il regista ha rivelato di aver tentato di ristabilire un contatto con il fratello, senza successo: «In uno degli ultimi due film cercai di fare una mossa di una forza sovraumana, di azzerare tutto ripartendo almeno professionalmente da dove avevamo interrotto. Ho scritto un personaggio per lui. Ma non ne ha voluto sapere. Ti risponde con gli avvocati e allora basta così».
Gabriele Salvatores.
Dagospia domenica 3 dicembre 2023. GABRIELE SALVATORES SI RACCONTA A "NON E’ UN PAESE PER GIOVANI" SU RADIO 2 – LE RIVALITA’ NEL MONDO DEL CINEMA, LA ROTTURA CON MAURIZIO TOTTI, IL RAPPORTO CON DIEGO ABATANTUONO, “AMNESIA” (“E’ IL FILM CHE MI PIACE DI MENO, E’ NATO IN UN PERIODO DI DEPRESSIONE. LO CHIAMO IL FIGLIO DEL PROZAC”) – LA CHICCA: “DA RAGAZZO SUONAVO LA CHITARRA MENTRE GLI ALTRI FACEVANO LA CORTE ALLE RAGAZZE. E QUANDO HO PROVATO IO A FARE LA CORTE A UNA RAGAZZA, MI HANNO FREGATO LA CHITARRA”. E DUNQUE E’ TORNATO A CASA IN BIANCO E SENZA CHITARRA?
“Paola Cortellesi? Sono molto contento del successo che ha avuto, la invidio un po’…” Gabriele Salvatores a “Non è un Paese per giovani, il programma condotto da Massimo Cervelli e Tommaso Labate su Radio 2” parla delle rivalità nel mondo del cinema: “Siamo tutti apparentemente amici ma c’è una grande competizione, un po’ come nella musica rock, non riusciamo a fare sistema, a collaborare”. Il mio peggiore film? “Quello che mi piace meno è “Amnesia”, lo chiamo “il figlio del Prozac”, è nato in un periodo di depressione. Quello a cui sono più affezionato è “Denti”. Ma amo molto anche “Nirvana”
Il regista parla del suo memoir “Lasciateci perdere” scritto con Paola Jacobbi e della rottura con Maurizio Totti, socio nella casa di produzione Colorado film: “E’ una storia che è durata 25 anni. Abbiamo fatto tante cose belle insieme e ora abbiamo preso delle strade diverse. Non ho nulla contro di lui.
Poi Salvatores si sofferma su “Kamikazen-Ultima notte” a Milano (“L’inizio di tutto. Non so se sia un film pienamente riuscito ma ci sono molto affezionato. Mette in mostra attori come Paolo Rossi, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Bebo Storti, e Antonio Catania: oggi mettere insieme questo cast sarebbe complicatissimo”) e sul suo rapporto con Abantantuono. “Sono il suo esatto contrario.
Per questo il nostro sodalizio funziona. La prima volta che l’ho visto è stato grazie a Maurizio Totti. Dovevamo fare uno spettacolo a teatro con Paolo Villaggio tratto da un fumetto di Altan (“Friz Melone”). Un peccato che non l’abbiamo fatta. Sarebbe stata molto divertente. Lui mi fece molta impressione perché lui era tutto quello che pensavo non si dovesse fare. Invece poi ho scoperto un grande attore che mi ha insegnato molto sul cinema…”
C’è spazio anche per ricordare i suoi anni a Roma: “Avevo una casetta in via Margutta, una strada piena di fantasmi meravigliosi. C’è una definizione di Pasolini: ‘Roma è come una puttana che ti promette tanto e non mantiene tutte le promesse’. È un po’ lo stesso sentimento che provo anche io. Non sono molto bravo a frequentare cene, feste e terrazze. Io da ragazzo suonavo la chitarra in un angolo mentre gli altri facevano la corte alle ragazze. E quando ho provato io a fare la corte a una ragazza, mi hanno fregato la chitarra…”. Dunque è tornato a casa in bianco e senza chitarra?
Salvatores: «Mi avevano dato 4 anni di vita, per questo ho scelto il cinema». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.
Il regista premio Oscar protagonista di una Masterclass al Bif&st dove presenterà in anteprima il suo ultimo film, «Il ritorno di Casanova»
Sorridente, disponibile, di una sincerità disarmante. Gabriele Salvatores, tra i protagonisti del Bif&st International Film&Tv Festival — dove la sera del 25 marzo presenta in anteprima il suo ultimo film, «Il ritorno di Casanova» — si è raccontato, a cuore aperto, in occasione della Masterclass che ha aperto il festival diretto da Felice Laudadio, legata a un omaggio a uno dei suoi classici, «Nirvana». Al critico Enrico Magrelli, davanti al pubblico del Petruzzelli, strapieno, ha ripercorso le tappe della carriera. L’arrivo a Milano da Bari, la creazione del Teatro Elfo di cui è ancora socio e appassionato sostenitore («L’unica utopia che si è realizzata della mia vita»).
L’approdo al cinema: «Mi avevano dato quattro anni di vita. Poi per fortuna non è stato così. Ma in ospedale ho deciso: se esco da qui faccio quello che mi piace davvero. Ovvero il cinema». Che, come diceva Fellini, ricorda, è meglio della realtà. «È diventato un sostitutivo della vita. Ci si rifugia in un film, per noi registi è un mondo che controlli, puoi svolgere e far finire come vuoi. Nella vita non c’è copione. Puoi al massimo fare l’attore e magari lo fai anche male», scherza. Sincero anche quando racconta il rimpianto di non aver avuto figli. «Pensavo che non avrei avuto tempo da dedicare loro. I film non sono figli: non puoi abbracciare una pellicola».
Ricorda le emozioni dell ’Oscar per «Mediterraneo» . «Non so se l’ho meritato. È stata un po’ una botta di fortuna. C’era almeno un film più meritevole. Non è una scuola di cinema. Come il morso del ragno per Spider-Man, mi ha dato il superpotere di scegliere di fare film diversi, come “Nirvana”». Tutti diversi i suoi, con un fil rouge comune: protagonisti sono figli disubbidenti alle regole del branco. Dell’ultimo con Toni Servillo e Fabrizio Bentivoglio, parlerà domani. Fa solo qualche vago accenno. «Per molto tempo ho pensato come Hitchcock “per voi è solo un film per me è la vita intera”. Non ne sono così sicuro al 100%. Oggi per me la vita è più importante ma il cinema rende la vita più bella».
Gabriella Golia.
Gabriella Golia, storico volto di Italia 1: «L’annuncio tv più difficile? Avevo accanto Alain Delon. Tony Hadley ci provò, dopo un bacio lo fermai». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera venerdì 13 ottobre 2023.
La popolare annunciatrice delle reti Mediaset tra gli anni Ottanta e Novanta si racconta: «Tanta gente, quando mi incontra per strada, mi chiede: “Perché non ci sei più?”»
Da ragazzina era in fissa con la Carrà.
«Quando finivano le sue trasmissioni, piangevo. Adoravo le sue gambe ben tornite, io ero una stecca, le avevo secche secche. Volevo imitarla, purtroppo non ho mai incontrato un pigmalione come Boncompagni».
Si è industriata lo stesso.
«Studiavo danza e sognavo la Scala e Carla Fracci, non è andata. Non avevo la più vaga idea di come entrare nel mondo dello spettacolo. A 14 anni, su un settimanale, ho visto il tagliando per il concorso Miss Teenager. Ci ho allegato una mia fotina al mare e l’ho spedito. Mi hanno chiamato. E nel 1975 ho vinto. Se fossi stata a Roma, avrei tentato con il cinema, chissà. Ma ero a Milano e mi hanno consigliato di provare con la pubblicità».
Da cosa nasce cosa.
«Il regista di uno spot lavorava per Antenna Nord, emittente privata allora di Rusconi. Nel 1978 diventai annunciatrice e volto della rete. C’era la mia faccia sui tram: “Ci vediamo stasera”».
A quel punto Silvio Berlusconi cominciò a corteggiarla per portarla nella sua tv.
«Mi chiamò per due anni, tentando di convincermi. Mi invitò pure negli studi di via Rovani, mostrandomi i dati di ascolto. “Chiedimi quello che vuoi”. Ma io, cretina, risposi di no. Nel contratto era previsto che mi fermassi per un anno. Senza andare in video. Non me la sono sentita».
Però nel 1982 si ritrovò comunque sua dipendente.
«Lui ci scherzava: “La signorina Golia non voleva venire da me, così mi sono comprato tutta la tv”».
Prima però aveva fatto un passaggio in Rai, valletta di Raimondo Vianello.
«Non capivo mai se mi parlava sul serio o mi prendeva in giro. Avevo 19 anni ed ero molto timida. Prima ancora avevo fatto un’apparizione in uno show di Enzo Trapani, facevo un balletto, con me c’era Barbara D’Urso, molto più estroversa di me».
Per 20 anni di fila è stata voce e volto di Italia 1. Ne avrà collezionate di papere.
«Sì, però non me le ricordo. C’era una scommessa con la troupe: chi sbagliava pagava l’aperitivo per tutti. Era dura, mica c’era il gobbo elettronico, si andava a memoria».
Fuoriprogramma?
«Una volta, mentre parlavo, è caduta una bandiera per le luci, una lastra di metallo sottile. Ha fatto un botto. Sono saltata sulla sedia».
Incidenti di trucco e parrucco?
«No. Ma nel periodo di Vi sitors, seguitissima serie di fantascienza, indossavamo abiti con spalline assurde e portavamo i capelli gonfi e cotonati. Tremendi, eppure ci piacevano».
Con Fiorella Pierobon, volto di Canale 5, ed Emanuela Folliero, quello di Rete 4, eravate amiche o rivali?
«Amiche. Fiorella non la vedo da un po’, con Ema invece ci siamo trovate domenica scorsa a una sfilata. Sento anche Susanna Messaggio».
Berlusconi vi dava indicazioni su come vestirvi?
«No, mai».
Nella sitcom «Vicini di casa» con Teo Teocoli e Gene Gnocchi.
«Uno scherzo continuo. Per mettermi in imbarazzo e farmi ridere, Teo mi sussurrava zozzerie all’orecchio».
Il caschetto castano, la frangia sugli occhi azzurri, poi via la frangia, il suo look era super-copiato.
«Allora non me ne rendevo conto. Ancora oggi incontro le ragazzine di allora che mi dicono: “Volevo essere come te”. Anni bellissimi, si faceva compagnia anche dopo il lavoro. Ci si ritrovava a casa di Roberto Giovalli per sfide accanite a Trivial o al gioco dei mimi con Giorgio Gori, Cristina Parodi, Elena Guarnieri e tutte le altre colleghe».
Emanuela Folliero fece un calendario sexy. A lei non lo hanno mai proposto?
«No. Forse lo avrei fatto, non so. Però mio papà era molto rigido, non credo che avrebbe approvato. Adesso lui non c’è più ma non c’è più nemmeno l’età».
Fece un annuncio con accanto Alain Delon.
«Ero ancora ad Antenna Nord. Presentavamo insieme una serie di suoi film. Che ansia. Pensavo: “Se sbaglio, questo mi ammazza”. E poi era bello bello, eh».
Qualche vip ci avrà provato, con lei.
«Mmm… beh, Tony Hadley degli Spandau Ballet. Era ospite a Sanremo. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto vederlo dal vivo. “Okay, ti passo a prendere stasera”. Si è presentato in hotel e siamo ripartiti con due auto separate, ma alla fine mi hanno dato un pass per stare dietro il palco, non in platea. Dopo siamo andati in discoteca e lì ci ha un po’ provato. Ci è scappato giusto un bacetto, poi l’ho bloccato: “Guarda che io volevo davvero vederti al Festival, tutto qui”. Ci è rimasto male. “Sai che ci sono ragazze che pagano cifre pazzesche per stare nel nostro albergo e poi me le ritrovo in camera?”. Purtroppo mi ero appena fidanzata. Fossi stata libera, magari».
In quante l’avranno invidiata, ai tempi.
«Pure troppo, è bastato che uscissero le fotografie della serata in discoteca perché alcune sue fan fuori di testa mi scrivessero delle lettere bruttissime, di una cattiveria pazzesca».
Dopo 20 anni di onorato servizio, Italia 1 disse basta all’ annunciatrice.
«La scelta coincise con la mia maternità. Ero in grado di fare molto più che gli annunci, non me ne venne offerta l’opportunità. Continuai con gli sponsor, poi più nulla».
Non provò a rivolgersi a Berlusconi in persona?
«Quando era premier lo incrociai in una trasmissione in cui era ospite e gli dissi: “Presidente, ho bisogno di parlarle”. “Dimmi pure, cara Gabriella”. Non mi pareva il momento, così per educazione risposi che l’avrei chiamato più in là. Che sbaglio. Non sono più riuscita a contattarlo. Mi avrebbe aiutata, di sicuro. Lontana dal video, ho perso ogni visibilità. Ho lavorato per emittenti regionali e sul web, poi più niente».
Ogni tanto qualche ospitata tv. E i provini per «Ballando con le stelle».
«Ho fatto una call via Zoom con Milly Carlucci, purtroppo non sono stata scelta. Spero si ricordi di me per la prossima edizione, nel frattempo purtroppo invecchio eh!».
Provi con Pier Silvio.
«Forse dovrei. Certo che mi piacerebbe tornare. Tanta gente, quando mi incontra per strada, mi chiede: “Perché non ci sei più?”. La televisione, per chi la fa, è come una droga. Dopo che l’hai provata, non vuoi più fare altro».
Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 19 febbraio 2023.
Gabriella Golia, si ricorda l’ultimo annuncio? “Sinceramente no”. Era il 21 dicembre 2002 quando lasciò Italia 1, dopo 20 anni di servizio. Le ragazze si pettinavano come lei, l’annunciatrice gentile con i capelli lisci e gli occhi color fiordaliso che divenne con Fiorella Pierobon, Patrizia Rossetti e Emanuela Folliero, uno dei volti più popolari.
Venne scelta da Silvio Berlusconi, a cui all’inizio disse di no. Non solo annunciatrice: anche conduttrice e attrice di sitcom come I vicini di casa con Gene Gnocchi, Silvio Orlando e Teo Teocoli. Oggi Golia, 63 anni, sposata con il chirurgo Marco Alloisio, un figlio, Tommaso, 25 anni, è una signora innamorata del ballo (“Quanto mi piacerebbe partecipare a Ballando con le stelle”), che forse coltiva qualche rimpianto.
Da piccola che avrebbe voluto fare?
“La ballerina classica. Sarei voluta andare alla scuola della Scala. Mi stavo preparando per fare l’esame, poi non è stato possibile, era tutto complicato. Problemi a casa, ero piccolina, mia mamma non mi avrebbe potuto accompagnare e seguire”.
Dalla Scala alla tv il passo non è breve.
“La televisione è arrivata per caso. Ho ritagliato un tagliando su un settimanale televisivo per partecipare al concorso di Miss Teenager. Ho fatto tutto da sola, ho preso una mia foto al mare, ho compilato la cartolina, l’ho spedita e mi hanno chiamata. Avevo 15 anni, vinsi il concorso”. […] “Mi piaceva lavorare e mi divertivo, girando una pubblicità ho incontrato un regista che lavorava per una tv privata. Davvero è nato tutto per caso. L’emittente era Antenna Nord, era di Alberto Rusconi e poi è diventata Italia 1”.
[…] Fu Silvio Berlusconi a sceglierla?
“Cominciò a vedermi, sono stata una delle prime che entrava tutti i giorni nelle case. C’erano gli striscioni sui tram con la scritta ‘Ci vediamo stasera’ con la mia faccia. Silvio Berlusconi cominciò a chiamarmi, entusiasta, spiegandomi tutto quello che stava facendo.
Non sapevo chi fosse all’epoca. Continuava a insistere: ‘Vieni a lavorare da noi’. Ma da lui esisteva una che faceva il mio lavoro, il mio timore era che, dopo aver accettato, mi facessero scomparire.
Lasciare il certo per l’incerto non era da me. Dove lavoravo stavo benissimo. Non ho rischiato, non ho scelto i soldi, ho preferito la sicurezza. E poi c’era Lillo Tombolini, un grande direttore che adoravo”.
Ma poi, però, finì a lavorare per Berlusconi.
“Certo, alla fine mi sono ritrovata con lui quando ha comprato tutto. Da lì è nata la famosa battuta: ‘La Golia non veniva, ma Berlusconi ha comprato la televisione per averla’”.
È vero che agli inizi girava negli studi?
“Veniva a trovarci in azienda, parlava con tutti, ci coinvolgeva e ci raccontava come andavano le cose. Anni belli”.
Com’era all’epoca?
“Sicuramente amava quello che faceva, ci trasmetteva una carica incredibile e ci spiegava anche le difficoltà. Ci dava suggerimenti, diceva che dovevamo stare uniti. Si riuniva con tutti, anche con i grandi appena passati dalla Rai a Mediaset: Raimondo Vianello, Sandra Mondaini, Mike Bongiorno. È stato un grande imprenditore, si ricordava di tutto, i nomi, le problematiche delle persone. Anche i compleanni. Una persona di rara generosità e simpatia”.
Raccontato così, un uomo quasi perfetto.
“Qualsiasi cosa si possa pensare comunque ha dato lavoro a migliaia di persone, ha rischiato ed era più intelligente di altri. In quegli anni ha fatto quello che poteva fare: ha costruito un’azienda”.
Non le ha mai chiesto di candidarsi?
“Mai. Niente politica”.
[…] Dopo vent’anni addio agli annunci, ma avrebbe voluto continuare?
“Sì, mi sarebbe piaciuto fare anche altro. Forse sono stata mal guidata, forse avrei potuto sfruttare di più questa popolarità per fare altre cose in televisione”.
Pensa di aver sbagliato qualcosa?
“Ho sbagliato tutto”.
Ma non esageri.
“No no, è così. Verso i 30 anni, quando ho fatto le sitcom, avrei dovuto iscrivermi a una scuola di recitazione, mi sarebbe tanto piaciuto frequentare la Paolo Grassi, lavorando non si può. Ho seguito un progetto di sei mesi, abbiamo portato in scena lo spettacolo ed è finita lì: non so che cavolo avessi in testa”.
[…] Invece cosa le manca della tv?
“Non tanto gli annunci, ma recitare. Ha girato diverse sitcom, ero legatissima a Vicini di casa, se pensa che gli autori erano Gino e Michele. Ho lavorato con la Gialappa’s e tanti altri, esperienze bellissime”.
L’avranno sicuramente chiamata per partecipare a qualche reality.
“Non mi interessano. L’unico che farei, ma è un talent, non un reality, è Ballando con le stelle perché mi piace ballare. Ho seguito corsi per passione, sogno una scuola di danza alla Shall we dance?, sa la commedia con Richard Gere e Jennifer Lopez? Anche Emanuela (Folliero, ndr) vorrebbe iscriversi. Mi ha detto che ha visto un cartello in centro, proveremo a telefonare”.
Voi del gruppo storico delle annunciatrici siete rimaste legate?
“Ci sentiamo, certo. Fiorella Pierobon ha chiuso completamente con la tv, non le interessa più, dipinge. Con lei, con Patrizia Rossetti, lavoravamo nello stesso studio e questo ci ha legato. Stavamo insieme tutti i giorni, chiacchieravamo al trucco, ci confidavamo”.
[…] Il modello femminile televisivo è cambiato, che pensa?
“È cambiato in maniera incredibile, menomale che ho questa età. È tutto esasperato, trucco, bocche, non mi ci ritroverei proprio. Poi tra le donne sento un sottofondo di cattiveria, la competizione ci poteva essere anche tra di noi, ma non a quei livelli di perfidia. Noi eravamo diverse, forse più semplici”.
[…] Oggi potrebbero tornare le annunciatrici?
“Non saprei. Con tutti questi canali, tutti impersonali, mi sembra difficile. Prima riconoscevi la rete dal volto. Io ho fatto gli annunci più originali, lavoravo con un gruppo che arrivava dalla moda. Avevo una pallina dentro la quale giravano le immagini, quegli annunci erano molto creativi, una sorpresa ogni volta. Per l’ultimo della giornata mi vestivo con una camicia da notte e davo la buonanotte. Oggi come oggi non saprei, poi magari, chi può dirlo, corsi e ricorsi storici, potrebbero tornare anche gli annunci.
[…] Se dovesse fare un bilancio della sua vita?
“Sono serena. Forse avrei potuto fare di più, al momento giusto forse non ho saputo decidere, impegnarmi come dovevo, scegliere. Forse non ho avuto accanto la guida giusta. La verità è che chi ha lavorato in tv sa che poi quella lucetta rossa ti manca. Credo sia inevitabile”.
Gabry Ponte, dj da record, festeggia 50 anni: «Ero iscritto a Fisica, non sapevo avrei fatto la dance». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2023
L’autore del fenomeno planetario «Blue» si racconta partendo dagli inizi: «Ero un operaio della notte, allora non esistevano i dj considerati superstar»
Con più di 3 miliardi di stream globali, è il dj e producer italiano più ascoltato al mondo su Spotify, nonché uno dei tre italiani più ascoltati al mondo in generale (con Måneskin e Meduza). Ha collezionato un disco di diamante, 41 di platino e 21 d’oro. Ma Gabry Ponte ha anche altro da festeggiare: ha appena compiuto 50 anni e a ottobre ne celebra 25 di carriera, da quando nel 1998, con gli Eiffel 65, divenne un fenomeno planetario con «Blue». Ragioni valide per regalarsi un grande show al Forum di Assago, il 27 gennaio 2024.
Venticinque anni fa si immaginava a 50 anni?
«No, non avevo idea. Ancora non avevo fatto “Blue” e frequentavo l’università. Ero iscritto a fisica, davo esami studiando di notte e facendo le equazioni differenziali mentre mettevo i dischi. Mi piaceva molto e tuttora quando ho tempo leggo gli articoli del Cern. All’epoca non esistevano i dj superstar, il dj era un operaio della notte».
Viene difficile immaginare un dj che studia fisica in un contesto spesso associato allo sballo…
«È uno stereotipo. Io sono astemio, non bevo neanche il vino a tavola né fumo sigarette. I valori me li hanno insegnati i miei genitori e ho molta paura di tutta quella cosa là. Ho sempre avuto di fronte ragazzi puliti, certo fra tanti che si divertono ci sarà quello che magari ha voglia di farsi la pastiglia, ma se la sarebbe fatta anche in un altro contesto».
Come è nata «Blue»?
«È nata in un sottoscala: eravamo nello studio di Massimo Gabutti, il mio primo mentore, a Torino: faceva collaborare giovani musicisti, cantanti e dj. Una volta ci siamo trovati io, Maurizio Lobina e Jeffrey Jey, cioè gli Eiffel 65, in questo piano interrato, e “Blue” è nata in due giorni, senza aspettative».
Da lì siete diventati star mondiali: «Blue» era in top 10 anche negli Stati Uniti.
«La cosa più incredibile è che in America non sapevano come ballare la dance. Ci siamo andati nel 2000, quando il nostro genere lì non esisteva. Quando partiva “Blue” erano tutti scatenati perché la conoscevano, ma il resto dello show era imbarazzante perché stavano fermi: abituati alla house o all’r’n’b, ci guardavano come alieni. Eravamo in anticipo di almeno 10 anni».
Di «Blue» ci sono tante versioni, l’ultima è quella di David Guetta: che ne pensa?
«È una manna dal cielo. I campionamenti permettono di tramandare i brani e renderli degli evergreen. Io stesso quando feci “Geordie”, usando un pezzo di De André, realizzai che la mia generazione non conosceva Faber».
Fu criticato per quel De André dance?
«Sì, ma non mi interessava. Sono un grande estimatore di Fabrizio De André e credo di aver fatto un tributo».
Come mai non fa più parte degli Eiffel 65?
«Non sono stato io a lasciare il gruppo: fra il 2005 e 2006 gli altri ragazzi mi hanno detto che volevano andare avanti da soli perché volevano fare musica diversa, più pop. Io ho detto che non condividevo la decisione, però liberi tutti, mi sono concentrato sul mio progetto. Con Jeffrey siamo in ottimi rapporti, Maurizio non mi parla da un sacco di anni ma gli voglio bene lo stesso».
Ma c’è stato qualche episodio scatenante?
«No, ma ci sta, con gli anni le cose cambiano. La divisione era una loro richiesta artistica che io ho rispettato. Abbiamo fatto solo una reunion per un tour in Australia».
Tra le tante cose ha fatto anche il giudice ad «Amici».
«È stata un’esperienza bellissima. Non sapevo neanche cosa fosse il programma, ma ho incontrato Maria De Filippi e mi è piaciuta un sacco. Con serenità le ho detto che Amici non l’avevo mai guardato e lei mi ha spiegato, avrebbe anche potuto offendersi. Ho imparato tanto, poi ho anche capito che la tv non è ciò che mi appassiona».
Lei non sembra una persona che ama i riflettori...
«Sono riservato e introverso e ci tengo che la sfera privata resti separata. Ho massimo rispetto per chi vuol fare della propria vita un teatro, ma io lo faccio con parsimonia».
Qualche foto con sua figlia sui social però l’ha messa. Cuore di padre?
«Non è quello, è che certe cose è meglio comunicarle in prima persona. Anche quando sono stato operato al cuore nel 2021 ho postato una foto: gli infermieri mi chiedevano i selfie e mi son detto, aspetta un attimo, ora la postano, i giornali magari scrivono “Gabry Ponte in ospedale, overdose di cocaina”... Meglio che spiego io».
Gaiè.
Gaiè con la sua voce racconta storie che toccano le corde dei giovani di tutte le età. Nicola Santini su L'Identità il 13 Gennaio 2023.
«Quando ho iniziato a scrivere appunti su fogli sparsi, e frasi e parole sul muro e sul soffitto della mia camera non immaginavo che sarebbero diventate canzoni e quasi sicuramente sarebbero rimaste là se non avessi incontrato Massimo Jovine, il mio produttore e direttore artistico, che mi ha travolto in un’onda produttiva pazzesca ed è una guida umana e professionale incredibile; un’anima meravigliosa». Gaiè, tra poco diciottenne, è una giovane cantautrice napoletana che, dopo anni di studio di canto e qualche lezione di tastiera e basso, a giugno dello scorso anno ha esordito su tutte le piattaforme digitali con “Solo te”. Poi a novembre è arrivata “X2” e il 28 dicembre a mezzanotte è stato il tempo di “Un po’ di nostalgia”, presentata live il 30 dicembre sul palco di Piazza del Plebiscito per Capodanno a Napoli, tra le aperture del concerto di Rkomi. «Ho chiuso l’anno con la piazza di Rkomi e l’ho aperto con Sanità-tà-tà, un evento fortissimo su un palco costruito nel cuore di uno dei quartieri più veri e storici della mia città». In “Un po’ di nostalgia”, Gaiè gioca con la sua voce e propone al pubblico indie pop una ballad intensa con un sound in cui le strumentali suonate sono in primo piano rispetto alle programmazioni che si percepiscono appena. Sotto la guida di Massimo JRM Jovine (99 Posse), Gaiè si rivela un’artista promettente con una voce intensa e rara. «“Un po’ di nostalgia” l’ho scritta in un momento in cui mi sono comparse sul cellulare alcune vecchie fotografie di momenti belli vissuti con persone che ora non fanno più parte della mia vita o si sono collocate in un’altra posizione – racconta Gaiè –. Qualcuna vorrei tornasse subito, mi piacerebbe riavvolgere il nastro e ricominciare tutto. Qualcun’altra avrei voluto non incontrarla mai». In pochi mesi, Gaiè ha costruito il suo team. Insieme a Massimo, iniziano le produzione D4F0ur con ore di studio e creatività condivise con Giuseppe Spinelli, Antonio Esposito e Valerio Jovine. I video sono realizzati da Riccardo Santovito, che segue l’artista anche nei suoi live. «Questo è l’anno della licenza liceale, poi nella mia vita ci sarà solo musica. Il prossimo anno frequenterò il Conservatorio San Pietro a Majella e mi piacerebbe tanto che il mio vocal coach fosse Packy Scognamiglio, lo seguo sui social e mi sembra una persona che si prende cura dell’anima dell’artista insieme alla sua voce. Sarebbe fantastico se si prendesse cura anche di me, insieme a Massimo».
Gazzelle, all’anagrafe Flavio Bruno Pardini.
Estratto dell'articolo di Davide Desario per leggo.it il 7 giugno 2023.
Gazzelle all’anagrafe si chiama Flavio Bruno Pardini. Ha 33 anni e venerdì realizza il suo sogno: sarà in concerto allo stadio Olimpico, nella sua Roma «stronza e bellissima».
Preoccupato? Nervoso? Felice?
«Concentrato. Arrivo a suonare allo stadio dopo aver fatto tanti step: i piccoli locali, quelli più famosi, i palasport. Se tante persone mi seguono è perché non li ho delusi (per venerdì rimasti pochissimi posti, ndr)».
[…]
Se non vuoi parlare del futuro, parliamo del passato. Scuole?
«Un disastro. Il primo anno l’ho fatto al Mamiani e mi hanno bocciato. Poi promosso. Il secondo ancora lì mi hanno ribocciato... e così via praticamente fino a quando ho strappato la maturità in un’altra scuola».
Poi?
«Non so perché mi iscrissi a Giurisprudenza, io che non avevo voglia di studiare. Sono scappato dopo 2 mesi. Mi sono iscritto a Lettere, ma sono durato 2 settimane: mi annoiavo e a lezione dormivo sempre».
[…]
Che lavori hai fatto?
«Il banchista in un baretto di Monti, lì ho scritto Demodè (“Ma da dentro il bar il cielo è grande. Solo la metà”). Poi ho lavorato in una pizzeria a taglio: il mio manager, Antonio Sarubbi, mi è venuto a pescare proprio lì. Ricordo che ho dato le dimissioni dicendo “scusate devo andare in tour”».
Ma è vero che hai fatto anche il postino?
«Sì, una sostituzione di tre mesi. Gli anziani dell’ufficio giurarono che non avevano mai visto in tanti anni un postino peggiore di me. Facevo un casino, però mi divertivo».
[…]
concerti all’Olimpico?
«A quello di Ligabue andai addirittura da solo».
Altri?
«Tanti, da Ed Sheeran a Mengoni. Ricordo quello di Vasco. Ero pischello, poco più che maggiorenne. Eravamo rimasti fuori, senza biglietti. Verso la fine, facemmo una follia e riuscimmo a entrare (lo dico?) per l’ultimo pezzo: cantò Albachiara. Scoppia a piangere. Ma mi girai e piangevano anche i miei amici».
Fai quello che ti piace, stai coronando un sogno. Eppure c’è sempre un velo di pessimismo nelle tue canzoni.
«Sono io. Sono sensibile. Mi sembra che il mondo stia andando a rotoli e questa cosa la sento».
[…]
Anche Roma è cinica e romantica?
«No, Roma è stronza. Ed è bellissima così».
Gegia (Francesca Antonaci).
Estratto da today.it l’1 febbraio 2023.
Il caso Marco Bellavia scoppiato dentro la Casa del Gf Vip […] continua a far parlare e poche ore fa è stata resa nota la radiazione dall'albo degli psicologi di Gegia.
A comunicare la notizia è stata Veronica Satti (figlia di Bobby Solo) […] che dopo le parole di Gegia tra settembre e ottobre sul malessere di Bellavia aveva segnalato, insieme a Alessia Pontecorvo il comportamento della concorrente all'Albo del Lazio dove lei era iscritta.
Il malessere di Marco al Gf Vip […] è stato oggetto di dibattito per molte settimane. In particolare Gegia aveva dichiarato che era "un depresso maniacale. Dovevamo tenercelo e sentire le caz*ate che diceva e dire Bravo tesoro?". Per questo motivo era stata aperta un'istruttoria che si è conclusa con la radiazione dall'albo.
"Se dici sciocchezze qualificandoti come psicologa, poi come psicologa te ne assumi le responsabilità. Ora la radiazione è arrivata", ha scritto Satti su Instagram. "Giustizia! Grazie Alessia Pontecorvo per avermi scelta per fare squadra, per essere una squadra. Abbiamo deciso, dopo le gravi cose avvenute al gfvip nei confronti di Marco Bellavia, di fare qualcosa di concreto. Nell’arco di poche ore dalle vessazioni che si sono viste nei confronti di Bellavia. Ci siamo soffermare sul comportamento di Gegia (Francesca Antonaci), iscritta all’ordine degli psicologi Lazio".
[…] "A oggi, dopo l’istruttoria aperta grazie non solo ai nostri (miei e di Alessia Pontecorvo, esposti) ma anche grazie a tutte le vostre richieste di giustizia, giustizia è stata fatta: Francesca Antonaci in arte Gegia è stata radiata dall’albo dell’ordine degli psicologi del Lazio". […]
Gene Gnocchi.
Estratto da open.online il 28 maggio 2023.
Gene Gnocchi torna a parlare delle alluvioni nella “sua” Emilia-Romagna, e questa volta lo fa dalle pagine del Messaggero. Lo scrittore e showman tv vive a Faenza con il resto della famiglia. Nei giorni delle forti piogge, lui si trovava a Roma, ma la moglie e le due figlie sono state costrette a rimanere fuori casa per quattro giorni a causa delle esondazioni. «La paura di dover mettere in salvo i tuoi figli è pazzesca», aveva raccontato Gnocchi a Citofonare Rai Due.
Oggi, il comico e scrittore punta il dito sulla scarsa cura del territorio e chiede interventi urgenti e straordinari: «Non possiamo rivivere questa paura tutte le volte che piove. (...)
Gene Gnocchi si è trasferito a Faenza con la sua famiglia 11 anni fa, poco prima del violento terremoto che nel 2012 ha colpito l’Emilia-Romagna. A proposito delle alluvioni delle scorse settimane, lo scrittore torna sugli attimi di paura di quella notte di pioggia: «Io ero a Roma per la trasmissione Quarta Repubblica. Avevo il cuore in gola perché pensavo alle grate fisse che proteggono le finestre di casa. Ho avuto il terrore che le mie ragazze potessero fare la fine del topo in trappola».
Alla fine, la sua casa è stata risparmiata dagli allagamenti. «Solo acqua salita a livello stradale e lo scoppio di alcune tubature», precisa Gnocchi. Eppure, racconta al Messaggero, le cose avrebbero potuto andare molto peggio: «Il pensiero mio e di mia moglie è andato a dieci anni fa, quando abbiamo scelto di comprare questa casa e non un’altra che ora è stata completamente spazzata via dall’alluvione. Una scelta inconsapevole che ci ha cambiato la vita. Ti rendi conto di quanto può valere la vita».
Estratto dell’articolo di Katia Ippaso per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 9 maggio 2023.
Dopo aver riflettuto nelle pause tra un talk politico e l'altro, l'attore comico Gene Gnocchi ha deciso di fondare un proprio partito politico. L'ha chiamato "Il movimento del nulla" e intende presentarlo questa sera al pubblico romano, con un paio di inni da sottoporre allo spettatore e un programma che comprende, tra i suoi punti principali, il diritto-dovere di «far lavorare sempre e solo gli altri»: in una replica (ma lui preferisce dire «evento speciale») alle ore 21 al Teatro Parioli. […]
Come le è venuto in mente "il movimento del nulla"?
«Frequentando da sei anni i talk politici (prima Di martedì di Floris, poi Quarta Repubblica con Porro), ho capito che era il caso di fare qualcosa per terremotare l'attuale assetto della politica». […]
Si è ispirato a Beppe Grillo?
«Non solo a Beppe Grillo, ma anche a Renzi, Calenda, Meloni, Schlein. C'è n'è per tutti nel mio spettacolo che non contiene metafore, ma nomi e cognomi».
Cosa direte oggi al pubblico?
«Racconteremo in maniera dettagliata il programma. Ad un certo punto chiederemo agli spettatori di scegliere tra due diversi inni. Se ne vedranno delle belle».
Quale è il ruolo scenico di Diego Cassani?
«Lui è il mio portavoce».
Che cosa ha fatto di così eclatante per meritarsi questo ruolo?
«Lui ha un'argomentazione fortissima. Dice: se Casalino è riuscito a fare il portavoce di Conte, perché io non dovrei farlo di Gene Gnocchi?».
Avete anche voi una piattaforma speciale?
«Sì, ma noi le abbiamo dato un nome glamour. Invece di chiamarla piattaforma Rousseau, l'abbiamo denominata piattaforma Brigitte Bardot». […]
A cos'altro sta lavorando?
«Sto finendo di scrivere un romanzo che uscirà in autunno per La Nave di Teseo».
Chi è il protagonista?
«Un uomo che perde la moglie. Lei ha avuto un aneurisma durante un rapporto sessuale con il suo amante. Questo è il preambolo. Lo so, non è proprio spiritoso». […]
Due mogli e cinque figli: un felice esempio di famiglia allargata. Come è cambiata la sua vita da quando è diventato nonno?
«Un mese dopo essere diventato nonno, a gennaio di quest'anno, mi hanno scelto per la pubblicità di un montascale. Insomma, dall'inizio del 2023, sono la Ferragni della terza età».
Da conoscitore delle regole del calcio (ha giocato da ragazzo nella serie C), come ha vissuto lo scudetto del Napoli?
«Meritatissimo. In campo sono stati tutti bravissimi ma, se posso dire la mia, il giocatore che mi ha colpito di più è stato Stanislav Lobotka.[…]».
Estratto dell'articolo di Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 25 marzo 2023.
Nel nuovo appuntamento di Ciao Maschio [...] Nunzia De Girolamo incontra tre nuovi uomini per parlare con loro – tema della puntata – dei sensi di colpa. Gene Gnocchi (ospite con il giurato di Ballando con le Stelle Fabio Canino e l’attore Francesco Procopio) fa una confessione: non riusciva ad avere figli perché “i miei spermatozoi avevano un problema“.
“Quando non riesci ad avere figli, la colpa è sempre dell’uomo. Cioè, io avevo un problema che non riuscivamo ad averli e mia moglie subito: ‘Devi fare l’analisi del liquido seminale’ (…) Sono andato all’ufficio delle analisi liquidi… I miei spermatozoi avevano un problema”
rivela il comico di Fidenza, che poi di figli ne ha avuti cinque [...] Con Gnocchi è anche l’occasione per parlare del “politicamente corretto” [...]
“Una volta facevi una battuta tranquilla, senza problemi, adesso col politicamente corretto tu ti senti continuamente in colpa.
Io prima nel mio spettacolo dicevo che ero stato personal trainer di Brunetta e che avevo sbagliato io perché gli avevo fatto fare troppa pressa. E dicevo anche che Brunetta tutti i giorni alle 9, cascasse il mondo, fa bungee jumping, cioè si lancia dal tavolo della cucina. Ad un certo punto mi son sentito come frenato”.
George Benson.
George Benson compie 80 anni: le 10 canzoni più belle. Gabriele Antonucci su Panorama il 22 Marzo 2023.
Il grande chitarrista e cantante americano, in sessant’anni di carriera, ha reso accessibile anche ai non addetti ai lavori il jazz e la fusion grazie ai suoi successi George Benson compie 80 anni: le 10 canzoni più belle
George Benson, che oggi taglia l’invidiabile traguardo degli 80 anni, ha l’indiscusso merito di avere reso accessibile anche ai non addetti ai lavori la fusion e di aver elevato la qualità del pop, che mai era stato così raffinato e curato nei suoni. Nei primi anni di carriera Benson ha seguito le orme del suo idolo Wes Montgomery, dedicandosi al jazz puro e collaborando con mostri sacri come Miles Davis, Herbie Hancock e Jimmy Smith. «Miles Davis mi ha insegnato che il jazz si evolve fondendo l’improvvisazione, il rock e il pop sofisticato» ha dichiarato Benson - «Questo suono è il mio credo, ma non tradirò mai le mie radici». Così il grande chitarrista ha risposto agli integralisti del jazz che lo accusavano di essere diventato, a partire dagli anni Ottanta, troppo commerciale nei suoi dischi. In particolare l’album Give me the night, confezionato ad arte dal re dei produttori Quincy Jones, ha fatto arricciare il naso a quei critici che valutano la qualità di un disco in modo inversamente proporzionale alle sue vendite. Give me the night rappresenta la sintesi perfetta tra il calore della musica black, la gioiosa immediatezza del pop e la tecnica sopraffina del jazz. «La mia sarà anche musica commerciale, mai banale. Sono stato il primo chitarrista a suonare con Miles Davis e da lui ho capito come far uscire quella musica dai ghetti neri per portarla nelle strade», ha dichiarato il grande musicista.
Vediamo le 10 canzoni più belle di George Benson, tra brani strumentali e successi in cui esalta la sua voce limpida e passionale.
1) Breezin’(1975) La straordinaria performance alla chitarra di Benson, la produzione di Tommy LiPuma e l'orchestrazione di Claus Ogerman hanno reso questo brano strumentale di Bobby Womack un classico. Breezin’ èuno degli album jazz più venduti di sempre, con otto milioni di copie.
2) Give me the night (1980) L’incontro tra due geni della musica come George Benson e Quincy Jones ha prodotto il capolavoro Give me the night, la cui title track, composta dal mai troppo lodato Rod Temperton (autore di Thriller, Off The Wall e Boogie Nights), è un mix irresistibile di jazz e funk. Give me the night è ancora oggi uno dei brani più suonati(e ballati) nelle serate disco-revival.
3) The greatest love of all (1977) Scritta da Michael Masser e registrata come tema principale per il film biografico di Muhammed Ali The Greatest, questa canzone, grazie alla straordinaria performance vocale di Benson, è diventata uno standard, che ha avuto in Whitney Houston la sua interprete più celebre.
4) On Broadway(1978) George Benson ha trasformato nel 1978 lo standard On Broadway in un irresistibile brano smooth jazz, utilizzato un anno dopo come commento sonoro del film di culto All That Jazz nella scena in cui i ballerini facevano un'audizione per un musical.
5) The Cooker (1966) L'esplosiva traccia di apertura del secondo album di Benson per la Columbia Records è una gara di bravura tra gli assoli del chitarrista e quelli del sassofonista baritono Ronnie Cuber. Ciò che colpisce di più è che Benson aveva allora soltanto 22 anni e già suonava con la prodigiosa tecnica un veterano del jazz.
6) Love X Love (1980) Così come la title track Give me the night, anche la splendida Love X Love è una canzone scritta dal tastierista degli Heatwave Rod Temperton e resa immortale dal riff iniziale di Benson: forse Love X Love è la canzone che meglio rappresenta le due anime (quella del virtuoso della chitarra e quella del cantante) di George Benson.
7) Giblet Gravy (1968) Nel 1968 Benson pubblicò Giblet Gravy, un album con un cast stellare di musicisti (Herbie Hancock, Ron Carter, Eric Gale, Pepper Adams e Billy Cobham), formato quasi esclusivamente da standard jazz. La title track mostra, però, anche le eccezionali doti di compositore dell’artista americano.
8) Love Ballad (1979) Love Ballad è una canzone del 1976 della band funk LTD, ma quasi tutti conoscono la versione più ritmata di Benson del 1979, molto più che una semplice cover. Il dj inglese Dave Lee ha realizzato una memorabile versione dance di Love Ballad nell’album Remixed With Love vol.2 del 2016.
9) This Masquerade (1975) Questa canzone di Leon Russell doveva essere realizzata come brano strumentale, ma Benson, quando iniziò a suonarla con la sua inseparabile Ibanez, eseguì a sorpresa anche la parte vocale, come guidato da una forza superiore. Il produttore Tommy LiPuma, folgorato da tanta bellezza, decise che quella sarebbe stata la versione definitiva. This Masquerade arrivò al numero 1 delle classifiche Pop, R&B and Jazz americane.
10) Turn your love around (1981) Uno dei più grandi successi commerciali di Benson, l'accattivante Turn your love around, un mix perfetto tra pop, soul e jazz, fu composta da Steve Lukather dei Toto e Bill Champlin dei Chicago, due tra le migliori band “yacht rock” di sempre.
Geppi Cucciari.
Geppi Cucciari: «Quando mi licenziai dal notaio, mi disse: ora farai ridere da qualche altra parte». Chiara Maffioletti su Il Corriere delle Sera il 2 Giugno 2023
La conduttrice ospite del Festival della Tv di Dogliani ha scherzato sul rapporto con il Presidente della Repubblica. «Tutti con lui portano avanti cause nobili, io gli parlo del catering»
Ha capito che le piaceva far ridere all’asilo. E per un errore. «Dovevo dire una sola frase nella recita — spiega Geppi Cucciari —, Era: “Bernadette, c’è la Madonna”. Invece ho detto: “Madonna c’è Bernadette”. Una sola battuta che però mi ha segnata: ho visto la gente che rideva». L’attrice e conduttrice, radiosa — «dopo essere stata una 30enne cessa e una 40enne così-così punto ad essere una bella 50enne» — ha ripercorso al Festival della tv di Dogliani la sua carriera. Laureata in Giurisprudenza («è stata una svista»), dopo aver lavorato per qualche tempo da un notaio è arrivata a Zelig: «Quando mi sono licenziata lui mi ha detto: almeno adesso farai ridere da qualche altra parte e non più nel mio studio». Ha lasciato la trasmissione di Canale 5 dopo aver preso in giro sé stessa e gli uomini: «Quando la gente ha iniziato a scambiare quello che ero con quello che dicevo ho smesso». Con il cinema, dice, «ho un rapporto altalenante: avrei voluto farne di più, ruoli diversi, una dimensione più drammatica».
Tornerà su Rai3 con «Splendida cornice» , in cui ha messo al centro le persone comuni. È più facile siano loro a farla ridere: «Stimo molti colleghi, ma rido dentro, perché colgo il lavoro dietro ogni battuta». Le sue sono fulminanti anche in radio, a Un giorno da pecora. «Ogni tanto ci chiedono: perché invitate quel politico? La risposta è una: perché lo avete votato». Il suo rapporto con Mattarella è ormai virale. Lo sa e glielo dice: «Agli eventi in cui l’ho visto, tutti lo fermano e ne approfittano per portare avanti qualche causa nobile. Io invece gli dico che andiamo forte su Tik Tok o che il catering è ottimo. Lui secondo me un po’ mi teme e un po’ mi vuole bene... come molti uomini della mia vita».
Geppi Cucciari: «Gli esordi? Di giorno dal notaio, di sera il cabaret». Renato Franco su Il Corriere della Sera l’11 Gennaio 2023.
La conduttrice su Rai3 con «Splendida cornice»: «Io in un programma di cultura? Forse hanno sbagliato persona»
Una debuttante con alle spalle molti successi. Geppi Cucciari giovedì si affaccia alle 21.25 su Rai3 con il suo nuovo programma, Splendida cornice. «Non posso nascondere la tensione, quell’ansia sottocutanea di affrontare per la prima volta una prima serata da sola, tutta mia, con un mandato peculiare: fare una prima serata sulla cultura. L’hanno chiesto a me e questo deve essere un malinteso frutto dei tempi... La cultura sarà il contenuto, il linguaggio sarà il mio, l’autorevolezza sta negli ospiti che ci saranno. Sento la responsabilità, sono felice e impaurita».
Impaurita nonostante tutta la sua esperienza tra teatro e tv?
«Non ho mai fatto un programma di due ore, mi chiedo ogni giorno se sono in grado. A dispetto dell’apparenza così aggressiva che a volte mi criticano di avere, porto sempre con me una fragilità di fondo. A volte sono più aggressiva di quello che vorrei essere, forse perché le emozioni altrui mi investono».
Lei è una che ha sempre la risposta pronta...
«Me lo fanno notare spesso, anche quando non lavoro. La prontezza nell’allineare il pensiero all’ascolto può essere un talento o un fastidio... Ascoltare gli altri con il filtro dell’ironia prescinde dal mestiere che scegli di fare. E io sono così anche nella vita di tutti i giorni. Ma non sempre. Pensi che so addirittura stare zitta...».
In «Splendida cornice» c’è la rubrica #primalitaliano che vigila sulla congruità grammaticale di conduttori e ospiti. C’è un angolo con gli esperti, alcuni omonimi (hanno un nome e cognome che corrisponde a una persona nota ma fanno un altro mestiere, tipo un Vittorio Sgarbi che fa l’ingegnere ambientale). E il pubblico gioca un ruolo di primo piano...
«È un people show culturale. La gente avrà un ruolo fondamentale. Il pubblico è composto dalle categorie Eurisko — quelle che sanciscono i consumi culturali degli italiani — ma declinate a modo nostro: le frizzanti, le insoddisfatte, gli anziani da osteria... interverranno, faranno domande. Siamo in via Mecenate a Milano che è come essere in Madagascar, ha quel bel fascino della periferia... quindi abbraccio forte tutti quelli che decideranno di venire».
Qual è l’ambizione del programma?
«Dare spazio a persone che hanno studiato, che hanno competenza, che le ascolti e impari qualcosa. Mi piacerebbe che dopo aver visto questo programma chi lo guarda sappia qualcosa che prima non conosceva. Non ho la presunzione di essere io a insegnarlo, ma spero di avere la delicatezza e la leggerezza di essere una padrona di casa adatta. Diamo spazio a competenti che hanno a che fare con il mondo del sapere accademico, alcuni mi lasciano senza parole, cosa che le assicuro non è facile...».
Come in «Che succ3de?» a lei interessano le persone comuni...
«La dicotomia celebrità / non celebrità mi interessa poco. Lavorando ho scoperto che a volte non ci sono risposte sbagliate, ma domande sbagliate. E a volte chi fa le domande non ascolta le risposte, succede in tanti programmi».
Maria De Filippi è maestra nell’ascoltare la pancia del Paese, si sente la De Filippi di sinistra?
Ride. «La tv ha a che fare con due cose: i contenuti e gli ascolti che a volte si abbracciano mortalmente in ossimori disturbanti, ma in realtà quello che contano sono gli ascolti. Credo e temo che non farò mai gli ascolti di Maria De Filippi... Lei ha una capacità incredibile nel scegliere sia gli ospiti comuni sia quelli famosi; io non ho né quella capacità né quel budget».
A cosa le è servita la laurea in Giurisprudenza?
«Il mestiere del comico — un mestiere che è un aggettivo già la dice lunga — è volubile, se lo scegli significa che c’è qualcosa che non va nella tua testa. La laurea era l’idea di un posto dove tornare, per un certo periodo ho lavorato da un notaio, facevo la doppia vita: di giorno in studio, di sera in teatro e al cabaret. Mi ero data due o tre anni per riuscirci, se non ce l’avessi fatta sarei tornata in Sardegna: oggi devo tutto a Milano, ma perché fare il notaio in una città che è un posto assurdo?».
I suoi genitori erano contrari alla sua carriera...
«I miei non volevano che studiassi all’Accademia di Arte Drammatica, volevano che mi laureassi e io ci tenevo ad avere la loro approvazione, non volevo creare una frattura con loro. Alla fine la vita è quello che ti succede ma anche quello che fai nel momento in cui ti succede».
Ha giocato a basket fino ad arrivare in A2 con la Virtus Cagliari. Cosa le ha insegnato lo sport?
«Il basket mi ha insegnato quanto la preparazione sia importante prima della partita, e dunque per l’esibizione. Come diceva Thomas Edison il genio è per l’1% ispirazione e per il 99% traspirazione. Significa che sulle cose devi lavorare, il basket mi ha lasciato il senso del gruppo, della preparazione e dello studio. La regola è che per esibirsi devi studiare, le mie improvvisazioni nascono su un terreno solido».
Che sentimento le suscitano i social?
«Credo che sia pericolosa l’idea che la gente pensi di poterti dire qualunque cosa, sarebbe bello un mondo in cui nessuno scrive sui social quello che non ha il coraggio di dirti in faccia».
A lei cosa scrivono?
«Qualsiasi cosa: che sono bellissima o che sono un boiler. Non è vera una cosa e nemmeno l’altra, non credo agli uni né agli altri».
Lei pende politicamente a sinistra, è nel gruppo di chi a proposito di Giorgia Meloni pensa che finalmente almeno c’è una donna al governo?
«Per me è senz’altro stupefacente lo stupore così diffuso che sia una donna».
Tra poco compie 50 anni...
«Sono stata una ventenne di fascino discutibile, una trentenne un po’ agghiacciante, una quarantenne impaurita: voglio essere una splendida cinquantenne».
Gerry Scotti.
Estratto dell’articolo di Renato Franco per il “Corriere della Sera” domenica 3 dicembre 2023.
La cosa più «cringe» della sua carriera?
«In contrasto con quello che siete abituati a vedere di me?».
Insomma, non proprio. La cosa più imbarazzante?
«Beh. Di cose cringissime non ne ho fatte, non sono famoso per le gaffe. Mi tocca raccontare sempre la stessa: 30 anni fa al Gioco dei 9 ho avuto ospite per una puntata Barbara Alberti, la giornalista e scrittrice, e l’ho trattata come se fosse Lucia Alberti, quella che scriveva gli oroscopi. Peggio di così, più figura di... Lei fu carina, mi spiegò cosa avrebbero fatto il Sagittario, il Leone, i Pesci. Uscendo mi disse: giovanotto, mi deve aver confuso con qualcun altro ma mi sono divertita».
Ai tempi dei social sarebbe stato massacrato.
«Forse oggi mi avrebbero bloccato i miei autori, all’epoca invece siamo andati tutti avanti come imbecilli». […]
Ha anche una rubrica per «deboomizzarsi».
Vediamo se funziona.
«Ghostare»?
«Facile. Sparire».
Le è capitato di fare ghosting con una ragazza?
«Sparire non è mia attitudine, tanto che avete mie tracce quasi quotidiane in questi ultimi 40 anni».
Ne è stato vittima?
«Lo racconto nel mio libro, Che cosa vi siete persi . Alle giostre c’era questa ragazza che dava i biglietti per la casa degli specchi, alla decima visita in dieci giorni capì che andavo lì per lei. Mi chiese di portarla al cinema, ma io — da studentello imbranato qual ero — risposi che dovevo prepararmi per la versione di greco. Mai piu vista in vita mia, ma la ricordo come Juliette Binoche in Chocolat ». […]
Gerry Scotti: «Basta buonismo in tv. I quiz?
Quando me li proposero mi offesi. Con Al Bano rischiai l’arresto». Storia di
Renato Franco su Il Correre della Sera mercoledì 15 novembre 2023.
«È una vera gara, ogni settimana c’è una squadra che perde e due ragazzi vengono
eliminati. È finita l’epoca del buonismo per forza: si prendono i brutti voti a
scuola, si perde nella vita, nell’amore (una volta lasci, un’altra vieni
lasciato) e nello sport. Noi puoi iscrivere 24 ragazzini ai 100 metri e sperare
che arrivino tutti insieme al traguardo, è sbagliato. Penso sia un buon
insegnamento per chi vuole entrare nel mondo della musica». Gerry Scotti
presenta così Io Canto Generation, il talent che vede 24 ragazzi (dai 10 ai 15
anni) suddivisi in sei squadre (capitanate da sei protagonisti della musica
italiana come Iva Zanicchi e Fausto Leali) che si affrontano in una gara a
eliminazione. Il via domani in prima serata su Canale 5.
Visto che è finita l’epoca del buonismo, mi dica una cattiveria sui quattro giudici. Michelle Hunziker?
«Ma come faccio? È come mia sorella, diciamo che è troppo svizzera ma lo sa».
Orietta Berti?
«È come se fosse mia mamma o mia zia».
Al Bano?
«Una volta mi ha fatto la festa di compleanno a Cellino San Marco, ha sparato fuochi d’artificio fino a mezzanotte e mezza. Sono venuti i carabinieri a controllare, mancava poco che finivamo in galera».
Claudio Amendola?
«Per gli attori è la rappresentazione romana di quello che io sono per i presentatori. È una persona sempre sensata».
«Amici», «X Factor», «The Voice Kids»... Non ci sono troppi programmi che puntano sulla musica?
«No, non penso che sia un settore saturo o inflazionato; i rischi sono stati accuratamente valutati dai nostri dirigenti. È un titolo che ho fatto per un po’ di anni e non mi chieda perché poi è stato trascurato. La nostra vuole essere una festa per chi ama la musica, un programma che spazia tra tutti i generi, da Tenco a Lazza».
Teo Mammucari se ne è andato da Mediaset dicendo che non propone novità. Anche questo progetto può sembrare un’operazione nostalgia...
«Teo avrà avuto le sue ragioni e non mi permetto di dare giudizi. Dico solo che così come mi stupivo che Io Canto fosse stato trascurato per 10 anni, non mi sono stupito quando me l’hanno riproposto. La mia prima reazione? Era ora».
1983-2003: 40 anni di carriera. Cosa si aspetta?
«All’azienda ho detto: potete scegliere tra un bell’orologio d’oro — sapendo che avrebbero rifiutato (aggiunge ridendo) — o La ruota della fortuna. Per me sarà l’occasione di una bellissima celebrazione in onda durante le feste di Natale».
Il suo quiz, «Caduta libera», soffre, anche per le troppe repliche che lo hanno inflazionato.
«È stato un programma abusato, troppe volte sono state prese e riprese le puntate più belle. È una formula che ho accettato e sposato durante le difficoltà del Covid. Ma so che per il mio investitore anche 2,5 milioni di spettatori sono numeri molto interessanti».
È un soldato di Mediaset?
«Mi sento un normale lavoratore dello spettacolo. Io sono lo specialista che chiamano per risolvere certe situazioni, se c’è un incendio cercano uno che lo sappia spegnere; non mi chiamano quando c’è da dare fuoco. Ma ne sono orgoglioso».
Lei è lo zio Gerry, la Rai ha la zia Mara. Sente affinità?
«Penso che in questo appellativo — oltre a una forte dose di bonarietà e popolanità, che va oltre la popolarità — ci sia una forte connotazione carnale. Siamo tondeggianti, abbondanti, abbraccianti, zii d’Italia perché trattiamo gli spettatori come nostri familiari o amici, abbiamo un approccio sempre sorridente, confidenziale. Sempre per rimanere al femminile trovo una sintonia anche con Antonella Clerici».
Una foto con Amadeus ha fatto pensare che lei possa fare un salto a Sanremo.
«Era una stupidata tra due stupidi, abbiamo fatto più casino di quello che dovevamo fare, ma era solo un gioco».
Non pensa alla pensione?
«Io finché mi diverto cerco di resistere, ci sono panorami piu noiosi».
La tv dà dipendenza?
«Faccio tanta tv ma non sono un fanatico della tv. Non sono un teledipendente, piuttosto sono un malato di sport: guardo ogni cosa, dal calcio alla pelota basca».
Era una star della radio e poi è finito in tv...
«Ero convinto che la radio sarebbe stata la mia vita, ci ha creduto Claudio Cecchetto che con DeeJay Television mi ha forzato, io non ero tanto convinto. In radio ero nel mio brodo, protetto, tra i miei amici; la tv era un’altra cosa, all’inizio ho sofferto».
Poi è arrivato il quiz.
«Quando me lo ha proposto Fatma Ruffini (produttrice Mediaset) mi sono stranito, ero stupito e mezzo offeso: devi fare il preserale, mi disse. Pensavo: ma come? Sono reduce dalla finale del Festivalbar... Oh, aveva ragione lei e ora il preserale è diventata la mia confort zone».
Estratto dell'articolo di Francesca D'Angelo per “la Stampa” Il 6 marzo 2023.
(...)
Ha provato a chiedere una serata meno complicata?
«No, perché il senso de Lo Show dei record assegnato a Gerry Scotti è proprio questo, ossia "vediamo se sopravvive anche alla domenica sera».
Diciamo la verità: agli investitori pubblicitari basta avere il suo nome alla conduzione per investire, indipendentemente dagli ascolti?
«Intanto mi piace ricordare che Mediaset è l'unica tv che non chiede un euro ai telespettatori. Io sono un po' un "bond" che ha conquistato negli anni la fiducia degli investitori: abbiamo centri di acquisto e grandi aziende che mettono i soldi quando sentono il mio nome. Quindi mi posso permettere di sposare progetti un po' più rischiosi».
Però ha dichiarato che i programmi nuovi un po' non glieli danno, un po' non se li va a cercare.
«Come vede, sono stato onesto...».
Sta dicendo che lei, l'uomo "bond" degli investitori, ha paura di sbagliare?
«Il fatto è che ciascuno di noi (Carlo Conti, Amadeus, io…) sa fare bene una cosa sola che poi ripropone sotto forme diverse. Quando infatti la tua persona diventa un format, alla fine è quello l'ingrediente che la gente apprezza, se pur sotto vesti diverse. Personalmente io ho un debole per i quiz: li iniziai a fare, 30 anni fa, quando era un genere snobbato dai colleghi. Li bollavano come giochini svilenti. Solo adesso si è capito che i game e il preserale sono il granaio d'Europa: per capirci, è da lì che si pagano gli stipendi».
Su La Stampa Michielin ha sollevato il problema della gerontocrazia ed anche in tv gli show di punta sono in mano a volti senior. Non crede che lei e i suoi colleghi dovreste fare una riflessione?
«Noi non facciamo nessuna riflessione perché non è il nostro compito. La tv comunque è un mondo diverso dalla musica: gli spettatori vogliono volti affidabili e riconoscibili. E soprattutto capaci. Ecco, le posso garantire che tutti noi presentatori a 60 anni siamo molto più capaci di quando ne avevamo 20».
(...)
Pur non essendo berlusconiano, lei lavora a Mediaset: lo consideriamo come un suo Guiness dei primati o ha colleghi non berlusconiani?
«Ho molta stima e affetto per Berlusconi: mi fa sempre gli auguri, a Natale e a Pasqua. Il nostro rapporto è di grande stima e chiarezza: non mi ha mai coinvolto in operazioni di carattere politico, né mi sono mai arrivate delle veline da leggere nei miei show. È una forma di libertà che pochi imprenditori lasciano».
Forse nemmeno in Rai si trova…
«Tanto meno lì, dove il flusso è dettato dall'andamento delle elezioni».
Mediaset ha fatto bene a contro programmare Sanremo?
«Doveva farlo già vent'anni fa. Fosse stato per me, non avrei mai fatto prigionieri».
Striscia la notizia sostiene che il comune di Sanremo avrebbe una proposta extra Rai: dovrebbero accettare?
«Non conosco i conti del comune, né della Rai, ma per come sono andati gli ultimi anni, perché cambiare?».
Lei ha letto il testo della preghiera degli artisti al funerale di Maurizio Costanzo, che ricordi serba di lui?
«Ricordo ancora le prime ospitate al Maurizio Costanzo Show: per chi fa il mio mestiere era come entrare in Champions. Tra l'altro è stato Costanzo a scommettere su di me: quando diresse Canale 5, ha fortemente voluto la mia presenza nella fascia preserale, con Passaparola. E' lì che sono diventato il Gerry Scotti "per tutta la famiglia" che conoscete adesso».
Ghali.
Ghali: «Difendo il rap, la musica non uccide. Rinasco a 30 anni, mi sento comunque un numero uno». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera venerdì 1 dicembre 2023.
Il rapper milanese, 30 anni, torna con l’album «Pizza Kebab Vol. 1» ed è fra i nomi in aria di Sanremo: «Mi sento cresciuto e sono pronto a dare tanta musica»
«Fresco, succoso e commestibile» sono gli aggettivi che Ghali usa per descrivere «Pizza Kebab Vol. 1», nuovo disco che riprende il nome di uno dei suoi primi brani. Atmosfere cupe e oniriche, feat e contaminazioni segnano il ritorno del rapper milanese, 30 anni, alle origini della sua musica.
Cosa rappresenta questa pizza kebab?
«Alle medie uscivo da scuola e correvo a mangiare la pizza kebab con gli amici. È un titolo iconico per chi mi segue dal giorno zero e poi indica un clash fra due culture, anche musicalmente».
Nel primo pezzo dice «a 30 anni rinasco». È così?
«I 30 li ho sentiti molto, come fossero i nuovi 18. Mi sento cresciuto, rinato e risbocciato. Ho accumulato tanta esperienza e l’arte è sempre al centro della mia vita».
Sente la pressione delle classifiche o si ritiene sganciato da queste dinamiche?
«Sono completamente sganciato, ma mi sento comunque il numero uno, senza pensare a nessuna classifica. Sono cambiate tante cose, questo è un nuovo inizio, i fan capiranno dal mio approccio che sto cambiando marcia e che sono pronto a dare tanta musica questa volta».
Come si reggono gli alti e bassi del successo?
«Bisogna essere forti mentalmente e non farsi scoraggiare dai numeri che non sempre possono essere gli stessi. Alla fine la musica è un gioco. Se la prendi troppo seriamente le persone se ne accorgono».
Ci sono cose di cui si è pentito fin qui?
«Non particolarmente. E se tornassi indietro sono talmente cocciuto che le rifarei. Va bene anche fare errori, non sono quelli della vita vera».
Domenica sapremo se sarà a Sanremo. In passato ha ipotizzato di andarci con un brano in parte in arabo: potrebbe essere così?
«Non lo so, lo scopriremo insieme. Non so neanche se ci vado».
I testi di rap e trap sono sotto accusa per violenza e misoginia. Che ne pensa?
«Chi dice queste cose è ignorante o non fa bene il proprio lavoro, cercando solo consensi beceri. Come si fa a pensare che un film d’azione possa peggiorare la realtà? E allora una canzone? Al massimo è il contrario, la riflette. Altrimenti tutte le canzoni che dicono belle cose avrebbero dovuto cambiare il mondo in meglio. Perché prendersela con persone che soffrono? Vogliamo non si sfoghino neanche con la musica? Magari questo diminuisce la violenza anziché aumentarla».
È accettabile un verso come quello di Emis Killa «preferisco saperti morta che con un altro»?
«Magari ci sono persone che l’hanno pensato, ma perché attaccarsi ai testi? Eminem ha detto cose pesantissime su donne e uomini, ma è stato uno dei miei artisti preferiti e io non mi comporto così. Non viviamo già con abbastanza censure? È grave pensare che alcuni eventi gravissimi, da condannare, siano la conseguenza di semplice musica. Viviamo in un momento scuro, con guerre e ingiustizie sotto gli occhi. E vogliono tenerci zitti, zombie davanti al telefono».
Nel disco c’è anche Simba La Rue, condannato a Milano nelle faide fra trapper.
«Lo stimo e di quel che fa nella sua vita non posso dire niente, ognuno sceglie come muoversi. Ma credo ci sia accanimento su questi artisti di origine straniera che vengono usati come capro espiatorio. Cosa viene fatto per reinserire questi ragazzi? Come vengono trattati dopo che hanno sbagliato? Cosa fa la società?»
La preoccupa il governo di centro destra?
«Sono sempre stato preoccupato per chi governa questo Paese».
In passato ha avuto screzi con Matteo Salvini. Ora?
«L’ho perso di vista completamente, non è più nel mio algoritmo».
Invece ha donato una barca alla Ong Mediterranea.
«Mi è arrivata la bellissima notizia che ha salvato le prime persone, dopo che non ha avuto il permesso di entrare in acqua per tutta l’estate. A ottobre è partita e ho ricevuto le foto dei salvataggi, 210 persone in due giorni, fra cui un bambino di due mesi».
Vivo anche grazie a lei.
«Il merito è delle persone che sono lì. È una cosa che mi sta a cuore, ma è grave che per salvare le persone debba intervenire un ragazzo. Dovrebbe farlo lo Stato».
Gianna Nannini.
Gianna Nannini compie 69 anni: il lavoro nella fabbrica di famiglia, la figlia avuta a 56 anni, 6 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2023
La cantautrice è nata a Siena il 14 giugno 1954, figlia dell’industriale dolciario Danilo Nannini e di Giovanna Cellesi
Il fratello pilota di F1
Compie oggi 69 anni Gianna Nannini. La cantautrice è nata a Siena il 14 giugno 1954, figlia di Giovanna Cellesi (1923–2014) e Danilo Nannini (1921-2007), noto industriale dolciario. Ha due fratelli: Guido e Alessandro. Quest’ultimo, pilota automobilistico, ha corso anche in F1 nelle scuderie Minardi e Benetton.
Ha lavorato nella pasticceria di famiglia
«Cominciai bambina a decorare le torte - raccontava nel 2017 la cantautrice ad Aldo Cazzullo -. A 17 anni presi servizio come operaia: guadagnavo 1.740 lire all’ora, come le altre donne; gli uomini 2.500. Ne litigavo sempre con il babbo». Prima di dedicarsi alla musica Gianna Nannini ha lavorato nella pasticceria di famiglia. In fabbrica ebbe anche un incidente: «Lasciai nella macchina per i ricciarelli le falangi del medio e dell’anulare della mano sinistra. Finirono nell’impasto dei dolci, ma nessuno li ha mangiati; li ritrovarono il giorno dopo, troppo tardi per riattaccarli. Cacciai un urlo terribile, la voce roca mi è venuta allora. Poi svenni. Al conservatorio mi bocciarono: al pianoforte le scale venivano un po’ zoppicanti. Ridiedi l’esame con due piccole protesi di plastica e le unghie finte: lo passai. L’assicurazione versò due milioni. Mi ci pagai la fuga».
Scoperta da Mara Maionchi
A 19 anni Gianna Nannini si trasferisce a Milano per dedicarsi alla carriera di musicista («Andavo alla Ricordi alle 7 del mattino, quando non c’era ancora nessuno, per esercitarmi al piano e telefonare a mia nonna, preoccupatissima: era convinta fossi andata a caccia di uomini»). Inizia a presentarsi a varie case discografiche e cattura l'attenzione di Claudio Fabi e Mara Maionchi. «È sempre stata una grande talent-scout, oltre che una donna simpaticissima - ha detto a proposito dell’ex giudice di X Factor -. Le suonai le mie prime canzoni al piano. Si commosse. E mi fece il primo contratto, per la Numero Uno, la casa di Battisti».
I Flora Fauna Cemento e il successo con «America»
Dopo aver cantato nel gruppo Flora Fauna Cemento (guidato da Mario Lavezzi) nel 1976 Gianna Nannini pubblica il suo primo album da solista («Gianna Nannini»). Segue, nel 1977, «Una radura...». Il primo grande successo discografico risale al 1979: il singolo «America», inserito nell'album «California» prodotto da Michelangelo Romano. La copertina del disco raffigura la Statua della Libertà che impugna un vibratore a stelle e strisce. «La masturbazione per me è sempre stata fondamentale, ancora lo è. Papà vide quell’arnese e lo confuse con un missile. Quando il Corriere di Siena gridò alla scandalo, capì la verità. Così scrisse una lettera di fuoco a Mara Maionchi, per ordinarle di togliere il cognome di famiglia dal disco». La discografica cercò di convincerlo: «“La sua figliola è così brava…”. Per un mese divenni Patrizia Nanni. Poi decisi che mi sarei chiamata come mi chiamo. E firmai con il mio nome».
Mamma a 56 anni
Il 26 novembre 2010, a 56 anni, Gianna Nannini è diventata mamma di una bambina, Penelope. L’annuncio della gravidanza ha fatto molto scalpore: «La Bibbia parla di mamme di settant’anni - ha detto Nannini nel 2017 intervistata da Aldo Cazzullo -. L’ho chiamata Penelope perché l’ho attesa a lungo. Ho perso un bimbo di tre mesi, pensavo di non riuscirci più».
L’amore con Carla
Gianna Nannini non ha mai parlato molto della sua vita privata. Nel 2017 ha detto al Corriere: «Ho amato uomini e donne, sono pansessuale. Per me l’amore è consonanza di spirito, che è molto più importante del sesso. Di solito l’amore è possessivo; io credo nell’Amore gigante, come il titolo di un altro disco, che non lo è». Due anni dopo a Vanity Fair ha dichiarato: «Ho sempre amato uomini e donne e soprattutto non ho mai avuto freni nel sentire e seguire quello che volevo. Le ho sempre rifiutate, le definizioni. Al termine “coming out”, che ghettizza, ho sempre preferito la parola libertà. Alla parola gay, che ti pretenderebbe felice e ormai non usano più neanche in America quando indicono un pride, preferisco frocio. Chi è libero nel linguaggio è libero dentro». Oggi la cantautrice vive a Londra, dove si è sposata con la sua storica compagna, Carla. «A Londra vivo da tempo - ha raccontato sempre ad Aldo Cazzullo nel 2017 -. Sono anarchica, non credo al matrimonio. Ma conosco Carla da quarant’anni, e ho in lei totale fiducia. Se non ci fosse Penelope, mia figlia, non avrei mai fatto questo passo. Ma se mi succede qualcosa, Penelope per la legge italiana non avrebbe nessuno. In Inghilterra Carla la può adottare».
Gigi e Andrea.
Estratto dell’articolo di Gennaro Marco Duello per fanpage.it sabato 8 luglio 2023.
Gigi Sammarchi, l'attore famoso per il duo comico "Gigi e Andrea", rivela fatti e misfatti degli anni d'oro della tv e del cinema italiano. Dopo l'intervista ad Andrea Roncato, il più "mite" della coppia si racconta in un'intervista inedita a Fanpage.it: "Io e Andrea non abbiamo mai litigato. Il segreto è essere molto diversi.
Le donne? Mai contese. Solo una volta per Sabrina Salerno. A me piaceva moltissimo, ma c’era sempre Andrea che le faceva il filo, le stava sempre attaccato. Qualche tempo fa, eravamo a cena proprio io e Sabrina e mi confessò: “Ti ricordi che Andrea mi stava sempre addosso?”.
E io: “Ma certo che me lo ricordo”. E lei: “A me però piacevi tu”. L'artista oggi vive a Marbella e, a 74 anni, si sta preparando per correre la prossima maratona di Sidney: "Vivo qui perché è sempre estate e non hai modo di annoiarti". […]
Andrea Roncato è passato per l’enfant terrible soprattutto per quella dichiarazione sulla cocaina. A Fanpage.it ci ha detto: “L’ho usata due volte, sembra che non abbia fatto altro per tutta la vita”.
Ma infatti l’errore suo è stato quello di fare il paladino. Doveva starsene buono e tranquillo, ma è chiaro che se tiri fuori una storia del genere, te la vengono a ribattere sempre. I media funzionano da sempre così, non c’è molto da meravigliarsi.
Parliamo di Silvio Berlusconi, l’editore e imprenditore televisivo.
Ci siamo sempre trovati molto bene con l’uomo di televisione Berlusconi. Abbiamo sempre avuto un collegamento diretto con lui. Ci diceva: “Quando vi serve qualcosa, quando volete provare qualcosa, chiamatemi e parlate con me e poi fate quello che c’è da fare”.
E con il politico, che rapporto c’era?
Quando si è dato alla politica, ci siamo un po’ distaccati. Ma non per altro, in tempi non sospetti non ci siamo mai iscritti a nessun partito, non ci siamo mai seduti a nessuna tavola. Siamo sempre scappati via da questa trappola.
Però, il fatto di essere stati per la maggior parte “artisti Mediaset” ha potuto portare alla semplificazione: Gigi e Andrea sono “uomini di Berlusconi”. No?
Noi abbiamo anche lavorato un po’ in Rai, poi sì, siamo passati a Mediaset per la gran parte della nostra carriera. Siamo stati ‘uomini Mediaset’ ma solo quello.
Ho davanti a me una foto bellissima: tu e Andrea vestiti da portieri d’albergo, Paolo Villaggio in vestaglia abbracciato ad Anna Mazzamauro e Carmen Russo. È una foto di Grand Hotel.
Quegli anni lì sono stati bellissimi. È stato l’apice della nostra carriera. Era la prima volta che si vedeva qualcosa di simile in televisione. Dal lato professionale, umano, tutto, era il massimo che ci potesse essere. Anche perché oggi un programma come quello non si può più fare con i budget così bassi.
Oggi?
Oggi la tv è infarcita di talk show che non costano nulla. Con il Covid, hanno scoperto che non serve più invitare la gente in studio ma con le videochiamate a costo zero, risolvi il problema. Al tempo, Berlusconi era disposto a spendere qualsiasi cifra pur di dare un buon prodotto.
Com’era lavorare con Paolo Villaggio?
Noi abbiamo lavorato con lui sia in televisione che al cinema. Era un personaggio eclettico, era genio e sregolatezza. Molto intelligente e geniale, ma poi faceva cose fuori di testa. Credo lo facesse per trasgredire le regole.
Cosa faceva?
Ti poteva capitare che per una settimana intera ti chiamava per darti appuntamento a un ristorante, poi la sera non veniva. Un produttore mi raccontò che, mentre erano a Cortina a girare Fantozzi, una sera lui disse: ‘Stasera vado a mangiar fuori e offri tu che sei il produttore’.
E?
Villaggio prese un aereo privato, andò a Milano a mangiare, tornò indietro e presentò tutto il conto al produttore. Una volta ci invitò a un ristorante giapponese. Erano i primi tempi, non avevamo mai mangiato giapponese, lui ci rassicurò: “Venite, venite, che si mangia benissimo”. Quando arrivammo lì, noi ordinammo giapponese, lui tirò fuori un panino al salame dalla borsa.
Se Roncato è quello che parla di più, tu sei quello che parla di meno. Ma con le donne, c’è qualcuna che ti ha fatto perdere la testa?
Nel rapporto con le donne, era sempre Andrea che si buttava per primo e io non gli ho mai fatto concorrenza in nessun modo. Solo una volta.
Quale?
Erano sempre gli anni di Grand Hotel e c’era Sabrina Salerno. A me piaceva moltissimo, ma c’era sempre Andrea che le faceva il filo, le stava sempre attaccato. Qualche tempo fa, eravamo a cena proprio io e Sabrina e mi confessò: “Ti ricordi che Andrea mi stava sempre addosso?”. E io: “Ma certo che me lo ricordo”. E lei: “A me però piacevi tu”.
Ah, però…
Sì, ma figurati. Si è sempre detto all’epoca che lei avesse una sorta di storia proprio con Silvio Berlusconi. Magari una leggenda metropolitana, ma io ci stavo attento e avrebbe fatto bene a starci attento anche Andrea. Ma di fatto, nessuno cavò un ragno dal buco. […]
Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it il 10 aprile 2023.
Gigi Sammarchi, bolognese, classe 1949. Insieme ad Andrea Roncato ha formato una coppia comica tra le più celebri degli anni ‘80 e ‘90: Gigi e Andrea.
Come ci si sente a essere associati per tutta la vita a un’altra persona?
"Non mi è mai pesato. Anzi. Con Andrea viene prima l’amicizia del rapporto di lavoro. E ancora oggi, dopo tutto questo tempo, il nostro è un legame splendido".
(…) Era la "bohéme confortevole giocata fra casa e osterie, quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie” cantata da Francesco Guccini nel brano “Bologna”.
"Esatto: era quella Bologna là, degli anni ‘70. Meravigliosa. E proprio Guccini ha avuto un ruolo importante nel lanciare me e Andrea".
Racconti.
"Guccini lo conoscevamo da tempo, ci aveva adocchiato in qualche esibizione per pochi intimi. Stava iniziando a comporre le sue prime canzoni ma non era ancora il famoso cantautore. Mi pare avesse pubblicato giusto un 33 giri. Quando a Bologna apre l’Osteria delle Dame che diventa subito di moda, Francesco si trasforma nel Cicerone del locale".
(…)
Quindi Guccini vi porta all’Osteria delle Dame.
"Cantavamo delle canzoni dialettali. Alcune, come “La fiera di San Lazzaro” Francesco le ha poi inserite nel suo album “Opera buffa”. Facevamo quel genere là. Ci divertivamo tanto insieme, c’era un rapporto molto alla buona. “Proviamo questo pezzo” Com’è?” “Non è male, avanti un altro”.
La svolta quando arriva?
"Verso la fine degli anni ‘70, Sandra Mondaini faceva degli spettacoli comici da sola, senza Raimondo Vianello. Erano sketch tutti da ridere, in cui lei provava vari travestimenti. Così un manager bolognese, che poi diventerà molto famoso e che adesso purtroppo non c’è più, Bibi Ballandi, le propone di allestire uno spettacolo più strutturato e venderlo in giro per l’Italia. Mondaini era interessata, ma c’era un problema. Un problema che per me e Andrea invece è stato l’inizio del successo".
Ovvero?
"Sandra dice a Ballandi che Raimondo non avrebbe mai partecipato e quindi aveva bisogno di un paio di personaggi che l’aiutassero a mettere su lo spettacolo. Così Bibi, che ci aveva notato, ci spiega che c’era questa occasione e invita Sandra all'Osteria delle Dame. Incredibile. Le siamo piaciuti e siamo partiti. Abbiamo lavorato per tre anni con lei ed è stata la prima a portarci in tv".
Che rapporto c’era con Sandra e Raimondo?
"Con Sandra un legame molto forte. A Milano lei e Raimondo ci hanno anche ospitati a casa loro. Vianello aveva sempre quel fare un po’ burbero, con l’humor inglese. Ci prendeva in giro, io e Andrea eravamo dei provinciali. Ci volevano bene".
Così arrivano i primi show televisivi.
"Sì, in Rai. Ma il successo vero comincia con Fininvest, l’attuale Mediaset".
Ecco il successo e i soldi.
"Un’occasione imperdibile. Eravamo a Milano e ci contatta un manager dicendo che un imprenditore vuole sfidare la Rai e creare dei nuovi programmi di intrattenimento. Non ci pensiamo due volte. L'imprenditore era Silvio Berlusconi".
Come ricorda Berlusconi?
"Nelle sue cose era geniale. Seguiva la tv in prima persona. Per qualsiasi problema diceva “Chiamatemi che ci penso io: se va bene a me va bene a tutti”. Ci siamo sempre trovati molto bene con il Cavaliere. Era uno che quando si metteva in testa di fare qualcosa non sbagliava. Nella tv, nello sport, nella politica".
(…)
Esplodono gli anni ‘80, in cui tutto sembra possibile. C’è la leggenda di una villa affittata a Riccione dove passare l’estate.
"Non è una leggenda, è vero. Con Diego Abatantuono e i Gatti di Vicolo Miracoli abbiamo affittato per un po’ di estati questa villa. Facevamo le serate in Romagna e poi tornavamo tutti alla base. Che tempi".
Dopo la tv arriva il cinema con alcuni cult, tra cui “Acapulco prima spiaggia…a sinistra” che compie 40 anni. Alcune scene sono ancora super citate nei social e su YouTube.
"Dei film che abbiamo fatto, "Acapulco" è quello a cui sono più legato. Interpretiamo noi stessi, quelli che vedete nel film siamo io e Andrea al 100%".
(…)
C’è anche Mara Maionchi in un ruolo molto lontano dal giudice di X Factor.
"Grande Mara. In “Acapulco” era la madre di Andrea che di lavoro faceva la cassiera in un cinema a luci rosse. Già allora era una tipa molto spiritosa e a noi servivano personaggi con l’accento bolognese e lei si prestò. Anche perché la parlata emiliana non è semplice da doppiare".
Perché?
"Spingono tutti sulla “s”, troppo. E si capisce subito che è finto. Per fortuna che c’era Mara".
L’anno dopo partecipate al mitico “L’allenatore nel pallone”.
"Quanto ci siamo divertiti! E poi abbiamo avuto l’occasione di andare in Brasile per la prima volta".
Proprio lei, nei panni dell’osservatore Giginho, convince Lino Banfi/Oronzo Canà a portare in Italia il calciatore carioca Aristoteles.
"Con Banfi ogni giorno era una festa, ci faceva morire dal ridere. Sono stati giorni da favola. Però Andrea non voleva più tornare a casa".
Perché?
"Per lui Brasile voleva dire donne, capirai".
In “Pompieri” e “Rimini Rimini” recitate al fianco del mostro sacro Paolo Villaggio
"Paolo era l’incarnazione del detto “genio e sregolatezza”. Aveva una cultura sconfinata, ci potevi parlare di tutto per ore. Poi però faceva delle cose che ti lasciavano di sasso".
Tipo?
"Con Andrea eravamo a teatro a Venezia per uno spettacolo. Paolo vede il manifesto e decide di venirci a trovare. Nella pausa tra la prima e la seconda parte arriva dietro al sipario per salutarci. Poi scompare dietro le quinte. Quando torna gli chiedo cosa fosse andato a fare e risponde: “Mi scappava la pipì". Al ristorante poi si scatenava".
Siamo tutt’orecchi.
"Stavamo lavorando insieme al programma tv “Grand Hotel”. Era da giorni che Paolo insisteva per portarci a mangiare all’unico ristorante giapponese che c’era a Milano. Non era come oggi che trovi sushi ovunque, allora nessuno la conosceva. Alla fine cediamo. “Si mangia benissimo”, aveva assicurato. Al momento di ordinare ognuno prova a scegliere un po’ così, alla cieca. Quando arriva il turno di Paolo, ecco la follia: “Io sono a posto, so già cosa mangiare”.
E tira fuori due panini alla mortadella dalla tasca. Per non parlare dei numeri che inventava per non pagare. Durante le riprese di “Pompieri”, un oste ci è venuto a cercare a Cinecittà perché Paolo non aveva saldato il conto, mentre a noi aveva assicurato che ci aveva pensato lui".
Da Serena Grandi a Milly D’Abbraccio, nei vostri film c’erano sempre tante belle donne.
"Abbiamo lavorato un po’ con tutte. Poi va be’, Andrea cercava sempre di conoscerle un po’ meglio".
Il solito latin lover, addirittura è finito nella lista di Moana Pozzi pigliando un 7.
"Come dimenticarlo. Con Moana Pozzi abbiamo lavorato più di una volta. Pensi che abbiamo fatto anche uno sceneggiato televisivo sull’Odissea in chiave comica. Moana era Penelope, Andrea Ulisse, Gerry Scotti Menelao. Io facevo Mercurio".
Con la serie tv “Don Tonino” avete anticipato il successo di “Don Matteo”.
"Allora ci piaceva molto variare, fare cose nuove. Non come oggi che fanno sempre le stesse cose. Quindi quando ci hanno proposto una serie su un prete investigatore ci siamo subito buttati. Non era un’idea nuova, c’era già stato Renato Rascel con “I racconti di Padre Brown”. Ma funzionava. E sì, abbiamo anticipato “Don Matteo” che è andato avanti per un sacco di stagioni".
Alla fine degli anni ‘80 chiude con il cinema, mentre Gigi e Andrea in tv restano fino a metà degli anni ‘90. Poi poco e niente. Cosa è successo?
"Molto semplice, è finita un’epoca. Nei programmi non c’era più spazio per la nostra comicità. Però dai, quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto".
(...)
Non le è mai pesato il ruolo di spalla?
"No perché non mi sono mai sentito una spalla. So che è un modo di catalogare da sempre le coppie di comici. Ma con Andrea non abbiamo mai pensato di scambiarci i ruoli perché sono spontanei. A lui viene bene il tipo sornione un po’ cretino e a me l’intelligentone che urla addosso agli altri".
L’attrice Gegia, con cui avete condiviso le scene, ha partecipato all’ultimo Grande Fratello Vip non senza polemiche. Ha seguito?
"No, Gegia non la vedo da anni. Andrea mi ha detto che l’ha incontrata a Roma di recente. Ma non so nulla della storia del Grande Fratello".
Le piacerebbe partecipare a un reality?
"Ma per carità. Me l’hanno chiesto spesso ma ho sempre rifiutato. Anche perché di reale non hanno nulla".
Vive ancora a Bologna?
"No. A Bologna sono stato per tantissimo tempo. Anche negli anni d’oro non mi sono mai trasferito. Sono andato a vivere tardi a Milano perché ho sposato una milanese. Ma ora ci siamo trasferiti in Spagna".
Ha abbandonato l’Italia?
"Non ho più obblighi particolari: non ho mai avuto figli e i miei genitori non ci sono più. Ora vivo con mia moglie in Andalusia, precisamente a Marbella sulla Costa del Sol. C’è un clima stupendo e si sta bene. Poi la Spagna mi è sempre piaciuta molto".
Nel suo status di WhatsApp c’è scritto “sto correndo”. Che fa, non si gode il meritato riposo?
"Macché. È da un pezzo che mi alleno tutti i santi giorni per correre almeno due o tre maratone all’anno. Il Covid mi aveva un po’ fermato, ma ora sono ripartito".
Insomma, da comico si è trasformato in maratoneta?
"Mi piace molto correre. Ora mi sto preparando per la maratona di Ibiza".
Non ha profili sui social network e nella foto di WhatsaApp c’è quella del suo cane. Ci tolga una curiosità, porta ancora i baffi?
"Ce li ho, ce li ho (ride). Anzi, non me li sono mai tolti. Eccetto una volta, ma lo sanno solo mia moglie e Andrea. Eravamo in scena a teatro e interpretavamo una coppia gay. Io ero travestito da donna e quindi mi sono fatto tagliare i baffi. Ma nel frattempo mi sono fatto preparare da un parrucchiere dei baffi posticci da mettere quando uscivo dal camerino. Me li ha fatti talmente bene che non se ne è accorto nessuno".
(…)
Giampiero Ingrassia.
Giampiero Ingrassia: «Papà e Franco erano marito e moglie. Ma sulla scelta dei film non mancarono le liti». Il figlio di Ciccio Ingrassia: «Era nato poverissimo, poi regalò case ai parenti bisognosi. «A 10 anni mi trovai di fianco a Fellini mentre giravano la scena della pipì: “Federico sono in imbarazzo, c’è mio figlio che mi guarda”». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.
La gente leggeva o sentiva il cognome Ingrassia e chiedeva subito: parente? Ma a Giampiero, figlio di Ciccio Ingrassia, non è mai dispiaciuto sentirsi il figlio di... «Nell’immaginario collettivo, certo, puoi essere considerato un raccomandato — afferma l’attore —. In realtà mi sento un privilegiato. Poi è ovvio che, quando ho iniziato a intraprendere lo stesso mestiere di mio padre, mi sono sentito spesso più osservato con attenzione, giudicato con maggiore curiosità da registi e colleghi. Capivo che dovevo possibilmente meravigliarli, altrimenti erano cavoli...».
Un padre nato cento anni fa in una famiglia poverissima. Come ha iniziato a calcare le scene?
«Era nato a Palermo nel povero quartiere Il Capo, figlio di un ciabattino, lavorava col padre a bottega ma era orgoglioso della sua povertà, diceva che non se ne vergognava e che era amico intimo della fame. Con i fratelli, mi pare fossero cinque o sei, dormivano tutti insieme in un’unica stanza. Sin da giovane sognava di fare l’attore ed essendo impensabile per lui frequentare scuole di recitazione, è nato come attore di strada, poi esordì nell’avanspettacolo con le squattrinate compagnie girovaghe. Spettacoli per un pubblico popolare, messi su con pochi mezzi: una volta dovette dipingersi le caviglie di nero con la vernice, perché non c’erano soldi per comprare i calzini che doveva indossare sotto i pantaloni in scena. Quando ebbe le possibilità economiche, fu generosissimo: regalò case ai parenti bisognosi».
In che modo conobbe il suo futuro compagno di scena: Franco Franchi?
«Anche lui era nato poverissimo nel quartiere della Vucciria. Papà già lavorava in un teatrino locale e lo aveva notato mentre si esibiva in una scenetta comica, chiamata la Posteggia, cioè fatta per strada. A quel tempo Franco si faceva chiamare Ciccio Ferraù, faceva imitazioni e giochetti acrobatici. Quando si ammalò un comico che lavorava nello spettacolo, papà si ricordò di quell’artista, lo propose all’impresario. Franco ne fu felicissimo e all’inizio dava del lei a mio padre. Subito nacque il loro sketch Core ingrato».
Tanti i film insieme...
«Sono stati la prima coppia di fatto del cinema italiano, più di Totò e Peppino, di Tognazzi e Vianello, persino di Stanlio e Ollio. E io li ho considerati come i miei genitori, addirittura c’era chi si sbagliava pensando che fossi figlio di Franchi Cicci...».
Una comicità, la loro, mai volgare.
«Due antieroi surreali, risate tante, senza bassa trivialità. Camilleri li definiva la continuazione del teatro dei pupi. Erano talmente amati dalla gente che, andare in giro con la coppia, sembrava come girare con i Beatles. Quando pranzavamo tutti insieme al ristorante, non c’era un attimo di privacy, una processione di ammiratori: una continua richiesta di autografi e di foto insieme. Una giovane donna si fece autografare addirittura sopra una tetta! Sul décolleté molto aperto, con un pennarello... E mia madre non la prese benissimo. Quando ero ragazzo, non sopportavo molto questo assalto, che non mi permetteva di stare insieme con i miei in santa pace. Oggi capisco che era una grande dimostrazione d’affetto».
Tanti successi e anche tante incomprensioni, tra Franco e Ciccio...
«Proprio perché erano come marito e moglie, non sono mancati i litigi, che non riguardavano il piano personale, erano solo dovuti a diverse visioni del loro lavoro. Franco, più istintivo, accettava qualunque proposta; papà, più riflessivo, sosteneva che potevano compiere scelte oculate dei registi con cui lavorare, dei copioni da accettare. Un contrasto inevitabile, per questo hanno trascorso periodi a lavorare ognuno per conto suo... però si volevano bene».
La critica non fu molto benevola.
«I film incassavano un botto, ma c’era la moda di parlarne male a prescindere e, secondo me, i critici non li vedevano nemmeno, pur scrivendone malissimo. I primi tempi i due attori ne soffrivano, poi se ne sono fregati e sono stati rivalutati negli anni, come è avvenuto con Totò. Bisogna ricordare che sono stati diretti anche da registi come i Taviani in Caos e Comencini nel Pinocchio. Mio padre ha inoltre lavorato con Petri, Vancini, Fellini. Quando Franco è mancato, papà decise dopo poco di ritirarsi. L’ultima cosa che ha fatto fu Giovani e belli con la regia di Dino Risi, poi disse: basta, dopo anni e anni che non ho dormito, mi voglio riposare, mi godo la famiglia e la pensione. L’ho molto ammirato per questa sua scelta».
Lo ha mai seguito su qualche set?
«Certo! Avrò avuto 10-11 anni e un giorno in cui non dovevo andare a scuola, mi portò sul set di Amarcord. Eravamo in un casale in un bosco vicino Roma. Interpretava il ruolo di Teo, lo zio matto e, in una scena, doveva far finta di farsi la pipì addosso. Mi avevano piazzato proprio vicino a Fellini, un omone enorme con una vocina sottile che, da lontano, lo incitava dicendogli: Ciccio sgrullalo! Sgrullalo! Riferendosi al suo coso... E mio padre, imbarazzato, rispondeva: Federico non posso, c’è mio figlio! Per quel film non vinse il David solo perché venne doppiato dall’attore emiliano Enzo Robutti: Fellini non voleva l’accento siciliano, ma emiliano. Peccato, se lo sarebbe molto meritato».
Ciccio era contento che suo figlio seguisse le sue orme?
«Mi ripeteva che il suo mestiere comportava una faticosa gavetta. Preferiva che mi laureassi, anche se lui a malapena aveva frequentato le elementari: studiava poco e il maestro lo mandava a fare la spesa per sé stesso, e poi lo promuoveva. Io, per farlo contento, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza ma il caso volle che, a causa della rosolia...».
Che accadde?
«Mentre stavo preparando un corposo esame di Diritto romano, esco con degli amici e uno di loro, il giorno dopo, mi chiama chiedendomi: hai mai avuto la rosolia da bambino? Rivolsi la domanda a mia madre, mi rispose che era l’unica malattia che non avevo mai beccato: qualche giorno dopo mi riempii di puntini rossi. L’esame saltò e per me fu un segno del destino: sognavo di fare l’attore e poi venni ammesso al laboratorio teatrale di Gigi Proietti, che per me è stato un “papà bis”. Comunque, udite udite: ho ricevuto il mio primissimo applauso appena nato».
Addirittura?
«Ciccio recitava al Sistina nel Rinaldo in campo con Domenico Modugno. La sera del 18 novembre 1961, tra il primo e il secondo tempo, vengono a sapere della mia nascita e il mitico Mimmo lo annunciò festoso alla platea, da dove partì il caloroso battimano. Purtroppo, papà e mamma non riuscirono a vedere il mio debutto in un piccolo teatro romano: quella sera la Roma aveva vinto lo scudetto e la città era bloccata dai tifosi».
A Palermo, in via San Gregorio dov’è nato Ciccio, Pippo Falcone ha realizzato un murale dedicato a lui.
«Un bell’omaggio, che si aggiunge alla targa dedicata alla coppia Franchi-Ingrassia nella piazzetta del Teatro Biondo. Un grande onore per mio padre, uomo molto riservato e, se avesse potuto festeggiare i 100 anni, lo avrebbe fatto in famiglia. Oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa, mi manca la sua voce, il prenderlo per mano, le nostre chiacchierate in salotto e soprattutto il suo sguardo fisso e severo quando, da bambino, ne combinavo una delle mie: capivo che era incazzato...».
Giancarlo Giannini.
Estratto dell’articolo di Silvia Tironi per oggi.it mercoledì 18 ottobre 2023.
La differenza nella vita di Gianna Nannini la fanno loro: sua figlia Penelope Jane e Carla, la compagna di una vita. È un quadretto familiare raro e felice quello che vi mostriamo, considerato che la Gianna nazionale ha sempre mantenuto la propria sfera privata lontana dalle luci della ribalta. Ma ora eccole, tutte e tre insieme, al tavolino del Nobu Armani Café di Milano, mentre tra chiacchiere e sorrisi si godono il pranzo in famiglia. La cantante senese è felice accanto alle sue donne
Carla le è accanto da oltre quarant’anni, e a lei ha deciso che affiderà Penelope dovesse mai capitarle qualcosa. L’ha sposata a Londra dove la legge, grazie all’istituto giuridico della stepchild adoption, consente alla donna di adottare Penelope. È il più grande tesoro di Gianna, che l’ha tanto desiderata e l’ha avuta da sola.
[...]. Il prossimo 26 novembre, Penelope compirà 13 anni. «Mi ha stravolto in positivo la vita», ha raccontato la Nannini a Domenica In. «Non ci sono più io, ma c’è lei in ogni mia scelta».
Giancarlo Giannini nel cda Csc: «Mi avevano cacciato. Non mi hanno mai premiato, forse perché sono perito elettronico». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2023.
L’attore è stato nominato dal ministro Sangiuliano nel nuovo cda del Centro Sperimentale di cinematografia di cui è presidente Sergio Castellitto
«Mi hanno chiamato e ritornerò, cos’altro volevate sapere?»
Giancarlo Giannini lei è uno dei membri nel cda del Centro Sperimentale di cinematografia, nominato come il presidente Sergio Castellitto e Pupi Avati dal ministro della cultura Sangiuliano. Quando finì la sua esperienza precedente lei commentò in modo polemico.
«Mi hanno mandato via. Sono contento di riprendere il percorso: sono stato insegnante, tutor, anche nel consiglio. Adesso aspettiamo la ratifica (delle commissioni Cultura di Camera e Senato, ndr), poi ci dovremo riunire. Non so ancora cosa farò, se anche il docente. Se ci hanno scelto si fideranno di noi. È il ministro che decide. Prima c’era Franceschini che mi chiamò e che è lo stesso che mi mandò via. Ma non mi intendo molto di queste cose».
La prese molto male.
«La cosa che mi è dispiaciuta è che non mi mandarono neanche un biglietto di ringraziamento, vent’anni lì e poi solo una telefonata che mi dice che devo andar via. Forse ero troppo vecchio».
La presidente Marta Donzelli e il suo cda sono stati azzerati un anno e mezzo prima della scadenza .
«Essendo la presidente doveva mandarti un biglietto “la ringraziamo…”. Invece, solo un calcio nel sedere. Non so chi sia, lei lo sa?»
Una produttrice.
«Se l’hanno messa lì qualcosa avrà saputo fare. Non so chi c’era nel cda precedente».
Cristiana Capotondi, l’avvocata Guendalina Ponti e Andrea Purgatori.
«Bravo, certo. Comunque non so che valutazioni siano state fatte. Ora noi aspettiamo di essere operativi».
Ci sarà da nominare un comitato scientifico.
«Esatto. Non so se ne farò parte».
Il cambio è anche generazionale: lei, Avati, anche Castellitto, siete quella dei padri.
«L’esperienza serve, ricordo quando nel cda c’era Dante Ferretti, non mi pare abbia fatto male dall’alto dei suoi Oscar. Conosco bene Sergio Castellitto, attore, regista, sceneggiatore. So quanto vale. E io qualcosa ho fatto».
Più di qualcosa. Ma perché lo dice sempre con un tono amaro? Ancora la storia del Leone alla carriera mancato?
«Ma era solo una battuta, “Neanche il Gatto nero mi hanno dato”. Potevo dire Topo Gigio. Ma è vero, mai nessun premio. Giusto, sono un perito elettronico industriale».
Questo è un suo vezzo.
«No, no. Quello è il mo mestiere, faccio l’attore solo perché mi diverto. Lo dite voi che sono bravo».
Tornando al Csc, quest’estate dopo l’azzeramento del cda gli studenti hanno occupato i locali di via Tuscolana auspicando che la scuola esca dall’orbita della politica.
«La politica non dovrebbe contare. Sarebbe bello. Ma posso dire che mi è capitato di chiamare qualcuno per insegnare e sentirmi dire che non si poteva per motivi politici».
Chi?
«Potrei fare tanti nomi ma non li faccio. Ma cosa importa cosa sei? Come quando vado a leggere il discorso di Berlusconi. Che importa? Sono un attore, faccio quello che voglio. Della politica non mi interesso, sono stato al Csc con governi e ministri diversi, non scherziamo. In questo momento la mia preoccupazione è un’altra».
Ovvero?
«Sto cercando di rimettere in sesto un vecchio proiettore Super 8. L’ho smontato e ora mi mancano due viti».
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” mercoledì 27 settembre 2023.
Giancarlo Giannini, perché leggerà il discorso del Cavaliere al Berlusconi-day di Paestum, la festa di Forza Italia?
«È molto semplice. Il mio agente mi ha mandato questo intervento letto in America nel 2006, sulla pace, sull’immigrazione, ed io l’ho trovato bellissimo».
E quindi lei ha accettato?
«Sono un attore. Ho letto una volta un discorso di Martin Luther King, e leggerei Mao Tse Tung se me lo chiedessero».
Cosa pensava di Berlusconi?
«Mi stava simpatico. Mi ha sempre chiamato. A un certo punto volle affidarmi Striscia la notizia .Non potevo prendere un impegno giornaliero e gli suggerii di ingaggiare Pippo Baudo…Ma perché me lo chiede? Non lo capisco».
Semplicemente sapere come sono andate le cose.
«Mmm. Cosa c’è che non va? È un bellissimo discorso che lei naturalmente non ha letto».
[…]
Molti suoi colleghi sono di sinistra.
«Io li giudico solo in base alla bravura, se sei bravo bene, altrimenti sei un c…» .
Perché si arrabbia? Non ho un giudizio. Solo delle curiosità.
«Che curiosità ha? Si stupisce di questa mia lettura?».
Vorrei capire.
«Cosa? E comunque Berlusconi non era certo l’ultimo arrivato».
Però non era nemmeno una figura neutra.
«Ma nemmeno Napolitano lo era! Lo sa che una volta mi fece dei complimenti per come avevo letto un testo del Manzoni?».
[…]
Posso chiederle se è vero che allora la sinistra riteneva i film di Lina Werthmuller poco rispettosi della condizione operaia?
«Cosaaa? Mimì era di sinistra. Lina Wertmuller era di sinistra. E “Travolti da un insolito destino” è un film per il popolo. Non è vero che era maschilista. Lui rifiuta di fare con lei l’amore sulla spiaggia, in un moto di ribellione anti borghese».
Non ho capito cosa pensa della politica.
Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 13 aprile 2023.
Il titolo del suo libro di memorie: "Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)": c'è il tema dell'età, ma anche il senso della libertà come valore.
(...)
Qual è il valore più importante, per lei irrinunciabile?
«Non c'è nulla di irrinunciabile. Io sono un credente, quindi credo nel mistero. Alcuni mi chiedono: come fai ad essere così credente?»
Pensa a quell'episodio con Vittorio Gassman?
«Vittorio, una persona intelligentissima, timidissima, coltissima, straordinaria. Mi disse: "Come fai a credere? Che cosa vuol dire credere?". Io gli spiegavo che cosa era la fede per me: "Dio ti ha dato la possibilità ogni giorno di scoprire tanti piccoli misteri. Accontentati di questo". Insomma, io mi accontento. Anzi, sono felice di poter pensare, come ho detto, a qualcosa che non c'è».
Ad un ragazzo con aspirazioni di attore che cosa direbbe?
«Non intraprendere questa strada se hai il minimo dubbio. E tieniti di riserva un altro mestiere. Quando insegnavo al Centro sperimentale dicevo: "So che questo è un tarlo che avete e, se continuerete, ricordatevi di fare anche degli errori. Fare degli errori è bellissimo: se non è un errore è qualcosa che avete scoperto che servirà anche agli altri". La cosa più importante che insegnavo era la gioia di vivere. Se uno non ha la gioia di vivere come si mette sul palcoscenico a raccontare le favole?»
(...)
C'è qualcuno a cui vorrebbe chiedere scusa?
«Facevo l'Istituto tecnico. In pausa si giocava a pallone e tutti avevamo una merenda. La mamma mi fece un panino con la frittata, l'avevo lasciato nella mia cartella in un angolo. Vidi un ragazzo molto giovane che guardava la partita seduto per terra, e si mangiava un panino con la frittata, il mio. Mi sono fermato e gli ho detto: "Scusa, ma perché me lo hai preso? Potevi chiedermelo". E ho fatto un gesto terribile, di cui mi pento molto. Ho preso un po' di frittata e gliel'ho spalmata in faccia».
Dustin Hoffman ha detto che la sua voce ha migliorato le sue interpretazioni. Lei è un grande doppiatore. Che cos'è la sua voce?
«Bisognerebbe chiedere a mia mamma che me l'ha fatta. Il doppiaggio o lo sai fare oppure no. Io ho imparato a farlo anche perché studiando molto l'elettronica, l'oscillografo ti fa vedere tutte quelle onde. Riesco ad andare in sincronia facilmente».
Lei è soddisfatto di sé, o c'è qualcosa che vorrebbe cambiare?
«Uno magari lo pensa quando è molto più giovane, ma poi si abitua a quello che è e si accontenta. Vivo la vita giorno per giorno, cercando di soddisfare le curiosità».
In cinque parole: chi è davvero Giancarlo Giannini?
«Un uomo a cui piacerebbe poter bere un caffè senza la tazzina: lo berrei con la fantasia».
(...)
Estratto dell'articolo di Andrea Carugati per “la Stampa” il 7 marzo 2023.
Da oggi a Los Angeles, sulla Walk of Fame brilla una nuova stella, quella di Giancarlo Giannini, che è stato insignito del prestigioso riconoscimento a 80 anni, a oltre 60 anni dall'ultimo attore italiano ad averla ricevuta, Rodolfo Valentino.
Lei ha lavorato tanto anche a Hollywood e con grandi artisti americani, cosa significa per lei tornare qui, per ricevere questo riconoscimento?
«Come attore, questo è il giorno più importante della mia vita. Di premi ne ho ricevuti tanti nella vita, di stelle ne ho già due, una a Toronto e un'altra in una città dell'est Europa di cui non ricordo il nome. Tutti i riconoscimenti sono gratificanti, questo sulla Walk of Fame però credo sia il più bello. Corona la mia carriera. Per me è addirittura più importante di un Oscar. Non è il premio per un film, ma per tutto quello che ho fatto, resterà per sempre lì, come una stella che illumina i marciapiedi della capitale del cinema mondiale».
(...)
Il cinema come filo conduttore di un'intera vita?
«Purtroppo la settima arte non naviga in buone acque, da parecchio tempo. Però noi continuiamo a farlo, perché è come una favola che raccontiamo ai grandi. Da piccolo la mamma ti racconta le più belle storie e tu puoi sognare di essere il più grande regista, il più grande scenografo, il gatto con gli stivali, quello che vuoi.
Da adulti però nessuno ci fa sognare, per questo ci siamo noi attori. Tutto quello che facciamo vive nella finzione, come una grande realtà virtuale che ci porta via per qualche ora da questa realtà un po' bruttina di questi tempi».
In un'intervista lei ha detto: «A Hollywood mi dedicano una stella, mentre a Venezia non mi hanno dato neanche un gatto nero».
Ritiene che l'Italia sia stata irriconoscente nei suoi confronti?
«Assolutamente no, io devo molto agli italiani che hanno quasi sempre riempito le sale che davano i miei film più belli. Naturalmente ne ho fatti anche di brutti, però non è certo colpa dell'Italia.
Credo che il nostro sia il Paese più bello al mondo. Il posto in cui si mangia meglio e anche il luogo in cui sono stati fatti i film che hanno insegnato a tutti quanti a fare il cinema. Sono stato candidato all'Oscar, ho vinto al Festival di Cannes, tanti David di Donatello e Nastri d'argento ma mai un Leone a Venezia. Va bene così, è comunque grazie a questo percorso che sono arrivato qui, a Los Angeles, per ricevere questo storico riconoscimento. Una stella è per sempre».
Giancarlo Giannini: «Gli attori italiani? Sono ancora i più bravi al mondo». Gli aneddoti con Gassman e Wertmüller. La vita in scena, le riflessioni sull’esistenza. E ora la celebre mattonella sulla Walk of Fame a Hollywood. “Finalmente sono una stella. Bello che me la diano da vivo, non trova?”. Claudia Catalli su L’Espresso il 13 Febbraio 2023.
«Bello che me la diano da vivo, non trova?». Così Giancarlo Giannini, 80 anni, commenta la sua stella sulla Walk of Fame a Hollywood. Un riconoscimento che lo inorgoglisce, specie pensando che «a Venezia neanche un gatto nero mi hanno mai dato». Schietto, diretto, divertito e divertente, ama interpretare personaggi controversi. Come lo spregiudicato Dino De Gregorio, fondatore dell’agenzia di calciatori più potente in Italia visto nella serie su Sky e Now “Il grande gioco – I segreti del calcio mercato”. «Un personaggio alla Berlusconi, di quelli che comprano palazzi, squadre, giocatori, calato un ottimo racconto dei retroscena del calcio italiano».
Ironia della sorte, lei non è mai stato un patito di calcio…
«Divento tifoso solo per le partite importanti, ma non ne so molto. Per interpretare De Gregorio mi sono informato su questi procuratori che compravendono giocatori, ho persino parlato con un paio di loro a Milano confessando di non capirci granché, mi hanno risposto che ero sulla strada giusta».
De Gregorio dopo trent’anni di carriera non si diverte più, le capita mai?
«Ogni tanto sì, il mestiere dell’attore diventa ripetitivo. Viviamo in un mondo in cui l’immagine attraversa tutto e arriva a tutti, si vive di numeri, like, pollici in su o in giù e ci si limita a bissare i successi di ieri. Manca il coraggio di mettersi in gioco. Io non so se sono un bravo attore, mi sento sempre un perito elettronico che s’impegna e studia più possibile, ma ho sempre cercato di rischiare, diversificando tutti i miei ruoli».
Questo è un Paese che fatica a fare spazio ai giovani, lei crede nel ricambio generazionale?
«Ma certo, i giovani sono il futuro, il guaio è che i politici non fanno niente per loro. Io ho cercato di sostenerli sempre, ho interpretato varie opere prime, insegnato vent’anni al Centro Sperimentale. La politica invece non muove un dito per le nuove generazioni, per questo se ne vanno dall’Italia».
Anche i suoi figli hanno fatto questo tipo di scelta?
«I più piccoli vivono uno a Berlino e l’altro a Londra. Sono convinto che non bisogna vietare ai figli l’esplosione delle loro fantasie, già la scuola tarpa un po’ le ali, vanno lasciati liberi. Come padre non sono sempre stato vicino ai miei figli, andavo in giro per il mondo a fare film, però ho sempre pensato al loro futuro lasciando massima libertà e aiutandoli in quello che volevano fare».
Le capita ancora di firmare autografi al posto dei vari Tognazzi, Gassman, Manfredi?
«È un periodo che viaggio meno, ma quando me li chiedono, scambiandomi per uno di loro, li accontento. Non potrei mai deluderli, o dire: “Ma signora, è morto anni fa”».
È vero che litigò con Gassman per questioni di fede?
«Vittorio era un mio carissimo amico, oltre che una persona di una cultura e intelligenza incredibili. Abbiamo recitato insieme in “I picari” e “Lo zio indegno”, l’ho accompagnato nel periodo della sua grande depressione: stavamo sempre insieme, ricordo che doveva mangiare la cioccolata per tirarsi su e andavamo in giro per Milano dividendoci le sue tavolette. Non abbiamo mai litigato, sulla fede abbiamo solo discusso, perché o succede o non succede. A lui non è successa. Diceva: “A volte vorrei anche solo un lumicino di questa luce, ma non ne vedo”. Gli volevo un gran bene, ho pianto molto quando è morto, abbiamo passato periodi splendidi insieme. In Spagna eravamo nello stesso albergo di Monicelli, lui mi aspettava fuori e mi chiedeva dove andassimo a mangiare, a tavola poi ci riempiva di racconti unici, favolosi, come quando conobbe Charlie Chaplin. Era un piacere stare con lui, mi ha insegnato molto. Alcuni monologhi shakesperiani li faccio ancora pensando a lui».
Le manca Lina Wertmuller?
«A Lina devo tutto, senza di lei oggi non sarei qui. È stata la mia maestra, da lei ho imparato ogni cosa. È stata un genio non valutato abbastanza. Era una donna impulsiva, irrequieta, speciale: lavorare con lei era come lavorare con dieci registi uomini. Parliamo di artisti veri».
Ci sono oggi “artisti veri”?
«Ci sono attori e registi di spessore, mi vengono in mente Giuseppe Tornatore e tanti altri, ma i tempi sono diversi, anche quelli di lavorazione. Mi sono appena rivisto “La caduta degli dei” di Visconti, riusciremmo oggi a realizzare un capolavoro così?».
È ancora convinto che gli attori italiani siano i più bravi al mondo?
«Lo dissi anni fa e fui attaccato, eppure tutti i più grandi attori del mondo hanno origini italiane, da Leonardo di Caprio ad Al Pacino, fino a star come Frank Sinatra. E che dire di Eduardo De Filippo? Non abbiamo nulla da invidiare ad altri».
A breve riceverà la stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Che cosa prova?
«Sono uno dei pochi che ha lavorato tanto a Hollywood, la stella è meglio di un Oscar - a cui pure fui candidato nel ’77 per “Pasqualino Settebellezze” – perché significa “essere una stella per sempre”. Mi piace».
Nella sua autobiografia “Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” scrive: «Noi attori abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto».
«Siamo nati per continuare a raccontare le favole ai grandi. Quando siamo cresciuti e non abbiamo più mamma e papà che ce le narrano prima di dormire ci pensano gli attori».
Non viviamo tempi di favole, somigliano più a incubi già visti…
«Non me lo dica, io sono nato sotto la guerra, mi ricordo carretti con bambini maciullati passare sotto i miei occhi, stukas tedeschi mitragliare una stradina di campagna. Ero lì su un camioncino di patate con mia madre e ci salvammo buttandoci tra i rovi di more. La guerra è la cosa più terribile che possa accadere. È uno spettro che ritorna. Inviando le armi si può ottenere la pace? Bisognerebbe risolvere in maniera diplomatica, ma fare la guerra no. Confido che le cose si sistemino».
È un incallito ottimista o sbaglio?
«Bisogna esserlo. Lo sono stati tutti i pensatori in fondo, Leopardi stesso non era pessimista, ha parlato di infinito e del naufragar “dolce” in questo mare. Dopo che cosa c’è? La morte, la fede, l’infinito? Non lo so, ma ci voglio credere. Sarà poi che ho vissuto molto a Napoli, c’è una parola che ne racchiude la filosofia e torna utile in questi tempi bui: “Futtetenne”».
Giannini: a 80 anni ho fatto un po’di tutto e lo farò ancora. Nicola Santini su L’Identità il 3 Gennaio 2023
“Per l’altissima rilevanza artistica delle opere che l’hanno visto protagonista, per la straordinaria potenza emotiva e la profonda sensibilità delle sue memorabili interpretazioni, per aver impresso la sua pregiata cifra stilistica alle pagine più raffinate, colte e preziose del cinema italiano e internazionale”. Con questa motivazione Giancarlo Giannini si è portato a casa il premio alla carriera Marateale In Winter 2022 Award.
Attore, doppiatore e regista di fama internazionale, continua a far incetta di premi importanti. E a ottant’anni compiuti lo scorso primo agosto, non ha nessuna intenzione di fermarsi. Con la grinta e l’entusiasmo degli esordi, si racconta a L’Identità.
Giancarlo, un altro importante premio, per la sua lunga carriera…
Sì, non è il primo premio che mi è stato consegnato che celebra il mio percorso professionale che spero non termini domani (ride, ndr). A parte gli scherzi, credo anzi che riconoscimenti come questo allunghino la vita. Anche per questo, ringrazio il patron della manifestazione, Nicola Timpone, per aver pensato a me per questo prestigioso riconoscimento.
Si dice che nel cinema di oggi manchino i talenti di una volta: lei cosa ne pensa?
Non sono assolutamente d’accordo, anzi. Ho sempre pensato che il cinema italiano abbia sfornato gli attori più bravi al mondo: non è un caso se persino nel sangue di quelli americani più bravi scorra un po’ di sangue italiano. Non credo ci sia una crisi di talenti in questo senso. Forse oggi c’è una fase discendente ma, come in tutte le cose, è naturale che risalirà. Se guardiamo la storia dello spettacolo italiano e internazionale possiamo renderci conto che è fatta di cicli.
Quest’estate sei stato premiato anche al Fara Film Festival, dove ti hanno reso omaggio con la proiezione di un tuo classico “Pasqualino Settebellezze”…
A Lina Wertmuller devo tutto, un genio, una persona che scriveva sceneggiatura, si intendeva di regia, era stata aiuto regia di Federico Fellini, aveva una fantasia pazzesca, conosceva gli attori, i ritmi, la musica. I film suoi mi hanno dato il successo. Poi ho avuto anche altri maestri come al teatro Orazio Costa, ho lavorato con grandi registi da Coppola a Visconti a Monicelli, ho fatto un po’ di tutto e continuo a farlo.
Lo streaming, e soprattutto le serie tv, stanno portando meno persone nelle sale cinematografiche. Lei cosa ne pensa?
Ormai tanti attori, anche i più grandi a livello internazionale, hanno partecipato ad una serie tv. Anche io ultimamente ho preso parte a due progetti di questo tipo. Il cinema, come tutte le cose, è in evoluzione. Anche l’immagine è cambiata, complice la tecnologia. Qualcosa è successo: ancora non si è capito bene ma si capirà. Ve lo dice un uomo che in realtà non è un attore ma un elettronico: le studiavo cinquant’anni fa queste cose (sorride, ndr).
Un tempo le serie televisive, per gli attori di primo livello, rappresentavano un’alternativa meno allettante rispetto ai film…
Oggi, però, non è più così. Ci sono tantissimi progetti seriali che vengono realizzati con una qualità altissima, con dietro un lavoro fatto di precisione e ricercatezza. Credo che lo scenario sia completamente cambiato.
Sempre a proposito di serie, da novembre su Sky la vediamo ne “Il grande gioco” dove interpreta il potente Dino De Gregorio…
Un ruolo molto complicato, quello di Dino, un procuratore che è ben diverso dai personaggi che avevo finora interpretato. Per non parlare del fatto che la prima volta che ho letto il copione, non sapevo di cosa si stesse parlando. Non sapevo proprio nulla di calciomercato. Fortunatamente, però, ho avuto modo di confrontarmi con qualche amico che, contrariamente al sottoscritto, aveva seguito un po’ di più questa vicenda sui giornali…
Cosa bolle in pentola che non abbiamo ancora visto?
Di recente ho lavorato su due set: un film dove interpreto un Papa, e uno (“Book Club2 – The next chapter”, ndr) con grandi attrici americane, Diane Keaton, Jane Fonda e Mary Steenburgen, che ho finito proprio di recente a Venezia. E poi ci sono altri progetti in ballo di cui potrò parlare nel corso del 2023.
Giancarlo Magalli.
Andrea Scarpa per il Messaggero domenica 9 luglio 2023.
Rai e Mediaset hanno appena presentato i loro nuovi palinsesti: per ora lei non compare da nessuna parte, giusto?
«Che io sappia, no. C'è anche da dire che non voglio far carriera: un impegno di due ore, tutti i giorni, per nove mesi, non lo reggerei più. Per questo due anni fa ho lasciato I fatti vostri».
Ai giardinetti a spasso con il cane non ce la vedo.
«Anch'io non mi ci vedo. Infatti faccio l'opinionista, l'ospite, mi diverto su Tv8 con la Gialappa's... Loro, se mi vogliono, andrò a trovarli più spesso».
Progetti suoi ne ha?
«Certo. Ma nessuno me li chiede perché ormai si fanno sempre gli stessi programmi e le idee non servono più. In video vanno solo i format stranieri che neanche si perde tempo ad adattare».
(…)
Quelli che ci sono adesso si sono fatti vivi?
«Mi avevano promesso una telefonata sia Angelo Mellone, che adesso guida il Day Time, sia il direttore generale Giampaolo Rossi, ma finora non li ho sentiti. Non è un problema: lavoro con la Rai dal 1964, senza mai una raccomandazione, e ho avuto buoni rapporti con tutti i manager, da Milano a Fuscagni, da Giordani a Voglino e via elencando. Tutti tranne Del Noce e Saccà, ovviamente».
Il primo nel 1998 le tolse la conduzione di "Cervelloni" e "Fantastica italiana", show poi naufragati, e il secondo nel 2004 non la confermò a "Domenica In" dopo una stagione fortunatissima: ha detto loro come la pensava?
«Certo. Sempre. Senza sconti. Ora però vorrei solidarizzare con Del Noce, che vive in Portogallo per pagare meno tasse sulla pensione: una cosa tristissima...
(ride)».
Anche lei è in pensione?
«Sì, da quando ho 60 anni. Non è d'oro, ma almeno la Rai ha sempre versato i contributi. Certo, ora dovrò pagare la Volpe...».
Nel 2021 il Tribunale di Milano l'ha condannata per diffamazione a risarcirla di circa 40 mila euro: è arrivato il momento di fare il bonifico?
«Non ancora. Faremo una transazione modesta. Che comunque non mi consola: 7 anni di beghe legali e 8 di lavoro con lei sono 15 anni di vita che nessuno mi restituirà (ride)...».
Guardì, grande capo dei "Fatti vostri", ha detto che lei per una battuta farebbe di tutto: quella che le è costata di più?
«Negli Anni 90 non mi fecero condurre Sanremo perché i discografici si opposero: "Magalli fa troppe battute...". E poi, da quando la Rai si è inventata le multe a chi fa dichiarazioni non concordate con l'ufficio stampa, ho speso circa 50 mila euro».
Guardì gli auguri gliel'ha fatti o non vi parlate più?
«Due volte. La prima mi ha chiamato il 1° luglio. "Michele, è il 5", gli ho detto. E lui: "Minchia, mi sono sbagliato". In 30 anni di lavoro insieme abbiamo discusso, ma non abbiamo mai litigato».
Insegno condurrà "Il mercante in fiera" su Rai2 e "L'eredità" su Rai1: lei un impegno come il suo l'avrebbe accettato?
«Pino è un amico, lo stimo e gli voglio bene. Però entrare in azienda con la bandiera "Sono amico di Giorgia" lo esporrà a tanti attacchi. E poi lui è divisivo: è anche laziale...».
(…) Quando a Palazzo Chigi c'era Mario Draghi, suo vecchio compagno di classe al liceo Massimo di Roma, è mai passato a prendere il caffè da lui come ha fatto Insegno con il premier Meloni?
«No. Mario non lo vedo dai tempi della scuola. Nel corso degli anni ci siamo scritti qualche lettera, ma ovviamente abbiamo sempre frequentato gente e posti diversi. Poveraccio Mario, chissà quanti noiosissimi incontri ufficiali si è fatto...».
Barbara D'Urso, non confermata da Canale 5, dice di non aver mai fatto televisione trash: che ne pensa?
«Quello che faceva lei era il monumento al trash. Un modo di fare tv non dico brutto o sbagliato, ma estremamente ruffiano, con una grande dose di insincerità. Per sembrare amica del pubblico, con il cuore, esagerava ogni cosa. A me non è mai piaciuta. E poi mi ha tolto il saluto perché nel 2003 non la invitai nella giuria del programma La grande occasione, dedicato agli imprenditori. Che c'entrava?».
(…)
Estratto dell'articolo di Andrea Parrella per fanpage.it il 29 maggio 2023.
È un Magalli polemico, quello che su Facebook si scaglia contro Michele Guardì, con cui per un trentennio ha dato vita a I Fatti Vostri, prima della separazione di oltre un anno fa. Il conduttore, da qualche tempo lontano dalla Tv, ha pubblicato sui social un post in cui attacca proprio Guardì, contestandogli un totale silenzio sulla sua persona nonostante, nelle ultime settimane, stia girando in diverse trasmissioni Tv per presentare il suo libro.
[…]
Queste le sue parole: “Michele Guardì è stato ospite in parecchi programmi ultimamente, soprattutto a promuovere il suo libro, e non mi ha MAI nominato. Trenta anni di Fatti Vostri non meritano una menzione da parte sua. Cita solo quelli che non ci sono più, come Castagna e Frizzi, ma se per essere citati da lui bisogna morire mi va bene così”.
Poi il post di Magalli si rivolge proprio all'attuale conduttore de I Fatti Vostri, Salvo Sottile, ipotizzando che il silenzio di Guardì abbia altri motivi: "Forse non vuole scontentare Salvo, che da qualche tempo ha iniziato una strana campagna nei miei confronti dicendo che lui ora raddoppia i miei ascolti di un tempo, dimenticando che ora lui ha Fiorello ad aiutarlo ed io avevo il Covid a danneggiarmi e (niente pubblico, niente orchestra, niente ospiti in studio, niente trucco e sartoria, ecc. )e comunque il 7/10% che fa lui ora non è il doppio del 6/9% che facevo io. Ma pazienza. Io sono comunque felice. E vivo". […]
Estratto dell'articolo di Giulia Cazzaniga per “La Verità” l’8 aprile 2023.
Gli domando se abbia il desiderio di fare questa intervista, e si sincera che non si voglia parlare solo della sua malattia. «Me lo chiedono in troppi, sarà che il dolore è diventato una moda. Vedo gente nei talk a parlare dei guai di salute che ha avuto… So che fa parte della vita, e so pure che la drammatizzazione attira il pubblico, penso però che la comunicazione debba avere, anche, un ruolo consolatorio».
Giancarlo Magalli, oltre 50 anni di carriera in Rai, qualche settimana fa ha raccontato di aver affrontato un linfoma alla milza. Non si fosse curato, rischiava di avere due mesi di vita. Ha perso 24 chili, ora li sta riprendendo: «Grazie a Dio ho ricominciato a mangiare, muovermi e camminare dopo sette mesi a letto».
È pronto per tornare in tv?
«Vediamo, intanto mi voglio riprendere al meglio e non posso affrontare sfide impegnative. Mi piacerebbe fare ad esempio la giuria in qualche programma divertente, o l’opinionista…».
In Rai o in Mediaset?
«La Rai è casa mia da sempre. L’anno scorso ho parlato con Alfonso Signorini per fare l’opinionista in studio al Grande Fratello, sarebbe stato divertente, vedremo cosa succederà per la prossima edizione».
[…]
Una parolaccia è scappata pure al Lucia Annunziata. Non le è mai successo in tanti anni in onda?
«Mai, ma che scherza? Sono nato in un’epoca in cui già dire “casino” era da tirata d’orecchi. Nella Rai in cui lavoravo si è eleganti e professionali».
Perché è servizio pubblico?
«Lo stile era, semplicemente, questo: ci si diceva che le cose andavano fatte per bene, ci si raccomandava che non ci fossero vallette seminude o sederi di fuori… e poi quando il programma andava bene ma faceva un punto in meno della concorrenza qualcuno ipotizzava che un sedere si sarebbe potuto pure mettere» (ride).
[…] Ma è il varietà la mia grande passione, e purtroppo non se la passa bene».
Ha perso smalto?
«È un po’ scaduto, sì. Prima si faceva con molta cura, il varietà.
Una puntata cominciava alle 20:30 e finiva alle 21:20: quei cinquanta minuti erano provati e registrati per un’intera settimana. Prenda il balletto: ora lo hanno tolto, per risparmiare, ma era centrale. Per cinque minuti di messa in onda servivano un giorno di registrazione e tre di prove. Lo spettacolo, allora, doveva essere perfetto. Non è un caso che quando propongono qualche amarcord piaccia ancora e tanto».
Di chi è colpa se si peggiora?
«Sarà che registi alla Antonello Falqui non ce ne sono più. O dirigenti come Giovanni Salvi, Bruno Voglino, Emmanuele Milano… Ora la tv è fatta da manager che per lo più guardano a spendere poco e far quadrare il bilancio, e rinunciano a cose belle. Dal balletto ai costumi, alle scene».
[…]
Non è che la lottizzazione politica ha contribuito?
«Mah, guardi che la Rai è sempre stata dipendente dalla politica.
Continuiamo a cambiare governo e ogni volta si ricomincia: nuovi dirigenti che devono imparare dal principio. Io sono entrato in Rai ai tempi della Democrazia Cristiana, ed Ettore Bernabei non faceva certo un segreto di esser stato messo lì da Amintore Fanfani».
Poi furono i socialisti…
«E non fu un bel periodo, perché arrivarono con la consapevolezza che non sarebbero durati molto e hanno occupato tutto, hanno fatto il sacco di Roma. Poi ci sono stati i radicali, i comunisti, e di nuovo i democristiani…».
E lei sempre lì.
«Mi sono sempre salvato perché lavoravo bene. Si ricorda cosa diceva Enzo Biagi? Dobbiamo prenderne uno democristiano, uno socialista, uno comunista e uno bravo. Ecco io ero quello lì, quello bravo e senza tessera politica. La politica non fa bene alla tv perché il turnover impazzito non dà modo di fare esperienza. Ora chi sta lì sa che dovrà andarsene, e succede ogni due o tre anni».
La Ministra delle Pari Opportunità Eugenia #Roccella (#FdI) da Lucia Annunziata annuncia di volere una nuova legge contro la maternità surrogata, secondo lei non davvero perseguita nel nostro Paese.
Non sotto la torre di Cologno dei Berlusconi.
«Hanno il vantaggio di esser sempre gli stessi, sì. Oggi è una realtà molto professionale. Agli inizi no, la guardavo con terrore e non mi piacevano le veline attira-pubblico».
In principio fu per lei Economia e commercio…
«Finito il militare, andai a fare il primo animatore del primo villaggio vacanze d’Italia, sul Gargano. Imparai molto, e conobbi giovani artisti che scritturavo a poco prezzo. Esordienti come i Gatti di Vicolo Miracoli, Troisi, Verdone… Li chiamai poi a Non stop, un programma che mi consacrò come autore. Eravamo tutti amici».
Quindi l’università.
«A dir il vero fu Scienze politiche prima - la scelsi proprio perché era quella con meno esami - e poi Economia perché mio padre avrebbe voluto lavorassi in una compagnia di assicurazioni come lui».
Eppure anche papà lavorò nello spettacolo, o meglio nel cinema.
«Quando ero bambino era direttore di produzione. Son stato in braccio ad Ava Gardner, sul set. A giocare con Gina Lollobrigida. Sulle ginocchia di Humphrey Bogart.
Mio padre poi lasciò, per un lavoro più noioso ma in cui si guadagnava bene».
Qual è il suo rapporto con il denaro?
«Non mi lamento. Non è roba da Hollywood, ma in tanti anni di carriera mi son guadagnato quanto basta per una vita decorosa e per fare bellissimi viaggi che sono una passione per me, mia moglie e le due figlie. Viaggiava con noi anche mia madre. Ho comprato casa alle ragazze e me ne sono potuta permettere una con un giardino all’Olgiata, da dove le sto parlando ora. C’è silenzio, qui».
[…]
Gli inizi in tv con Gianni Boncompagni.
«Un grande amico, venne ad abitare nell’appartamento vicino al mio. Fui io il primo a metterlo in contatto con il mondo della radio: aveva uno studio di fotografia sulla Cassia, ma era destinato ad altro. Lavorai anche a Bandiera gialla, che fu una rivoluzione per l’epoca. Per la tv, con Gianni, scrivemmo Illusione, era il 1982. Un varietà carino, con il mago Silvan, la Rettore…».
E si accorsero di lei?
«A dire il vero finché i conduttori più noti non andarono in Mediaset non scommisero molto su di me. “Bravo ’sto Magalli, uno nuovo”, scrissero di me Beniamino Placido e Giancarlo Fusco, che erano i critici dell’epoca. Ma dovetti attendere qualche anno, per sostituire alla conduzione Enrica Bonaccorti un giorno che aveva avuto un problema di salute».
È vero che lei fu il padrone di casa di Raffaella Carrà?
«Le affittai la casa dei miei genitori, l’appartamento confinante con quello di Boncompagni, quando si fidanzarono. Poi glielo diedi in permuta e mi stabilii al piano di sopra al loro».
Com’era, averli come vicini?
«Gianni era un appassionato di musica, quando accendeva gli impianti tremava il palazzo. Ma non era mica rumore. Casa sua era una specie di paese delle meraviglie, con gente che suonava, cantava o parlava di musica a qualsiasi ora. Ho conosciuto da lui Lucio Battisti, Dalla, Tenco…».
Ha condotto I Fatti vostri per quasi 30 anni.
«Con qualche interruzione, sì. Un programma faticoso, quotidiano, con contenuti spesso drammatici. L’ultimo anno con il Covid è stato micidiale».
Ospiti sgradevoli?
«Non ne ho memoria, no. L’unico che non mi piacque era quando conduceva Fabrizio, Frizzi».
Chi era?
«Craxi. Fu di un’antipatia estrema. Superbo e supponente. Ringraziai di non esserci io a intervistarlo, non sarei riuscito a non trattarlo male».
Estratto dell’articolo di Renato Franco per corriere.it il 22 gennaio 2023.
Dimagrito e provato. Giancarlo Magalli si è riaffacciato in pubblico dopo aver superato la malattia («un linfoma alla zona della milza») e ha raccontato il suo ultimo terribile anno […] a Verissimo. «Oggi sto bene, ma ho perso 24 chili» ha rivelato a Silvia Toffanini.
Tutto è cominciato con un’infezione , quindi la diagnosi di un linfoma: «Un tumore. Ma per fortuna il linfoma appartiene a una categoria di tumori che ha una buona caratteristica: si può curare. Me l’hanno detto subito: la cura si fa per qualche mese, si fa la chemioterapia e in effetti ora non ce l’ho più.
Sono guarito, ho riperso le attività normali. Sto solo facendo un’ultimissima terapia molto leggera e breve, diciamo una rifinitura». Per Magalli sono stati 7 mesi durissimi, «tra ricoveri a casa e fuori casa, sono stato tanto a letto, quindi dovevo fare anche fisioterapia, mentre mi facevano tre iniezioni al giorno e prendevo otto pasticche.
Accanto a lui le sue due figlie: «Appena hanno scoperto il linfoma alle mie figlie hanno detto: se si cura guarisce; se non si cura tra due mesi muore. Per fortuna a me l’hanno tenuto nascosto. Loro erano terrorizzate.... Oggi sto bene, non ho problemi a mangiare, a dormire, a camminare. Non speravo di poter arrivare tutto sommato così velocemente a una conclusione così buona». […]
Giancarlo Magalli torna in tv: «Ho avuto un linfoma, sono dimagrito di 24 chili». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.
Il conduttore ha raccontato la sua terribile esperienza a Silvia Toffanin
Dimagrito e provato, ma sempre con il guizzo ironico in tasca. Giancarlo Magalli si è riaffacciato in pubblico dopo aver superato la malattia («un linfoma alla zona della milza ») e ha raccontato il suo ultimo terribile anno davanti alle telecamere di Canale 5 (Verissimo). «Oggi sto bene, ma ho perso 24 chili». Scherza subito: «Questo è quello che resta di me... Adesso in tanti diranno: ah ecco perché non si vedeva più, ecco perché ha quella faccia smagrita e smunta».
Tutto era cominciato con un’infezione, quindi la diagnosi di un linfoma: «Un tumore. Ma per fortuna il linfoma appartiene a una categoria di tumori che ha una buona caratteristica: si può curare. Me l’hanno detto subito: la terapia si fa per qualche mese, si fa la chemioterapia e in effetti ora il tumore è scomparso. Sono guarito, ho riperso a fare le normali attività. Mi sto solo sottoponendo a un’ultimissima cura, molto leggera e breve, diciamo una rifinitura». Per Magalli sono stati 7 mesi durissimi, «tra ricoveri a casa e fuori casa; ogni giorno tre iniezioni e otto pasticche; ho passato tanto tempo a letto e quindi ho dovuto fare anche tanta fisioterapia». Accanto a lui sempre le due figlie: «Appena hanno scoperto il linfoma i medici hanno detto: se si cura guarisce; se non si cura tra due mesi muore. Per fortuna a me l’hanno tenuto nascosto. Loro erano terrorizzate.... Oggi sto bene, non ho problemi a mangiare, a dormire, a camminare. Non speravo di poter arrivare tutto sommato così velocemente a una conclusione positiva». A occuparsi di lui non erano solo le due figlie: «Di me si preoccupavano anche le loro mamme, tutte e due separate da me. Devo ammettere che ho avuto due divorzi da manuale: nessun litigio, niente avvocati né ferri corti. La seconda moglie mi ha sostituito con il cane... Ho anche buoni rapporti con i loro attuali compagni: ci vediamo, usciamo insieme. Altro che allargata, siamo una famiglia spalancata».
Il calvario era iniziato con «un’infezione seria, avevo la febbre a 40 e mi hanno portato al Pronto Soccorso. Non so come mi hanno curato, forse con dei funghi allucinogeni: vedevo cose che non esistevano e facevo cose che non avrei dovuto fare, tipo strapparmi il catetere». Non casuale infine la scelta — lui, storico volto Rai — di raccontarsi a Mediaset: «Chi si è preso i miei programma aspettava che non mi rimettessi in piedi...».
Giancarlo Magalli racconta la sua malattia: "Ho sconfitto un linfoma". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 22 Gennaio 2023.
Il conduttore televisivo ha parlato a 'Verissimo' accanto alle due figlie Manuela e Michela. "Ho perso 24 kg. L'ho curato e adesso non c'è più"
Dopo un anno dalla rottura con Rai1 Giancarlo Magalli è tornato in televisione ospite del programma Verissimo di Canale 5 condotto da Silvia Toffannin il 22 gennaio. Il presentatore è apparso decisamente irriconoscibile, accompagnato dalle figlie Manuela e Michela. Visibilmente dimagrito racconta in una toccante intervista della sua malattia e del lungo percorso per combatterla.
Scomparso all’improvviso dalle scene, il conduttore televisivo aveva annunciato il tema della propria intervista con un post sulla sua pagina Facebook: "Oggi pomeriggio a Verissimo racconto assieme alle mie figlie cosa mi è successo e perché sono stato lontano dalla tv per qualche mese. Spoiler: è finita bene". A quanto pare la causa principale che ha messo momentaneamente in pausa la sua carriera è una brutta malattia. Il primo campanello d’allarme è un dolore alla milza, un malore a cui dà poca importanza all’inizio perché lo riconduce a una caduta fatta poco tempo prima. Nel momento in cui il dolore diventa sempre più persistente, il conduttore decide di fare alcuni accertamenti nel corso dei quali scopre di avere in corso un’infezione per cui viene ricoverato. L’infezione passa, ma sopraggiunge una doccia fredda: scopre di avere un linfoma vicino alla milza. "Alla diagnosi avevano detto alle mie figlie: se si cura guarisce, ma se non si cura vivrà due mesi" racconta alla conduttrice di Mediaset. Si è così sottoposto a un percorso di chemioterapia e fortunatamente, come annunciato nel suo post su Facebook, "è finita bene".
Giancarlo Magalli ha perso ben 24 chili a causa di una malattia che ha scoperto per caso solo la scorsa estate a causa di una infezione: "Questa è la prima volta che mi si rivede in tv dopo alcuni mesi difficili. E’ stata una fase delicata e mi piaceva parlarne in modo delicato - ha spiegato a Silvia Toffanin - ho perso 24 chili, questo è quello che resta di me anche se sto poco alla volta riprendendo, perchè sono guarito da quello che ho avuto". Per il conduttore, che oggi ha 75 anni, tutto è iniziato un anno fa, con dei forti dolori alla milza.
"Ho preso un'infezione molto seria. Sono stato ricoverato per questa infezione, avevo delle visioni. Vedevo cose che non esistevano. Lì facevo anche cose, forse sotto effetto di questi farmaci, che non avrei dovuto fare, ad esempio mi sono staccato i cateteri che avevo addosso. Mi hanno detto che dovevano legarmi al letto, volevo morire all’idea di essere legato - ha ricordato - la prima cosa bella nella disgrazia è che le mie famiglie si sono mobilitate facendo dei turni di sentinella accanto al mio letto ogni notte. A turno, ogni sera avevo una figlia, la prima moglie, la seconda moglie, tutte persone che mi sono sempre state care e che ora lo sono ancora di più. Se avevo paura? In realtà no perchè poi l’infezione è finita. Abbiamo proseguito gli accertamenti interrotti con l’infezione ed è venuto fuori che avevo un linfoma nella zona della milza. Come sai è un tumore ma si può curare". Magalli si è sottoposto ad un percorso di chemioterapia.Grazie alle cure giuste Giancarlo Magalli si è ripreso e oggi si è detto pronto a tornare a lavorare in televisione. "L’ho curato e adesso non ce l’ho più. Sono guarito e ho ripreso le mie attività normali. Sto facendo un'ultimissima cura. In tutto è durato sette mesi. Tra i colleghi lo sapevano in pochi", ha concluso.
"Mi avevano dato due mesi di vita". Giancarlo Magalli irriconoscibile in tv dopo il tumore. A distanza di mesi dalla diagnosi il noto presentatore è tornato in televisione per raccontare il dramma vissuto nell'ultimo anno: "Sono guarito da un tumore alla milza". Novella Toloni il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Chi lo ha visto entrare in studio con il volto smagrito e provato ha faticato a riconoscerlo. Quello che si è presentato a Verissimo nella puntata domenicale del programma di Canale 5 è un Giancarlo Magalli molto diverso da quello che i telespettatori erano abituati a vedere sul piccolo schermo. L'ultimo anno è stato il più difficile per il conduttore, che ha dovuto combattere la sua battaglia più complicata: quella contro un linfoma alla milza. Eppure il sorriso è quello di sempre, quello di chi sa di avere superato il peggio.
"Se sono qui oggi è perché sono guarito. Mi avevano dato due mesi di vita, o meglio lo sapevano solo le mie figlie", ha confessato Magalli a Silvia Toffanin, spiegando di avere scelto di raccontare la sua storia a Verissimo per la delicatezza del tema. Nonostante sia uno storico volto Rai, il conduttore ha scelto di fare la sua prima apparizione pubblica dopo la malattia negli studi Mediaset e ha svelato perché è sparito dalla circolazione negli ultimi dodici mesi.
Il ricovero per un'infezione
"Sentivo un dolore alla milza, ma ero caduto e pensavo fosse una conseguenza - ha spiegato Magalli -. Quando ho visto che non passava sono andato a fare degli accertamenti e hanno visto che c'era qualcosa di strano. Avrei dovuto fare ulteriori esami ma ho preso un'infezione seria con febbre alta e deliri e sono stato portato in ospedale e curato per questa infezione". Era lo scorso giugno e da quel momento è iniziato il suo calvario. Le figlie e le ex moglie si sono prese cura di lui durante il ricovero complicato da sintomi gravi, che lo hanno portato a rischiare la vita. Ma una volta guarito è arrivata la sentenza.
La scoperta del tumore e la lotta per sopravvivere
Tornato in salute, Magalli si è sottoposto agli ulteriori accertamenti rimasti in sospeso e ha scoperto di avere un linfoma alla milza. "Si tratta di un tumore ma di quelli che, fortunatamente, si possono curare", ha rivelato, parlando della chemioterapia affrontata nei mesi successivi grazie alla quale è guarito: "Ma è stato difficile, mi è costato sette mesi tra ricoveri e cure a casa. Sono stato tanto a letto e ho dovuto fare fisioterapia perché non camminavo più bene".
"Vai in pensione...": Magalli nel tritacarne per Don Matteo
Magalli ha ammesso di non essere stato a conoscenza della gravità della sua malattia subito, ma dopo: "Alle mie figlie hanno detto: 'Se si cura guarisce, se non si cura tra due mesi muore'. A me non l'hanno detto ma loro si sono terrorizzate e mi hanno accudito con affetto e attenzione". Ora il conduttore si sente bene ma ha spiegato perché non ha dato la notizia della sua malattia: "Non ne ho parlato per scaramanzia e perché non sapevo in che direzione si andava. Chi lo sapeva aspettava che mi rimettessi, chi si è preso i miei programmi si aspettava non mi rimettessi, probabilmente".
Il ritorno in televisione
Il conduttore ha confessato di avere perso ventiquattro chili a causa della malattia, ma se c'è una cosa che non ha perso sono i toni provocatori quando si parla del suo lavoro. "I rapporti con la Rai? Pago il canone e aspetto che si facciano vivi", ha ironizzato Magalli ricordando la sua lunga carriera (50 anni) sulle reti di viale Mazzini. "So bene quali sono i limiti della Rai. Quando dissi che la riconoscenza non era il loro forte, ero un po' arrabbiato ma è vero. La Rai cambia continuamente, quindi ci sono persone che non vedono l'ora di farti lavorare e altri che non vedono l'ora di fare lavorare qualcun altro", ha dichiarato pungente come lo è sempre stato. E alla fine non è mancata la stoccata: "Spero di tornarci. Ho scritto a Coletta per fargli sapere che ero vivo e vegeto e nella speranza che si possa ricominciare. E gli converrebbe, perché tutti i programmi che ho lasciato e hanno dato a qualcun altro sono andati così così". La Rai è avvisata.
Gianluca Colucci: Gianluca Fru.
Gianluca Fru: «Prima dei The Jackal ero un esempio di emarginazione. Ora incontro i miei idoli». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2023.
L’attore, volto del collettivo, esce con un libro: «Come imparare tutte le bandiere del mondo con il metodo Fru». E dice: «La geografia serve per aprire gli orizzonti»
Il papà di Gianluca Colucci, per tutti Gianluca Fru, talento e ricci dei «The Jackal» , lavora in mare. «Per questo a casa nostra c’era una agenda nautica con tutte le rotte di navigazione», spiega. «In questa agenda c’erano anche tutte le bandiere statali e nautiche del mondo: ecco, io e mio fratello Fabiano, di due anni più grande, ci siamo appassionati a questi colori, ai simboli». E non si fatica a credergli visto che, ora, Fru alle bandiere ha dedicato addirittura un libro: Come imparare tutte le bandiere del mondo con il metodo Fru . Sottotitolo: Anche se non vi servirà mai.
Doveva essere proprio una bella agenda...
«Sì. Mio fratello era ossessionato dalle bandiere e ha imparato molto prima di me a riconoscerle quasi tutte. Io, figuriamoci, ho fatto fatica a memorizzare l’alfabeto: ci sono riuscito intorno ai 7 anni. Non sono mai stato un asso della memoria eppure tre anni fa, durante una quarantena, in piena noia e chiuso nella mia stanza ho scaricato un app dedicata alle bandiere e le ho imparate tutte. Insomma, anche io come mio fratello ora ho questo super potere».
Da allora ne parla spesso, anche sui suoi social, dove è ultra seguito: 710 mila follower solo su Instagram che diventano quasi due milioni se si passa all’account del suo gruppo, i «The Jackal».
«Le bandiere ti spingono ad essere curioso verso il mondo. Ti viene voglia di scoprire Paesi di cui a malapena conosci l’esistenza. Forse non è un caso se la mia altra passione sono le lingue... ma le bandiere sono il biglietto da vista di ogni nazione».
Cosa l’ha colpita di più?
«Sono un grande appassionato e non uno storico... vorrei proporre una fusione con il prof Barbero ma lui per ora mi rifiuta. Detto questo, mi ha colpito capire le ragioni che ci sono dietro la scelte di simboli e colori. Anche dietro il nostro tricolore, più complesso di quello che si pensi. Mi piace ma dal punto di vista grafico non è la più accattivante. Mi piacciono bandiere complesse come quella del Belize o del Turkmenistan. La mia preferita è del Sud Africa».
Quale è quindi il suo metodo per memorizzare?
«L’intuizione è fissare nella mente quegli elementi che balzano all’occhio. Insomma è tutto un processo di associazioni mentali a cui ho unito dei giochi enigmistici per fare pratica».
Sa di essere eccentrico?
«Per me scrivere un libro su questo argomento è un sogno. Forse l’editore poi si è pentito anche visto il mio essere ossessivo e meticoloso. Ma ormai era fatta».
Che rapporto ha oggi con suo fratello?
«Questo lavoro è dedicato a lui. Mi ha aiutato tanto nella scrittura. È sempre stato un talento nato della memoria e un grandissimo studioso. Posso dire che è il mio più grande fan e supporter. Tra noi spesso scatta il gioco del riconoscere le bandiere: era il nostro gioco anche da bambini. Ora l’ho superato».
Lui sarebbe d’accordo o lo dice solo lei?
«Fabiano ha capito che per me è diventata una missione di vita. Io ormai cerco di memorizzare anche quelle di nazioni non riconosciute. Solo nel libro ce ne sono 194, io ne conosco oltre 250 ma non le ho contate di preciso: non sono a questo livello di pazzia».
Ci sono poi le bandiere delle squadre di calcio. Le ama?
«Molto. La bandiera è appartenenza, è cultura, identità. Sono un mezzo comunicativo potentissimo».
Anche i «The Jackal» hanno un simbolo: quello sciacallo con la bocca aperta.
«È vero. E siccome anche loro conoscono bene questa mia ossessione, sono tutti molto felici del fatto che abbia smesso di ammorbarli per concentrarmi sul libro. Ne ho curato ogni aspetto, anche il carattere, l’impaginazione».
Nella sua famiglia si aspettavano che sarebbe diventato tanto famoso?
«L’unico a non esserne sorpreso è stato proprio mio fratello. Mio padre, anche quando avevo iniziato a lavorare con i The Jackal continuava a propormi concorsi pubblici sperando cambiassi idea».
Non l’ha fatto.
«L’obiettivo di gran parte della mia adolescenza era lavorare nell’intrattenimento. Poi va detto che non sono mai stato un campione di socialità e nemmeno particolarmente popolare a scuola. Ero passato a vivere da un paesino piccolo della Calabria alla periferia di Napoli: in altre parole ero un esempio dell’emarginazione, ma credo che il mio desiderio di scoprire il mondo e la voglia di rivalsa vengano da lì».
Un suo sogno?
«Mi piacerebbe che a scuola si tornasse a insegnare geografia come si deve. So che è facile criticare il sistema scolastico e non ci si rende conto di quanto sia difficile insegnare, ma sarebbe interessante se si trattasse in modo diverso una materia talmente ricca e pratica che può cambiare la vita dei ragazzi, specie di quelli relegati in contesti periferici. Possono sognare toccando con la mente nazioni esotiche e lontane».
Oggi sempre più si sceglie di viaggiare virtualmente, attraverso i social.
«È un paradosso. Come l’idea che il viaggio sia diventato importante nella misura in cui si mostra agli altri quello che facciamo anziché interiorizzare le esperienze. Bisogna imparare a scegliere posti che ci arricchiscano, tornare a quello. Almeno secondo Gianluca Fru, un filosofo che non ce l’ha fatta».
Una star dei social che ne prende in parte le distanze. Sempre più eccentrico.
«Viviamo in un mondo iper connesso e globalizzato ma tendiamo a isolarci nelle nostre bolle mediatiche, costruite da algoritmi, ci mostrano quello che più ci piace. Per me è assurdo che non ci venga insegnato da bambini di quanti Paesi è formato il mondo in cui viviamo, ma non è mai troppo tardi per aprire la mente. Ed è qualcosa che dico anche sui miei social. Se con il mio libro farò imparare a qualcuno anche solo una bandiera in più e ad aprire un po’ gli orizzonti, per me sarà un nuovo traguardo raggiunto».
Sente di essere riuscito a fare quello che sognava?
«Beh, il sogno è realizzato, almeno stando alla quantità di video saluti che mi vengono chiesti. Ho detto ai miei genitori che devono filtrare le richieste, tipo gli irrinunciabili, perché davvero passo il mio tempo a fare quello. Tipo fai un video saluto al figlio del cugino del calzolaio... ma poi, perché vogliono che li video saluti? È a comando».
Lei non vorrebbe un video saluto di qualcuno?
«Beh io ho scelto il mio nome, Fru, per John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, una mia passione adolescenziale totale, assurda, quindi un suo video saluto mi farebbe impazzire, in effetti. Ma sapendo quanto è schivo — non ha neanche i profili social — se anche mai lo dovesse fare sarebbe controvoglia».
In questi anni ha conosciuto qualcuno dei suoi miti?
«Grazie a questo lavoro mi trovo in situazioni surreali, fianco a fianco con dei miei grandi miti. Di recente, ero a un evento con i Black Eyed Peas: folle. Ho anche incontrato i Black Keyes: mi ero preparato tutto un discorso, volevo dire che anche io studiavo basso elettrico, e invece non sono riuscito a dire niente... Pensandoci un video saluto è una buona soluzione».
Gianluca Grignani.
Luca Dondoni per “la Stampa” – Estratti il 6 febbraio 2023.
(...)
Il suo brano, «Quando ti manca il fiato», parla del rapporto tra un padre e un figlio. Il suo vive in Ungheria e non lo vede da 15 anni. E ascoltando il brano l'impressione è che lei stia parlando anche a se stesso.
«È vero, dentro c'è tutto quello che volevo dire a mio padre, che ascolterà il pezzo per la prima volta alla tv. La canzone è nata di getto dopo una sua telefonata inattesa in cui mi chiedeva se sarei andato al suo funerale. Il titolo, il fatto che mi manchi il fiato pensando alle tante cose legate alla mia vita da figlio, è la verità. È una blues ballad che ha un'immediatezza pazzesca. Emotivamente è una canzone molto impegnativa e faticosa».
(...)
Vale ancora la frase che le abbiamo sentito dire spesso: «Non sono mai stato un santo e non lo sarò mai»? Neanche adesso che ha compiuto 50 anni?
«Sì vale ancora, punto e finito. Io vivo nel caos».
Ma i momenti bui sono passati ed è stato lei stesso a parlarne con distacco.
«Arrivare a 50 non mi ha fatto impazzire e sfido qualsiasi uomo al quale si chiede di rispondere in sincerità di dire che è felice di averli. Non mi sento l'età che ho, salvo per le paranoie per i miei quattro figli. Quando hanno bisogno sanno che sono qui, in collina a pochi chilometri da loro. Non devo farli sentire in obbligo, far loro pesare che esisto. E poi c'è il tempo che passa, insomma mi ha capito, non amo parlarne».
Sarà con Arisa nella serata dei duetti di venerdì e canterete «Destinazione Paradiso».
«Faccio il filo "artistico" ad Arisa da un sacco di tempo, per me lei è un David Bowie al femminile e so che questa comparazione farà storcere il naso a qualcuno. Arisa mi ha sempre stimato tanto e io ricambio di cuore; guardatela cantare, il modo in cui fa televisione, quando recita...Rosalba ha tante facce e forse nessuna è la sua oppure è solo una grande artista che sa muoversi in questo mondo. Spero che la nostra collaborazione continui anche dopo il Festival».
(...)
Ha ascoltato qualcuna delle canzoni in gara?
«Ho sentito la cover di Olly con la Cuccarini e mi ha divertito molto. Tra l'altro Lorella è una donna bellissima e quando l'ho vista provare mi sono concentrato su di lei. È di una bellezza incredibile e mi fa piacere che lei sappia, che lo penso».
Da "Destinazione Paradiso" a oggi: tutti i Festival di Gianluca Grignani. Dopo Anna Oxa, Gianluca Grignani è l'artista con più partecipazioni all'attivo in gara a Sanremo. Dall'esordio nel 1995 ai giorni nostri, ripercorriamo la storia di Grignani al Festival. Novella Toloni il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Il primo festival di Grignani
Il ritorno sul palco nel 1999
Il suo terzo Sanremo
Il Festival del 2006
A Sanremo nel 2008
Il ritorno dopo la lunga assenza
L'ospitata a Sanremo 2022 con Irama
Gianluca Grignani in gara a Sanremo
Al festival di Sanremo ha esordito con "Destinazione paradiso" e con lo stesso brano (nella serata dei duetti) Gianluca Grignani torna sul palco dell'Ariston in gara ventotto anni dopo. Nel mezzo c'è una lunga carriera fatta di alti e bassi ma anche altri cinque festival, nei quali il cantautore non è mai arrivato sul podio ma ha lasciato comunque il segno nel bene o nel male.
Il primo festival di Grignani
È il 1994 e Gianluca Grignani si presenta a Sanremo Giovani con "La mia storia tra le dita", brano diventato poi un cult degli anni '90. La sua voce graffiante conquista tutti e pochi mesi dopo, nel 1995, esordisce sul palco dell'Ariston nella categoria Nuove Proposte con "Destinazione paradiso", che gli fa conquistare il sesto posto. Grignani ha solo 23 anni e da qui in poi conquista fama e popolarità con il suo primo album, intitolato proprio "Destinazione Paradiso".
Il ritorno sul palco nel 1999
A Sanremo Gianluca Grignani torna quattro anni dopo l'esordio. All'attivo ha già due album e qualche grana dovuta al suo carattere scontroso. Si dice che il cantante si sia rifiutato di partecipare al Festival del 1996 ma all'Ariston nel 1999 l'artista arriva sereno e pronto a mettersi in gioco con il brano "Il giorno perfetto". Ad accoglierlo sul palco nella prima serata di gara ci sono il conduttore Fabio Fazio e Letizia Casta e Grignani scherza con la coppia, cedendo i suoi occhiali da sole al conduttore prima di esibirsi. La canzone si piazza al 13esimo posto e Grignani sfrutta Sanremo per promuovere l'uscita della prima raccolta di successi.
Il suo terzo Sanremo
Tre anni dopo Gianluca Grignani viene selezionato per partecipare nuovamente al Festival, dove porta il brano "Lacrime dalla Luna". L'occasione giusta per annunciare l'uscita del suo quinto progetto discografico "Uguali e diversi". La partecipazione del cantautore a Sanremo 2002 si conclude con la dodicesima posizione, ma la vittoria arriva nelle vendite e in radio. Grignani è il più trasmesso e le vendite del suo album lo fanno schizzare in vetta alle classifiche.
Il Festival del 2006
Dopo alcuni anni di eccessi e turbolenze e l'ombra dell'uso di sostanze stupefacenti, Gianluca Grignani torna in riviera con "Liberi di Sognare". In questa edizione l'artista colleziona il peggior piazzamento di sempre e viene eliminato al primo turno. Ma in radio, come già era accaduto nel 2002, è uno dei più trasmessi e ascoltati e il suo tour è un successo.
A Sanremo nel 2008
Per la quinta volta nella sua carriera Gianluca Grignani torna a Sanremo nel 2008. L'artista è reduce da un anno difficile, coinvolto in una indagine sullo spaccio di droga, e vede nel Festival l'occasione per tornare a concentrarsi sulla musica. All'Ariston porta "Cammina nel sole" un inno di rinascita in stile country rock, che l'artista canta anche con i Nomadi nella serata dei duetti. L'esibizione su Youtube è una delle più viste della storia di Sanremo. Ma Grignani si piazza solo ottavo.
Il ritorno dopo la lunga assenza
Nel 2015 Grignani partecipa alla 65esima edizione del festival di Sanremo con la canzone "Sogni infranti". È Carlo Conti a accoglierlo sul palco nella prima uscita, che lo mette subito a rischio eliminazione. Al primo ascolto il suo brano non convince la giuria ma il cantautore riesce a conquistare la finale, dove si posiziona all'ottavo posto. Questo è anche l'anno nel quale Raf (anche lui in gara a Sanremo) finisce in ospedale per una brutta bronchite e Grignani lo sostiene a distanza, criticando la macchina organizzativa del Festival.
L'ospitata a Sanremo 2022 con Irama
Al Festival Gianluca Grignani partecipa come ospite lo scorso anno in occasione della serata dei duetti. A volerlo sul palco è Irama che scegli di portare "La mia storia tra le dita", uno dei brani più celebri di Grignani. La sua partecipazione è però sporcata da due episodi. Le voci riferiscono di una lite avvenuta nel backstage tra i due cantanti, ma la smentita arriva per bocca di Irama. Sul palco, invece, l'esibizione di Gianluca Grignani è strana, a tratti eccessiva, e qualcuno sostiene che l'artista sia arrivato all'Ariston ubriaco. Ma il pubblico, soprattutto quello social, lo ricopre d'affetto.
Gianluca Grignani in gara a Sanremo
Quella di quest'anno è la settima partecipazione di Gianluca Grignani al festival di Sanremo. L'artista porta il brano "Quando ti manca il fiato", una canzone dedicata al padre scomparso anni fa, che parla del ruolo della figura paterna. Per lui il palco dell'Ariston è come una seconda casa e davanti al pubblico si presenterà, quasi sicuramente, con occhiali da sole e cappello, due suoi tratti distintivi. Nella serata dei duetti - saltata la collaborazione con Piero Pelù - il cantautore milanese si esibirà con Arisa sulle note di "Destinazione paradiso", la canzone che ha segnato la sua carriera.
Gianluca Grignani: «A Sanremo con una canzone per mio papà: ha sbagliato ma oggi mi manca. E non so se perdonarlo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.
Il cantautore Gianluca Grignani in gara a Sanremo con «Quando ti manca il fiato»: «È un brano che mi tocca come figlio»
Gianluca Grignani se ne va dalla stanza. Il suo staff ha appena fatto partire «Quando ti manca il fiato», la canzone che presenterà in gara a Sanremo e lui non vuole ascoltarla. Si tratta di una ballad rock con lo stile del Grignani classico e un testo che è un pugno allo stomaco. Racconta di una telefonata di suo padre in cui la domanda «tu verrai o no al mio funerale?» squarcia un silenzio durato anni e apre un flusso di coscienza fra lacrime e accuse, rispetto e perdono. «Ogni volta che la sento mi toglie un dubbio e me ne mette un altro, un brano che mi tocca sia come figlio che come padre».
Papà stava male quando chiamò? C’è ancora?
«Stava bene ed è ancora in vita anche se non ci vediamo da almeno 15 anni. Vive in Ungheria. Non ha ancora sentito la canzone e non vorrei che gli scoppiasse il cuore...».
Che effetto le fece quella chiamata?
«Sarà stato una decina di anni fa, era un periodo in cui mi si era rimarginata la ferita provocata della separazione dei miei che era avvenuta quando avevo 18 anni. Era stata una separazione non gestita, ma non fra padre e madre quanto fra padre e figlio. Lui se ne è andato in maniera poco consona: ha messo in mezzo me. Mi sono sentito solo. Non aveva fatto le scelte che sto facendo io ad esempio».
Si sente simile o diverso?
«Ho paura di essere simile a una persona che ha fatto errori e che non so se dovrei accusare o scusare. Allo stesso tempo mi manca la sua immagine. Quando mi incontro con l’altro suo figlio sento di avere delle radici . La differenza è che io so dire ti voglio bene e so abbracciare, i miei genitori non lo facevano».
Anche lei è un padre, di quattro figli, separato... Ha rivissuto qualcosa della sua infanzia attraverso la loro?
«Non direi... Non vedo i miei figli (solo la maggiore, ndr) non perché non lo voglia ma perché la mia responsabilità ha fatto sì che io decidessi che questa è la cosa giusta da fare. E questo fa male. Davanti ai figli avrei dovuto gridare e invece sono stato zitto».
1995, il primo Sanremo fra le Nuove proposte con «Destinazione paradiso». Ricordi?
«Prima di iniziare questa carriera ero convinto che se il pubblico non mi avesse capito avrei mollato. Arrivai al Festival dopo la pubblicazione di “La mia storia fra le dita” che era stata capita ma non come volevo io: ebbe inizio quell’odissea che tutti dobbiamo attraversare per essere l’Ulisse della nostra stessa vita».
«Destinazione paradiso» però fu un successo da due milioni copie nel mondo...
«Appena sceso dal palco mi accorsi che tutto era una stronzata, che il rock non esisteva come lo vedevo io che avevo gli occhi puri pieni del messaggio del grunge e di Cobain. Tutto era falso negli anni 90, mi sentivo diverso e soffrivo: “La fabbrica di plastica” fu il mio grido di vendetta».
Le pesava essere un sex symbol?
«Ma che ci posso fare se sono bello? (ride) Beatles e Stones non erano stati massacrati per il loro aspetto, la mia musica invece è stata presa e considerata stupida».
Ha compiuto da poco 50 anni: come ha vissuto il traguardo?
«Devastante. Non mi sento un cinquantenne ma ne ho tutte le paranoie. Non sono più un ragazzino, arriva la maturità del padre ma è una biga che non so ancora guidare».
C’è stato un momento autodistruttivo nella sua carriera. L’abbiamo vista accasciarsi sul palco nel 2009 a Viggianello (Potenza)... Ha mai avuto paura di perdersi?
«Ho più paura adesso. Allora vincevo, rimanevo sempre a galla. Ma quella volta merita di essere raccontata: il giorno prima eravamo a Reggio Calabria in un hotel dove una famiglia della ’ndrangheta faceva festa. Ci scambiarono per altri e finì male, ci arrivò un tavolo in testa. Il giorno dopo l’agenzia che mi seguiva allora mi fece salire sul palco lo stesso. Mi accasciai apposta, non potevo accettare un trattamento del genere. Poi aggiungo che non sono mai stato un santo e non lo sarò mai».
«A volte esagero» è il titolo di un suo disco. E lei esagera?
«In base ai miei 50 anni. Sono nato con un certo bisogno di vivere e voglio abbracciare la vita».
Estratto dell'articolo di Ernesto Assante per “la Repubblica” il 29 Dicembre 2022.
(...)
Ma perché Sanremo adesso? «Il perché credo che sia il karma», ci dice, «da un po' di tempo non programmo niente, lascio che le cose accadano come devono accadere, se proprio devo fare programmi sono lunghissimi, in modo di non poter morire mai. La canzone che porto a Sanremo, Quando ti manca il fiato , avevo già pensato di proporla al Festival quale anno fa, poi avevo cambiato idea, non mi sentivo protetto da me stesso per poterla fare. Il dubbio non era se andare a Sanremo, la cosa più difficile sarà cantare questo pezzo».
(...)
Ha citato Dylan. Il rock è ancora il suo universo di riferimento?
«Il rock rimane il mio universo. Ma intendiamoci, il rock non è una chitarra distorta e io di certo non sono una rockstar, non mi è mai interessato esserlo. Oggi molti pensano di esserlo, e la cosa mi diverte, perché il rock o ce l'hai o non ce l'hai, e non so spiegare esattamente cosa sia».
Non pensa mai che l'hanno chiamata a Sanremo perché sperano che lei sia 'incontrollabile' e la sua performance diventi un caso?
«Non ci hanno pensato, ne sono sicuro. E poi mi conoscono bene. Quando nella mia vita è successo casino non è mai stato spettacolo. A me diventare "un caso" non interessa, io la fama la rifuggo. Sono una barca a vela, è vero, ma il vento mi porta nella direzione giusta e la canzone va nella direzione giusta, sento il bisogno di farla e la farò».
Rimpianti?
«No, mai avuti, magari ce li hanno alcune persone che hanno vissuto attorno a me. Io no, mi sento figlio del tempo in cui vivo, e so di essere molto fortunato. Non ho mai cercato il plauso veloce, non mi interessa fare cose che vanno via in un lampo.
La rivoluzione non si fa in due minuti, ci nasci dentro, se c'è la fai, se non c'è sei solo un idealista, e questo è un periodo in cui nell'arte c'è bisogno di rivoluzionari sereni, che siano in grado di dare emozioni. Io cerco di accendere fari dove altri lasciano il buio, cerco di far vedere cose che sfuggono alla vista, questo fanno gli artisti. Non sono né meglio né peggio di altri, ma provo a essere all'altezza del compito».
Quindi il momento giusto per Grignani è ora?
«Sono più figlio di questo mondo che di quello di tanti anni fa. Anzi, non ero figlio del mondo venti anni fa, oggi sono quasi a tempo. Sono fortunato perché la generazione dei musicisti di oggi sente la mia stessa esigenza musicale, sono in sintonia con un sacco di giovani interessanti, come Blanco, Rkomi, Irama, Lazza, siamo fratelli, lavoriamo con passione. La maniera più intelligente di spiegare quello che sto facendo è: ascolta e vedrai».
Cosa accadrà allora dopo Sanremo?
«Ci sarà qualcosa che pian piano si dipanerà. Per poter dire quello che ho tenuto dentro tanti anni mi si è aperto il cervello e le idee fioriscono. Ho pronta tanta musica da poter riempire tre album, e non vedo l'ora di farla uscire. Faccio tutti di getto, perché se rifaccio troppo le cose mi annoio e non sono per niente bravo a tenere ferme le canzoni».
Gianmarco Tognazzi.
Gianmarco Tognazzi: il rapporto con il padre Ugo, l’azienda vinicola La Tognazza, 7 segreti. Storia di Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2023.
Mercoledì 4 ottobre Cine 34 alle 17.14 propone «Vacanze in America», film del 1984 diretto da Carlo Vanzina. Tra i protagonisti - accanto a Jerry Calà, Christian De Sica e Claudio Amendola - c’è anche (nei panni di Filippo De Romanis, accompagnato in vacanza da sua madre, interpretata da Edwige Fenech) Gianmarco Tognazzi. L’attore, figlio del grande Ugo Tognazzi e di Franca Bettoja, è nato a Roma l’11 ottobre 1967. Quando ha capito di avere un padre famoso? «Probabilmente il giorno dopo che sono nato - ha detto al Corriere in un’intervista qualche mese fa -. A Villa Stuart, la clinica romana dove mia madre aveva appena partorito, arrivò una valanga di fotografi. Stazionavano sotto la finestra della camera urlando a mio padre: “Faccelo vedere! Faccelo vedere!”. E lui, stanco delle urla, scende giù con un fagottino in braccio: ma non ero io, dentro c’era uno scimpanzé di peluche...Dunque, in quella che avrebbe dovuto essere la mia prima foto con lui, c’era un pupazzo». Sul set accanto al padre Gianmarco Tognazzi ha mosso i suoi primi passi come attore accanto a suo padre, su set di film come «L'anatra all'arancia» di Luciano Salce (1975) e «Romanzo popolare» di Mario Monicelli (1974). «Pur essendo più figlio dei suoi figli, ogni tanto provava a fare il padre, ma non era severo... ovviamente ci ammoniva dicendo quello che “non si deve fare”. Se però si metteva davanti allo specchio, poteva dire a sé stesso: io ho fatto peggio. Come uomo, per definirlo ho usato il termine Ugoismo, una parola che potrebbe apparire egoistica, invece riguardo a lui significa altruismo».
Tra cinema e tv. Oltre al già citato «Vacanze in America» Gianmarco Tognazzi nel corso della sua carriera ha recitato in numerosi film, tra cui «Sposerò Simon Le Bon» di Carlo Cotti (1986), «Ultrà» di Ricky Tognazzi (1991), «I laureati» di Leonardo Pieraccioni (1995), «Uomini senza donne» di Angelo Longoni (1996), «Romanzo criminale» di Michele Placido (2005), «Ex» di Fausto Brizzi (2009) e «To Rome with Love» di Woody Allen (2012). Sua sorella Maria Sole lo ha diretto in «Passato prossimo» (2002) e «Viaggio sola» (2013). Tra i suoi lavori per la televisione: le miniserie «Maria Montessori - Una vita per i bambini» (2007), «Pietro Mennea - La freccia del Sud» di Ricky Tognazzi (2015) e «Luisa Spagnoli» (2016). Gianmarco Tognazzi è anche tra i protagonisti della saga di Massimiliano Bruno iniziata con «Non ci resta che il crimine» (2019) e nel 2021 ha interpretato Luciano Spalletti nella serie tv su Francesco Totti «Speravo de morì prima». I suoi lavori più recenti sono i film «I cassamortari» di Claudio Amendola (2022), «Quando» di Walter Veltroni (2023) e «Lo sposo indeciso» di Giorgio Amato (2023).
Conduttore di Sanremo. Nel 1989 Gianmarco Tognazzi ha condotto - insieme a Danny Quinn, Rosita Celentano e Paola Dominguin - il Festival di Sanremo. Il 15 febbraio 2013, durante la quarta serata della 63ma edizione, è ritornato sul palco del Teatro Ariston come ospite insieme agli altri tre ex conduttori.
Il teatro Gianmarco Tognazzi si dedica al teatro dagli anni Novanta (ha iniziato andando in scena nei locali off di Roma). Nel 2023 l’attore è stato impegnato con lo spettacolo «L'onesto fantasma», testo e regia di Edoardo Erba.
La Tognazza. Insieme ad Alessandro Capria Gianmarco Tognazzi si occupa de La Tognazza, l'azienda vinicola fondata dal padre a Velletri nel 1969.
Vita privata. Gianmarco Tognazzi è sposato dal 10 giugno 2006 con Valeria Pintore dalla quale ha avuto due figli. I due si sono conosciuti in Sardegna nel 2003, ad una cena tra amici. «Ci siamo scambiati il numero e siamo andati avanti a messaggini finché io, ad un certo punto, le ho detto: basta, questo weekend prendo e ti porto via - ha raccontato lui qualche anno fa a Vieni Da Me -. In realtà non l’ho portata via. Sono andato in Sardegna, ci siamo fidanzati e sposati dopo tre anni e poi è venuta a vivere a Roma e abbiamo due figli, Andrea Viola e Tommaso Ugo».
Gianni e Marco Morandi.
Uno su mille nasce per correre. La strepitosa carriera di Morandi, la lezione di Techetechetè e il peso della musica leggera. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Agosto 2023.
Gianni è il Novecento italiano, un personaggio che non ha niente d’immedesimabile ma che per magia diventa tutti noi
Quelli che non sanno la tv pensano che fare “Techetechetè” sia facilissimo. È gente che, beata lei, non s’è mai accorta che la mitologia della tv in bianco e nero è costruita su dieci pezzettini, sempre gli stessi, e trovare qualcosa che valga la pena vedere e che non abbiamo tutti già visto mille volte è quasi più difficile che farsi venire un’idea nuova.
Venerdì sera è andata in onda una variazione sul secondo programma estivo più amato dagli italiani (essendo il primo “Temptation Island”). La variazione si chiama “Techetecheshow”, una prima serata costruita con le immagini d’archivio raccordate da Flavio Insinna.
Ora, il protagonista della puntata era Gianni Morandi, e io a questo punto potrei ricopiare un qualunque articolo ch’io abbia scritto su Morandi negli ultimi anni. Oppure ripetervi che “Uno su mille” è la “Born to run” d’un paese di mitomani, che Morandi è il Novecento italiano, che – sapete già tutto a memoria.
Il fatto è che quelle tre ore di tv l’hanno spiegato benissimo, come Morandi sia l’istruttiva storia del Novecento italiano; e spererei le avessero guardate (forse, addirittura: capite) le generazioni convinte che nessuno abbia mai faticato quanto loro.
Magari vedere la carriera di Morandi agli inizi, in mezzo ai montaggi d’epoca, l’inaugurazione dell’autostrada del sole, la vecchia che impara a leggere grazie alla tv pubblica, le donne che guardano con sospetto le prime lavatrici (chissà se le generazioni di oggi si sono mai chieste come le loro nonne lavassero le lenzuola, e senza neanche aver inventato l’espressione “lavoro di cura”), magari è servito a far capire qualcosina del passato a chi è così restio a studiare.
“Techetecheshow” l’altra sera ha fatto quel che non sarebbe male facesse spesso la tv (quel che dovrebbe fare sempre la divulgazione culturale): intrattenerti così tanto da non farti notare che ti sta insegnando a unire i puntini.
Farti vedere Morandi neanche quarantenne che dice a un’intervistatrice «prima ho detto che canterò fino ai cinquanta, sessant’anni: forse è troppo». Farti vedere com’erano gli esordi quando Gianni Morandi nel 1979 presenta Vasco Rossi senza sapere bene se abbia già fatto dei dischi. Farti vedere com’era il rapporto degli artisti coi mezzi di comunicazione quando, a “Speciale per voi”, un ragazzo fa a Morandi una domanda da assemblea d’istituto sul suo cantare di Belinda innamorata invece che del ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones.
Non importa che fosse una polemica fessa (Belinda che parla d’amore con l’insalata è molto meglio di quello che adesso sta nel Vietnam). Importa solo che oggi non succederebbe. Perché nessun addetto stampa manderebbe un artista in un contesto in cui gli fanno una domanda ostile. Perché esistono solo le modalità «genio!» o «devi morire»: non esiste la critica culturale o anche solo il dissenso argomentato, esistono gli hater, qualunque cosa s’intenda con questo automatismo lessicale ridicolo.
Come sempre, sono eloquenti le omissioni. In questo caso, in una storia televisiva di Morandi dalla quale apparentemente non manca niente – Morandi e Mina, Morandi e la Vitti, Morandi e Ranieri, Morandi e Laura Efrikian, Morandi e Baudo, Morandi e Minà, Morandi e i figli, perfino Morandi e Ted Kennedy – quella che si nota è la clamorosa mancanza di Morandi e Woody Allen. Woody Allen che era in studio al Tg1 quella sera di ventun anni fa in cui Morandi si collegò in mutande (in polemica coi metodi per racimolare punti Auditel: Morandi in quel momento conduceva un varietà su Rai 1).
Divagazione apparente. Qualche mese fa, ci sono stati un po’ di giorni di quelle telefonate concitate che avvengono quando un personaggio noto è anziano e si sussurra che stia male. Adesso si possono raccontare perché una settimana fa l’oggetto di queste telefonate era collegato con un tg a parlare di Toto Cutugno, e insomma sta bene e serva questa storiella da esorcismo.
Squilla il telefono una volta, due, tre. Guarda che Baudo sta morendo. Mi hanno chiesto un coccodrillo. Questione di giorni. Sono quelle telefonate che, se vengono da gente affidabile, in genere t’inducono a scrivere anche tu un articolo sul morto mentre è ancora vivo, almeno poi non devi precipitarti a scrivere al bancone del bar d’un albergo mentre sei già in ritardo per andare da qualche parte.
Quella settimana io il coccodrillo di Pippo Baudo non l’ho scritto per una ragione solo apparentemente irrazionale. Mancavano pochissimi giorni a Sanremo. L’unico uomo che sa la tv ch’io conosca mi disse: figurati se Pippo non tiene duro, per morire in pieno Festival, figurati se Pippo perde l’occasione di fare come Claudio Villa.
Me ne sono ricordata vedendo quella scena dimenticata: quando Gianni Morandi vince Sanremo – un Sanremo presentato da Baudo, ovviamente – assieme a Tozzi e Ruggeri, la sera in cui muore Claudio Villa. Claudio Villa che già sapevo – Gianni lo raccontava a teatro – essere il preferito di mamma Morandi, ma la cui madre non avevo mai visto assieme alla madre di Gianni.
Le ho viste venerdì: a questo servono gli autori bravi, a farmi scoprire che c’è un pezzettino della Canzonissima del 1968 che non avevo ancora mai visto, ed è un pezzettino che i puntini li unisce tantissimo.
C’erano le mamme in prima fila, e Mike Bongiorno chiedeva cos’avessero dato da mangiare ai figli, rivali nella gara canora. Ho pensato al tema su cui più spesso m’interrogo in questo periodo: quand’è che l’epoca che si nutriva di talento si è trasformata nell’epoca che si nutre di consenso?
Forse quella è una buona istantanea della transizione: due che diventano famosi per la voce epperò non basta, occorre che il pubblico li senta vicini, caldi, familiari, occorre dire alla mamma suo figlio è emiliano, mangerà i tortellini, e quella risponderà gli piacciono molto le tagliatelle, ecco, evviva, uno di noi, applausi, finalmente uno specchio che ci restituisca la nostra medietà e non un talento inarrivabile che ci inibisca e ci complessi.
Poi certo, quella di Morandi resta comunque una storia legata a prima della transizione, legata a quando serviva quasi solo il talento. Lo si capisce quando, è l’87, Gianni canta in tv la “Born to run” del paese di mitomani, l’inno di quelli che se gli dicono «sei finito» figuriamoci se ci credono.
Morandi non scrive le sue canzoni, ma “Uno su mille” Migliacci gliel’ha proprio cucita addosso, azzarderei con molti anni di gestazione. Lo azzardo ancora una volta per merito dei puntini che mi ha unito la tv, facendomi vedere un’intervista del 1970 in cui Morandi già diceva a Minà «ormai sono legato a questo personaggio che deve sempre essere ai primissimi posti sennò è finito».
“Uno su mille” è una canzone d’una bellezza commovente, è il manifesto del particolare della vita di uno che non ha niente d’immedesimabile, una popstar forse finita, che diventa universale di tutti noi: «Tu non sai che peso ha questa musica leggera: ti c’innamori e vivi, ma ci puoi morire quando è sera».
Ma quello che si nota vedendogliela cantare nello studio di “Fantastico”, in quello studio orrendo con luci orrende e inquadrature orrende che guardavamo a decine di milioni il sabato sera, è che, per sopravvivere a una confezione così sciatta, ci voleva una canzone della madonna. È anche per quello, che Morandi è la storia del Novecento: perché lo sappiamo benissimo, che peso ha, questa musica leggera.
Estratto dell'articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 14 luglio 2023.
«E fattela una tinta come fa tuo padre, sembri tu il padre!». Oppure: «I genitori entrambi belli...ma questo figlio?!». Si potrebbe andare avanti a lungo, ma ha più senso mettere in evidenza il garbo con il quale Marco Morandi, secondogenito del Gianni Nazionale e di Laura Efrikian, ha replicato alle critiche che gli sono state mosse su Instagram, al limite del bullismo.
Marco, allora: perché non se li tinge questi capelli?
«Mah, a me avevano detto che il brizzolato funzionava. Scherzi a parte, sono sulla soglia dei 50 anni, come devo sembrare? Poi ci sono miracoli e altre cose, ognuno sceglie.
Io voglio apparire nature ».
C’è da dire che suo padre non aiuta. Ha 78 anni e sembra un ragazzino.
«E se non bastasse lui, c’è pure mia madre. Ma io sono stato il primo a dirmi davanti allo specchio: “Mannaggia, ora sembro più vecchio di papà”. Sul serio: è stato il primo pensiero».
La figura di suo padre sarà sempre stata ingombrante.
«Avere un cognome come Morandi non è stata un’agevolazione. Ho dovuto fare un percorso personale. Immagino succeda a tutti quelli nella mia condizione, perché il continuo confronto è inevitabile, c’è un pregiudizio costante. È capitato anche a me quando ho incontrato il figlio di un artista: lì ho capito tante cose, è stato utile».
Ha mai pensato di cambiare cognome?
«Forse solo per un attimo. Poi ho capito che non sarebbe servito a nulla: il vero lavoro dovevo farlo su di me. L’analisi mi ha aiutato molto».
Quali sono le etichette che le danno più fastidio?
«Quelle di chi me le affibbia senza conoscere il mio lavoro. Sono pronto alle critiche sul valore di quello che faccio, ma non perché sono un raccomandato. Se lo fossi stato mi avreste trovato più spesso in qualche salotto televisivo. Ma quello della tv non è un mondo che mi fa impazzire. Quando mi è stata paventata la possibilità di partecipare a un reality, ho pensato che sarebbe stato più interessante per me andare in Patagonia da solo».
Da quando ha la percezione di essere figlio di un monumento?
«Fin da piccolo. A scuola i miei compagni facevano a gara per invitarmi a pranzo o a cena o a dormire da loro e io finivo con il passare il tempo a rispondere alle domande dei genitori. Niente di grave, eh: tutto materiale per gli analisti. Mi dicevano: sembri tuo padre uscito dalla lavatrice».
E con le ragazze?
«Con loro ho temuto ancor più che potessero avvicinarmi per mio padre e non per me».
Poi ha sposato Sabrina Laganà, madre dei vostri figli.
«La relazione con Sabrina è cominciata nel ‘99 e ci siamo sposati nel 2012, quando erano già nati Jacopo, Leonardo e Tommaso. Ci siamo appena lasciati, siamo nel mezzo di una separazione molto civile, rispettosa e serena. Abbiamo costruito tanto insieme».
(...)
Suo padre era severo?
«Moltissimo. Quando alle medie falsificai la sua firma per una nota e lui lo scoprì, mi arrivarono dei bei sculaccioni. Con quelle manone, può immaginare...».
Si sente un po’ come l’ex Principe Carlo?
«O come Daniele De Rossi per noi romanisti! In effetti posso capire chi a un certo punto qualcuno dirà: “Un altro Morandi? Basta!”. Scherzando, dico sempre che sarò io a lasciare l’eredità a lui, e non il contrario. Perché camperà più di tutti noi!».
Non tornerà a Sanremo finché ci sarà suo padre: è vero?
«Un po’ sì. Ho partecipato due volte: con i Percentonetto e da solo. Un altro paio mi hanno scartato. Poi un anno avevo la canzone, ma lui lo presentava e ho rinunciato». Ammetterà che ha scelto lei di stare più in ombra. «Forse perché conosco bene i risvolti dell’eccessivo successo».
Ha fatto, e fa, tante cose: musica, cinema, teatro. Per quale suo padre le ha fatto i complimenti più belli?
«Per lo spettacolo su Mia Martini, Chiamatemi Mimì , in cui reinterpreto le sue canzoni. Mi ha detto: sono molto orgoglioso di te, io non sarei stato in grado di farlo».
Pensa che senza suo padre avrebbe avuto più successo?
«Forse avrei avuto più spazio, ma non ho controprova».
Gianni Morandi e il nuovo «Evviva!»: «Il disco è nato grazie Jova e all’incidente alla mano». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023
Il cantante in tour nei palazzetti a 78 anni: «Non mi metto ancora il plaid sulle ginocchia»
A fermarsi non ci pensa nemmeno. Né fisicamente, né musicalmente. A 78 anni Gianni Morandi infila ancora scarpe e tuta. «Tengo un ritmo più basso rispetto a una volta ma continuo. Una volta che metti la coperta sulle ginocchia non torni più indietro». E anche con le canzoni la pensione è lontana e la carriera si riempie di punti esclamativi. Ecco un disco nuovo, «Evviva!», che esce oggi, e un tour, «Go Gianni Go!», 9 date nei palazzetti a partire dal 10 marzo a Rimini. «Non sono un grande autore, le mie canzoni più belle le hanno scritte gli altri. Sono un interprete e più che andare in studio a registrare, amo cantare in mezzo alla gente», racconta tenendo a fianco una scopa che ormai è il suo simbolo dopo la scenetta dei petali spazzati via dal palco di Sanremo a seguito della sbroccata di Blanco.
È l’ennesima ripartenza di un monumento che si è montato e smontato più volte. Il successo da ragazzino, il dimenticatoio degli anni 70 quando andavano di moda i cantautori e lui si rifugiò in Conservatorio, il ritorno negli anni 80 con Mogol e Dalla, il conduttore televisivo da prima serata del sabato su Rai1 negli anni Zero. Quando tutto sembrava andare in una direzione stanca, con le piattaforme streaming che hanno cambiato il panorama discografico, ecco la tragedia sfiorata con la caduta nel fuoco. «In realtà questo disco nasce proprio nel giorno dell’incidente alla mano, l’11 marzo 2021. Ero in ospedale a Cesena quando Jovanotti mi chiamò dicendomi, tra l’altro, che mi avrebbe mandato una canzone per ridarmi allegria e che se mi fosse piaciuta avrei potuto cantarla». La collaborazione con Jova è andata avanti. Lorenzo gli ha scritto anche la canzone in gara a Sanremo 2022 («Apri tutte le porte»), l’ha voluto come ospite fisso del Jova Beach Party e nel nuovo disco firma altri brani, a partire dalla title track che è un inno alla positività. Dice Jova nelle note che accompagnano l’album: «Se dovessi sintetizzare in una parola Morandi, quella parola è Evviva con il punto esclamativo. Quando lui entra in una stanza l’atmosfera si ossigena e ci si dispone al sorriso. Lo hanno notato tutti a Sanremo come fosse una novità sebbene si verifichi da più di 60 anni».
Del Festival è stato il protagonista: la capacità di entrare al momento giusto senza sgomitare ma prendendosi la scena, nazionalpopolare e di classe, ironico e istituzionale. Bilancio positivo. Esclude un ritorno alla conduzione. «Ripetersi è difficile e Amadeus ha sempre in mente idee nuove. Bisogna saper fare un passo indietro. Tornerei in gara anche se qualcuno potrebbe dire “che due maroni, ancora lui...”». Il tour in trio con Ranieri e Al Bano, battezzato proprio all’Ariston, è ancora soltanto un’ipotesi: «Al Bano mi ha chiamato l’altro giorno dicendomi che aveva già contatti con il Canada, Kansas City e la Turchia ma che lo “scugnizzo” è impegnato fino a ottobre. Vabbè c'è tempo, siamo giovani...».
La ballad «Un milione di piccole tempeste» è una lettera a un figlio che sta crescendo. È il 25enne Pietro, che fa il rapper con il nome d’arte Tredici Pietro? «Con lui parlo pochissimo, non si fa trovare, ogni tanto chiama per sapere della mia salute vista l’età... Ha un suo percorso e cerca di staccarsi dall’essere figlio di Morandi, ma è difficile perché tutti lo sanno».
Se si toccano i temi della politica sa essere diplomatico. «Sono contento che con la vittoria di Elly Schlein ci siano due donne a guidare i due partiti più importanti del Paese. Con Schlein ci eravamo conosciuti a un concerto a favore dell’Ucraina e abbiamo cantato insieme “C’era un ragazzo”». Quel brano sarà fra le imprenscindibili nella scaletta del tour: «Era una canzone contro la guerra in Vietnam e ai tempi venne premiata in Russia con un grande distintivo. Le cose si sono rivoltate e oggi quel testo è contro di loro che sono il Paese aggressore».
Un pensiero va a Dalla e Battisti, che avrebbero compiuto 80 anni in questi giorni: «Con Dalla ho avuto un rapporto straordinario. Battisti una volta mi mandò una canzone che però scartai. Mi meraviglia che due con lo stesso nome, quasi gemelli, abbiano inciso così tanto sulla musica italiana».
Gigi D'Alessio e Anna Tatangelo.
Il concerto, l'amore, le critiche: la storia d'amore tra Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio. Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio sono stati insieme dal 2006 al 2020, anno nel quale hanno annunciato l'addio. Dalla loro relazione, mai arrivata all'altare, è nato Andrea D'Alessio. Novella Toloni il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Il primo incontro
Le collaborazioni musicali
La scintilla d'amore
Anna e Gigi escono allo scoperto
Le critiche a Sanremo 2008
La gravidanza e la nascita di Andrea
Il matrimonio mai celebrato
La crisi e il primo addio
Il ritorno di fiamma
L'addio definitivo prima del Covid
La storia d'amore tra Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio è stata sicuramente una delle più criticate non solo per la differenza di età tra i due cantanti. L'amore tra Anna e Gigi, scoppiato durante un progetto musicale, provocò la separazione di D'Alessio dalla moglie e fece discutere per anni.
Il primo incontro
È il 2002, Anna Tatangelo ha solo 15 anni ma una voce potente. Dopo avere partecipato a diversi concorsi canori, riesce a strappare un biglietto per Sanremo Giovani. Al teatro Ariston la giovanissima Anna si presenta con il brano "Doppiamente fragili" e vince la categoria degli emergenti. La sua carriera decolla, Pippo Baudo la sceglie come co-conduttrice della trasmissione Sanremo Top, ma Anna rimane la ragazza semplice di Sora e continua a seguire i suoi artisti preferiti nei tour insieme al papà. Al termine di un concerto di Gigi D'Alessio il padre la convince ad andare nel backstage e Gigi, dopo la foto di rito, riconoscendola le dice: "Tu sei la ragazza che ha vinto il Festival? Ho una canzone che ti vorrei far ascoltare". È l'inizio di tutto.
Le collaborazioni musicali
Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio iniziano una proficua collaborazione. Nel 2002 duettano nel brano "Un nuovo bacio", poi incidono insieme la canzone "Il mondo è mio" per la colonna sonora della riedizione di Aladdin. Nel 2005 si presenta nuovamente al Festival di Sanremo con il singolo scritto per lei da D'Alessio "Ragazza di periferia", che anticipa l'uscita del suo secondo album. A dicembre dello stesso anno, Gigi chiede ad Anna di accompagnarlo in tour in Australia ed è qui che scocca la scintilla.
La scintilla d'amore
"A me stava antipatico. Ma nel 2005, dopo "Ragazza di periferia", siamo partiti per un tour in Australia. E ho iniziato a vederlo con occhi diversi. Facevamo delle lunghe chiacchierate...e abbiamo scoperto che l'antipatia nascondeva una simpatia", racconterà anni dopo la cantante di Sora, parlando della scintilla scoccata con Gigi in Australia. Anna ha da poco compiuto 18 anni mentre il cantautore napoletano 38 anni ed è sposato con Carmela Barbato, la donna che gli ha dato tre figli. L'amore tra loro, però, è più forte dei pregiudizi, delle critiche e dei pettegolezzi, che li fanno finire sulle riviste di gossip.
Anna e Gigi escono allo scoperto
D'Alessio ufficializza la relazione con Anna solo nel 2006, quando ha già avviato le carte per il divorzio dalla moglie Carmela. Le riviste di gossip dedicano paginate e copertine alla loro separazione e la Barbato rilascia dichiarazioni di fuoco contro l'ex marito e la nuova compagna parlando di lei come una "novella sposina" e di un vero e proprio tradimento. A fare parlare fan e pubblico, però, è soprattutto l'ampia differenza di età tra Anna e Gigi, ma il dettaglio non tocca la coppia che inizia una relazione, che durerà oltre dieci anni.
"Mio padre aveva capito che Gigi era uno serio"
Le critiche a Sanremo 2008
L'amore tra la cantante di Sora e Gigi D'Alessio va di pari passo con il lavoro. Le loro carriere proseguono su binari paralleli e nonostante gli album da solisti, i due cantanti non mancano di andare in tour insieme e di duettare con altri artisti come nel caso di "Due Universi" con Claudio Baglioni. Nel 2008 Anna Tatangelo torna per l'ennesima volta a Sanremo, piazzandosi al secondo posto con la canzone "Il mio amico". A far discutere è il messaggio che Anna manda a Gigi in diretta tv dopo la consegna del premio: "Vorrei dire Gigi ti amo, è la prima volta che lo dico in televisione". In sala il pubblico la fischia e pochi giorni dopo su Novella2000 arriva la seccata dichiarazione dell'ex moglie di D'Alessio: "Non se la poteva risparmiare quella frase? Non poteva prendere il premio e stare zitta?". Gli strascichi della separazione sono ancora evidenti.
La gravidanza e la nascita di Andrea
Nonostante le critiche il rapporto prosegue fino al 2009, quando Anna rimane incinta ma ha un aborto spontaneo. Il dolore non ferma la voglia di maternità dell'artista che a settembre dello stesso anno scopre di aspettare nuovamente un bambino. La coppia, però, aspetta fino a fine anno per annunciare l'arrivo del loro primo figlio e D'Alessio lo fa dal salotto di Barbara D'Urso a Domenica Cinque. A marzo Anna sfoggia il pancione partecipando come ospite al programma del compagno "Gigi, questo sono io". Pochi giorni dopo dà alla luce il piccolo Andrea.
Il matrimonio mai celebrato
Mentre la carriera di Gigi D'Alessio è sempre più internazionale, Anna Tatangelo sperimenta il mondo della televisione partecipando come giudice a X Factor e Miss Italia e entrando nel cast di Ballando con le Stelle nel 2012. Per molti la coppia potrebbe sposarsi nel giro di qualche anno, ma la proposta di matrimonio non arriva e, più tardi, Anna confesserà: "Ho sofferto a non essere sposata con Gigi, ce lo chiedeva anche nostro figlio".
D'Alessio-Tatangelo, Sul web voci di rottura, ma il cantante smentisce
La crisi e il primo addio
Nel 2016 iniziano a circolare le prime voci di crisi. La coppia si fa vedere sempre meno insieme nelle occasioni pubbliche e le riviste di gossip parlando di "crisi profonda". È il 22 luglio 2017, quando sui rispettivi profili Instagram, D'Alessio e Tatangelo pubblicano una nota congiunta per confermare il difficile periodo: "Sì, siamo in crisi. La nostra storia vive un periodo no. Vi preghiamo di rispettare la nostra privacy. Poi, saranno la vita e il futuro a decidere la strada con serenità". Ma la loro storia non è destinata a finire così.
Il ritorno di fiamma
Nel 2018 Gigi e Anna si riavvicinano. La coppia viene paparazzata dai fotografi del settimanale Chi insieme, felice e sorridente, in Sardegna. È luglio e i due vengono fotografati in altre occasioni - a cena fuori e a passeggio con il figlio Andrea - tanto da fare pensare a nozze imminenti, grande sogno di Anna. La pace sembra definitiva e al settimanale Oggi, D'Alessio racconta: "Le ho chiesto perdono ho capito che la stavo perdendo davvero. Io senza Anna non vivo, lei è tutta la mia vita".
Alessia Marcuzzi, Tatangelo, Melissa Satta: tutte pazze per i toy boy
L'addio definitivo prima del Covid
Nonostante il tentativo di riconciliazione, Anna e Gigi decidono di dirsi addio e lo fanno con un nuovo comunicato stampa. "Io e Anna non stiamo più insieme da un po'. Ci abbiamo provato, in ogni modo, ma non ci siamo riusciti. Succede a tanti, è successo anche a noi. Le nostre strade si dividono, ma sono sicuro che cammineremo sempre l'uno accanto all'altra per nostro figlio Andrea. È per lui che spero che la nostra privacy, in un momento difficile e delicato, venga rispettata", scrivono entrambi su Instagram a marzo 2020. E quel comunicato segna la fine della storia tra Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio. Oggi il cantante ha ritrovato la felicità accanto a Denise Esposito, dalla quale ha avuto un figlio, Francesco; mentre la Tatangelo, dopo una breve relazione con il rapper Livio Cori è attualmente impegnata con il modello Mattia Narducci.
Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” il 13 marzo 2023.
[…] Gigi D'Alessio, 56 anni […].
Cominciamo con il cinema: il film sulla sua vita […]
«Siamo a buon punto. Ho firmato il contratto con la produttrice Maria Grazia Saccà, che ha già trovato un coproduttore americano. Ho già incontrato lo sceneggiatore Peppe Fiore ( Mare fuori, The Young Pope etc., ndr) che ha scritto praticamente tutto. Insomma, ci siamo. Il progetto prevede il racconto della mia vita fino al 1992, l'anno dell'uscita del mio primo album Lasciatemi cantare. Quindi spazio alla famiglia, gli studi al conservatorio, l'incontro con il grande Mario Merola, i miei concerti alle feste di matrimonio...».
Quelle dove capitava di suonare anche per camorristi che a volte neanche la pagavano e la minacciavano di qualsiasi cosa?
«Esatto. È la mia storia, vera e pulita com'è […]».
[…] Per anni è stato bersagliato da critiche feroci: testi banali, canzoni sempre uguali etc. Come ha retto a quelle bordate?
«Quel trattamento alla fine è stata la mia fortuna: mi hanno dato la spinta giusta per dimostrare che le cose non stavano come qualcuno diceva. Più dicevano che facevo schifo, più io mi caricavo […]».
Parla spesso di amore e nelle sue canzoni è praticamente un tema fisso, solo che ha cinque figli da tre donne: cosa non funziona a un certo punto? Dov'è che sbaglia?
«Io ho sempre pensato a costruire una famiglia, e a fare tutto per farla andare avanti. Non sono mai stato un puttaniere. Con i figli, come quasi tutti quelli della mia generazione, ho sbagliato. Se penso ai valori che mi hanno insegnato i miei genitori, ho fallito. Non sono riuscito a trasmetterli, li ho, li abbiamo, viziati».
Va bene, ma per caso alle donne della sua vita deve chiedere scusa?
«Io non devo chiedere scusa a nessuno. Le storie d'amore iniziano e possono finire. Quando ci sono i figli, però, bisogna stare tranquilli e sereni, senza agitarsi».
[…] Lei, che fra il 92 e il 96 ha cantato a più di duemila feste di matrimonio, adesso è pronto a sposarsi un'altra volta?
«Oggi ho un bimbo piccolo e sono sereno e felice […] Ma non lo escludo».
[…] « […] sono stato ingannato e truffato da […] chi ho conosciuto nel corso degli anni, ha frequentato casa mia, e se n'è approfittato».
[…] I circa 8 milioni di debiti che l'hanno travolta nel 2012, quando accettò di mettersi in società con Giovanni Cottone, l'ex marito di Valeria Marini, per riportare in Italia la produzione industriale degli scooter Lambretta, li ha finiti di pagare?
«Sì. Per fortuna quei problemi sono alle spalle. Storia vecchia».
Sorpresina di uno dei tanti "amici" di cui sopra?
«Esatto. Però è anche vero che ognuno deve fare il suo mestiere. Tanti cantanti spesso si lanciano in imprese commerciali, aprono ristoranti, senza sapere quello che fanno. […] dell'avventura Lambretta mi piaceva l'idea di dare lavoro a tremila persone. Non ci sono riuscito. È andata male».
A parte suo figlio Luca, LDA, in gara con "Se poi domani", cosa le è piaciuto di Sanremo?
«Amadeus, un artista serissimo che si ascolta novecento canzoni per portare su quel palco le migliori. Mengoni, Tananai e Lazza. Molto meno le polemiche sul bacio rosa Chemical e Fedez, il gossip sui litigi dei Ferragnez... Ma che c'entra questa roba con le canzoni?».
Un suo punto di riferimento artistico, Claudio Baglioni, ha guidato bene il Festival: lei lo farebbe?
«Assolutamente sì. Perché in questi anni, avendo fatto tanta tv, ho imparato il linguaggio e credo che potrei fare bene. Certo, dopo un fuoriclasse come Amadeus, e i suoi ascolti, non sarebbe una passeggiata di salute».
[…] Il primo grazie a chi lo deve?
«Al grandissimo Mario Merola. Con lui ho iniziato come pianista e con lui ho fatto il mio primo disco da cantante […]».
[…] Il Napoli quest'anno vincerà lo scudetto: che cosa farà?
«Per carità, mi gratto e basta». […] «Mettiamola così. In piazza Plebiscito il 26 maggio ci sarà il mio concerto in diretta su Rai1, che replicherò il 27, 28 e 2 giugno. E forse anche il 1° giugno, visto che gli altri sono già sold out. Ovviamente, se tutto va come deve andare, il 4 giugno un concerto gratis per la mia città lo farei molto volentieri. Poi il 10 ci sarebbe anche la finale di Champions...».
Gigi Folino e il Gruppo Italiano.
Estratto dell’articolo di Giusy Taglia per corriere.it sabato 23 settembre 2023.
Gigi Folino, dal successo travolgente di «Tropicana» negli anni '80 alle performance da artista di strada È l’autore del brano «Tropicana» che nell’estate del 1983 portò il Gruppo Italiano in cima all’hit parade. Un vero tormentone. Lui, Gigi Folino, 64 anni, milanese, suonava il basso.
[…]
Travolti dal successo?
«Fu un successo inaspettato. Eravamo giovanissimi, io avevo 24 anni. Fu una grande soddisfazione, ma stranamente, non avevamo concerti in programma. Tutte le radio trasmettevano il nostro brano, ma non suonavamo, questo mi dispiaceva tantissimo. Certo, facevamo delle ospitate tv, ma erano gli anni del playback».
Il successo proseguì.
«Partecipammo al Festival di Sanremo l’anno successivo. Ci presentammo con “Anni ruggenti”. Non andò male: si piazzò a metà classifica. Al Festival, come vicini di camerino c’erano i Queen. Un sogno».
Cosa ha interrotto quel sogno?
«Sono sorti dei dissapori all’interno del gruppo. Non abbiamo saputo gestire il successo improvviso e inaspettato, ma con il senno di poi direi che, probabilmente, non eravamo un vera band».
Fu anche un successo economico?
«All’epoca il nostro guadagno si aggirava sui 30-35 milioni l’anno per ciascun componente del gruppo. Io investii in strumenti musicali. Sciolto il gruppo, mi sono dovuto inventare in altre professioni, dal 2006 ho scoperto la Music Learning Theory e ora insegno ai bambini della scuola dell’infanzia. Dal 2013, inoltre, sono un artista di strada, ed è bellissimo».
[…]
Quanto si guadagna?
«A Milano anche 200 euro in un paio di ore, dipende dalle zone. E poi ci sono i turisti, un americano, per esempio, mi ha lasciato 100 dollari. Se non c’è posto a Milano mi sposto a Cremona che è una piazza libera: qui si arriva a 40 euro per due ore».
Gigliola Cinquetti.
Estratto dell’articolo di Simonetta Sciandivasci per “La Stampa” domenica 12 novembre 2023.
Quello che più conta, per Gigliola Cinquetti, è: la sua famiglia, il divertimento, la libertà, la pasta. Sono le cose di cui parla di più in A volte si sogna, la sua biografia romanzata, dove niente è inventato: qualcosa è omesso, qualcos'altro è dimenticato - «dimenticare era stata la sua specialità per tornare in fretta alla sua vita vera», scrive.
[…] «Nel 1976 feci un concerto a Rio de Janeiro per le persone che abitavano nelle favelas, vennero in tantissimi e, alla fine, vollero abbracciarmi: in quel momento capii chi ero, e quanto era bello ciò che potevo fare. Il regalo che quella gente mi fece fu convincermi che avevo il talento giusto per comunicare con loro», dice a La Stampa.
Nel 1976 era adulta. A cantare aveva cominciato a 16 anni, il primo a spingerla era stato suo padre, che però «Si aspettava da me che io diventassi famosissima e che, dopo, appena svanito il successo, mi sposassi e diventassi una donna di casa. Voleva due cose inconciliabili». Tutti credevano che la sua notorietà sarebbe stata intensa ma effimera.
Tuttavia, se a 16 anni vinci Sanremo e a 18 lo vinci ancora con una canzone che Domenico Modugno ha scritto per te, Dio come ti amo, sei destinata a fare la storia e a restarci dentro a lungo. Nel 1974, quando Cinquetti vinse l'Eurovision con un pezzo che si chiamava Sì, la Rai posticipò la messa in onda per non influenzare il voto al referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio, temendo che gli italiani non ascoltassero che lei. Una volta, a Milano, ci fu un maxitamponamento perché lei aveva attraversato la strada e tutti si erano fermati per guardarla.
Ma neanche questo, e l'ammirazione di Aznavour e i giapponesi in fila per lei a Tokyo, e gli ultimi concerti, qualche anno fa, ancora in giro per il mondo, fino alle Cascate del Niagara, hanno avuto un'importanza maggiore di sua madre, suo padre, suo marito, i suoi figli, la campagna. La biografia di Cinquetti è la storia di una donna che ha rinunciato alla libertà e alla spensieratezza perché il suo talento rendeva felici gli altri.
Però quanto si è divertita, Cinquetti.
«Divertirsi è fondamentale. Mi ci sono impegnata. Non sono un'allegrona e nemmeno una simpaticona, anzi: mi hanno sempre detto che ero antipatica. La maggior parte delle volte che incontravo qualcuno per la prima volta, mi sentivo dire: "Però non sei così antipatica!". De Gregori, gli amici di mio marito e gli amici degli amici di mio marito, che lui ogni tanto chiamava i lottacontinuotti. Tutti».
E Luigi Tenco. Il suo libro comincia dal momento in cui lui entrò nel suo camerino, si presentò e le disse: «Io la odio. Ci tengo a dirglielo. Lei rappresenta tutto quello che io detesto: è falsa, ipocrita, perbenista».
«Si presentò come Luigi, senza cognome. Ricostruii dopo che era lui: conoscevo la sua voce, ma non il suo viso».
La ferì?
«Mi stupì. Avevo vinto da poco Sanremo ed ero abituata a essere molto lodata. Quella fu la prima di una serie di lezioni, più o meno dure, che mi servirono a costruire la mia identità».
Perché ce l'aveva tanto con lei?
«Forse perché in quegli anni il successo commerciale era malvisto. Le case discografiche erano demonizzate, incolpate di svilire l'arte in commercio, era un pregiudizio concimato da un'idea intransigente e anche piuttosto assurda di purezza, in nome della quale tutti si sentivano in dovere di dirti cosa pensavano, senza filtri, in faccia, anche brutalmente. Tenco aveva, forse, questa specie di pratica da sbrigare con me: darmi dell'ipocrita, per lui, significava ribadire la sua distanza dal mondo del quale mi riteneva vittima e fautrice. Un mondo che disprezzava e si sentiva chiamato a combattere».
[…]
Quindi è vero che è antipatica?
«Non voglio diventare simpatica facilmente perché se sei spiritosa, allegra e divertente, tutti pretendono che tu lo sia sempre, che è una cosa terrificante e io ho paura di creare questa aspettativa».
Si offende se le dico che è un po' snob?
«No. Però non lo sono».
Privilegiata?
«Ho avuto un successo sovradimensionato, questo è certo. Ma il successo è costitutivamente spropositato e sproporzionato rispetto a quello che uno ha fatto, altrimenti sarebbe la giusta ricompensa per un lavoro ben fatto. Nessuno merita il successo: è una cosa che succede, per mille variabili diverse, la più piccola delle quali è il valore personale. Però, così come nessuno merita la venerazione incontrollata, nessuno merita di venire aggredito. Pasolini diceva che il successo è un'aggressione e aveva ragione».
Esempi?
«La perdita di privacy, il venire strattonati dalla folla, il dover badare a qualsiasi frase, posizione, scelta, e pagarle, persino. E poi la vita sempre anormale, che investe anche le persone intorno: i miei figli, come tutti i figli delle persone famose, sanno benissimo che nessuno li aiuta, quando hanno bisogno, perché vengono considerati dei privilegiati che hanno avuto tutto anzi persino troppo, e allora è giusto che se la cavino da soli».
Si è mai sentita spolpata?
«Continuamente. Sin dal primo momento, quando mi chiesero se volessi fare la cantante e io dissi di sì, senza pensarlo: avevo 15 anni, cosa ne potevo sapere? L'angoscia della mia giovinezza è derivata dall'obbligo di scegliere tra molte opzioni possibili. Ora sono magnificamente in pace: les jeux sont faits».
Quali erano le altre opzioni possibili?
«Fare la camminatrice, come l'amico di mio padre che veniva a trovarci a piedi da Parigi. Oppure la locandiera».
La locandiera?
«Per me il cibo è importantissimo. Preparare da mangiare per me e per gli altri è il centro della mia giornata, quando sono a casa. Ho preparato gli omogeneizzati in casa per i miei figli. Ho sempre avuto molti amici a cena. Amo cucinare per mio marito».
[…]
Scrive: "Volevo ubbidire liberamente".
«L'obbedienza può essere nobile se è una scelta ed è fatta con spirito di lealtà e servizio. Io questo credo di aver fatto per tutta la vita».
Chi sono le sue amiche?
«Non ne parlo pubblicamente. Nel libro ho scritto di Loredana Bertè e Caterina Caselli perché c'erano in un momento importante della mia vita, la morte di mio padre».
E Mina?
«Una collega».
Rivale?
«Una collega».
Nel suo libro parla moltissimo di pasta.
«Io se non mangio almeno un piatto di pasta al giorno, non sto in piedi. E poi nel libro ne ho parlato perché nei libri il cibo dà ristoro ai lettori. Quando ho letto la trilogia di Stieg Larsson, che ho molto amato ma che ricordo con terrore, le parti che mi sollevavano erano quelle in cui i protagonisti mangiavano».
[…]
Quando salì sul palco in Cile, chiamata dalle associazioni che lavoravano per ottenere un referendum che ripristinasse il diritto di voto dopo Pinochet, venne contestata molto violentemente perché indossava una pelliccia. Non si spaventò neanche allora?
«No. Pensai che avrei dovuto toglierla prima, ma non l'avevo fatto e quindi me la tenni. Gli artisti di oggi non so se abbiano questo tipo di esperienza ma io sono cresciuta in un tempo in cui si entrava e usciva al cinema quando e quanto si voleva, si fischiavano gli artisti durante i concerti, persino durante le opere liriche: con il pubblico c'era un rapporto dialettico molto intenso. Quando ho cominciato a salire sul palco ero ben consapevole di dover andare alla battaglia, di dover conquistare il consenso e mettevo in conto che poteva andar male».
Lei è di destra o di sinistra?
«Prima di tutto, accanitamente antidemocristiana, come mio padre. Sono sempre stata di sinistra. Moderata. Prodiana e ulivista».
Militante?
«Neanche per sogno. Mi hanno proposto spesso di fare il sindaco. Una volta, il Pds voleva candidarmi alle europee. Ho sempre rifiutato. Non ho le competenze. E se la politica si riduce a comunicazione, usando personaggi celebri, finisce male. E infatti siamo finiti male. E ora aspettiamo che passi la nottata».
Odiava che le domandassero di essere autentica.
«Non ho mai capito cosa significhi essere se stessi. E non credo, poi, che sia una scoperta così interessante». […]
Gino Paoli.
Da rollingstone.it - Estratti giovedì 9 novembre 2023.
Cosa farò da grande afferma Gino Paoli nel titolo della sua autobiografia (Bompiani) scritta con Daniele Bresciani, e non se lo domanda perché ha sempre avuto le idee chiare. È ancora così alla soglia dei 90 anni, che compirà il prossimo 23 settembre. Un sacco di storie, pensieri e progetti di passato, presente e futuro ce le ha raccontate chiacchierando nella bella casa di Nervi, alle porte di Genova, dove ci ha ospitati tra una focaccia genovese e la vista del mare che non può mancare nel suo orizzonte.
Dicono non sia facile avere a che fare con l’autore del Cielo in una stanza e Sapore di sale, perché a una spiccata ispirazione verso la descrizione in musica dei sentimenti si aggiunge un carattere piuttosto refrattario a ipocrisie e compromessi. Non a caso, nel libro ricorda quella volta che cercò di investire in auto un paparazzo o quando entrò nella redazione di un giornale di gossip con una mazza da baseball minacciando di spaccare la testa a chi aveva scritto certi articoli.
Per fortuna a compensare il suo lato più burbero c’è la moglie Paola Penzo, come lui stesso ammette: «È la mia proiezione gentile e carina». Così ci parlerà di tutto, partendo dall’autobiografia dove ha inserito più gli errori dei successi senza risparmiarsi nulla, come una vera rockstar: «Sembravo intimista e invece facevo le stesse cose dei rocker».
Dalla cronica pigrizia che non lo fa scendere in studio a registrare cinque canzoni inedite già pronte al famoso caratteraccio: «Se qualcuno ti dice che sono refioso (in genovese “scostante”, nda), significa che mi ha affrontato nello stesso modo». Dalle sigarette sostituite con quelle elettroniche che considera «delle porcate» a Giorgia Meloni che sullo slogan “dio, patria, famiglia”, colpevole di ogni guerra, «mi dovrebbe pagare il copyright».
Poi la musica, che ha attraversato per 60 anni da protagonista e da talent scout: Tenco che «era più allegro» e quando lui si sparò gli disse: «Gino, queste cose non si fanno. E poi l’ha fatto lui». Ancora, i calci nel culo a De André per farlo esibire, la vendetta verso la giornalista che iniziò a perseguitare Bindi perché omosessuale, i pezzi scritti e non firmati per sostenere Little Tony o Zucchero, il problema con la droga di Califano, Mina con meno cuore della Vanoni e il suo erede Vasco Rossi. Fino alle generazioni di artisti che ci stiamo perdendo a causa di chi li seleziona («con questi filtri non sarebbe esistita la scuola genovese»). Persino sui Måneskin, che non ascolta ma di cui ha sentito fin troppo parlare, non ha dubbi: «Sono tre bei fighi e una bella figa, per quello funzionano».
Dice di cercare la bontà ma di trovare troppa cattiveria. Mentre lo sostiene, in tv passano le immagini dei bombardamenti a Gaza. Ricorda di essere cresciuto sotto le bombe della Seconda guerra mondiale: «Conferma che l’80% della gente è stupida». E anche per questo non ha timore della morte: «Quando arriverà non mi dispiacerà, questo mondo non mi piaceva e continua a non piacermi».
(…)
Tra l’altro, nel suo racconto emerge un Luigi Tenco allegro e disincantato, molto distante dalla figura triste e introversa che gli è stata cucita addosso dopo la morte.
Luigi era più allegro di noi. Si inventava gli scherzi. Quando abbiamo visto insieme il film di James Dean Gioventù bruciata, abbiamo capito che essere un po’ ruvidi e corrucciati funzionava con le ragazze. Andavi in un locale, facevi l’intimista e loro ci cascavano subito. Questo deve aver influenzato chi non lo conosceva e poi lo ha dipinto come uno ombroso.
(..) I Måneskin sono passati da molti filtri, come li ha definiti, e sono arrivati a raccogliere un successo mondiale. Hanno delle qualità o li considera solo marketing?
Non potrei valutarli perché non ho mai sentito le loro canzoni. Ma so che quel che conta oggi è come uno si presenta. Non a caso siamo nell’epoca dell’apparenza. Se l’apparenza è quella giusta, che cantino qualsiasi cosa non frega niente a nessuno però arrivano. L’importante è impressionare. Il Festival di Sanremo sai da chi nasceva?
Cioè l’estetica?
Oggi se condisci col sesso qualsiasi cosa poi arriva. Persino nelle pubblicità. Loro sono tre bei fighi e una bella figa, e per quello funzionano. Posso anche sentirli, ma sono convinto che non siano eccezionali come sembrano perché giocano su un tasto facile come la sessualità.
(…)
Mi dica.
La guerra nasce per tre ragioni fondamentali: dio, patria e famiglia.
Mi ricorda lo slogan che ha portato al governo Giorgia Meloni.
Perché ha sentito me, io lo dico da molto prima di lei. Mi deve pagare il copyright!
Tornando al suo libro, a un certo punto spiega le ragioni che l’hanno portata a spararsi nel ’63, in pratica perché aveva tutto e non provava più niente. Ma il dettaglio impressionante è che Tenco, accorso in ospedale, le ripete: “Gino, questo non si fa”.
Mi trovavo in coma, non per il colpo di pistola ma perché avevo preso un sacco di pillole per farmi fuori, poi non facevano effetto e mi sono sparato. L’attesa era troppa, una rottura di palle. Quando mi hanno curato pensavano fossi in coma per la pallottola, invece era per i farmaci. E quando mi sono svegliato, ricordo Luigi fuori dalla stanza che diceva “non si fa una cosa così, Gino, non dovevi farlo”. E poi l’ha fatto lui…
Nel ’67 aveva interrotto i rapporti dopo che l’aveva chiamata per avvisarla di essere a letto con Stefania Sandrelli, fino ad allora sua amante, ma non ha mai pensato che quel gesto di Tenco potesse essere persino un modo per emulare ciò che aveva fatto lei?
Lui era un po’ come il mio fratello più piccolo, aveva due anni in meno. In effetti il suo lo considero un gesto teatrale finito male. E mi sento molto colpevole perché non c’ero. Sono convinto che se fossi stato presente non sarebbe successo.
Come ricorda, in quell’epoca il Festival di Sanremo veniva vissuto in modo particolarmente ansiogeno da chi partecipava.
In modo tremendo. Pensa che una volta ero al night con altri, visto che c’era più solidarietà tra noi cantanti, e Piero Focaccia, che era sbronzo come me, mi disse: “Se domani non vinco mi ammazzo”. “Cosa cazzo dici Piero?”, gli ho risposto. Faceva il bagnino, era uno solido, eppure quell’atmosfera di Sanremo era pesantissima anche per uno come lui.
Poi nel ’68 la politica entra anche nella musica, e lei decide di farsi da parte per tre anni. Ne ha sofferto?
Politica deriva da polítes, ciò che riguarda il cittadino. Non è possibile fare qualcosa che non sia politico. Lo sei sempre, anche senza dichiarare se sei comunista o fascista. Stando nella società ti devi occupare della tua presenza come cittadino. Ma non ho sofferto senza pubblicare nulla, alla fine ho continuato a suonare in giro.
Quello che sembra essersi inasprito negli anni a venire è il rapporto con la stampa. Racconta di aver provato a investire con l’auto un paparazzo e di essere entrato nella redazione di un giornale di gossip con una mazza da baseball minacciando i giornalisti di non scrivere più dei suoi figli.
Io sono come il camaleonte, se mi tratti bene io ti tratto bene, se mi affronti ti mando a cagare. Il rapporto con i giornalisti si guastò quando Nanni Ricordi, al mio primo Festival, mi costrinse a partecipare a una conferenza stampa dove cominciarono a farmi domande idiote e così gli dissi: “Se c’è qualcuno che ha una domanda intelligente rimango, altrimenti me ne vado”. Nessuno rispose e me ne andai. Non mi ha messo in buona luce con i giornalisti.
Però anche dopo, quando una giornalista le chiese “Cosa fa prima di cantare?”, lei rispose: “Io mi faccio una sega”.
Lei aveva bastonato Umberto Bindi, cominciando la persecuzione nei suoi confronti perché era omosessuale. Leggendo i suoi articoli già la odiavo. Arrivata a farmi quella domanda, le risposi in quel modo e lei la scrisse indignata. Poteva anche lasciar perdere.
L’aneddoto è stato raccontato recentemente da Adriano Aragozzini, che, oltre a direttore artistico di Sanremo, è stato anche suo segretario.
Ha lavorato con me per anni, è molto intelligente ma matto come una capra. L’ultima volta che ha diretto Sanremo mi chiama e ci vediamo in un bar. A un certo punto sale sul tavolo e da quella posizione cerca di convincermi che dovevo andare ospite. Non è uno stupido, anzi. Modugno, che lo aveva preso come personal manager, era contentissimo di lui. E anch’io.
(…)
Ultimamente è successo a Morgan a Selinunte di reagire a chi dal pubblico gli chiedeva con insistenza di cambiare il repertorio proposto. Ed è finita con insulti reciproci.
Tu sul palco sei sempre il vincente perché hai il microfono, altrimenti che salgano loro. Io una volta l’ho fatto. Era il periodo della contestazione, quando hanno messo in croce Francesco De Gregori, che ha rischiato parecchio. Nel milanese c’era uno che mi rompeva le palle dal pubblico, allora sono sono sceso e gli ho dato il microfono: “Tieni, vai avanti tu”. Ha cominciato a parlare, ma dopo pochi minuti si è alzato un omone, un operaio che ha urlato: “Senti, io lavoro tutta la settimana e vengo qui a sentire Gino Paoli. Te ne vuoi andare?”. La contestazione a me è finita così.
Se le nomino Piero Ciampi, cosa le viene in mente?
Che beveva un po’… Quando è arrivato a Genova è stato buttato fuori da casa di Reverberi, poi da casa mia da parte dell’ex moglie, infine da casa di Tenco dove l’hanno cacciato fuori i suoi genitori. Un giorno l’ho portato alla RCA per fargli avere un ingaggio e riesco a fargliene avere uno notevole in anticipo, solo che è stato un brutto scherzo. Usciamo con Piero con le tasche piene di soldi che mi fa: “Gino, glielo abbiamo buttato nel culo, eh?”.
Infatti poi quel disco non lo fece mai.
Sparì alla ricerca della moglie che gli era scappata in Inghilterra, ma senza sapere dove di preciso. Un’altra volta un amico che aveva un locale a Milano, dopo una settimana dove ho suonato io, mi chiese di fargli il nome di qualcuno al mio posto e portai Ciampi. In quel periodo beveva poco, solo che con quel poco era già sbronzo. La prima sera eravamo al bar del locale e sul palco si esibiva Silvan il mago. Non sono riuscito a trattenerlo, va su e dice: “Adesso mi rifai quel numero e se becco dove fai finta ti faccio un culo così. Però… però… se non lo becco… il culo me lo puoi fare tu”. Il pubblico di stucco.
Di Bruno Lauzi invece scrive: “Lui era liberale, e inevitabilmente i liberali scivolano verso il fascismo, mentre io e Luigi stavamo dall’altra parte”.
Ma non era Bruno a scivolare nel fascismo, erano i liberali che sono venuti dopo. Prima erano seri. Poi hanno cercato di infilarsi nei comunisti, nei socialisti e nei democristiani. Dappertutto.
Mentre di Franco Califano, in pochi ricordano che è stato lei a spingerlo a cantare.
Era un ragazzo molto intelligente, peccato per la coca… Si è scoperto che aveva quel vizio quando l’hanno portato in carcere perché era andato a fare una serata a Napoli in un locale che apparteneva alla malavita. Quando finì lo spettacolo, per pagarlo, gli dissero: “Invece dei soldi, visto che a te costerebbe di più, ti diamo un barattolo di cocaina”. Quando poi l’hanno beccato le forze dell’ordine lo hanno accusato di spaccio, solo che lui mica la spacciava. Come Walter Chiari, ne aveva sempre quantità mostruose.
È successo anche a Vasco Rossi, come ricorda nella serie Netflix Il supervissuto. In lui ha sempre visto il suo erede.
È l’interprete di un certo tipo di balordi o di ribelli, chiamali come vuoi, che sono gli stessi a cui mi rivolgevo io. Il mio inizio era contro, al punto di scrivere una canzone che non è organizzata come una canzone come Il cielo in una stanza. Mogol, figlio del direttore editoriale della Ricordi Mariano Rapetti, la presentava a tutti e gli dicevano che non era una canzone, finché Mina dopo averla ascoltata si è messa a piangere e l’ha cantata.
Mina si può considerare ancora oggi la più grande?
È la più grande esecutrice. Ha la qualità di riuscire a fare sua qualsiasi canzone che le dai, anche di poco conto. Le manca un po’ il cuore, la passione, come può avere Ornella Vanoni.
(…)
Mentre di Fabrizio De André segnala che soffriva di “timor panico”.
Se gli chiedevi di suonare si vergognava. Aveva il complesso di essere brutto, per la palpebra cadente che copriva con i capelli. Era una stupidaggine, glielo dicevo sempre. Allora beveva e andava fuori. La prima volta che doveva suonare dal vivo al Circolo della Stampa di Genova, per farlo uscire ho dovuto prenderlo a calci nel culo. Un’altra volta avevo un locale a Levanto e la Puny (Enrica Rignon, nda), la prima moglie, insisteva per farlo cantare. Arriva in motoscafo, stiamo tutto il tempo insieme, e quando è l’ora di salire sul palco si dilegua.
Nell’autobiografia confessa di avere un debole per un musicista di oggi. Si tratta di Tonino Carotone: “È un mondo difficile. E vita intensa. Felicità a momenti. E futuro incerto. Serve aggiungere altro?”.
Un pazzo geniale. In Spagna lo considerano un dio. Ha un bel cervello ed è un bel bevitore. Quando lavoravo a Madrid è venuto a trovarmi in moto ed era già sbronzo. Poi ha bevuto ancora ed è andato via sempre in moto. È ancora vivo, quindi è andato bene il viaggio di ritorno.
Altro artista che stima e che ha aiutato nei suoi inizi è Zucchero. Ma perché gli dice sempre che fa di tutto per imbruttirsi?
Lui è un bel ragazzo. Se lo metti sotto la doccia e gli tagli barba e capelli non è così come appare oggi.
(…)
Di un cantautore non si direbbe, invece lei ha avuto una vita da rockstar.
Eh sì, sembravo intimista e invece facevo le stesse cose dei rocker!
E sono arrivato fino a qui senza che mi abbia mandato a quel paese.
Se qualcuno ti dice che sono refioso (in genovese “scostante”, nda), significa che mi ha affrontato nello stesso modo. Non c’è un cazzo da fare…
Daniele Bresciani per “Oggi” - Estratti sabato 4 novembre 2023.
(...)
Ho conosciuto Gino Paoli quando ancora non sapevo camminare. Intendiamoci: io ho conosciuto lui, e non viceversa, nel senso che mia madre per farmi addormentare mi cantava di una gatta con una macchia nera sul muso e di una vecchia soffitta vicina al mare. Del resto, è destino degli artisti quello di entrare nelle vite degli altri non con un invito esplicito ma di soppiatto, attraverso parole, immagini o, appunto, musica.
Di persona l’ho incontrato per la prima volta solo un anno e mezzo fa, davanti a un camino acceso nella casa di Modena, la città di Paola, da oltre cinquant’anni sua compagna di vita e madre dei suoi ultimi due figli, Nicolò e Tomaso. Indossava un maglione morbido, dai pantaloni della tuta sbucavano un paio di eccentriche ed eleganti calze rosse e mi scrutava incuriosito con quegli occhi azzurro-grigi che sembrano sempre prenderti in giro. Quel giorno ognuno di noi due aveva le proprie perplessità: io mi chiedevo se sarei stato in grado di prendere tra le mani una vita così spettacolare e spinosa per metterla su carta, lui se era il caso di fidarsi e di affidarmi ricordi, pensieri e riflessioni.
Aveva messo subito in chiaro le cose, con quella sincerità brusca quasi scontrosa che avrei imparato a interpretare: «Quando io scrivo una canzone, l’idea parte dalla mia testa o dal mio cuore e da lì arriva direttamente su un foglio. Ma considerato che io un libro non riuscirei mai a scriverlo, qui mi toccherebbe delegare tutto a un’altra persona. Che, con tutto il rispetto, non posso sapere se dirà le cose che penso io come voglio io».
Ma alla fine si è convinto e piano piano, in interminabili pomeriggi di chiacchiere a Modena e a Genova, abbiamo ripercorso quasi 90 anni di avventure. Dico pomeriggi perché Gino dorme come un gatto, la giornata per lui comincia dopo mezzogiorno. Non c’era mai un ordine prestabilito, né di temi né di tempi. Si poteva partire dal Festival di Sanremo e ritrovarsi di colpo in mezzo ai bombardamenti di Genova, o ridere degli animali che hanno abitato le sue case e le sue stanze d’albergo (non solo cani e gatti, anche pappagalli, gufi, foche e pinguini) per poi commuoversi nel ricordo di molti amici che non ci sono più.
So bene che molte delle cose che mi ha raccontato sono ormai entrate a far parte di un “repertorio”. Chi, come Paoli, ha avuto una carriera di oltre sessant’anni ed è considerato un mostro sacro della canzone d’autore, ha rilasciato migliaia di interviste e risposto alle stesse domande un’infinità di volte: il tentato suicidio, la pallottola nel cuore, la morte di Tenco, gli amori, i due figli nati da due donne diverse lo stesso anno, Giovanni dalla moglie Anna e Amanda da Stefania Sandrelli, la lunga storia con Ornella Vanoni, l’alcol, gli amici famosi da De André a Dalla e Lauzi, i grandi successi, dal Cielo in una stanza ai Quattro amici, e gli anni bui...
Ma più dei colleghi celebri che hanno incrociato la sua strada, mi hanno colpito le persone comuni alle quali si è affezionato. Gente con soprannomi fantasiosi, come Braccio di Ferro, chiamato così perché aveva perso un braccio e con cui da giovane Gino contrabbandava quarti di bue; Muscìn, come i moscerini che ronzano intorno alle botti del vino, oppure Chopin, un tenero spiantato con ambizioni di pianista.
Sono rimasto incantato nel sentirlo recitare a memoria versi di grandi poeti del Novecento, da quelli in genovese di Firpo a quelli del suo adorato Caproni. La biblioteca di Gino trabocca di libri che vanno dai classici ai gialli di Agatha Christie, da Gesualdo Bufalino a Jack London o Remarque e lui è un lettore instancabile.
Così come al di là degli aneddoti spettacolari, sono state le sue riflessioni più intime a lasciare un segno dentro di me. Quelle sulla guerra, per esempio, terribilmente attuali nel momento che stiamo vivendo.
Gino era un bambino, così simile a quelli che incontriamo ogni sera nei notiziari, quando la sua città è stata devastata dai bombardamenti: ha visto la morte da vicino, i cadaveri allineati sul bordo della strada dopo una notte di fuoco, e questo ha lasciato ferite che in fondo non sono mai guarite. O quelle sulle meschinità del mondo dello spettacolo, troppo spesso capace di ferire e infierire come successo con Umberto Bindi, messo in ridicolo in anni in cui l’omosessualità veniva considerata scandalosa, o con Mia Martini massacrata dalla maldicenza superstiziosa.
Ma se devo scegliere un racconto che metta in mostra quell’umanità che spesso sembra fare di tutto per tenere nascosta, scelgo il sarago. Tra le grandi passioni di Gino ci sono state le immersioni e la pesca subacquea. Anni fa, al largo delle coste di Livorno, aveva scorto dall’alto un grosso sarago. Lo aveva seguito con lo sguardo e quando aveva visto dove andava a nascondersi era sceso per catturarlo.
Solo che, una volta laggiù, non riusciva più a vederlo. Allora, prima di vibrare il colpo con la sua fiocina, aveva allungato una mano tra le rocce. E afferrandolo, laggiù in fondo senza ormai scampo, aveva sentito il cuore del pesce battere all’impazzata per il terrore. Era riemerso senza la sua preda: l’aveva lasciata vivere. Non aveva mai pensato che i pesci fossero in grado provare qualcosa di simile alla paura. Da quella volta non ha più cacciato sott’acqua. Anche i saraghi hanno un cuore.
Gino Paoli: «Mi sparai perché pensavo di aver avuto tutto. Ornella Vanoni mi ha insegnato il sesso senza sensi di colpa». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2023.
Il cantautore genovese, 89 anni. «Ero alla guida quando feci l’incidente in cui morì un amico: lì andai in tilt. Amici? Beppe Grillo, Renzo Piano. Non Paolo Villaggio: troppo triste. Dalla? Un genio matto in sala d’incisione arrivò nudo con le mutande in testa»
Gino Paoli (sopra in campagna con i suoi cani) è nato il 23 settembre 1934 a Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia. La famiglia si trasferì presto a Genova, dove è cresciuto e vive tutt’ora.
Gino Paoli è di spalle, sul divano, quando entriamo a casa sua. Le finestre di fronte inondano la sala di luce, dove c’è un pianoforte a mezza coda in legno chiaro. Siamo a Nervi, Genova. Il mare e il cielo, visti dall’alto, sono un muro di luce: sopra l’azzurro-grigio del cielo nuvoloso, sotto il blu dell’acqua. Paoli si gira e i suoi occhi sembrano aver attinto a quei colori. «Vediamo se indovina quale dei due funziona». Il destro? No, ride sotto i baffi: «Solo il sinistro funziona, fortuna che dio ce ne ha dati due!». Chiedo se ci crede, in dio. E lui: «Ci parlo a telefono. Lo chiamo, incazzato, ogni volta che fa morire persone che stimo, che amo mentre lascia in giro i cialtroni, gli impuniti... Mi risponde: “Ho i miei disegni, un giorno capirai”. Ormai ho capito, è un egoista, vuole vicine le persone interessanti. Allora chiedo: “E io che cazzo ci faccio ancora qui?”. Dio per me è un signore anziano, con la faccia di mio padre».
Il cane di Paoli ronza attorno al tavolino dove ci sono i pasticcini portati per il vicino compleanno: il 23 settembre ha compiuto 89 anni, festeggiati con il libro Cosa farò da grande. I miei primi 90 anni (Bompiani). Dall’infanzia sotto le bombe al successo, passando per sesso, amore, boxe, alcol, droga, politica, morte e tanta musica. La moglie Paola ci fa compagnia durante l’intervista. Da giovane, scrive Paoli nel libro, girava con un coltello a serramanico nella borsetta per spaventare le altre fan. Si sono sconosciuti nel 1969 e sposati nel 1991.
A proposito di diventare grandi, scrive che un uomo diventa tale quando muore il padre.
«Finché tuo padre è in vita pensi che c’è qualcuno dietro di te. Poi vai al suo funerale ti giri e vedi che sei l’ultimo della fila, solo. E vale per tutti i padri, anche se tuo padre era un figlio di puttana».
In una città di mare, i bordelli erano di casa. Lì ha avuto la sua iniziazione. Ricordi?
«Un disastro, lei era brutta, tremenda, la tariffa era da 10 minuti... mi dissi “se questo è fare l’amore non lo farò più”. La mia vera vita sessuale è stata ritardata, anche perché mia madre aveva fatto scuole cattoliche tedesche, io avevo un senso del peccato gotico. Ha in mente le cattedrali gotiche? Ecco. Da mio padre invece ho preso il senso del dovere».
Ha iniziato come pittore. Soggetto ricorrente, anche qui nei quadri a casa, donne nude. Ricorda la prima donna nuda che ha visto?
«A 12 anni circa... Un’amica di mamma, la spiai dalla serratura. Mi piacque subito, non dico quella cosa lì, ma quello che c’è attorno, le linee morbide, eleganti, fiorentine... Gli antichi se facevano un uomo bello lo facevano somigliante a una donna».
Dalle foto del libro ho visto che lei a lungo non ha avuto baffi. Quando ha iniziato a tenerli?
«I miei gatti? Ne ho avuti così tanti...».
No, non i gatti, i baffi.
«Ah ( sorride, ndr), i baffi! Sempre avuti. Ma mi piaceva andare sott’acqua e con le maschere di una volta era un casino, entrava l’acqua, quindi li tagliavo prima dell’estate. Ho vissuto gran parte della mia vita sott’acqua, tutti gli anni andavo a dare la mano al Cristo di San Fruttuoso, 18 metri, giù senza bombole. Ora guardo il mare da fuori e mi illudo che sia uguale. Se vado sotto e vedo quanto è sporco mi incazzo. Un tempo pescavo e poi ho smesso. Ero alle secche della Meloria, stavo facendo il paperino... Sa cosa vuol dire?».
Galleggiava in stile Walt Disney?
«No. Stai attaccato alla barca con una cima e guardi sotto, se vedi qualcosa molli e scendi... io seguo un sarago faraone, nella tana, metto la mano fino in fondo e sento il suo cuore che batte a 100, aveva una paura boia. Da lì non ho più pescato, ho visto i pesci come gli altri animali, i cani, i gatti».
Torniamo ai gatti. Ciàcola, nella soffitta a Boccadasse, era la gatta che le ha ispirato la canzone. Nel libro dice che le ha salvato la vita.
«A casa non avevamo gatti perché pisciavano sui fiori in giardino, e a mamma non piaceva, quindi la prima cosa che ho fatto andando a vivere da solo è stato prendere un gatto. E sposarmi, certo. Mamma chiamava la gatta Ciàcola, cioè “chiacchiera”, perché i siamesi chiacchierano, non fanno solo “miao” come gli altri gatti. All’epoca dipingevo, lei mi stava sempre addosso. Una sera la metto giù e vedo che si accascia; la riprendo in braccio, e torna in sè. Come la rimetto giù, di nuovo cade. Mi sdraio vicino a lei e sento odore di gas! Avevo una stufa a gas liquido, e quello si distribuisce dal basso verso l’alto, riempie lo spazio come una bottiglia. Allora ho aperto la finestra. Un freddo boia, ma avrei potuto soffocare».
Poi trasloca. Addio soffitta. Ciacola morì.
«Pensavo non si fosse adattata, ma mi spiegò il veterinario che c’era un’occlusione intestinale, una palla di pelo che si era fatta a furia di leccarsi per pulizia».
La gatta tatuata sul braccio è lei?
«Sì, un tatuaggio a Hong Kong. Ero ubriaco. Accanto c’era un marinaio che ogni anno si faceva un pezzo di tatuaggio nuovo di un grande veliero, e lo faceva a pezzi perché all’epoca si usava la anilina, che è velenosa, e infatti io ebbi un attacco respiratorio».
L’11 luglio 1963 lei si spara un colpo. E sopravvive. Nel libro cita il suo amico Arnaldo Bagnasco, convinto che lei abbia cercato di uccidersi perché non si è mai perdonato quanto successo il 20 settembre 1962, quando un vostro amico morì in un incidente d’auto, con lei al volante.
«Ricordo che all’ospedale chiesi “gli altri come stanno?” e una suora disse “bene”. Pausa: “Uno è morto”. Lo disse come solo preti e suore sanno affrontare certe cose. Io lì vado in tilt. Arnaldo dice che ho avuto una depressione che mi è rimasta dentro, fino allo sparo. Non so, non sono d’accordo, ma Arnaldo ha vissuto con me da quando avevamo 14 anni... Può essere una spiegazione inconscia. Il fatto è che noi siamo mutanti, i ricordi sono mutanti, ciò che han visto i tuoi occhi a vent’anni non è ciò che ricordi a quaranta. Comunque, quale che siano le motivazioni, sullo sfondo c’è un discorso che vale per molti di quelli della mia età che si sono suicidati: da bambini abbiamo visto bombe, cadaveri, rifugi dove speri di non morire e che fuori poi ci sia ancora una casa, i tuoi amici. Abbiamo avuto questo imprinting, la costante compagnia della morte, lì con te, finché non muori davvero».
Per il suo gesto si era parlato di delusioni amorose. Lei ha ridimensionato questa ipotesi.
«Io ho fatto quello che ho fatto perché mi sembrava di aver avuto tutto, era un atto contro la monotonia della vita. Uno sbaglio enorme, la vita è piena di sorprese. Ma non lo sapevo allora, in quel momento lì avevo tutto, soldi, donne, tre macchine...».
Io non ho neanche un’auto.
«Ah no? Beh, allora canti anche lei, si fanno soldi, io li ho fatti con La gatta , una canzone che non c’entrava un cazzo con quello che andava all’epoca».
“Se mi scrive una canzone. Dicono che lei è bravo”. C0sì si presentò Ornella Vanoni, nel 1960. Lei le scrisse Senza fine . Grande storia d’amore. E sesso.
«La Vanoni mi ha tolto le belinate del sesso con la colpa... Che poi su ognuno di noi giravano voci senza senso. E prima di avere il coraggio di dichiararmi l’ho portata in giro per tutta Milano, lei poverina con i tacchi... finché un giorno, sotto casa sua, le dico “scusa ti devo chiedere una cosa, sei lesbica?” e lei “Io? No. E tu sei frocio?” e io “No!”. “E allora?” Allora c’era un albergo lì vicino e siamo andati a risolvere la storia».
Non hai mai trovato attrazione per un uomo?
«No, e ho fatto anche delle verifiche. A Napoli una volta uno era convinto di riuscire ad eccitarmi. Gli ho detto “prova”. Lui ha provato, ma niente».
Gino Paoli con Paola Penzo, con cui ha avuto i figli Nicolò, Tommaso e Francesco (foto archivio Paoli-Penzo)
Con Dalla eravate molto amici. Un ricordo?
«Quando giravamo con la decappottabile per Bologna una volta ho sentito uno dire “Soccia che brutti!”. Però eravamo due brutti di grande fascino... Lui mi amava, non in quel senso lì, tanto che non avevo capito bene che era omosessuale, era molto riservato».
Lei lo aiutò, lo spinse a scrivere canzoni tutte sue.
«Lucio era un grande musicista, usava i testi di Roberto Roversi, non sono male, però io lo invitai a usare la sua testa, la sua fantasia. E lo fece. Certo, una delle prime cose che ha scritto è Disperato erotico stomp , la storia di una pippa! Era un genio, matto. In sala di incisione fece spegner le luci, andò dietro i paraventi e poi spuntò fuori nudo, con le mutande in testa...».
Di Tenco ricorda l’amicizia difficile, incrinata anche perché lui andò a letto con Stefania Sandrelli. Lei sostiene che lo fece per spingerla a non lasciare la sua moglie di allora. Davvero?
«Sì. Mi ha telefonato dalla camera da letto dove era con lei e mi ha detto “guarda che non mi sembra il caso”. Una volta l’ho fatto anche io con una ragazza che un mio amico, Giulio Frezza, voleva sposare. Allora io ci sono andato a letto e ho chiamato Giulio dalla camera, dicendo “ti passo quella che vuoi sposare”».
Sono azioni brutte, sgradevoli...
«Giulio non me l’ha mai perdonata. E ho capito che è la cosa più stronza che si possa fare».
Giochiamo alla canzone Quattro amici al bar . Mi parli del suo amico Renzo Piano...
«Io lo chiamo Geometra e lui mi chiama Menestrello... ci conosciamo dagli scout. Renzo è un uomo, un uomo vero, tutto d’un pezzo. Una volta, in barca, a momenti gli massacro un dito... Ero al timone, lui va a prua e prova a sbloccare l’ancora, e io azionando il salpa-ancora gli apro il dito della mano nella catena e lui si è buttato in acqua. Non l’ho sentito neanche urlare una Madonna o un vaffanculo».
Una scena fantozziana. Com’era Paolo Villaggio?
«Era uno triste, non lo amavo, faceva l’italiano sfigato, vittima, ed era talmente convinto che lo faceva pure nella vita. Non mi piacciono gli italiani alla Alberto Sordi, quelli che si auto-sfottono, auto-assolvono, che dicono “siamo tutti così, chissenefrega”. No, non siamo tutti così!».
Uno non vale uno... Beppe Grillo?
«Lasciando stare politica, posso dire che ha un talento comico incredibile. Una volta durante una crociera salì sul palco, gli chiesero delle imitazioni, c’erano 200 persone e lui riuscì a sfotterle tutte, una per una, aveva un potere di osservazione incredibile».
Sfotteva anche lei?
«Si divertiva a fingere di dovermi suggerire le parole quando cantavo. O mi prendeva in giro per la prostata. Peccato che poi ha avuto dei problemi lui ed era terrorizzato che lo sfottessi io».Estratto dell’articolo di Renato Tortarolo per “la Stampa” Il 6 marzo 2023.
Per molto tempo, Gino Paoli è stato del tutto simile a certi personaggi da film noir, sguardo deciso, sigaretta sempre accesa. Trasgressione o passione, non è mai stato chiaro a quale sentimento si rivolgesse.
[…] Paoli, che farà se passa il decreto legge sul fumo?
«Fonderò un partito e visto che in Italia ci sono 12 milioni di fumatori vincerei anche bene. Poi cercherei di evitare imposizioni sul dove e quando fumare. Le leggi scattano quando manca l'educazione. Un tempo, specie fra altre persone, si chiedeva il permesso: scusate, do fastidio? Se la risposta era no, mica ti mettevi a farti gli affari tuoi nella carrozza di un treno».
Ma il fumo fa male o no?
«Una volta ho rivolto la stessa domanda allo scrittore Andrea Camilleri […]. Mi rispose: a novant'anni sono ancora vivo mentre miei amici morigerati non ci sono più. Mi confortò che la pensasse così...». […] «A 88 anni mi trovo nelle sue stesse condizioni. Gente che conoscevo e faceva una vita sana se n'è andata. Tragga le sue deduzioni».
La prima è che ha una tempra molto forte, la seconda è che ha pure una fortuna sfacciata…
«La terza è che lo Stato, tassando le sigarette, fa un bel po' di soldi. Hanno pensato a quanti ne perderebbero?».
[…] Cos'è per lei la sigaretta?
«Un'abitudine, una dipendenza. Ma anche una specie di amico a cui chiedi di aiutarti. A un certo punto avevo smesso. Poi in un corridoio d'ospedale, dopo l'ictus di mio padre, ho ricominciato. Ero talmente depresso e l'unica cosa che mi è venuta è stata quella».
[…] « […] alla mia età devo ammettere che con quello che ho fumato ho avuto molto più che fortuna».
Continua o si è calmato?
«Non fumo quasi più, se non con la sigaretta elettronica».
Saranno vietate anche quelle, sempre nei dehors, parchi e mezzi pubblici. Che fa, non esce più di casa?
«Sa qual è la mia prima reazione? Fatevi i fatti vostri, ai miei ci penso io. Perché ho coscienza di quello che mi può capitare. Ma se non sai nulla, se fai le cose solo per vezzo, è giusto che ti proibiscano questo e quello. Un cretino rimane un cretino».
Estratto dell’articolo di Paolo Di Stefano per corriere.it il 24 aprile 2023.
Gino Vignali e Michele Mozzati, come vi siete conosciuti?
MICHELE:«Secondo me ci siamo incontrati a casa di un amico, in una di quelle feste di liceo in cui si tiravano giù le tapparelle per i lenti».
GINO: «Per me è tutto legato alla passione per il cabaret, a quel tempo c’erano i Gufi, che erano in quattro: con un mio amico d’infanzia ci siamo messi a cercare gli altri due, e li trovammo in un oratorio. Tra questi c’era Michele, che cantava».
MICHELE: «Così sono nati i Bachi da Sera, delizioso calembour... (risata). Era il ‘68 o ‘69».
E poi cos’è successo?
G: «Il gruppo si è sciolto e diversi anni dopo, cominciavano a nascere le radio private. Nel ’76 ci siamo presentati a Radio Popolare, per proporre un simil-cabaret».
M: «Volevamo fare gli Arbore e Boncompagni della sinistra, eravamo due pirloni, che amavano Battisti, allora vietatissimo dai compagni».
G: «Però vantavamo buone credenziali, avendo fatto il 68, io alla Bocconi e lui alla Statale».
Cosa ne venne fuori?
G: «Una trasmissione che ebbe un successo incredibile: nel quartiere, ovviamente (ride). Si chiamava Do you remember sixty eight, e facevamo un quiz sul 68. Domande tipo: da chi era composta, da sinistra a destra, la terza fila del servizio d’ordine del 1° maggio 1971?».
M: «In una radio in cui si parlava di sfruttamento, di sindacato, di occupazione, facevamo i cazzoni. Nacque così il brand Gino & Michele».
G: «A quel punto Oreste Del Buono ci portò a “Linus” e il giornalista Maurizio Chierici ci premiò al premio di satira Forte dei Marmi per un libro che pubblicammo con Samonà e Savelli».(...)
Jannacci quando l’avete conosciuto?
G: «Sempre per Radio Popolare pensavamo alla sigla di una nuova rubrica. Nel ‘79 era nato “L’Occhio”, il giornale di Maurizio Costanzo, e decidiamo di farne la parodia. Così scriviamo “L’orecchio”: “E la bobina continua a girare...”. Abbiamo dato il testo a Jannacci, e viene fuori la canzone “Ci vuole orecchio”».
M: «Il testo è banale, ma in realtà c’era dietro tutto un discorso politico: la base era anche la base sociale. Volevamo spiegare perché l’intellettuale, che nella canzone è il sassofono, non deve essere separato dalla gente. Naturalmente il discorso politico fu colto da tutti. (Ride)».
G: «Enzo aggiunse solo un verso: “bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio”. Una sera ci chiama, appoggia la cornetta sul pianoforte e ci fa sentire il pezzo».
M: «Alla fine ci fa: la metto nel mio 33 giri... Noi felici, anche se non avevamo più la sigla».
G: «Enzo era il più artista di tutti, poteva guardare le scale mobili e dire: chissà dove vanno a finire i gradini... E poi farci su una canzone».
M: «In realtà con lui sono stati due o tre anni di amicizia molto intensa, in cui succedeva di tutto: non parlo di droghe, alcol o sesso, ma l’idiozia pura. Per esempio diceva: dai, prendiamo la 500 e attraversiamo la Galleria da piazza della Scala a piazza Duomo. Lui girava in vespa, ma la usava senza cavalletto, scaraventandola contro un muro con la speranza che restasse in piedi. Mentre 9 volte su dieci cadeva per terra».
Come sono nate le «Formiche»?
G: «Per caso: lavorando coi comici ci è venuta l’idea di fare un sondaggio tra gli amici per eleggere la battuta del secolo tra un elenco di cento. Una sera allo Zelig abbiamo proclamato le dieci battute migliori, lette da Bisio e da Catania».
M: «Gaber ci telefonò per dirci: sapete che non ce n’è una che mi faccia ridere? Aveva un umorismo molto particolare».
La vincitrice?
G: «“Era un bambino saccente, un giorno gli chiesero: Ma tu credi in Dio? Rispose: Beh, credere è una parola grossa, diciamo che lo stimo”. Non è Woody Allen, ma Walter Fontana, un autore televisivo allora del tutto sconosciuto».
M: «Da lì l’idea di un libriccino. Alla Mondadori ci dissero che non poteva funzionare».
G: «Un giorno viene a trovarci Oreste Del Buono, che era direttore dei tascabili Einaudi, e ci dice: non avete niente da propormi? Ha avuto un bel coraggio. Ci arrivò il contratto con il titolo monco: “Anche le formiche nel loro piccolo...”. La ragioniera disse che non se la sentiva di scrivere “s’incazzano” su carta intestata Einaudi».
M: «Fu uno scandalo che Einaudi facesse un libro di battute. La prima edizione vendette un milione di copie. Un giorno dovevamo andare a presentare il libro a Città di Castello e Giulio Einaudi ci mandò il suo autista, che ci ringraziò per avergli salvato il posto di lavoro».
G: Nel catalogo dei tascabili, grazie a Del Buono, siamo tra Proust e Balzac (risata)».
Vi siete arricchiti?
M: «Con la televisione. Per il libro avevamo destinato i guadagni a un centro di prima accoglienza, Nord-Sud di Fizzonasco. Pensavamo di incassare due-trecentomila lire».
(...)
G: «Dopo il debutto televisivo, mio padre al telefono mi disse quattro parole: ti devi solo vergognare. Punto. Questo è stato l’incipit. Beppe Recchia poi ci portò in Fininvest a “Drive In”, conoscemmo Antonio Ricci che in pochi anni ci insegnò la grammatica della televisione».
Esperienze memorabili?
G: «Abbiamo fatto anche “Matrjoska”, che fu subito censurata e divenne “L’araba fenice”. Antonio aveva preso il coro dei ragazzini di Cl montandogli sopra Moana Pozzi nuda avvolta in un cellophane. Berlusconi si incazzò e la bloccò».
M: «Moana era una signora squisita, credibile, per niente finta. Quello che ti aspetti da una bella e serissima manager, però nuda».
Poi venne Zelig.
G: «Zelig nacque, con Giancarlo Bozzo, per pagare l’affitto del locale, viale Monza 140, un localaccio pieno di fermento artistico ma che faceva fatica a stare in piedi. Non riuscivamo a vendere il progetto in televisione. Angelo Guglielmi, con il quale avevamo fatto “Su la testa” di Paolo Rossi, ci adorava, voleva che facessimo un “Bagaglino” di sinistra, e ci disse: questa non è una trasmissione, è una ripresa televisiva».
M: «Noi volevamo riprendere il cabaret a teatro come si riprende una partita di calcio».
Ora «Smemoranda» e Zelig sono in liquidazione. Cos’è successo?
G: «La tempesta perfetta. Il Covid con la Dad nelle scuole, l’aumento dei costi, la guerra... Non riuscivamo più a sostenere i debiti. Molto di quello che abbiamo guadagnato lo abbiamo investito nel gruppo. Comunque a rischiare non era affatto il marchio Zelig che ormai è di proprietà di RTI, azienda mediaset, quanto lo storico locale di viale Monza. Per questo, con Bozzo abbiamo deciso di prenderlo in affitto scongiurandone la chiusura. Lo stesso è stato fatto da Preziosi con “Smemoranda”, che continua».
M: «Purtroppo è andata così, ma non ci pentiamo di niente».
(...)
Zalone come l’avete trovato?
G: «Dall’Italia gli autori ci mandavano allo Zelig i comici più interessanti per i provini, che venivano fatti a sala piena. Questo qua è arrivato una sera da Bari, non ne sapevamo niente, mai sentito: sale sul palco in canottiera rosa e la prima frase che dice è: voglio innanzitutto salutare gli amici detenuti della casa circondariale… È bastato per farci accendere tutte le spie».
M: «Scendevano dal treno, la sera salivano sul palco e qualcuno magari poi dormiva in stazione per ripartire la mattina dopo. La leggenda narra che Zalone, quando ha visto che era l’ultimo, ha chiamato sua madre: sono a mezzanotte, figurati se mi prendono».
G: «Poi ha fatto anche la parodia dei neomelodici, ed è venuto giù il teatro. Preso subito».
Altre sorprese?
M: «Un giorno ci telefona il critico Renato Palazzi dalla Scuola Paolo Grassi: ho qui uno che fa per voi. Era un attore che aveva lavorato osservando i malati in una casa di cura. Salì sul palco con un personaggio timidissimo, che si chiamava Tolmino, non ancora Epifanio, e indossava il cappottino della mamma di Palazzi».
G: «Antonio Albanese debuttò in televisione in “Su la testa”, e una sera fece Epifanio salutando: “Ciao miao bau”. La mattina dopo mi alzo, faccio colazione e dalla finestra vedo alcuni studenti che si salutano facendo “ciao miao bau”. In una sola serata, Epifanio aveva già sfondato».
Come andò con Grillo a Sanremo nel 1989?
M: «Ci chiamò con Michele Serra... e arrivammo di corsa. Durante lo sketch del sabato, Gino era nascosto tra i fiori del palco con i fogli in mano per ricordargli le battute… Fiore tra i fiori».
G: «Faccio fatica a ricordarmi. Grillo era il re della foresta nella giungla dei comici. Ricordo solo che ci mise in una pensione di Nervi a una stella, forse con il bagno fuori... (ride)».
M: «Alla fine della serata, noi siamo scappati subito e lui è andato a rifugiarsi in hotel da Dori Ghezzi e Fabrizio De Andrè. Era inseguito dal direttore della Rai».
Giorgia.
Silvia Fumarola per “la Repubblica” -Estratti domenica 22 ottobre 2023.
Come tutte le persone sensibili, si è messa in discussione. «Sì, mi sono fatta tante domande dopo il Festival di Sanremo. E anche prima, perché la musica, il mondo sono cambiati», racconta Giorgia, voce stupenda, diversa da tutte perché uguale a sé stessa. Capelli corti, poco trucco, a 51 anni lo stesso sorriso di quando debuttò. Il 7 novembre sarà al Forum di Assago, col “Blu Live — Palasport” con cui girerà l’Italia fino a metà dicembre. Sul palco porterà gli abiti di Maria Grazia Chiuri di Dior, che ha ideato la copertina del disco, una donna vitruviana.
(...)
Ha 51 anni, il rapporto con l’età?
«Pensavo di viverla con sportività, ma dieci anni fa non stavo così. Ho fatto delle foto e mi vedo cambiata. Ti cambia la faccia, ma ho fiducia che se lavori con la tua interiorità, fuori si vede. L’importante è che ci sia armonia. Sono fifona, ho paura a farmi fare una puntura in faccia. Mia madre e mia nonna si sono operate per la miopia, io no. Terrore. E se una volta l’oculista più bravo si sbaglia?».
Nel disco “Blu” ci sono tante collaborazioni (Francesca Michielin, oltre a Mahmood, Dardust). Il legame con Elisa?
«In un periodo un po’ difficile, in cui mi ero rintanata, Elisa mi ha detto una frase stupenda: “Non mi andare troppo giù”. Il legame con lei è speciale, mi ha “prestato” suo marito, Andrea Rigonat, per il tour. Non avevo il chitarrista e lei subito: “Ma c’è Andrea”. Con Elisa il rapporto è tutto musicale: c’è stima, rispetto, amicizia».
(…) Suo figlio non le ha detto che all’ultimo Sanremo tifava per Lazza? (Ride)
«Dico solo che tornata a casa, ho aperto la porta con la valigia e mi ha salutato: “Ciao mamma come va? Te l’avevo detto”. Lazza era arrivato secondo, siamo diventati amici».
Il suo compagno Emanuel Lo, ha otto anni meno di lei. È vero che all’inizio temeva la differenza di età?
«Tantissimo, avevo paura: non credevo che potesse andare. La vita ti smentisce. Non avrei mai pensato che saremmo durati vent’anni. Era un ragazzino ma io ero più immatura di lui a gestire le emozioni».
Che ha capito dell’amore?
«Non ci ho mai capito niente, venivo da un sentimento idealizzato. L’amore invece s’impara. Dici “ti amo” e non finisce lì: più migliori come persona e meglio ami. È irrazionale ma la vita ti modella».
Il rapporto con i social?
«Il mio è autentico. Mi piace avere un contatto, una volta si scrivevano le lettere al fan club, oggi è tutto immediato. Sono capitate cose brutte anni fa. Era morto da poco Pino Daniele e mi scrissero: “Cerca di seguire l’amico tuo”. Una violenza unica. Adesso mi scrivono: “C’hai le rughe”, come fosse una colpa. Ho risposto: “Invecchiamo tutti”».
Nella sua carriera è stato determinante Pippo Baudo
«Pippo è nel nostro Dna, siamo cresciuti con la sua voce che risuonava, ricordo la prima volta che mi chiamò: ho sussultato. Ci siamo costruiti un rapporto reale, vero, sincero. Abbiamo litigato, fatto pace, c’è stima, mi ha visto crescere. Ha creduto tanto in me anche quando non ci credevo io. C’è sempre stato anche quando non ci siamo visti».
Ha recitato per Rocco Papaleo nel film “Scordato”: le è piaciuto fare l’attrice?
«Molto. E spero di farlo ancora, studio e mi impegno. Rocco me l’aveva detto: ci prenderai gusto».
Ha sempre la mania del controllo, è rimasta una perfettina?
«In casa sì, non sopporto le cose fuori posto. Mi concedo di essere compulsiva nei lavori pratici, per il resto ho un po’ mollato».
Estratto dell'articolo di Andrea Laffranchi per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2023.
«Ho passato un periodaccio. Piangevo davanti al pianoforte e al computer, buttavo via tutto quello che scrivevo... Ho anche pensato di ritirarmi». Troppo classica per essere giovane e troppo giovane per essere classica. «Non avevo più punti di riferimento. Molti sono morti. Adele e Beyoncé sono dei mostri... fra le nuove amo Cleo Soul e Rosie Lowe ma ero disorientata. È cambiato tutto in questi anni e mi sono dovuta reinventare. Mi sono messa a studiare e ho capito che il mio posto è il passato, ma con uno sguardo contemporaneo».
Ecco come è nato «Blu ¹», il nuovo album che arriva a 7 anni dall’ultimo di inediti, e che è stato lanciato da «Parole dette male», il brano che l’ha riportata in gara a Sanremo dopo due decenni. «Il Festival è stato un viaggio sentimentale che sto ancora elaborando: rivedere luoghi, persone, Elisa... E poi c’è la performance: su quel palco non sai mai come finirà». […]
[…] A Sanremo Marco Mengoni ha sottolineato la scarsità di donne nella competizione. Lei era in gara. «A Sanremo è andata così. Non credo ci sia volontà di non far emergere le donne. La presenza femminile nella musica riflette quello che accade nel Paese. Ma il clichè sta cambiando: sempre più donne sono anche musiciste, produttrici e autrici». […]
[…]Nei giorni scorsi Francesca Michielin (che qui firma con Ghemon «Tornerai») ha detto che gli artisti non devono compiacere il pubblico ma saper essere scomodi. Il testo di «Senza confine» tocca i temi dell’emergenza climatica e quello dei migranti: «L’ho scritta con Elisa, sono argomenti che condividiamo. Francesca ha ragione. Gli artisti devono schierarsi e non pensare solo a follower e cuori».
Anche contro Giorgia Meloni? «Spero che il primo ministro sappia cosa fare. Se le cose giuste le fa chi non ho votato va bene lo stesso». La questione del meme («Anche io sono Giorgia ma non rompo i cogl... a nessuno») che fece arrabbiare Meloni è archiviata? «Era un meme che ho riportato, non l’ho fatto io... Pensavo che avremmo riso tutti, lei compresa, invece abbiamo riso in tre... Spero che quando mio figlio crescerà saprà che mamma credeva in qualcosa».
Estratto dell'articolo di Rita Vecchio per leggo.it il 27 febbraio 2023.
«Maurizio Costanzo è stato tra i primi a credere in me. Ero poco più che ventenne, fu dopo il mio primo Sanremo, e l'ospitata nel suo show è stata una delle mie primissime apparizioni». Il ricordo di Giorgia, reduce dall'ultimo Festival, per il giornalista scomparso tre giorni fa, corre indietro ai primi anni ‘90. […]
Cielo e terra: c’è una dedica ad Alex Baroni?
«Fa parte del mio vissuto, gli ho dedicato tante canzoni e una parte della mia vita è andata via con lui. Ma in questo disco c’è dell’altro che va oltre».
[…]
Francesca Michielin in una recente intervista, commentando la cinquina tutta maschile del podio sanremese, ha detto che siamo ancora lontani dalla parità e che forse, a parità di canzoni, c’è «un po’ di misoginia nel votare più i maschi che le femmine».
«E’ bello che una cantautrice giovane come lei ne parli. Non so se nel voto dell'ultimo Festival c'è stato questo. Dei passi avanti ci sono stati, negli anni ’90 era peggio. Allora, quando entravo in uno studio di registrazione dovevo guadagnarmi la fiducia del fonico e del produttore. Oggi la donna musicista è anche una donna che suona e produce. Non è che prima non ce ne fossero. Io, Elisa, Carmen Consoli. E prima ancora da Patty Pravo a Loredana Bertè. Ma siamo costrette a confrontarci perennemente con una mentalità sedimentata da millenni. La chiave è parlare alla nuova generazione dei maschi in modo diverso».
Che pensa dei monologhi del Festival dedicati alle donne?
«Ritagliare uno spazio al femminile è giusto. Ma dovremmo iniziare a parlare meno e a fare di più. Il mio momento con Elisa, oltre che musicalmente bello, è stato un esempio di come ci possa essere cooperazione femminile dove non c’è invidia e competizione».
Al di là degli orientamenti politici, è stata contenta dell’elezione di Giorgia Meloni come prima presidente del consiglio donna?
«In questo particolare momento in cui si parla di parità, meritocrazia e misoginia, lo trovo importante. Mi auguro faccia un buon lavoro visto che il nome Giorgia è una garanzia (scherza, ndr). Come grandi donne in politica ricordo Nilde Iotti, di cui nutrivo grande stima».
[…]
Cantando Meccaniche Celesti, quali sono i suoi “sogni bucati come palloncini”?
«Ce ne sono tanti (sorride, ndr). Volevo fare l’insegnante di letteratura straniera, ma ho il grande rimpianto di non essermi laureata, come se mi sentissi in difetto. Avrei voluto suonare il pianoforte bene. E mi sarei voluta sposare».
Si sente in difetto anche su questo?
«No, non tanto. Mi sentivo più a disagio quando mi chiedevano se avrei fatto un figlio. Prima di Samuel ho avuto due aborti, e sentir ripertere la domanda mi ha fatto soffire. Dopo che è nato, hanno ricominciato a chiedermi quando avrei fatto l'altro. E’ un inconscio collettivo che ti assale, misto di retaggio culturale. Una donna deve essere libera di fare la sua vita come vuole. Non è tollerabile sentire che non sei donna se non hai figli».
Da madre di un adolescente, che pensa delle critiche alla troppa fluidità sul palco dell'Ariston per Rosa Chemical scatenato?
«Lui lo trovo molto intelligente e il resto l'ho visto come uno spettacolo. Le cose vanno conosciute e spiegate. La prima regola è parlare con i ragazzi. Da demonizzare è la violenza, non il bacio».
[…]
Un esempio?
«L’essere tornata a Sanremo dopo 30 anni portando il fardello delle aspettative e il peso di non deludere. Sentivo una pressione allucinante. Ma fa parte della crescita personale, il senso della vita è cambiare. E’ stato quindi un atto di coraggio (ride, ndr).
Giorgia: «Alziamo lo sguardo verso il cielo». «Nelle canzoni cerco di mettere qua e là parole che ci riconducano a qualcosa di superiore» spiega la superbig di Sanremo, che festeggia i 30 anni di carriera con un nuovo album, “Blu1”. E che qui si racconta, fra “mattate”, fughe dalla comfort zone (leggi alla voce: cinema), chiavi della felicità. MARIA LAURA GIOVAGNINI su Io Donna l’11 Febbraio 2023.
Appare in videochiamata luminosa e amabilissima come sempre, ma un po’ sovrappensiero. «Ho appena salutato mio figlio, andava a calcio. Gli ho detto: “Ci vediamo dopo!”. “Eh, che ne sappiamo?” ha risposto Samuel, che a 12 anni dà già segni di adolescenza. “’Nnamo bbene, alla tua età hai il dubbio?”. Mi sono sentita subito in colpa: sto sbagliando qualcosa». Bentornata, Giorgia! Bentornata con i suoi tormenti, sdrammatizzati da tante risate aperte e da qualche battuta in romanesco. E bentornata al teatro Ariston, dove tutto cominciò esattamente 30 anni fa con la vittoria a Sanremo Giovani.
Perché le viene l’idea di essere responsabile?
Il pensiero della morte lo accompagna, non so se dipenda dalla pandemia, dai media che enfatizzano i decessi – dai personaggi famosi agli incidenti – oppure proprio da me, che sono pesante (la mia prima poesia, a cinque anni, era su una perdita!) e gli ho messo l’angoscia. Ora sto lavorando su questa tendenza della mente, che è il mio problema: vuole occuparsi di qualsiasi cosa lei, si atteggia a cuore e, prevedendo solo il peggio, resta ingabbiata nella sindrome da controllo… Eh no, deve un attimo rilassarsi!
La buona notizia, come provano le neuroscienze, è che la mente è plasmabile.
Sì, può cambiare! Non è come si sostiene di solito, che le persone non cambiano! Se uno dovesse nascere e finire uguale, la vita non avrebbe senso.
Messaggio Promozionale - video disponibile in 11 secondi
Giorgia e il suo ritorno a Sanremo dopo 22 anni: «Sono in gara con me stessa»
In quale modo lei ci “lavora”?
È un “mischione”: in parte con l’analisi; in parte con il jogging (correre lungo la pista ciclabile del Tevere, in una Roma dal silenzio irreale, mi allontana dal rimuginio, dalla ruota del criceto). E, in parte, con l’essermi rimessa a studiare canto: basandosi sulla consapevolezza – e sulla serenità – del respiro, è una forma di meditazione. Alla fin fine si tratta di una “pulizia”, e l’alleggerimento, la leggerezza sono la chiave: siamo state abituate ad affrontare le situazioni con intensità, dando il massimo. Troppo, troppo! Una profondità che ti costringe a scavare talmente a fondo che ti maceri. A quale scopo? Prendiamo Sanremo, per esempio.
Ecco, appunto: cosa l’ha spinta a tornare in gara quando ormai si era conquistata lo status di superospite?
’Na mattata! La casa discografica, la Sony, insisteva; Amadeus ha avuto l’approccio giusto, lieve: “Che sarà mai? Un’esperienza in più”. Riaffrontare il festival con la me di oggi era un modo per testarmi su quel palco che sin dagli inizi ha rappresentato un appuntamento importante. Con i miei 51 anni mi sono detta: forse una botta d’adrenalina è salutare. Mi stavo “sedendo”.
Come mai?
Dopo il lockdown sono andata molto giù nella mia emotività artistica: mi sentivo depressa, ecco. Quando hai figli devi comunque marciare, mostrarti attiva, però quando mi chiudevo nella stanza del piano, certi pianti! Non sapevo più dov’ero, che cosa dovevo fare e se dovevo ancora fare, visto che la musica è completamente cambiata. E poi, di che cosa parlare? Fingere non si poteva e neppure sottolineare: “Moriremo tutti”! Abbiamo capito, okkeeeey, non c’è bisogno di ricordarlo… Finalmente mi sono sbloccata! Ha contribuito parecchio la mia prima esperienza cinematografica.
Debutta sul grande schermo?
Sììì, a fine marzo! Un giorno è spuntato fuori Rocco Papaleo: “Ti va di girare un film corale?”. “No, ’ndo vado? Non sono capace!”. Ha iniziato l’opera di convincimento e, quando ho letto il copione, l’ho scoperto in armonia con me: il personaggio di Olga sono io! Si intitola Scordato: Rocco, regista e protagonista, è un accordatore di pianoforti “scordato” rispetto all’esistenza. Quando gli viene un blocco alla schiena incontra me – una fisioterapista – che lo travolgo con un “pippone” elencando le possibili cause psicosomatiche. Mi sarebbe piaciuto che avesse scritto altre 100 pagine sull’argomento, ne so abbastanza e sono convinta che alcuni disturbi siano segnali lanciati dal corpo. Mi ha aiutato lui a prepararmi, ci siamo incontrati quotidianamente per tre mesi. Al momento di arrivare sul set…
“Io ed Emanuel”
Giorgia in Scordato, il film di Rocco Papaleo nelle sale dal 13 aprile.
È nata una stella.
Mhhm, no. Scena all’aperto a Salerno, con la gente che ci chiama: io terribile, una capra. Vado da Rocco: “Mi sa che ci siamo sbagliati” (sussurra). Lui: “E mi sa pure a me!” (risatona). “Che facciamo?” gli chiedo. “Proviamone un’altra e decidiamo”… Per fortuna è successo qualcosa di magico, sono tornata in me.
Parrebbe che le resti un imprinting all’autofustigazione.
(ride) Via, è migliorato! Ho mollato su vari fronti, amore incluso. Ormai sono tollerante: va dove te pare, fa’ quel che te pare (è legata dal 2004 a Emanuel Lo, ballerino, coreografo e regista, ndr). Libertà, basta! I 50 anni sono interessanti come esperienza, meglio dei 20: te ne freghi di quel che pensano di te (meraviglioso!) e ti interessa quel che tu pensi di te stessa. Hai capito come funziona, che le cose importanti sono poche ed è inutile perdere tempo a ripetere che non c’è tempo. Tanto vale viverlo. Ho meno ansia di apparire perfetta (ahò, se ho sbagliato, amen!), benché il corpo inizi a essere attratto dalla forza di gravità.
Eh no, non può esprimersi così un’antesignana come lei! Nel 2014 si spogliò in un video per lanciare un messaggio di body positivity ante litteram.
(sorride) Infatti allo specchio, dopo il primo sussulto (in quest’epoca se ti percepisci meno bella, più vecchia l’istinto è di vergognarti, manco avessi rubato!), ti riprendi e accetti. Sei cosciente delle priorità: mentre mi preparavo per Sanremo, c’era da scegliere il liceo di Samuel e quello sì era rilevante.
Il suo compagno è un papà moderno? Collabora?
Sì, è bravissimo! Tanti impegni – i tre dischi, i concerti – ho potuto prenderli perché c’era lui, che è quasi mamma da quanto è papà. In 12 anni Samuel non ha mai dormito senza almeno uno di noi due. Emanuel si è completamente votato al figlio: a volte mi lamento “E io ’ndo sto? Sto quaaa!” (ridendo, fa il gesto di sbracciarsi). Comunque preferisco così rispetto a una volta, quando i padri rientravano solo alla sera, stanchi. Il mio, per giunta, viaggiava per lavoro: ricordo che mettevo la faccia nel suo armadio per percepirne l’odore. Insomma: a maggio parto per il tour abbastanza tranquilla.
Sia il tour sia l’album si intitolano Blu.
“Blu” l’ho scelto alla fine, notando che in ogni nuova canzone c’è una parola che ti porta verso il cielo. Continuavo a ripetermi: “Alza lo sguardo!”. Siamo abituati a guardare giù, ma se ci rivolgiamo un attimo su capiamo che c’è dell’altro, che non finiamo qui, che non siamo solamente questo corpo, questa mente. Le emozioni – a volte bastarde: se ti gestiscono, ti rovinano – sono lo strumento per trovare un punto di vista diverso e da lì migliorare un pezzettino, evolversi.
Nella copertina del disco appare come “donna vitruviana”.
Un’idea di Maria Grazia Chiuri (direttrice artistica per Dior delle linee donna, ndr), cui avevo chiesto di partorire il concept della cover. “Ti metto tra cielo e terra, al centro, però il cielo ce l’hai persino addosso: il vestito avrà le costellazioni” mi ha spiegato. Il firmamento di notte non è nero, è blu profondo: devi fare un “salto” per coglierne l’essenza, non lo devi osservare con gli occhi, lo devi “sentire”… Credo nell’importanza della vita interiore e credo che, se le dedicassimo più cura, il mondo andrebbe meglio: è evidente che questa società – da Est a Ovest – abbia fallito. Ristudiando la storia con mio figlio osservo che la questione dei corsi e ricorsi è verità, tutto si ripete. Ma finiamola, tagliamo ’sta catena! E quindi nel mio piccolo, in una canzone, ho cercato di mettere qua e là quelle parole che riconducessero a qualcosa di superiore.
Il “suo piccolo” comprende pure l’impegno ecologista. Il nuovo brano Senza confine è una specie di manifesto.
Il testo in realtà è di Elisa: siamo amiche da più di vent’anni (si piazzarono ai primi due posti a Sanremo 2001, in questa edizione hanno duettato, ndr), ci lega anche il desiderio di alzare la voce e di contribuire a cause che ci premono. Il mio apporto a Senza confine si limita ai versi finali, con l’elenco delle divinità connesse alla natura. Che guardacaso, in qualsiasi tradizione culturale, sono femmine: da Gaia a Mami Wata, da Demetra ad Ashanti, da Nana Buluku a Nemaya e Maliya…
Quale dovrebbe essere oggi il mantra collettivo?
Io, la natura, il cielo. Io, la natura, il cielo. Io, la natura, il cielo… (ride). Non ho più fiducia incondizionata nel genere umano, ma spero nelle nuove generazioni: i Maya sostenevano che, dopo un transito difficile, sarebbero nate anime illuminate.
E la genesi della canzone di Sanremo, Parole dette male?
Non è mia, è di Alberto Bianco, ma – paradossalmente – sembra la più mia di tutte, con questo sentimento di malinconia che assale chi vive con profondità e impedisce quasi di andare avanti, tenendoci legati al passato. Però nell’ultimo inciso arriva la luce che brucia le paure: resterà una nostalgia, quasi un rimorso, verso un pezzo della tua esistenza che non c’è più e però, essendo ormai parte di te, si trasforma. La prendi per mano e vai avanti.
Non intendevo chiederle di Alex Baroni (l’ex fidanzato scomparso nel 2002), ma il pezzo ci costringe.
Non avrei potuto calarmici tanto se non avessi attraversato quell’esperienza lì, ovvio. E, purtroppo, non solo quella: in questi vent’anni, da quando lui non c’è, mi sono ritrovata altre volte a vivere la perdita fisica di persone care, ho dovuto ripercorrere lo stesso cammino, per quanto a poco a poco mi sia convinta che un senso ci deve essere.
Trent’anni di carriera e un elenco di successi infinito: dai milioni di dischi venduti ai premi, dai duetti con Pavarotti e Sting alla collaborazione con Pino Daniele ed Herbie Hancock. Le soddisfazioni più importanti per lei?
Al primo posto, l’esibizione con Ray Charles, un cerchio che si chiudeva: era il mito di mio padre, mi ha chiamato così per la sua Georgia On My Mind. Poi Mina, che ha accettato di interpretare la mia Poche parole e ha cantato con me: “Io somiglio a te”. L’altro giorno un ragazzo mi ha fermato: “Tu non sai quanto ci siamo innamorati con le tue canzoni!”. Quando si sedimenta l’affetto, ti conforti: vabbe’, allora valeva la pena.
iO Donna
Marinella Venegoni per “la Stampa” il 2 gennaio 2023.
Ci sono stelle che inseguono la luce e altre che non si agitano mai, e però la luce le va a cercare. Giorgia parla e canta di rado ma brilla sempre. L'anno nuovo - impegnativo per la partecipazione al Festival di Sanremo, per il nuovo album e ovvio relativo tour - si apre imprevedibilmente nel segno del cinema: c'è una sua intrigante canzone in inglese, The First Day of My Life, per la colonna sonora di Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese, con Toni Servillo, Margherita Buy, Valerio Mastandrea, che esce il 26 gennaio.
Cara Giorgia, dopo Gocce di memoria di Ozpetek, anche questo brano sembra avviato verso grandi ascolti.
«Ho scritto la canzone, intima e dark, con Maurizio Filardo, consulente musicale di Genovese: lui mi aveva chiamata durante la pandemia e il film è pronto ora. È un film giusto per oggi, su vita, morte e rinascita, da un suo libro. E c'è anche un mio cameo, divento una barbona dopo 4 ore di trucco, e spingo un carrello della spesa pieno di cose cantando New York New York».
E adesso è in arrivo anche Scordato, il nuovo film di Rocco Papaleo, dove lei interpreta una fisioterapista.
«Dopo qualche mese mi aveva chiamata anche Rocco, per questo film che esce a marzo.
Gli ho detto di no ma lui ha insistito: è un fan, una sorta di groupie, sempre presente. Sarò Olga, fisioterapista, una tipa che un po' mi somiglia, perché collega alle esperienze la sua parte interiore, come accade a me. Rocco mi ha allenata, mi ha fatta studiare; è di una simpatia cinica. Una persona vera, sincero sempre».
Anche lei è una persona vera
«Mi auguro di essere così. Quel che ho fatto nella vita è stato togliere, per arrivare alla sostanza. Mi piace non perdere la prospettiva. L'umanità fa la differenza tra le persone, la capacità di sentire chi hai davanti: altrimenti i rapporti sono freddi e inutili.
Quel che costruisci nella vita sono i legami, lo penso da quando ho a che fare con mio figlio, mi sono resa conto che quel che tu lasci è il legame».
Lei è troppo brava ma di Giorgia si parla poco, è la più defilata di questo mondo della nostra musica. Fa poca tv, pochi concerti, pochi dischi. È la vita che prevale sull'arte?
«E' così. Mia madre ancora mi rompe dicendomi queste stesse cose. E io le rispondo: ho da fare. Ci tengo che mio figlio mi veda cucinare, ha 12 anni, è sano e prima che diventi indipendente sento il dovere di esserci. Non ho più vent' anni e per fare una foto decente ci metto 2 giorni, già tanto tempo se ne va così. Ma quando vado a letto la sera debbo sentire che ho fatto il mio dovere. Spesso ho saltato la promozione, non sono andata all'estero, ho mancato tante occasioni ma accetto che sia successo. Potrei aver avuto altri risultati ma ho dato la precedenza al dentro, avendo un padre con il lavoro di cantante e con i suoi alti e bassi, so come succede, l'ho visto passare dal successo al niente. E malgrado sia ambiziosa, ho fatto scelte diverse».
Come carattere somiglia di più a suo padre Giulio Todrani o a sua madre Elsa?
«Mia madre, molto orgogliosa, ha abbandonato tutte le sue attività per seguire papà; poi si sono lasciati perché lui ha avuto un figlio da un'altra: ho un fratello che ha appena 30 anni. Per fortuna papà è molto simpatico, gli perdoni tutto. Conserva una passione per il canto pazzesca, l'altra sera aveva un po' d'influenza ma aveva anche un concerto, è salito sul palco e la sua luce era intatta. Lo invidio. Lui aveva un duo, July e Julie, sono stati anche ospiti di Sanremo. Mi diceva di lei: "Stai attenta a quella lì, è tremenda"».
Quanto ha contato che suo padre fosse un musicista?
«Moltissimo nella parte della cultura musicale, ero abituata fin da piccola a sentire Wilson Pickett piuttosto che Otis Redding o Kool&The Gang. Era il mio pusher, lui. Da mamma ho preso i cantautori. Quando papà ha capito che cantavo, gli è presa la gelosia, poi abbiamo cantato insieme, ho imparato tanto ma mi son fatta il mio gruppo, le mie canzoni come vedevo fare a lui. Ha tentato di darmi lezioni di canto ma non andavamo d'accordo e sono finita dal maestro».
Il suo scarso apparire fa capire che si trova bene nella vita privata, che moglie e mamma è Giorgia?
«Mi dicono che sono un po' pesante, la classica che vuol avere tutto sotto controllo. Come compagna ti devi rinnamorare tutti i giorni, il povero Emanuel è devastato: sono 20 anni che stiamo insieme, è più giovane di me. Come madre, sono più madre che amica. Samuel si forma ogni giorno: ora è preadolescente, abbiamo un dialogo forte, a 12 anni è più dura. Loro sono nuovi e tu devi affannarti ad adattare le regole, a cominciare dal cellulare e dai social, gli ho insegnato a dialogare e mi dà risposte conseguenti. A volte devi essere autoritario, ma ha un bellissimo senso dell'umorismo, fa battute fin da piccolo: ci ha appena detto che ha scelto il calcio perché è l'unica cosa in cui sua madre e suo padre, ballerino e musicista, sono negati».
Suo figlio le ha detto che a Sanremo farà il tifo per Lazza.
«Mi ha spiegato che ha scelto nella lista quello che gli era più vicino. Saputo di Sanremo mi ha detto: "Ma cosa fai, dove vai?". Però mi ha anche chiesto: "quanto stai?". Ci amiamo ma non siamo smielati come me con mio padre, a 3 anni mi ha detto: "I baci sono vietati"».
Anche lei si è presa le sue libertà, con la frase «Anch' io sono Giorgia ma non rompo i c*** a nessuno».
«Purtroppo non è mia, ma l'ho condivisa solo quest' anno, un meme che girava dai tempi della famosa frase della Meloni. Nella mia totale libertà e purezza, ho detto: "Proviamoci, ci facciamo due risate". Non è che hanno riso in tanti. Mio padre era scioccato, sui social mi hanno augurato la morte. Son rimasta sorpresa che il presidente Meloni mi abbia risposto, pensava pure lei che la frase fosse mia. Mi son sentita anche lusingata, con tutto quel che ha da fare. Il romano a volte per una battuta si rovina. Uno dev' essere un po' quello che è, sarò un'attrice comica».
Una risposta da donna libera, e direi anche con una purezza personale incontaminata dal musicbusiness.
«Direi che sono più libera di un tempo. Da ragazza ero tormentata da quel che avrebbe detto lei o il pubblico, ma nel canto sono sempre stata libera. Essere donna è sempre difficile, ma ora la cantante produce, scrive è musicista. Tutto più normale. Elisa è arrivata nel segno della libertà, mi ricordava Alanis Morissette ma anche un po' Whitney Houston: senza di lei non ci sarebbe stata Beyoncé. Malgrado la modernità di Mina, Patty Pravo, la Berté, mi vanto di appartenere a una generazione che passi ne ha fatti. Negli studi di registrazione siamo diventate come i maschi, pensi solo a Carmen Consoli. Un giorno dissi a un boss della mia etichetta: vado in tour con Herbie Hancock; e lui: ma che ci vai a fare. Invece io sono libera, ma nel sistema ci sto».
In tour con Herbie Hancock, mamma mia.
«In concerto, lui voleva fare anche miei pezzi... Una sera a Londra ho cantato The Man I Love. Entrando avevo visto Pat Metheny, e Herbie, insomma mi sono persa. Poi ho chiesto scusa ad Hancock, e lui: ma di cosa? Stai scherzando? Se non ti perdi non cresci».
Sanremo fa sempre paura? O ansia?
«Ansia sempre, ma soprattutto per le scale, perché le mettono sempre. Il bello dell'età è che le cose le prendi più a ridere di quand'eri giovane. La vivo come una esperienza, per vedere se sono cambiata. Nel Fantasanremo, tra l'altro, se cadi dalle scale sono punti. Sanremo è andare incontro alla gente. All'inizio non l'ho preso neanche in considerazione, poi ho cambiato idea. Come quando sono rimasta incinta: pensavo di morire, volevo l'ospedale, il cesareo, ma alla fine ho fatto il parto in casa».
Giorgia Surina.
Giorgia Surina: «Posai quasi nuda in copertina per un capriccio. A Mtv giravo con la scorta». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.
Con «Total Request Live» Giorgia Surina è diventata il volto e la voce di una generazione a cavallo degli anni Duemila: «Il segreto della sintonia con Marco Maccarini? Non siamo mai diventati veri amici»
«Avevo 19 anni ed ero al primo anno di università, facevo lo Iulm a Milano e all’epoca c’era questo concorso — Miss Iulm — a cui mi avevano iscritto alcuni amici. Vinsi io».
La Miss Italia dello Iulm...
«Sì, una cosa così, un po’ sfigata. Fui incoronata da Alberoni con una ghirlanda di domopak. Come premio vinsi anche una collaborazione con un’agenzia di moda. Ho cominciato a fare provini, andavo ai casting, ma dopo aver fatto un po’ di pubblicità ho capito che volevo parlare. Non potevo fare la modella muta e basta, avevo bisogno di esprimermi in altri modi. Così mi fecero fare un provino per un programma televisivo su Junior Tv e mi presero. Inaspettatamente cominciò la mia avventura televisiva. Assolutamente per caso».
Per caso e inaspettatamente Giorgia Surina è diventata il volto e la voce di una generazione a cavallo del Duemila, veejay di Mtv, l’evoluzione della specie del deejay perché per la prima contava anche la faccia di chi spacciava musica, l’inizio di quella idolatria per l’immagine che è definitivamente scoppiata con i social. La sua è una carriera esplosa subito, in modo violento. Primo lavoro, primo successo. Quindi la sua parabola prende pieghe diverse: attrice in diverse fiction, oggi conduttrice radiofonica su Rtl, scrittrice. La sua vita privata registra anche relazioni «famose»: cinque anni con l’ex dg Rai Antonio Campo Dall’Orto (all’epoca era il grande capo di Mtv) e poi un matrimonio lampo (due anni) con una cometa del cinema, Nicolas Vaporidis. Ma lei non si sbottona: «La vita privata è privata, dopo tanto vociare è meglio un po’ di silenzio».
Le piaceva stare al centro dell’attenzione?
«Per niente. Ero timida da far schifo, però mi rendevo conto che più facevo provini meno stavo male quando dovevo dare gli esami all’università. Per me ogni esame era una tragedia: mancanza di fiato, sudore freddo, amnesie improvvise. Quelle primissime esperienze di lavoro mi hanno fatto da svezzamento».
Dopo Junior Tv è passata a Mtv...
«Era appena nata Mtv Italia e loro stavano facendo una campagna acquisti di volti italiani. Mi avevano visto a Junior Tv e un talent scout mi segnalò. Feci il provino e fui presa. Era un provino semplice ma chiedevano la conoscenza dell’inglese e una buona conoscenza musicale».
All’epoca era meno scontato saperlo, come l’aveva imparato l’inglese?
«Ero appassionata di mio, quando potevo guardavo i film in lingua originale, mi davo da fare da sola. Sono sempre stata secchiona, anche a scuola. Per la parte musicale le basi me le aveva date mio papà che ascoltava tanta musica in casa, ogni domenica metteva su dischi nuovi, un background che mi ha aiutato tanto a entrare in una tv musicale».
La fotografia emotiva di quegli anni?
«Un bombardamento sensoriale, un’esplosione di emozioni, sono entrata a 20 anni e uscita a 30. Mi sono mangiata le esperienze che mi si paravano davanti. È stato il mio primo grande lavoro, continuavo a studiare, anche quando mi hanno mandato a Londra per Select tornavo in Italia per le sessioni d’esame».
Londra, i 20 anni, quante trasgressioni...
«Zero. Il mio sogno era andare a vivere a Londra e... tac, è arrivato. L’ho preso come il mio trampolino di lancio professionale. Non uscivo mai, non ho fatto la vita che uno si può immaginare da ventenne in una città come quella: andavo in studio, lavoravo, mi preparavo per le interviste e intanto studiavo per gli esami all’università da secchiona».
Ha fatto tante interviste a grandi personaggi. Quelle da ricordare?
«Due. Quando ho incontrato Anthony Hopkins io ero terrorizzata, lui era un grande e io dovevo essere all’altezza. Dovevo sciogliere l’atmosfera e mettere a suo agio l’intervistato. Con un personaggio così grande io mi sentivo piccola e inadeguata, e invece fu gentilissimo: you can call me Tony, non avere fretta, ti racconto tutto quello che vuoi. Lì vedi la grandezza di un personaggio, lì capisci chi ha la stoffa».
L’altra?
«George Michael è stato incredibilmente simpatico. Pensavo che se la tirasse, fosse distante, difficile da acchiappare, invece ci siamo divertiti come due ragazzini, era spontaneo, faceva battute. Il vero artista ti fa l’assist e ti aiuta, perché sa che entrambi dobbiamo uscire bene».
Chi è stato antipatico invece?
«Mary J. Blige. Eravamo io e Marco Maccarini ai primi nostri Trl, e parlava solo con lui. Era imbarazzante, io facevo la domanda e lei si girava da lui. Ci rimasi molto male».
Il suo compagno di video-merende, Marco Maccarini: che rapporto avevate?
«Tipo Sandra e Raimondo, due fratellastri, due compari. Abbiamo sempre vissuto benissimo i set insieme, zero gelosie, è una delle persone con cui ho lavorato meglio. Finita la diretta però, io da una parte, lui d’altra. Forse è stato proprio questo il segreto: non siamo mai diventati veri amici, ma quando ci vediamo è come se non fosse passato un giorno».
Ha fatto coppia anche con Alessandro Cattelan...
«Un grandissimo professionista. Era già bravo allora, lavorare con i bravi ti fa dare il massimo, hai una spinta in più a non voler deludere chi ti sta a fianco».
«Total Request Live» (Trl) generava una sorta di impazzimento collettivo, migliaia di persone sotto il vostro balcone.
«Premiavamo chi si faceva notare in maniera creativa, quindi succedeva di tutto. Ricordo ragazzi nudi anche d’inverno, in mutande solo per decenza, perché l’obiettivo era riuscire a essere portati su in studio e affacciarsi al balcone con il loro idolo. Fino a quel momento era impossibile incontrare un artista da vicino e noi eravamo un ponte tra chi ascoltava quella musica e gli artisti, univamo due mondi che si incontravano solo ai concerti».
Un’immagine di quei tempi?
«Ricordo ancora la prima puntata di Trl con Ligabue, con piazza San Babila e Corso Vittorio Emanuele bloccati e i commercianti imbufaliti. Io e Marco ci siamo anche presi una denuncia per blocco della viabilità pedonale, una cosa del genere. La polizia ci scortava perché non potevamo scendere dallo studio e tornare a casa. Fu un’esplosione che non avevamo previsto, Mtv era piccolina, eravamo in 30 segretaria compresa. Ho visto cose da matti che credo non vedremo più».
Tipo?
«Eravamo entrati nella lista delle cose da visitare dalle scolaresche in gita da tutta Italia: il Castello Sforzesco, il cenacolo, Trl in piazza Duomo... eravamo una delle attrazioni da non mancare. Molti ragazzi proponevano gite a Milano piuttosto che in luoghi più naturali da visitare, come Roma e Venezia; era un rito collettivo».
Le manca quell’adrenalina?
«È un’adrenalina impagabile, chi fa il mio mestiere cerca quel tipo di adrenalina».
Perché lasciò?
«Perché dopo 10 anni dentro Mtv avevo voglia di confrontarmi con il mondo fuori. Avevo appena compiuto 30 anni, avevo bisogno di crescere, di nuovi stimoli».
Ha condotto anche «Zelig off».
«Lavoravo ancora per Mtv e sia Bisio sia Gino e Michele mi chiedevano di usare inglesismi, di parlare a manetta, di fare la caricatura di me stessa. Mi vedevano come quella strana. All’epoca noi di Mtv venivamo visti come quelli strani, quelli della tv alternativa, mi dicevano: fallo come lo fate voi a Mtv».
Cosa la colpì?
«L’esordio di Checco Zalone e Geppi Cucciari. Si capiva che avevano un a marcia in più, veniva giù il teatro, avevano un talento creativo dirompente. Lei portava sul palco il personaggio di Wonder Woman, Checco faceva il cantante neomelodico con quella maglietta rosa stretta stretta».
Tra i nuovi stimoli che cercava è arrivato quello di attrice. Ha recitato in «Don Matteo» con Terence Hill.
«Uno dei professionisti più grandi mai incontrati, straordinariamente gentile ed educato, sempre il primo ad arrivare sul set. E poi umilissimo. Una volta si mise a riposare sui gradini, era lì, con il cappello sul viso come Trinità, steso sulle scale, scomodissimo, con le braccia al petto e io ho pensato: ok è morto. Lui mi disse che le ragazze della sartoria erano in pausa pranzo e non voleva disturbarle».
Nuovi stimoli. Pure un romanzo, «In due sarà più facile restare svegli» (Giunti), uscito un anno fa.
«E diventerà un film, Giovanni Veronesi ha comprato i diritti come produttore e sta facendo sviluppare la sceneggiatura. Si parla di maternità da single, uno dei temi caldi della società, del nostro futuro, sempre di più un’esigenza delle donne. Credo sia un atto di amore estremamente grande, la differenza la fa quanto un figlio è stato desiderato, scelto, voluto, non se è frutto dell’incidente di una sera da sesso droga e rock ‘n’ roll».
C’è qualcosa di autobiografico?
«No, al momento sono fornita di compagno... È nato dai sentimenti di un’amica e ho capito che c’era un mare sotterraneo a cui dare voce: non è un capriccio, è un’urgenza, un gesto d’amore immenso».
Ha fatto anche una copertina di «Max» non esattamente nuda, ma nemmeno propriamente vestita.
«È stato un capriccio. Mtv aveva fatto fare la copertina di Max agli altri vj nudi, ma io in quel periodo ero a Londra. C’ero rimasta male. Mi chiedevo: perché io no? E così la feci da sola».
La tv le manca?
«Quella di prima sì. Era un’altra tv. Per la correttezza di fondo: se vali vai avanti».
Giorgio Mastrota.
Giorgio Mastrota: «Con Natalia Estrada fu una vampata. E quando finì mi consolavano anche gli estranei per strada». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 03 Aprile 2023
Mastrota: «Mike mi sgridava: non dire che sei il re delle televendite. Ero ospite per un programma Rai, pensavo fosse tutto compreso nel cachet. Mi concessi ogni lusso. Alla reception mi diedero un conto da 4 milioni, che non avevo»
Come si definisce lui: «Sono l’uomo delle pentole e dei materassi». Come lo definiscono gli altri: «Gli altri non so. Però ancora oggi, quando entro negli studi di Cologno Monzese per girare una televendita, mi mettono sotto il naso un contrattino in cui c’è scritto “artista”. La cosa mi ha sempre fatto sorridere, perché è la stessa professione che attribuiresti a Picasso o Van Gogh. Diciamo che la dicitura “professionista dello spettacolo”, anche per i contratti, sarebbe più corretta».
Sono più di vent’anni che Giorgio Mastrota non conduce programmi tutti suoi. Eppure, grazie alle televendite e alle telepromozioni di pentole e materassi, «a cui si sono aggiunte quelle delle poltrone reclinabili», il suo è ancora uno dei volti televisivi più riconoscibili. Difficile trovare un italiano sopra i quarant’anni che, incrociandolo per strada, non lo riconosca. Nel 1998, la notizia della separazione da Natalia Estrada finì nei titoli del Tg5 della sera. Nel settembre scorso, dopo undici anni di fidanzamento, ha sposato Floribeth Gutierrez, madre di due dei suoi quattro figli, e non se n’è accorto quasi nessuno. Tra poche settimane compirà 59 anni.
La sua vita cambia vincendo il concorso «Il più bello d’Italia», edizione 1988.
«Tutto pilotato, ero raccomandato».
Scherza?
«Tutt’altro. Gianfranco Funari, che era presidente della giuria del concorso che si teneva a Loano, mi chiamò a partecipare con la garanzia che avrei vinto. Il problema è che oltre a me, che ero il raccomandato della parte della giuria che veniva dalla televisione, c’era un altro raccomandato dal mondo del cinema. Si chiamava Caveri, non so che fine abbia fatto».
Come ne vennero fuori?
«Moltiplicando i premi. Caveri “il più bello d’Italia”, Mastrota “l’uomo ideale”».
Quando aveva conosciuto Funari?
«Premessa: vengo da una famiglia che non aveva nulla a che fare col mondo dello spettacolo. Papà calabrese di Civita, origini arbereshe, liceo a Napoli, poi assicuratore a Milano; mamma veneziana, casalinga. Nel 1988 avevo già lasciato gli studi di economia aziendale in Bocconi e mi ero iscritto a Scienze politiche. Andrea, che ancora oggi è uno dei miei migliori amici, va come concorrente al Gioco delle coppie, condotto da Marco Predolin, e porta una mia fotografia agli autori, tra cui c’è Marco Balestri».
Prendono anche lei?
«Mi fanno qualche provino e alla fine mi scartano. Però mi propongono di andare a fare i fotoromanzi a “Grand Hotel”: centomila lire al giorno, pensi che io ne guadagnavo quattromila facendo il palleggiatore al tennis club sotto casa. Poi, anche grazie ai fotoromanzi, insieme a Federica Panicucci inizio a fare il “ragazzo sponsor” nel programma “Smile”, condotto da Gerry Scotti. Fininvest decide di mandare alcuni di noi a studiare teatro, a imparare come si stava sul palco. Oltre a me e alla Panicucci, tanto per fare un altro nome, c’era anche Simona Ventura».
Sì ma Funari?
«La moglie di Alberto Tagliati, all’epoca direttore di Grand Hotel, mi segnalò a Gianfranco. “Guarda che quel Mastrota, oltre che belloccio, è anche sveglio”. Inizio quindi a lavorare con Funari e, visto che si trovava molto bene con me, a lui viene in mente la trovata di portarmi al “Bello d’Italia”, di cui faceva il presidente della giuria. E così, dopo essere diventato “L’uomo ideale” del 1988, mi fanno condurre “La donna ideale” e l’anno dopo “Improvvisando”, insieme a Ramona Dell’Abate, sempre sulla Rai».
Cachet?
«Ottocentomila lire a puntata per otto puntate. Totale: sei milioni quattrocentomila lire. Il programma si faceva a Saint-Vincent e io alloggiavo all’hotel Billia, quello col casino. Convinto che il trattamento fosse tutto compreso iniziai a concedermi ciascuno di quelli che, fino a quel momento, avevo considerato lussi inarrivabili. Provai il salmone affumicato, mai assaggiato prima, e fu salmone affumicato a tutte le ore. Una macchia impercettibile sulla maglietta? Pronti via, chiamavo il servizio lavanderia del grand hotel e dopo un’ora arrivava la maglietta pulita. Al momento di andarmene, in reception mi porgono un conto da 4 milioni. E visto che i sei milioni e passa del cachet della Rai sarebbero arrivati dopo qualche settimana, mio padre fu costretto a correre a Saint-Vincent da Milano per staccare un assegno e farmi venir via».
Le telenovelas quando arrivano?
«Due anni dopo, nel 1991. Nel frattempo Tiziana Martinengo, che ancora oggi è una mia amica, mi aveva chiamato in Fininvest a fare l’inviato nei programmi di Patrizia Rossetti. A un certo punto, a Cologno iniziano a cercare una faccia italiana per le telenovelas sudamericane che all’epoca avevano un successo clamoroso, quelle con Grecia Colmenares e Jorge Martinez. Chiesero a me se per caso parlassi spagnolo e risposi che sì, “certo che lo parlo”».
Era vero?
«Macché. Sapevo che alla Biblioteca Sormani, che già frequentavo da studente di scienze politiche, avevano le audiocassette dei corsi di lingua spagnola. Mi chiusi là dentro per qualche settimana senza dire nulla a nessuno. Poi partii per Buenos Aires per interpretare il personaggio di Marcello Negri nella telenovela “Manuela”».
Senza quelle audiocassette non avrebbe mai sposato Natalia Estrada. O no?
«Nel 1992 mi danno da condurre “Bellezze al bagno”, la risposta Fininvest a “Giochi senza frontiere”. Produzione italo-spagnola: io conducevo la versione che andava in onda su Canale 5, insieme a Patrizia Rossetti; Natalia quella trasmessa in Spagna da Telecinco. Questo succedeva in estate. A dicembre eravamo già sposati, nel 1995 sarebbe arrivata Natalia junior».
Come fu la separazione?
«Difficile. Piaciuti, voluti, amati, sposati: tutto in una sequenza rapidissima, come una vampata che brucia una cosa dopo l’altra. La fine del matrimonio fu un evento così clamoroso che finì nei titoli del Tg5. Ma fu accelerata anche la sofferenza del post. Sai, quando una cosa la sanno tutti, esci di casa e ti arrivano parole di conforto da chiunque: il passante, l’edicolante, il macellaio. E passa prima».
Visti da vicino, com’erano i colossi della tv commerciale?
«Mai incontrato uno con l’umiltà di Raimondo Vianello. Quel mezzo inchino che riservava al telespettatore era lo stesso con cui si avvicinava alle costumiste, alle sarte, agli assistenti di studio, ai ragazzi della portineria. Sandra Mondaini mi trattava come se fossi suo figlio, amorevole, sempre. Quando iniziarono le televendite, c’era qualche settimanale che forzava i titoli e veniva fuori col virgolettato, attribuito a me, “eccomi, sono il re delle televendite”. A Mike, che era il vero re delle televendite, la cosa non piaceva. “Non devi dire questa cosa!”, mi diceva tutte le volte che lo incontravo in camerino. “Ma Mike, io non l’ho mai detta!”. “Sì ma tu non dirla”, insisteva. E io, che avevo un rispetto sacro per la sua figura: “Va bene, Mike, non la dico più”».
L’ingresso in politica di Berlusconi li vide tutti dalla stessa parte. Anche lei votava per il Cavaliere?
«Io venivo da una tradizione familiare democristiana. Quindi, da moderato che guardava più al centrodestra, sì, l’ho votato. Però sono sempre stato un pragmatico, anche come elettore. Guardo molto alla persona, infatti a Milano ho votato per Beppe Sala. Mio papà, invece, era diventato un berlusconiano accanito, il berlusconismo in tutte le sue forme per lui era quasi una vocazione. E che cosa succede? Tre anni dopo la fine del matrimonio con me, Natalia si mette insieme a Paolo Berlusconi e quindi capitava che ci si ritrovasse con lui in qualche occasione, tipo alle feste comandate. Ecco, papà era contentissimo di quei momenti, di vedere un Berlusconi in famiglia, anche accanto alla sua ex nuora».
Mastrota, come ha fatto a sparire dal giro dei conduttori tv?
«La tv è fatta di alti e bassi. E chi la fa si divide in due categorie: quelli che se ne fanno una ragione e quelli che non ci stanno. Io sono sempre stato nel primo gruppo. Nel 1995 prendo in mano un programma, “Nati per vincere”, che va decisamente male. Avendo nel frattempo continuato a fare le televendite e le telepromozioni, con un certo successo, le aziende insistevano nel volermi e io a fare essenzialmente quello».
Ha mai avuto l’occasione di rilanciarsi?
«Dopo “Meteore”, con Gene Gnocchi su Italia 1, la Rai mi propone “Festa di classe” dopo Amadeus. Avrei dovuto trasferirmi a Roma, lasciare le televendite e soprattutto allontanarmi da Federico, il secondogenito avuto dalla mia compagna di allora Carolina, che era appena nato. C’è chi vive di smanie di rivalsa e chi invece, volta per volta, di fronte alle scelte della vita si fa una semplice domanda: sto bene così oppure no?».
Scelse la rivalsa o la domanda?
«Scelsi la domanda. E trovai subito la risposta. Sì, stavo bene così».
Ci ripensa ancora?
«Certo che ci ripenso. E, quando succede, riformulo la domanda. La risposta è che sto bene, quindi è stato giusto aver rinunciato. Oggi i figli sono quattro. Dopo Natalia Junior e Federico sono arrivati Matilde e Lorenzo, io e Floribeth ci siamo finalmente sposati e abitiamo in mezzo alla natura, a Bormio. Io giro ancora le televendite e passo il tempo libero a leggere saggi di politica italiana e internazionale, la mia passione».
La laurea in scienze politiche l’ha poi presa?
«Mi mancherebbe solo la discussione della tesi, gli esami li ho dati tutti».
Guardandosi indietro, la cosa che la sorprende?
«Forse è la stessa che mi lascia di stucco ancora, dopo tanti anni, tutte le volte che firmo quel contrattino per andare in onda. Il fatto che il sottoscritto, Mastrota Giorgio, venga ufficialmente considerato con la stessa parola di Van Gogh o Picasso: artista. Ma non sarebbe meglio “professionista dello spettacolo”?».
Giorgio Pasotti.
Giorgio Pasotti: «In Cina vivevo in un loculo, penalizzato dalla bellezza. 20 anni di differenza con Claudia? Lei è matura». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2023
L’attore: «Mia figlia non vede i miei film, per lei sono del paleolitico». New York: «Sono fuggito dalla Grande Mela per i ritmi contro natura». Lo sport: «Nessuna emozione al cinema ha eguagliato quella di ascoltare l’Inno di Mameli per le mie medaglie con il wushu»
Ni hao ma?
«Wo hen hao, xiexie ni».
La tentazione era troppo forte per non chiedere come stai in cinese all’attore Giorgio Pasotti, che a Pechino ha vissuto dai 19 ai 22 anni. Lui non ha tentennato un secondo e ha risposto «molto bene, grazie a te», dimostrando di non aver dimenticato gli studi fatti all’Università dello Sport quasi all’indomani della rivoluzione di piazza Tienanmen. Lo stesso periodo ha segnato il suo debutto come attore, per tre diverse produzioni di Hong Kong. Ci incontriamo in un bar storico di Bergamo Alta, dove è nato. Il medico mancato che è riuscito a esercitare la professione soltanto sul set, ha perso l’accento della sua città di origine, ma non la dedizione al lavoro e il pudore dei sentimenti. L’unica eccezione la fa quando parla della figlia Maria, 13 anni, avuta dalla collega Nicoletta Romanoff. Lì ammette: «La paternità fa bene alla categoria. Gli attori sono egocentrici e narcisisti: è salutare sentire di non essere più al centro del mondo».
Come arrivò alla Cina?
«Mio padre aveva un negozio di oggettistica orientale e conosceva un antiquario di Pechino che mi parlò di questa università, equivalente dell’Isef. Mi ci portò per un corso estivo a 14 anni. L’idea era frequentarlo per poi fare Medicina in Italia. Partii quando mi congedarono al militare per l’asma allergica, ero alpino assaltatore».
Cosa ricorda di quel periodo?
«Indossavano tutti la divisa di Mao Zedong, il libretto rosso in tasca, vedevi solo bici. Mangiavo in mensa, la mia stanza era un loculo due metri per tre. Sono stato privato di tante cose rispetto ai miei coetanei, ma eravamo contenti per il cambio di stagione, per una nevicata, cose così. Nell’approccio alle arti e ai miei mestieri ognuno faceva quel che gli piaceva».
La racconta come un paradiso delle libertà.
«Ho goduto di quel momento irripetibile, tre anni dopo la rivoluzione studentesca. Ho visto il primo universitario con una maglietta dei Kiss».
Lì la scritturarono per i primi tre film. Cosa fece con i soldi guadagnati?
«Viaggi. Ho girato il Sudest asiatico, Malesia, Thailandia, Vietnam, Singapore, Filippine».
Da bambino sognava già di fare l’attore?
«Vaneggiavo di fare il mandriano in Canada».
Se non avesse fatto l’attore?
«Mi sarebbe piaciuto il produttore musicale».
Chi produrrebbe, oggi?
«Vivo di quello che mi fa sentire mia figlia. Forse gIANMARIA. E poi Noemi: quando partecipò a X Factor la votai. L’ho incontrata a una cena, ma non ho avuto il coraggio di dirglielo».
Dove nasce la passione per la musica?
«Da mio padre, Mario, diplomato al Conservatorio. Mi ha cresciuto facendomi ascoltare Lucio Dalla, Cocciante, i Beatles, i Pink Floyd».
Ne ha conosciuto qualcuno?
«Lucio Dalla, e mi è sembrato di incontrare una sorta di zio, uno di famiglia. Eravamo a un evento, lui stava suonando il pianoforte a coda bianco, io mi sono fiondato. Fu gentilissimo».
Incontri con i miti del cinema?
«Non ho mai mitizzato nessuno. Ho incontrato De Niro, Al Pacino, Tom Cruise, DiCaprio. Sono riferimenti, però questi incontri restano superficiali: in quei contesti non si può mai andare in profondità. Avrei voluto conoscere Volonté».
George Clooney?
«Con lui ci siamo fatti grandi risate. Entrambi siamo stati medici per finta. Anche lui sul set non si ricordava mai i termini scientifici: metteva dei bigliettini sulla schiena degli altri».
E i suoi stratagemmi, invece?
«Fortunatamente adesso i medici usano gli iPad: io leggo lì».
Il suo debutto americano fu disastroso.
«Disastrosissimo. Nel 1995, con The Dragon Fury II. A Los Angeles ci sono dei giornali che ti informano di tutti i provini, dai super cast ai film di serie Z. Per uno di questi cercavano un ragazzo esperto di arti marziali. Forte dei miei tre film in Cina mi presentai e mi scelsero per due ruoli, uno da uomo mascherato e uno in cui dovevo recitare: tagliarono le scene in cui recitavo e tennero l’altro, che veniva ucciso subito».
Però tornò in Italia e la sua carriera decollò, con «I piccoli maestri» di Daniele Luchetti.
«È il ruolo cui sono più affezionato. Durante la guerra il primo dei fratelli di mio padre morì a 16 anni, fucilato dai fascisti, e l’idea di interpretare uno studente che aveva deciso di abbracciare la Resistenza mi era sembrato la restituzione alla mia famiglia di qualcosa che non so definire».
È anche regista. «Abbi fede» è un piccolo gioiello: paradossale, cinico, commovente.
«Un branco di disperati trova una guida in un folle più matto dei matti. Era il remake del danese Le mele di Adamo. Quando ho deciso di misurarmi nella regia sapevo di volermi occupare di paternità, fede e lavoro. Al primo tema ho dedicato Io, Arlecchino, al secondo Abbi fede. Il terzo sarà sul mondo del lavoro: è tratto da Il metodo, di Jordi Galceran. Cominciamo ad agosto».
Vuole fare sempre lei il protagonista?
«È che i personaggi di questo trittico sono davvero orrendi, non avrei potuto chiedere a nessuno di interpretarli. Dopo non sarà così».
È direttore del Teatro Stabile D’Abruzzo.
«Mi sono rimboccato le maniche. “L’arte non si ferma” era un progetto bellissimo nato in quei giorni di Covid: avevo chiesto alle compagnie locali di fare riduzioni dei loro spettacoli originali, ho fatto sanare un teatro e chiesto alle due principali emittenti televisive regionali di riprenderli. Li ho aiutati senza fare beneficenza. Lo Stabile ha ricevuto nel 2022 il contributo più alto mai conferito nella sua storia dal Fus».
Il 22 giugno compirà 50 anni. Che effetto fa?
«Citando il buon Jep Gambardella, che ho conosciuto bene, non vuoi più perdere tempo con cose di cui non ti frega niente».
Se si guarda indietro, il momento più bello?
«Dirò una banalità: la nascita di mia figlia».
Tolto quello?
«Vincere una gara importante e salire sul gradino più alto del podio è una delle gioie più grandi che un essere umano può vivere, perché solo tu sai quali sacrifici ti hanno portato fin lì».
È stato tre volte campione europeo di wushu.
«Alle prime note dell’Inno di Mameli cominciai a piangere come un bambino. Una gioia non paragonabile ai premi ricevuti da attore».
Sua figlia Maria è felice di un papà famoso?
«Quando era piccola la mia sovraesposizione non le faceva piacere, era gelosa. Ora comincia a fiorire una stima diversa verso la professione che il padre fa e per la quale viene riconosciuto».
Ha visto i suoi film?
«Alcuni sì, la maggioranza no: per lei sono un attore del paleolitico, del cinema muto».
È coautore della sceneggiatura di «Mio papà», film di Giulio Base. L’aveva dedicata a Francesco e Gabriele, i figli che Nicoletta Romanoff ha avuto da Federico Scardamaglia.
«Farò sempre parte della loro vita e loro della mia. Nutro un affetto profondissimo per quei ragazzi. Mi auguro di essere stato un punto di riferimento e di aver contribuito alla loro educazione anche solo come esempio di persona leale e buona. Hanno un padre presentissimo e una madre che ha dedicato a loro la vita, ma le cose che abbiamo vissuto insieme sono indelebili».
Sta pensando a un’altra paternità con la sua compagna, Claudia Tosoni?
«Sì, ci piacerebbe».
Ha 20 anni meno di lei: la preoccupa?
«No, è molto matura».
Le spiace che il Teatro Donizetti di Bergamo non l’abbia mai invitata in tutti questi anni?
«Non entro nel merito delle decisioni di un direttore artistico, che può invitare chi vuole».
Ma a lei piacerebbe?
«Certo, è il teatro della mia città! Forse non c’è stata mai occasione. Ora però potrebbe esserci con lo spettacolo di Alessandro Gassmann».
Quello in cui recita come uno scimpanzé.
«Proprio così, uno scimpanzé e una talpa. Sono i Racconti disumani di Kafka».
Abbiamo parlato di momenti belli. E brutti?
«Quando un attore non riscontra il gradimento di pubblico o critica si mette in discussione».
A lei quando è successo?
«La mia opera prima da regista fu ingiustamente non amata dalla critica. Ma a ferirmi è stato quel liquidare a priori il fatto che un attore potesse fare anche il regista».
Sconta anche di essere un bell’uomo?
«Per molti anni è stato così».
Il regista con cui le è piaciuto di più lavorare?
«Tanti. Ho lavorato con Sorrentino, Monicelli, Davide Ferrario, Gabriele Muccino, Robert Lepage. Sono stato fortunato».
Lo sfizio che si è levato?
«La possibilità di scegliere i lavori e di godermi il tempo: posso stare a casa un mese per leggere Proust, se voglio. Il primo anno di mia figlia l’ho trascorso deliberatamente senza lavorare. Faccio impazzire le produzioni, ma mi prendo la libertà di andarla a prendere a scuola».
Il film che avrebbe voluto interpretare?
«Novecento di Bertolucci».
Dirigere?
«C’eravamo tanto amati di Scola».
James Bond?
«No, quello è puro intrattenimento. Allora preferisco fare Top Gun».
Come mai ha una casa a Venezia?
«Perché è la città più bella del mondo, un’oasi sospesa nel tempo».
Ha vissuto anche a New York.
«Sì, quando ho frequentato la mia prima scuola di regia. Ma sono fuggito: quella città ti richiede un dispendio di energia per noi italiani contro natura. Noi abbiamo bisogno dei momenti in cui ti fermi a parlare con il barista. Lì lavori anche quando non lavori».
Che squadra tifa?
«Due. Atalanta, perché è la squadra della mia città. E poi l’Inter, per colpa di mio nonno, operaio milanese trapiantato a Bergamo: la domenica si rinchiudeva in cucina ad ascoltare le partite alla radio. Accesso proibito a noi nipoti».
Giovanna Mezzogiorno.
Andrea Scarpa per “il Messaggero” - Estratti domenica 19 novembre 2023.
Un mese fa, alla Festa del Cinema di Roma, Giovanna Mezzogiorno fuori concorso ha presentato il suo primo corto da regista, Unfitting. Non il solito lavoretto un po' scolastico per buttarla lì e vedere se succede qualcosa, ma un vero pugno in faccia: la storia di un'attrice brava e di successo che in gravidanza ingrassa venti chili, non li perde subito, e dopo un po' viene completamente emarginata da tutte le persone del suo mondo: colleghi, registi, produttori e amici, amici per modo di dire. Insomma, la sua storia.
«Sì, è di me che parlo e tranne i medici nessuno mi ha aiutato», dice senza girarci intorno.
Dopo la presentazione di Roma che cosa è successo?
«Niente di particolare. Il corto, che ho fatto grazie alla giornalista Silvia Grilli, è stato accolto molto bene e di questo sono contenta. Non me l'aspettavo. Tanta gente mi ha detto che mai avrebbe immaginato una cosa del genere».
Anche lei, come tante altre attrici, vuole fare la regista?
«No. Volevo soltanto raccontare quello che mi è successo e sottolineare che, sì, è davvero andata così».
Così come?
«Dodici anni fa ho avuto due gemelli e ho preso venti chili. Con mio marito - ormai da un anno il mio ex marito - per non fare capriole impossibili con le tate decidemmo di occuparcene noi, anche perché, settimini, pesavano un chilo e quattrocento grammi: volevo assolutamente stare con loro. Così per tre anni ho deciso di non lavorare. Avevo 36 anni e da quando ne avevo 19 non mi ero mai fermata. Sentivo di meritarmelo».
Dopo un po' ha provato a perdere peso o se l'è, giustamente, presa comoda?
«Ci tengo a dire che quei chili non li ho smaltiti anche per pigrizia.
Stando dietro ai miei figli, a fine giornata ero stanca morta e di esercizi in palestra non volevo neanche sentirne parlare. C'è chi riesce a essere in forma dopo un mese, io non sono quel tipo di donna. E poi c'è stato il lockdown. Prima avevo lavorato: con Amelio, Bellocchio, Comencini, Ozpetek e altri. Dopo le prime voci si è complicato tutto: si diceva che non sarei mai più dimagrita, che un ipotetico mondo materno mi avesse risucchiata, non volevo più lavorare, non ero più la stessa, ero malata, mi drogavo, mi ero messa a bere... Di tutto».
Solidarietà?
«Zero. Sono scappati tutti a gambe levate. Se non sei più sul carro del vincente se ne vanno tutti».
Cosa ha scontato? Successo, bellezza, denaro?
«Certo. È così che va. Tutti si sono permessi di dire qualsiasi cosa su di me senza conoscere nulla della mia vita. Dire che ero malata, scriverlo sui social - che io non ho mai avuto - trasformare tutto in pettegolezzo e cattiveria, è gravissimo. Potrebbe essere vero. E se non lo è si spande a macchia d'olio, le cazzate diventano leggende».
Sulla presunta malattia che si diceva?
«Di tutto. Di vero c'è che ho una cisti sulla palpebra operata due volte e questo ha alimentato un chiacchiericcio infinito. Mi ha un po' incasinato l'occhio, nel senso che uno adesso è un po' più piccolo dell'altro, però non importa: è tornata ancora ma non interverrò una terza volta».
E gli amici?
«Alcuni, che consideravo importanti, veri, affidabili, sono scomparsi».
E l'attore che considerava come un fratello? Chi è?
«Non lo dico perché non si merita neanche quello. Lui e altri sanno, però. Va bene così. Gli mandavo messaggi, non rispondeva, poi un vero amico mi ha detto che non voleva più avere a che fare con me perché ero malata. Puff. È sparito».
Ha detto che le donne sono state con lei molto più crudeli degli uomini, conferma?
«Tranne pochissime, sono state feroci. Ho sentito molto vicine a me Carolina Cavalli, che è la regista con cui ho fatto Amanda. Jasmine Trinca, che stimo tantissimo e con la quale purtroppo non ho mai lavorato. Basta, però: non mi piace chi si piange addosso».
Alla fine è dimagrita, però.
«Sì, purtroppo. Alla fine anch'io mi sono arresa allo stereotipo della magrezza a tutti i costi. Solo che stavo per rimetterci la vita.Sono finita in ospedale in gravissime condizioni».
Perché?
«Ho fatto diete su diete, ma - non so perché - nessuna di queste funzionava. A un certo punto ho scelto la soluzione drastica: non mangiare più. E dopo qualche mese mi hanno ricoverata d'urgenza...».
(…) Con Gabriele Muccino ha recuperato i rapporti dopo il litigio seguito al suo rifiuto nel 2009 di girare "Baciami ancora", bis del film "L'ultimo bacio"?
«No. A me quella sceneggiatura non piaceva. Ho fatto una valutazione oggettiva, professionale. E basta. Non sono Babbo Natale. E avevo ragione: è stato un film meno riuscito rispetto al primo. Gabriele fu molto pesante con me, io però non ce l'ho con lui, anzi: se dovessi chiamarmi, per lui ci sarei. È un regista che gira da Dio e sa tirare fuori dagli attori l'impossibile».
È ancora signorina o ha un nuovo compagno?
«Sono una signora, ma non mi sbilancio sulla mia vita privata».
Estratto dell'articolo di lastampa.it martedì 24 ottobre 2023.
Scambi come «Abbiamo un problema, sei grassa» detto da un produttore (interpretato nel film da Fabio Volo) a una famosa attrice (interpretata da Carolina Crescentini), bersaglio di body shaming che ribatte «Ma io sono brava» e lui sferzante, «Non ce ne frega un cazzo».
È un esempio della ferocia raccontata in Unfitting, il corto con cui debutta alla regia Giovanna Mezzogiorno che si ispira, anche a colpi di ironia, alla propria vicenda: l'essersi ritrovata, negli ultimi anni, per l'aumento di peso durante la gravidanza, vittima di rifiuti sul lavoro, commenti impietosi, voci (compresa quella di essere malata), insulti, risatine, nel mondo del cinema, dei media, sui social network.
Il film breve, prodotto da One More Pictures in collaborazione con Grazia (l'idea del corto viene dalla direttrice del magazine, Silvia Grilli) e Bulgari, debutta in Special Screenings alla Festa del Cinema di Roma. Fra gli interpreti, per il microcosmo lavorativo dell'attrice nella storia, anche Ambra Angiolini, Marco Bonini, Massimiliano Caiazzo e l'agente Moira Mazzantini, nei panni di se stessa.
[…]
L'attrice, classe 1974, […] ricorda: «Ho preso 20 chili durante la gravidanza dei miei due gemelli. Poi, è pure un alibi: sono stata grassa 10 anni anche per pigrizia, perché ho fatto più vita casalinga che lavorativa, era più facile andare a svuotare il frigo. Bisogna essere onesti». Detto ciò, «che questo diventi un'arma degli altri per offendere, denigrare, ricamare leggende su una mia malattia.. sono cose gravi da dire, possono rovinare la vita di una persona».
Quello che «si viene a creare è qualcosa di allucinante. Ci vuole molta resistenza e si vivono varie fasi. Prima c'è lo sbigottimento, poi bisogna capire cosa sia successo e alla fine bisogna saperne ridere. Per questo ho fatto un corto con questo tono sul body shaming, ricordando sempre che può distruggere la vita delle persone» […] Anche Carolina Crescentini vive nella sua vita di attrice «lo stesso bullismo.Estratto dell’articolo di Enrico Caiano per il Corriere della Sera il 13 aprile 2023.
Italiana. «E fierissima di esserlo». Come suo nonno materno, Filippo Sacchi. Che dell’edizione pomeridiana del giornale che avete in mano fu direttore per 45 giorni. In anni difficili. Il fascismo era alla fine e lui, quel 25 luglio 1943, che la sua Italia stava per tornare una democrazia lo annunciò nella storica Sala Albertini del Corriere ai colleghi. Il giorno dopo scrisse un editoriale dall’attacco indimenticabile: «Ieri l’Italia ha sorriso». Ma ancora ce ne voleva di tempo perché il sorriso fosse quello degli italiani liberati del 25 aprile 1945. Era un ottimista.
Come sua nipote, Giovanna Mezzogiorno, attrice. Orgogliosa di quel nonno che ha «mancato» per un anno: morto nel 1973, lei nata nel 1974.
Ma che i racconti di sua madre Cecilia e i libri che lui ha scritto e lei divorato hanno reso familiare. Tanto da raccontarlo ai suoi bambini, i suoi gemelli omozigoti, Leone e Zeno, 12 anni a fine agosto.
(...)
Ecco, già meno italiana...
«Non sono radicata da nessuna parte e mi va benissimo così. Sono una persona che ovunque va sta bene. Una cosa che ti dà immense possibilità. Non sono una che parte da un posto piangendo perché sa che non potrà più stare lì. Da quando avevo 8 anni e mezzo questa cosa non mi appartiene. E mi auguro che i miei ragazzi crescano così: importante è il mondo, le persone diverse da noi. Sì, onestamente, per quello che vedo attorno, in questo senso penso di essere poco italiana. Sono una sradicata».
(...)
E a quasi 12 anni non sanno cosa sia il cellulare.
«Lo avranno quando cominceranno a uscire da soli, l’arnese infernale. Per ora non lo fanno, quindi io e il loro papà non vediamo un motivo al mondo per cui dovrebbero averlo. Non lo chiedono, sa. Sebbene tutti i loro compagni ce l’abbiano, alcuni già dalle elementari. Finora li abbiamo protetti ma senza metterli sotto una campana di vetro. Sono andati sempre alla scuola pubblica, dalla materna alle medie. Siamo genitori molto attenti senza per questo essere speciali. Anzi, siamo sicuramente imperfettissimi. Ai posteri l’ardua sentenza se avrò fatto bene la mamma».
Di mamme si parla tanto in Italia, oggi. Mamme di famiglie arcobaleno, ad esempio.
«Ne so qualcosa».
In che senso?
«Ho una sorella, Marina, di 15 anni più giovane. Ora vive anche lei in Italia ed è la mia migliore amica. Ci vediamo spesso, conosce i miei bambini. È figlia di una donna americana che ebbe una relazione con mio padre negli Usa a fine Anni 80. Andava e veniva dall’Italia già da piccola, la portava la nonna a trovare suo papà Vittorio. Bene, la mamma di mia sorella è bisessuale, si chiama Donna. Poco dopo la sua nascita ha vissuto in coppia per tantissimi anni con Jane, che io ho conosciuto.
Dunque mia sorella è stata educata e formata da una coppia gay. Marina è nata a Los Angeles, poi Donna e Jane si sono spostate a Seattle e lì lei è cresciuta in una famiglia perfettamente armonica, senza nessuna mancanza, con un’educazione rigorosa: Jane era una bella tosta.
Marina poi è andata via di casa a 14 anni per frequentare il college sull’altra costa. Lì si usa così. Però a 14 anni uno è un po’ piccolino. A me è capitato di andarmene da casa a 19 e ripensandoci credo che anche a 19 si sia ancora piccoli. E qui torno improvvisamente italiana. Lo sono molto meno però quando penso al dibattito sull’infanzia nel nostro Paese».
Che cosa non le piace?
«Tutto ciò che riguarda il mondo dell’infanzia mi lascia senza parole e andrebbe rivisto. Non solo per dare la possibilità a coppie omosessuali di avere e adottare figli con gli stessi identici diritti delle coppie eterosessuali. Trovo anche scandalosa la fatica che devono fare le coppie eterosessuali per adottare. In un mondo con milioni di bambini che hanno un bisogno incredibile di famiglia. Ci sono coppie che si arrendono a queste difficoltà. Folle, uno scandalo mondiale».
E per cosa l’Italia le piace?
«La gente è empatica, è un Paese in cui ancora gentilezza ed educazione hanno un valore. C’è tanto volontariato, persone che si sbattono per gli altri. E molta voglia di tenere viva la nostra cultura, uno zoccolo duro non demorde».
Zoccolo duro, dunque una minoranza...
«Nella maggioranza della popolazione siamo un Paese chiuso, sì. Conservatore e... la dico la parola? Purtroppo va detta: un pochino razzista. Non nel senso stretto del colore della pelle ma nell’atteggiamento verso l’omosessualità, verso chi la pensa diversamente, verso chi è lontano dalla cultura tradizionale cattolica. Io ai miei figli non ho trasmesso valori cattolici ma valori umani».
(...)
Giovanni Caccamo.
Giovanni Caccamo: «Rifiutato 38 volte. Poi quel cd dato a Franco Battiato mi ha cambiato la vita». La musica è la sua aspirazione sin da piccolo. Per questo si trasferisce a Milano in cerca di fortuna. Invano. Poi il ritorno nella sua Sicilia e l’incontro con il maestro. Il sogno della vita che si avvera su una spiaggia. Francesca Barra su L’espresso il 30 Marzo 2023
Giovanni Caccamo nasce a Modica nel 1990. Quando muore il papà, è molto piccolo e la musica diventa lo strumento di dialogo con la sua assenza. Studia canto e sogna di fare il cantautore, ma, quando lo racconta a sua mamma, lei, come molte madri abituate alla concretezza, gli fa presente che l’arte non è una vera e propria professione. Almeno non per tutti. Così si iscrive alla facoltà di Architettura. Di giorno è uno studente modello, ma dalle diciotto in poi diventa un sognatore.
Per quattro anni si apposta a Milano fuori dalle sedi delle etichette discografiche, portandosi dietro le foto dei discografici per riconoscerli più facilmente e consegnando un cd con le sue musiche incise a casa, in modo amatoriale. Lo stalker gentiluomo non demorde per trentotto volte, trentotto appostamenti fino alla resa. Chiama sua madre e le dice: «Avevi ragione. Resterò un architetto con la passione per la musica».
Un giorno, rientrato in Sicilia, viene a sapere da un’amica che Franco Battiato ha affittato una casa al mare sulla spiaggia di Donnalucata. È il 9 agosto del 2012, Giovanni come una sirena sente quel richiamo e decide di appostarsi dietro un cespuglio per quattro ore, in attesa che quello che considerava il suo maestro uscisse di casa. Suda, è agitato, ma non si muove di un millimetro. Quando Battiato lo vede sembra infastidito per quell’invadenza, ma accetta il cd. Giovanni decide di non pensarci più.
Dopo qualche ora il suo cellulare abbandonato in un angolo di casa riporta cinque chiamate anonime e un messaggio in segreteria. «Ho ascoltato il disco, ci vediamo domani alle 11 in spiaggia ciao». Nasce così la loro collaborazione, una grande amicizia. Dopo aver prodotto il primo singolo di Giovanni, “L’indifferenza”, Battiato lo sceglie per l’apertura dei suoi concerti.
«Nel caos di Milano nessuno si è fermato ad ascoltarmi e, invece, proprio la lentezza da cui ero fuggito ha dato a Battiato quella possibilità: la Sicilia mi ha regalato l’occasione più preziosa della vita. Oggi ringrazio chi mi ha demotivato, chi non ha creduto in me. Le secchiate sulla fiamma della mia passione mi hanno temprato e messo alla prova, rendendo la mia fiamma più robusta e forte».
Da questa esperienza testarda Giovanni ha continuamente pensato al valore dei sogni. Sono arrivate la vittoria al Festival di Sanremo, le collaborazioni con Malika, Elisa, Andrea Bocelli. Fino al suo ultimo disco “Parola” con la partecipazione di Patti Smith, Willem Dafoe, Liliana Segre e altre straordinarie voci, in risposta a un appello di Andrea Camilleri che chiese ai giovani di far partire un nuovo umanesimo.
«Sentivo, però, come non fosse sufficiente la mia risposta all’appello per far partire un umanesimo, così ho prodotto un concorso di idee: “Parola ai giovani”, rivolto agli under 35, per raccogliere idee visionarie per edificare il futuro». La domanda è: «Che cosa cambieresti della società in cui vivi e in che modo?». Da migliaia di testi raccolti dal Web, in tavole rotonde in università, nelle carceri e nei centri di accoglienza, sono stati selezionati 60 scritti che saranno pubblicati a maggio da Treccani nel volume “Manifesto del cambiamento”: una raccolta di luce in questo presente nebuloso. La parola scelta da Giovanni è gratitudine. E la vostra?
Giovanni Muciaccia.
Mauro Giordano per corrieredibologna.corriere.it il 7 gennaio 2023.
«La cosa che mi rende più felice e mi dà maggiore soddisfazione è essere fermato da ragazzi e ragazze che oggi sono dei trentenni e che mi dicono una frase semplice ma bellissima: “Grazie per l’infanzia che ci hai fatto vivere”.
Sono sicuro che anche adesso Art Attack catturerebbe l’attenzione di tanti telespettatori, lo dimostrano i video tutorial che spopolano sui social». Parla Giovanni Muciaccia, 52 anni, e pensi subito a forbici con la punta arrotondata, colla, colori e tutto quello che può servire per esprimere in pratica quello che lui racchiudeva nello slogan «Non bisogna essere dei grandi artisti per fare dell’arte». Recentemente è stato protagonista al Nerd Show di Bologna, dove è diventato una presenza fissa anche per la conduzione del premio «Voci animate» che viene conferito ai doppiatori italiani.
Muciaccia non è scomparso dagli schermi dopo la chiusura del programma che più lo ha reso celebre, tanto da fargli «guadagnare» un’imitazione di Fiorello («Mi piace ricordare sempre quando la prima volta mi telefonò in diretta mentre ero al British Museum e non l’ho riconosciuto, a suo modo mi ha reso epico»): oggi realizza contenuti video e digitali per le aziende che lo contattano per la sua «capacità di semplificare le cose» e poi continua a raccontare il suo libro «Attacchi d’arte contemporanea» pubblicato nel 2021. Togliendosi più di qualche sassolino non risparmia osservazioni critiche sulla Rai «dove i direttori di rete che cambiano anche in poco tempo decidono di tagliare i programmi, a volte senza nemmeno il supporto dei dati d’ascolto, ma io ho imparato a non lamentarmi anche perché quel sistema non lo cambi con le polemiche, è un argomento delicato».
Muciaccia, tra quel pubblico che le dimostra sempre grande affetto ci sono anche nuovi fan?
«Io arrivo a coprire quelle generazioni che vanno dagli attuali dodicenni fino a chi ha 34-35 anni. C’è chi ha vissuto Art Attack ma anche chi lo scopre oggi perché comunque le registrazioni continuano a essere molto condivise o anche perché quello che facevamo viene raccontato dai più grandi a chi è più piccolo. Credo che sia stato realmente un programma all’avanguardia perché i tutorial sono un prodotto che attraggono molto».
Non le è mai pesato l’essere accostato sempre a quel programma?
«No, anzi, io avrei continuato a farlo. Il programma è nato nel 1990 e andava in onda inizialmente sulla Bbc da un’idea di Neil Buchanan e Tim Edmunds. Lo notò la Disney e si decise di avviare una coproduzione, strutturando la trasmissione così come poi è stata realizzata anche da noi, uguale per quattro Paesi: Italia, Spagna, Francia e Germania. Nel 1998 scelsero i presentatori. Io fui scelto per la versione italiana. Abbiamo fatto un test per un anno, il programma andò bene.
Nel secondo anno si aggiunsero altri Paesi fino ad arrivare a 32. Nel 2005 venne chiuso. Venne ripreso nel 2010 e lo realizzarono in un’altra struttura in Argentina e si andò avanti per altri quattro anni. Per me è stata un’esperienza straordinaria anche per la possibilità di lavorare in contesti extra italiani. Le repliche continuano a essere molto viste, è un po’ come con i cartoni animati che riguardi anche quando sai già come andrà la puntata. Per certi versi nei più piccoli è rassicurante sapere cosa succederà, ti dà la sensazione di comandare gli eventi. Ma sa qual è la verità?».
Quale?
«Che è stato soprattutto il pubblico a essere dispiaciuto, una delle tipiche frasi che rimbalza in quella generazione di spettatori è “Ma che ne sanno quelli che sono arrivati dopo”. Io sono sempre stato contento di stimolare la fantasia e resto convinto del fatto che piacerebbe anche oggi. Non a caso la quota più importante di chi mi segue oggi è su TikTok, che si presta molto ai tutorial».
Oggi lei cosa fa?
«Vivo degli spettacoli che faccio in giro e delle collaborazioni con importanti marchi, inoltre ho scritto il libro che per me è stato un impegno molto serio perché l’ho scritto veramente io (ride, ndr), ho impiegato undici mesi per idearlo e realizzarlo. Allo stesso tempo però ho fatto delle scelte molto mirate. Ho detto tanti “no”nella mia carriera, per esempio ho detto “no”a molti reality. Sono felice del mio percorso e provo a fare sempre cose che sia coerenti con le mie passioni».
Nella tv generalista i contenuti per l’infanzia e i più giovani sono praticamente scomparsi, su canali specializzati ha avuto modo di tornare a proporre i suoi «cavalli di battaglia»?
«In Rai le ultime trasmissioni alle quali avevo lavorato dopo “Sereno Variabile” sono state “Cinque cose da sapere” e “La porta segreta”. Purtroppo la Rai è condizionata dagli influssi politici e io sono “inciampato” in un direttore di rete che ha tagliato i miei programmi, uno dei quali era ancora in fase di registrazione quindi non c’erano problemi di ascolti insufficienti. Io sono abituato a non lamentarmi, altri miei colleghi hanno fatto interviste furenti ma secondo me serve a poco. Oggi siamo “bombardati” dalle informazioni e non ci accorgiamo che chiudere i programmi di divulgazione è grave. Comunque ho molte cose da fare e per questo non amo alimentare polemiche».
L’imitazione di Fiorello la consacrò al successo.
«La prima volta che mi ha fatto l’imitazione mi ha chiamato al telefono, non l’ho riconosciuto e mi trovato a Londra a girare Art Attack. Avere Fiorello che ti imita in prima serata, di fronte a milioni di persone, è stata un’emozione ma anche una grande pubblicità. Ha permesso di farmi conoscere ad un pubblico più adulto. Fu un tributo che non mi aspettavo e sono diventato un tormentone».
Non si è mai voluto scollegare da quel personaggio?
«Sono sempre andato dove mi ha portato la vita e Art Attack rimarrà un programma che ha segnato la storia della televisione italiana. Ho tante cose che mi appagano e ho sempre pensato alla carriera e al lavoro come un mezzo e non come un fine: ho voluto mantenere intatta la mia libertà di andare in un museo o di poter viaggiare. Se il lavoro nella vita prende il sopravvento diventa un’altra cosa».
Quando nacque la sua passione per l’arte?
«Fin da bambino mi è piaciuto andare per musei e infatti da adulto sono diventato un collezionista. Questo mi ha portato a voler studiare l’arte da appassionato per riuscire a codificare quello che non capivo. La mia formazione invece è iniziata studiando nelle scuole di teatro. Da queste stesse scuole mi hanno chiamato per fare dei provini in Rai. All’inizio ho condotto Disney Club e “La Banda dello Zecchino”.
Gli anni della formazione sono stati molto belli. Ho fatto esperienze importanti. Ho studiato all’Accademia d’Arte Drammatica in Calabria. All’epoca la strada era quella e poi ci fu l’occasione di Art Attack. Sono pronto a farmi coinvolgere in nuovi progetti, per esempio l’idea del libro è nata durante una puntata del “Muschio selvaggio” con Fedez e Luis Sal, nella quale emerse questa volontà di voler divulgare quello del quale mi sono occupato in questi anni».
Recentemente ha destato curiosità questa sua attenzione per le criptovalute. Cosa ne pensa?
«Una società mi ha chiesto di divulgare il tema semplificandolo attraverso dei brevi video per renderlo comprensibile. Credo sia un argomento da trattare in modo delicato perché possono essere un’opportunità ma sempre con quella dose di rischio e incertezza che ogni investimento si porta dietro. Più che altro il tema in generale tocca anche l’arte con il campo degli Nft, che mi incuriosisce».
Con il famoso Neil che compariva con lei nel programma siete rimasti in contatto?
«In realtà non ci sentiamo da alcuni anni, nei primi tempi eravamo in contatto, ma so che sta bene e che sta lavorando ad altri programmi televisivi».
Giovanni Pietro Damian: Sangiovanni.
Sangiovanni compie 20 anni: le origini del nome d’arte, l’amicizia con Madame, 7 segreti. Arianna Ascione Online su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.
L’artista - vero nome Giovanni Pietro Damian - è nato a Vicenza il 9 gennaio 2003 e si è fatto conoscere grazie ad Amici di Maria De Filippi
Il nome d’arte
Compie oggi 20 anni Giovanni Damian in arte Sangiovanni. Originario di Grumolo delle Abbadesse - piccolo comune del Vicentino - è nato a Vicenza il 9 gennaio 2003, ultimo di tre figli. Si è avvicinato al mondo della musica a sedici anni, e a quell’età ha iniziato a scrivere i suoi primi brani. Fin da subito ha scelto di utilizzare uno pseudonimo, Sangiovanni, ottenuto anteponendo «san» al suo nome di battesimo: questo perché - ha poi rivelato - gli è sempre stato detto che «non aveva proprio la faccia da bravo ragazzo». E questa non è l’unica curiosità su di lui.
Amico di Madame
È molto amico di Francesca Calearo, ossia Madame: forse non tutti sanno che i due artisti hanno frequentato lo stesso liceo, il Don Giuseppe Fogazzaro di Vicenza (Sangiovanni ha poi lasciato gli studi al quarto anno per partecipare ad Amici di Maria De Filippi).
«Malibu» da record
Dopo aver pubblicato i primi tre singoli «Paranoia», «Non +» e «Guccy Bag» per l'etichetta discografica Sugar, Sangiovanni nel 2020 entra nel cast del talent show Amici di Maria De Filippi. Arrivato al serale raggiunge la finale, trionfando nella categoria cantanti e piazzandosi secondo nella classifica generale. Durante la partecipazione ad Amici escono i singoli «Lady» (poi certificato quadruplo disco di platino), «Tutta la notte» e «Hype». Sarà poi «Malibu» - singolo estratto dall’EP «Sangiovanni» - a conquistare il titolo di canzone più ascoltata del 2021 su Apple Music e Spotify: «È sempre stato uno dei miei sogni quello di raggiungere più persone possibili con la mia musica» dirà poi Sangiovanni.
Il suo idolo
«Il mio idolo? Martin Luther King». Intervistato dal Corriere a luglio 2022 Sangiovanni ha fatto il nome del Premio Nobel per la pace e difensore dei diritti umani ucciso a Memphis il 4 aprile 1968 tra i suoi punti di riferimento. «Quando l’ho studiato a scuola sono davvero rimasto impressionato, quell’ideale, quella forza, quel discorso mi sono rimasti impressi per tanto tempo. Quella era la sua meta: fare del bene al mondo».
Vittima di bullismo a scuola
A proposito della sua popolarità in un’intervista di qualche mese fa al settimanale Oggi Sangiovanni ha rivelato di aver ricevuto numerosi apprezzamenti da parte dei fan, ma di aver subito anche attacchi da hater, episodi che gli hanno riportato alla memoria alcuni brutti momenti vissuti ai tempi della scuola: «Quando si è esposti mediaticamente arrivano l’affetto e la positività, ma anche l’odio. Mi hanno attaccato con ferocia, augurato di morire. Senza conoscermi, senza un perché. Questa cattiveria gratuita mi ha fatto rivivere il periodo in cui la scuola era diventata un inferno a causa del bullismo dei compagni, cosa peggiore, degli insegnanti che minavano l’autostima con frasi tipo: “Nella vita non combinerai mai nulla”. Sentire addosso una molteplicità di giudizi, anche molto negativi, sul tuo modo di comportarti, di vestirti, di cantare. E poi insulti, minacce di morte che minano l’equilibrio e rendono più fragili. Dopo gli attacchi degli hater mi sono sentito ferito e imbarazzato. La cosa destabilizza, ti interroghi sul perché le persone riversino sugli altri il loro disagio». In un primo momento l’artista si è fermato e rinchiuso in se stesso («Le ansie e le paranoie che la musica faceva svanire erano tornate: la soluzione era diventato il problema»). Poi ha deciso «di guardare in faccia la sofferenza e di chiedere aiuto».
La prima volta a Sanremo
Ha partecipato per la prima volta al Festival di Sanremo lo scorso anno con il brano «Farfalle». «Ho scritto questa canzone in un momento in cui ero vittima di tanti dispiaceri, dovuti a varie situazioni - ha raccontato al Corriere del Veneto -. Mi sentivo oppresso, come se non riuscissi a respirare. Sai quando dici “prendo e me ne vado”? Ecco, questa canzone mi porta questa sensazione. Ritrovare ossigeno attraverso cose che ti fanno stare bene, come l’amore e le persone che ho vicine. Esibirmi all’Ariston è una sfida con me stesso perché voglio buttare fuori tutto quello che ho accumulato di tossico e prendermi una boccata d’aria dopo tanto tempo. Nel testo dico “sei la boccata d’aria”: è una metafora riferita alla canzone stessa e non a qualcuno, perché per me è così e spero che sarà cosi per chi la ascolterà. Questa è una sfida con me stesso». È arrivato al quinto posto nella classifica finale e nella serata dedicata ai duetti si è esibito con Fiorella Mannoia su «A muso duro» di Pierangelo Bertoli.
Vita privata
Sangiovanni è sentimentalmente legato a Giulia Stabile, ballerina e vincitrice della ventesima edizione di Amici, apparsa anche nel videoclip della canzone «Malibu». L’amore tra i due è scoppiato proprio tra i banchi del talent show. Cosa li ha uniti? «Qualche strano evento del cielo - ha raccontato lui al Corriere -. Io ho sempre mantenuto il mio sentirmi non adatto, senza perderlo. Giulia si è sentita come me, ma tante volte non è riuscita a rimanere se stessa, è caduta nella trappola dell’amalgamarsi alla massa. In lei ho trovato una persona che potevo essere io se non avessi lottato. E mi sono sentito in dovere di aiutarla, per farle mantenere la sua unicità».
Giovanni Scialpi.
Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” venerdì 8 settembre 2023.
Scialpi o Shalpy?
«Lo sanno pure i pinguini: all’estero diventava Schialpi, perciò ho scelto Shalpy, chiamatemi come vi pare».
(...)
Merito pure del look metal-glam, pelle e borchie.
«Fatto in casa con mia madre. Ho tinto giubbotto e jeans in lavatrice con una bustina della Coloreria italiana, ci ho messo il giallo, dal blu è venuto verde. Li ho tagliuzzati. Con la pietra pomice ho strofinato bene la tela per l’effetto liso. E ci ho aggiunto cinturoni e stivali. Dolce&Gabbana, due amici, l’anno dopo a Parigi si sono ispirati a me».
Capelli alla Elvis?
«Più David Bowie e Rettore, rockabilly rivisitato, corto da una parte, lungo dall’altra».
Vita da rockstar?
«Andavo a letto presto e mi svegliavo presto, questo fanno le vere rockstar, non sfasciano le stanze d’hotel».
Le follie dei fan.
«Al teatro Colosseo di Torino il mio concerto era diviso in due tempi. All’intervallo dissi: “Vado a prendermi un tè”. Andai in camerino. Tornato sul palco, lo trovai pieno di bottigliette di tè e Coca Cola per me. E poi: il mio impresario, non proprio una personcina per bene, mi portava in giro con la sua Mercedes amaranto. All’uscita di un concerto la ritrovammo tappezzata di firme fatte con il pennarello indelebile. Cominciò a imprecare. Fu costretto ad andare dal carrozziere. E infine una volta in Campania, a una festa di piazza, sempre sulla Mercedes, fummo circondati: ci sollevarono a un metro da terra».
Avventure con groupie?
«Non mi sono mai dilettato con qualcuno conosciuto ai concerti, né uomini né donne, era una mia regola».
Sanremo 1986, «No East no West».
«Mi ero messo una cotta di metallo a pelle, sotto al giubbotto. Pesantissima. Performance atletica, salti di un metro e mezzo. Dopo una sforbiciata in aria, la cotta si è rotta e mi è scivolata sui fianchi, diventando una minigonna. All’epoca fu uno scandalo, non sa le critiche. Adesso al Festival per attirare l’attenzione si baciano in bocca».
Rosa Chemical e Fedez. Lei non lo avrebbe fatto ?
«No, si pesca sempre più in basso, tra poco si caleranno i pantaloni. Nel 2015 ho partecipato a Pechino Express con Roberto Blasi, allora mio marito. Quando vincevamo una prova, lo baciavo sulla fronte. Mi arrivarono i complimenti anche da destra, perché non ostentavo. Oggi per farsi notare basta qualche tatuaggio e la lingua in bocca, contenti loro, io penso alla musica, all’arte».
Blanco ha pestato le rose .
«I giovani non conoscono le regole dello spettacolo, Blanco ha fatto casino e basta .
Doveva fermare la base, uscire e poi rientrare. Ci fosse stato Pippo Baudo invece di Amadeus, gli avrebbe detto: “Vieni qui e chiedi scusa”».
Come andò con i colleghi?
«Eros Ramazzotti fu carinissimo. Sembra un duro, con quel broncio, invece è una persona adorabile».
Non era male a calcio, ma niente Nazionale Cantanti.
«La penso come Vasco, se voglio fare beneficenza pago qualcosa e lo mando».
Amici nella musica?
«A Los Angeles, dove vivo sei mesi all’anno, mi vedo con Tiziano Ferro e suo marito».
Con lui era partita male.
«Mi era uscita una frase infelice, che gli è stata riportata mal tradotta, proprio mentre stava incidendo Cigarettes and Coffee . Gli ho telefonato per scusarmi. “Me tapino”. Mi ha perdonato subito».
Con il suo ex Roberto invece non è finita bene.
«Non so cosa sia successo, non me lo ha mai detto. Non mi ero sposato perché va di moda, ma perché ho sempre cercato la famiglia che non ho avuto. I miei non c’erano mai e sono figlio unico».
Colpa di un tradimento?
«No, forse lui non mi sopportava più. Vivere in coppia è dura, però non molli alla prima difficoltà».
Si è riconsolato?
«Sì, no, non lo so. Vorrei un fidanzato per ogni giorno della settimana, domenica esclusa, visto che quello per tutta la vita non è andato bene».
Era quasi sparito.
«Mentre ero a Music Farm, nel 2004, si è ammalato mio padre, che poi è morto. Quindi ho assistito mia madre, che ha avuto l’Alzheimer. Ho messo da parte il lavoro. E nel 2016 ho perso anche lei. Ho preso un anno sabbatico. Sono caduto in depressione. L’epidemia. Gli anni sono volati via».
Il successo non è durato.
«Oggi il successo si compra, è solo marketing. La musica non esiste più, i cantanti italiani non so nemmeno come si chiamano. A parte i Måneskin. Però lì i manager gli hanno messo a disposizione 2 miliardi, così è facile».
Dal 22 settembre sarà a «Tale e Quale» di Conti.
«Sono contentissimo. Sempre stato bravo con le imitazioni. Morandi, Zucchero, Renato Zero».
Me li fa sentire? Accenna La mia nemica amatissima e Rispetto. Identici. Di Zero è amico? Da ragazzino era un sorcino?
«Sì, ma poi sono cresciuto. Renato non è mio amico e non ci tengo nemmeno».
Giuliana De Sio.
Estratto dell’articolo di Ilaria Costabile per fanpage.it sabato 2 settembre 2023.
Giuliana De Sio si racconta in un'intervista rilasciata a Repubblica dove non nasconde nulla del suo passato, anche i momenti più dolorosi, smentendo anche quelle che lei chiama vere e proprie "calunnie" sul suo conto e che, nel tempo, non le hanno permesso di far volare la sua carriera nel mondo del cinema, come avrebbe desiderato.
[…] Un'infanzia, quella di Giuliana De Sio, nata a Cava de Tirreni 67 anni fa, piuttosto tormentata con una famiglia divisa e distante: "I miei genitori si sono separati quasi subito. Mio padre c’è stato più o meno fino ai 12 anni ma era come se non ci fosse. Mia madre era alcolista e c’erano davvero pochi orari in cui era accessibile. Diventava aggressiva, chiusa, malinconica".
Il passaggio all'adolescenza, infatti, non è stato poi semplice. […] "A 13 anni ho preso delle pillole e mi hanno salvato per il rotto della cuffia. Non so perché l’ho fatto, probabilmente cercavo attenzione rischiando di morire".
[…] La carriera nel mondo dello spettacolo è iniziata da giovanissima, quando poco più che maggiorenne incontrò Alessandro Haber che in lei aveva visto le doti necessarie per diventare un'attrice di spessore, oltre che una bellezza in grado di catturare chiunque l'avesse guardata:
[…] Lui mi ha preso per i capelli e mi ha portato dal suo agente che non mi voleva perché avevo 18 anni e mezzo e secondo lui ero troppo giovane, dimostravo 14 anni. Alessandro però mi aveva fatto delle foto sul balcone di casa che aveva lasciato sul tavolo di questo agente. Morale della favola: dopo aver visto quegli scatti alcuni produttori mi hanno offerto tre provini che ho superato.
[…] Eppure, […] lavorare per il grande schermo non le ha dato le soddisfazioni che sperava, soprattutto perché sul suo conto sono stati fatti commenti che, come Giuliana De Sio racconta a Repubblica non sono mai stati corrispondenti al vero:
“Il cinema è stata la mia grande delusione. Ero convinta che certi miei film, per cui ero stata anche premiata, fossero un trampolino per fare del cinema più importante che poi non ho fatto. Di solito si spicca il volo, invece hanno iniziato a dirmi quella cosa insopportabile che dicono alle donne.
Che sono difficile da collocare in qualche ruolo importante cinematografico o televisivo perché non dimostro l’età che ho. E poi questa diceria che sono una persona impossibile è una calunnia. Una calunnia non meno grave di quella che ha subito Mia Martini sul fatto che portava sfortuna. Ed è una cosa che mi ha fatto molto male. Davvero molto male”.
L'episodio da cui è nata la voce, secondo cui, il suo carattere fosse impossibile, riguarda un alterco sfociato in una lite furibonda con Gianni Amelio. I due, infatti, arrivarono alle mani:
“Stavamo girando un film per la tv e mentre eravamo in sala prove lui deve aver pensato che lo stessi guardando male e mi ha detto due tre cose davvero stupide. In pochi secondi siamo venuti alle mani con ceffoni e calci con tutti gli ingombri del set che cadevano. Sono passati 40 anni ma purtroppo questo episodio mi ha segnata. Da quel momento è partita la voce del mio carattere impossibile”
Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” domenica 6 agosto 2023.
[…] Giuliana De Sio […]. La incontriamo nei Castelli Romani dove ha portato in scena nei giorni scorsi una serata unica, intitolata Favolosa, dedicata […] alla lettura delle favole secentesche del Basile. Contesto perfetto il festival intitolato Vivi Velletri nel chiostro, pure quello secentesco, del Convento del Carmine. Con un ricco cartellone di prestigiosi ospiti e eventi in programma fino a settembre.
Signora De Sio, cos’è per lei la favola?
«In questo momento è una bella ciambella di protezione da tutta la bruttezza, la follia, la negativa, la violenza che ci circonda. La favola è anche un luogo di cultura[…]. Però fondamentalmente per me, ora, è un luogo di rifugio».
Quelle che racconta lei, però, sono assai politicamente scorrette...
«Questa è la cosa bella. Se fossero politicamente corrette non sarebbero divertenti. In realtà questi sono tutti gli archetipi di favole conosciutissime come Cenerentola, dove però la Cenerentola originaria non è né bella, né dolce, né aggraziata ma è brutta, sciatta e ha pure un cattivo carattere.
La Cenerentola di Basile fu la prima ad essere stata raccontata, fino ad arrivare al cartone della Disney che ce la presentava come il classico femminino. In effetti però è davvero interessante notare come queste favole originarie siano più acide, più rozze che il Basile ha ascoltato dai racconti dei contadini».
[…] La sua vita fuori dal palcoscenico e lontano dai riflettori, Giuliana, è una vita comune o una vita... da attrice?
«Non è una vita da persona comune perché non essendomi fatta una famiglia, non avendo né figli né marito, vivo come una adolescente. Sono continuamente contornata da gruppi di amici che vengono a trovarmi, sia se mi trovo al mare, sia se sto in città. La mia vita è tutta con gli amici. Ho un gruppo molto vasto di persone che frequento e riempiono dei buchi che altri colmano in maniera diversa, magari proprio formandosi una famiglia tradizionale. Nella mia vita nessuna giornata somiglia all’altra perché non ho nessuna abitudine particolare[…]».
Non si è fatta una famiglia ma ha avuto relazioni con uomini iconici, suoi grandi colleghi attori come Haber e Nuti, parte del suo stesso mondo. Che amori sono stati?
«Haber, Nuti, poi ho avuto anche storie con personaggi diversi, di altra caratura, registi come Elio Petri che era un intellettuale. Degli attori in realtà penso che non siano nemmeno uomini fino in fondo. Ricordo in tal senso un’intervista di Valeria Golino che aveva come titolo: “Non sono mai stata con un uomo” e sotto c’era scritto in piccolo “solo attori”. Questo perché gli attori hanno delle vanità tipicamente femminili. Non sono molto maschili in questo senso...».
Possiamo quindi dire che gli attori uomini sono più “primedonne” delle attrici?
«Sì. Sono più donne delle donne...».
A proposito di donne e mondo dello spettacolo. Crede nella battaglia del #metoo intrapresa da numerose attrici in tutto il mondo?
«Io penso che in quel movimento ci sia tanta verità ma anche tanta fuffa. Si è messo tutto in un calderone e non era la cosa giusta da fare. Una cosa del #metoo certamente giusta e davvero da sostenere è la battaglia contro l’abuso da parte di uomini in posizioni di potere che mettono nelle condizioni di essere minacciate e ricattate donne che semplicemente vogliono lavorare. Questa è la cosa veramente grave. Gli eccessi di donne che si mettono a urlare dicendo di essere state molestate.
Dagospia il 25 giugno 2023.Da I Lunatici – Radio 2 -
Giuliana De Sio è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30 circa.
L'attrice ha parlato dell'inizio della sua carriera: "Come è iniziato tutto? A 18 anni me ne sono andata di casa, ho bighellonato per Roma, sono finita in una comune hippy, poi ho incontrato una volta tornato a Roma, Alessandro Haber. Che mi corteggiava e mi mise a lavorare con lui per suggerirgli battute in un suo spettacolo teatrale. Secondo lui il modo in cui suggerivo gli aveva fatto capire che c'era in me della stoffa. Iniziò a farmi il lavaggio del cervello per convincermi che potevo essere un'attrice. Se non avessi avuto qualcuno che mi prendeva e mi portava i provini la mia carriera non sarebbe iniziata.
Mi ha fatto fare tre provini a forza e sono stata scelta per tutte e tre le cose. Tra le tre varie proposte scelsi di partecipare a 'Una donna', uno sceneggiato sulla vita di Sibilla Aleramo, che fece venti milioni di spettatori. Da lì diventai popolare. Da un giorno all'altro. La cosa ebbe un grandissimo successo, fu il primo sceneggiato femminista della televisione italiana. Diventai una specie di eroina nazionale, venivo invitata dappertutto. E da lì mi si spalancarono tante porte".
Su Alessandro Haber: "Racconta da sempre di quella volta in cui mi diede uno schiaffo. Sono quarant'anni che rilascia questa intervista. Lui dette a me uno schiaffo perché era geloso, purtroppo gli è andata male, mi ha preso male e mi è uscito un sacco di sangue dal naso. Stava quasi svenendo, arrivò l'ambulanza. Ma lui non è un violento, non lo è per niente. Non vorrebbe mai che si parlasse di questo episodio eppure è lui a raccontarlo, secondo me perché si sente ancora in colpa".
L'attrice ha ricordato Francesco Nuti: "Se ne è parlato poco della sua morte, non ha avuto le giuste celebrazioni istituzionali a cui un grande artista ha diritto nel giorno della morte. E' morto nel giorno sbagliato, quello in cui è deceduto Berlusconi. Però tutti quelli che hanno condiviso con lui parte della vita stanno facendo il possibile per ricordalo. Francesco data la sua depressione all'epoca del film 'Donne con le gonne'. Io non l'avrei mai detto.
Datare l'inizio di una depressione è difficile. Per me è iniziata nel periodo in cui è morto suo padre. E' cambiato tantissimo alla morte del papà, con cui aveva un legame molto profondo. Lì si gli è spezzato qualcosa. Francesco era un ragazzo molto intelligente, non aveva paura di parlare della sua depressione, probabilmente non ha trovato gli interlocutori giusti. E' sprofondato sempre di più. Prima con la depressione, poi con l'alcolismo".
Su Massimo Troisi: "Lo penso ogni santo giorno, mi fa piacere che la mia immagine sia così profondamente legata alla sua. Aveva una grandissima umanità. Se è vero che piaceva tantissimo alle donne? Sì! Era molto bello, ma anche Francesco Nuti piaceva moltissimo alle donne".
Sulla parità di genere: "Questo è un momento di guerra fredda nei rapporti tra uomini e donne. Io sono circondata da amiche donne di valore e sono tutte sole. Non ho mai conosciuto tante donne sole come in questo periodo. Gli uomini non le vogliono più le donne così come sono diventate. Spesso si rivolgono al loro stesso sesso, oppure le maltrattano, oppure le storie non riescono a concretizzarsi. Per questo stanno nascendo tutte queste piattaforme dove ci si cerca al buio. Vedo che moltissime donne si rivolgono a questo metodo quasi per disperazione. E anche io sono una donna sola. Se trovo qualcosa va bene, ma non cerco".
Giuliana De Sio, l’amore, il teatro: «Quando Haber mi diede quello schiaffo..» Storia di Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 25 giugno 2023.
«Il più grande amore della mia vita». Così Alessandro Haber ha definito l’ex compagna Giuliana De Sio. I due attori sono stati legati sentimentalmente quasi quarant’anni fa. Oggi sono amici e colleghi, entrambi recitano diretti da Pierpaolo Sepe nello spettacolo «La signora del martedì» di Massimo Carlotto, che riprenderà la sua tournée in autunno. In una intervista rilasciata a «I Lunatici» di Rai Radio 2, l’attrice ha ricordato un episodio legato alla loro relazione, uno schiaffo . «Forse lo stavo lasciando, ora non ricordo più bene. Lui sospettava avessi una storia con un attore della compagnia teatrale con cui lavoravo a Milano. Vide che mi accompagnava al residence dove alloggiavo, ci confrontammo e a un certo punto partì lo schiaffo. È stato un gesto non da lui, la violenza non gli appartiene. Ma presi male quella sberla e cominciai a sanguinare dal naso, un’epistassi inarrestabile. Lui sbiancò e mi portò in ospedale, dove tutto si risolse».
La storia d’amore tra i due attori è raccontata anche nel film del 1994 «La vera vita di Antonio H.» di Enzo Monteleone, passato a Venezia. «Un docufilm con interventi e interviste di Monicelli, dei Taviani, Bertolucci, Mastroianni — ricorda De Sio —. Con un capitolo sul grande amore di Antonio H.: ovvero io, Giuliana De Sio, che nel film interpreto me stessa. Monteleone fece una lunga intervista a entrambi, separatamente. Chiaramente le due versioni non coincidevano, alcune scene erano esilaranti nella loro drammaticità perché Alessandro raccontava anche le mie insicurezze». Oggi con Haber, dice, «siamo amici, recitiamo insieme a teatro, lui è un grandissimo talento». De Sio è stata protagonista in questa stagione dello spettacolo «Agosto a Osage County», di e con Filippo Dini, le cui recite riprenderanno nel corso della nuova stagione dello Stabile di Torino. «Al mio posto ci sarà Anna Bonaiuto. Ma io avevo già firmato per “La signora del martedì”, sono quindi costretta a lasciare il ruolo che ho amato forse di più di tutta la mia carriera».
Giuliana De Sio: «Recito le vite degli altri, per riuscire a fuggire dalla mia». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023.
L’attrice è protagonista dello spettacolo «La signora del martedì» di Massimo Carlotto, all’Ambra Jovinelli dal 15 al 26 febbraio con la regia di Pierpaolo Sepe
Una donna non più giovanissima, ma ancora bella e fascinosa, che paga un ex attore porno per fare sesso, in una pensione gestita da un travestito. Giuliana De Sio affronta un personaggio particolare: è Nanà, ovvero Alfonsina Malacrida, nello spettacolo «La signora del martedì», dal romanzo omonimo di Massimo Carlotto, che il 15 febbraio debutta al Teatro Ambra Jovinelli con la regia di Pierpaolo Sepe. Con lei in palcoscenico, Riccardo Festa (nel ruolo del porno attore gigolò), Paolo Sassanelli (il travestito Alfredo) e con Alessandro Haber nei panni di Pietro Maria Belli, un inquietante giornalista di cronaca nera.
«Nanà è una sfigatissima - spiega l’attrice - che ha risvolti buffi e al tempo stesso drammatici. È una donna a suo modo autorevole, però ha bisogno di pagare per trovare l’amore con un poveraccio che, un po’ più giovane di lei, è stato colpito da un infarto e, non essendo più in grado di girare film erotici, si è ridotto a vendere il proprio corpo. Un corpo parecchio malandato: ad ogni incontro, i due amanti devono infatti aspettare che faccia effetto la pillolina che lui deve ingurgitare per avere l’erezione, ma il sospirato evento tarda sempre ad arrivare». Una vicenda di umanità alla deriva. «Talmente alla deriva, che questi incontri sessuali sono solo il preludio di una tragedia, quella che emerge dall’arrivo dell’anziano giornalista: lui pretende di fare un’intervista a Nanà, è losco, ricattatorio, la costringe a parlare, a ricordare e a far venire a galla il suo terribile passato. E il loro dialogo si tramuta, ben presto, in una sorta di psicodramma, con un finale imprevedibile».
Un testo intriso di torbida sensualità e ironia tagliente, che si aggiunge alla lunga carriera di De Sio, iniziata quasi per caso a 18 anni da protagonista assoluta, interpretando Sibilla Aleramo nello sceneggiato «Una donna». «Non ci pensavo proprio a fare l’attrice: in quegli anni ero in fuga da una situazione familiare complicata. Fu proprio Alessandro (Haber), che avevo conosciuto e ammirato da sua spettatrice a teatro e che si era innamorato di me, a convincermi: mi vedeva giusta per lo schermo». Poi un incontro teatrale importante con Giorgio Strehler, che la scelse per lo spettacolo «Libero» di Renato Sarti: «Giorgio mi volle a tutti i costi nel ruolo di una giovane prostituta tossicodipendente che vendeva il proprio figlio per comprare la droga. Gli amici e i colleghi mi avevano sconsigliato di accettare, dicendomi che il grande regista era un fustigatore degli attori. Invece con me fu affettuosissimo: all’epoca avevo i capelli rossi e, forse, facevo parte del suo bacino d’utenza, essendo un estimatore delle donne dai capelli rossi... A parte le battute, Strehler era carismatico, ti faceva sentire preziosa».
Una famiglia difficile, quella di Giuliana: il padre se ne va presto da casa e la madre, sentendosi abbandonata, si consola con l’alcol. «Sì, ma io mi sento una “svizzera napoletana”. Sono una stakanovista, iper precisa, sempre puntuale e maniacale nel lavoro. Una nevrosi o etica professionale? Recitare mi ha aiutato molto: entrare nelle vite dei personaggi è un modo per fuggire dalla propria vita, è una terapia. Però, se mi volto indietro, vedo tutti gli sbagli commessi: non voglio apparire melodrammatica, ma avrei dovuto crearmi una stabilità affettiva, avere dei figli, e non rifugiarmi solo nel lavoro. Invece ho fatto l’attrice». Proprio quest’anno, il 19 febbraio, Massimo Troisi avrebbe compiuto 70 anni: «Non voglio essere retorica, lui non amava le frasi fatte e avrebbe sghignazzato. Lo vedo sempre bello, magari con i capelli brizzolati e chissà quanto avrebbe affinato il suo umorismo, quanta strada avrebbe potuto fare, ma non so se sarebbe diventato saggio».
Giulio Rapetti Mogol.
Perché la lite tra Mogol e Battisti è una ferita ancora aperta. Sono passati 43 anni dalla fine di quella storia, ma ancora abbiamo tanto da imparare. Gino Castaldo su L'Espresso il 27 Settembre 2023
La querelle Battisti Mogol è un’ombra che ha una lunghissima scia, un velo spiacevole che rabbuia purtroppo una delle più splendenti avventure creative della storia della nostra canzone. L’origine di questa astiosa vicenda risale verosimilmente a quei mesi del 1980 che silenziosamente, senza un annuncio ufficiale, decretarono la fine del fortunatissimo binomio. Col tempo vennero fuori beghe poco edificanti, litigi da condominio, e una ufficiale e semplificata giustificazione fornita da Mogol, ancora oggi ribadita, secondo cui il problema, di principio, sarebbe stato legato a una ingiusta ripartizione dei diritti. E fin qui tutto bene, molto poco romantico, ma ci dobbiamo accontentare.
Eppure non dobbiamo dimenticare, soprattutto in questi tempi di fitto revival battistiano che di tutta questa storia noi abbiamo avuto sempre e solo la versione offerta da Mogol perché Battisti aveva scelto il silenzio, assoluto, sempre più rigido e senza alcuna eccezione, lasciando anche in eredità a sua moglie Grazia Letizia Veronese la consegna del silenzio. Battisti voleva che a parlare fosse solo ed esclusivamente la sua musica, non ha mai smentito o confermato alcunché, lasciando che si alimentassero le voci più assurde, compresa la leggenda secondo cui sarebbe stato un finanziatore della destra estrema.
Per questo la lettera aperta scritta dalla signora Battisti a Mogol, uscita in questi giorni, è stata una sorpresa imprevista e scioccante. Mogol ha immediatamente risposto all’accusa di aver mentito sulla presunta lettera che gli avrebbe fatto recapitare negli ultimi giorni di vita, ma questo sembra quasi un dettaglio minimo di fronte all’accusa che francamente ci sembra di gran lunga più forte ovvero quella di eccesso di protagonismo («Lucio è diventato il tuo passepartout…», «Non riesci a staccare il tuo nome dal suo»).
Sta di fatto che sono passati 43 anni dalla fine di quella storia e ancora abbiamo tanto da imparare.
Dal profilo Facebook di Marco Molendini il 18 Settembre 2023
Diciamola verità: altro che affetti spezzati, è solo questione di soldi. Non ci può essere un altro motivo nella lunga guerra dei Roses che divide Mogol da Grazia Letizia Veronese. Del resto se il «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere» (così lo definisce in una lettera pubblica la vedova Battisti) continua a far causa per «perdita di chance» (l'altro ieri la signora ha rivelato che ce ne è un'altra in ballo) si capisce come stanno esattamente le cose. A quali chance pensa Mogol? Le canzoni di Lucio (e sue), a lungo negate alle piattaforme per l'ostinato rifiuto della famiglia Battisti, ora sono disponibili e i dischi, si sa, non si vendono.
Ma anche lo streaming, in questo caso, non fa faville nonostante le continue riesumazioni del ricordo: l'ultima occasione è stata una piatta e scontata celebrazione televisiva per i 25 anni dalla morte di Lucio mandata in onda da Rai1 (i dirigenti farebbero bene a guardare sulle piattaforme come si fanno i documentari sui personaggi musicali: ce ne sono a decine). Su Spotify, la piattaforma più seguita, Battisti ha un milione e mezzo di ascolti al mese, una bazzecola rispetto ai 23 dei Maneskin, ai 9 di Sferaebbasta, anche se quasi quanto Vasco che ne ha 1,9 milioni. Oltrettutto, con la micragna che accompagna le royalties dello streaming, un milione e mezzo di ascolti corrisponde a poco più di cinquemila euro (per curiosità: Il mio canto libero, la più cliccata su Spotify, ha raggiunto un totale di 27 milioni pari a 100 mila euro.
Quindi quali sono queste chance? La risposta viene spontanea: l'utilizzo dei brani più famosi del repertorio pop nazionale soprattutto per la pubblicità (e forse per qualche colonna sonora o sigla tv). Tipo, se quella chance invocata da Mogol ci fosse, abbinare «non sarà un'avventura» alla pubblicità delle navi da crociera. Insomma, a questo punto la vedova Battisti e suo figlio Luca Filippo Carlo, che fa il cantante e ci ha provato con il nome d'arte di Lou Scoppiato ma anche con una band punk Hospital (13 ascolti mensili su Spotify), abbiano tutte le ragioni di essersi stufati delle continue mozioni degli affetti (interrotti) di Mogol seguiti da infinite azioni giudiziarie: sono passati 43 anni dal divorzio della celebre e rimpianta ditta e la storia della loro separazione adesso è diventata una lagna infinita, come per decenni è stata la storia del suicidio negato di Luigi Tenco. Oltretutto, visto che è di questo che si parla, di soldi non mi pare che tiri aria.
Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per la Stampa il 17 Settembre 2023
La caustica lettera aperta della vedova di Lucio Battisti, Grazia Letizia Veronese, all'autore dei suoi testi Mogol, in occasione dei 25 anni della scomparsa di uno dei più grandi e ancora oggi attuali artisti dei nostri tempi, ha riportato a galla le note vicende di un rapporto non idilliaco fra la signora e lo stesso Mogol, che con Lucio scrisse le più amate canzoni del canzoniere italiano, a partire dal loro incontro del 1965 e fino al 1980.
Una storia intessuta di cause e controcause che si trascinano nel tempo. Nella sua rievocazione, la donna riporta tra l'altro un episodio che ha sempre incuriosito noi appassionati, avidi di particolari del rapporto fra i due: bruscamente concluso dopo che l'autore dei testi che tutti cantiamo a memoria aveva chiesto al musicista la pari dignità economica sui diritti d'autore (che per regola privilegiano la parte musicale), in nome delle palesi ventate di entusiasmo suscitate dal loro connubio. Racconta Mogol che Battisti, quella sera, gli disse subito di sì, ma chiese una notte per pensarci sopra.
Il mattino dopo, la risposta divenne negativa e fu l'addio.
Scrive tra l'altro Veronese, rivolgendosi a Mogol: «Ti invito a non raccontare più la commovente storia della "lettera consegnata di nascosto a Lucio", ora da un'infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato professore. Voglio precisare, una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è mai stato solo e non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra «amicizia».
Sono stata testimone di una diversa versione dei fatti. In un colloquio dei giorni che precedettero la fine dolorosa di Battisti, Mogol mi aveva confessato di aver consegnato a un'infermiera, che lavorava nell'ospedale in cui Battisti era ricoverato, una lettera per il vecchio sodale, impossibile da dimenticare: la donna gli aveva promesso che l'avrebbe fatta consegnare. Gli disse poi di averla data a un medico di quel reparto. Mogol aveva scritto: «Caro Lucio, spero che i giornali esagerino circa le tue condizioni. Se hai bisogno, chiamami a questo numero...». Non una lettera di affetti, ma un segno di presenza.
Era il '98, fra agosto e settembre (Lucio se ne andò il 9). I cellulari erano ormai parte della nostra vita. Scrissi su questo giornale un articolo nel quale raccontavo l'episodio, chiedendomi: «Chissà se il messaggio è arrivato a destinazione».
Erano tempi nei quali i centralini dei giornali ancora erano semafori funzionanti della comunicazione fra lettori e redazioni, e un pomeriggio di poco successivo alla pubblicazione del mio articolo, arrivò alla mia scrivania una telefonata: «Sono il medico che ha ricevuto la lettera di Mogol per Battisti. Volevo dirle che l'ho consegnata al paziente, che in mia presenza l'ha aperta, e quando l'ha letta mi è parso commosso. Si è asciugato gli occhi con la mano».
(…)
Estratto dell’articolo di Carlo Massarini per la Stampa il 17 Settembre 2023
In occasione del 25ennale della scomparsa di Lucio Battisti, la lettera aperta di Maria Grazia Veronese Battisti riapre una vecchissima querelle personale con Giulio Rapetti in arte Mogol. Siamo su un terreno scivoloso, quindi proviamo a raccontarla così.
(…) Mogol (..) non s'è mai dato pace della fine del sodalizio con Lucio. Maria Grazia Veronese ha difeso la memoria (e i diritti di copyright) del marito in modo maniacale, sbagliando a mio parere quando non voleva che i brani di Lucio apparissero su Spotify (si difende la memoria di un artista gestendola, non rendendola inaccessibile), ma resistendo alle lusinghe dei soldi e senza lavare i panni sporchi in Arno.
Se ne fa menzione adesso è, suppongo, per l'irritazione della causa portata ora in Cassazione per «mancata chance»: tradotto, la non-volontà di aprire il catalogo di Battisti ai «diritti secondari», cioè film e pubblicità per la quale serve il parere dell'autore e non solo dell'editore, e che nel caso di Lucio aprirebbe le porte a lauti guadagni.
Cosa sulla quale ormai han mollato anche gli intransigenti (resistono solo i Beatles), ma che una volta era un questione di integrità ed evidentemente rispecchia le ultime volontà di Battisti. E per la storia brutta della lettera consegnata per vie traverse a un Battisti commosso sul letto di morte, divulgata da Mogol e che lei sostiene sia assolutamente falsa. Da fan di Battisti-prima-e-dopo, dico sommessamente al signor Rapetti: ma metterci una pietra sopra e voltare pagina no?
Estratto da corriere.it sabato 16 settembre 2023.
«Eccomi qui. Sono passati 25 anni da quando Lucio Battisti non è più fra noi. Noto, caro Giulio, che non perdi occasione pubblica per spargere il tuo miele su Lucio, dichiarando di averlo amato tanto: io credo che tu abbia ragioni per amarlo molto di più adesso, visto che ancora oggi, dopo un quarto di secolo dalla sua morte, non ti riesce di separare il suo nome dal tuo».
Inizia così la lettera aperta che Grazia Letizia Veronese, vedova di Lucio Battisti, ha scritto a Mogol, chiamandolo «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere».
(...) «Noto anche che, in queste occasioni non fai mai alcun cenno alle innumerevoli cause che hai intentato dopo la morte di Lucio: tre gradi di giudizio per una questione di confini, due gradi di giudizio per un risarcimento danni, per «perdita di chanche»: una causa che, visto l’esito, ha costretto in liquidazione le Edizioni Acqua Azzurra. Ed ecco ora, dopo sette anni dalla sentenza del 2016, una nuova identica causa, questa appena nata, ma ancora per «perdita di chanche».
Ti ricordo (fra parentesi) che sono ancora in attesa di una risposta alla lettera che ti ho scritto il 10 giugno del 2020, quando eri Presidente effettivo della Siae. Sono passati tre anni e hai ritenuto di ignorare quella lettera ma, nel frattempo, hai continuato a produrre programmi che hanno al centro Lucio Battisti (che, consentimi il termine, è diventato il tuo passepartout)».
Proprio pochi giorni fa, in occasione dei 25 anni dalla morte, Battisti è stato rievocato su Rai1 con il docufilm «Lucio per amico. Ricordando Battisti».
Ma la lettera si chiude con altri toni amari: «Per quanto riguarda la salute di Lucio e le cause della sua morte, ti chiedo gentilmente di lasciar perdere le tue infondate supposizioni e ogni altra illazione. Ti chiedo soltanto di rispettare la sua dignità di uomo, dopo avere tanto lusingato la sua figura di artista.
A tal proposito, ti invito a non raccontare più la commovente storia della «lettera consegnata di nascosto a Lucio», ora da un’infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato «professore»; voglio precisare, una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è stato mai lasciato solo e che non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra «amicizia». Ti rammento che il vostro «sodalizio artistico» si era interrotto nel lontano 1980. Sono passati ormai 43 anni, Giulio! Senza rancore. Grazia Letizia Veronese Battisti».
Mogol dopo la lettera della vedova di Lucio Battisti: «La gente sa giudicare da sola, ma io non dico bugie». Storia di Barbara Visentin su Il Corriere della Sera sabato 16 settembre 2023.
La voce al telefono tradisce amarezza, ma Mogol preferisce non replicare alla lettera aperta che la vedova di Lucio Battisti, Grazia Letizia Veronese, gli ha indirizzato l’altra sera, ultimo capitolo di una diatriba spinosa e infinita fra il paroliere e gli eredi del cantautore, scomparso 25 anni fa. «Non mi va di dire nulla, non ho voglia di litigare — fa sapere Mogol —. Penso che la gente sia più intelligente e saprà giudicare da sola».
La vicenda è complessa e vede da un lato l’approccio estremamente protettivo della famiglia Battisti (la vedova 80enne e il figlio Luca Filippo Carlo, 50 anni), che si oppone a ogni sfruttamento del suo catalogo «per motivi di lucro», e dall’altro Mogol, autore di tanti testi del periodo d’oro di Battisti, infilato in lunghe battaglie legali per i diritti e accusato di cercare soldi e visibilità tramite il nome dell’ex sodale, nonché di vivere di rendita.
«Noto, caro Giulio, che non perdi occasione pubblica per spargere il tuo miele su Lucio, dichiarando di averlo amato tanto: io credo che tu abbia ragioni per amarlo molto di più adesso, visto che ancora oggi, dopo un quarto di secolo dalla sua morte, non ti riesce di separare il suo nome dal tuo», esordisce Veronese nella lettera, chiamando poi Mogol «ragionier Giulio Rapetti, imprenditore, in arte Mogol, paroliere».
L’anniversario della morte di Lucio Battisti, avvenuta il 9 settembre 1998 dopo una malattia su cui è stato sempre mantenuto riserbo, sembra aver riacuito i dissapori, complice anche, con ogni probabilità, il docufilm andato in onda mercoledì scorso su Rai1 «Lucio per amico. Ricordando Battisti», dove un ruolo centrale nel ripercorrere la vita del cantautore è stato affidato proprio a Mogol.
Lui però non entra nel merito delle dure parole della vedova Battisti: «Se scrive lettere contro di me è un affare che riguarda solo lei — ribadisce —, non dico niente perché non ne vale la pena». Ci tiene a puntualizzare un passaggio, «solo una cosa», riguardo all’ultima parte del messaggio, in cui Veronese, facendo riferimento al periodo in ospedale di Battisti, gli intima di «non raccontare più la commovente storia della “lettera consegnata di nascosto a Lucio”, ora da un’infermiera, ora da un medico, ora da un non meglio identificato professore» e aggiunge di voler precisare «una volta per tutte, che mio marito in quei giorni lottava per la sua vita, che nessuno ha mai ricevuto una tua lettera, che Lucio in quegli stessi giorni non è stato mai lasciato solo e che non ha mai pianto, tantomeno ricordando la vostra “amicizia”».
Quell’episodio è vero, insiste invece Mogol, i cui rapporti professionali con Battisti si erano interrotti nel 1980: «Io le bugie non le racconto, specie di questo genere. Ci sono testimoni che hanno sentito il medico raccontare di aver consegnato la mia lettera, dicendo che Battisti si è messo a piangere. Non direi mai una bugia del genere perché penso che la cosa più importante per una persona sia la propria autostima».
Nessun riferimento, invece, alla «nuova causa appena nata», intentata da Mogol, a cui allude la vedova Battisti nella sua missiva, che si aggiungerebbe alle varie contese legali in cui è incagliato il patrimonio del cantautore, tra case discografiche, oltre a Mogol, che sono coinvolte a vario titolo.
La famiglia, a tal proposito, aveva da pochi giorni fatto sapere di aver incassato una vittoria in appello contro la Sony: i giudici di Milano hanno infatti confermato la sentenza di primo grado con cui era già stata respinta la richiesta di risarcimento (8,5 milioni di euro) avanzata dalla major discografica. Sony Music accusava gli eredi, tra le altre cose, di aver revocato il mandato alla Siae per l’ utilizzo online delle opere di Battisti.
Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il Corriere della Sera venerdì 15 settembre 2023.
Le intenzioni sono sempre buone: «Raccontare l’avventura umana e artistica di Lucio Battisti, attraverso un vasto e, in alcuni casi, inedito materiale d’archivio italiano e internazionale, unito ai ricordi di chi lo ha conosciuto, primo fra tutti Mogol, il compagno d’arte e d’avventura».
Questo voleva essere «Lucio per amico. Ricordando Battisti», un documentario di Maite Carpio per Rai1 (adesso si dice «docu-film» che fa più fino, come quando si dice «giornalista e scrittore»). Il titolo esatto, però, avrebbe dovuto essere questo: «Lucio per amico. Ricordando Mogol». Perché mi è venuto in mente di scrivere una simile stupidaggine? Forse perché Giulio Rapetti, in arte Mogol, è convinto di essere un poeta e si vive come tale (leggete i suoi testi, senza la musica di Battisti, e scoprirete la poetica del banalese). Forse perché al buon Franco Mussida è sfuggita un’eresia: «Mogol era il John Lennon di Battisti».
Forse perché c’erano più parole che canzoni. Forse perché Pasquale Panella andava comunque citato e non ignorato come se avesse provocato la morte artistica di Battisti (Mogol non pronuncia mai il suo nome, un vero signore). Sta di fatto che il protagonista della serata è stato Giulio Rapetti, in arte Mogol, poeta e paroliere. A Battisti è toccato un destino inverso a quello di Franco Battiato. Di Battisti si parla sempre del suo periodo più popolare, quando ha accettato che la sua musica innovativa fosse «tradotta» da un rabdomante dell’italiano medio, da uno stratega del mainstream, da un teorico, suo malgrado, del kitsch.
Nei confronti di Battiato, invece, c’è tutta un’ansia per esaltare i suoi momenti più sperimentali e colti
(...) Nella leggendaria unione fra Giulio Rapetti, in arte Mogol, e il musicista Lucio Battisti continueremo a chiederci, con supremo anelito, chi dei due è stato il miracolato. Il docu-film parteggia per il poeta della brughiera.
"Non mi sembrano un granché...". Quel primo incontro tra Battisti e Mogol. A metà degli anni Sessanta una cacciatrice di talenti francese li porta Lucio a casa del paroliere, ma la scintilla tra i due non decolla affatto all'istante. Paolo Lazzari il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.
L'appartamento è infilato dentro a una palazzina signorile, nel cuore di Milano. Lei lo sta aspettando sulla soglia, fasciata da un impermeabile beige, i capelli raccolti in un foulard, un paio d'occhiali da sole calati su quel naso francese. Lui la scorge da lontano e affretta il passo. Ha l'energia tracimante dei vent'anni a sospingerlo. Prima di entrare si rimescola quel groviglio di capelli. Poi Christine Leroux e Lucio Battisti entrano in casa di Giulio Rapetti, cioè Mogol.
Lui li fa accomodare spostando ceste di vinili dal divano: è la prima volta che vede quell'acerbo musicista. Lei invece la conosce da tempo: un'amicizia profonda sorta sull'asse Parigi - Milano, rinsaldata dal legame professionale, perché Christine dirige una casa di edizioni musicali. Ed è un vorace segugio di talenti. Mogol stappa una bottiglia. Sorseggiano qualcosa, poi Lucio rompe il ghiaccio: "Senti, allora ti faccio sentire due canzoni". Mogol fa cenno di sì.
Parte la musica, ma il paroliere si acciglia subito. Christine e Lucio se ne stanno in religioso silenzio, in attesa del verdetto. Ora il secondo pezzo ispeziona quel salotto, ma non genera reazioni di sorta. Lucio stacca la musica. "Ecco, è finito, erano queste". Mogol vorrebbe subito dire qualcosa, ma si vede che sta scegliendo accuratamente ogni sillaba. Solo che poi, dalle sue labbra, escono cinque parole contundenti: "Non mi sembrano un granché".
Chissà cosa deve aver pensato Battisti negli istanti immediatamente successivi a quella velenosa constatazione. Era giovane, d'accordo, ma il talento se ne infischia delle ragioni anagrafiche. Dopo gli esordi a Napoli si era trasferito a Milano, per fare parte de I Campioni, la band capitanata da Roby Matano. Lo stesso che poi in quel ragazzo sottile e testardo aveva scorto un baluginio sommerso, invitandolo a scrivere canzoni.
E quindi eccolo lì, adesso, piantato nel salottino di Giulio Rapetti con un'agente francese al fianco, mentre quello gli ha appena smontato due canzoni. Alcuni magari la prenderebbero sul personale, alzerebbero i tacchi e sbatterebbero la porta. Lui invece prende in contropiede Mogol. Calibra bene le parole e se ne esce ancora più ermetico: "Anche a me", sussurra allargando la bocca in un sorriso.
Christine, invece, sembra averla presa male. Mogol se ne accorge e decide di rincuorarla. In fondo l'umiltà mostrata da questo ragazzo l'ha spiazzato. Vero, come confesserà in seguito, in quel primo appuntamento non c'ha visto proprio nulla in Battisti, nei suoi testi, nella sua musica. Però forse ci si può lavorare. Dirgli che forse è meglio se prova a cantare, anche se quello è riluttante, che alle parole ci pensa lui. Così si alza ed emette una sentenza tutt'altro che tombale: "Ascolta, che ne dici di tornare da me tra qualche giorno? Ci prendiamo qualche ora per lavorare insieme e vediamo come va". Il volto di Lucio si illumina. Quello di Christine pure, perché è sventata l'ipotesi di una bocciatura netta.
Da quelle prime frequentazioni nasceranno Dolce di giorno e Per una lira. Poi il grande successo di 29 settembre. L'incipit di una collaborazione che rivoluzionerà la musica leggera italiana. Partita con un rifiuto, come le storie d'amore più crepitanti.
Mogol: «Ho scritto oltre duemila canzoni, neanche le ricordo tutte. L’ispirazione? Mentre guido». Il primo testo che gli frutta 5mila lire, i 523 milioni di dischi venduti (terzo la mondo dopo i Beatles ed Elvis), le grandi collaborazioni, il calcio e la famiglia. Dialogo a tutto campo con il maestro. Antonia Matarrese su L'Espresso il 30 Agosto 2023
Il nome d’arte, Mogol, è preso in prestito dal capo delle Giovani Marmotte: un tipo audace, con il terrore del volo. Forse per questo il quartier generale che Giulio Rapetti Mogol ha creato una trentina d’anni fa si raggiunge solo attraverso una strada abbastanza malconcia, dove le gallerie non sono di cemento, bensì di fronde verdeggianti. Siamo in Umbria, a Toscolano, borgo arroccato intorno a un castello duecentesco che diede i natali a un certo fra’ Faostino, predicatore che arrivò in Israele e ne raccontò usi e costumi nel libro “Itinerario di Terra Santa”.
E, in effetti, un’aria di sacralità si respira nella Tenuta dei Ciclamini, incastonata fra centoventi ettari di bosco, uliveti, orti, frutteti biologici, con una chiesetta perfettamente restaurata e molti dipinti di santi rivisitati in chiave moderna.
Polo blu e pantaloni in tinta, la faccia abbronzata di chi pratica sport, occhi verdi vivaci e curiosi della vita, l’autore di circa duemila brani che hanno fatto la storia della musica italiana e internazionale («Ovviamente non posso ricordarmeli tutti e ogni tanto vado a controllare alla Siae») è terzo nella classifica mondiale, con 523 milioni di dischi venduti, dopo i Beatles ed Elvis Presley. «Il primo testo che ho scritto? Si chiamava “Mama Guitar” ed era ispirato all’omonimo film. Guadagnai cinquemila lire per due ore di lavoro. Da lì non mi sono più fermato».
Milanese purosangue come papà Mariano e mamma Marina («Quando sono nato, avevano rispettivamente 24 e 21 anni»), classe 1936, due mogli, una compagna, svariate donne amate, quattro figli e sette nipoti («C’è anche Giulia, che si chiama come me»), Mogol ha vissuto intensamente gli anni del Dopoguerra: «Durante il conflitto ero molto piccolo, ma ricordo in maniera nitida l’incubo dei bombardamenti, da sfollati nelle cantine di Carugo, Brianza comasca. Per scacciare la paura giocavo con un cannone di legno, mentre la gente intorno pregava e piangeva. Sono nato in via Clericetti, poco prima del ponte di Lambrate: una via di frontiera, l’ultima della città, la prima della campagna. Crescevo fra palazzi e campi di grano, non lontano dalla ferrovia. Dare calci a un pallone mi è sempre piaciuto. I golfini come porta e via. Ero un bambino iperattivo: una volta a settimana mia madre mi portava in centro e mi vestiva per bene. Non faceva in tempo a prepararmi che mi ero già sporcato. A scuola, poi, un vero disastro. Risultato? Fui bocciato agli esami di quinta elementare perché, secondo la maestra, ero andato fuori tema. Bisognava descrivere le città del Duemila e io misi nero su bianco che avremmo avuto grattacieli come casa e ci saremmo spostati solo su pattini a rotelle. Una bella immaginazione. Che però mi fruttò un pessimo voto».
Con un diploma da ragioniere in tasca (ma ha avuto una laurea ad honorem dall’Università di Palermo), a 18 anni Mogol entra in Ricordi. «Papà era un impiegato della casa discografica e, con lungimiranza, propose ai suoi capi di aprire la sezione pop, Radio Record Ricordi. Gli diedero una scrivania, un telefono e un milione di lire. Costruì un business: in dieci anni i guadagni superarono quelli della musica classica. E scoprì interpreti del calibro di Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi. Nel frattempo, io facevo il computer umano: conteggiavo gli incassi delle canzoni e studiavo i grandi compositori dell’epoca come Carlo Donida Labati (che musicò, fra le altre, “La compagnia”, portata al successo nel corso degli anni da Marisa Sannia, Lucio Battisti, Mina e Vasco Rossi, ndr). In quel periodo fui spedito in Inghilterra per imparare la lingua, mi ospitava un’anziana coppia. Ero incline allo scherzo e ricordo che m’improvvisavo accompagnatore di tutti gli studenti italiani che arrivavano a Londra, senza mai rivelare la mia identità».
Un legame, quello fra Mogol e Londra, che è andato avanti nel tempo. «David Bowie mi chiese di scrivere in italiano la sua “Space Oddity” (1969), che diventò “Ragazzo solo, ragazza sola”. Nessuna somiglianza col testo originale. Bernardo Bertolucci l’ha usata per il suo film “Io e te” (2012). Più complicato il rapporto professionale con Bob Dylan: stavo lavorando al brano “Mr. Jones” (titolo originale: “Ballad of a Thin Man”, ndr) e mi convocò al Mayfair Hotel, dove c’era il suo quartier generale. Fui accolto da due giovani che iniziarono a riprendermi con una cinepresa dicendomi che Bob aveva deciso di filmare tutta la sua vita. Iniziai a spazientirmi, avevo solo voglia di andarmene. Ma la collaborazione continuò».
Non si può raccontare il Mogol-pensiero senza parlare del lungo sodalizio artistico con Battisti, che, dal 29 settembre al 1° ottobre prossimi, sarà ricordato a Milano con una manifestazione dal titolo “Quel gran genio”, a 25 anni dalla sua scomparsa. «A presentarci fu Christine Leroux, discografica francese che lavorava per l’etichetta Les Copains. Il primo approccio non mi convinse. Ci rincontrammo dopo qualche giorno. All’inizio abbiamo composto brani per altri interpreti, da I Ribelli ai Dik Dik fino all’Equipe 84 di Maurizio Vandelli. Sul finire degli anni Sessanta esplode il successo di “29 settembre”, cronaca di un tradimento (“E ancora prima di capire mi trovai sottobraccio a lei. Stretto come se non ci fosse che lei”). Un tradimento che passerà alla storia».
Nel 1969, Mogol con il papà Mariano, Alessandro Colombini, Carlo Donida e, successivamente, lo stesso Battisti fondano la casa discografica Numero Uno. L’addetta stampa e promozione era Mara Maionchi. Come sono nate le canzoni da hit parade? «Molti dei miei testi si materializzano mentre guido. “E penso a te” (1970, inizialmente interpretata da Lauzi, quindi da Battisti e poi da Mina, ndr) è stata scritta su una 600, nel tragitto Milano-Como. Lucio suonava la chitarra. Poi Mario Lavezzi ha aggiunto i cori. Stessa cosa per “Emozioni”. Più di recente, un brano come “L’arcobaleno” (“Mi manchi tanto amico caro, davvero. E tante cose son rimaste da dire. Ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire”), scritto per Adriano Celentano su musiche di Gianni Bella, l’ho dettato in macchina». E mostra la foto sul cellulare di un enorme arcobaleno che abbraccia il cielo sulle rigogliose colline umbre.
Mentre le note si sprigionano nell’aria profumata di erba appena tagliata, sopraggiunge l’amico milanese Lavezzi, musicista pop con cui ha realizzato l’ultimo disco dal titolo “Capolavori nascosti”. «È una raccolta di canzoni a quattro mani che racchiude alcune perle come “Per la gloria”, interpretata da Gianni Bella, Riccardo Cocciante, Mango, Raf e dallo stesso Lavezzi, o “Giorni leggeri”, in cui si alternano Lucio Dalla, Cocciante e Lavezzi, scritta nel periodo in cui cercavo un posto adatto dove costruire il Cet (Centro Europeo di Toscolano, dove si sono formati tanti giovani artisti, ndr). Ho girato per un anno intero, tre giorni a settimana, fra Umbria, Toscana e Abruzzo. E infine mi sono fermato qui».
Ma l’anima di Mogol non si estrinseca solo nei testi e nei motivi che tutti hanno cantato almeno una volta nella vita («La musica nasce prima delle parole. Poi le parole entrano nella musica»). Ha maturato anche un lato green: «Vivere a contatto con la natura non ha prezzo. Solo così si possono reintegrare le difese dell’organismo che inevitabilmente diminuiscono con l’avanzare dell’età. Da tempo sto lavorando a un libro, “La Rinascita”, che mira a promuovere la cultura della salute, del benessere fisico e mentale. Mi piacerebbe essere ricordato anche per questo».
Grazie al calcio, il maestro ha raccolto oltre cento milioni di euro con la Nazionale Cantanti («Da ragazzo tifavo per il Milan, oggi per tutte le nostre squadre che giocano all’estero») di cui è stato animatore fin dagli anni Ottanta con Gianni Morandi. E la passione per i cavalli gli ha permesso di incontrare l’attuale moglie, Daniela Gimmelli. «Eravamo nella pineta della Feniglia, in Toscana. Nel 2006 abbiamo percorso insieme il tragitto Roma-Milano attraverso gli Appennini. Ho macinato chilometri a cavallo. Ma anche in sella alla mia Yamaha Virago blu e al volante delle due Volvo».
Automobili che ora guida il fidato collaboratore Adelio. Fra un concerto-conferenza in giro per l’Italia, nell’ambito del progetto “Mi ritorni in mente: le canzoni di Battisti-Mogol”, tratto da un’idea del direttore d’orchestra Angelo Valori, e una puntatina a Roma, dove ricopre l’incarico (a titolo gratuito) di consigliere per la cultura pop su nomina del ministro Gennaro Sangiuliano («Come prima cosa, chiederò il riconoscimento giuridico della figura professionale dell’autore. Non abbiamo neppure una cassa previdenziale»), il maestro guarda al futuro. Dall’alto de “La collina dei ciliegi” e delle sue 87 primavere: «Ne “I giardini di marzo” scrivevo “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”. Adesso il coraggio di vivere c’è, eccome. Arriva quando non hai più paura di morire».
Mogol: «La vedova di Lucio Battisti? Prego per lei che si ravveda. Ospito due famiglie di ucraini, ma i migranti vanno aiutati a casa loro». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2023.
L’autore Giulio Rapetti Mogol: «Dopo i Beatles ed Elvis io ho venduto più dischi. Sanremo? Non lo guardo proprio». Il Nobel per la letteratura: «Mi piacerebbe vincerlo». La moglie Daniela Gimmelli: «Mai pensato alla differenza di età»
Mogol, quante canzoni ha scritto?
«Ah non lo so... Però ho venduto 523 milioni di dischi nel mondo. Sono terzo, dopo i Beatles ed Elvis Presley».
Di quale è più orgoglioso?
«Impossibile rispondere. Una delle cose che mi ha fatto più piacere è stata riscrivere da zero Space Oddity, che David Bowie voleva cantare in italiano: il mio testo non c’entrava nulla con il suo. Si intitola Ragazzo solo, ragazza sola , Bertolucci l’ha scelta per il film Io e te».
Altri riconoscimenti di cui va particolarmente fiero?
«Papa Francesco mi ha mandato una lettera autografa: scrive piccolo piccolo. Citando un mio aforisma del libro Le Ciliegie e le Amarene, mi ha ringraziato con le parole: “Mi fa bene”».
Qual era l’aforisma?
«Due fratellini disegnano la stessa mamma in due modi diversi. Così gli uomini Dio».
Lei è credente?
«Certo. Io e mia moglie Daniela siamo entrambi cattolici. Preghiamo molto. Lei alla sera recita il rosario, io prego la mattina, per tutte le persone che conosco, per quelle che sono in pericolo».
E alla morte ci pensa?
«Lavoro per crearmi un’autostima morale totale, e sono a buon punto. Cerco di non fare male a nessuno. Ho imparato ad accettare il destino serenamente: è il modo migliore per affrontare la morte. Quando Gesù mi chiama io ci sono, vado volentieri».
Giulio Rapetti Mogol il 17 agosto compie 87 anni. Non li dimostra. Ha occhi vivaci e curiosi e una passione assoluta per quello che fa: scrivere canzoni o aforismi, inventare un gel che fa passare i dolori muscolari con gli oli essenziali o una macchina per togliere il mal di schiena, stendere un piano per i migranti o la planimetria della sua casa. Da qualche settimana non va più a cavallo, perché si è operato da poco all’anca, ma conta di riprendere al più presto. Di tutto questo parliamo sotto un tiglio meraviglioso, con fronde fiorite e profumate che ci fanno ombra nel giardino della sua tenuta in Umbria, sede del Cet, il Centro Europeo Toscolano che in 31 anni ha diplomato oltre tremila autori, interpreti, compositori, produttori. Primo allievo inconsapevole (perché l’idea della scuola arrivò dopo) fu Zucchero, che chiese a Mogol di diventare suo maestro.
Chi le piace dei giovani?
«Non so, non li conosco...».
Non ascolta la musica?
«No, ma nemmeno prima. Ho ancora il giradischi, ma i dischi non ci sono più».
Però ne ha appena inciso uno con Mario Lavezzi, «Capolavori Nascosti»: 13 brani «recuperati» più un inedito.
«Quel cd lo ascolto in macchina, quando viaggio. E poi ho questo altoparlante che collego al cellulare, ora gliene faccio sentire qualcuna. Una storia infinita fu scartata da Amadeus: disse che aveva troppe canzoni».
Lei lo guarda Sanremo?
«No. La competenza per me è fondamentale».
E se le chiedessero di fare il direttore artistico?
«Dovrebbero darmi un mucchio di soldi».
In compenso continua a fare serate: 60 l’estate scorsa.
«Riempiamo le piazze, vengono a sentirci 3-4-5 mila persone, cantano tutti, li incito».
Ma lei non era stonato?
«Non più, si può diventare intonati. Basta cantare per dieci giorni con un disco che fa da guida, una o due volte al giorno, e poi si cambia. Sta tutto nella capacità di relazione fra la voce e l’orecchio».
C’è una canzone che avrebbe voluto firmare lei?
«Ma le pare che con tutto quello che ho prodotto vorrei anche aver scritto la canzone di un altro, che magari ne ha fatte solo tre?».
Però non è riuscito a incidere «Il paradiso non è qui», l’inedito scritto per Battisti.
«Quella è una cosa molto ingiusta perché era stato lui a chiedermi di scrivere la canzone. Ho lavorato gratis, senza la possibilità di risentirla. Ed è una delle più belle».
Mogol con Battisti
Non sente mai la vedova, Grazia Letizia Veronese?
«No. Ma io prego per lei, che si ravveda».
E Battisti lo sogna?
«No, lo penso. Credo che lo incontrerò quando sarò morto. Chissà se avrà la chitarra».
Magari farete un’altra canzone insieme.
Sorride. «Sarebbe bello».
Ha un rimpianto?
«Forse aver venduto la Numero Uno, la nostra casa discografica: abbiamo preso tre lire mentre valeva molto di più. Ma avevamo stipendi importanti e avevo paura di non riuscire a pagarli».
È consulente del ministro Sangiuliano.
«Sono suo consigliere, ma non ci siamo ancora incontrati».
Allora è vero che lei è di destra?
«Il fatto che stimi Giorgia Meloni è fuor di dubbio: è ovunque con efficacia straordinaria e dimostra alle altre la forza delle donne. Lotta dalla mattina alla sera per il Paese e crede solo nella competenza. Accidenti quanto è vero!».
Però la politica dell’accoglienza mi sembra lontana dallo spirito con cui lei, per esempio, ospita due famiglie ucraine da più di un anno.
«La decisione di ospitare queste due sorelle con i figli l’ho presa con mia moglie. Adesso le ha raggiunte un marito. Diamo loro un piccolo stipendio perché ci aiutano, hanno la carta di credito. Sui migranti il discorso è un altro: ho spedito un piano alla premier».
Possiamo riassumerlo?
«Aiutiamoli a casa loro. Creiamo una spa finanziata dall’Unione Europea per fare investimenti produttivi nei Paese africani. Noi qui già viviamo attaccati uno all’altro: lì hanno praterie immense».
Hanno anche la guerra.
«I profughi possono chiedere ospitalità negli altri Paesi africani dove la guerra non c’è. Con i loro prodotti si potrebbero aprire negozi di primizie in Europa».
Nel 2016 la candidarono al Nobel per la letteratura.
«Quest’anno ci riprova la Società Dante Alighieri».
Le piacerebbe vincerlo?
«A chi non piacerebbe? Però nella mia vita ho avuto già tanto. Per non parlare di tutte le volte, almeno venti, che mi sono salvato mentre nuotavo, andavo a cavallo o in altre situazioni pericolose. Cosa posso chiedere di più?».
Nel 2007 ha sposato Daniela Gimmelli: avete più di 30 anni di differenza. La spaventa?
«Non ho mai calcolato la differenza di età. Daniela era venuta a trovarmi qui a cavallo, ci siamo conosciuti così: sono passati più di 20 anni. È una donna con un grande cuore, aiuta tutti, è molto amorevole con me. Dirige il Cet nella parte organizzativa».
Le spiace non aver avuto un figlio con lei?
«No, l’ho conosciuta troppo tardi, io ne avevo già quattro. Non abbiamo mai preso precauzioni, ma non è arrivato e va bene così».
È poliziotto ad honorem.
«Sono stato indicato per i miei impegni sociali: solo con la Nazionale cantanti, che ho fondato nell’81, abbiamo raccolto oltre 100 milioni di euro per i bambini bisognosi».
Quindi ha il distintivo?
«Ho cravatta, cappello, distintivo e tessera. Quando un poliziotto mi ferma gli posso rispondere: dimmi collega».
Estratto dell'articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” il 10 giugno 2023
Mogol, le canzoni sono frammenti di vita in musica?
«Le canzoni qualche volta sono frammenti di vita e musica, ma non solo. La cosa più importante è cercare di capire cosa sta dicendo la musica. La musica nasce prima delle parole. Le parole entrano nella musica».
Lei ha scritto 1500 canzoni, un record assoluto e ineguagliato anche per i successi ottenuti. Come giudica un simile patrimonio?
«Pensi, le dò un dato di 4 anni fa della Siae sulla vendita dei miei dischi nel mondo: sono il terzo, nel senso che dopo i Beatles e Elvis Presley ci sono io che ho venduto 523 milioni di dischi».
È davvero impressionante.
«E, infatti, ha impressionato anche me. Non me ne ero reso conto. Però, attenzione: i diritti d'autore non vengono pagati in tutto il mondo, ma solo in alcuni paesi».
(...)
C'è una frase che l'ha accompagnata per la vita e che lei ricorda spesso?
«Sì, la frase me la disse mia mamma. Era ammalata e ho visto che stava piangendo, le ho detto: "Mamma, hai paura di morire?" E lei mi ha risposto: "No Giulio, moriamo tutti. Non ho assolutamente paura di questo. È che ho litigato con tua sorella". Ecco questa cosa che mia mamma ha detto, "non ho paura di morire, perché moriamo tutti" mi è rimasta nella testa, nel cuore e ci penso sempre».
C'è un verso nelle sue canzoni che racchiude la più autentica identità di Mogol?
«No, ma ce n'è uno famoso," L'universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è". È nei Giardini di Marzo».
I suoi testi sono poesie. Guai a chi dice che lei è un paroliere.
«Guardi, le posso dire una cosa? Non c'è nessun autore che è paroliere. Perché il paroliere è quello che fa la Settimana Enigmistica. La parola "paroliere" esalta certi giornalisti, che non rispetto».
(...)
Che giudizio dà delle nuove leve della canzone italiana?
«Secondo me la canzone italiana è entrata in recessione, senza motivo. Per questo ho creato questa scuola, il Cet. È la più importante scuola che c'è in Europa di questo tipo. Tant'è vero che è stato invitato a dare lezioni a Berkley ed Harward».
Per citare una sua canzone.
"Dov'è il paradiso della vita? Dov'è il suo?
«Il mio paradiso della vita è nella mia casa. Qui. Il Cet è qui costruito in mezzo alle foreste, una cittadella della cultura. Per me questo è, ed è anche quello che mi dice la gente quando arriva. È su un altipiano, 410 metri in mezzo alle foreste, davanti a una montagna verde, bellissima».
(...)
Qual è oggi la sua canzone preferita? Se c'è?
«Questa è la domanda principe, quella che mi fanno tutti. Non c'è. Diciamo, se devo dire la verità, ce n'è una trentina. La regina non c'è».
E quelle di altri autori c'è una canzone?
«Sono tante quelle di altri autori che sono belle. Per carità, non è che le scrivo solo io».
Mogol, lei è impegnato nel sociale e considerato un grande mecenate. Un breve bilancio di questo suo aspetto che lei tiene riservato.
«Quello che non è riservato è il fatto che ho fondato la Nazionale cantanti che è riuscita in quarant'anni a lasciare ai bambini bisognosi cento milioni di euro equivalenti. L'altro fatto, recente, che non è solo mio ma anche di mia moglie, che abbiamo ospitato due famiglie ucraine da un anno».
(...)
Lei ha sostenuto che i governi fanno poco per supportare la cultura. Lo pensa ancora?
«Come lei probabilmente sa, sono consigliere del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Fanno quello che possono. Spero di poterlo vedere a breve: penso di potergli dare dei consigli interessanti. Chiaramente, sarà lui poi a valutarli».
È mai stato tentato dall'idea di entrare in politica?
«No, perché vede io non credo ai partiti, credo alle persone».
Lei è stato presidente della Siae, ha pensato di riformarla?
«No. Tutto quello che ho tentato di fare l'ho detto e ho cercato di promuoverlo. Mi sono occupato recentemente del riconoscimento del diritto d'autore da parte della Camera e del Senato, adesso purtroppo è fermo ai decreti attuativi, da otto mesi».
I cinque comandamenti ai quali crede e si attiene.
«La cosa che mi preoccupa di più, e quella che cerco di conquistarmi tutti i giorni è l'autostima. È la cosa più importante. Noi, quando moriamo non ci portiamo via proprio niente, solo l'autostima, cioè quella luce che siamo riusciti a crearci».
(...)
Un ricordo inevitabile: Lucio Battisti.
«Sì, ricordo, lo ricordo sempre sorridente. Con un sorriso molto bello.
E poi tutto è scritto nelle canzoni così emozionanti. Penso che probabilmente un giorno ci incontreremo».
Che cosa gli dirà quando lo vedrà?
«Ciao Lucio, sono felice di vederti».
In cinque parole chi è davvero Giulio Mogol?
«Un uomo molto fortunato e protetto dalla sorte».
Estratto dell’articolo di Giandomenico Curi per il Venerdì- la Repubblica il 4 marzo 2023.
Spettacoli teatrali, tour, ristampe di dischi e, soprattutto, di libri. Per rievocare gli 80 anni incompiuti dei due Lucio c'è in giro un'aria solenne di celebrazioni. E proprio la ristampa della prima biografia di Battisti è il motivo di questo viaggio nelle colline umbre fino al Centro Europeo di Toscolano, dove Mogol si è rifugiato dal 1992 con tutti che gli davano del matto.
La biografia s'intitola L'arcobaleno. Storia vera di Lucio Battisti vissuta da Mogol e dagli altri che c'erano. La prima edizione era del 2000 e ora torna edita da Diarkos. L'ha scritta il musicologo Gianfranco Salvatore con l'aiuto fondamentale di Mogol che, per questo libro, ha deciso per la prima volta di rompere la consegna del silenzio e di aprire le sue ingombranti valigie dei ricordi. «Leggendolo» scrive nella quarta di copertina «ho rivissuto la nostra storia, la mia e di Lucio, che pur con qualche dispiacere non potrei immaginare più bella». Con lui in quelle pagine compaiono anche "gli altri che c'erano", i testimoni che hanno accompagnato l'avventura della Numero Uno, la prodigiosa casa discografica di Mogol-Battisti.
Finita l'ora in palestra, davanti al fuoco, questo signore di 86 anni portati benissimo, ricorda e ripensa. Anche se «il fisico è a posto, ma la memoria un po' meno...».
Lei dice, con Leopardi, che "parole e musica si fondono indissolubilmente, e una volta unite non si staccano più". Perché?
«Quando scrivo, penso a cosa sta dicendo la musica. Anche durante le serate in giro per l'Italia racconto come si scrivono le canzoni. Prendo un brano, per esempio Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, e spiego perché ho scritto quella storia. E prima ancora spiego cosa dice la musica: "La sentite questa nostalgia? Questo leggero dolore?". Perché leggero? Perché in quel momento c'è un'altra donna vicino al protagonista della canzone.
Spiego perché la musica, quando si apre, fa vedere il mare, ci fa volare: perché ci sono "le discese ardite e le risalite".
Insomma spiego che tutto il senso della musica deve essere interpretato dalle parole».
Quindi, sempre prima la musica?
«Assolutamente. Dalla musica arrivano le storie che racconto. Storie che si riferiscono spesso alla mia vita. Dico la vita perché la fiction non è la vita, ma la falsa vita e la gente lo capisce: la vita vera ha un profumo diverso.
Essendo poi tutti professionisti della vita perché la viviamo, sentiamo che c'è qualcosa che va al di là della cultura: l'istinto. Per questo, la vita vera ci piace di più, ci colpisce di più».
Nel libro ci sono momenti della sua vita da adolescente che poi ritornano nei versi di brani come I giardini di marzo, Pensieri e parole, La canzone del sole. Come faceva Battisti a immedesimarsi così intensamente nelle storie di un altro?
«Ogni volta che scrivevo una canzone, mi chiedeva di spiegargli tutto. Entrava nella storia solo dopo aver capito il senso profondo del testo. Perché quello che io scrivevo era vero. Quando parlo dei vestiti di mia madre, dei soldi che "al ventuno del mese erano già finiti", è tutto vero».
Questa osmosi tra musica e parole, così profonda ed emozionante, è il vero marchio di fabbrica della premiata ditta Mogol-Battisti?
«Proprio così. Ed è una cosa davvero unica e misteriosa quando succede. Bisogna anche considerare che c'erano delle musiche straordinarie. E un interprete fantastico. Eppure ho dovuto lottare per convincere Lucio a fare anche il cantante. Portava le nostre canzoni agli altri, ma come le cantava lui erano molto più belle.
Alla fine mi ha dato retta. Lucio aveva un'urgenza dentro, una luce, che gli altri non avevano. E poi aveva molta fiducia in me. Fino a quando, e qui lo devo dire, non è arrivata la moglie».
Le mogli, nella musica, hanno talvolta questo ruolo, diciamo, un po' antipatico.
«Questa qui però era un po' diversa. Ma non voglio dire niente, lasciamo perdere. Comunque lei saprà che ci sono state delle cause che ho vinto, perché la signora Grazia Veronese aveva deciso che si potessero ascoltare le nostre canzoni solo su vinile e cd».
E lei lo sa che c'è stato un produttore, Pietro Valsecchi della Taodue, che voleva fare una fiction tratta dal testo di Salvatore, e che la signora Battisti ha bloccato tutto? C'era già un accordo con Canale 5 e con Claudio Santamaria come probabile protagonista. Ma la signora c'entra anche con la separazione?
«Sono io che ho voluto la separazione. Perché avevo chiesto a Lucio un'equa distribuzione sui diritti delle edizioni. Gli ho detto: "Scusa, io scrivo le parole e tu la musica, facciamo una divisione cinquanta e cinquanta". Lui prima ha detto di sì, ma dopo che ha parlato con la moglie ha cambiato di nuovo idea. E allora ci siamo separati».
Prima dell'Arcobaleno, Salvatore aveva scritto un altro libro importante, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato – presto in ristampa per le edizioni Mimesis – che analizza il vostro intero repertorio e soprattutto la capacità che hanno le vostre canzoni "di fondersi totalmente nell'universo dell'ascolto, nella memoria storica, nell'autobiografismo delle nostre emozioni private". Come siete riusciti nell'impresa?
«Il problema è sempre lo stesso: trovare il senso profondo della musica e trasformarlo in un testo vicino alla gente. Poi, naturalmente, ci sono gli automatismi. Nel senso che c'è un rapporto tale con la musica che rende tutto più facile. C'è un divenire, un lavoro. Dio dà a tutti la stessa possibilità di talento, ma poi succede come con il seme e la pianta. Il seme è il talento che riceviamo, poi però la pianta bisogna coltivarla».
Lei ha fama di saper capire al primo ascolto se un provino può diventare un successo. Ma se non le piace la musica che le propongono, che cosa fa?
«Non scrivo. Se non c'è una buona musica, non scrivo nessun testo».
Cosa si aspetta da questo 2023 di iniziative per gli ottant'anni di Battisti?
«Io non mi aspetto niente, né ho sogni. Secondo me, è il miglior modo di vivere. Così, se succede qualcosa di bello, evviva, sono contento».
E Lucio, a ottant'anni, come sarebbe stato?
«Lui era un grande studioso. E quindi me lo immagino così: che continua a studiare. Era un matematico, esattamente il contrario di me. Lucio, di qualsiasi cosa si appassionasse, andava fino in fondo. Impossibile fermarlo prima».
Lei diceva spesso: «Se a Lucio gli fai vedere un buco lui comincia a scavare e arriva fino al centro della Terra».
«Infatti io ero un orizzontale e lui un verticale. Completamente diversi».
Un altro tema che ritorna è quello della sperimentazione. Ma cosa intendeva lei, all'epoca, per sperimentazione? E cosa intendeva Battisti?
«Veramente, più che di sperimentazione, io ho sempre parlato di libertà. All'inizio, quando Lucio è venuto da me, abbiamo provato a fare qualche esperimento con due o tre canzoni. Ma dopo il successo di 29 settembre la sperimentazione è finita».
Battisti comunque ha rivoluzionato la nostra musica.
«Lui più che altro studiava. Sa cos'è l'io psicologico? È la somma fra il Dna, che non ne rappresenta neanche il dieci per cento, e l'assorbimento degli altri. Una volta capito questo, Lucio si è messo a studiare i grandi musicisti di tutto il mondo, assimilando il più possibile da ognuno: le canzoni, lo stile, il modo di cantare. Perché se lei studia a fondo un artista, ne diventa la brutta copia. Ma se lei ne studia dieci, diventa uno di loro. Perché prende qualcosa da tutti, ma non somiglia a nessuno».
Però ci mette anche del suo. Soprattutto quando si avvicina al pop rock, non dimentica mai la melodia all'italiana.
«Questo è vero. Fin dai tempi di Amore non amore con la PFM. Battisti ha inventato una nuova cultura musicale: italiana con la ritmica americana. E poi molti innesti di musica nera, soprattutto blues. Era una spugna di creatività».
Mogol: «Battisti? All’inizio non mi sembrava un granché. Le braccia tese? Nessun saluto fascista, solo un’invocazione religiosa». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023
Il grande autore ricorda il cantautore scomparso che il 5 avrebbe compiuto 80 anni
Giulio Rapetti Mogol, se Lucio Battisti fosse ancora fra di noi, domenica compirebbe 80 anni. Se lo ricorda il vostro primo incontro?
«Ci fece conoscere Christine Leroux, direttrice di una casa di edizioni musicale che aveva fatto un contratto a Lucio. Lui mi fece sentire due canzoni. “Non mi sembrano un granché”, dissi. E lui “In effetti... sono d’accordo”. Era semplice e umile, sorrise nonostante la batosta. Per non sentirmi un verme miserabile gli proposi di vederci per provare a fare qualcosa insieme. Nacquero “Dolce di giorno” e “Per una lira”».
Cosa ci aveva visto in quel ragazzo alle prime armi?
«Farei bella figura a dirlo, ma non avevo intuito nulla. Però la terza canzone fu “29 settembre” che divenne un successo dell’Equipe 84. All’inizio Lucio non voleva cantare, dovetti insistere prima di convincerlo».
Questa volta ci aveva visto lontano...
«Era moderno. Non cantava per far sentire la voce, ma per comunicare qualcosa».
La chimica fra di voi?
«Lui era un matematico. Studiava sette ore al giorno le canzoni dei più grandi artisti mondiali, un giorno mi disse che si era concentrato solo sulle pause di alcuni successi. Io ero la parte letteraria, mi chiamava “il poeta”. Ho sempre scritto le parole dopo la musica perché credo che ogni frase musicale abbia già un suo senso».
Il vostro metodo di lavoro?
«Ci trovavamo tutte le mattine nella mia villa di campagna a Molteno. Io preparavo il primo caffè per accoglierlo, lui quelli successivi. Lucio stava sul divano con la chitarra, io sul tappeto con carta e penna. Lavoravamo un’ora, dalle 9 alle 10, e nasceva una canzone al giorno. Una volta che era pronto un album, il primo ascolto era riservato a un amico giardiniere».
Chi aveva più successo con le donne?
«Ce la giocavamo. Io ero poco serio...».
Un vostro brano brutto?
«Non ne ricordo. Una sola volta gli dissi che non avrei mai scritto il testo per una sua musica e al massimo gli avrei dato un titolo: “Il fuoco”, era da bruciare».
Dati Siae alla mano, il vostro più grande successo?
«“Il mio canto libero”. Racconta di un mio nuovo amore dopo il divorzio. Allora non era cosa comune e infatti inizia con “in un mondo che non ci vuole più».
Qualcuno l’aveva letta in chiave politica... Come accadde ai «boschi di braccia tese» di «La collina dei ciliegi» interpretati come una folla che fa il saluto romano.
«Quelle braccia non erano un simbolo politico. Lo hanno detto anche per quelle della copertina di “Il mio canto libero”. Ma sono braccia con i palmi aperti come per un’invocazione al signore. Volevano darmi del fascista perché non facevo canzoni impegnate. Non ho mai sentito Lucio parlare di politica: semplicemente non scrivevamo canzoni per il comunismo. Però i dischi di Lucio vennero trovati nel covo delle Br: è un fatto storico».
Rifiutavate, e citiamo «Una giornata uggiosa», le «ideologie alla moda»?
«Era una risposta al clima di allora. Uno come me rischiava... si sparava. Si arrivò a fare un processo pubblico a De Gregori, uno da pugno alzato, perché guadagnava facendo il cantante. Per evitare gli insulti consigliai a Lucio di non fare più concerti».
La prese fin troppo alla lettera. Sparì...
«Non tornò a esibirsi nemmeno quando il clima cambiò. Credo che capì, anche se non me lo ha mai confessato, che questo l’avrebbe reso un mito».
Oggi sarebbe sui social?
«Non lo so. Forse non funzioneremmo nemmeno».
Nel 1980, dopo circa 150 canzoni scritte insieme, litigaste per soldi...
«Non fu una questione di soldi, ma di equità. Lui otteneva due terzi dei diritti e io un terzo. Chiesi di dividere in parti uguali. Sembrava d’accordo, ma il giorno dopo cambiò idea. Gli dissi che non avrei più lavorato con lui».
Cosa gli vorrebbe dire per in occasione del suo 80esimo compleanno?
«Lucio sta tranquillo, che tra un po’ staremo di nuovo insieme... Ho 86 anni...»
Anticipazione da Oggi l’1 marzo 2023.
Il 4 e il 5 marzo del 1943 sono nati rispettivamente Lucio Dalla e Lucio Battisti, il primo a Bologna, il secondo in un paese di 2 mila abitanti in provincia di Rieti, Poggio Bustone. Per celebrarli, a 80 anni dalla nascita, il settimanale OGGI ha intervistato Giulio Rapetti Mogol, che ha conosciuto entrambi anche se con Battisti c’è stato un sodalizio speciale. «Erano liberi e rivoluzionari. Purtroppo non vedo eredi in giro, nella musica di adesso è difficile trovare qualcosa che mi piaccia».
Mogol ricorda con OGGI, in edicola da domani, la collaborazione con Dalla per «Vita»: «L’ho data a Gianni Morandi. Il brano in origine non si chiamava Vita, ma Cara, ed era dedicato a una donna che avevo conosciuto. Se al posto di Vita si mette Cara, si capisce che la canzone è molto più bella… Dovevano cantarla in due e allora mi hanno chiesto il permesso di dedicarla alla vita, invece che a una donna». E i loro rari incontri: «Mi ha sempre fatto un’impressione strana, era particolare. Aveva qualcosa di religioso e qualcosa all’opposto, di pagano quasi. Un grande artista, senza dubbio, uno dei più grandi cantautori e compositori della nostra musica».
Di Battisti («uno che imparava tutto, con la velocità della luce») racconta il motivo della separazione: «Non abbiamo mai litigato, ci siamo rivisti dopo, siamo anche andati a mangiare insieme. È stata una questione di principio, non di soldi. Quando abbiamo iniziato, la Siae pagava la maggior parte dei diritti d’autore al musicista, e meno all’autore del testo, e io l’avevo accettato. Poi la Siae si è adeguata al resto del mondo e una sera gli chiesi di dividere i diritti a metà. Lui sul momento mi disse di sì, poi al mattino, forse influenzato da qualcuno, ci ripensò e disse di no. “A queste condizioni non scrivo più con te”, gli dissi. Sono andato a scrivere con gli altri, e lui ha trovato un altro autore».
Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 25 febbraio 2023.
Giulio Rapetti Mogol, si sa, con i suoi 86 gloriosi anni corredati di palestra quotidiana, è l'uomo di cui cantiamo a memoria i versi quando ci buttiamo sulle canzoni di Battisti. All'autore di testi più celebre, ci si rivolge ogni volta che viene fuori la domanda: "Ma Battisti era di destra come si dice?". Risponde sempre di no, ma ora tocca girare la domanda a lui.
Il ministro Sangiuliano lo ha appena nominato consulente per la cultura popolare: ma si scopre che non è quello l'unico ministro del governo Meloni ad aver pensato a quest'uomo di vasti interessi, anche su argomenti che non ti aspetteresti. E invece.
Caro Mogol, com'è successo che lei sia venuto in mente al ministro della Cultura, che ha scelta come consulente per la cultura popolare?
«Non so. Me lo hanno anticipato in parecchi, poi s'è fatto vivo lui, molto gentile. Ho risposto: ma sì, perché no, se c'è la possibilità di migliorare il livello della musica. Da 30 anni ho fondato il CET scuola di livello europeo per la canzone. Sono l'unico docente che non ha mai preso stipendio qui ad Avigliano Umbro, posto magnifico dove vivo benissimo: aria fantastica, fiori alberi laghetti. Tanto che mi ha ispirato ad occuparmi anche della prevenzione primaria, e questo farò con il ministero della Salute».
(...)
La sua consulenza con il ministero della Cultura sarà gratuita.
«Soldi non sono previsti. Lo faccio volentieri, lo sanno tutti che con la scuola non ci guadagno».
(...)
Le piace Giorgia Meloni?
«È una donna molto preparata, studiosa, risoluta. Una che non si improvvisa. E anche per le donne avere una donna capace come presidente è importante. Se una persona che fa parte di un partitino piccolo poi arriva a prendere tanti voti, è un buon segno».
(...)
Le ho sentito dire spesso che si definisce apolitico.
«È vero. Io giudico le cose che si fanno, destra o sinistra se uno è competente bene, giudico per le decisioni che si prendono».
Come giudica questa destra?
«Si son trovati a fronteggiare situazioni spaventose, pensi solo al 110 per cento. È la follia, e pensi al reddito di cittadinanza che fai contenta la gente ma a che prezzo. Come presidente Siae mi sto occupando del copyright di cui c'è stata l'approvazione, ma mancano i decreti attuativi e si affamano i poveri autori, durante la pandemia abbiamo dovuto fare i pacchi viveri».
Ha visto Sanremo?
«No perché mi fa male. Bisogna dare positività per favorire l'evoluzione delle persone. I baci in bocca fra uomini? Non ce l'ho con gli omosessuali anzi, ma con questa promozione dell'omosessualità. Non voglio urtare la sensibilità di nessuno ma quello è un palco che promuove la musica, non effetti che cercano l'Auditel dimenticando la promozione della cultura popolare».
E ha visto ai Tg da Firenze le scene dei fascisti che prendono a calci gli studenti?
«Quelli bisogna prenderli e cacciarli in prigione. La violenza va condannata sempre. Purtroppo senza castighi non si impara nulla, bisogna che la gente si spaventi. Chiunque si comporti così, di qualunque parte, sono violenti e basta».
Giulio Scarpati.
Estratto dell’articolo di Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” lunedì 25 settembre 2023.
«Con la nostra neonata cooperativa di giovani attori, eravamo in un teatrino di Trastevere, dove era in programma il nostro spettacolo — racconta Giulio Scarpati —. Ma in sala non vedevamo arrivare nessuno, tanto che ci mettemmo a giocare a carte dietro le quinte per passare il tempo. E invece, meraviglia delle meraviglie, entra un unico spettatore, che era addirittura il critico teatrale dell’Unità , il compianto Aggeo Savioli. Allora mi precipito al bar, vicino al teatro, e telefono a casa, dicendo ai miei genitori che dovevano venire di corsa, insieme a tutto il resto della famiglia, per riempire almeno qualche altro posto: così fecero e lo spettacolo andò in scena».
E la recensione di Savioli come fu?
«Benevola... comunque noi non ci perdevamo d’animo, andavamo in giro anche nelle piazze di paese. Ricordo un borgo della Basilicata dove era la prima volta che i paesani assistevano a una rappresentazione teatrale: un ragazzino, non essendo abituato a stare zitto e fermo in platea, salì sul palcoscenico mentre stavamo recitando, afferrò un oggetto di scena e scappò via. Lo dovetti rincorrere per riaverlo indietro: sembrava uno spettacolo nello spettacolo. Oppure allestivamo rappresentazioni nelle carceri: in quello di Civitavecchia aiutammo i carcerati che reclamavano un confronto con l’allora sottosegretario al ministero della Giustizia, che era venuto proprio per assistere al nostro spettacolo...».
In che modo li aiutaste?
«L’autorevole funzionario era seduto in sala e noi, a sipario chiuso, dicemmo che non saremmo andati in scena finché non avesse ascoltato i detenuti, cosa che avvenne. Ci esibivamo anche negli ospedali psichiatrici e là, a volte, capitava qualche imbarazzante equivoco: era difficile distinguere, tra gli spettatori presenti, i medici dai malati di mente. Tuttavia, posso affermare con orgoglio che il mio primo spettatore importante l’ho avuto a 16 anni: era Pier Paolo Pasolini».
Per quale spettacolo?
«Mentre frequentavo ancora il liceo, mi ero iscritto al laboratorio diretto da Elsa De Giorgi, cara amica del grande scrittore. Per il saggio di fine anno recitavamo con la nostra insegnante le laudi umbre del Duecento. Io impersonavo San Giovanni, Elsa era la Madonna e fu lei ad avvertirci che era presente Pasolini: per me fu un autentico shock ma, stranamente, fu proprio Elsa ad avere un vuoto di memoria e, incredibile a dirsi, le andai in soccorso io che, avendo studiato bene l’intero copione, la abbracciai per sussurrarle all’orecchio le battute da pronunciare. L’emozione può giocare brutti scherzi. A me è capitato persino da semplice spettatore di un mitico attore».
Chi?
«Eduardo De Filippo. Erano i primi anni Ottanta e già calcavo regolarmente le scene e i set. Una sera vado ad assistere a un suo spettacolo, credo fosse una delle sue ultime apparizioni in palcoscenico. Al termine, mi presento nel suo camerino. Mi ero preparato un bellissimo discorso per fagli i complimenti, ma quando me lo sono trovato davanti, sono riuscito solo a esclamare: bravissimo!».
E lui?
«Mi guarda, sorride e risponde: grazie!... Che altro poteva dire? Mi sarei preso a schiaffi: volevo fare bella figura, quello intelligente con frasi appropriate, e invece feci la parte del cretino superficiale».
[...]
Il caso volle anche che, dopo aver avuto Pasolini come spettatore, molti anni dopo lei fu nel film «Pasolini, un delitto italiano», dove si ricostruiva la vicenda del processo contro Pino Pelosi.
«Impersonavo l’avvocato Nino Marazzita che difendeva la famiglia Pasolini, e francamente mi è sempre rimasto un interrogativo irrisolto: com’è stato possibile che Pelosi possa aver ucciso, da solo, lo scrittore che era un uomo forte, agile...».
Il personaggio di Lele, nella fortunata serie «Un medico in famiglia», quanto ha influito sul suo successo mediatico?
«Tantissimo, non posso negarlo. Ancora oggi la gente che mi incontra mi dice che è cresciuta con quella fiction e ne sono contento. La famiglia che rappresentavamo all’epoca anticipava i tempi: impersonavo un vedovo con due figli da crescere, quindi gestivo il ruolo paterno e materno. Al mio fianco nonno Libero (Lino Banfi) mi aiutava nel mio non facile compito...».
Banfi, un compagno di scena insostituibile?
«Era divertente stare con lui anche dietro le quinte, ma era fissato con la sua “finta” dieta!».
Finta?
«Il set era a Cinecittà e i nostri camerini nei container. Nella pausa pranzo Lino mi faceva puntualmente vedere il vassoietto, da lui richiesto, con risicate pietanze. Ma un giorno, mentre mangiavo nel mio camerino, vedo entrare, da un ingresso secondario, un tizio con un vassoio gigante, con ogni sorta di prelibatezze, che si dirigeva verso il camerino di Lino: evidentemente non stava a dieta... di nascosto si faceva portare il suo “vero” pranzo!».
[…]
Il successo televisivo ha costituito un pregiudizio nei suoi confronti come attore di cinema?
«Un po’ di pregiudizio c’era all’epoca: il cinema aveva un po’ di puzza sotto al naso nei confronti del piccolo schermo, era come avere la fedina penale sporca, cosa che ora è superata, per via delle piattaforme: ormai il cinema si vede più in tv che nelle sale, non è più tanto grave essere attore televisivo e cinematografico».
Tra i registi cinematografici, quello con cui ha lavorato meglio?
«Ettore Scola. Un grande autore e regista che ha fatto la storia del cinema, ovviamente molto severo: sul set parlava poco e ti faceva rifare una scena mille volte, finché non era convinto della tua interpretazione. Era la prima volta che lavoravo con lui ed ero abituato a registi, miei coetanei, con cui avevo confidenza, un rapporto alla pari. Nei primi giorni di riprese del film Mario, Maria e Mario mi sentivo a disagio, perché lui era taciturno. Così presi coraggio e gli dissi: Ettore, il nostro rapporto non funziona... E lui, nel suo aplomb serafico risponde: non sapevo che fossimo fidanzati... Scoppiai a ridere e da quella volta si ruppe la barriera tra noi, nacque una amicizia profonda. Durante una cena in trattoria, mi fece un omaggio, dedicandomi un ritratto, uno schizzo che ritraeva il mio volto, tratteggiato al volo su un foglietto, cui aggiunse la didascalia: un’espressione intelligente di Scarpati... La sua ennesima presa in giro».
Lei è spesso diretto da un’altra regista particolare: sua moglie Nora Venturini. È più facile lavorare, dato il rapporto di complicità, oppure...
«Non è più facile, perché quando lavoriamo non siamo i “coniugi” Giulio e Nora, ma Scarpati e Venturini. Nemmeno più difficile, tranne il fatto che l’ansia creativa della regista ci costringe spesso a degli autentici tour de force... ore e ore di prove, senza nemmeno il tempo per fare una pipì. Aggiungo che, quando lavoro con altri registi, a casa mi rilasso. Invece Nora me la ritrovo la sera a casa... e il lavoro non finisce mai!». […]
Giuseppe Tornatore.
Estratto dell'articolo di Stefano Giani per il Giornale il 17 luglio 2023.
Nuovo cinema Tornatore. Fotogrammi dal paradiso. Crocevia di arte e poesia, sequenza ininterrotta di immagini che uniscono passato e presente. Più di ogni altro, il regista siciliano - al quale è stata dedicata una retrospettiva alla recente Mostra del cinema di Pesaro che nel 2024 sarà capitale della cultura - è l'autore che ha lavorato con l'industria e i criteri di uno ieri percepito come lontanissimo.
Addirittura perso nella valle dei tempi. Allo stesso modo, ha saputo però adattarsi all'era postmoderna, restando abilmente un passo indietro alle deformi e malandate espressioni di tanti film che faticano a trovare una propria identità individuale e un posto nel panorama della cinematografia internazionale. L'autore siciliano si identifica così con un mondo che non esiste più, proponendo però temi e spunti che hanno trovato, nei decenni, una personale chiave di sviluppo e sempre viva attualità.
Dal paradiso di un cinema ricavato in una chiesa fatiscente ai pensieri di una Sconosciuta, dalla voce lontana e perduta di un pianista sull'oceano al ritratto di una Bagheria a metà del Novecento fino alle lettere di un uomo assente ne La corrispondenza. Storia e vita si mescolano con tratti autobiografici in un percorso sincopato e ricco di bruschi cambi di direzione che forse poi tanto violenti non sono. Anche se lo sembrano.
(...) Nuovo cinema paradiso era il film personale che volevo rinviare. Pensavo di farlo come quarto o quinto, per avere più esperienza. È stato un azzardo».
Un successo più che un azzardo.
«Pensi che all'inizio non fu applaudito. Lo giudicarono lungo e prolisso. Ho deciso di tagliarlo di una decina di minuti ma abbiamo dovuto aspettare il passaggio a Cannes perché fosse capito».
Una delusione cocente, all'epoca.
«In realtà non avevo mai pensato di fare qualcosa di grande. Era importante per me perché era la mia vita».
Raccontava il suo passato di proiezionista al cinema di Bagheria.
«E ci tenevo talmente tanto che rinunciai perfino a tutti i miei compensi. Mi bastava farlo. Se questo non è stato un tradimento dei miei propositi».
Poi qualcosa guadagnò.
«Franco Cristaldi, mio produttore di allora, rimase sbigottito e nel contratto dispose una piccola partecipazione ad eventuali utili per me. Il film fu un successo e recuperai ciò cui avevo rinunciato».
E arrivò l'Oscar.
«…che quella sera strappai di mano proprio a Cristaldi (ride)».
Come, rubò la statuetta?
«Mi avvertirono che lui andava famoso per anticipare la consegna. Così a me sarebbe toccata la copia. Invece, quella sera, salii per primo sul palco e la copia andò a lui».
Primato da velocista.
«Il record mondiale fu il mio discorso. È rimasto il più sintetico nella storia degli Oscar».
Come mai?
«Il conduttore sbagliò a leggere il vincitore e ci fu un attimo di disorientamento. Poi si corresse e io ebbi solo il tempo di dire Thank you. Il trionfo finì lì».
Che cosa le resta di quel film?
«Tutto. I ricordi di un tempo. La sala con la gente che fumava, l'omino che vendeva bruscolini, il pubblico che restava in sala con i bambini per due o tre spettacoli, le donne che allattavano mentre guardavano il film».
Sapori.
«La parte di pellicola con la gelatina. Mi insegnarono a leccarla per distinguerla ma presto imparai a riconoscerla allo sguardo. Era più opaca, il retro invece era lucido. E finalmente smisi di mangiarla».
E odori
«La colla per unire i tagli, quella che tutti definivano acetone solo perché sapeva di aceto. Ma non era vero. Nel film, ho cercato di riprodurre tutto questo».
(...)
Che sensazione ricorda di quella sera a Los Angeles?
«Fu come fare la prima comunione che non ho mai ricevuto».
Niente sacramenti per lei?
«Non fu una scelta ideologica. Mio padre era un anticlericale che militava nel Pci, mia madre e mia nonna erano molto religiose».
(...)
Nozze civili, forse.
«Ah sì, certo. Io e mia moglie convivevamo già da tempo, lei mi convinse e io posi una sola condizione: che non ci fosse nessuno».
A parte i testimoni, ovviamente.
«Esatto, due soli. Ennio Morricone e gentile signora».
Il documentario è stato l'atto di amore per un amico.
«Eravamo molto intimi e ci frequentavamo con le famiglie. Un rapporto bello e forte nato però da motivi professionali».
Una prospettiva confidenziale che s'intuisce dalle prime scene dove l'indimenticato musicista faceva ginnastica
«Erano esercizi che facevamo insieme, distesi sul tappetino con i piedi sul muro di casa sua».
Però purtroppo non fece a tempo a vederlo finito.
«Vide solo la prima imbastitura di un'ora con i buchi neri per gli inserti. E rimase toccato dalle immagini del suo maestro».
Che cosa le disse?
«Hai fatto bene a metterle. Poi si commosse. L'unico rimpianto è non essere riuscito a farglielo vedere finito. Ne ha visti tanti, tranne quello che lo riguardava direttamente».
«Ennio» non è il suo unico documentario. Che cosa le piace di questo genere?
«Dà una libertà che il cinema non può dare. La sceneggiatura di tante storie non si può modificare se non in piccoli punti. Il doc è un lavoro in divenire».
È il film che le è costato di più come emozione?
«Ognuno mi ha regalato qualcosa. Il camorrista fu l'esordio. La notte precedente al primo ciak non chiusi occhio».
Ma è vero che all'epoca lei girò pure una serie tv che non andò mai in onda?
«Verissimo. Aveva lo stesso cast e i medesimi protagonisti. Non fu mai trasmessa perché il film ebbe disavventure giudiziarie e i produttori decisero di non voler correre altri rischi. Ora è riemersa dai cassetti e presto apparirà ma non so ancora bene dove. Ero in anticipo sui tempi».
E fu tra i primi film di Reteitalia di un rampante Silvio Berlusconi. Che rapporti aveva con lui?
«Non ci siamo mai conosciuti di persona. Ma tengo a dire che è stato corretto e non ha mai fatto pressioni o critiche. Nemmeno quando Medusa produsse Baaria».
Si disse che era comunista.
«Si dissero tante cose non vere. A cominciare da questa e dagli strali di Berlusconi. Tutte falsità. In Baaria avevo ricostruito il mio quartiere settant'anni dopo, in modo pignolo e puntiglioso».
(...)
Gli AC/DC.
Ac-Dc: 50 anni sulle autostrade del rock and roll. Gianni Poglio su Panorama il 29 Ottobre 2023
La morte di Bon Scott e l'ingresso nella band di Brian Johnson: due estratti dal libro "Ac-Dc. Per sempre sulle autostrade del rock" di Paul Elliott Sono un brand del rock and roll gli Ac-Dc, una band che ha attraversato cinque decenni di musica nel segno della massima coerenza musicale. Il loro sound è infatti un marchio di fabbrica inimitabile, semplice, viscerale, senza fronzoli. Per sempre sulle autostrade del rockdi Paul Elliott (Hoepli) racconta la storia del gruppo dagli inizi ad oggi: duetto immagini, interviste esclusive, curiosità, aneddoti e testimonianze di altri musicisti. Qui di seguito due estratti dal libro (per gentile concessione della casa editrice) che fotografano due momenti che hanno cambiato per sempre la storia della band: la morte del primo vocalist Bon Scott e l'ingresso nel gruppo di Brian Johnson.
La morte di Bon Scott (capitolo 7 pag. 106) - Il 18 febbraio, un lunedì sera, Scott chiamò Silver per chiederle di accompagnarlo a vedere una band al Dingwalls, un locale di Camden. Aveva bevuto e non voleva uscire da solo, ma la ragazza non era interessata e gli suggerì di andarci con un suo amico, Alistair Kinnear, che quella sera si trovava da lei. Per Bon andava bene. Su quanto accaduto quella notte, sono state fatte congetture per quasi 40 anni. C’è un solo testimone degli eventi, ed è Alistair Kinnear, il cui nome resterà per sempre legato alla storia degli AC/DC in quanto ultima persona ad aver visto Bon vivo. Kinnear ha dato la sua versione dei fatti in una deposizione alla polizia, dichiarando di essere andato a prendere Bon in macchina al suo appartamento a Victoria a mezzanotte. Da lì i due non si sarebbero diretti al Dingwalls, già chiuso, bensì al Music Machine, un altro club di Camden. Pare che Bon quella sera bevesse whisky quadrupli scolandoseli in un sorso. Dopo un paio di giri, Kinnear lo avrebbe riaccompagnato a casa, ma senza riuscire a svegliarlo, una volta arrivati a Victoria. Bon aveva bevuto troppo ed era svenuto. Kinnear si diresse quindi a East Dulwich, dove viveva in un appartamento al terzo piano, al numero 67 di Overhill Road: lì avrebbe provato di nuovo a svegliare Bon, ma invano e senza neppure riuscire a sollevarlo per farlo uscire dalla macchina. A quel punto, dopo avergli messo addosso una coperta, se ne sarebbe andato a dormire in casa. Kinnear ha dichiarato di aver dormito fino alla sera successiva, e, una volta tornato alla macchina alle 19:45, di aver trovato Bon privo di sensi, immobile. “Mi sono accorto immediatamente che qualcosa non andava”, ha detto tempo dopo, in un’intervista al London Evening Standard. Bon Scott fu dichiarato morto al suo arrivo al Kings College Hospital nelle ultime ore del 19 febbraio 1980, ma la notizia arrivò ai fratelli Young solo il mattino seguente.
Il primo provino di Brian Johnson (capitolo 8 pag. 116-117) - Il giorno in cui Brian si recò a Londra per il provino non iniziò sotto i migliori auspici. Temendo che il suo fatiscente Maggiolino non lo avrebbe portato lontano, si fece prestare l’auto da un amico, una Toyota Crown, ma dopo appena qualche miglio fuori Newcastle forò. Si spaccò il culo per riparare la ruota e si rimise in viaggio sulla M1. Arrivato ai Vanilla Studios, era nervosissimo. Per quasi un’ora stette seduto in un bar di fronte agli studi, fumando e bevendo tè. Provò anche a mangiare una fetta di torta senza riuscirci, perché la crosta era così dura che temette di rompersi un dente. Aveva così poca fiducia in sé stesso che avrebbe voluto solo alzarsi e andare a casa. Ci volle tutto il coraggio che aveva per decidersi ad entrare. All’ingresso degli studi, vedendo un gruppo di ragazzi che giocavano a biliardo, credette fossero membri della band. In realtà si trattava di roadie degli AC/DC. Dopo aver passato un’ora con loro ed essersi reso conto dell’equivoco, venne accompagnato in sala prove, dove lo presentarono al gruppo. Brian si sentì immediatamente a suo agio quando Malcolm gli passò una bottiglia di Newcastle Brown Ale. Ne bevve un sorso, provando un enorme sollievo nello scoprire che quelli della band erano, come ha detto lui stesso, “ragazzi del tutto normali”. Quando gli chiesero un pezzo da cantare con loro, Brian scelse Nutbush City Limits, una hit di Ike & Tina Turner del ‘73, un brano un funky pieno di soul, ma con un tocco di rock sporco e grezzo, come degli Stones in piena decadenza. Era una canzone che Malcolm e Angus amavano e quando Brian la cantò con la band andò alla grande e tutti ebbero la stessa sensazione. Poi provarono Whole Lotta Rosie. Johnson la conosceva benissimo e, come il protagonista della canzone, ce la mise tutta. “Mi sono venuti i brividi quando ho cantato Rosie”, ricordò in seguito. Rudd è stato il primo a convincersi che gli AC/DC avevano trovato la persona giusta. Finito il provino – e con Brian già sulla strada di casa – disse agli altri: “Fanculo. Prendiamo Brian, dai!”
Barbara Costa per Dagospia sabato 7 ottobre 2023.
“Le groupie non le sc*piamo. Ci limitiamo a una stretta di mano. Sono per la crew, sono loro che se le ripassano, non noi”. Brian Johnson, cantante degli AC/DC, ma chi credi di fregare??? Tu, che sei pure mezzo italiano (tua mamma era di Frascati) e canti con la band rock più tosta che esiste ruggendo col fulmine che vi tuona in mezzo e fa tremare la Terra con le chitarre incestuose degli Young.
Tu, Brian, da 43 anni negli AC/DC che festeggiano 50 anni di Rock sicché vai con onori e tributi (su tutti, "AC/DC. Per sempre sulle autostrade del rock", di Paul Elliott, e ci trovate 200 fotografie, e tante sono inedite, più interviste rarità: questo libro esce tradotto in mezzo mondo, e per noi è edito Hoepli), e band di rocker che ai giardinetti non ci sta, non ci va, nonostante lutti e scorni (il 7 ottobre si ricomincia, sul palco, al "Power Trip" di Indio, USA), e allora, Brian, fattelo dire dai tuoi AC/DC come funziona o funzionava con le groupie…!!!
Fattelo dire dalla band che ti ha dato il c*lo di cantare "Back in Black", il disco che è il secondo più venduto, in ASSOLUTO, nella Storia, e che dovrebbe prendere a calci il n. 1, "Thriller" di Michael Jackson, in quanto "Back in Black" è secondo per vendite a straf*ttere ma senza una p*ppa di promozione su stampa, né passaggio tv, o radio.
Ma torniamo alle groupie: Brian, "Lock Up Your Daughters" che diavolo credi stia a dire, le figlie da mettere al sicuro son proprio le "baby brigade", sì, le ragazze che si facevano mettere incinte dalle rockstar e per il feticismo di farsi impollinare senza nulla in cambio, e soldi alla creatura nemmeno. Oppure erano le figlie groupie dai nomi malati, Mandrax Margaret, Anfetamina Annie, groupie amate dagli AC/DC e ricompensate in brani, "Go Down", per la loro abilità orale, "Whole Lotta Rosie", per la loro bollente obesità.
Groupie da bordello di cui tu, Brian, canti “the jack”, la gonorrea. Fattelo dire da Angus, quante volte se l’è presa, lui, e quante, gli altri, tanto che “il medico ci fa lo sconto famiglia!”. I legami di sangue contano negli AC/DC, vi regnano. Lì dentro hanno sempre solo comandato i fratelli Young: Malcolm, chitarra ritmica, Angus, chitarra solista, e George, produttore protettore. Gli AC/DC non sono una band, sono un clan. Un cerchio chiuso di consanguinei asociali e cattivi. Ma cattivi sul serio.
Gli Young nascono mocciosi di strada con le pezze al c*lo in case popolari erette tra le fogne. Zero stronz*te. Lo vedi Angus, quel piccoletto, perennemente vestito da scolaretto, che sul palco, con la chitarra è furia pura? Ecco, innanzitutto non dargli del tappetto né nient’ altro, te lo consiglio. Lo sai che si cala da una vita questo mostro degli assoli per suonare da demonio? Siga, thè, cioccolata, e una aspirina nel latte quando si sente un po’ giù. Come va, Angus? “I’m TNT, I’m dynamite”, e quasi scordavo il suo piatto preferito, spaghetti al ragù, che lui ingurgita direttamente dalla lattina.
Se Angus è l’unico astemio in famiglia (ha bevuto una volta sola, Jack Daniel’s brindando la nascita della prima nipote, e l’hanno portato a letto in braccio), gli Young mai hanno tollerato droghe. Per questo scesi dal palco tenevano a distanza Bon Scott, che per 6 anni ha cantato negli AC/DC prima di Brian. Bon non era così schiavo di roba pesante però beveva a stremarsi, senza controllo, era senza denti, e si faceva i gargarismi porto e miele ingollando il tutto. Diceva Bon: “A me la band piace più della femmina!”, ma mentiva. Sono state due passioni parallele talvolta mescolate.
Gli AC/DC da 50 anni marcano la Storia del rock stabilmente sulle p*lle ai critici. Per tali intelligentoni erano, sono e saranno “zeppelinosi disgustosi decerebrati volgari da tre accordi”. Angus ha sempre ringraziato spedendo a ogni critico musicale, di ogni testata, ogni album degli AC/DC, in anteprima, impacchettato in mutandine da donna.
Gli AC/DC hanno sfornato dischi tutti tutti uguali? “Ma vaffanc*lo, non è vero”, ti risponde Angus, “abbiamo ogni volta cambiato la copertina!”. E ancora: “Noi siamo terra terra. Mai fatte s*ghe mentali. Dritti al punto. Le nostre canzoni parlano di donne, sesso, rock. È questo il senso della vita!”. Caro Angus, i tuoi riff stendono, tu sei l’unico uomo a cui tollero i pantaloni corti, tu sei il mio pusher più fidato di dosi di chitarra rock, tuttavia… hai 68 anni, quand’è che lo pigli, 'sto diploma?
Gli Inti-Illimani.
Estratto dell'articolo di Giandomenico Curi per “il Venerdì di Repubblica” il 17 maggio 2023.
È ancora vivo e stretto il legame tra gli Inti-Illimani e l'Italia. Una forza misteriosa avvicina il nostro Paese a questo gruppo diventato mito: basta il suo nome per evocare il Cile e la sua storia. Soprattutto nel periodo del golpe, scattava automatica l'associazione mentale: «Cile? Inti-Illimani!». E cinquant'anni dopo sono ancora lì a fare avanti indietro tra Roma e Santiago, come le note in fila sullo spartito del tempo.
Alla vigilia di un nuovo tour, ne parliamo con Jorge Coulón portavoce del gruppo, formato nel 1967 nelle aule dell'Università insieme a Horacio Durán, José Seves, José Miguel, Horacio Salinas e Max Berrú. Gli stessi che nel 1973 arrivano in Italia e ci restano per 15 anni. «Ho vissuto il mio esilio tra i 25 e i 40 anni» ci dice Jorge «e non sono solo 15 anni, ma una parte importante della vita, quella in cui si diventa adulti: mi sono ritrovato cittadino del mondo nell'Italia degli anni Settanta».
Certo, anche se dall'anno scorso c'è un governo di centrosinistra alla guida del Cile, il vecchio sogno socialista di Allende sembra tramontato per sempre. Eppure gli Inti sono nati in quel sogno, dentro il movimento della Nueva Canción Chilena che ha accompagnato la nascita di Unitad Popular e l'avventura presidenziale di Allende.
"Non c'è rivoluzione senza canzoni", lo slogan più gridato. Erano un gruppo di studenti innamorati dei suoni andini, anche se, fin da ragazzo, Jorge andava matto, oltre che per la musica messicana, per un certo Lucho Gatica, el rey de los boleros che spopolava alla radio, e che ritroverà in Italia frequentando Gigi Proietti, anche lui accanito estimatore del crooner cileno.
(...)
Nel 1973, dopo un lungo tour glorioso nei Paesi latinoamericani, la scelta di venire a suonare in Europa, Italia compresa. Doveva durare poche settimane: diventerà, come il No Ending Tour di Dylan, una tournée infinita. Arrivano il 5 settembre a Roma: li aspettano i compagni del Partito comunista e le feste dell'Unità. «Appena scesi dall'aereo, ci hanno messi su un pulmino diretto a Milano, dove la sera abbiamo fatto il primo concerto. E due giorni dopo il primo disco in Italia: Viva Chile!». Sarà il golpe dell'11 settembre a determinare la copertina: la chitarra andina, la colomba ferita e la bandiera del Cile. Venderà un milione di copie.
(...) «Eravamo una generazione felice, ma in un attimo è cambiato il mondo. In America Latina ci sono stati golpisti e dittatori di ogni tipo, ma mai una giunta fascista così brutale e criminale».
La sera stessa del golpe gli Inti fanno un concerto a Roma, al Tiburtino Terzo. Il giorno dopo comizio e concerto a Piazza Santi Apostoli con Gian Maria Volonté in prima fila che piange.
Da allora non si sono più fermati. Concerti e manifestazioni, ovunque, «a suonare gli stessi brani come zombie». Feste dell'Unità di ogni tipo (segnate da una passione e una partecipazione mai più ritrovate): da quelle ricche con la Ferrari in mostra a quelle periferiche con la grigliata e il liscio. Forse questo stakanovismo militante li ha salvati dalla depressione.
Nello stesso tempo cresceva un rapporto speciale con il nostro Paese. Leggo da un librino edito da Arcana nel 2003, Viva Italia. 30 años en vivo: «Abbiamo fatto concerti e successo in mezzo mondo, ma in Italia era tutta un'altra cosa: entusiasmi e successi come non c'era mai capitato di vivere e che purtroppo vivevamo ossessionati dall'orrore che ogni giorno si consumava in Cile». Insomma, un rapporto forte e intenso, ma anche contraddittorio che, con il tempo, si avvicina sempre più a un esilio vissuto come un male incurabile. E forse anche la loro musica, per quanto all'inizio nuova e sorprendente per il pubblico italiano, comincia a spegnersi, a diventare ripetitiva già sul finire degli anni Settanta.
Ecco allora, nel 1977, la storia del Cucciolo Alfredo di Lucio Dalla, con i famosi versi ("La musica andina, che noia mortale/Sono più di tre anni che si ripete sempre uguale") che, un po' scherzando e un po' no, esprimevano una certa insofferenza diffusa e soffusa. Gli Inti-Illimani ci restano male.
«Soprattutto perché non era giusto nei nostri confronti. La musica andina non da tre anni, ma da cent'anni si ripete più o meno uguale. Così funziona la tradizione. Ne abbiamo parlato molti anni dopo con Lucio, nella mia casa di Valparaíso», ricorda Jorge. «Mi ha detto una cosa che non so quanto sia vera: che lui non parlava di noi, ma dei tanti che sono arrivati dopo».
Ci sono poi un altro paio di canzoni italiane, in qualche modo legate alla tragedia cilena e all'esilio nel Belpaese dei suoi portavoce. La prima, più beffarda, è di Ricky Gianco e Gianfranco Manfredi: si chiama Compagno sì compagno no compagno un caz e a alla seconda strofa se la prende con il "profugo cileno" allora quasi di moda: "Io c'ho il profugo cileno a casa mia, è arrivato nel ‘73 / E da allora lui non è più andato via / Antonietta, fammi star da te".
L'altra, del 1992, è invece di Roberto Vecchioni (Voglio una donna) e chiude la prima strofa così: "La voglio come Biancaneve coi sette nani / Noiosa come una canzone degli Inti-Illimani". Citazione, ci dice oggi Coulón, «senza senso perché nel 1992 quella stagione era finita da un pezzo; e comunque quei versi sono sessisti e anche razzisti».
In un libro recente, Sulle corde del tempo, scritto da Jorge insieme a Federico Bonadonna, è riportato un piccolo incidente linguistico a proposito di Chile Resistencia, disco che conteneva una serie di brani militanti da diffondere clandestinamente in patria.
La canzone che dà il titolo al disco ha un refrain che finisce con un crescendo musicale mentre il testo ripete "Por Chile, por Chile, Chile Chile": in spagnolo funziona benissimo, ma alle orecchie italiane suona "Porcile, porcile…". Sempre in quel libro si narra dell'incontro a Roma al ristorante Cicilardone con Malcom McLaren, il manager dei Sex Pistols: alla fine del pranzo, la proposta di fare da testimonial, lui e gli Inti, per una linea di moda andina. Inevitabile un no.
(...)
Gloria Guida.
Estratto dell’articolo di Alessandra Paolini per repubblica.it lunedì 20 novembre 2023
Gloria Guida, mi perdoni ma ci deve sciogliere un dubbio. Nella vita reale a quale fazione appartiene? Vasca o doccia?
“La doccia, tutta la vita! Sarà pure rilassante fare il bagno, ma stare a mollo in quell’acqua che sembra sempre un po’ stagnante non m'è mai piaciuto”.
Sul set di docce ne ha fatte così tante…
“Sì, forse ne avrei potute fare di meno. Ma dopo tanti anni sa cosa le dico? Che la doccia, ha un grande potere taumaturgico. E' liberatoria: ti fa scivolare le cose addosso e ti protegge dalla cattiveria, dai pregiudizi e dall'invidia. Tutte cose che mi hanno sempre fatto tanto soffrire”.
Bella come il sole, Gloria Guida - L’infermiera di notte, La liceale che con le sue commedie sexy ha turbato i sonni di più di una generazione - domenica compie 68 anni. E ne ha trascorsi quasi quarantacinque insieme a Johnny Dorelli, il don Silvestro di Aggiungi un posto a tavola che ha sposato non una, ma due volte. “Lo ha voluto Johnny perché diceva che alcune cose, la prima volta in Comune, gli erano sfuggite…”, racconta mentre il cielo minaccia pioggia sulla terrazza piena di fiori (“Pensi, ci sono anche le camelie che mi regalò Raffaella Carrà”, confida) nella sua bella casa sulla Cassia, zona Nord di Roma.
Il buen retiro di una coppia in cui quasi 20 anni di differenza d'età non hanno mai infiacchito l'amore: “Neanche ora che ‘Dorellino’ non cammina più tanto bene e sta sempre a casa. Ma mica è stato tutto rose e fiori! Per andare avanti ci vuole pazienza. E lavorare molto per riaprire porte che in un rapporto così lungo, inevitabilmente, a volte si chiudono”.
Come festeggerà domenica?
"Con mia figlia, la mia nipotina, alcuni amici e naturalmente mio marito. La torta l'ho già ordinata e anche la candelina. Una. Della mia età non faccio mistero, ma una sola invece di 68 mi mette più allegria” […]
Johnny Dorelli invece a febbraio, di anni, ne compie 87. E ormai da tempo con lui niente più viaggi, vacanze in barca... Non le manca tutto questo?
“Certo, pesa. Ma noi continuiamo a divertirci tanto insieme. Parliamo. Lo abbiamo sempre fatto. Ascoltiamo musica, vediamo la televisione insieme”.
A Dorelli piace questa tv?
“Diciamo che lui guarda più che altro lo sport. Tutto lo sport: boxe, ciclismo, tennis, calcio. Ed è rimasto l’interista sfegatato di sempre. Sta sul divano e tifa tutto il tempo”.
E lei, invece, cosa ama seguire?
“Le fiction, le serie tv. Trovo che ce ne siano alcune bellissime come Blanca. E finalmente, ne ho fatta una anche io. Si intitola Gigolò per caso, con Christian De Sica e Pietro Sermonti. Una coppia padre-figlio in cui il figlio prende il posto del padre che segretamente faceva il gigolò. Io faccio un cameo: un’attrice famosa negli anni Settanta-Ottanta, che per forza di cose è costretta a rimettersi in gioco… Si ride molto. Sarà su Amazon Prime dal 21 dicembre”.
Autobiografico?
“Beh, in effetti dal set mancavo anche io da tanto. E l’ho trovato così cambiato. Il regista non era mai lì fisicamente. Seguiva tutto da remoto, da un camper. Invece, quando ho cominciato io, specie nei film con Lino Banfi, era un porto di mare. Pure nelle scene, quelle famose col buco della chiave, non riuscivo mai ad essere un po’ sola. Una volta mi sono arrabbiata, le maestranze erano tutte lì: ‘Chi deve lavorare resti, gli altri tutti fuori’. Oh, non si è mosso nessuno!”
Non la imbarazzava?
“A rivederli oggi, e si vedono ancora tanto, erano film davvero innocenti. Io facevo pure tenerezza, ero timida. Ho fatto questo lavoro perché mio padre, che aveva un locale in Riviera romagnola l’estate ed era un barman che ha vinto un sacco di premi, mi spinse a fare l’artista. Ho cominciato da ragazzina per scherzo come cantante. Io si figuri, volevo fare la commessa”.
E invece è diventata un sex symbol. Dorelli era geloso?
“Ogni tanto mi chiedeva a proposito di qualche film: ‘Ma che quello lì, lo hai baciato veramente?’. Quanto a gelosia penso di averlo battuto. Lui era super corteggiato. È sempre stato un tipo charmant e che piaceva tantissimo alle donne. Posso capirle...”.
A proposito di donne, lei ha condotto per tre anni Le ragazze e quando la tolsero dalla conduzione si arrabbiò molto. La doccia come terapia in quel caso non le servì.
“Macché! Ci rimasi malissimo. Avevo persino scelto tutti i vestiti di scena. Mi diedero la notizia a dieci giorni dalla prima puntata. E dire che gli ascolti andavano bene. Ma l’allora direttore di Raitre decise che non c’era bisogno di qualcuno in studio. Poi, dopo un periodo di prova, presero Francesca Fialdini”.
[…]
Il suo di papà cosa le ha lasciato?
“Un grande vuoto. Era un uomo amabile, allegro, bravissimo nel suo lavoro. Ma mi ha lasciato anche un cocktail col mio nome, ‘Gloria’. Raccontava che gli ingredienti li aveva avuti in sogno. Non ci azzeccavano molto l’uno con l’altro… Ma lui non si scompose. E con Gloria si presentò ai campionati mondiali di barman. Risultato: vinse, arrivò al primo posto”.
Suo padre le ha dedicato un cocktail. E suo marito?
“Una canzone: Mi sono svegliato e c’eri tu. È degli anni Ottanta”.
Lei è stata ed è ancora una donna molto bella. Lino Banfi quando lo abbiamo intervistato ha raccontato che sua moglie Lucia diceva sempre che solo Edwige Fenech, tra le attrici dei suoi film, non era rifatta.
“Guardi, io il bisturi non l' ho mai usato. E mi dispiace che Lino Banfi, a cui voglio bene, parli solo di Edwige e non si ricordi mai di me. Detto questo: non mi sono mai rifatta. È questione di Dna. Se andate a Bologna e suonate alla porta di casa di mia madre, che ha 92 anni, capireste il perché. Vi aprirebbe una signora che di anni sembra ne abbia 20 di meno. Certo, curo la pelle: luce pulsata, radiofrequenza, creme adatte e skincare quotidiana”.
E sua figlia?
“Guendalina poi, non ne parliamo. Sembra ancora una ragazzina, nonostante sia mamma da 12 anni di Ginevra. L’amore di nonna”.
Ginevra ha mai visto i suoi film?
“Non credo proprio, e non perché si scandalizzerebbe. Ma perché è presa dalle sue cose, è quasi una signorinetta". […]
Adriana Marmiroli per “Specchio – La Stampa” il 26 febbraio 2023.
Era stella tra le maggiori di un'epoca ormai lontana del nostro cinema, Gloria Guida: la commedia erotica. Titoli che macinavano milioni di spettatori e di film, l'attore giusto ne poteva girare anche cinque o sei all'anno.
Lei in quel lasso di tempo ne aveva fatti una trentina: era la liceale per antonomasia, in alternativa la minorenne/ragazzina/studentessa del nostro cinema. Poi dal 1982, più nulla. Sparita. A ricordare che c'era stata un'attrice con quel nome, un po' di teatro, qualche partecipazione tv, fiction e intrattenimento del sabato sera, ma poche cose, quasi toccata e fuga, non abbastanza per tornare sulla cresta di quell'onda.
Però, complici le infinite repliche di quei film, il suo ricordo aveva superato le generazioni, icona congelata nell'eterna giovinezza di chi fa perdere le proprie tracce. Per questo motivo Natale 2022 è data memorabile: esattamente 40 anni dopo, Gloria Guida è tornata al cinema (anche se poi il film è stato dirottato sulle piattaforme dello streaming).
In Improvvisamente Natale, su Prime Video, è al fianco di Diego Abatantuono, Lodo Guenzi, Violante Placido, Nino Frassica, Antonio Catania, Michele Foresta: cast da cinepanettone ma narrazione da commedia quasi romantica. Guida ha un piccolo ruolo, ma che desta tanta simpatia e molta invidia: una bella donna solitaria che ancora ricorda con nostalgia una notte d'amore di vent' anni prima con un mascalzone felicemente sposato ora come allora.
Bionda, le labbra non avvilite da interventi al silicone, fisico esile e dinamico, anche il tempo reale, non solo quello della memoria cinematografica, pare essersi fermato per lei, 67 splendidi anni compiuti il 19 novembre. «Nessun intervento che non sia puramente salutista - così stoppa ogni sospetto di "aiutini" estetici -: sport, palestra, sana alimentazione, buone creme. Mi terrorizza già solo l'idea di un ago - che so per un botulino - non dico di un bisturi».
E poi quelle rughe sono il tributo dovuto al tempo. «È giusto che ci siano. E è di famiglia: mia madre Teresa ha 90 anni e ne dimostra 20 di meno; mia figlia ne ha 38 e pare una ventenne». Insomma, vita vissuta, ma vissuta bene. È orgogliosa di quella che ha fatta in questi 40 anni: si fidanzò con Johnny Dorelli (il matrimonio venne dopo un po', prima civile, poi bissato in chiesa), ebbero una figlia, poi, quando vide che dai soliti ruoli non si usciva e che il teatro pur fatto insieme al compagno non andava bene, per una bambina piccola, rinunciò. «Nessun rimpianto oggi per quella scelta.
Lo so, avrei potuto insistere dopo. Ma allora non c'era quasi alternativa al cinema. E le proposte che mi arrivavano non mi corrispondevano. Allora rimandi: tanto c'è tempo, ti dici. Ti prende la pigrizia. Poi, puf: 40 anni volano. Ancora non me ne rendo conto». Intanto però, ride, «sono andata a letto presto come De Niro in C'era una volta in America: sempre stata poco mondana e molto casalinga. Ho cresciuto passo passo mia figlia, Guendolina, che è davvero una bella persona e mi rende felice».
Quando poi è arrivata la nipotina Ginevra, «mi sono messa a fare la nonna a tempo pieno». Lasciare il lavoro, «è sacrificio davvero leggero se sull'altro piatto della bilancia metti loro». Anche l'unione con Dorelli, tanto più grande di lei, ha retto la distanza e il tempo: lui in giro a fare teatro per buona parte dell'anno, lei a casa.
«Ma c'era l'amore e il rispetto. E se qualche gelosia o sospetto si insinuavano, sapere a che serve? A nulla. Il rapporto ha superato i decenni e non è cambiato neppure oggi che Johnny ha 85 anni e sta a casa con qualche acciacco per l'età: ci divertiamo sempre, siamo affiatati, ci vogliamo bene». Più doloroso è invece scoprire che il mondo fuori un po' ti ha dimenticata. «Diventata grande Guendolina, ho provato a ripropormi, ma niente. Confesso che un po' di sconforto l'ho provato. Per fortuna c'è stata la tv: mi ha anche permesso di sfruttare quella che era la mia origine, di cantante. Ho fatto un po' di tutto: mi sono messa alla prova». Si è avvicinata per piccoli passi a oggi: ha partecipato anche a una sitcom, Before Pintus, nell'ironico ruolo di una milf in carriera. Con cautela ha sondato il terreno. E ora eccola di nuovo.
Guendalina Tavassi.
Estratto dell'articolo di Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica - Edizione Roma” il 21 Febbraio 2023
Doveva essere una gara di danza. E invece è finita a parolacce e borsettate. Tanto che polizia e carabinieri sono intervenuti e hanno interrotto la zuffa tra due mamme e papà. E pure la competizione. […]
Domenica pomeriggio, Guidonia. In programma al Cadillac Village, la Msp Dance Cup, una gara di ballo per bambini e adolescenti. Hip hop, acrobatico, danza moderna. Un evento gettonatissimo dalle scuole di tutta la capitale [..] Tra gli iscritti ci sono anche accademie di blasonati coreografi, gente che lavora nel mondo dello spettacolo. […]
Ma basta l’arrivo nel parcheggio per capire che non sarà divertente come ci si aspettava. Ci sono centinaia di macchine, impossibile trovare posto. Anche per sedersi: dentro c’è una calca incredibile di gente. Non ci sono sedie per tutti, genitori nonni e zii, che pure hanno dovuto acquistare un biglietto extra per entrare (l’iscrizione dei piccoli alla competizione costava 25 euro), sono costretti a stare in piedi, stipati l’uno contro l’altro. Iniziano le prime lamentele e così gli organizzatori decidono che entrano solo i parenti e amici delle squadre in gara in quel momento. […] E il malcontento sale ancora. […]
[…] A un certo punto, in attesa della gara di hip hop delle bambine più piccole, una mamma e un papà decidono di sedersi, finalmente, dopo ore di attesa in piedi. E per farlo spostano alcuni indumenti abbandonati su una sedia. Pochi istanti dopo torna la coppia proprietaria dei vestiti. Accusano gli altri due di aver rubato il posto, i toni sono accesi e aggressivi. Ne nasce una discussione che, complice la tensione, si accende subito. Le due mamme si accapigliano, i papà si insultano. Gli altri genitori assistono alla scena, increduli.
Qualcuno chiama i carabinieri, altri la polizia. Alcune bambine si spaventano, altri genitori riescono a separare le due coppie. Ma quando arrivano le forze dell’ordine, la situazione è ancora tesa. […] Dopo qualche contrattazione, si decide di far ballare solo i bambini più grandi, per tutti gli altri la gara è finita.
Intanto le due mamme e i due papà vengono sentiti dai carabinieri e allontanati dal luogo della competizione. Sembrano essersi calmati, dovranno decidere cosa fare: hanno 3 mesi di tempo per sporgere querela. Ma l’incubo, «l’apocalisse» come l’hanno definita alcuni genitori sulle chat Whatsapp, non è finita. Fuori, nel parcheggio, qualcuno dei presenti ha dovuto chiamare il carroattrezzi perché ci sono auto che bloccano la via d’uscita. […]
Estratto dell'articolo di Valentina Lupia per “la Repubblica – Roma” il 22 Febbraio 2023
La rissa di domenica tra mamme al Cadillac Village di Guidonia diventa un gigantesco tutti contro tutti. Forze dell’ordine, accuse incrociate, minacce di querela. Tutto per la gara di danza delle figlie. Altro che competizione, sana e sportiva. La sfida tra ragazzine è finita a parolacce e borsettate. Un disastro in cui gli adulti danno il cattivo esempio e in cui c’è chi ora punta il dito contro Guendalina Tavassi, ex concorrente del Grande Fratello.
[…] Cosa c’entra la ex gieffina? Un genitore ha contattato Repubblica spiegando che Guendalina Tavassi, in tv pure per L’isola dei famosi, avrebbe fatto scattare la rissa. « È stata lei, io ero in fila per entrare. L’ho vista, si è picchiata con un’altra mamma per dei posti a sedere», sono le parole dell’uomo, papà di una delle piccole partecipanti in gara che chiede di rimanere anonimo.
Tirata in ballo e contatta da questo giornale, Tavassi risponde alle accuse: « Ma stiamo scherzando? Sono andata al saggio di mia figlia e ho assistito a scene del terzo mondo. Tutti hanno visto una povera ragazza indiana che veniva menata da un’altra donna. Una terza persona che mi accusa? Ma chi se ne frega, c’erano tante altre persone che come me si trovavano lì».
La difesa (con replica) continua: «La polizia ha preso la signora, io ho anche fatto delle stories (su Instagram, ndr). Ero con altre madri e vicino a noi si è verificata questa scena, fine. Ci siamo ritrovate nel terrore» . Poi la minaccia: « Se la gente vuole dire cazzate perché sono conosciuta, denuncerò. Sono indignata e schifata». […]
La rissa al Cadillac Village di Guidonia, esistita solo per una certa stampa. Panorama il 22 Febbraio 2023
Un banale diverbio ad una gara di danza per i giornali si trasforma in una rissa: eppure manca persino il verbale dei Carabinieri, che erano presenti. Manca quindi la notizia.
Esagerare, ingigantire, spettacolarizzare. Troppo spesso giornali, siti e tv, alla caccia disperata di visibilità, clic e telespettatori trasformano, manipolano, persino inventano cose che non sono successe. Ultimo esempio di questo nuovo modo di fare informazione arriva dalla famosa (visto il clamore anche sui social) «Rissa al Cadillac Village di Guidonia». Pardon, presunta rissa, dato che di evidenze dell'accaduto e del raccontato non ce ne sono. Ma andiamo con ordine. Domenica 20 febbraio è una di quelle giornate cariche di attesa per genitori e figli: l’esibizione in una storica palestra - come il Cadillac Village, affittato per l’occasione alla società Msp - alimenta sogni e aspettative. Come dimostra il numero delle presenze registrato per l’occasione: circa 600-700 i biglietti venduti.
La gare di danza, dalla caraibica a quella del ventre passando per la moderna, a cui hanno partecipato bambini di cinque anni fino ad adulti di 30-35, inizia in mattinata e fino alla prime ore del pomeriggio tutto fila liscio. Poi, intorno alle 18, qualcosa cambia. Federica, socia del Cadillac Village, alla Verità racconta: «Ho notato che c’era un flusso di persone notevole. Molto maggiore rispetto a quello che ci aveva preventivato la società alla quale abbiamo affittato il nostro centro sportivo da 1000 metri quadri. Inoltre alcune gare erano in ritardo rispetto all’orario stabilito». E ancora: «Si è creato così un effetto imbuto in entrambi i piani della palestra, e inevitabilmente anche il parcheggio si è bloccato. Chi sarebbe voluto entrare e sedersi per vedere la competizione», aggiunge Federica, «non poteva farlo perché impedito da coloro che volevano uscire». Poi passa al contrattacco: «In palestra, e tanti lo possono testimoniare, non c’è stato nessun alterco tra mamme. Al massimo», spiega Federica, «un semplice diverbio per un posto per assistere alla rappresentazione dei rispettivi figli». L’edizione odierna di Repubblica sostiene che a scatenare la «rissa» sarebbe stata l’ex gieffina Guendalina Tavassi, ma a questo giornale risulta soltanto che fosse tra i presenti. Una situazione confusa che spinge qualcuno tra i presenti a chiamare polizia e carabinieri che intervengono sul posto. In un primo momento gli agenti cercano di far terminare la gara, ma la prosecuzione non è più possibile anche a causa del notevole ritardo accumulato rispetto alla programmazione stabilita. L’ultima di fatto viene sospesa intorno alle 20. Questi i fatti. Dal giorno dopo ecco i primi titoloni, uno su tutti: «Rissa tra mamme alla gara di hip hop dei figli: mancano i posti in sala, arrivano i Carabinieri». Un titolo di super effetto, «Rissa tra mamme...» che però in realtà si rivela un clamoroso autogol. Se rissa da Far West è stata i carabinieri, presenti, avrebbero stilato quantomeno un verbale, se non fatto partire segnalazioni, denunce, identificazioni dei presenti. Bene: non c'è nulla. nessun verbale, nessun riscontro, nulla. E non perché le Forze dell'ordine non abbiano fatto il loro dovere, semplicemente perché non c'è stata alcuna rissa tra mamme,. ma forse solo semplici scaramucce. Che però non fanno vendere copie, conquistano clic e telespettatori
Guillermo Mariotto.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” - Estratti giovedì 16 novembre 2023
«Sì, stare chiusi in un bagno e non sapere a chi potersi rivolgere, non ai genitori, non a un fratello, non a un amico, è una tortura, un incubo. A me andò bene, reagii, picchiai i bulli che mi dicevano che ero gay. Ero forte, battagliero. Ma non tutti hanno questo carattere, c’è chi si chiude in se stesso, penso a quel povero ragazzino che si è tolto la vita a Palermo. Penso ai suoi genitori, al loro dolore».
Abituati a vedere Guillermo Mariotto — 57 anni, stilista apprezzatissimo dai sarti più grandi, italiano proveniente dal Venezuela — sempre allegro tra i giurati di Ballando sotto le stelle, fa un certo effetto ascoltarlo, quasi in lacrime, mentre racconta di come a Caracas affrontò, su un campo da calcio, a scuola, il capo dei bulli.
Cosa successe, Guillermo?
«Ero sui 13 anni e quel giorno giocavo in difesa. Come sempre ero bersagliato da insulti irriferibili. All’ennesimo, esplosi. Raggiunsi a centrocampo il boss del gruppo con cui avevo già questionato, un malandrino, tale Muniz, e gli montai sulle spalle, strappandogli i capelli dalla testa. Fu spettacolare, una scena davanti a genitori e professori».
E poi?
«Banalmente, divenni un intoccabile. Avevo vinto la mia guerra, quando Muniz mi vedeva cambiava strada».
Perché a scuola la vessavano?
«Si capiva che ero gay, vestivo in un certo modo, forse più elegante degli altri. I bulli sbroccavano perché ero forte nello sport, ciò li mandava letteralmente in bestia: figurarsi, un omosessuale...».
Quali erano gli sport che praticava?
«Il volley in primis. Con me, la squadra scolastica arrivò al titolo nazionale. Ma primeggiavo nella ginnastica a corpo libero. Eravamo a metà degli anni Settanta e mi sbeffeggiavano dicendomi che parevo Nadia Comaneci, l’olimpionica rumena».
La picchiavano?
«Regolarmente, mi aspettavano sotto casa. Se sono andato bene nell’atletica, con buoni tempi nei 100 metri, è perché ho imparato presto a scattare e scappare».
(…) «Mio fratello arrivò a dirmi che ero la macchia del nostro cognome, papà e mamma... mah, siamo lì».
(…) Lei oggi è testimonial del Moige, tiene conferenze sul bullismo a scuola...
«E dico sempre ai ragazzi; se vedete un bullo in azione, segnalatelo. Non lasciate da sola la vittima: sennò siete complici anche voi».
Guns N' Roses.
Al Circo Massimo. Chi sono i Guns n’ Roses: a Roma il concerto della band rock. Qualche chilo in più e una voce in calando. Axl e soci sono stati criticati per la semplice ragione che tutti, anche i miti invecchiano. Ma parliamo di un gruppo che è nella storia del rock. E da lì nessuno li schioda. Graziella Balestrieri su L'Unità l' 8 Luglio 2023
Le critiche nel mondo della musica colpiscono un po’ a casaccio, magari tutto dipende da come ci si alza al mattino. Ci sono cantanti che non hanno più voce ma si continua a dire che sono miti viventi e a loro si perdona tutto e ci può anche stare. Poi ci sono i cantanti che iniziano a perdere qualche simpatia inaspettatamente: persino di Bruce Springsteen si è letto in giro di gente e giornalisti che criticavano le sue scarpe… Ci sono quelli odiati e criticati da sempre anche quando non avevano i capelli tinti (tipo Bono degli U2).
Ci sono cantanti che vengono criticati a priori e derisi, come è successo al cantante dei Cure, Robert Smith, reo di aver messo su qualche chilo (che poi non si ingrassa solo per il troppo cibo, almeno questo dovrebbe essere qualcosa di elementare da sapere) ma che nonostante i chili in più, permetteteci questa raffinatezza linguistica, anche dal vivo, in Italia, ha fatto il culo a tutti, sia per voce che per performance. Dunque, capita che ancora prima che qualcuno salga sul palco venga criticato perché gli anni che passano non vanno bene a chi lo recensisce o a chi lo va ad ascoltare e che stranamente si aspetta di vedere in lui un miracolo: una specie di testimonial vivente del siero della gioventù riflesso che perdona l’età che passa a tutto e a tutti tranne che a chi ha fatto del rock uno stile di vita.
E qui arriviamo a oggi, sabato 8 Luglio al Circo Massimo di Roma, dove arriva una delle rock band più chiacchierate, famose, belle, talentuosissime, estreme, fatta di sigarette in bocca perennemente, di alcool, droghe, eccessi, che ha lanciato mode, che è diventata una moda. Insomma, una di quelle band che nel rock da quel lontano 1985 ha lasciato il segno, cha ha segnato una generazione e più, e che non può e non deve essere raccontata solo attraverso qualche polemica post Festival di Glastonbury o sulla forma fisica del cantante. Per chi non lo avesse capito stiamo parlando dei Guns N’ Roses. Axl Rose non ha più venti anni, sapete il tempo passa per tutti e indubbiamente non è più quel ragazzo con i capelli biondi liscissimi che teneva insieme con la sua famosa bandana, che faceva strappare i capelli alle ragazze urlanti quasi come era successo per i Beatles, che oscillava a destra e manca ballando come fosse indiavolato.
Non è più il ragazzo scavato in volto, di gambe magre attraversate da un pantaloncino strettissimo. Bisogna anche farsene una ragione, ovvero che tutti invecchiano, anche i giornalisti che scrivono adirati e compiaciuti contro i Guns N’ Roses, che un po’ è come se non vedessero l’ora di deridere la band californiana. Sicuramente la voce di Axl non è più quella di un tempo, anche perché mantenere quel timbro di voce alla sua età ora, dopo una vita di eccessi, sarebbe un po’ ridicolo da richiedere, non trovate? Axel oggi ha 61 anni, i capelli corti, una pancetta degna e per ovvi eccessi del passato non ha l’agilità di prima.
Non avrà curato sicuramente la voce come può averla curata Al Bano (con tutto il rispetto per Al Bano a cui siamo devoti sempre) ma stiamo parlando di rock, parliamo della band che forse meglio di tutti ha incarnato il mito dei belli e dannati nel mondo della musica. Ma i Guns N’ Roses, non sono stati una meteora, anzi hanno lasciato la loro impronta, hanno una storia che – come viene concesso ad altri – rende abbastanza plausibile che il frontman non abbia più la voce di prima e abbia anche qualche chilo in più. E poi insieme ad Axl c’è uno dei migliori chitarristi in assoluto nel panorama musicale internazionale, una figura quasi mitologica di chitarrista, mezzo uomo e mezzo chitarra, e che ha avuto e ha nella band la stessa importanza del cantante: stiamo parlando di Saul Hudson, per tutti Slash.
Chitarrista di cui a malapena si conoscono gli occhi in realtà, nascosto da sempre dai suoi Ray-Ban scuri, chioma folta, riccia e nera che si serve dell’aiuto di un cappello enorme che gli casca sopra, e che sembra quasi renderlo lontano dalla vista degli altri ma invece, a quanto pare, lui ci vede benissimo e vede benissimo soprattutto la sua amatissima chitarra che suona in maniera del tutto singolare; ciondolante e con le gambe quasi sempre aperte. Quella sigaretta mai spenta e sempre tutta di sbieco.
Ma come dicevamo prima, alla base di tutto questo i Guns N’ Roses hanno una storia musicale che ha segnato a sua volta la storia della musica e ha gettato le basi per quelle che poi sarebbero state band con influenze rock, metal, pop e blues anche, perché la band californiana è stata ed è tutto questo. E allora partiamo dalla storia e lasciamo da parte critiche buttate così nel mucchio solo da chi pensa di capire di musica perché è riuscito a decifrare qualcosa dall’Auto- Tune.
I Guns N’ Roses nascono nel 1985 ma il loro debutto discografico avviene nel 1987 con l’album Appetite for Destruction, debutto spiazzante, potente: solo l’intro di chitarra di Slash e l’urlo infinito di Axl valgono tutto l’album e l’entrata senza scorciatoie nel mondo della musica da vere star. Mentre i cambi di ritmo, la frenesia di chitarre e batteria e il basso ossessivo fanno di Paradise City un altro brano che entra di diritto nella storia. E poi Sweet Child Of mine: l’assolo iniziale di Slash è il paradiso perduto per tutti quelli che sognavano da bambini di diventare chitarristi nelle loro camerette e che a fine degli anni Ottanta, inizio Novanta, cercavano in quegli assoli una forma di libertà, qualcosa che andasse oltre la musica elettronica imperante, insomma Sweet Child of mine segna l’inizio di quegli anni che difficilmente dimenticheremo più, la colonna sonora degli ultimi anni prima dell’avvento di internet.
E con l’adolescenza di molti, i Guns continuano a crescere e a diventare la band rock/metal più famosa del mondo. Inarrestabili, come le loro scorribande, droghe, alcool, vita spericolata, litigi, batterista sull’orlo già di una tossicodipendenza che poi lo vedrà essere allontanato dallo stesso Axl. Ma i Guns non si fermano, alla gente piacciono anche le loro scazzottate, alla gente piace la loro vita sregolata, purché continuino a regalare perle musicali e a non deludere le aspettative. Ed è così che i Guns continuano la loro marcia trionfante con un secondo album già l’anno dopo, siamo nel 1988 con l’uscita di G N’ R Lies: Axl e soci fanno capire che il primo album non è solo stato un momento, che non saranno una meteora e il solo brano I used to love her potrebbe coprire da solo oggi interi album di band di cui tra qualche anno non sapremo nemmeno riconoscere un riff e di cui sicuramente non potremo “apprezzare” qualche chilo in più.
Qualche anno di pausa dal successo mondiale e per far finta di disintossicarsi dagli eccessi, e arriviamo al 1991, anni che in molti considerano come anno di svolta nel sound dei Guns ma che in realtà è l’album della maturità e di una band talmente talentuosa che sarà difficile da emulare. È l’album Use Your Illusion I che avrà in pezzi come Don’t you cry la bellezza della voce di Axl, graffiante, meno urlata, a tratti dolcissima come marchio principale di una band di ragazzi che incarnavano il sogno del rock, certo autodistruttivi ma talmente pieni di talento che era davvero difficile non amarli e seguirli ovunque.
Un album fatto di bellezza a partire dalla copertina che rappresentava un personaggio tratto dal quadro La scuola di Atene di Raffaello Sanzio. E poi November Rain: c’è qualcuno nel mondo che non conosce November Rain? C’è qualcuno davvero che non riconosce il piano iniziale suonato da Axl e la chitarra che suona dolore di Slash? C’è qualcuno che non ha mai visto il video (uno dei video più costosi della storia della musica) tristissimo certo, ma di una bellezza da strapparsi la pelle di dosso? Beh, se non conoscete November Rain e Slash che sale sul piano per completare il suo assolo… tutto il resto è noia come direbbe il Califfo. E poi subito dopo l’album Use Your Illusion II che con il brano You could be mine arriva direttamente al cinema per essere indossato dal divo hollywoodiano del momento, Arnold Schwarzenegger, in Terminator 2, il giorno del giudizio.
Seguirà The Spaghetti Incident? album di cover che per la critica musicale segna così il declino della band, che nella realtà era presa più che altro a sistemare i continui dissidi tra Slash e Axel. Dopo una lunga pausa nel 2008 e dopo lunghissimi rinvii sull’uscita, arriva Chinese Democracy, ma non sono più i Guns, il suono è diverso e Axl sembra preso da tutto il resto fuorché dalla musica. Slash ha lasciato il gruppo e si sente. Solo nel 2016 dopo anni di litigi e divisioni e ognuno con progetti diversi, la band annuncia su Twitter che si riunirà di nuovo. Ripartono in tour e dai primi live la stampa si accanisce contro la forma fisica di Axl, giudicandolo appesantito, fuori forma e che non è in grado più di controllare la voce perché non ce l’ha più.
Poco rispetto per un artista che a 61 anni, ancora dimostra di saper e voler stare su quel palco, poco rispetto per la band e per la musica, perché dal vivo i Guns musicalmente non sono secondi a nessuno e diciamocelo francamente: la chitarra di Slash è ancora da olimpo degli dei. Una cosa è certa: nemmeno a loro Zeus ha concesso il siero dell’eterna giovinezza ed è forse questo che molti non riescono ad accettare ovvero che i musicisti, i cantanti per quanto ci possiate credere o meno sono mortali e invecchiano come tutti noi, con una sola differenza magari : anche invecchiando il loro talento rimane eterno.
Graziella Balestrieri 8 Luglio 2023
Barbara Costa per Dagospia il 25 marzo 2023.
“Modelle? Playmate? Meglio sc*parsi le attrici porno: parlano di meno!”. A dirlo è Slash, chitarrista feroce, chitarrista disumano, chitarrista dei "Guns N' Roses. Gli Ultimi Giganti del Rock", e a sp*ttanarlo è Mick Wall, l’autore d’una biografia dei Guns molto molto particolare: Mick Wall ha conosciuto veramente i Guns, e quando erano in vertiginoso seducente apice. Li ha frequentati, e usciva a pranzo e a cena con loro, invitato da loro, fino a che Axl si è arrabbiato, si è offeso, e l’ha insultato in un brano dei Guns. Guai a far girare le p*lle a Axl, lui è un tipo strano, c’ha crisi emotive strane, e Axl l’ha detto: “Avevo 2 anni quando mio padre mi ha sc*pato nel c*lo, e da allora ho avuto qualche problema”.
Problemi con la vita, con le donne, e Axl, mica ce li ha solo lui. Il problema principe dei Guns “band violenta per tempi violenti” si riassume in: “Faccio il gentiluomo, o glielo ficco duro da dietro?”. Le donne, quando sei un idolo, e hai fama e soldi, sai che fanno? Al ristorante, mentre tu mangi, “si chinano sotto il tavolo e te lo succhiano”, e mica serve chiederglielo, e se al tavolo vi sono altri commensali, dove sta il problema? Il problema sta con le groupie pazze, quelle “potenzialmente pericolose”, e ci sono certe che per calmarle bisogna “spaccargli bottiglie in testa”, e le bottiglie sono onnipresenti nell’epopea Guns.
Non solo quelle di Jack Daniel’s scolate da Slash, che per un po’ le tradisce con la vodka (“caz*o, il Jack Daniel’s macchia i denti!”) ma ci sono le bottiglie di urina che ai concerti ti tirano sul palco, e una “ha colpito in pieno viso Duff”, bassista dei Guns, “e Duff è svenuto!”. E lo sai che succede se per anni bevi 10 bottiglie di vino al giorno? Te lo dice Duff, se le è bevute lui: “Ti vengono le piaghe, sanguini dal naso, e una mattina ti svegli e non riesci ad alzarti, ma proprio non riesci a muoverti. Dolori lancinanti... Gesù, m’era scoppiato il pancreas!”.
L’hanno salvato, all’ospedale, come per 5 volte hanno riacciuffato Slash in overdose da eroina, e una volta gli hanno fatto “come in Pulp Fiction, siringa di Narcan nel cuore”, solo che a lui era vera, e non gliel’ha fatta John Travolta, ma il full manager dei Guns. “Sono il peggior caz*one che io abbia mai incontrato!”, dice di sé stesso Slash, ora che è pulito, ma senti che gli è successo quando il manager dei Guns lo ha chiuso in casa, per fargli passare la voglia che gli batteva in vena.
Arriva l’astinenza, “e strisci sul pavimento, caghi, pisci, gridi, e spasmi, e il vomito dalla bocca è tutt’uno con ciò che caghi”. Sentirsi morti, ma respirare ancora. Credersi immortali, e annaspare. I Guns “non è che non riuscivi a arrestarli, è che non riuscivi a fermarli”: pianoforti gettati dal 24esimo piano, e ritirati su con una gru, cibo – italiano – gettato dai balconi ai fan, e giorni e notti senza dormire strafatti di coca.
E eroina in palloncini celata in pacchetti di Marlboro, e ragazze peggio delle droghe, cattive, laide (“slip intorno alle ginocchia/con il tuo c*lo a pezzi”) che si denudano ovunque, per chiunque, nei tour, tappe devastanti e malate, “dove c’erano più spogliarelliste che addetti ai lavori!”. E spacciatori con special pass.
E allora ti perdi, ti perdi, ti perdi… in ambizione e ostentazioni esplicitamente presenti in ogni eccesso. Limousine h24, pure per andare dal backstage al palco, e 100mila dollari per feste post concerto “depravate, ogni sera, per 2 anni e mezzo”. È così che i Guns si ritrovano al verde: l’80 per cento degli introiti persi per party e bagordi e penali salatissime a causa dei concerti saltati ogni volta che… “dove diavolo sta Axl?!?!?!?”.
Axl non si presenta sul palco se non ha mangiato e bene digerito la sua bistecca con vitamine potenziate; se s’aggirano concentrazioni magnetiche di energia negativa; se non ha raggiunto tot stadi di consapevolezza interiore; se è stato colpito con un accendino nelle p*lle, e gli è andata via la voce. E una volta si è sbagliato, e invece di Oslo ha preso l’aereo per Parigi… Si può andare a pezzi, morire, o quello che è.
I Guns, sono stati in litigio per 20 anni. Da un po’ si sono riformati “per un sacco di soldi, 3 milioni di dollari a concerto”. Cifra base. Dettano ancora la loro legge dal loro attempato trono. La vita non vi deve il lieto fine che desiderate, a meno che non siate Duff: lui si è laureato in economia, nei primi Duemila ha investito in Google, e “oggi ha più soldi di Dio”.
Gwyneth Paltrow.
Estratto dell’articolo di Elena Fausta Gadecchi per elle.com il 2 luglio 2023.
Nella moltitudine di gente che lunedì sera è accorsa a San Siro per ascoltare i Coldplay – i biglietti per il tour della band sono tutti esauriti da mesi –, c'era anche lei, Gwyneth Paltrow, che si è mischiata tra la folla per assistere all'esibizione dell'ex marito. […] Nonostante i migliaia di spettatori presenti, c'è chi l'ha riconosciuta tra il pubblico mentre cantava Fix You, […] una canzone […] che l'allora marito scrisse nel 2005 in un momento particolarmente difficile per l'attrice.
[…] Quando i due si conobbero era il 2002, Gwyneth Paltrow aveva vinto tre anni prima il premio Oscar per la sua interpretazione in Shakespeare in Love, Chris Martin era già sulla breccia dell'onda grazie alla pubblicazione dell'album Parachutes. Lei decide di festeggiare i suoi 30 anni con un tour dell'Italia insieme al padre Bruce, che purtroppo contrae una polmonite in Toscana e muore all'Ospedale Forlanini di Roma a ottobre, lasciando un grande vuoto nel cuore di Gwyneth.
Il suo incontro con il frontman avviene qualche tempo dopo a Wembley, dopo l'esibizione dei Coldplay. Venuto a sapere della presenza dell'attrice tra la folla, il cantante le dedica In my place. Una volta terminato il concerto, chiede a Gwyneth di raggiungerla in camerino per potrela conoscere di persona e tra i due è amore a prima vista al punto che nel dicembre 2003 convolano a nozze.
[…] Imbattutosi per caso in alcuni oggetti del suocero, Chris Martin trova una tastiera rimasta abbandonata da chissà quanto tempo. Suona qualche nota e si accorge che è proprio quella la sonorità che mancava per completare la canzone. Iniziano subito le registrazioni e il brano verrà pubblicato nel 2005 nell'album X&Y, ottenendo un'enorme fortuna. Sebbene il matrimonio tra Chris e Gwyneth sia terminato nel 2014 con la separazione, dopo la nascita della figlia Apple e del figlio Moses, i due sono rimasti in buoni rapporti […]
Estratto dell’articolo di Matteo Persivale per corriere.it l’1 aprile 2023.
L’America aveva ancora davanti agli occhi le brutture — umane e materiali, tra insulti e foto taroccate e feci lasciate per vendetta nel talamo nuziale — del processo dell’anno 2022, Johnny Depp contro l’ex moglie Amber Heard che l’aveva accusato di averla picchiata più volte.
Il processo hollywoodiano del 2023, fortunatamente, non è stato un dramma familiare ma una commedia: Gwyneth Paltrow, cinquantenne attrice da Oscar e imprenditrice della moda (il suo marchio Goop, partito nel 2008 nell’ilarità generale, fattura ora un quarto di miliardo di dollari), era stata citata in giudizio per danni da un optometrista in pensione di 76 anni, Terry Sanderson, che l’accusava di averlo investito sugli sci durante una vacanza nello Utah sette anni fa. […]
Paltrow sosteneva di essere stata lei l’investita, un dato che nel sistema americano purtroppo conta poco: generalmente, personaggi famosi appartenenti alla sua fascia di reddito tendono a trovare accordi extra giudiziali per una frazione della cifra richiesta (l’optometrista chiedeva 300 mila dollari) perché le parcelle degli avvocati sono talmente alte, e la pubblicità di un processo è comunque negativa (così almeno dicono le vecchie regole del sistema della comunicazione novecentesca, pre social media).
I colpi di genio comunicativi di Paltrow — che rischiava di passare davanti a una giuria di provincia come la ricchissima diva di Hollywood che travolge un anziano sciatore e poi rifiuta di pagargli i danni — sono stati tre, innegabili.
Ha rifiutato, con durezza, di far testimoniare in aula davanti alle telecamere i figli (allora minori) che erano in vacanza con lei, ottenendo dal giudice una testimonianza scritta, firmata sotto giuramento. Dopo la vittoria è uscita dall’aula con la massima tranquillità, senza esultare, ma anzi ha rivolto all’accusatore un commiato — I wish you well, «le faccio i miei migliori auguri» — al quale lui non ha potuto non rispondere «grazie, cara», momento diventato subito un «meme» sui social media.
Ma soprattutto Paltrow ha trasformato il processo in una sfilata di moda indossando capi di squisita fattura e materiali pregiatissimi ma sempre in colori spenti, il grigio e il beige e il blu, sempre senza logo esteriore (Loro Piana, Prada, Celine, The Row e la sua G Label di Goop). Uno stile milanesissimo (città che Paltrow, frequente visitatrice dell’Italia, conosce bene) allergico alle pacchianate, battezzato dagli americani «stealth wealth», «ricchezza invisibile».
Il processo Paltrow. Meglio di un film. Terry Marocco su Panorama il 5 Aprile 2023
L’attrice Gwyneth Paltrow, 50 anni, è stata citata in giudizio per aver travolto un anziano sugli sci. Tutta l’America ha seguito la vicenda in tv. Lei è stata assolta, ma i social non la sopportano più.
Per la sua interpretazione alla sbarra Gwyneth Paltrow dovrebbe essere già candidata all’Oscar. Migliore attrice protagonista, con un anno d’anticipo. Ecco i fatti: nel 2016 la bionda star trascorreva con i figli una costosissima vacanza sulla neve dello Utah. Mentre sciava pare che abbia travolto un ottico in pensione. O almeno questa è la versione di Terry Sanderson, capello brizzolato e cravatte da mandato di cattura estetico. Nello scontro gli avrebbe rotto quattro costole, non si sarebbe neanche informata di come stesse, lasciandolo confuso e soprattutto moralmente distrutto. «Da quel momento non sono stato più lo stesso» ha dichiarato, decidendo dopo tre anni di citarla in giudizio per 300 mila dollari. Bruscolini per l’imprenditrice e guru del benessere. Ma lei, che è rimasta la geniale Margot de I Tenenbaum, ha voluto stare al gioco e lo ha sfidato per un dollaro. Umiliazione massima. E così lo «ski-trial» è diventato uno show social. La parola è passata alla giuria del web, che come una valanga ha ricoperto tutti di fanghiglia: «Ormai vivo solo per guardare le deposizioni di Gwyneth», «È senza dubbio il processo più trash della Storia», «Sembra una serie di Mike White» (creatore del superbo drammone White Lotus), «Voglio sapere quanto dura ancora, così regolo la mia vita sul fuso orario del Nevada», «Lo sta facendo solo perché è una donna annoiata», «Sono privilegiati che vivono in una bolla, mentre l’America sta bruciando». Guardando le deposizioni di come sia avvenuto l’incidente (sono caduti avvinghiati e quasi si baciavano) ci chiediamo come riescano a mantenere una serietà degna di Law&Order. Se pensavamo di aver soddisfatto tutte le nostre aspettative con Johnny Depp e Amber Heard, ora siamo stati travolti dall’immensa stupidità di tutto ciò.
Più che un incidente, Paltrow lo definisce un «assalto sessuale», perché sembra che lui le sia piombato da dietro: «Ho sentito strani grugniti». Non paga rimarca che a causa sua ha perso ben «mezza giornata di sci». Le siamo vicini in questo dolore immenso. «Sembrano all’Asilo Mariuccia», «Non so chi vincerà, ma certo lei è insopportabile», «È piena di sé». Sarà anche piena di sé, ma gli outfit sono impareggiabili: maglione a collo alto bianco e cappotto lungo di velluto verde brughiera, gli stivaletti da ragazzina punk e i fantastici occhiali hipster alla Luigi Bisignani, da copiare subito. La donna che ha avuto il maledetto coraggio di chiamare la figlia «Apple» sapeva benissimo che facilmente avrebbe potuto mandargli una busta con il dovuto, accompagnata da una delle sue fantastiche candele profumate alla vagina. Ma vuoi mettere assistere alla scena del «travolto» che piagnucola e dice di aver dovuto lasciare la fidanzata perché dopo l’incidente non si sentiva più normale. E ora spiattella, in mondovisione, che la suddetta ha una fantastica storia con un tale «Bill». Gwyneth, non ti fermare, tutto questo non ha prezzo.
Henry Winkler.
Henry Winkler racconta la sua dislessia. «Anche quando ero all’apice della fama con “Happy Days” mi sentivo inadeguato». Storia di Simona Marchetti su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.
L’infanzia difficile, la lotta contro una grave forma di dislessia e le pressioni subite a causa di Fonzie, alias Arthur Fonzarelli, il personaggio di «Happy Days» che gli ha dato la celebrità. Sono questi i contenuti salienti di «Being Henry. The Fonz…and beyond», il primo libro di memorie scritto da Henry Winkler e pubblicato il giorno dopo il suo 78° compleanno, che ha festeggiato il 30 ottobre. «Mio figlio più piccolo, Max, mi ha ripetuto per anni che avrei dovuto scrivere un’autobiografia. Ed eccola qui», aveva rivelato l’attore in un post di marzo su Instagram, annunciando l’uscita del libro dove, fra le altre cose, parla appunto della sua dislessia e dei problemi che gli ha creato non solo da ragazzo, ma anche mentre interpretava Fonzie.
«Ho scoperto di essere gravemente dislessico solo all'età di trentuno anni - si legge infatti in un lungo estratto delle sue memorie sul People - . Per tutti gli anni precedenti, ero il ragazzo che non sapeva leggere, non sapeva scrivere, non sapeva nemmeno iniziare a fare algebra o geometria e nemmeno l'aritmetica di base. Anche nel bel mezzo di “Happy Days”, all’apice della mia fama e del mio successo, mi sentivo imbarazzato, inadeguato. Ogni lunedì, alle dieci, facevamo una lettura a tavolino della sceneggiatura di quella settimana, e a ogni lettura perdevo il punto o mi bloccavo. Lasciavo fuori una parola, una riga. Non riuscivo mai a dare l’attacco giusto, il che avrebbe poi rovinato la battuta per la persona che faceva la scena con me. Oppure fissavo una parola, come ‘invincibile’, e non avevo idea di come pronunciarla o addirittura di come suonasse». Per Winkler quel momento con il resto del cast di «Happy Days» era sempre una prova insormontabile.
«Io e il mio cervello eravamo su due binari differenti - continua il suo racconto - . Nel frattempo gli altri attori aspettavano fissandomi: era umiliante e vergognoso. Tutti nel cast erano affettuosi e solidali, ma sentivo costantemente che li stavo deludendo. Chiedevo di avere prima le sceneggiature, in modo da poterle leggere più e più volte, il che ha messo ulteriore pressione sugli scrittori, che erano già sotto pressione ogni settimana, dovendo preparare ventiquattro sceneggiature in rapida successione. Tutto questo all'apice della mia fama e del mio successo, mentre interpretavo il ragazzo più figo del mondo».
Anni dopo al figliastro Jed - nato dal primo matrimonio della moglie Stacey Weitzman - è stato diagnosticato lo stesso disturbo e Winkler ha così scoperto che il suo problema aveva finalmente un nome. «Ero così dannatamente arrabbiato. Tutta l’infelicità che avevo attraversato era stata inutile. Tutte le urla, tutte le umiliazioni, tutte le discussioni in casa mia mentre crescevo - tutto per niente... Era genetico! Non era il modo in cui avevo deciso di essere! E poi sono passato dal provare questa rabbia enorme a combatterla».
Harry Styles.
Estratto dell'articolo di Marco Bruna per corriere.it venerdì 4 agosto 2023.
[…] Il maestro David Hockney, 86 anni compiuti il 9 luglio, ha ritratto la popstar Harry Styles. Forse ignorando chi si trovava davanti, lo ha trattato come un soggetto qualunque.
«Non ero veramente consapevole del livello di celebrità del mio soggetto», ha detto Hockney con un’alzata di spalle, con l’ingenuità tipica di un maestro che vive ormai lontano dal mondo, con la grandezza di uno che ha raccolto il mondo nel suo atelier. «Per me Harry era un altro visitatore che passava dal mio studio».
Il quadro è stato svelato in anteprima nell’ambito di una mostra che raccoglie 160 opere del grande pittore britannico e che aprirà i battenti alla National Portrait Gallery di Londra il prossimo 2 novembre. È intitolata «David Hockney: Drawing from Life» (rimarrà aperta fino al 21 gennaio 2024).
Il ritratto di Styles è stato iniziato nel maggio 2022, quando l’attore, ex leader della band One Direction, ha visitato David Hockney nel suo studio in Normandia. «Hockney ha reinventato il modo in cui guardiamo il mondo per decenni - ha detto Styles a Vogue -. È stato un vero privilegio essere dipinto da lui».
Per catturare l’essenza del volto della popstar, l’artista ha impiegato due giorni.
Il ritratto di Harry Styles è tra i 33 nuovi lavori che sono stati completati tra il 2021 e il 2022 da Hockney.
[…]
Helen Mirren.
Helen Mirren diva di «1923»: «Il mio personaggio è una femminista, come lo ero io». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023
L’attrice nella serie disponibile da febbraio su Paramount + è la moglie di Harrison Ford: «Volevo vivere un’avventura. Vedrei bene anche Checco Zalone, lo proporrò»
Una regina resta tale anche se al posto della corona imbraccia un fucile e lo usa con disinvoltura, perfino contro un uomo ferito che le chiede pietà. Helen Mirren, premio Oscar per la sua regina Elisabetta II in The Queen , si appresta a vestire i meno sontuosi panni di un’altra matriarca, Cara Dutton, protagonista di 1923, dove gestisce un ranch assieme al marito . La serie, che è poi il prequel di Yellowstone, sarà su Paramount+ a febbraio.
Cosa l’ha convinta a ripercorrere gli anni della Grande Depressione?
«Ci sono molti elementi che ho valutato, anche perché ho accettato di impegnarmi in qualcosa che porta via alla mia esistenza una quantità di tempo significativa. Ha contato quel senso di pura avventura che c’è nella storia di questa famiglia. Avventura che ho trovato anche nei luoghi dove abbiamo girato: la campagna e le montagne del Montana. Ho vissuto finalmente un’esperienza che volevo provare da tempo».
Interpreta una donna forte, determinata. Possiamo dire che è anche una femminista?
«Sì, senza dubbio. Lei è una femminista come lo ero io quando ero giovane: una femminista che non ha bisogno di mettersi una scritta, una maglietta che lo dice per dimostrare di esserlo. Anche nel suo matrimonio, lei è una partner al 50%, collabora attivamente con suo marito (interpretato da Harrison Ford, ndr). Ma è una storia ambientata nel 1923, quando molte cose erano diverse per le donne. Eppure lei è una donna di carattere, forte. Come del resto sono certa che dovessero esserlo tutte quelle del vecchio West: hanno dovuto fronteggiare tali enormità».
A cosa si riferisce?
«Alle violenze, alle carestie, alle epidemie, alle guerre. Tutte esperienze che richiedono una grande forza fisica e mentale. Erano donne abituate al duro lavoro, facendo cose che non possono che essere giudicate straordinarie».
Eppure molti dei temi trattati nella serie sembrano raccontare il mondo di oggi, tra pandemie e guerre.
«È vero. Non bastasse, un altro tema ricorrente di 1923 è l’ambiente: gran parte del racconto mostra quanto l’uomo influenzi l’ambiente in cui vive. Parla poi delle difficoltà quotidiane: è una serie che spiega però che l’impegno che metti in quello che fai può cambiare il tuo destino».
Ma il passato che torna non sembra dire che non abbiamo ancora imparato la lezione?
«Il bello in questa serie, come nella vita, è che non sappiamo come andrà a finire. Certe cose non sono confortanti, ma chissà come poi sarà davvero. Una domanda che mi faccio anche pensando al mio personaggio: non mi hanno autorizzata a leggere l’intero copione. Non sappiamo come si evolverà tutto così come non lo sappiamo nella vita reale».
Un cardine nella serie c’è: la famiglia.
«Una famiglia vista da una prospettiva differente. Qui non è rappresentata solo da una mamma, un papà, un figlio che cresce e poi va via. Qui si racconta un’altra visione. Legato alla famiglia c’è il concetto di business: si identificano con il loro business e per riconoscerti come un membro attivo di quel nucleo devi portare un contributo a questa impresa».
Come è essere sposata con Harrison Ford?
«Meraviglioso. È stato bello ritrovarci sul set. Era successo anche molti anni fa e ricordo quanto fossi intimidita allora: venivo dal teatro e lui era già una grande star del cinema. Mi aiutò molto a sentirmi a mio agio».
In passato ha detto che le piacerebbe fare un film con Checco Zalone. È così?
«Certamente. Ma vedrei bene anche lui in un ruolo di 1923, lo proporrò. Sono letteralmente innamorata dell’Italia, e la scintilla è scoccata la prima volta che ci ho lavorato: non conoscevo molto dell’Italia ma io credo che mi abbiano conquistato le persone».
Ora, per lei, l’Italia è casa?
«Sì, io e mio marito siamo molto legati al vostro Paese, tanto che abbiamo costruito una casa in Puglia. Ci sentiamo dei supporter dell’Italia».
Heather Parisi.
Dagospia domenica 5 novembre 2023. Mediaset ha dato mandato ai propri legali per agire nelle sedi opportune contro le affermazioni contenute in un'intervista rilasciata oggi da Heather Parisi, in relazione al programma "Amici".
È inaccettabile che venga messa in dubbio pubblicamente la regolarità di un programma che da anni, sotto gli occhi di tutti, consente ai giovani artisti italiani di esprimere e migliorare in modo limpido, serio e impegnativo il proprio talento.
Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano - Estratti domenica 5 novembre 2023.
(…)
Heather Parisi vive da anni a Hong Kong con il marito, Umberto Maria Anzolin, e i loro gemelli. In Italia appare ogni tanto e ogni volta è come ribadire un assioma: lei è una delle più grandi star della cultura popolare italiana, quando gli spettatori si contavano in milioni, e a due cifre, i dischi erano oggetto di consumo e i brani venivano fischiettati da tutti. Con la Parisi pure ballati.
Rossella Brescia sostiene: “Era superdotata, le veniva tutto in maniera naturale. Chissà quando se n’è accorta”.
(Stupita) Davvero l’ha detto? È una ballerina vera, molto brava. E poi è una persona carina.
Quando se n’è accorta?
Ancora non lo so; c’è dietro tanto studio, tanto sacrificio, tanto lavoro; quando avevo undici anni già studiavo danza tutto il giorno, anche 15 ore, anche il weekend.
Stacanovista.
Quando sono arrivata in televisione, nonostante i dischi d’oro, le copertine e quel numero spropositato di spettatori, la mattina del giovedì e del sabato, alle nove, mi presentavo a lezione da un russo straordinario, che mi picchiava con il bastone.
(…)Ho sempre studiato con dei grandi insegnanti russi, tutti i migliori, compreso Michail Baryšnikov; (pausa) i russi sono un’altra scuola, un’altra mentalità e io arrivo da quella mentalità, non dal mondo statunitense.
Infatti è putiniana. Lo difende.
Lui e il presidente cinese sono gli unici leader non sono succubi; (resta zitta) non posso dire più niente, non andiamo oltre (e ride).
È lei ad aver parlato di russi.
Lo so, mentre li citavo ho pensato: “Cazzo, mi sono messa in trappola da sola”. Non voglio parlare di Putin.
È iconica.
Come definizione non mi piace; quello che mi stupisce, ogni volta che torno in Italia, è l’affetto che trovo, spesso accompagnato dalla frase “ti ammiro per quello che hai fatto e sei”.Ci mette la faccia. Sempre, non riesco a stare zitta, sono spontanea; per questo ho sbagliato con Amici.
Cosa?
Non avevo capito che nei talent bisogna recitare un copione; invece sono una scheggia impazzita in grado di recitare solo me stessa. Lì ero fuori contesto.
E...
Mi è dispiaciuto tantissimo: stavo in mezzo a dei giovani ma non ero in grado di seguire il copione (pausa e poi ride. Risata alla Parisi) Se vuole capire, capisce.
La De Filippi cosa le diceva?
Maria no, ma gli autori, l’ambiente: si capiva che non andava. Ripeto: so recitare solo me stessa; (cambia tono, lo alza) ai tempi di Sandra (Mondaini) e Raimondo (Vianello) seguivo quello che c’era scritto, poi con Raimondo...
Cosa?
Una volta, poco prima di entrare in scena, mi ferma e si raccomanda: “Quando dici ‘arteriosclerosi’ aggiungi ‘brutta la vecchiaia’”. Io non riuscivo neanche a pronunciare “arteriosclerosi” (ancora oggi impiega qualche secondo). Insomma, una volta in scena ho seguito le indicazioni di Raimondo e ho visto Sandra con la bocca aperta, con la mandibola crollata.
(…)
Niente compromessi?
(Ci pensa) Però sono laureata in paraculaggine.
Chi è stato il professore di paraculaggine?
Da sola. Non è stato semplice perché il mondo dello spettacolo è pieno di trappole e quando sono arrivata ero straniera, avevo 18 anni, fragile, senza la famiglia, facilmente manipolabile.
Se ne sono approfittati?
Ho pagato prezzi durissimi, ho vissuto rapporti malati, più dietro le quinte; (ci ripensa) però non mi piace la maschera, quella che indossano in molti.
(…)
Torniamo alle farfalle: davvero le sentiva prima di Fantastico?
Erano diverse, allora ero incosciente, meno preoccupata; oggi sono cosciente e so di non poter sbagliare; difficilmente sbaglio perché mangio pane e volpe senza la coda.
Questa frase l’ha pronunciata a proposito della Cuccarini. Cosa c’entra?
Lo ha detto lei.
È vero, dalla Fagnani, dietro le quinte di Belve.
Ma non voglio parlare di quella persona.
(…)
Le è attribuita una storia d’amore con il presidente Ignazio La Russa.
No, solo un amico.
La sua carriera d’attrice è stata meno florida.
Perché ero etichettata come quella della televisione; mentre avrei voluto un percorso simile a quello di Cher.
Biden o Trump?
Oddio (silenzio)Pace.
Insistiamo.
Negli anni 80, durante i balletti, alzavo il pugno quindi ero di sinistra, poi sono diventata di destra perché ho messo due like a Trump, poi di nuovo di sinistra perché sono per la pace in Palestina. In realtà non ho mai avuto simpatie per un partito politico...
(…)
Da leggo.it il 15 Marzo 2023
Heather Parisi intervistata a Belve, parla anche della relazione di sua figlia Jacqueline Luna Di Giacomo con il cantante Ultimo, suo fidanzato da almeno due anni. O meglio, non ne parla. La showgirl ha completamente glissato sull'argomento, rispondendo alla domanda della giornalista Francesca Fagnani in un modo che è sembrato una bordata al cantautore romano.
«È contenta di essere la suocera di Ultimo?», domanda Francesca Fagnani a Heather Parisi. L’americana risponde così: «Di chi? Non lo so di cosa parli. Abbiamo fatto un patto in famiglia, nessuno parla delle situazioni private. Io non parlo della mia storia, figuriamoci se mi metto a parlare delle cose private di mia figlia. Il gossip è come la puntura di una zanzara: all’inizio è solo un piccolo puntino, poi se ti inizi a grattare la cosa si ingigantisce sempre di più. La gente gode di queste cose, ma il gossip non è una cosa fatta per me».
Estratto dell'articolo di lastampa.it il 15 Marzo 2023
Dopo il pignoramento nello studio di “Belve”, Heather Parisi risponde a Lucio Presta. Lo fa con un post su Instagram.
«È così difficile dimenticare il dolore che alla fine si finisce per non ricordare che esiste anche la dolcezza - scrive la 63enne nel post - E che la dolcezza è a tal punto grande da curare cicatrici che nemmeno il tempo ha saputo cancellare».
Poi la Parisi aggiunge: «Spesso i giudizi non riguardano chi siamo ma cosa rappresentiamo, non cosa facciamo ma chi ispiriamo, non come vestiamo ma cosa significhiamo. Perché un sorriso felice è contagioso e spaventa più di un viso ingrugnito e la gentilezza uccide più di qualsiasi efferata violenza».
[…]
Estratto dell’articolo di Andrea Pascoli per repubblica.it il 16 marzo 2023.
"Per prendere tempo e cercare di aggirare una domanda alla quale non volevo rispondere, quando mi è stato chiesto 'È contenta di essere la suocera di Ultimo?' ho risposto 'Di chi? Non so di cosa parli'.
Apriti cielo. Orde di fans indemoniati mi trollano ovunque per aver mancato di rispetto al loro idolo. Non solo per aver messo in dubbio la sua fama, ma per aver voluto ignorare la storia con mia figlia. So benissimo chi è Ultimo e non mi permetterei mai di snobbarlo. So anche che frequenta mia figlia. Il punto è un altro".
Heater Parisi con un post su Instagram ha replicato alle parole di sua figlia Jacqueline Luna dopo l'intervista a Belve e ai tanti fan del cantante romano indignati per la sua risposta. "Per tutta la mia vita non ho mai risposto a una domanda di gossip sulla mia privacy. Mai. Perché dovrei farlo su quella di mia figlia? La mia risposta evasiva non era niente altro che questo.
E chiunque non sia in malafede o non abbia altri intenti se non quelli di trovare qualsiasi pretesto per ferirmi, lo sa benissimo. E aggiungo. Io credo con tutta me stessa che gli affari che riguardano la famiglia e gli affetti famigliari debbano rimanere all'interno della famiglia. Credo che la curiosità morbosa della gente e dei giornali su questi argomenti, sia puro sciacallaggio".
I rapporti di Jacqueline Luna Di Giacomo con la madre Heather Parisi sono da anni al centro di un acceso dibattito: la showgirl, attualmente residente a Hong Kong con il marito Umberto Maria Anzolin e i gemelli Elizabeth Jaden e Dylan Maria, nati dall'unione, non sarebbe infatti in buone con le due figlie maggiori, Rebecca Jewel Manenti e Jacqueline Luna, avute dalle sue precedenti relazioni rispettivamente con Giorgio Manenti e Giovanni Di Giacomo. […]
Poco dopo l'intervista, sui social era intervenuta la stessa Di Giacomo, che aveva voluto specificare quanto segue: "Rispetterò per sempre mia madre, nonostante la sua assenza nella mia vita. Ieri sera mi sono sentita mancata di rispetto io, e mi trovo costretta ad ammettere una triste realtà, che personalmente avrei preferito non condividere. Non vedo mia madre da 10 anni. Dunque mi dissocio da qualunque cosa sia stata detta. Lei non sa nulla della mia vita se non via social come voi".
"Mia figlia Jacqueline la pensa diversamente e utilizza i social per suscitare empatia e accalappiare qualche like in più" ha scritto Parisi parlando della figlia, "Lo fa ben sapendo che incasserò ogni suo colpo senza mai reagire, e non già perché non abbia le mie ragioni da spiegare, ma perché questo è quello che fa una madre: perdona e aspetta paziente. […]".
Per poi concludere: "Auguro con tutto il cuore a Jacqueline di trovare altre strade al di fuori del mio nome per far parlare di sé. Il talento per farlo, ce l'ha. […]".
Botte da orbi tra Parisi e Presta: “Linciaggio mediatico”, “Querelo per diffamazione”. Il Tempo il 29 marzo 2023
Botta e risposta tra Heather Parisi e il manager televisivo Lucio Presta. La showgirl per la prima volta, in un lungo post pubblicato sulle sue storie di Instragram, parla della vicenda portata alla luce da Presta che sul suo profilo Twitter aveva raccontato che l’ufficiale giudiziario aveva raggiunto l’ex ballerina, da anni residente a Hong Kong, a margine della registrazione della trasmissione ‘Belve’ (condotta da Francesco Fagnani), affinché provvedesse a onorare quanto disposto dal Tribunale «che ti ha condannato per diffamazione al pagamento di una somma ingente», aveva scritto Presta. L’ufficiale giudiziario aveva inoltre effettuato «il pignoramento a persona fisica presso gli studi a fine registrazione», aveva ancora scritto il manager televisivo su Twitter. Parisi nega che ciò sia mai avvenuto e parla di «linciaggio mediatico».
«Cosa avrei mai fatto di così terribile da meritare questo trattamento? - scrive l’ex showgirl - ho pubblicato la foto della compianta mia migliore amica, abbracciata a me, ‘senza il consenso scritto da parte degli eredi’». Parisi ha poi affermato che «la sentenza mi ha condannato, per il solo fatto formale della pubblicazione della foto senza autorizzazione scritta, al risarcimento dei danni» e che «nessun rappresentante (delle forze dell’ordine, ndr) si è mai palesato alla mia presenza». Immediata la replica di Presta che su Twitter scrive: «Dopo le ultime dichiarazioni odierne della adorata Heather Parisi mi toccherà querelare la signora per diffamazione ed una serie di bugie o mi vedrò costretto a pubblicare bonifico fatto quel giorno da una terza persona legata al marito motivo per cui non hanno pignorato. Pensaci».
Il manager televisivo all’Adnkronos spiega inoltre che Parisi non è stata condannata per aver «messo la foto» ma «per quello che c’ha scritto sotto - dice -. Lei ha messo alla madre dei miei figli, a mia moglie, alla persona che ho amato di più al mondo, a una sua amica delle parole che mia moglie non avrebbe mai pronunciato contro di me e contro i suoi figli. Per questo il giudice l’ha condannata».
Dagospia il 29 Marzo 2023 LA RISPOSTA DI LUCIO PRESTA
Dal profilo Twitter di Lucio Presta
dopo ultime dichiarazioni odierne della adorata @heatherparisi mi toccherà querelare la signora per diffamazione ed una serie di bugie o mi vedrò costretto a pubblicare bonifico fatto quel giorno da una terza persona legata al marito motivo per cui non hanno pignorato. Pensaci
Dagospia il 29 Marzo 2023 Dalle Instagram stories di Heather Parisi
Nelle passate settimane ho assistito sgomenta al linciaggio mediatico di chi usa la Tv pubblica e i media per vendette personali. Cosa avrei mai fatto di così terribile da meritare questo trattamento? La sentenza 7746/2022 del Tribunale di Roma ha stabilito che ho pubblicato la foto della compianta mia migliore amica, abbracciata a me, "senza il consenso scritto da parte degli eredi”.
Ciò è vero. Confesso che non sapevo, come credo la gran parte dei cittadini comuni, che per pubblicare la foto di una persona fosse necessaria l’autorizzazione scritta sua o, essendo lei purtroppo scomparsa, quella degli eredi.
La sentenza, pur ritenendo “del tutto priva di fondamento la pretesa violazione dei diritti all’onore e alla reputazione tanto della donna rappresentata nella foto che dei suoi congiunti, oggi attori” e pur avendo “rigettato la richiesta della pubblicazione della sentenza in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet”, mi ha condannato, per il solo fatto formale della pubblicazione della foto senza autorizzazione scritta, al risarcimento dei danni.
A tal proposito, in assenza della dimostrazione di un danno effettivo, il Tribunale ha ritenuto di applicare un criterio equitativo condannandomi “a corrispondere a titolo di risarcimento dei danni subiti, Euro 2.000” in favore di ciascuno degli attori, più le spese di lite.
Ho apprezzato che i due figli non abbiano mai attivato l’ufficiale giudiziario e a loro, per porre fine alla questione, ho versato spontaneamente quanto loro dovuto.
Con la seconda sentenza 4773/2022, il Tribunale di Roma ha ritenuto “palesemente incontinente” il video su Twitter che mostra “la Parisi ‘scherzare’ sul fatto di litigare con sé stessa … per poi concludere con la showgirl che mima Pinocchio portando il dito medio sul proprio naso” con gli hashtag #pinocchio e #bugie e “le mentions dell’attore oltre che della Cuccarini”.
Il Tribunale ha riconosciuto che l’attore non aveva provato l’entità del danno e quindi il Giudice ha liquidato in via equitativa la somma di Euro 10.000 (enormemente inferiore a quella richiesta dalla mia controparte).
Non condividendo con il mio legale alcuni passaggi della sentenza di condanna, ho proposto appello che è in corso. Si vedrà. In forza di queste due sentenze, il 9 marzo 2023 si è presentato al mio camerino presso gli Studi Lumina, l’ufficiale giudiziario accompagnato dall’avvocato di controparte.
Nessun rappresentante delle forze dell’ordine era presente negli studi tantomeno nel mio camerino e nessun rappresentante si è mai palesato alla mia presenza.
Dopo che l’ufficiale giudiziario mi ha esposto le ragioni della sua visita ho contattato il mio avvocato che tuttavia era in udienza. Una volta avuto la conferma da parte del mio legale della esattezza delle somme richieste e della legittimità della procedura mi sono subito resa disponibile a pagare quanto richiesto.
Quindi, nessun pignoramento. E allora perché tanto clamore per un innocente peccato di ingenuità utilizzato come pretesto per una puerile ripicca personale? E perché tanto accanimento da parte del mainstream? Me lo sono chiesto spesso in questi giorni.
Sarà che ho pestato i piedi a chi utilizza i mezzi di comunicazione a proprio piacimento, sarà che il grado di “zerbinaggio” di gran parte del mainstream in Italia ha raggiunto livelli intollerabili, sarà che sono straniera quanto basta da far emergere in qualcuno il piacere di “Italians do it better” sarà che non ho mai avuto sponsor politici né da una parte né dall’altra e che non sono mai salita su nessun carro del vincitore o sarà che faccio battaglie scomode.
A netto degli odiatori seriali io continuo a ricevere in privato e in pubblico tantissima solidarietà e tantissimi attestati di stima e sono grata.
Questo dimostra la sempre maggior distanza tra il paese reale e il paese legale di chi detiene il potere e di chi, di quel potere, è servo e megafono.
Dagospia il 13 marzo 2023 1. IL TWEET DI LUCIO PRESTA
Dal profilo Twitter di Lucio Presta
Hai avuto moltissimo tempo cara @HeatherParisi di saldare quanto disposto dal tribunale che ti ha condannato per diffamazione al pagamento di una somma ingente, ma tu e la tua luce pensavate di farla franca ancora, allora mi è toccato fare ciò che mai avrei voluto.
Giovedì in occasione della registrazione di Belve un Ufficiale giudiziario assistita dalla forza pubblica (ringrazio l'Arma) ha effettuato il pignoramento a persona fisica presso gli studi, a fine registrazione. Per evitare la mortificazione di veder portare via effetti personali, hai dovuto effettuare bonifico tramite terzi e saldare quanto dovuto, operazione che ha richiesto alcune ore trascorse in un camerino del centro di produzione.
Questa volta il tuo mentore non è riuscito a sfuggire al pagamento e ti ha fatto vivere una vera mortificazione davanti a tutti. Cara HP anche questa volta non hai evitato di fare una brutta figura, sottraendoti per mesi ai tuoi obblighi nei miei confronti, sanciti dalla Magistratura. E chissà che altre figuracce rimedierai ... vedremo le tue interviste. Medita Heather medita!
Estratto dell’articolo di Giulia Turco per fanpage.it – 7 giugno 2022
Lucio Presta non ha alcuna intenzione di dimenticare i malumori con Heather Parisi. Dopo anni di battaglie legali contro la ballerina, il manager della tv è tornato ad alimentare la loro guerra a distanza. In un tweet Presta ha ricordato pubblicamente di aver vinto la causa per diffamazione e, non contento, è tornato a far valere le sue motivazioni in una recente intervista ad Adnkronos.
“Ci sono ben due sentenze, lei ha perso e il giudice ha stabilito un risarcimento e le spese legali, ma lei continua a non pagare! Abbiamo scritto anche al suo avvocato, ma neanche lui risponde alle nostre mail”, si è sfogato Presta. “Perciò mi vedo costretto a fare a tutte le tv italiane così se lavora le pignoro i soldi”.
[…] La diatriba risale al 2017, quando Heather Parisi fa causa ad Arcobaleno Tre, la società di proprietà del manager delle star. Il motivo? Gli strascichi dei malumori sorti nel corso di Nemicamatissima, lo show con Lorella Cuccarini con il quale Presta aveva riportato Parisi in tv. Ne era nato un conflitto con la ballerina, sfociato nella mancata distribuzione in tv del film diretto da lei “Blind Maze”, che sarebbe dovuto andare in onda sulla Rai. Secondo Parisi l’accordo sarebbe saltato in seguito alle sue lamentele sulla gestione di Nemicamatissima.
Negli anni i due non si sono mai riappacificati anzi, lo scontro ha coinvolto anche le rispettive famiglie. In difesa del padre e della società era intervenuto il figlio Niccolò Presta. Dopo la pubblicazione da parte della showgirl di alcuni post sui social che riguardavano la famiglia Presta, scattò la causa per diffamazione. […]
Dagospia il 29 Marzo 2023 LA RISPOSTA DI LUCIO PRESTA
Dal profilo Twitter di Lucio Presta
dopo ultime dichiarazioni odierne della adorata @heatherparisi mi toccherà querelare la signora per diffamazione ed una serie di bugie o mi vedrò costretto a pubblicare bonifico fatto quel giorno da una terza persona legata al marito motivo per cui non hanno pignorato. Pensaci
Dagospia il 29 Marzo 2023 Dalle Instagram stories di Heather Parisi
Nelle passate settimane ho assistito sgomenta al linciaggio mediatico di chi usa la Tv pubblica e i media per vendette personali. Cosa avrei mai fatto di così terribile da meritare questo trattamento? La sentenza 7746/2022 del Tribunale di Roma ha stabilito che ho pubblicato la foto della compianta mia migliore amica, abbracciata a me, "senza il consenso scritto da parte degli eredi”.
Ciò è vero. Confesso che non sapevo, come credo la gran parte dei cittadini comuni, che per pubblicare la foto di una persona fosse necessaria l’autorizzazione scritta sua o, essendo lei purtroppo scomparsa, quella degli eredi.
La sentenza, pur ritenendo “del tutto priva di fondamento la pretesa violazione dei diritti all’onore e alla reputazione tanto della donna rappresentata nella foto che dei suoi congiunti, oggi attori” e pur avendo “rigettato la richiesta della pubblicazione della sentenza in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet”, mi ha condannato, per il solo fatto formale della pubblicazione della foto senza autorizzazione scritta, al risarcimento dei danni.
A tal proposito, in assenza della dimostrazione di un danno effettivo, il Tribunale ha ritenuto di applicare un criterio equitativo condannandomi “a corrispondere a titolo di risarcimento dei danni subiti, Euro 2.000” in favore di ciascuno degli attori, più le spese di lite.
Ho apprezzato che i due figli non abbiano mai attivato l’ufficiale giudiziario e a loro, per porre fine alla questione, ho versato spontaneamente quanto loro dovuto.
Con la seconda sentenza 4773/2022, il Tribunale di Roma ha ritenuto “palesemente incontinente” il video su Twitter che mostra “la Parisi ‘scherzare’ sul fatto di litigare con sé stessa … per poi concludere con la showgirl che mima Pinocchio portando il dito medio sul proprio naso” con gli hashtag #pinocchio e #bugie e “le mentions dell’attore oltre che della Cuccarini”.
Il Tribunale ha riconosciuto che l’attore non aveva provato l’entità del danno e quindi il Giudice ha liquidato in via equitativa la somma di Euro 10.000 (enormemente inferiore a quella richiesta dalla mia controparte).
Non condividendo con il mio legale alcuni passaggi della sentenza di condanna, ho proposto appello che è in corso. Si vedrà. In forza di queste due sentenze, il 9 marzo 2023 si è presentato al mio camerino presso gli Studi Lumina, l’ufficiale giudiziario accompagnato dall’avvocato di controparte.
Nessun rappresentante delle forze dell’ordine era presente negli studi tantomeno nel mio camerino e nessun rappresentante si è mai palesato alla mia presenza.
Dopo che l’ufficiale giudiziario mi ha esposto le ragioni della sua visita ho contattato il mio avvocato che tuttavia era in udienza. Una volta avuto la conferma da parte del mio legale della esattezza delle somme richieste e della legittimità della procedura mi sono subito resa disponibile a pagare quanto richiesto.
Quindi, nessun pignoramento. E allora perché tanto clamore per un innocente peccato di ingenuità utilizzato come pretesto per una puerile ripicca personale? E perché tanto accanimento da parte del mainstream? Me lo sono chiesto spesso in questi giorni.
Sarà che ho pestato i piedi a chi utilizza i mezzi di comunicazione a proprio piacimento, sarà che il grado di “zerbinaggio” di gran parte del mainstream in Italia ha raggiunto livelli intollerabili, sarà che sono straniera quanto basta da far emergere in qualcuno il piacere di “Italians do it better” sarà che non ho mai avuto sponsor politici né da una parte né dall’altra e che non sono mai salita su nessun carro del vincitore o sarà che faccio battaglie scomode.
A netto degli odiatori seriali io continuo a ricevere in privato e in pubblico tantissima solidarietà e tantissimi attestati di stima e sono grata.
Questo dimostra la sempre maggior distanza tra il paese reale e il paese legale di chi detiene il potere e di chi, di quel potere, è servo e megafono.
La figlia di Heather Parisi: «Mia madre parla di me e Ultimo? Non la vedo da dieci anni». Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023
Ospite di Francesca Fagnani la showgirl aveva negato le voci di un rapporto difficile con la 23 enne Jacqueline Luna Di Giacomo. Che però sui social ha preso le distanze dalle parole della madre
Heather Parisi, nel corso della puntata di “Belve” di martedì 14 marzo, ha parlato anche di sua figlia Jacqueline Luna Di Giacomo affermando di riuscire a vedere regolarmente sia i suoi figli che quelli che il marito ha avuto da una precedente relazione. Di fatto ha smentito quelle che erano (fino a quel momento) soltanto voci di un rapporto difficile con la figlia 23 enne Jacqueline. Ma è stata la stessa giovane a prendere le distanza via social da quello che ha detto la mamma showgirl: “Rispetterò per sempre mia madre, nonostante la sua assenza nella mia vita. Ieri sera mi sono sentita mancata di rispetto io, e mi trovo costretta ad ammettere una triste realtà, che personalmente avrei preferito non condividere. Non vedo mia madre da 10 anni" ha scritto. Ma non è tutto, la ragazza ha continuato dicendo: “Dunque mi dissocio da qualunque cosa sia stata detta. Lei non sa nulla della mia vita se non via social come voi. Vi chiedo di rispettare la mia privacy, sopratutto riguardo un argomento così delicato. lo sono solo Jacqueline Luna, e vorrei un giorno si parlasse di me per quello che avrò creato io. Per la Jac che lavorerà nel mondo del cinema e per @giveme.brand”.
Fagnani martedì sera aveva anche chiesto a Parisi se fosse contenta di essere la suocera di Ultimo ma la showgirl aveva tagliato corto: “Suocera di chi? Non lo so di cosa parli. Abbiamo fatto un patto in famiglia, nessuno parla delle situazioni private. Io non parlo della mia storia, figuriamoci se mi metto a parlare delle cose private di mia figlia. Il gossip è come la puntura di una zanzara: all’inizio è solo un piccolo puntino, poi se ti inizi a grattare la cosa si ingigantisce sempre di più. La gente gode di queste cose, ma il gossip non è una cosa fatta per me”.
Dagospia il 13 Marzo 2023. Dal profilo Twitter di Lucio Presta
Hai avuto moltissimo tempo cara @HeatherParisi di saldare quanto disposto dal tribunale che ti ha condannato per diffamazione al pagamento di una somma ingente, ma tu e la tua luce pensavate di farla franca ancora, allora mi è toccato fare ciò che mai avrei voluto.
Giovedì in occasione della registrazione di Belve un Ufficiale giudiziario assistita dalla forza pubblica (ringrazio l'Arma) ha effettuato il pignoramento a persona fisica presso gli studi, a fine registrazione. Per evitare la mortificazione di veder portare via effetti personali, hai dovuto effettuare bonifico tramite terzi e saldare quanto dovuto, operazione che ha richiesto alcune ore trascorse in un camerino del centro di produzione.
Questa volta il tuo mentore non è riuscito a sfuggire al pagamento e ti ha fatto vivere una vera mortificazione davanti a tutti. Cara HP anche questa volta non hai evitato di fare una brutta figura, sottraendoti per mesi ai tuoi obblighi nei miei confronti, sanciti dalla Magistratura. E chissà che altre figuracce rimedierai ... vedremo le tue interviste. Medita Heather medita!
Estratto dell’articolo di Giulia Turco per fanpage.it – 7 giugno 2022
Lucio Presta non ha alcuna intenzione di dimenticare i malumori con Heather Parisi. Dopo anni di battaglie legali contro la ballerina, il manager della tv è tornato ad alimentare la loro guerra a distanza. In un tweet Presta ha ricordato pubblicamente di aver vinto la causa per diffamazione e, non contento, è tornato a far valere le sue motivazioni in una recente intervista ad Adnkronos.
“Ci sono ben due sentenze, lei ha perso e il giudice ha stabilito un risarcimento e le spese legali, ma lei continua a non pagare! Abbiamo scritto anche al suo avvocato, ma neanche lui risponde alle nostre mail”, si è sfogato Presta. “Perciò mi vedo costretto a fare a tutte le tv italiane così se lavora le pignoro i soldi”.
[…] La diatriba risale al 2017, quando Heather Parisi fa causa ad Arcobaleno Tre, la società di proprietà del manager delle star. Il motivo? Gli strascichi dei malumori sorti nel corso di Nemicamatissima, lo show con Lorella Cuccarini con il quale Presta aveva riportato Parisi in tv. Ne era nato un conflitto con la ballerina, sfociato nella mancata distribuzione in tv del film diretto da lei “Blind Maze”, che sarebbe dovuto andare in onda sulla Rai. Secondo Parisi l’accordo sarebbe saltato in seguito alle sue lamentele sulla gestione di Nemicamatissima.
Negli anni i due non si sono mai riappacificati anzi, lo scontro ha coinvolto anche le rispettive famiglie. In difesa del padre e della società era intervenuto il figlio Niccolò Presta. Dopo la pubblicazione da parte della showgirl di alcuni post sui social che riguardavano la famiglia Presta, scattò la causa per diffamazione. […]
Eva Herzigova.
Eva Herzigova compie 50 anni, dal concorso di bellezza a Praga a Sanremo. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.
Il 10 marzo la modella compie gli anni circondata dall'amore dei suoi uomini (Gregorio Marsiaj e i loro tre figli maschi): reduce dalla Milano Fashion Week, ha una carriera di successi. Per una bellezza intramontabile
Gli esordi
Eva Herzigova spegne 50 candeline il 10 marzo. La modella simbolo degli anni Novanta è tornata agli eventi e nei front row più prestigiosi (uno si tutti Ermanno Scervino) durante la Fashion Week di Milano conclusasi a fine febbraio 2022. Italiana d'adozione, Eva Herzigova nasce nel 1973 a Litvinov, in Repubblica Ceca. La sua carriera da modella comincia a 16 anni, quando ha vinto un concorso di bellezza a Praga, per lei trampolino di lancio.
Il reggiseno Wonderbra
Per lei cominciano le pubblicità e le copertine che l'hanno resa iconica, dal memorabile reggiseno Wonderbra a L'Oréal fino ai servizi fotografici per le principali maison di moda. Le griffe di cui Eva è stata musa sono le più grandi del mondo da Chanel a Christian Dior e Louis Vuitton.
La vita privata
Dopo il matrimonio con Tico Torres, batterista dei Bon Jovi, tra il 1996 e il 1999, la top model si è legata con il businessman italiano Gregorio Marsiaj. Assieme hanno avuto tre figli: George, 14 anni, Philip, 11, ed Edward, 10 anni.
Calendario Pirelli
Nel 1996 Eva ha posato per il calendario Pirelli con Peter Lindbergh: arriva la replica nel 1998 sotto l’occhio attento di Bruce Weber.
Le Olimpiadi a Torino
Nel 2006 la modella prende parte alla cerimonia di inaugurazione delle XX Olimpiadi invernali a Torino, sua città adottiva. A poco a poco si allontana dal mondo delle passerelle, decidendo di partecipare solo a qualche evento speciale.
Cinema
Nel 1995 la modella decide di intraprendere la carriera di attrice e debutta al cinema con “Soldi Proibiti” di Jean-Marie Poire al fianco di Gerard Depardieu. Altri film per lei negli anni dopo, tra cui “L’Amico del Cuore” di Vincenzo Salemme e “Cha Cha Cha” di Marco Risi.
Sanremo
Non solo cinema e moda ma anche tv: è la co conduttrice di Sanremo 1998 insieme a Raimondo Vianello e Veronica Pivetti.
Estratto dell'articolo di Rita Balestriero per “la Repubblica” il 12 marzo 2023.
Litvínov, 10 marzo 1973. Cinquant’anni fa, in quella cittadina al tempo Repubblica Ceca, […]nasceva la secondogenita della famiglia Herzigova: madre e padre operai nella vicina fabbrica di carbone, turno dalle cinque del mattino alle due del pomeriggio. […]. «La mia infanzia è stata una grande magia nel segno dello sport sport, sotto la supervisione severa di mio papà, che era un campione di nuoto», ha raccontato la super modella a Giovanni Audiffredi in una lunga intervista in esclusiva per d. […]
Eva Herzigova ha tre figli, George di 15, Philipe di 11 ed Edward di 9. Sono nati dalla relazione con l’imprenditore Gregorio Marsiaj, conosciuto ventitré anni fa sulla spiaggia di Varigotti. È così che è diventata un po’ italiana, anche se prima di trasferirsi a Torino — in pieno Covid — ha vissuto con la famiglia per anni a Londra. Nella sua mappa della vita è un’altra la capitale europea che le ha cambiato la vita, Parigi.
«Mia madre non voleva che andassi, ma mio padre si impuntò. Era la mia occasione. Quando arrivi in un luogo completamente diverso dal tuo panorama esistenziale, ti colpisce la maestosità dei boulevard, poi però gli occhi si posano sui dettagli di una vita differente: il fruttivendolo, per esempio». La prima campagna pubblicitaria è stata per L’Oréal, la girò il giorno del suo diciottesimo compleann[…] La prima esperienza interessante? «Posare per Paolo Roversi: fu un godimento».
[…] La svolta però arriva grazie a Ellen von Unwerth, che la sceglie per una campagna del marchio Wonderbra. «Non interpretavo la solita modella sul letto, in intimo, in attesa di chissà cosa. Era un modo di approcciare dirompente. Ero una donna libera».
Eva dice che la sua forza è stata la cheekiness, la sfacciataggine. «In famiglia l’estetica non aveva valore. Contava fare le cose con impegno. Sarà per questo che Karl Lagerfeld di me diceva: Freewheeling. She goes with the flow (A ruota libera. Segue il flusso, ndr) »
Eva Longoria.
Eva Longoria, da casalinga a regista: «Se il film girato da una donna va male non ci sono altre opportunità, per un uomo è diverso». Francesca Scorcucchi su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2023
La star racconta il suo debutto dietro la macchina da presa con «Flamin’ Hot»
«Oggi Gabrielle Solis farebbe l’influencer, sarebbe una vera guru dei social media». Eva Longoria, la più frizzante e irrequieta delle Desperate Housewives, la popolarissima serie tv andata in onda dal 2004 al 2012, non riesce a liberarsi dal personaggio che l’ha resa famosa. «Mi manca Gabby, mi mancano quei tempi», dice. L’occasione è arrivata con la promozione di «Flamin’ Hot», il film che segna il suo debutto alla regia dopo una lunga carriera d’attrice e produttrice. Dal 9 giugno su Disney+, il film racconta la storia di Richard Montañez (interpretato da Jesse Garcia) che da addetto alle pulizie della famosa azienda alimentare americana Frito-Lay, ne è diventato manager grazie a un’intuizione: creare patatine e snack adatti agli esigenti palati della comunità ispanica negli Usa. Gli americani — e con loro messicano-americani — amano il cibo dai colori vivaci e così i Flamin’ Hot Cheetos, vermigli al limite della fluorescenza, sono diventati un fenomeno iconico della cultura pop americana. Meno conosciuta sino ad ora era la storia del loro inventore che Longoria l’ha fatta diventare cinema, divertente, tenero e con il più classico dei lieto-fine.
Esiste ancora il sogno americano, signora Longoria?
«C’è ancora ma è decisamente più difficile da conquistare. Questo film esplora il concetto che le opportunità non sono distribuite equamente. Il talento invece lo è, ma è necessario che esista una infrastruttura in grado di agevolarlo, e questo è quello che raccontiamo nel film».
«Flamin’ Hot» è anche una storia d’amore.
«All’inizio il copione non la prevedeva ma quando ho incontrato i veri Richard e Judy, sua moglie, ho capito immediatamente che il loro sodalizio era basilare per il racconto. La loro storia d’amore è stata la ragione del successo di quell’uomo».
Quindi è vero che dietro un uomo di successo c’è una grande donna?
«Più che altro è vero che è più facile avere successo se chi ti vuole bene fa il tifo per te».
A fare il tifo per questo suo debutto alla regia, lei ha avuto l’intera comunità ispanica.
«Ero terrorizzata, non potevo fallire. Come donna e come rappresentante della mia comunità. Se il film di una donna non funziona i finanziatori fanno presto a dire abbiamo provato una donna regista e non ha funzionato. Un regista può fallire e ottenere un altro lavoro subito dopo, per una donna non è così».
Siamo ancora lontani dalla parità di genere negli Usa?
«La percezione è che Hollywood stia facendo qualcosa ma le statistiche, i dati ci dicono che anzi, la situazione oggi è peggiore di quanto lo era un paio di anni fa. Ci sono meno donne alla regia e meno ispanici nel cast o dietro la telecamera. Occorre fare meglio».
Oggi preferisce essere produttrice e regista che interprete?
«Mi piace fare tutto e la cosa che più mi piacerebbe fare è recitare in un film diretto e prodotto da me».
Tornerebbe a Wisteria Lane, a interpretare Gabrielle Solis?
«Tantissimo ma non credo che accadrà. Ne ho parlato varie volte con il creatore di Desperate Housewives, Marc Cherry e lui sostiene che non sono più i tempi. Era una serie innovativa, parlava di casalinghe, di donne che invecchiano. Aveva i toni del giallo, del dramma e della commedia. Ricordo di aver pensato prima del debutto che probabilmente non avrebbe funzionato, mi sbagliavo. Oggi non ci sarebbe molto altro da aggiungere. Abbiamo fatto otto stagioni e allora una stagione contava 24 episodi, non come ora che al massimo se ne fanno dieci. Cosa dovremmo ancora esplorare?».
Il fatto che ora una stagione conti dieci episodi è una delle ragioni dello sciopero degli sceneggiatori.
«L’industria dello spettacolo sta cambiando e questi cambiamenti devono produrre anche un miglioramento nelle condizioni di chi lavora nel settore. Dobbiamo trovare un modo per compensare adeguatamente tutti».
Un’altra ragione per la quale gli sceneggiatori stanno scioperando è il timore di essere soppiantati dall’intelligenza artificiale, cosa ne pensa? È una minaccia o un’opportunità?
«No, non credo che possa essere un’opportunità. Io personalmente sono terrorizzata da quello che sta succedendo. L’AI è già qui con noi, nei nostri telefoni, computer, automobili, che lo vogliamo o no. Dobbiamo quindi trovare un modo per renderla utile e non minacciosa, ci deve essere una regolamentazione, soprattutto nel settore creativo».
Iaia Forte.
Iaia Forte: «Sono diventata attrice per caso, ma il teatro è la mia vita». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.
Iaia Forte inaugura la XXXVII edizione del Todi Festival al Teatro Comunale il 26 agosto con lo spettacolo «Vita meravigliosa», un omaggio alla poetessa Patrizia Cavalli
«Nella mia adolescenza ero disorientata, non sapevo dove collocarmi. Il teatro mi ha indicato la strada». Iaia Forte, protagonista di teatro, cinema e televisione, ora dedica un omaggio alla poetessa Patrizia Cavalli, scomparsa un anno fa. Il 26 agosto inaugura la XXXVII edizione del Todi Festival al Teatro comunale con lo spettacolo Vita meravigliosa, accompagnata dalla musica live della cantante Diana Tejera.
«Il titolo è quello di una raccolta di poesie di Patrizia — spiega l’attrice napoletana — su cui ho costruito una drammaturgia da cui emerge un tema fondamentale dell’autrice: la sua ossessione per l’amore inteso come forma estrema di legame tra gli esseri umani. Patrizia era una mia carissima amica e ho voluto realizzare questo progetto nella cittadina umbra, perché era nata proprio a Todi. Da quando non c’è più, rileggo quasi ogni giorno i suoi testi: mi fanno sentire in sua compagnia».
Papà ingegnere, mamma casalinga, Iaia diventa attrice teatrale quasi per caso. «In effetti, a soli 19 anni andai via da Napoli per arrivare a Roma dove mi iscrissi al Centro sperimentale di cinematografia. Mio padre, purtroppo, morì quando avevo solo 14 anni, ma mia madre non fu preoccupata per la mia fuga piuttosto ardita. Quando poi ho incontrato il teatro, debuttando con Toni Servillo, per me è stato salvifico: era una dimensione che mi corrispondeva e che regolava la mia inquietudine. Ricordo un insegnamento di Mariangela Melato, che venne al Centro per tenere delle lezioni e ci disse: non mollate mai il teatro, perché il cinema vi abbandona, il teatro no. Ovviamente adoro fare cinema, però sono d’accordo con quello che disse Marlon Brando: il cinema è dei registi, il teatro è degli attori. Il piacere che si prova nel recitare in palcoscenico, non si prova sul grande schermo». Un grande schermo in profonda crisi. «È ammazzato dalle piattaforme, ma anche perché il cinema che si fa oggi è para-fiction, concepito per essere consumato in tv. Persino Alberto Barbera lo affermava l’anno scorso: troppi soldi, poca qualità. C’è un iper produzione di film da supermercato».
Una dura critica al cinema, da parte di un’attrice che di film ne ha fatti e ne sta facendo molti: sta per uscire Nata per te con la regia di Fabio Mollo e ha finito da poco di girare Totomorto di Giovanni Dota e Rosso pompeiano della regista francese Priscilla Martin. «È vero, sembra una contraddizione con quanto affermo. Sono un’appassionata frequentatrice delle sale cinematografiche e spero sempre che i progetti filmici ai quali aderisco siano di qualità. Ma il teatro, che sta vivendo grandi successi, resta il mio luogo di elezione: non a caso sono nata in una città teatrale». Non solo teatro e cinema, Forte ha frequentato molto anche il piccolo schermo: dalla Tv delle ragazze alla recente miniserie Svegliati amore mio. «Sì, ma la tv è diventata un contenitore di pubblicità e, siccome pago il canone, vorrei vedere programmi Rai che non siano solo intrattenimento mediocre, un contenitore senza contenuti».
Gli Skiantos.
[...] Estratto dell'articolo di Gianmarco Aimi per rollingstone.it venerdì 4 agosto 2023.
[...] gli Skiantos[...] fatto in Italia hanno inventato il rock demenziale segnando un’epoca e ispirando moltissimi (non solo in musica) arrivati dopo. Una storia a lungo sottovalutata, soprattutto dalla critica, come ci ha spiegato il chitarrista Fabio Testoni, in arte Dandy Bestia, che abbiamo incontrato al Parco Tittoni di Desio prima di salire sul palco. [...] naturalmente non mancarono gli eccessi, anche personali, che portarono addirittura all’allontanamento di Testoni per alcuni anni: «Ero sempre fatto come un cammello, rompevo i coglioni ed ero aggressivo».
Cresciuti nella Bologna dove tutto era possibile, ancor di più frequentando il Dams e studiando e manifestando convinti che un giorno avrebbe prevalso la “fantasia al potere”, hanno avuto un rapporto disincantato con le droghe per poi accorgersi che, più di una scorciatoia verso la creatività, ha rappresentato un vicolo cieco nel quale in tanti si sono schiantati ». [...]
Fabio è vero che nel ‘65 a soli 13 anni sei scappato di casa per andare a sentire i Beatles a Milano?
Sì e quel pomeriggio, grazie a loro, ho deciso di fare questo mestiere. Siccome all’epoca non c’erano i filmati, ma solo le copertine dei dischi, pensavo che la voce fosse associata alla faccia di Paul McCartney, invece quando li ho visti dal vivo era quella di John Lennon.
[...] Ma l’incontro che ha segnato la tua vita musicale e personale è stato quello con Freak Antoni. Come avvenne?
Ci ha presentato un amico comune che era in classe con me al Liceo scientifico, Stefano Cavedoni, che poi ha fatto parte degli Skiantos. Freak mi disse che scriveva poesie demenziali e me ne diede due-tre da musicare. Si trovò bene e alla fine è stato un incontro perfetto: io non sapevo scrivere, lui non sapeva suonare, abbiamo unito qualità e mancanze.
Era un genio consapevole di esserlo. Non a caso ha voluto intitolare un disco Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, il che presupponeva che lui lo fosse. E lo era davvero.
Quando hai capito di avere di fronte una personalità speciale?
Quando ho cominciato a leggere con più attenzione i suoi scritti. Ho capito che dietro lo sberleffo e il gioco c’erano dei ragionamenti molto seri. Quindi ho capito che era diverso da tutti. Poi era anche un pazzoide, faceva dei numeri che erano difficili da prevedere.
[...]
Siete stati sottovalutati dalla critica?
Molto! Anzi, la critica non si è proprio occupata di noi in generale. Tranne rare occasioni dove ci hanno dedicato recensioni molto buone. [...]
[...]
L’anno scorso vi è arrivato forse il riconoscimento più bello e inaspettato, quello di Iggy Pop che durante il suo programma radiofonico in onda sulla BBC ha mandato in onda la vostra Eptadone dicendo: «Questa è una canzone pazzesca, secondo me, questa le batterà tutte… Questi sono gli Skiantos…».
Freak avrebbe risposto «era ora». Abbiamo cominciato nel ’77, se ne è accorto 40 anni dopo. Meglio tardi che mai. [...].
I vostri live sono ricordati anche per le provocazioni, dagli spaghetti cucinati sul palco al lancio di ortaggi preventivo al pubblico. C’è mai stato un momento in cui avete pensato di essere andati troppo oltre?
Ce ne siamo accorti quasi subito perché ai nostri lanci di verdura, cioè oggetti non contundenti, la gente ha cominciato a rispondere con oggetti contundenti. E anche contro un dente, visto che sono stato colpito varie volte e anche Freak. Era una provocazione dadaista e futurista. Non siamo stati i primi, ma studiavamo al Dams e quindi i riferimenti erano quelli.
[...]
Quanto hanno influito gli eccessi nel vostro percorso artistico?
Purtroppo sono contati parecchio. Io ho avuto il culo di smettere, Freak no.
Non basta volerlo, bisogna essere anche fortunati?
Eh sì, io quando ho deciso di smettere ce l’ho fatta, ma ci vuole anche un po’ di culo. Freak invece usava dei palliativi. Ma è inutile passare dall’eroina al metadone, che forse è peggio.
[...]
Per anni si è pensato, e forse ancora qualcuno lo crede, che certe droghe potessero essere utili al processo creativo.
Questa è una cazzata orrenda. Anzi, si può dire che noi Skiantos abbiamo fatto quello che abbiamo fatto nonostante l’eroina.
C’entrano gli eccessi se dopo due album ti cacciarono dalla band?
Sì, ero sempre fatto come un cammello, rompevo i coglioni ed ero aggressivo.
[...] Un altro grande artista, che era vostro amico, ha avuto una vita molto più breve a causa dell’eroina. Parlo di Andrea Pazienza.
Andrea era uno che si faceva più per esperimento, che per altro. Cercava sul serio una questione artistica in quella roba. Era convinto che gli servisse. Poi verso la fine, penso avesse un po’ smesso di crederci, solo che c’era dentro fino al collo. Ma ha anche avuto una vita sentimentale complicata.
[...]
I vostri eredi sono sempre gli Elio e le Storie Tese?
Sono venuti dopo, quindi per forza sono i nostri “figli”, o “aborti” come diceva Freak. Anche il nome del loro gruppo viene da un nostro pezzo. Ma loro sono bravissimi. La rivalità del passato l’abbiamo alimentata per far parlare i giornali. Come ha poi detto Elio sul palco nel 2003 al Parco Nord di Bologna: «Ammettiamo pure che tutta la querelle precedente sui giornali era totalmente falsa, ma adesso che ci siamo conosciuti possiamo dire che ci stiamo sul cazzo davvero». Noi abbiamo avuto un pubblico più circoscritto, ma molto fedele. E alla fine è andata bene a tutti.
Hai sentito che Brian Molko è stato denunciato per vilipendio delle istituzioni dopo aver definito Giorgia Meloni «fascista, razzista, nazista»?
A noi ci avrebbero dovuto arrestare più volte e anni fa correvano il rischio di farlo con troppa gente.
Credi che l’Italia sia diventata meno tollerante?
Credo che la destra abbia ritirato fuori tutti i suoi valori sintetizzati in “Dio, Patria, Famiglia” per fare presa sulla gente, ma non funzionano più. Chi li ha votati lo ha fatto per altre questioni. Sulla famiglia parlano ma non ce n’è uno che ne abbia una “tradizionale”.
E la sinistra?
La vedo molto imbelle. Forse il salario minimo è un argomento sul quale può lottare.
[...]
Tu che hai conosciuto gli anni di piombo, definiti da Freak anni di pongo, dove per la politica si arrivava a gesti di estrema violenza, come vivi l’indifferenza di oggi?
Adesso ho 71 anni, non mi metto più a fare a botte per le idee. Ma credo che la politica sia una recita colossale. Quando ci penso mi viene in mente questa frase attribuita erroneamente a Mark Twain: «Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare».
Anche la tua Bologna non è più la stessa?
Come tutte le grosse città italiane è diventata una delle più care, bisogna avere soldi per viverci. Gli studenti che vanno in piazza a protestare in tenda hanno ragione. E non dimentichiamo che se dovessero diminuire sarebbe un disastro dal punto di vista economico.
[...]
I Baustelle.
Solo i Baustelle sanno cantare l’amore per Milano. Ironia, identità urbana, un crescendo alla “Let’s dance”. Il ritorno del gruppo con il lato inatteso e sentimentale della capitale del nord. Gino Castaldo su L’Espresso il 4 Aprile 2023
Lo sapevate? Milano è la metafora dell’amore, incredibile a dirsi, se non fosse che a cantarlo con ritrovata brillantezza sono i Baustelle. Lo fanno con la dovuta ironia, tra un crescendo alla “Let’s dance” e uno stacco di chitarra che ricorda la beatlesiana “Revolution”, ma anche con una stralunata convinzione che ci fa ripensare con sguardo nuovo alla capitale del nord: «Milano è la metafora dell’amore», dicono: «Di tutto ciò che cambia, della vita che va, da sola contro il mondo di fascismo e squallore sta, Milano è il vero simbolo dell’amore, di tutto ciò che cambia, della vita che va» e poi ancora: «Io sono innamorato, custodisco il tuo cuore, nel buio sempre brancolo, ma questa città, ci uccide e ci resuscita e si cresce e si muore».
È il singolo che ha annunciato il nuovo album in uscita, dal titolo “Elvis”. Rinascita dei Baustelle, perché il pezzo è davvero splendido, una perfetta hit per il mondo che sopravvive oltre la ossessiva compulsione dello streaming, ma è anche la punta di diamante di una più generale crescita della “milanesità” in musica, come se agli squilli di struggenti melodie provenienti dalla città di Napoli volesse rispondere una vibrante, più ironica, più acida (tra rock e trap) identità urbana. Ne è passato di tempo da quando Memo Remigi cantava «sapessi com’è strano sentirsi innamorati qui a Milano», questo sì lo capivano tutti, anche perché Remigi era ancora più preciso: «Senza fiori, senza verde, senza cielo, senza niente, tra la gente». In effetti, come era possibile? Se proprio doveva succedere di innamorarsi, il minimo che si poteva fare era sentirsi strani. Ma i tempi sono cambiati, quei vecchi stereotipi sulla città fredda e grigia sono stati abbattuti, non c’è neanche più la nebbia a giustificare una certa gelida accoglienza. Certo, trovare casa è praticamente impossibile, ma che volete che sia di fronte a questa rinnovata verve musicale? Max Pezzali nel 2019 è arrivato a incidere un pezzo, “In questa città”, dedicato a Roma, pieno di empatia e afflato pacifista, come a dire: basta con questa insensata rivalità. Milano, e dintorni, abbondano di rapper e trapper che hanno rivoltato la scena musicale, Mahmood e Ghali, poi Sferaebbasta, Lazza, Rhove, con un nom de plume dietro il quale si nasconde il comune di Rho, Rkomi, per non parlare dei patriarchi Articolo 31, di Fedez e tantissimi altri, compreso un fervente tocco feminile che va da Miss Keta a Paola e Chiara.
A Milano la musica gira forte, e molti la stanno anche evocando nei testi. Ma per cantarla a dovere ci vuole un certo distacco. Forse per questo a immaginarla come “metafora dell’amore” ci voleva qualcuno che di Milano non fosse, ovvero i Baustelle, tre briganti che vengono da Montepulciano.
UP
Un atto di giustizia. Gli organizzatori della sfilata del Roma Pride 2023, prevista il 10 giugno, hanno annunciato con entusiasmo che le madrine di quest’anno saranno le sorelle cantanti Paola e Chiara. Loro hanno subito risposto con altrettanto entusiasmo. Come non essere d’accordo?
& DOWN
L’industria dei concerti sta prendendo una piega sempre più complicata. In America le agenzie agiscono liberamente facendo levitare il prezzo dei biglietti, e alcuni artisti come Neil Young e Robert Smith si stanno ribellando, spiegando ai fan che le maggiorazioni dei prezzi non sono introiti che vanno a loro.
I Cccp Fedeli alla Linea.
Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “Specchio - La Stampa” il 18 giugno 2023.
Uno spettro si aggira per Reggio Emilia. I residenti più giovani magari non ne sanno ancora niente, come del resto i loro coetanei presi dalla trap o dalla nuova canzone per l'estate. Ma i ritrovati dell'anno, più da scoprire che da riscoprire universalmente, nel 2023 sono loro, i Cccp Fedeli alla Linea.
La band punk teatrale che imperversò fra i più attenti e accorti dai primi '80 a poco dopo l'89 quando – come seguendo la caduta del Muro – si polverizzò e ricompose sotto altra formazione seguendo le evoluzioni della Storia: faro succulento della scena indie come Csi fino circa alla fine dei '90, poi Pgr nel giro del secolo. Qui ormai dei Cccp si troverà soltanto il carismatico agitatore imperterrito Giovanni Lindo Ferretti che terrà botta in ulteriore formazione ancora per alcuni anni, dopo aver segnato in modo indelebile la controcultura di vent'anni d'Italia.
Ma i Cccp nessuno li aveva visti arrivare sul momento, quando gli '80 ancora si stavano togliendo dagli abiti la polvere da sparo. Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, quasi due Mick e Keith della stagione alternativa italiana, simbiotici ma con prudenza tanto che poi si lasceranno, l'uno filosofo e l'altro chitarrista, si erano incontrati a Berlino nell'82 e avevano girato per la Germania armati di chitarra e drum machine, innamorati dell'espressionismo punk tedesco.
Al ritorno, pensano di impregnare della cultura emiliano-romagnola le loro esperienze: e incamerano una ragazza di talento, Annarella Giudici, e Danilo Fatur, barista e ballerino, per arricchire e trasmettere allo scarso pubblico i bizzarri contenuti dei testi di canzoni che stanno nascendo, scarne ma sode.
Titoli rivelatori: l'album "Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi"; brani come lo struggente "Amandoti" del 1990, segnalato da Manuel Agnelli – uno dei loro discendenti – ai Maneskin, i quali ne faranno un successo a Sanremo.
[…] Ci sono corde di chitarra che si spezzano sovente e impongono per la riparazione di Zamboni alcuni tempi morti: riempiti da una verve teatrale espressionista, a cura di Annarella (che si veste) e Fatur (che si denuda) e di un po' tutti; una specie di circo fumoso Anni '50.
[…] Quando la storia tramonta, e sorgono i Csi (Consorzio suonatori indipendenti) e poi i Pgr (Per grazia ricevuta), sui Cccp (traduzione fedele italiana della scritta che in cirillico indicava l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) scende un velo: ora sta per essere squarciato da una mostra di memorabilia del leggendario quartetto nella natia Reggio Emilia, a 40 anni dall'uscita dell'album "Ortodossia".
L'altro giorno ne hanno parlato nella loro Reggio, riuniti con qualche imbarazzo. «Tutti insieme non ci vedevamo da trent'anni», ha detto Ferretti; e Zamboni: «Ci siamo addormentati maledicendo la Fininvest, ci risvegliamo con la morte di Berlusconi».
La mostra, con racconto cronologico "Felicitazioni – Cccp Fedeli alla linea", a cura del Comune di Reggio e della Fondazione Magnani, sarà aperta dal 12 ottobre all'11 febbraio 2024, ai chiostri di San Pietro. C'è un catalogo di cui già si dicono meraviglie, si stanno creando ambientazioni immersive e installazioni sonore che introdurranno i consapevoli e gli ignari dei Cccp attraverso un passato che più originale e di rottura non sarebbe potuto essere.
Ferretti intanto ha continuato il suo percorso spirituale, scrive libri e vota Lega: «Berlusconi è quello che ha detto le cose più giuste sulla guerra dell'Ucraina», dice fiero. Non si è tirato indietro sull'iniziativa, che prevede anche un incontro con la band al teatro Valli: «Son vecchio e stanco ma ai Chiostri non si dice di no».
Zamboni è sempre un chitarrista, ed è stato essenziale per la costruzione della mostra. Di rinascita del gruppo non sembra proprio tiri aria. Però, vai a sapere.
I Cugini di Campagna.
Sanremo 2023, i Cugini di Campagna: "Chi discute riccioli, tacchi e paillettes lo cacciamo dalla band. E pensare che ci chiamavamo Medium ed eravamo funebri". Emilio Marrese su La Repubblica il 19 gennaio 2023.
Da sinistra Silvano Michetti, Nick Luciani, Ivano Michetti e Tiziano Leonardi
Ivano Michetti, fondatore del gruppo col fratello Silvano, racconta la parabola dagli inizi fino al debutto al festival con Lettera 22 scritta da La Rappresentante di Lista: 50 anni dopo Anima mia svela il segreto di quel successo
Tre giorni dopo Sanremo, il tour dei Cugini di Campagna ripartirà dal ristorante Il Capanno a Cisterna di Latina. Anima mia a San Valentino è la morte sua. A scanso di malinconia, è bene sapere che coi diritti Siae di quella hit (50 milioni di copie e 57 cover in tutto il mondo) “mi ci sono comprato trenta appartamenti”, rivela l’autore Ivano Michetti, chitarrista e fondatore col gemello batterista Silvano della band di cui ha scritto tutto il repertorio. Non tutti sanno che, prima della fortunata svolta agreste, i Bee Gees de’ noantri erano nati con velleità gotico-dark: “Questo nome ce lo diede la Rca, prima ci chiamavamo I Medium ed eravamo funebri – racconta Ivano, 76 anni da compiere ovviamente con Silvano il giorno finale del festival, sabato 11 –. Cantavamo di morte, peccato e donne maledette. Vestiti di nero, facemmo pure le foto al cimitero del Verano. Poi ci siamo chiamati anche La fine del mondo, prima di incontrare Arbore e Boncompagni. Andammo nel ristorante dove sapevamo che cenavano e ci mettemmo a cantare La vecchia fattoria a cappella con le nostri voci bianche provenienti dalla Cappella Sistina. Ci presero ad Alto Gradimento a cantare Il ballo di Peppe”.
"A Sanremo prima non volevamo andarci noi, era scrauso"
"Zumpa zumpa zumpa tanto poi ci si fermerà", faceva così: e invece no, mezzo secolo dopo eccoli debuttare a Sanremo, riparato a un torto della storia. “A dire la verità negli Anni Settanta ci invitavano sempre, ma eravamo noi a non volerci andare. Sanremo era scrauso: una solo serata in differita al mercoledì su Raidue, andarci era una sputtanata”. Nel ’98 invece li avevano quasi presi: “Avevamo presentato La nostra terra musicando le parole di Giovanni Paolo II, molto molto bella. I dirigenti ci avevano già consegnato il tagliando della selezione, poi le altre case discografiche protestarono: non potevano competere col Papa né la Rai poteva dire che aveva bocciato una canzone del Papa, così ci chiesero di restituire quella ricevuta e lo facemmo, come non detto”. Tra demonio e santità, basta che ci sia posto: dagli esordi esoterici a Madre Teresa del 2016 fino alla cacciata dall’Isola dei famosi di Silvano, la scorsa primavera, per una bestemmia intuita al Var, ma sempre smentita dall’interessato.
"La nostra canzone l'ho capita dopo tre ascolti"
Ora l’altare dell’Ariston, finalmente, con Lettera 22 scritta per loro da La Rappresentante di Lista. Un esperimento di laboratorio. “E’ stata una proposta di Amadeus – racconta Ivano -. Non li conoscevo e non posso dire che musicalmente siano nel mio Dna. Noi con la musica di oggi c’entriamo poco, a noi Boncompagni e Meccia insegnarono che bisogna scrivere canzoni che tutti possano cantare sotto la doccia e quelle dei rapper di oggi, tutte bumbumbum a 75 giri, sono impossibili da cantare. La melodia è un’altra cosa. Questa Lettera 22 ho dovuto ascoltarla tre volte, e alla quarta ho capito che è bellissima. Le nostre canzoni sono più chiare…”.
Strofe come “fammi il sugo e poi scendo da te” o “tu nei campi a far la spesa” oggi però non sarebbero proponibili. “Ma io scrivevo quello che mi succedeva, mi è nato un figlio e ho fatto Meravigliosamente, erano altri tempi, è cambiato tutto”. Lettera 22, vintage e analogica come la Olivetti, sfuggente come la lettera dell’alfabeto che non c’è. “Il testo è un po’ ermetico, io ci ho capito questo ma bisogna chiederlo a loro. Ho fatto solo un arrangiamento vocale per renderla coerente con le nostre caratteristiche e la tonalità femminile di Nick Luciani”. Niente falsetto, che è il loro timbro di fabbrica.
Il look invece non sarà tradito: sedici abiti sfavillanti e trentadue scarpe coi tacchi per quattro serate. “Abbiamo fatto venire le stoffe da New York, Tokyo e dalla Francia. Faremo la nostra sporca figura. Saremo spiazzanti”. Fieramente trash. “Stufarci di riccioli e lustrini? Guai a dirmelo, se qualcuno mi chiede di cambiare look lo caccio dalla band. Facciamo oltre cento serate all'anno e viene spesso anche un bambino di dieci anni vestito come noi. Se ora ci mettessimo in giacca e cravatta sarebbe ammettere che siamo diventati falsi o che lo eravamo prima. Io sono io, noi siamo così. Se ci vestissimo da rockettari allora sì che faremmo ridere”. Zeppe, capelloni e brillantini no, invece. “Le zeppe le abbiamo inventate noi, il raso shantung lo abbiamo importato noi, le paillettes le cucivano le nostre mamme una a una”.
"Ho detto ai Maneskin: siete la nostra reincarnazione"
Questa cosa dei Maneskin copioni la pensano sul serio. “L’hanno ammesso anche loro a Striscia la notizia che si ispirano ai Cugini di Campagna. Noi eravamo vestiti con le bandiere americane, ma anche francese, tedesca, italiana, marocchina, quando siamo andati a Ground Zero nel 2001 dopo il concerto al Madison e abbiamo fatto le foto, era un messaggio di pace. Gliel’ho detto a Damiano: voi siete la nostra reincarnazione. Anche i Maneskin hanno cominciato per strada in via del Corso e noi alla Fontana di Trevi, solo che le monetine per comprarci gli strumenti le rubavamo con la calamita dall’acqua. Voi ci avete copiato l’immagine, gli ho detto, e noi vi copiamo Zitti e bboni: l’abbiamo fatta a modo nostro a Capodanno sulla Rai, bellissima. Damiano mi ha spiegato che della Siae non gliene frega nulla perché ora si contano i download: 50 centesimi l’uno, i Maneskin sono stati scaricati 131 milioni di volte, fatti i conti… Quando me l’ha detto sono impazzito. A Iva’ – me fa – quanto se vede che sei vecchio…”.
"Il segreto di Anima Mia: una dissonanza mai esistita prima"
E allora anche i Cugini sono arrivati dalla campagna sul web: su TikTok hanno 208 follower, al momento. Ma su Spotify Anima mia è oltre il milione di ascolti, e Ivano svela il segreto della sua eterna giovinezza: “E’ nata perché mio padre, visto che facevamo canzonette e concertini ma mangiavamo sempre a casa, ci disse: o canti o conti. E per contare intendeva i blocchetti di tufo che estraeva lui dalle cave. Gli chiesi tre mesi di tempo ancora e scrissi Anima mia. E’ diventata eterna perché scrivendola sul foglio pentagrammato mi venne una dissonanza mezzo tono mai esistita prima, la cosiddetta settima aumentata. E capì subito che nessuna imitazione avrebbe avuto più successo dell’originale: ecco perché non invecchia mai”.
Cugini di Campagna: «Noi come le voci bianche della Cappella Sistina. Ma cantiamo anche "Zitti e buoni" dei Måneskin». Paolo Carnevale su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023.
La band romana festeggia 50 anni di «Anima mia» al teatro Repower di Assago. Il chitarrista Ivano Michetti: Little Tony ci consigliò un calzolaio per farci fare le scarpe con le zeppe, Damiano ha copiato i nostri outfit luccicanti
«I Maneskin si sono ispirati a noi, almeno nel look». Scherza, ma non troppo, Ivano «Poppi» Michetti, leader e fondatore, insieme al fratello gemello Silvano, dei Cugini di Campagna, che domenica 16 aprile festeggiano al teatro Repower i 50 anni di «Anima mia». «Tra noi e la band italiana del momento ci sono molte cose in comune — spiega Michetti, chitarrista, 76 anni compiuti a febbraio —. Loro suonavano in via del Corso e raccoglievano monetine come facevamo noi negli anni ’70. Nello stesso posto, a 100 metri dalla Fontana di Trevi, dove rubacchiavamo i soldi con una calamita attaccata a un filo di nylon. E lo stesso Damiano ha ammesso di aver copiato i nostri outfit luccicanti».
Costumi glam vintage attualizzati al 2023, sul palco dell’Ariston, dove hanno esordito al Festival di Sanremo con «Lettera 22», indossando i loro immancabili zatteroni e lustrini. «Mi ispirai ai colori del Giudizio Universale di Michelangelo, un’opera che da bambino ammiravo sempre a bocca aperta — ricorda — . Little Tony ci consigliò un calzolaio per farci fare le scarpe con le zeppe. L’idea dei Cugini l’ebbi ascoltando il coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Io e mio fratello, a 19 anni ci siamo detti “proviamo a cantare come i bambini”. Entrammo in una trattoria di Roma e iniziammo a intonare a cappella “nella vecchia fattoria”. Ci notarono Arbore e Boncompagni e ci invitarono nella sede della Rca. Loro cercavano un gruppo che cantasse la sigla di Alto Gradimento e ci diedero da fare il “Ballo di Beppe”. Praticamente abbiamo anticipato i Bee Gees».
La fama dei Cugini è legata soprattutto ad «Anima mia», anche dopo mezzo secolo dalla sua pubblicazione, con i suoi 4milioni di copie vendute e 54 versioni in tutto il mondo. «Forse piace così tanto— spiega il musicista romano — perché non è stata composta a orecchio, ma sul pentagramma, non era qualcosa di già sentito. E poi ha un attacco, un ritornello e una combinazione di note molto originale, unica, direi. Invece, “Un’altra donna”, l’altro nostro grande successo, aveva una melodia anni ’70 e si conformava ai gusti del tempo».
Il gruppo ha vissuto più vite, con una sorta di rinascita nel 1997. «Il successo di “Anima mia” — dice Michetti — ci ha permesso di andare avanti fino a quando ci hanno riscoperto Fabio Fazio e Claudio Baglioni. Tutte le tv del mondo iniziarono a chiamarci per cantarla dal vivo. Ci diedero nove dischi di platino». Il ritorno di popolarità, quest’anno, con la chiamata di Amadeus a Sanremo. «La tonalità di “Lettera 22”, — spiega — è di donna, non trasformata in falsetto, ma cantata a voce piena, e solo Nick Luciani era in grado di eseguirla in quel modo. I giovani ci amano alla follia. La maggioranza del nostro pubblico è composta da ragazzi dai 15 ai 35 anni. Questa cosa ci sorprende molto. Dialoghiamo con le nuove generazioni, che non ci vedono come dei dinosauri. Ai nostri concerti facciamo anche “Zitti e buoni” dei Måneskin perché ci piace stupire».
Morto Marco Occhetti, il Kim dei Cugini di Campagna. Dopo l'addio alla band scelse di suonare tra la gente a piazza Navona. Romatoday.it il 25 aprile 2022
Marco Occhetti, noto con il nome d'arte Kim, è morto venerdì scorso. L'ex cantante dei Cugini di Campagna è deceduto a seguito di un infarto a 62 anni. A comunicarlo è stata la figlia Giulia con un post sulla pagina Facebook del padre. I funerali si svolgeranno oggi, 25 aprile, alle 15:00 a Fiano Romano, nella chiesa di Santo Stefano.
I suoi compagni di spettacolo, i Cugini di Campagna, lo hanno ricordato con un messaggio sui social: "Un saluto al nostro fraterno amico Kim, di cui abbiamo appreso la dipartita. Ti ricorderemo con affetto". La band ha poi ricordato il luogo del funerale così che chi vorrà dare l'ultimo saluto a Occhetti potrà farlo. "Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto. Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo", ha scritto ancora la figlia.
marco-occhetti-morto-post-cugini-campagna
Chi era Marco Occhetti
Occhetti era nato a Roma il 24 dicembre 1959. Nel 1986 era subentrato al posto di Paul Manners nella band i Cugini di Campagna. Dopo otto anni insieme (dal 1986 al 1994) alla band, Occhetti decise di lasciare il gruppo. La sua voce e il suo falsetto contribuirono attivamente al successo dei Cugini di Campagna. In un'intervista al Messaggero nel 2017 parlò proprio degli anni in cui prese la difficile decisione: "Lasciare il gruppo è stata una mia scelta. Non ero più in sintonia con loro. Erano troppo attaccati alle vecchie cose, come ad Anima mia. Grandissimo brano, ma poi nella musica bisogna sapersi rinnovare. Come hanno fatto i Pooh. Col tempo sono nate diatribe, anche sulla nostra immagine. E me ne sono andato", spiegò ancora.
L'oblio, dopo il successo, lo ha investito e secondo Occhetti fu colpa anche della band e del modo in cui l'avevano trattato. Era stato costretto a reinventarsi artista di strada tra tra piazza Navona e il Pantheon: "Suono solo due ore al giorno perché ho una licenza regolare rilasciata dai vigili per esibirmi ma dalle ore 16, sia in inverno sia in estate e nello spazio di 2 ore ci dobbiamo alternare in quattro per forza. Quindi a me restano 20 minuti, massimo 30. Troppo poco".
In quell'occasione lanciò anche un appello per tornare in tv come ospite o come naufrago a L'isola dei famosi: "Potrebbero invitarmi a qualche talk show, o anche chiamarmi come concorrente all'Isola dei famosi, visto che ci vanno spesso personaggi molto meno famosi di me".
È morto Marco Occhetti, il Kim ex cantante dei Cugini di Campagna. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 25 aprile 2022
Marco Occhetti aveva 62 anni. Era stato voce dei Cugini di Campagna dal 1986 al 1994, dopo Paul Manners
Per una decina d’anni scarsi, i riccioli biondi e la voce in falsetto marchio di fabbrica dei Cugini di Campagna sono stati quelli di Marco Occhetti: il cantante, conosciuto come Kim, aveva fatto parte del gruppo dal 1986 al 1994 per poi abbandonare e dedicarsi alla carriera solista. Si è spento venerdì sera a 62 anni, a causa di un arresto cardiaco. Dopo il periodo di successo e i tour in giro per il mondo con la band, di lui non si era più sentito parlare, finché qualche anno fa, in alcune interviste, aveva raccontato di essere finito a suonare per le strade di Roma e di trovarsi in difficoltà economiche.
La notizia della morte è stata ufficializzata dalla figlia Giulia con un post pubblicato sulla pagina Facebook del padre: «Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto. Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo». Gli stessi «Cugini», dal loro profilo ufficiale, hanno dedicato un pensiero all’ex compagno di avventure: «Un saluto al nostro fraterno amico Kim, di cui abbiamo appreso la dipartita. Ti ricorderemo con affetto».
Nato a Roma il 24 dicembre 1959, Occhetti aveva preso il posto di Paul Manners come voce principale del gruppo nel 1986. Con il caratteristico falsetto, aveva contribuito al successo della formazione, fondata nel 1970 dai gemelli Ivano e Silvano Michetti, interpretando brani celebri come «Anima mia» e partecipando alle tante tournée all’estero di quegli anni. Nel 1994 Occhetti aveva mollato: a lui era succeduto Nick Luciani, diventato poi il frontman più riconoscibile della band, ancora oggi al microfono dopo un periodo di incomprensioni e distacco.
Un addio voluto, quello di Occhetti, che citava una voglia di evolversi artisticamente non condivisa con il resto della band: «Lasciare il gruppo è stata una mia scelta - raccontava al Messaggero nel 2017 -, non ero più in sintonia con loro. Erano troppo attaccati alle vecchie cose, come ad “Anima mia”. Grandissimo brano, ma poi nella musica bisogna sapersi rinnovare». Su “Anima mia” era tornato a esprimersi anche in televisione, ospite di «Nemo - Nessuno escluso» su Rai2, sempre nel 2017: «“Anima mia” mi ha stufato, non la sopporto più, anche se è una bellissima canzone, per carità».
In tv, capelli corti e cappello, un’immagine lontanissima da quella degli anni 80, aveva raccontato anche di essere caduto in disgrazia: «Sono stato la voce solista dei Cugini di Campagna, anche se adesso non mi si riconosce più - si era presentato -. Adesso mi ritrovo a suonare nelle piazze di Roma, praticamente dalle stelle alle stalle, che preferisco, perché è più vero. Ma è stata dura. Suono a piazza Navona, al Pantheon, e sbarco il lunario così».
In quell’occasione, aveva descritto i Cugini di campagna come amici: «Li adoro, ci sentiamo, mi abitano pure vicino». Sul Messaggero, invece, non aveva risparmiato loro delle critiche: «Non mi hanno versato i contributi, si sono inventati mille sotterfugi. Sono tutti tirati con i soldi, ma a livelli estremi. Ed è finita male». Ma la sua parabola, al di là dei possibili attriti, mostra la precarietà di una carriera artistica dopo che si sono spenti i riflettori: «Ci sono tanti artisti molto bravi e non siamo tutelati per niente, lo Stato non ci considera proprio - aveva detto Occhetti in televisione -. Dovrebbero regolamentare questa cosa».
I Cugini di Campagna. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Cugini di Campagna è un gruppo musicale pop italiano fondato nel 1970 a Roma.
Storia
Il complesso musicale viene fondato nel 1970 su iniziativa di Silvano Michetti e successivamente scritturato dalla casa discografica Pull di Bruno Zambrini e Gianni Meccia; i due discografici scelgono per esso la denominazione "agreste", perché nelle loro intenzioni iniziali volevano fosse un sodalizio musicale dal repertorio tradizionale italiano. La prima canzone del quartetto è infatti Il ballo di Peppe, lanciata dalla trasmissione Alto gradimento, condotta da Gianni Boncompagni e Renzo Arbore. Lo scarso successo ottenuto dalla band in questa prima fase, unito al desiderio di proporre musica prodotta dai medesimi componenti, spinge il quartetto a cambiare genere.
Dal 1973 fino al 1977, i Cugini di Campagna ottengono il successo con canzoni come Anima mia, a cui seguono Un'altra donna (che resta nella Hit Parade italiana nei primi dieci posti per più di 44 settimane), Innamorata, 64 anni, Preghiera, È lei, Conchiglia bianca, Tu sei tu. I brani sono composti da Ivano "Poppi" Michetti (fratello gemello di Silvano) e Flavio Paulin e sono eseguiti in falsetto, effetto supportato dal registro di voce di Paulin che renderà caratteristiche le loro canzoni.
Dal 1978 in poi, dopo l'assestamento della formazione con l'ingresso del chitarrista/cantante Paul G. Manners al posto di Paulin, il complesso bissa il successo discografico con altri singoli: Dentro l'anima, Solo con te, Meravigliosamente, No tu no, Metallo, Valeria, Uomo mio e Cucciolo. Nel 1985 il brano Che cavolo d'amore segna la fine di un percorso che si chiude con le dimissioni di Paul G. Manners.
Dal 1986 (con l'ingresso del cantante Marco Occhetti al posto di Manners) fino al 1994, la band porta i suoi successi in giro per il mondo; sono, infatti, numerose le tournée che il quartetto compie. Dopo di che il tastierista Giorgio Brandi, nella formazione dal 1973, rassegna le dimissioni.
Dopo una breve pausa e l'ennesimo assestamento della formazione, nel 1997 il quartetto dei Cugini di Campagna ritorna alla ribalta discografica grazie alla trasmissione televisiva Anima mia, condotta da Fabio Fazio e Claudio Baglioni. Il grande successo è riscontrato dal rientro nella Hit Parade di due album e, nel 1998, la pubblicazione di un nuovo disco di canzoni inedite dal titolo Amor mio.
Nel 2001 il complesso partecipa alla trasmissione La notte vola, gara musicale tra i brani più famosi degli anni ottanta, nella quale presenta il successo del 1980 Meravigliosamente.
Nick Luciani, voce dal 1994 al 2014, quarto cantante del complesso in ordine temporale, il 12 dicembre 2014 annuncia le sue dimissioni, accompagnate da una nota polemica nei confronti di Ivano Michetti, uno dei due fratelli gemelli, per discordanze sulla gestione del quartetto e denunciando «mancanza di collaborazione, prove, allestimento degli spettacoli», problemi che avrebbero portato a «concerti sempre più scadenti».
Nel 2015, la line-up del complesso dei Cugini di Campagna si è assestata con Silvano Michetti (batteria), Ivano Michetti (chitarra e voce), Tiziano Leonardi (sintetizzatori e programmazione moduli ausiliari) e Daniel Colangeli (in sostituzione di Nick Luciani), nuova voce solista. Contemporaneamente il gruppo prende parte al format televisivo MilleVoci di Gianni Turco.
Nell'ottobre 2020 Daniel Colangeli lascia il gruppo e nel marzo 2021, dopo quasi 7 anni di assenza, Nick Luciani torna ad essere nuovamente la voce dei Cugini di Campagna, in seguito a una rappacificazione tra Ivano Michetti e lo stesso Luciani.
Il 4 dicembre 2022 è stata annunciata la loro partecipazione al Festival di Sanremo 2023 — prima volta in assoluto per il gruppo in 53 anni di carriera — e successivamente viene annunciato il titolo del brano Lettera 22, scritto dal duo La Rappresentante di Lista. Nel corso della competizione canora si esibiscono con la loro canzone durante la prima serata; mentre nella quarta – dedicata alle cover – cantano in coppia con Paolo Vallesi La forza della vita e Anima mia, piazzandosi al 22º posto. Infine, durante la quinta serata, concludono al 21º posto della classifica finale.
Aspetti discografici
La nascita, crescita e sviluppo del quartetto all'interno della piccola etichetta discografica Pull dal 1970 al 1981 ha fatto sì che sovente i componenti del complesso collaborassero, anche se non espressamente menzionati, alla realizzazione di brani di altri artisti della stessa casa discografica. Se, da un lato, la loro produzione non è mai stata riproposta per intero anche dopo il buon successo della trasmissione televisiva di Fabio Fazio del 1997, sarebbe opportuno aggiungere alla discografia del quartetto quei brani originali inediti che, per caso o per intenzione, sono comparsi spesso all'interno di antologie (compilation):
Papaveri e papere, presentato in un long playing antologico Piccola storia della canzone italiana, omaggio della RAI ai nuovi abbonati alla televisione nel 1974;
In ogni mio pensiero, del duo Anelli-Jurgens su 45 giri Pull del 1974, con la partecipazione canora inconfondibile di Flavio Paulin;
Within my heart, versione in lingua inglese di Dentro l'anima, brano interpretato da Paul Manners, fa parte di un progetto in lingua inglese del complesso, rimasto inedito o incompiuto, sul finire degli anni settanta;
Qua la mano;
Aspetta amore;
Bella gente.
Questi tre brani inediti appaiono per la prima volta in una antologia di successi del quartetto editi dalla D.V.More Record nei primi anni novanta e sono del periodo della prima formazione (1970-1972). Sia Aspetta amore che Bella gente compariranno su altre antologie di loro successi (Columbia - COL 489465 2 del 1997 e Sony-BMG 82876824552 del 2006).
Cariño mío - Su un disco mix Anima mia remix (Dig it, DMX 10421) del 1997 viene presentata anche una versione dance in lingua spagnola, usando il master originale del 1973 interpretato da Flavio Paulin per il mercato spagnolo.
In una antologia monografica abbinata al settimanale Panorama del luglio 2008, parte della collana intitolata "Italian Beat", compaiono per la prima volta alcuni brani delle origini, quali Il ballo di Peppe, Tolon tolon, Di di yammi, Un letto e una coperta, Viva d'Artagnan (Arnoldo Mondadori Editore - SIAE IB 08 09).
Nel 2014 esce un brano singolo, compreso in un'antologia con tutti i brani storici del quartetto, distribuito dalla Sony Music, che ha per titolo Ti ho sognata mentre stavi ritornando. La musica del brano, che dà il titolo alla stessa antologia composta da tre CD, è stata composta da Ivano Michetti e Alessandro Hueber; su di essa Marco Elfo Buongiovanni ha steso il testo. Il brano è stato licenziato dalle edizioni musicali Centotre, che in quota parte con la Klasse Uno e la Regno Unito ne detengono i diritti editoriali.
Versioni in lingua spagnola
Cariño mío/Enamorada (EMI ODEON J006-96829). Pubblicato nel mercato spagnolo nel 1975, presenta il complesso solo come "Campagna".
Amada mía/Yo te digo (Music-hall - MH 32236) Questo il titolo per la versione argentina del 1975 di Anima mia, quindi con differenze rispetto all'edizione per la Spagna;
Enamorada/El navío (Music-hall - MH 32258). Pubblicato nel 1975 sempre in Argentina, propone il brano Enamorada (Innamorata), con un testo differente rispetto a quello per il mercato spagnolo, ed El navío (Il vascello), con un arrangiamento differente rispetto alla versione italiana.
I due dischi 45 rpm pubblicati in Argentina cantati in spagnolo vennero proposti con la copertina forata standard. Esiste anche una prima edizione di Amada mía/Yo te digo (Music-hall - MH 32210) del 1974, con copertina fotografica identica all'edizione italiana di Anima mia/Te la dico. Salvo che per i titoli scritti in spagnolo, sia all'esterno che sulle facciate del disco, di fatto, i brani sono cantati in italiano.
Versioni in lingua francese
Anima mia (International Shows – IS 45.717) è stata incisa nel 1974 da Dalida.
Versioni in lingua svedese
Anima mia è stata incisa nel 1975 da Frida con il titolo Ett Liv I Solen, brano contenuto nell'album Frida ensam.
Formazione Attuale
Ivano "Poppi" Michetti – chitarra, cori, basso (1970-presente)
Silvano Michetti – batteria, percussioni, cori, programmazione (1970-presente)
Nicolino "Nick" Luciani – voce, keytar, tastiera (1994-2014, 2021-presente)
Tiziano Leonardi – tastiera, cori (2012-presente)
Ex componenti
Gianni Fiori – tastiera (1970-1972)
Flavio Paulin – basso, voce, chitarra (1970-1977)
Paul Gordon Manners – chitarra, voce (1978-1985)
Marco "Kim" Occhetti – voce, chitarra (1986-1994)
Giorgio Brandi – tastiera (1973-1996)
Luca Storelli – tastiera, cori (1997-2011)
Daniel Colangeli – voce, tastiera (2015-2020)
Cronologia dei componenti[modifica | modifica wikitesto]
Discografia
Album in studio e compilation ufficiali
1972 – I Cugini di Campagna
1973 – Anima mia
1974 – Un'altra donna
1975 – Preghiera
1976 – È lei
1977 – Tu sei tu
1978 – Dentro l'anima... e qualcosa dei giorni passati
1980 – Meravigliosamente
1981 – Metallo
1982 – Gomma
1991 – KimEra (inediti e nuove versioni)
1995 – Anima mia - canzoni dal vivo (live)
1997 – La nostra vera storia (compilation)
1997 – Anima mia (inediti e nuove versioni)
1998 – Amor mio
1999 – Sarà (compilation con inediti)
1999 – La storia (compilation, 2 CD)
2003 – 1973-2003 30 anni di: una storia infinita (compilation con inediti, 2 CD)
2006 – Sapessi quanto... e la storia continua (compilation con inediti, 2 CD)
2011 – Anima mia... Mi manchi tu... da 40 anni (box set con inediti e rarità, 4 CD + 1 DVD)
2014 – Anima Mia, torna a casa tua...Ti ho sognata mentre stavi ritornando (compilation con inediti, 3 CD)
2017 – Una meravigliosa storia infinita dal 1970 al 2017 (compilation con inediti)
2023 – Lettera 22
Singoli
1970 – Il ballo di Peppe / Tolòn tolòn
1971 – Di di Yammy / La ragazza italiana
1972 – Un letto e una coperta / L'uva è nera
1973 – Anima mia/Te la dico
1974 – Innamorata / Il vascello
1974 – Un'altra donna / Un debole respiro
1975 – 64 anni / Oh Biancaneve
1975 – Preghiera / A.A.A. ragazza cercasi
1976 – È lei / Love me sweetheart
1976 – Conchiglia bianca / Oh Eva
1977 – Tu sei tu / Donna
1977 – Viva D'Artagnan / La prima cosa che devi sapere
1978 – Dentro l'anima / Halloo Cousins!
1979 – Solo con te / Mister Paul
1980 – Meravigliosamente / Festa
1981 – No tu no / Metallo
1981 – Valeria / Floridia
1982 – Uomo mio / Elastico
1982 – Cucciolo / Volando
1983 – Il saltapicchio (pubblicato con lo pseudonimo Cespuglio)
1985 – Che cavolo d'amore
1997 – Medley: Anima mia/Anima ah ah
1998 – Amor mio
1998 – La nostra terra / Il mio angelo
1999 – Sarà / Medley: Anima mia/Anima ah ah
2003 – Vita della mia vita
2006 – Sapessi quanto
2011 – Mi manchi tu
2012 – Il peperoncino
2014 – Ti ho sognata mentre stavi ritornando
2016 – Madre Teresa
2021 – Vorrei ma non posto
2021 – Fratelli d'Italia
2021 – Zitti e buoni
2023 – Lettera 22
Comparse televisive[modifica | modifica wikitesto]
Nel 2005 hanno partecipato come ospiti in Premiata Teleditta 3, nella parodia di Top of the Pops con il brano Meravigliosamente in versione Beatles e Village People.
Nel 2006 i gemelli Ivano e Silvano Michetti hanno partecipato come concorrenti alla terza edizione del reality show La fattoria su Canale 5, venendo eliminati nel corso dell'ottava puntata con il 68% dei voti.
Nel 2008 sono stati guest star nella terza serie I Cesaroni.
Nel 2015 hanno partecipato al format musicale MilleVoci di Gianni Turco per il lancio del loro nuovo brano Ti ho sognata mentre stavi ritornando. Sono poi tornati a far parte della squadra del programma anche nei due anni successivi.
Nel 2018 hanno partecipato al film TV Din Don - Una parrocchia in due su Italia 1.
Nel 2022 prendono parte, in qualità di ospiti, alla prima puntata de Il cantante mascherato nel duetto con la maschera della Volpe (alias Paolo Conticini), cantando Zitti e buoni dei Måneskin.
Nel 2022 Silvano Michetti e Nick Luciani prendono parte al reality L'isola dei famosi, entrando in gioco dopo due settimane. Silvano viene squalificato dopo pochi giorni per blasfemia. Nick arriva invece in finale, classificandosi sesto.
I Gialappa' s Band.
Intelligenza e raffinata scorrettezza. La nuova Gialappa’s contro il politcamente corretto: “Se uno è scemo e non lo capisce è un problema suo. Forest ci ha cambiato la vita”. Una volta c’era pure il signor Carlo, oggi Giorgio Gherarducci e Marco Santin hanno ritrovato il terzo nel Mago Forest “il vero padrone di questo carrozzone”. Greta Mauro su Il Riformista il 5 Novembre 2023
Giorgio Gherarducci e Marco Santin, una volta c’era pure il signor Carlo, che ha deciso di ritirarsi in Liguria, sono la Gialappa’s Band, dal 1985 non smettono di far ridere con intelligenza, e raffinata scorrettezza. In onda con la seconda stagione del GialappaShow, su Tv8, dove loro sono sempre le voci che muovono i fili e il Mago Forest il geniale padrone di casa.
Vi aspettavate tutto questo successo?
Gherarducci: «Proprio no! Soprattutto all’inizio, arrivare alla prima puntata al 5-6 per cento non se lo aspettava nessuno».
Santin: «Non ci aspettavamo tanta attenzione su un’altra rete, ma siamo tornati a fare quello che ci piaceva, e probabilmente c’era tanta gente che aveva voglia di tornare a vederci».
Gherarducci: «Il fatto di avere un pubblico, come dico io, con i pollici opponibili ha reso più facile questo risultato».
Dal 1985, siete sempre gli stessi?
Gherarducci: «Sempre uguali».
Santin: «Si, lavoriamo nello stesso modo».
Anche se siete rimasti in due?
Gherarducci: «Ci facciamo affiancare da un capo progetto Lucio Wilson che ci aiuta su tutto».
Santin: «Eravamo in due già da un po’ di anni».
Vi manca la terza voce?
Santin: «Per com’era la voce negli ultimi anni mi manca pochissimo, non è una cattiveria, lo sa pure il Signor Carlo, le ultime due stagioni delle Iene noi eravamo a Milano e lui a Camogli, diceva una parola per puntata, la sua voce arrivava in ritardo a volte non arrivava il segnale».
Gherarducci: «In più non aveva neanche voglia, comunque manca più nell’immaginario della gente».
Certo siete sempre tre perché c’è il Mago Forest.
Gherarducci: «Lui è con noi da vent’anni».
Qual è il suo ruolo nella vostra comicità?
Santin: «Indispensabile, Forest è il padrone di questo carrozzone. Per il programma che c’è adesso lui è fondamentale».
Come capite che un comico funziona, che ha delle potenzialità e che va bene per voi?
Gherarducci: «Se ci fa ridere».
Cosa vi fa ridere?
Santin: «Non mi fanno ridere le battute politiche o quelli che fanno le smorfie, mi fanno ridere quelli che mi fanno ridere, è molto soggettivo, da sempre la comicità è molto soggettiva».
Gherarducci: «Per lavorare con noi è necessario sorprenderci».
Santin: «Il Mago Forest dopo 20 anni riesce ancora a sorprenderci e questo dimostra quanto lui sia figo».
Quando ho lavorato con voi a Mai Dire Talk nello stesso tempo ero in onda con un talk show, mi colpì molto la differenza del dietro le quinte, nel talk show eravamo leggeri, avevamo bisogno di smorzare la tensione degli argomenti, con voi invece il backstage era serissimo, si rideva in studio ma fuori poco. Bisognava seguire il copione senza improvvisare, le battute erano tutte scritte.
Gherarducci: «Esatto, in un talk show c’è una scaletta ma poi è tutto più o meno a braccio nel programma comico è tutto scritto. Una delle cose più importanti di un programma comico è avere degli autori bravi, che vanno tutelati e ben retribuiti».
Santin: «Quello che dici mi fa molto ridere perché è vero, dietro le quinte dei nostri programmi è tutto serio, sembriamo dei rigidoni».
Siete sempre stati molto scorretti nel vostro modo di fare comicità, ma oggi con il politicamente corretto che imperversa come fate?
Santin: «È una scelta ed è stata premiata perché in un’epoca in cui nessuno dice più nulla nel nostro programma puoi trovare di tutto, mantenendo sempre il buon gusto noi diciamo cose che in questo periodo non si possono dire».
Gherarducci: «Anche con il cattivo gusto che però deve avere un senso, prendi i ragazzi Cin Cin, loro sono di cattivo gusto, sono la presa in giro delle canzoni con il doppio senso, ma noi siamo andati oltre. Dire una parolaccia per il gusto di dirla non ha senso, ma fare una cosa che è volgare ma che ha un senso si, cosi come dire una cosa scorretta, noi ne diciamo ma ce ne sbattiamo delle conseguenze, se uno si offende sono affari suoi, che non ci guardi. Pensa che c’è gente che si è indignata perché Forest facendo la parodia di Carlo Conti si è dipinto la faccia di nero e lo hanno accusato di fare la black face, ma non era una black face prendeva solo in giro uno abbronzato. Se uno è scemo e non lo capisce è un problema suo, non deve essere un problema nostro».
Santin: «Noi non calcoliamo nulla, e tiriamo fuori sempre più personaggi scomodi».
Gherarducci: «E meno male, ma non per il gusto di tirare fuori personaggi scomodi ma per fare quello che ci fa ridere».
L’incontro che vi ha cambiato la vita?
Gherarducci: «Sicuramente Forest, il comico con cui abbiamo lavorato di più, è con noi dal 2002».
L’incontro di cui vi siete pentiti?
Santin: «Credo nessuno, siamo molto attenti nella scelta di chi deve venire a lavorare con noi. Abbiamo sempre preso brave persone, alcuni sono dei veri amici».
Gherarducci: «Noi lavoriamo in gruppo, chi sta con noi deve avere questa attitudine, non abbiamo magari scelto alcuni comici perché non ci convincevano sul lato umano».
Santin: «All’inizio della nostra carriera incontrammo uno che faceva un programma radio che era molto seguito che ci disse “avrò molto spazio con voi, perché vi porto tutto il mio bacino di ascoltatori”, non aveva ancora finito la frase che ea già fuori dal programma».
Chi era?
Santin: «Non ti dirò mai il nome».
Avrete avuto la fila di comici che volevano lavorare con voi dopo i primi Mai dire.
Santin: «Si dopo i primi anni dei Mai dire per i comici venire da noi era una delle cose che volevano fare di più al mondo. Ma anche ora al Gialappa’s show la cosa bella è vedere l’entusiasmo e la felicità di esserci, di lavorare con Forest, essere in questo gruppo e crescere insieme».
Come è iniziata l’idea dei Mai Dire?
Gherarducci: «Con “Mai Dire Banzai”, c’era questa trasmissione giapponese e Giorgio Gori ci disse di provare a farci qualcosa, noi montammo le clip e venne fuori quello che conosci, da lì ci propose di pensare ad un programma sul calcio alla nostra maniera, e nacque “Mai Dire Gol”».
Santin: «Poi con il calcio ci furono problemi di diritti, ma leggevamo dappertutto che stava arrivando il Grande Fratello, capimmo la sua forza e ci facemmo mettere nel contratto che lo avremmo fatto».
Gherarducci: «Ci ha allungato la carriera per un bel po’ di anni!».
Siete stati a Mediaset dal 1986 al 2021, ma la festa per la vostra carriera in occasione dell’uscita del vostro libro “Mai dire Noi” ve l’hanno fatta in Rai, perché?
Santin: «Non lo dire a noi, anche i nostri 30 anni li ha festeggiati Fazio in Rai».
Gherarducci: «Si ma a Mediaset dove potevano farla? Non avrebbero neanche avuto un contenitore adatto per ospitarci, certo è vero che non ci hanno neanche pensato. Quando eravamo in trattativa con Tv8 ci avevano offerto di fare una specie di rimpatriata di Mai Dire Gol. Ma abbiamo preferito provare una cosa nuova e rischiare. Magari un giorno la faremo!».
Vi dico delle parole e mi rispondete di getto. Amicizia.
Santin: «Ce ne vuole a pacchi nella vita».
Gherarducci: «Tutti quelli con cui lavoriamo devono essere amici anzi potenzialmente diventarlo».
Amore
Gherarducci: «Mia moglie Licia se no mi ammazza».
Santin: «I miei figli».
Passione
Gherarducci: «Metti mia moglie ancora».
Santin: «Metti sua moglie pure per me».
Ultimo film che avete visto
Insieme mi rispondono: «C’è ancora domani di Paola Cortellesi, un film bellissimo, grande Paola».
Ultimo libro letto
Gherarducci: «Schegge di Bret Easton Ellis».
Santin: «Federico Baccomo, Cosa c’è da ridere, la storia di un giovane comico ebreo che nei campi di concentramento faceva spettacoli comici per le SS».
Ultimo viaggio fatto
Gherarducci: «Albania», ti è piaciuta? «Credo sia giustamente sottovalutata».
Santin: «Londra che è la mia città preferita nel mondo».
Se aveste solo un desiderio quale sarebbe?
Santin: «Porca miseria non si può sbagliare, allora fingo di essere una Miss Italia e ti rispondo “la pace nel mondo”».
Gherarducci: «Di andare a dormire».
Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 19 dicembre 2022.
Nati in radio come commentatori sportivi surreali, Giorgio Gherarducci, Marco Santin e Carlo Taranto, per tutti la Gialappa' s Band, hanno inventato uno stile, fatto la storia della tv e lanciato decine di comici. Il loro primo amore, le cronache pallonare, non l'hanno mai scordato, solo trasferito su Dazn («Coca Cola Super Match») e Twitch (i Mondiali). Giunti ai 40 anni di carriera hanno messo la propria storia nero su bianco: in Mai dire noi (Mondadori Electa), libro a tre voci con il giornalista Andrea Amato.
Perché ora?
GG: «Prima non abbiamo avuto tempo, troppo lavoro».
MS: «Il direttore generale di Mondadori Electa, Stefano Peccatori, è tornato alla carica nel momento giusto: dopo "Le Iene" eravamo disoccupati».
Cosa pensate del Mondiale appena concluso?
CT: «Un non nuovo ma clamoroso caso di sport washing. Era stata eclatante anche l'assegnazione alla Russia, ma almeno i russi hanno una tradizione calcistica».
MS: «Il Qatar con tutti i soldi che ha investito, non è neppure riuscito a mettere in piedi una squadra decente. Erano inguardabili».
GG: «Anche il cambio di calendario è stato scandaloso. Ma gli "scambi di favori" purtroppo sono dietro l'angolo quando si mettono in piedi eventi che muovono interessi economici così potenti. In Qatar è solo stato tutto più alla luce del sole».
CT: «Per fortuna ora c'è il Parlamento europeo...» (risate)
E sul fronte dei diritti civili?
CT: «Sono state uno scandalo anche le inquadrature evitate o le censure imposte: la Germania che si tappa la bocca non inquadrata, la fascia e la scarpa arcobaleno proibita. Però alla fine abbiamo visto la nazionale iraniana che non cantava. E i cartelli delle donne iraniane in lacrime a sostegno di quelle che manifestavano in patria. La censura si perpetua dai tempi del pugno guantato di Smith e Carlos a Città del Messico» .
CT: «E così alla fine tutti ne hanno parlato. Dimostra che potente cassa di risonanza siano questi eventi. Di quei guanti neri ancora si parla».
GG: «Nel nostro piccolo ne sappiamo qualcosa: a Sanremo fu il putiferio quando invitammo a indossare qualcosa di arcobaleno. E parliamo dell'Italia democratica e laica del nuovo millennio» .
Altre memorabili censure?
MS: «Una canzone di De Luigi su Previti. Neri Marcorè/Gasparri con De Luigi/Mario Giordano. Uno sketch innocuo sulle sorelle Carlucci, ma una si candidava. Quando Berlusconi scese in campo ci fu qualche nervosismo in più a Mediaset: l'assurdo era che lui si poteva prendere in giro, ma quelli che gli stavano vicino no».
CT: «Bebo Storti ai Mondiali di sci in Sierra Nevada in fuga dalla polizia spagnola per essersi unito all'unico rappresentante della delegazione senegalese truccato da Alfio Muschio, personaggio di "Mai dire gol", un bergamasco reso nero da un sortilegio. Pare che gli svedesi che venivano subito dopo fossero stati sul punto di tingersi di nero la faccia pureloro. Fu il nostro momento di massima notorietà: ne parlarono le maggiori testate al mondo».
Ora cosa vi aspetta?
GG: «Continuiamo con Dazn. Uno speciale con Hunziker. Un nuovo programma ad aprile».
MS: «Ma non è la reunion di "Mai dire gol" che tutti ci chiedono e che Pier Silvio (Berlusconi, ndr) ha annunciato più volte: per la primavera non riusciremmo mai riunire i comici, troppo impegnati».
I Guzzanti.
Sabina Guzzanti: «Con Corrado e Caterina abbiamo una lingua segreta, a scatti. La Rai? voglio andare dove mi fanno dire quello che penso». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023
L’attrice e scrittrice: «Non ho avuto un’infanzia facile. Da vent’anni lontana dalla Rai. Quando chiusero Raiot Milo Manara mi mandò un ritratto modello Giovanna D’Arco»
Sabina Guzzanti, ci dica un aggettivo con cui lei si definirebbe.
«Qualche volta mi sento veramente una polla».
E perché?
«Be’, per esempio mi sono fatta hackerare la pagina Facebook. Una sera, mezza morta di stanchezza, mi hanno chiesto la password e zac, pagina rubata, tutto sparito».
Santo cielo.
«Mi dicono che adesso al posto mio c’è una sudamericana che balla col sedere di fuori».
In televisione l’hanno censurata per molto meno.
«Eccome. Prima apparizione televisiva, 1987, Proffimamente non stop, programma di Enzo Trapani su Rai 1. Compaio io vestita da suora. Segata subito, immediatamente».
E non avevano ancora visto «Matrioska».
«Io mi ero messa l’animo in pace quando Antonio Ricci mi chiamò per far parte del gruppo. Italia 1, seconda serata, c’era Moana Pozzi...»
Certo, a un certo punto apparve nuda.
«Era bellissima. Io un giorno mi avvicinai per parlarle, così, tanto per fare conversazione, e lei mi guardò dall’alto in basso come si guarda una nullità. Poi se ne andò senza dire una parola».
Anche «Matrioska» venne censurato.
«Ovviamente. Ricci era geniale, sapeva — e sa — fare la televisione. Negli anni ci siamo scontrati più volte, io ho criticato il suo Striscia La Notizia, gli ho detto che per me non era satira. Però le sue capacità sono fuori discussione».
E «Matrioska» era satira?
«Non nel senso che intendo io. Era una satira studiata, forse artefatta, non era una satira come azione politica. Ma oggi non ha senso fare ragionamenti di questo tipo. Oggi tutto “non è” qualcosa. La satira non è satira, l’informazione non è informazione, volendo, questo parlamento non è un parlamento. Oops...».
Vent’anni lontana dalla Rai.
«Ecco, vede?».
Ci tornerebbe?
«Non è una questione di Rai o non Rai. Io voglio andare là dove mi fanno dire quello che penso, ma senza estremismi da nessuna delle due parti. Io, come vede, sono una persona mite, ragionevole, non sono una che si impunta. Ma mi dà fastidio quando la censura viene definita “linea editoriale”. Tutto qui».
Su La7 la vediamo spesso.
«Infatti, il gruppo di Zoro funziona e ha trovato un equilibrio perché alle spalle ha anni di lavoro assieme, di affiatamento. Un programma comico non può resistere se non si crea quella relazione fertile tra i componenti. Oggi si pensa a tutto fuorché a far crescere un gruppo».
Ma lei ce l’ha il televisore a casa?
«No».
E perché?
«Perché lo trovo un brutto oggetto».
Solo teatro e libri.
«Sta uscendo il mio libro nuovo, ANonniMus, una commedia in cui un gruppo hacker della terza età si diverte a far fallire un raffinato sistema di intelligenza artificiale. Fa ridere, però secondo me questo è un tema serio: mi sconvolge vedere con quanta allegria e spensieratezza ci affidiamo alla tecnologia».
A lei adesso resta Instagram.
«Meglio così».
Sessant’anni a luglio.
«Sì vabbè ma non ci fate il titolo».
Però popolarissima in rete e amata dai ragazzi. I video delle sue imitazioni storiche sono molto guardate anche da quelli che trent’anni fa non erano ancora nati.
«La vuole la verità?»
Sempre.
«Io le imitazioni in passato le ho fatte perché dovevo lavorare, mica sono stata sempre convinta di saperle fare. Tutto cominciò con Rita Levi Montalcini. Ero in cucina, la sentii alla tv e cominciai a fare la sua voce. Il mio compagno di allora arrivò con gli occhi spalancati e disse: “Ma sei uguale”. E così cominciai».
D’Alema come la prese?
«Una volta ci misero assieme nello stesso studio televisivo, stette al gioco, abbozzò un sorriso ma mi ricordo il colore della sua faccia: livida».
Non era, diciamo, felicissimo.
«Lei che dice?»
B e’, lei lo dipingeva come un narciso senza rimedio.
«Ecco, appunto».
E lei? Chi è che fa ridere di gusto Sabina Guzzanti?
«Checco Zalone. E poi, certo, mio fratello».
Corrado. Che rapporto avete?
«Molto buono, ma tutti e tre siamo molto legati, anche con Caterina. Quando ci ritroviamo — e avviene abbastanza spesso — a casa, succede una cosa curiosa: ci mettiamo a parlare in un modo tutto nostro, una specie di lingua segreta, velocissima, a scatti. La capiamo solo noi, una questione di vibrazioni. E poi scoppiamo a ridere come tre matti».
Tutti e tre comici.
«Non è casuale, sa?».
Perché?
«La comicità è spesso una reazione alla sofferenza».
Infanzia difficile?
«Diciamo complessa».
Nati da Paolo Guzzanti, giornalista e deputato e da Germana Antonucci.
«Mamma e papà andavano ancora all’università quando siamo nati io e Corrado. Giovanissimi... Il loro è stato un rapporto burrascoso, si sono separati più volte e questo ha preso molta della loro attenzione che, dunque, non è arrivata a noi. Ma ci sono state anche cose belle».
Per esempio?
«Ci hanno insegnato a esercitare lo spirito critico. Io ho fatto la scuola montessoriana, quindi sperimentale, eppure ero una ribelle fin da bambina. Un giorno radunai tutte le sedie che potei trovare e costruii due enormi navi in corridoio. Mi fecero capire che non stava bene, i bidelli impiegarono sette ore per rimettere tutto a posto. Io stavo solo facendo teatro».
Era brava a scuola?
«Ho letto Gramsci in seconda media, in terza ho messo mano al Manifesto di Marx e Engels. Scrivevo commedie sin dalle elementari. Certo, erano commedie scritte da una bambina».
Precoce.
«E insofferente delle regole. Quando mi iscrissi all’Accademia di arte drammatica mi caddero le braccia: si faceva Alfieri, quando io sognavo un teatro diverso, nuovo. Se mi ribellai? No, perché sapevo che c’era una strada da seguire. In classe con me c’era Margherita Buy che già allora era Margherita Buy. L’anno dopo arrivarono Zingaretti e Popolizio. Ronconi ci ammutoliva semplicemente parlando: sapeva tutto, non potevi fare altro che stare zitto e ascoltare».
Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?
«Quando Elly Schlein è stata eletta segretaria del Pd. Perché pensavo di dover morire senza vedere una donna in quel posto».
Non ha pianto vent’anni fa, nel 2003, quando la Rai cancellò «Raiot», nonostante i buoni ascolti?
«Ma no, ormai è passato tanto tempo. Lo sa chi fu tanto carino con me quando chiusero il programma? Milo Manara. Mi fece un ritratto in cui io stavo a cavallo, come Giovanna d’Arco».
Lei per la destra è uno spauracchio.
«Ma pure la sinistra non è che mi ami tanto».
Dica la verità: perché non ha la tv?
«Ma ha senso guardare tanti talk show in cui l’unico obiettivo è quello di parlare e parlare senza far capire nulla a chi sta a casa? Ha senso seguire dei programmi che si dicono di informazione quando poi l’informazione non c’è?».
Si è accorta che abbiamo parlato per quasi un’ora e il nome di Berlusconi non è ancora affiorato?
«Meno male».
Il buddismo non l’ha aiutata a farsi scivolare le cose addosso?
«Ho seguito per anni la pratica buddista, è stato un cammino importante e che mi ha segnato in modo profondo. È una strada, un modo di vedere le cose, di essere consapevoli. Ma adesso non sono più buddista. Perché? Sarebbe complicato da spiegare, eppure si potrebbe dire con molta semplicità che non lo sono più».
Lei pare anche più «morbida» rispetto agli anni precedenti, è così?
«So che sembra difficile pensarlo, ma io sono una persona con cui è facile andare d’accordo. Sembro una da rock duro, quando invece la mia vera passione è la musica classica. Mio nonno era musicista, mi ha insegnato il solfeggio e le basi, ho sempre ascoltato Bach e Schumann. Una volta sono andata a sentire per la prima volta un’esecuzione molto particolare di Beethoven a Roma. Ebbene, sono uscita così frastornata, che parevo ubriaca, sbandavo. Il tossico del quartiere si avvicinò preoccupato e mi disse: “Scusa, ma ‘nn’è che c’hai bisogno de na mano?”».
Questionario di Proust rivisitato. Io le dico un nome e lei mi dà una risposta secca e il più possibile sincera. Va bene?
«Proviamo».
David Riondino.
«Siamo stati insieme tanti anni. Un amore bello e complesso, lui colto e gentile. Una storia lunga, complicata, ma oggi siamo molto amici».
Giorgia Meloni.
«Risposta secca? Impossibile».
Giorgio Tirabassi.
«Abbiamo appena fatto uno spettacolo assieme. Adorabile. Professionale e gentile, ogni sera ci ripromettevamo di non fare tardi in tournée ma puntualmente facevamo l’una a mangiare e a parlare».
Paolo Guzzanti.
«....» silenzio
Sabina...
«La prego, parliamo d’altro».
Va bene. Che tempo c’è oggi a Roma?
«Bello, un poco nuvoloso...».
Sabina Guzzanti. Estratto dell'articolo di Miriam Massone per “La Stampa – TuttoLibri” il 16 maggio 2023.
Sembra un sogno, sarà un incubo. ANonniMus, vecchi rivoluzionari contro giovani robot (HarperCollins), il nuovo libro di Sabina Guzzanti, ci apre la porta (letteralmente, previo riconoscimento facciale, vocale, digitale) di una SmartHouse governata dall'intelligenza artificiale Manfred, una sorta di CityLife 5.0, uscita da un futuro - più distopico che idilliaco - dove i frigoriferi conoscono le patologie dei proprietari e studiano diete su misura selezionando i prodotti, il divano riconosce e massaggia chi si siede e la casa parla e pensa a tutto, anche a far battute o sedurre con parole sensuali.
(...)
Cosa pensa di Chat Gpt?
«Che ficata, mi fa impazzire. Il motore di ricerca è molto più avanzato rispetto a quello di Google».
Sul più bello, però, l'Italia l'ha bandita…
«Va bhé, ma basta scaricare una Vpn per aggirare il blocco, lo sanno tutti. E poi tornerà». (Così è stato, pochi giorni dopo l'intervista)
La metto alla prova: quante mail ha?
«Due».
Cellulari?
«Uno, basta e avanza».
Alexa?
«Col cavolo!»
Il computer ce l'ha, è ovvio: ci stiamo parlando su Zoom...
«Sì, ma ho appena tolto lo scotch che copriva la telecamera e ho un sacco di schermi per andare in video, e i blocchi per non farmi hackerare. Insomma, cerco di stare il più attenta possibile».
E ci riesce?
«Più o meno, l'account di Facebook me l'hanno hackerato e non posso più recuperare il profilo, ora c'è una Sabina Guzzanti sudamericana che balla con il sedere di fuori».
Quanti social?
«Solo Instagram, che utilizzo per la promozione. Per il resto ho abbandonato tutto nel 2018».
Pentita?
«Sto infinitamente meglio. Non casco più nella trappola».
Quale trappola?
«Quella di voler dire la mia opinione su qualsiasi scemenza, è uno stress schierarsi. Ormai i temi proposti sui social li impone il mainstream, non c'è verso di far passare qualcosa di diverso: sono molto conformisti».
Nel suo romanzo Laura è attaccata e derisa per l'età. Scrive di "ageismo" come di una "delle tante forme assunte dal razzismo: la più abbietta manifestazione dell'ignoranza umana". Le premeva sensibilizzarci?
«Più che altro mi interessava porre l'attenzione sul dialogo tra le generazioni. Oggi c'è troppo divario, amplificato ancora dai social dove si parla soltanto tra simili. E quando gli adulti arrivano su Facebook, i ragazzi emigrano su Tik Tok. Invece la frattura andrebbe ricomposta: è giusto che i giovani sappiano dove i più anziani hanno sbagliato perché si impara con l'esperienza».
Un mese fa in America c'è stata la più grande azione per il clima organizzata da anziani. Nel suo libro ci sono gli ANonniMus: è la "coscienza di classe" della terza età?
«Sicuramente abbiamo una prospettiva di vita molto più lunga, ma se arriviamo fino a 80 anni, gli ultimi 30 non possono essere una tortura. Più che riscattare la terza età, volevo contestare qualsiasi forma di pregiudizio».
Cito ancora da ANonniMus: "Dopo i 45 anni è impossibile rimanere al passo con la tecnologia". In effetti, non sono riuscita a sbloccare Chat Gpt ma ho trovato l'IA di Writesonic. Le prossime tre domande le ha fatte lui: pronta?
«Spara!»
Prima: cosa pensa della libertà di espressione in Italia?
«Penso alla mancanza di indipendenza degli editori e alle televisioni occupate dalla politica. Il dibattito è arido, le questioni vengono affrontate in modo tale che la gente si senta sempre più impotente e non abbia mai presente il vero problema».
Mi fa un esempio?
«Dopo averci ammorbato per anni, pensavo che una volta usciti dall'emergenza Covid si sarebbe discusso su come investire i soldi del Recovery, invece non c'è stata alcuna discussione democratica. Ci si è limitati a dire se i soldi li avremmo presi oppure no. Sa cosa vuol dire? Che saranno investiti male, il debito dovremmo pagarlo tutti e senza la minima crescita del Paese».
Seconda domanda: quali temi la ispirano o preoccupano di più come artista e attivista?
«L'Intelligenza Artificiale: considerato che la costruiamo a nostra immagine e somiglianza, l'IA potrà dirci molto di noi. L'indagine sul cervello umano è la prossima frontiera, come sostiene Carlo Rovelli nel suo Sette brevi lezioni di fisica. E poi mi interesso ai bias, i pregiudizi, e alla loro genesi».
Ultima domanda del nostro Writesonic: come vede oggi il ruolo della satira?
«È sparita per ragioni politiche ormai note. Va detto però che tutto il mondo della cultura l'ha contrastata, non solo il centrodestra. Inviterei allora le persone che l'hanno limitata, in modo autoritario, a domandarsi se le cose vanno meglio o peggio. Chiudersi per paura è controproducente: alla fine chiunque riesce a esprimersi lo stesso, sui social e in modo assai più anarchico, ma il pensiero politico è azzerato».
Vale anche per la critica?
«Quella cinematografica non esiste più. Oggi si ignorano i film che non incassano e si parla solo di quelli che incassano, che però incassano perché se ne parla».
Viviamo una contraddizione: da un lato ci battiamo per libertà e diritti dall'altro autorizziamo forme di censura...
«Prima impazzivo per questo, ora ci ho fatto pace, e mi comporto come meglio credo, però è impressionante: molti di quelli che lavorano in televisione mi raccontano di censure forti e palesi, poi per poter lavorare in pubblico dicono di essere liberi e di non subire pressioni. Ad esempio, mi ha colpito quello che è successo a Massimo Giletti: nessun collega ha detto mezza parola per il suo programma chiuso senza una vera spiegazione».
Quali rischi corriamo lasciando il dibattito pubblico nelle mani dell'algoritmo?
«Se non gestita democraticamente l'IA diventa un sistema di oppressione pazzesca».
Le fa paura?
«Il punto non è questo, ma è battersi perché venga regolamentata. Hanno chiuso Chat Gpt perché non rispettava la privacy e Google che non la rispetta lo stesso? In questo istante sa che sono qui grazie al mio cellulare, i dati vengono venduti a nostra insaputa e contro i nostri interessi. La Cgil già si occupa della tutela dei diritti dei lavoratori rispetto agli algoritmi, che ad oggi non sono trasparenti».
Una delle conseguenze è la discriminazione. Nel suo libro l'IA Manfred sviluppa un bias che lo fa diventare razzista...
«Quello è accaduto davvero, a un tizio che su Google-foto si è ritrovato tutti i suoi amici afroamericani classificati come "gorilla", succede perché l'algoritmo assimila dati di persone razziste e impara. Non è una entità miracolosa o estranea, ma siamo noi a crearla».
Che fare allora?
«Cambiare le leggi. Google, Amazon, Facebook sono imperi che condizionano la vita politica e la democrazia pesantemente. La tecnologia dovrebbe farci lavorare tutti meno ma renderci tutti più felici, non alimentare disoccupazione e disuguaglianze».
Quali progetti ha ora?
«Vorrei girare un film, ma dovrei trovare un sacco di soldi e sono un po' negata per questo aspetto del lavoro. Poi continuo a scrivere, fare teatro e andare a Propaganda live su La7».
Quale tv le piace ancora?
«Se dovessi commentare tutte le minchiate che si dicono mi impiccherei. Preferisco i fare monologhi da stand up».
Qualche nuovo leader da imitare?
«Con le imitazioni ho chiuso, mi sono stancata, sono anche un po' allergica al trucco».
A proposito: anche lei fa come Laura su Zoom, "truccata e vestita fino alla cintura, sotto pigiama e pantofole"?
«Quasi, guarda qui».
E dallo schermo mostra una gamba: è in tuta e sneakers.
I Jalisse.
Estratto dell'articolo di Vittoria Melchioni per il "Corriere della Sera" mercoledì 6 dicembre 2023.
«27 No! Cadi dalla bici, ti sbucci il ginocchio, ti rialzi togliendo la polvere e riparti». Sono le parole che accompagnano una foto di Alessandra Drusian e Fabio Ricci, ovvero i Jalisse. Sorridenti e vicini come sempre, nonostante la nuova (ennesima) esclusione dal Festival di Sanremo.
Ma di polemiche non ne vogliono sentire parlare, tantomeno di critiche nei confronti delle scelte del direttore artistico Amadeus o della “macchina” sanremese. Dopotutto, la vittoria all'Ariston nel 1997 con "Fiumi di parole" resta per loro una delle emozioni più grandi, artisticamente parlando.
Dopo questa nuova esclusione, come vi sentite?
«Come due artisti esclusi dal Festival da 27 anni. Un Festival che amiamo perché ci ha permesso di farci conoscere in tutto il mondo e di poter partecipare all'Eurovision Song Contest arrivando quarti.
Siamo sempre positivi e lungimiranti, la nostra filosofia è quella della resilienza e del non mollare mai, con educazione e perseveranza. L'ironia è alla base della nostra esistenza, siamo professionisti ma anche passionali e non bisogna mai prendersi troppo sul serio».
Di cosa parlava la canzone che avete presentato?
«È un brano che parla di amore e dei valori veri della vita ai quali ci aggrappiamo quotidianamente per andare avanti. Un testo di buoni sentimenti, messaggio tipico della nostra scrittura. Credo che oggi ci sia bisogno di fare attenzione alla comunicazione: si può essere controcorrente, alternativi, ma dobbiamo sempre ricordarci chi ci ascolta e quanto possiamo esercitare la nostra comunicazione sui deboli o su chi non sa distinguere il bene dal male». [...]
Anche il prossimo anno presenterete un brano per Sanremo?
«Certo che sì, la tradizione continua e si tramanda, almeno per altri 28 anni abbiamo brani da proporre e collaborazioni. Crediamo che ormai la gente sappia che due artigiani come noi non si fermano mai nella ricerca e sperimentazione di stili e anche featuring. Al centro però sempre la melodia ed un contenuto di testo importante». […]
Jalisse a Sanremo, ancora un altro ‘no’: la coppia esclusa 27 volte dal Festival. A cura della redazione Spettacoli La Repubblica il 3 Dicembre 2023
Quella del 1997, dove ottennero la vittoria, continua a restare la loro unica partecipazione
Ventisette. Tanti sono i 'No' collezionati dai Jalisse per partecipare a Sanremo. Anche l'edizione 2024, infatti, non vede il duo fra i partecipanti, che vinsero il Festival nel 1997 con la canzone Fiumi di parole. A 27 anni di distanza, per Alessandra Drusian e Fabio Ricci, moglie e marito, quella continua a rimanere la loro unica partecipazione nel concorso maggiore. L’anno scorso avevano preso parte a Sanremo Giovani.
Un brano cult
Dal 1997, Fiumi di parole è diventato un brano cult, tanto da diventare nel 2009 protagonista di Ex, il film di Fausto Brizzi nel quale Fabio De Luigi interpreta un fan talmente appassionato dei Jalisse che pur di vederli esibirsi dal vivo inganna la fidanzata e compie un lungo viaggio.
L’isola dei famosi
A nulla sono valsi gli appelli ad Amadeus. E non è servita nemmeno la partecipazione di Fabio e Alessandra al surviving show di Mediaset L'Isola dei famosi. L'anno prima, per i Cugini di campagna il reality aveva ottenuto l'effetto sperato, ma i Jalisse non hanno avuto lo stesso destino. E anche quest'anno, il Festival lo guarderanno dal divano di casa.
Intanto sui social si scatenano i meme sulle possibili reazioni all’ennesima esclusione. Quest’anno le voci si erano fatte più intense che il duo potessero entrare nella lista di Amadeus ma evidentemente erano voci infondate.
Estratto dell'articolo di Tiziano Toniutti per “la Repubblica” venerdì 7 luglio 2023.
Insieme sul palco, in studio e nella vita dagli anni 90, Alessandra Drusian e Fabio Ricci sono i Jalisse.
Drusian è la prima voce ma ultimamente anche autrice, Ricci sta un passo indietro, scrive, suona, armonizza. Un duo che ha sempre preferito la sostanza all’apparenza e che avrebbe potuto essere una meteora e invece ha sfidato gli ingranaggi spesso diabolici del mondo dello spettacolo e non ha mai smesso di lavorare sul suo progetto.
Siete appena usciti dal metaverso dell’Isola dei famosi.
Ricci: «Situazione non semplice, perché poi sei lontano in un Paese che non conosci in un contesto completamente nuovo. Che sarebbe stata un’esperienza si capiva già dal colloquio preliminare, con domande strane tipo “avete mai ucciso qualcuno?”».
Drusian: « E lì niente cellulare e soprattutto niente musica. Che è la cosa che mi ha più destabilizzato. Con la musica il tempo avrebbe assunto una dimensione più regolare, lì un minuto sembrava infinito».
Forse essendo musicisti siete stati capaci di andare a tempo con la natura.
Drusian: «Probabilmente sì, abbiamo rispettato un beat».
Ricci: « Io semplicemente mi sono fuso con la natura. Alessandra odia la sabbia, ha la pelle bianca, ottocentesca. Adesso è completamente un’altra, è abbronzata e serena nel rapporto con il mare. C’è stato un momento di crisi, ma lei l’ha capovolta ed è arrivata in finale».
(...)
I famosi fiumi di parole, che devono scorrere ma possono anche travolgere.
Drusian: «Sì perché lì devi creare dinamiche, serve sempre una scintilla per evitare che la situazione si appiattisca».
Questa dimensione vi ha ispirato anche un brano, “Perdono”.
Ricci: « Assolutamente sì. Il ritornello, l’idea del brano abbiamo iniziato a definirli a casa. Poi ci hanno chiamato per L’isola, quando siamo arrivati lì io ho chiesto gli autori dei fogli e una penna, ma non c’era la possibilità a meno che di non partecipare a un gioco e ci è stato proposta una sorta di scommessa. Tutti quanti avrebbero dovuto rinunciare a un giorno di cibo per farci avere il materiale. Insomma i fogli non arrivavano, la penna non arrivava, dovevano stringere la cinghia tutti gli altri per per questa cosa che era totalmente nostra, noi abbiamo detto che non ci sembrava giusto. Allora ho preso le foglie secche, il carboncino del fuoco e e ci siamo messi a scrivere le strofe di Perdono ».
Come scrivete e vivete le vostre canzoni oggi?
Ricci: «Io provengo da quella scuola di persone che mi hanno insegnato ancora a scrivere con foglio e penna. Poi si trasferisce tutto sul computer, che è divertente. Alessandra nasce interprete ma ha iniziato a scrivere anche lei delle cose. Fiumi di parole l’ha inventato lei. La mia scuola è quella dei parolieri, quella di Pino e Armando Mango».
Drusian: «C’è sempre una voglia di ricerca anche delle sonorità ma anche delle melodie e dei testi. Noi siamo siamo un po’ strani perché non abbiamo un genere musicale, veramente ne abbiamo fatte di tutti i colori, dalla musica etnica de Il cerchio magico del mondo passando per il rock e anche al metal con Non aver paura di chiamarlo amore. Ci divertiamo veramente a spaziare e quindi anche con i musicisti, che si divertono anche a suonare. Sul palco bisogna divertirsi dando sempre qualcosa di più e sempre di diverso».
Del resto in inglese “play” significa sia suonare che giocare. A voi piace mettervi in gioco.
Ricci: «Giochiamo ma siamo seri in questo gioco. Nel senso che la musica per noi è un lavoro, un lavoro serio, che ci siamo scelti da dall’inizio e che portiamo avanti in maniera rispettosa nei confronti di questo mestiere. Noi viviamo questo mestiere come fossimo degli artigiani. E il rispetto per il lavoro è totale perché poi i musicisti hanno famiglia, come i tecnici, come l’ufficio stampa».
Alessandra con la voce fa davvero quello che vuole. Anche quando interpreta Antonella Ruggiero e Annie Lennox.
Drusian: «Tale e quale è stata una bellissima scuola. Io sono molto autocritica con me stessa, però lì dovendo “essere” qualcun altro ho avuto più coraggio a tirar fuori certe vocalità in più».
Dopo la vittoria nel 1997, Sanremo vi ha respinto per ventisei volte. Forse la ventisettesima canzone sarà quella buona.
Drusian (ride): « Non so come sarà la ventisettesima, ma l’esperienza dell’Isola ce la porteremo dietro nella vita come nella musica. Sicuramente saremo noi, e sarà nostra. Non ci piacciono maschere e filtri, e nelle prossime canzoni porteremo tutta l’umanità e la sincerità di cui sentiamo ci sia davvero un gran bisogno oggi».
"L'anno prossimo ci riproveremo". I Jalisse e quell'amore per Sanremo. I Jalisse sono famosi per aver vinto Sanremo nel 1997 con Fiumi di Parole e per aver proposto un brano in gara, da allora in poi, altre 26 volte, avendo ricevuto in risposta sempre un sonoro "no". Eppure non c'è rancore nella coppia, che anzi manda un messaggio ad Amadeus. Serena Basciani il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.
I Jalisse nel 1997 hanno vinto Sanremo, contro ogni pronostico, con il brano "Fiumi di Parole". Da allora non sono più riusciti ad accedere alla gara, nonostante abbiano proposto un brano praticamente ogni anno. Sono stati rifiutati 26 volte e promettono, senza paura di essere delusi: "Siamo già pronti per la 27esima proposta del prossimo anno". Ironici e convinti, i Jalisse hanno parlato della loro esperienza sanremese, rifiuti compresi, senza nessun imbarazzo. "Ai tempi di Fiumi di Parole, nel 1997 non credeva nessuno che quel brano potesse avere successo, invece non solo riuscimmo a smentire tutti, arrivammo ad una vittoria storica, portando quella canzone a mietere successi non solo in italia, ma in tutto il mondo". Trentuno anni insieme, sul palco e nella vita, festeggiati sul loro profilo Instagram pochi giorni fa. Per i Jalisse essere stati considerati delle meteore della musica italiana, ad un certo punto della loro carriera, nell'estate del 2018 precisamente, è stato quel che li ha portati ad avere un posto in prima fila per assistere alla scalata di Amadeus verso la conduzione e la direzione artistica del Festival di Sanremo.
La vostra edizione del programma di Raiuno, Ora o Mai Più, nel 2018, è stata un successo di critica e ascolti, che probabilmente ha iniziato ad aprire alla possibilità di vedere sul palco dell'Ariston proprio Amadeus. Cosa ricordate quell'esperienza con lui?
"È verissima questa cosa, Amadeus veniva ovviamente da tutte le esperienze che conosciamo nel pre-serale. Con Ora e Mai Più ha avuto un successo di ascolto in una fascia importante come il prime time. Quella è stata la consacrazione che aspettava, e che lo ha portato alla seconda edizione di Ora o Mai Più e poi finalmente l'occasione è arrivata anche per Sanremo. Però è importante ricordarci che Amadeus ha ricevuto un testimone importante da Carlo Conti, probabilmente lui ha sofferto molto per la mancanza di Fabrizio Frizzi e da quel momento è come se avesse voluto ritirarsi un pochino, dichiarando di non voler più seguire il Festival. Quello è stato un altro step importante per l'arrivo di 'Ama' a Sanremo".
Una cifra stilistica dei Festival di Sanremo targati Amadeus è l'unione dei big della musica italiana appartenenti alla tradizione '60-'70-'80 con quelli più amati da giovani e giovanissimi. Questo segreto, secondo voi, viene anche da quel successo sperimentato a Ora o Mai Più?
"Nella nostra edizione di Ora o Mai Più c'eravamo noi, Massimo Di Cataldo e Valeria Rossi (tra gli altri) in gara. Come giudici-coach invece avevamo Patty Pravo, Loredana Bertè, Fausto Leali, Michele Zarrillo. Quindi sì, questo mash-up anche con gli anni '90 c'era già allora. Però anche questa è una strada già segnata precedentemente da Carlo Conti, con il programma "I Migliori Anni" che ebbe un gran successo frutto di un insieme di musica che tocca ogni corda del pubblico. Ed anche su questa scia oggi vediamo "Tale e Quale Show", che fa lo stesso lavoro seppur con un tipo diverso di varietà e con un programma che è più un gioco".
Possiamo dire, quindi, che siete testimoni dei successi televisivi che hanno portato Amadeus fino all'ingresso del Teatro Ariston. Abbiamo parlato di come il Direttore Artistico di Sanremo sia attento alla tradizione, ma come lo avete visto rispetto all'attenzione che presta al mondo dei social?
"Amadeus punta sempre molto sui personaggi che funzionano nel mondo social. Tanto è che tra i protaginisti in gara quest'anno troviamo Ariete con un brano scritto anche da Calcutta, entrambi protagonisti fortissimi su Spotify, e in radio anche se meno in tv. Amadeus è diventato maestro in questo mix che colpisce sia i giovani che le persone che seguono storicamente il Festival. È un'operazione di marketing fantastica questa, che è il meccanismo anche con cui si è creato uno dei più grandi successi musicali degli ultimi anni, ovvero Mille, di Orietta Berti con Fedez e Achille Lauro, che si sono incontrati, non a caso, proprio nel primo Festival di Amadeus per poi firmare un successo radiofonico incredibile".
Sanremo per voi è gioia ma anche sinonimo di rifiuto. Cosa state facendo mentre si scaldano i motori della prossima edizione del Festival e come vi sentite oggi, alla luce anche dell'ennesimo verdetto della commissione verso un vostro brano?
"Attualmente noi siamo in tour e portiamo in scena i nostri brani Sanremesi, quelli che abbiamo interpretato nell'esperienza di Ora o Mai Più e in quella (solo di Alessandra Drusian, ndr) di Tale e Quale Show. Per quanto riguarda Sanremo non ci fermiamo, siamo dei carri armati, ma di pace. Non abbiamo cingolato sotto, abbiamo magari scarpe bucate perché camminiamo tanto, ma c'è solo amore da parte nostra verso Sanremo. Smentiamo di aver mai protestato contro commissioni o di aver espresso malumore verso i nomi che sono entrati nel cast contrariamente a noi. Siamo molto pazienti e ci ripresenteremo l'anno prossimo con lo stesso spirito delle volte precedenti".
Un messaggio per Amadeus?
"Un grande in bocca al lupo ad Amadeus, che sicuramente anche in questa edizione farà i numeri spaventosi che ha già fatto. Ma non solo un in bocca al lupo per lui, anche per le sue co-conduttrici e per tutti e 28 i concorrenti in gara. Noi seguiremo il Festival da casa da fan e da innamorati pazzi di Sanremo".
Il Volo.
Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” -Estratti domenica 3 dicembre 2023.
Chi è Il Volo? Singolare collettivo: trio, trinità, triplice alleanza.
«Non lo sappiamo neanche noi chi siamo», dice Gianluca Ginoble, il baritono del gruppo noto nel mondo come interprete del «pop lirico» italiano. Ottima premessa da cui partire, anzi indispensabile visto che Il Volo, dopo quasi quindici anni di trionfi, è arrivato a una svolta, una virata dal cielo del «bel canto» a qualcosa di nuovo. E tuttavia se oggi, quasi trentenni, non sanno ancora chi sono, sanno molto bene da dove vengono.
Gianluca da Roseto degli Abruzzi, Piero Barone da Naro, provincia di Agrigento, Ignazio Boschetto, nato a Bologna, è siculo pure lui, figlio della città di Marsala. Siamo tra profondo Sud e profondo Centro.
(...)
P: «Abbiamo un passato che in molte cose ci accomuna: per esempio, l’incontro con la musica per me e per Gianluca è avvenuto grazie ai nostri nonni. Per me la musica era quella di Mario Del Monaco e di Claudio Villa. Nessuno mi aveva fatto conoscere il rock. Mio nonno materno guidava il camion portando frumento tra un mulino e l’altro, ma all’età di 45 anni perde la vista e trascorre il resto dei suoi giorni su una poltrona: nel buio totale si è salvato con la musica, io oggi ho la sua stessa voce. Lui ha sentito il bisogno di farmi crescere e così ho fatto quello che lui non aveva potuto fare, ho studiato pianoforte, ho cantato nel coro del paese...».
I ( ride ): «La voce più bella del mondo...».
P: «Tutti e tre abbiamo conosciuto la musica così, in maniera naturale, a nostra insaputa, senza conservatorio».
Come ve lo spiegate?
G: «Sarebbe da studiare in una facoltà di psicologia. A 14-15 anni, dopo essere stati scoperti in tv, abbiamo fatto tre mesi negli Usa, siamo stati catapultati non in un mondo nuovo, ma in un mondo assurdo, sacrificando l’adolescenza, gli amici, la famiglia».
P: «Impegno e talento. Ma senza l’impegno il talento svanisce, non basta».
G: «Viviamo in un mondo in cui si vogliono i risultati immediati con il minimo della fatica. A noi è cambiata la vita in maniera talmente repentina, senza gavetta, che nemmeno ce ne siamo accorti. Poi arrivano l’impegno e l’ambizione».
Come si cresce con un successo così precoce?
G. «Abbiamo passato più tempo tra noi che con le nostre famiglie. Ci siamo formati a vicenda, è come se sul palco indossassimo una maschera: ma il pericolo è di tenere la maschera anche quando non cantiamo, perché capita raramente di stare insieme per divertirci. Solo ora, maturando, il nostro rapporto è cresciuto in intimità e discussione».
I: «Il successo è difficile da gestire, anche con le famiglie.
Non tutto è bellissimo, specialmente se si comincia da piccoli. La nostra fortuna è di non essercene accorti. Poi, a volte ti fermi e dici: cos’è successo? Siamo pazzi, io per primo. Penso che abbiamo fortuna in molti Paesi e dico: a questo punto perché dovrei limitare la mia vita e le mie esperienze?».
G: «Viviamo della nostra passione e questo supera la stanchezza e lo stress».
P: «Il divertimento c’è ancora, e rimane la priorità. Non penso di essere famoso e l’equilibrio interiore è un lavoro costante di cui devo ringraziare anche le persone che mi stanno intorno: mio fratello e mia sorella sono stati sacrificati dall’attenzione che i miei genitori dedicavano a me. Per questo, oggi quello che faccio anche sul piano economico è anche per loro».
Cosa fanno i vostri genitori?
G: «Mio padre distribuiva medicinali alle farmacie nel Centro Italia, ma ha lasciato per seguirmi. Mamma lavorava in fabbrica, alla Perla».
I: «I miei si sono trasferiti da Marsala a Bologna, dove mia madre ha cominciato a fare la cuoca in un ristorante, poi ha lavorato in una pizzeria per un sacco di anni. Quando siamo tornati in Sicilia, ha aperto una pizzeria sua. Papà faceva il muratore e l’artigiano del legno. È morto nel 2021».
Tre ragazzi che si mettono a cantare «Nessun dorma» e «Torna a Surriento». Sembra una follia anacronistica.
P: «Spesso ci dicono: siete i figli che tutti vorrebbero. Forse il messaggio è arrivato nella forma più naturale».
G: «Essere nostalgici è stata la nostra fortuna con il pubblico adulto, ma nel tempo può essere una condanna. Infatti stiamo lavorando su canzoni inedite per andare avanti nei prossimi vent’anni... Non siamo più Il Volo dell’inizio, quando cantavamo tutti allo stesso modo. Possiamo fare tante cose: Piero è l’anima lirica del trio, Ignazio sa fare di tutto, può cantare la lirica ma anche Steve Wonder, i Queen, è genio e sregolatezza, ha la voce più elastica, è eclettico. Piero invece è l’anima lirica».
P: «Dal 2009 al 2015 in Italia ci conoscevano solo le mamme e le nonne, poi con l’inedito e con la vittoria a Sanremo tutto è cambiato, abbiamo avvicinato anche i giovani. Io non avrei mai ascoltato un coetaneo che cantava O’ sole mio . All’estero abbiamo trovato le persone che impazziscono per il bel canto. Non italiani all’estero: in Giappone non ce ne sono, sono giapponesi che amano l’Italia».
IL VOLO
I: «Siamo riusciti a tener viva la tradizione. Ora è il momento di lavorare su una musica nuova, sempre mantenendo quel po’ di tradizione».
G: «Io Del Monaco non l’ho mai ascoltato, al virtuosismo preferivo De André o Gaber, che mi insegnano a dubitare, a essere un contenitore vuoto e a guardare il mondo».
Come vi sembra il mondo?
P: «D’istinto dicono: questi del Volo sono sempre in giro, sono ricchi, famosi… Ma non viviamo fuori dal mondo, sappiamo che oggi più che mai ci vogliono disciplina, responsabilità e determinazione. Quello che purtroppo manca a molti nostri coetanei. Gli uomini poi...».
G: «I maschi tendono a nascondere le proprie emozioni, la poca autostima sfocia in rabbia e violenza perché non gestiscono l’emotività e la fragilità, non chiedono aiuto al momento opportuno».
I: «È come se la fragilità fosse un difetto per l’uomo. Il maschio non può piangere… A me sempre più, per commuovermi, mi basta un film o una bella serata con gli amici o con la fidanzata».
P: «Sento dire tante cose, ma per me il discorso va rovesciato. Non è la donna che deve difendersi dall’uomo, è l’uomo che deve cambiare». G: «Prima di lavorare sull’istruzione dobbiamo lavorare su educazione e sensibilità, ma spesso i primi ad averne bisogno sono i genitori. E chi li educa gli adulti?».
I Maneskin.
Irene Soave per “Oggi” giovedì 24 agosto 2023.
A giugno ha pubblicato sul suo profilo Instagram, @Dagocafonal, due foto voluttuose di Victoria De Angelis in microbikini. Un commento ha fatto notizia più di altri: «Slurp». Firmato: Vasco Rossi, profilo originale con tanto di spunta blu. «E sotto, una sfilza di rimproveri bacchettoni», ride Roberto D’Agostino. «Un cantante di 71 anni, una cantante di 23. Sul sito mio, che di anni ne ho 75. “Vecchi”, “bavosi”, ci hanno scritto.
Sa chi non ha nemmeno risposto? Victoria. Non una sillaba. Ora mi dica quale altre delle stelline attuali, tutte attive sul fronte della serietà, si sarebbe lasciata scappare un’occasione tale di mostrarsi indignata». Prima di avviare, nel 2000, il sito di costume e pettegolezzi più letto in Italia, Dagospia - sulle cui pagine Victoria De Angelis compare spesso, quasi sempre poco vestita - D’Agostino è stato critico musicale e di costume.
«E dico che il motore del gruppo è lei. Ci sono stato a vederli in concerto. Sono bravi, ma gli occhi si fissano solo su Victoria, che non è nemmeno la cantante ma la bassista. All’inizio è stata sottovalutata: dalla critica e dalla stampa. Ma è esplosiva».
Il cantante Damiano sta in secondo piano?
«Fa la sua parte, ma non si sa nemmeno muovere tanto. Lei ha proprio un fluido. È la sola star erotica del rock in Italia. Perché quello è il rock: perdere la testa e il controllo».
I Måneskin sono quattro, l’unica donna è lei ed è al centro della scena. Non sono tanti i precedenti.
«Riandiamo alle eroine della musica nera. Tina Turner, Nina Simone, Aretha Franklin. Capaci di imporsi già prima degli Anni Sessanta. Di ottenere la parità sul palco, senza rivendicarla. Lei abita in questo mondo fluido post-tutto ma ci è, non ci fa, e questo allo spettatore arriva. Non rivendica, vive».
Ora ha una relazione con la modella brasiliana Luna Passos.
«E prima ne aveva con dei ragazzi, o forse boh, chi lo sa. È poliamorosa e fluida, tra le poche a esserlo davvero, ma non si atteggia a cantante impegnata. Non troverai mai una sua intervista in cui parla dei diritti, dell’utero in affitto, della comunità Lgbt… No, lei sta lì con le sue tettine al vento, si diverte e sbaciucchia la sua brasiliana. E non grida agli haters».
Gli odiatori di internet. Non ne ha molti, però.
«Ne ha come tutti, ma conosce le regole del gioco. Sa cioè che esiste gente capace di esprimersi solo in modo primitivo, e reagisce come a tutto: sbattendosene. Una rarità. Ha notato? Tutte le persone famose oggi hanno avuto un’infanzia da bullizzati. Da bambina ho avuto la varicella: trauma. Mi hanno messo la mano sul sedere: trauma. Ma nel mondo ci sarà sempre chi ti mette una mano sul sedere. Victoria De Angelis ha affidato il suo lavoro al corpo e non a quattro slogan».
Potrebbe fare una carriera da sola senza i Måneskin?
«Non penso lo farà ora, però è un passo avanti a loro. Poi, perché li dovrebbe mollare? I gruppi funzionano su tanti criteri, e i Måneskin funzionano».
È una meteora?
«Macché. Ci darà sorprese. Certo, se non s’inventa un passato traumatico con cui fare copertine uguali a tutte le altre».
Un po’ ce l’ha. Ha perduto la mamma da giovanissima. Non ne parla mai però.
«E certo, e di che deve parlare? La vita è la vita, ma l’artista parla del suo essere artista».
Del panorama musicale italiano finora a chi somiglia?
«Forse Patty Pravo… Ma direi più Loredana Bertè. Era dalla Bertè che non c’era in Italia un’artista con questa capacità non solo musicale. Il rock non è solo saper suonare uno strumento. Magari sai cantare, sai le note, solfeggi, ma non vai da nessuna parte. Lei è rock in maniera istintiva, e non è una che mette le tette fuori con calcolo».
Forse, rispetto a Bertè, Victoria ha l’aria più felice.
«Ma guardi che la Bertè non è che sia stata infelice. È che le piaceva il sesso e viveva anche in base a quello. Dietro la narrazione di vittima che se ne faceva, era semplicemente una donna sanamente sensuale, femmina, divertente. Bertè la prima volta la vidi nel 1965 in tv a Bandiera Gialla, con una minigonna minima, lasciava senza parole. Aveva una grande energia. Come Victoria».
Lei e Victoria vi conoscete?
«No e non la voglio manco conoscere, perché di solito quando cominci a incontrare quelli che ammiri ti deludono. Preferisco l’immaginazione, e faccio il tifo».
Estratto dell’articolo di Dea Verna per “Oggi” giovedì 24 agosto 2023.
C’era una volta il rock, un affare da maschi. Difficile trovare al mondo un ambiente più respingente per le ragazze, storicamente purtroppo più apprezzate come groupie che come musiciste. Poche sono riuscite a rompere il soffitto di cristallo e a diventare protagoniste. Una ce l’ha fatta, una bambina che a 8 anni aveva iniziato a suonare la chitarra nella sua cameretta, nel quartiere Monteverde a Roma, per poi passare al basso alle scuole medie.
Victoria De Angelis è un’eroina del rock, la regista della band italiana più amata al mondo, i Måneskin, colei che l’ha messa su e ne ha scelto il nome (in danese vuol dire chiaro di luna). Il gruppo, dopo i bagni di folla allo Stadio Olimpico e a San Siro, ha annunciato l’uscita di un nuovo singolo Honey (Are U coming?) il 1° settembre. I Måneskin hanno anche ottenuto la nomination nella categoria Best Rock agli Mtv Music Video Awards per The Loneliest e in autunno ripartono in tour.
Destinazione: Stati Uniti, Messico, Colombia, Argentina, Brasile, Australia, Giappone. In barba a chi li ha definiti semplici fenomeni di marketing. «Sono cresciuti negli ultimi cinque anni, hanno imparato a tenere il palco», commenta il critico musicale Enzo Gentile. «Victoria è il collante del gruppo, ed è vero che le donne influenti nel rock sono poche.
Due finora sono state le bassiste passate alla storia: Tina Weymouth dei Talking Heads e Kim Gordon dei Sonic Youth. Negli anni Sessanta c’è stata Janis Joplin, e poi anche alcune band al femminile, come le Bangles negli anni Ottanta e le Hole di Courtney Love nei Novanta». Eccezioni che confermano la regola.
Victoria si diverte a infrangere gli stereotipi. Il suo primo amore è stato lo skate, altra passione da maschi, secondo il comune sentire. «Da bambina non mi interessava giocare con le bambole, pettinarmi i capelli, non avevo amiche femmine, mi piacevano il calcio e lo skate», ha raccontato al Corriere della Sera. «Mi prendevano in giro per questo, un po’ ho sofferto, ma ho avuto coraggio». È…]
Inizia a formare band alle medie: «C’era Damiano, ma noi facevamo metal, lui era più pop e lo abbiamo allontanato». Poi al liceo scientifico Kennedy incontra Thomas Raggi e insieme cercano un cantante. «Si è rifatto vivo Damiano», ha raccontato lei. «Non era più una pippa, era migliorato». L’ultimo ad aggiungersi è stato il batterista Ethan Torchio, arruolato con un annuncio su Facebook.
Victoria è un mix perfetto di libertà, sfrontatezza e voglia di divertirsi. Si gode la vita e abbatte i pregiudizi con naturalezza, senza autocelebrarsi o fare proclami politici. Saranno le origini nordeuropee: «In Danimarca sono più avanti di noi rispetto agli stereotipi di genere.
Sono cresciuta più aperta, ma anche papà che è italiano ha sempre avuto una mentalità aperta». Ora è innamorata della modella Luna Passos, metà brasiliana, metà olandese, originaria dell’isola caraibica di Sint Maarten, dove hanno trascorso le vacanze insieme tra luglio e agosto. «Quando per la prima volta ho provato sentimenti e attrazione per una ragazza è stato un po’ disorientante», ha raccontato.
«Per la società essere eterosessuali è la norma e quindi uno spesso si incasella in quel modo, privandosi di vivere sfumature e sfaccettature diverse dell’amore. Una volta superata l’insicurezza iniziale, ho vissuto la mia sessualità in maniera naturale e libera, come dovrebbe essere per tutti».
Le foto sensuali di Victoria incendiano Instagram, ma non si atteggia da diva: le sue vacanze sono state all’insegna della semplicità. Dopo la parentesi caraibica, le ha trascorse con Damiano e un gruppo di amici in Abruzzo, per poi spostarsi in Maremma.
Lei e Luna sono perfino andate a ballare il liscio alla sagra di Albinia. «Lei e Damiano sono più astuti del ventenne medio», dice Enzo Gentile. «Sanno dosare le provocazioni. Ora che la gente va a sentirli ai Festival, puntano più sulla musica che sulle guêpière e le linguacce. La loro musica però è derivativa. Più che passare alla storia del rock, rimarranno come fenomeni di costume».
«Ha contribuito a riportare il corpo, l’eros al centro della scena musicale italiana», commenta il critico Michele Monina. «Negli ultimi anni, il nostro pop era stato desessualizzato. Le cantanti vestivano con le felpe stile Amici e cantavano solo di sentimenti, mentre i maschi hanno sempre fatto quello che gli pare. Un episodio significativo è stata la censura subita nel 2005 dal video di Kamasutra, la canzone di Paola e Chiara. […]
Damiano dei Måneskin si bacia a Formentera con Martina Taglienti. Che fa Giorgia Soleri. Carlo Antini su Il Tempo il 09 giugno 2023
Damiano dei Måneskin "pizzicato" in una discoteca di Formentera con la nuova fiamma Martina Taglienti (modella e amica di Victoria) è solo l’ultimo esempio di una lunga serie di amori e gelosie a cavallo del rock. Il video è diventato virale e il web è insorto contro il presunto tradimento del cantante romano. Così la sua ex Giorgia Soleri ha smesso di seguire sui social le quattro rockstar. Poi Damiano ha precisato in un video che la storia con Giorgia era già finita da giorni e non c’è stato alcun tradimento. Ma si sa che, da sempre, il rock va a braccetto con passione, erotismo e sotterfugi da star.
All’epoca classica del rock risale la storia tra Bob Dylan e Joan Baez. Lei era già famosa, lui un giovane di belle speranze. Per un po’ Dylan si divise tra Joan Baez e Sara Lownds, la futura moglie, finché mollò Joan e scelse Sara. E che dire di Mick Jagger e Marianne Faithfull? «Marianne è un angelo con due tette stratosferiche». Così la pensava Jagger. Non proprio un inno al romanticismo. Ma la crisi arrivò inesorabile. Al tempo della storia tra Mick e Marianne facevano coppia fissa anche Keith Richards e Anita Pallenberg. Lei fu protagonista del film «Sadismo» insieme a Mick Jagger. Le scene bollenti del set si ripeterono a casa: Keith Richards lo avrebbe saputo solo molto più tardi. Altro amore da copertina quello tra Joni Mitchell e Graham Nash. Quando Stephen Stills, David Crosby e lui incisero l’album di debutto, Joni e Graham facevano già coppia fissa. Un giorno lui si sedette al piano. «Fu un flash», ricorderà: «Ebbi la sensazione di sentirmi davvero a casa nel salotto di Joni». Era nata «Our House». Impossibile non citare anche Paul e Linda McCartney, compagni nella vita e negli Wings.
Ma amore e rock hanno continuato a camminare a braccetto fino ai nostri giorni. Il 1990 è l’anno che vede scoccare la scintilla tra Kurt Cobain, celebrato leader dei Nirvana, e Courtney Love, cantante delle Hole. Nel febbraio ’92 i due si sposano alle Hawaii e, nello stesso anno, nasce la figlia Frances Bean. Ma le cronache rosa del rock sono state occupate anche dalle vicende sentimentali di Beyoncé e Jay-Z, coppia re Mida del pop. Fino alla mantide Taylor Swift, protagonista di una breve ma intensa storia d’amore con l’ex One Direction Harry Styles. Menzione speciale per la relazione tra Justin Timberlake e Britney Spears. Sono cresciuti insieme tra depressioni e disturbi ossessivo-compulsivi. Ma dalla sofferenza per la fine del loro amore nacque «Cry me a river», forse il successo più grande della carriera di Timberlake. Ma anche l’Italia ha i suoi capitoli. Chi non ha sognato almeno una volta nella vita con l’intenso amore tra Gino Paoli e Ornella Vanoni? La mente vola anche alla relazione tra Giorgia e Alex Baroni che morì in un incidente stradale solo pochi mesi dopo la fine della loro storia. Fino al presente col rapporto speciale che ha legato, fino a poco tempo fa, Elodie e Marracash. Fiumi d’amore e gelosie che continuano a scorrere sotto i ponti del rock.
Estratto da leggo.it l'8 giugno 2023.
Damiano David e Giorgia Soleri si sono lasciati. Ad ammetterlo è il cantante dei Maneskin, dopo l'uscita di un video che lo ritrae in discoteca in atteggiamenti intimi con un'altra ragazza. Il frontman della band romana è stato beccato in un lungo e appassionato bacio con una bionda sconosciuta. Sui social il video è subito diventato virale, tanto che i fan hanno subito gridato al tradimento. Così Damiano ha fatto chiarezza.
«Sono molto dispiaciuto sia uscito questo video, non era come volevamo gestire la situazione ed è stato un mio errore. lo e Giorgia abbiamo deciso di lasciarci da ormai qualche giorno quindi non ci sono stati tradimenti di nessun tipo. Spero questa cosa non infici sull'immagine di Giorgia e che possiate rispettare la delicatezza di questo momento», ha scritto Damiano David in una storia su Instagram. [...]
Il gentil Damiano. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.
Il cantante dei Måneskin è stato ripreso in discoteca mentre bacia una ragazza che non è la sua fidanzata storica, e fin qui siamo nel vasto territorio del chissenefrega (per quanto un’anima gossippara sonnecchi anche dentro il più austero dei lettori). Successivamente il suddetto Måneskin ha scritto sui social un breve testo che mi ha colpito per la sua tenerezza, forse perché arriva in coda a una settimana trascorsa ad analizzare parole e opere di maschi violenti e insensibili.
Damiano si confessa rammaricato per l’accaduto e se ne assume pienamente la responsabilità; dice che con la sua fidanzata si erano lasciati già da qualche tempo, ma che non avendo ancora reso pubblica la notizia, quelle immagini potevano legittimamente far pensare a un tradimento e nuocere non tanto a lui, quanto alla sua ex. Nel momento del presunto scandalo, Damiano ha pensato prima a lei che a sé stesso e questa rimane la migliore definizione dell’amore: persino quando il castello dell’eros è franato, ne rimangono in piedi le fondamenta, a cominciare dal rispetto. Basta paragonare la reazione di Damiano a quella becera ed egocentrica di tanti vip scoppiati negli ultimi tempi per avere l’identikit di un ragazzo che conosce i rudimenti dell’educazione sentimentale. In mezzo ai pessimi esempi offerti dalla cronaca, bianca e nera, tocca a un giovane rocker ergersi a modello di sensibilità maschile. D’altronde oggi la vera trasgressione è essere gentili.
Poliamore, attivismo, gelosia. Così Giorgia Soleri fa "outing" sull'addio a Damiano. L'ex fidanzata di Damiano dei Maneskin ha risposto alle domande dei fan sulla fine della loro relazione: dalla gelosia alla relazione aperta fino ai giudizi. Novella Toloni il 26 Giugno 2023 su Il Giornale.
Sono passate due settimane appena dalla fine della relazione tra Damiano David e Giorgia Soleri, ma tante sono le cose successe. Dalla rivelazione sulla frequentazione segreta dell'attivista milanese in tempi non sospetti al flirt con l'attrice hard del leader dei Maneskin, fino all'app di incontri alla quale si è iscritta la Soleri per voltare pagina. Solo oggi, però, la 27enne ha deciso di dare qualche risposta alle tante domande dei fan su una relazione - quella con Damiano - che era lontana anni luce dalla classica storia tra due ventenni.
Giorgia Soleri e Damiano David sono stati insieme dal 2017 al 2023 ma mai - nei sei anni di storia - la coppia aveva parlato di relazione poliamorosa. Invece il cantante e l'attivista erano aperti a nuove relazioni con l'unico vincolo della riservatezza. Lo hanno ammesso entrambi dopo il caso scoppiato in seguito alla pubblicazione delle foto di Damiano con Martina. Così, i fan si sono a lungo interrogati sulla scelta fatta dalla coppia di tenere nascosta la cosa visto che i due si dichiarano liberi da cliché e pregiudizi.
Gelosia e giudizi
Nel rispondere alle domande curiose dei suoi follower su Instagram, Giorgia Soleri ha parlato del costante giudizio, del quale si sente vittima ("Mi spaventa e ferisce") e della gelosia all'interno del rapporto avuto con Damiano. E come sempre gli internauti sono stati diretti e decisi. "Come si fa a vivere una relazione aperta? Non si è mai gelosi?", ha chiesto una ragazza e l'influencer ha replicato: "Le non monogamie etiche sono tantissime e tutte diverse, così come le persone all'interno della o delle relazioni. È impossibile rispondere generalizzando, ma in linea di massima: sì, può accadere di provare gelosia. La domanda è: come scegliamo di comportarci in seguito". Come lei abbia scelto di reagire (dopo la paparazzata del bacio tra Damiano e Martina) appare ovvio, ma i fan si sono spinti oltre con le loro domande.
La strana versione sul poliamore
Così il quesito di un'altra fan è stato ancora più diretto e pungente: "Come mai qui non avevi mai parlato né fatto attivismo sulla questione poliamore etc.?". E l'influencer ha chiosato: "Perché non ci sentivamo pronti a condividere questa cosa". Ma la timidezza e la riservatezza stonano non poco con i due personaggi che, in realtà, fino a oggi si sono sempre mostrati disinibiti sui social. Ma soprattutto scozza con la definizione di "non monogamie etiche" fornita dalla Soleri nella risposta precedente, cioè una relazione di coppia che non prevede esclusività ma che si basa sulla libertà e il rispetto reciproco. Se c'era rispetto e libertà consensuale perché vergognarsi di dirlo almeno alla propria fanbase, che avrebbe compreso e apprezzato l'onestà? Nessuna risposta è arrivata a questa domanda.
Estratto dell’articolo di Valentina Lupia per repubblica.it il 9 giugno 2023.
Video inequivocabili, commenti romantici, like, frasi ammiccanti, ora spunta anche una foto. La rottura tra l'attivista Giorgia Soleri (che ha affidato il suo pensiero a Instagram) e il frontman dei Maneskin Damiano David, che si è subito rifugiato tra le braccia della modella (e amica fedelissima della bassista Victoria De Angelis e del chitarrista Thomas Raggi) Martina Taglienti è lo scoop più caldo del momento. E i fan, che temono un tradimento da parte del cantante, vogliono saperne di più. Così spulciano vecchie foto e vanno a ritroso in cerca di indizi.
Ieri è arrivata la prova di un rapporto pregresso tra il frontman e la modella, ex studentessa del liceo Virgilio a Roma: lei era nel video di Recovery, canzone estratta dal primo album pubblicato subito dopo l'esperienza a X Factor, nel 2017. Sotto ai post di sei anni fa, quando Martina aveva appena 16 anni, i due scherzano: "Posso dire che sei la mia fidanzata?", commenta lui. Lei risponde: "Non è professionale, non diciamolo in giro". Sotto un altro, a caratteri cubitali, lui le grida un "ti amo". Per chi segue la band si tratta di un flirt che poi, per qualche ragione, non è sbocciato in una vera e propria relazione.
Oggi, però, spunta anche una foto. E ritrae Taglienti e Soleri l'una accanto all'altra, dietro le quinte del concerto dei Maneskin alla Vitrifrigo Arena di Pesaro. Hanno entrambe il cellulare, come si vede nello scatto pubblicato dalla pagina "Giorgia Soleri Official Fanclub" il 24 febbraio. L'immagine, secondo i fans, rafforzerebbe anche la teoria secondo la quale tra l'attivista e il cantante il rapporto fosse chiuso ormai da tempo. "Era solo una questione d'immagine […]
Estratto dell'articolo di leggo.it il 9 giugno 2023. Damiano David, Martina Taglienti, Giorgia Soleri e Victoria De Angelis. Tradotto: amori finiti, baci rubati e amicizie spezzate. […]
Nelle ultime ore, Fabrizio Corona, sul suo canale Telegram ha espresso delle pesanti insinuazioni sulla coppia e su Giorgia Soleri. […]
«Come ho già detto in passato, la coppia Damiano e Giorgia Soleri è sempre stata una messa in scena - ha sottolineato Fabrizio Corona - Una coppia improponibile dal punto di vista estetico e ideologico. La star del Rock 'n' Roll con la femminista, radical chic, tutto pane, parole e lezioncine ideologiche di ipocrisia».
Poi, ha aggiunto: «Siamo rimasti sgomenti alla foto di lui con l'accappatoio quando posava coperto da emoji più grande del dovuto. Ciò che però mi fa più sgomento è il senso di colpa e il potere di questa donna su di lui dopo questo video, e lui che mente con un comunicato stampa, cercando di mettere delle pezze».
Fabrizio Corona non ha peli sulla lingua e spiega che la storia tra Damiano David e Martina Taglienti dura da anni. «Vi racconto come stanno i fatti, con un commento ricevuto su un suo post Instagram da Damiano dei Maneskin con la scritta "Posso dire la mia fidanzata?" risalente al 2017».
Quindi, ha concluso: «Praticamente la cosa dura da 6 anni. Il problema? Un conto è farlo da 6 anni e un conto è farsi riprendere, scoprirlo e giustificarsi con colei la quale avevi istituzionalizzato come fidanzata politicamente corretta da mostrare a questo finto mondo»
Dal profilo Instagram di Giorgia Soleri il 9 giugno 2023.
Trovo che poter vivere la propria sessualità in modo libero, consensuale e completo sia bellissimo e arricchente per sé e per tutte le persone che, in modi diversi, si rapportano a noi. Non considero l'esclusività un valore (al contrario lo è l'inclusività) motivo per cui la relazione tra me e Damiano era, di comune accordo e in modo del tutto consensuale, non monogama.
Mi rendo conto che per alcuni può essere complesso da comprendere, ma il fatto che ci sia stato qualsiasi tipo di interazione con altre persone non è il fulcro del problema. Non lo era prima, per nessuno dei due, non vedo come potrebbe esserlo ora.
Per tutelarci però in questo momento delicato fatto di enormi cambiamenti, avevo esplicitamente chiesto di avere un po' di discrezione nelle nostre vite pubbliche, almeno fino al giorno in cui (per evitare articoli su articoli di supposizioni e insinuazioni) avremmo comunicato di non essere più una coppia, cosa che doveva succedere oggi.
Non è andata così, e il problema nasce da questo. Ma per quanto io sia arrabbiata, ferita e delusa non posso non considerare la nostra natura umana, fatta di tentativi ed errori. Avrebbe potuto evitare Damiano? Probabilmente sì. Come io avrei potuto evitare altri errori nel corso di questi 6 bellissimi anni insieme.
Siamo umani, fragili, vulnerabili. Sbagliamo, inciampiamo, cadiamo e ci rialziamo. Le nostre relazioni sono universi infiniti e complessi, e giudicarli dall'esterno è impossibile.
Mi dispiace vedere come per tanti sia invece incredibilmente facile e veloce, quando a viverlo sono persone sotto i riflettori.
Non siamo cartonati, ma carne ed ossa, sentimenti e paure. Soffriamo e ridiamo come chiunque. Vi chiedo solo di aver rispetto di noi come persone e di questo amore che è stato fortissimo, intenso e profondo.
Giorgia
Estratto da vogue.it l'8 giugno 2023.
Ha sopracciglia naturali, dritte, che le conferiscono allo sguardo una certa charme decisa. Qualche neo e, soprattutto, lunghi capelli biondi - a onde - che creano un puzzle di reference: un po' anni 70 a Woodstock, un po' bellezza naturale primi anni 90.
Martina Taglienti, classe 2001 (è nata il 22 gennaio) è una delle modelle da tenere d'occhio in questo momento. E infatti già molti brand l'hanno scelta per le loro campagne. Non c'è dubbio che Martina abbia le caratteristiche per rientrare a pieno titolo in quella “estetica vaniglia” che di solito fa il paio con “una ragazza che emana eleganza… la cui semplicità è il suo punto di forza. […]
Abbiamo fatto già riferimento a Woodstock, a un certo tipo di vibe e di suggestione. Ebbene, non lo abbiamo fatto a caso. Martina infatti è parte integrante della crew dei Måneskin e, nello specifico, bff di Victoria De Angelis e Thomas Raggi.
L'ultimo photo dump della bassista infatti racconta di una mini vacanza a Ibiza con Martina Taglienti (appunto) e un'altra modella di cui potremmo sentir presto parlare: Luna Passos che, fra gli altri, ha anche già sfilato per Saint Laurent e Givenchy.
Estratto dell’articolo di Silvia Bombino per vanityfair.it l'8 giugno 2023.
Limonare in discoteca: a chi non è capitato? Di solito succedeva ai calciatori in libera uscita, adesso è il turno di Damiano David, il cantante dei Maneskin che, beccato a baciarsi - molto a lungo - con una ragazza (pare, tale Martina Taglienti, modella, 22 anni, amica di Victoria De Angelis, bassista della band).
Lui è in tour con il gruppo, lontano dalla storica fidanzata Giorgia Soleri (con cui sta da nove anni), e il video che inizia a circolare sui social lo inchioda: «ha tradito». Che fare? Damiano sceglie di vuotare il sacco, e scrive in una storia: «Io e Giorgia abbiamo deciso di lasciarci da ormai qualche giorno quindi non ci sono stati tradimenti di nessun tipo».
Se l'espressione «ormai da qualche giorno» vi ha lasciato perplessi, e vi aspettavate qualcosa come «da qualche settimana», o «da qualche mese», sappiate che… Lo abbiamo pensato tutti. Perché diciamolo: «ormai» e «qualche giorno» sono un po' un ossimoro. […]
4 settimane fa
Dopo il post di Giorgia Soleri a Ibiza, e il famoso quote «il riposo è un atto politico», dove anche Damiano aveva commentato, tra mille critiche dei follower: «Bonaa», la ragazza ha pubblicato uno scatto in cui bacia platealmente sul palco Damiano, scrivendo «Ogni giorno di più».
Lui, anche stavolta, commenta ironico: «Oh ma quello è un altro, io so' pelato», riferendosi al fatto che nello scatto ha una lunga chioma mentre ora è rasato (e biondo). Pista 1: lei postava foto del passato per marcare il territorio. Pista 2: lui voleva farlo sapere.
3 settimane fa
Su Repubblica c'è il pezzo: «Damiano e l'accappatoio aperto davanti a Giorgia Soleri: “Dopo tutti questi anni”. Ecco perché è la coppia più amata». L'articolo spiega che il post, una foto in bianco e nero in cui lui, di spalle, apre l'accappatoio davanti alla fidanzata sorpresa, ha raccolto quasi un milione di like e oltre duemila commenti in poche ore. Pista 1: lei è rimasta delusa da quello che ha visto. Pista 2: la cosa è sfuggita di mano, e lui ha replicato lo scherzo con altre.
1 settimana fa
Leggiamo sul Mattino: Giorgia Soleri e Damiano David, lei parla con i follower e lui la riprende: «Devi farlo proprio adesso?». L'articolo spiega che Giorgia Soleri ha pubblicato una storia in cui i due sono in auto insieme, lei chiede ai suoi follower consigli sul taglio da fare dal parrucchiere, lui sbotta: «Devi proprio fare una storia mentre faccio manovra?».
Insomma «I due fidanzati hanno deciso di godersi una giornata da fidanzati “normali” e quindi Giorgia si è fatta accompagnare dal parrucchiere dal suo Damiano che, però, sembra non aver gradito il fatto che lei stesse facendo una storia Instagram», dice l'articolo.
Pista 1: lei sta andando a tagliarsi i capelli o rinnovare il look, cambiamento in corso. Pista 2: a lui non è piaciuto il nuovo look. Pista 3: piccoli screzi, si è aperta una voragine.
Selvaggia Lucarelli attacca i Måneskin: «Cresciuti come oche destinate al foie gras». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 28 gennaio 2023.
«Cosa è rimasto di sincero nei Maneskin?». È la domanda con cui Selvaggia Lucarelli, 48 anni, esordisce nell'ultimo episodio del suo podcast, «Il Sottosopra». Dopo essersi espressa contro il «matrimonio» della band (in cui Damiano David, Victoria De Angelis, Ethan Torchio e Thomas Raggi, i quattro componenti del gruppo, si sono giurati eterna fedeltà), definito una «cafonata», la giornalista ora è tornata a commentare la loro arrampicata verso il successo con un'analisi più approfondita.
Visualizza questo post su Instagram
«La sensazione — sostiene Lucarelli — è che siano cresciuti troppo in fretta. Una crescita così veloce come quella delle oche destinate al foie gras. Non più liberi di mangiare quello che vogliono, ma ingozzati in modo artificiale dal sistema per finire sulle nostre tavole». Il trionfo all'Eurovision, trampolino di lancio di Damiano e compagni verso la notorietà al di fuori dei confini domestici, ha cambiato radicalmente la vita della band. A partire dall'addio nel 2021 a Marta Donà, storica manager del gruppo, con l'intento di «internazionalizzare» la band, iniziando così a ottenere il vero successo, diventato in un lampo, mondiale. Secondo quanto riferisce Lucarelli nel suo podcast, la loro musica ora passa in secondo piano: «L’asticella del troppo si è alzata sempre di più. Le lingue,
Sotto la lente critica di Lucarelli sono finiti anche i rumors sulle presunte tensioni tra il frontman Damiano David e la bassista Victoria De Angelis. Pare, infatti, che tra i due ci sia un allontanamento che i fan avevano individuato da tempo: « L’dà più concretezza all’indiscrezione che racconta lo scarso feeling tra Victoria e la fidanzata di lui Giorgia Soleri. Indiscrezione presente in molti articoli mai smentiti dai protagonisti. Esistono foto di Berlusconi in compagnia di qualche comunista, ma non esiste una foto di Victoria con Giorgia Soleri insieme, quindi qualche cosa vorrà dire».
Estratto dell’articolo di Valentina Lupia per repubblica.it l'8 giugno 2023.
I paparazzi le hanno immortalate in barca a Formentera, mentre si scambiavano tenerezze. Una è Victoria De Angelis, la bassista dei Måneskin, che non ha mai fatto mistero di essere bisessuale. L'altra è Luna Passos.
Non una storiella, probabilmente, visto che la stessa bassista è sempre stata piuttosto discreta sulla propria vita privata. Ma questa volta ha pubblicato su Instagram diverse foto con lei, e gli amici in vacanza in Spagna. Tra barche, aperitivi, relax alla fine del tour. Ustioni, linguacce, bellezza.
Luna Passos è una modella professionista. Alta 1.75 centimetri, castana chiara con occhi scuri, ha partecipato a sfilate - ha calcato le passerelle anche per presentare capi di Yves Saint Laurent o Ginvenchy - ed è comparsa in importanti servizi fotografici finiti su riviste di moda e lifestyle.
È nata a Rio de Janeiro, in Brasile, ma ha origini anche olandesi. Lavora in tutto il mondo. Tra le sue passioni, la danza, la pole dance, l'hula hoop, l'arte, l'uncinetto, la realizzazione di accessori di moda, le fotografie. […]
Estratto da leggo.it il 9 marzo 2023.
Giorgia Soleri è una delle concorrenti della nuova edizione di “Pechino Express“. In una recente intervista, la fidanzata di Damiano David, frontman dei Maneskin, ha raccontato che durante le riprese del programma ha dovuto fare i conti con il suo malessere (soffre di vulvodinia e ha subito un intervento per l’endometriosi nel 2021).
Un dolore fisico che l'influencer ha voluto mettere da parte per non perdersi un'opportunità come quella del noto show di Sky Uno. Dopo le sue dichiarazioni non è tardata ad arrivare la frecciatina di Selvaggia Lucarelli. Ma andiamo con ordine. […]
Selvaggia Lucarelli, a tal proposito, ha pubblicato sulle sue storie Instagram un commento pungente sulle dichiarazioni di Giorgia Soleri. La giornalista ha scritto: «Quindi il dolore che la costringeva a letto per settimane e non le permetteva di pianificare nulla (parole sue), ora non è più invalidante ma è diventato gestibile, a seconda delle occasioni a cui non può rinunciare (Pechino Express)». Poi continua: «Siamo tutti felici per lei, dai, una buona notizia! Il cinema è passivo, l'invalidità dinamica, del resto».
Una chiara frecciatina alla polemica che si era scatenata alcuni mesi fa dopo le dichiarazioni di Giorgia Soleri sul cinema: «Il cinema è un linguaggio noioso», aveva detto. Ma poi aveva sfilato sul red carpet di Venezia, creando caos sui social.
Polemiche per il post pubblicato su Instagram. Giorgia Soleri scrive: “Il riposo è un atto politico”. Sui social è bufera. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2023
“Il riposo è un atto politico“: è l’ultima uscita della popolarissima Giorgia Soleri, scrittrice, influencer, modella, nota anche per la relazione con il leader dei Maneskin, Damiano David. Ad indispettire gli utenti dei social, infatti, è la scelta della didascalia utilizzata dall’influencer a commento delle foto della sua vacanza a Ibiza.
Mare, sole, spiagge, frutta fresca, Giorgia come sempre strepitosa in bikini: e poi il manifesto politico della Soleri, sul tema vacanze. Ecco cosa scrive Giorgia:
“In una società che ritiene la performance, l’iperproduttività e il sacrificio dei propri desideri per aderire a standard inumani dei valori da sfoggiare, il riposo è un atto politico. Ancor di più quando a praticarlo sono corpi non conformi, disabili, queer. Il privilegio necessario a potersi permettere di provare a vivere, anche solo ogni tanto, seguendo i ritmi di cui il proprio sé ha bisogno, continua ad essere un’ingiustizia che dovremmo combattere. Per un mondo più a misura di essere umano. Mi porto a casa questo, dai giorni passati a Ibiza, grazie a @cibosupersonico, @lapelvica e tutte le incredibili donne che mi hanno accompagnata. Ma anche molto altro: comunitá, amore, condivisione, rispetto, cura, compassione. Spero di saper far tesoro di questa esperienza così potente e intensa e di poterla metabolizzare, elaborare, interiorizzare e riversare nel mondo a mia volta. Abbiamo un disperato bisogno di bellezza (nella sua accezione più ampia) e del tempo per imparare nuovamente a coglierla e coltivarla”.
Quanto basta a scatenare la reazione degli utenti social, che fanno notare a Giorgia Soleri come, per tanti, una vacanza a Ibiza è un sogno irrealizzabile, a fronte dei bassi salari e degli alti costi specialmente relativi agli alloggi. C’è, insomma, chi le fa notare quanto si sia dimostrata distante dalla realtà utilizzando queste parole.
E, tuttavia, c’è anche chi la sostiene: si tratta proprio di Damiano dei Maneskin che commenta il post con uno scherzoso e romanesco “Bonaaa!”, cui Giorgia Soleri risponde stando allo scherzo: “Io, Ibiza o entrambe?”. Insomma, in attesa della prossima polemica social – inevitabile quando si tratta di lei – Giorgia si gode la vacanza mantenendo il buonumore.
Divinizzati da Sanremo, ma i Maneskin mandano l’Italia a quel paese. Dalle pagine di un quotidiano inglese, Victoria dei Maneskin ha criticato l'Italia con sprezzo. Nel frattempo gli Usa stroncano la band. Francesca Galici il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.
I Maneskin a Sanremo. Ancora. Per il terzo anno consecutivo, Amadeus ha deciso di invitare sul palco del teatro Ariston la band romana. Un bel regalo da parte della Rai ai Maneskin, in promozione con il nuovo album, stroncato da molta stampa americana. La luna di miele oltreoceano del gruppo capitanato da Damiano David, infatti, sembra essere già finita e mentre l'Italia continua a incensare i ragazzetti che prima di guadagnare i milioni suonavano in via del Corso, in America la prestigiosa rivista The Atlantic ha stroncato il nuovo album con un editoriale dal titolo "Questa è la rock band che dovrebbe salvare il Rock and Roll?", firmato da Spencer Kornhaber.
"Chi ha pagato?". Bufera in Campidoglio per la scorta ai Maneskin
Ma al di là delle critiche americane, secondo le quali i Maneskin sarebbero imitazioni di band del passato, che fanno una musica "mediocre" e le cui esibizioni sono "flosce" oltre che un "timido tentativo di scioccare e provocare fastidio", la loro onnipresenza inizia a essere vissuta come un qualcosa di troppo. Tralasciando anche le critiche mosse ai Maneskin da Uto Ughi, che ha stroncato in modo tranchant la musica della band, quanto scritto da The Atlantic è opinione comune tra quanti si sono stancati di vedere come, qualunque iniziativa di questa band, venga irrimediabilmente esaltata su una quantità abnorme di media, tra tv e giornali, per non parlare poi del web.
Le nozze-spot dei Maneskin col cattivo gusto
Il matrimonio farsa celebrato a Roma è stato trattato da alcuni media come l'evento dell'anno ma solo una voce fuori dal coro si è chiesta come sia stato possibile fornire al gruppo la scorta di polizia locale in moto, quando nella Capitale non si riesce spesso ad avere una pattuglia nemmeno per un incidente, perché il corpo è sotto organico. E in mancanza di agenti da dispiegare in città per la tutela della sicurezza, il Campidoglio è riuscito a trovarne un gruppo per dare una scorta serale al giretto in Cadillac dei Maneskin al Colosseo. Sono anche queste cose a rendere i Maneskin poco simpatici alla gente comune, che si sente considerata di serie B davanti a situazioni come questa.
Però i Maneskin sono fighi, quindi è tutto ok e nessuno dice nulla. E viene percepita come una stonatura anche l'affermazione di Amadeus, secondo il quale "Sanremo è fortemente legato a loro" e "Sanremo ha una marcia in più quando ci sono i Maneskin". Dire che un evento nazionalpopolare che premia la musica italiana e che esiste da 73 anni sia "fortemente legato" a una band esplosa 3 anni fa, che canta prevalentemente in inglese, appare quanto meno una forzatura. Certo, Amadeus sembra sia oltremodo orgoglioso del fatto che il gruppo abbia preso lo slancio nell'anno in cui ha partecipato e vinto un suo Festival. Ma dire che lo stesso ha una marcia in più quando ci sono loro va quasi a sminuire tutti gli altri, compresi dei certi tizi, che si chiamano Black Eyed Peas e che saranno sul palco il giorno prima, o altri signori che rispondono al nome di Al Bano, Gianni Morandi e Massimo Ranieri, che hanno letteralmente scritto la storia del festival di Sanremo e della musica italiana.
Sono tutti piccoli elementi che non contribuiscono all'operazione simpatia dei Maneskin tra le persone comuni, quel nazionalpopolare che ha fatto l'Italia. E, sicuramente, nemmeno la strafottenza, probabilmente dettata anche dalla giovane età, della chitarrista del gruppo non è d'aiuto. Perché criticare l'Italia, il Paese che ti porta in palmo di mano e che ti ha dato i natali, dalle pagine di un giornale inglese, poco prima di salire sul più importante palco italiano, è scorretto. Senza se e senza ma. "L'Italia è un Paese molto conservatore e sono intimiditi dal fatto che qualcuno possa truccarsi o indossare tacchi alti o apparire seminudo o non essere etero. Ma fanculo loro", ha detto Victoria. L'Italia ringrazia.
Estratto dell'articolo di Marco Leardi per ilgiornale.it il 25 Gennaio 2023.
L'assolo rock di Giuseppe Cruciani ha surclassato quello di Victoria dei Maneskin. E pensare che la bassista della popolare band ce l'aveva messa tutta per far risuonare la propria polemica contro il nostro Paese. "L'Italia è un Paese molto conservatore e sono intimiditi dal fatto che qualcuno possa truccarsi o indossare tacchi alti o apparire seminudo o non essere etero. Ma fanculo loro", aveva dichiarato la ragazza in un'intervista al Guardian. […]
"[…] Non è vero, è tutto falso! L'Italia non è un Paese conservatore, l'Italia non è intimidita dal fatto che qualcuno possa truccarsi. È pieno di fr*ci dappertutto, dalla mattina alla sera in tutte le televisioni, ma lo dico con gioia e partecipazione! È pieno di omosessuali, transessuali, gente che si trucca...", ha commentato Cruciani, smentendo la bassista con la sua abituale vena provocatoria. E ancora, alzando i toni dell'invettiva, il giornalista ha ribadito: "L'Italia non è un Paese bigotto, conservatore. Nessuno è intimidito dal fatto che c'è gente che appare nuda, nessuno!". […] “
“Se poi, da quel che leggo, lei pensa che l'Italia debba andare a fanculo, la porta è quella! Prenda la cittadinanza della Guyana, del Belize. Ci sono mille possibilità, lei è una persona ricca. Si tolga la cittadinanza italiana" […]
Estratto da corriere.it il 22 gennaio 2023.
Per il prestigioso «The Guardian» […[ i Måneskin «rappresentano una versione molto moderna del mito del rock’n’roll». […]
[…] La cosa che fa «ancora arrabbiare» il frontman del gruppo, Damiano David, è l’accusa di aver «pippato» cocaina a Eurovision 2021. Dopo l’esibizione della band di fronte a un pubblico globale di 183 milioni (il brano era «Zitti e buoni»), erano circolate le riprese di David che sembrava sniffare qualcosa da un tavolo.
Le immagini erano diventate rapidamente virali, con Emmanuel Macron che chiedeva la squalifica della band (la Francia, al secondo posto, sarebbe diventata prima). Alla fine David si era offerto di sottoporsi a un test antidroga, che lo aveva scagionato da ogni illecito.
«Sono ancora arrabbiato per questo, in realtà — ha dichiarato David al «The Guardian» —. Penso che sia stupido offuscare la vittoria all’Eurovision. La gente pensa che ci comportiamo come i Sex Pistols o i Mötley Crüe, ma non siamo niente del genere — ha continuato David —. Siamo più consapevoli dei rischi delle droghe e su come influenzano il tuo corpo. Non bevo nemmeno più alcolici». «All’epoca eravamo molto arrabbiati per questo, ora non ce ne frega un ca**o», ha chiarito invece De Angelis con la solita schiettezza.
Naturalmente non si poteva non parlare del look. Victoria ha spiegato al quotidiano britannico come «sin da ragazzini ci consideravano dei freaks perché ci truccavamo. L’Italia è un Paese molto conservatore e le persone sono intimidite dal trucco, dai tacchi alti o dall’apparire mezzo nudo o non eterosessuale. Si fo*tessero!». Una mezza censura è capitata però anche in America, agli Mtv Awards dello scorso agosto, quando i Måneskin si sono esibiti vestiti di pelle e in atteggiamenti molto provocatori, tanto che si era visto anche un capezzolo della bassista .
[…] «Siamo troppo hot per la tv americana — ha commentato Victoria —, ma è tutto così sciocco: vogliono apparire liberal e poi si spaventano per un paio di capezzoli. Anche gli uomini li hanno e a loro non dicono niente. Ecco la differenza su come vengono percepiti uomo e donna, e come vengono sessualizzati i nostri corpi». Damiano concorda: «È proprio così: ancora ci sono standard diversi tra uomo e donna. Io quella sera avevo il sedere di fuori e nessuno mi ha detto niente…».
Scapestrati senza limiti. L’epoca in cui le rock band le escogitavano tutte, ma proprio tutte, pur di lasciare il segno. Tom Beaujour e Richard Bienstock su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.
In “Nothin’ But a Good Time” (Il Castello) Tom Beaujour e Richard Bienstock ricordano di quando, alla fine degli anni Settanta, il mainstream guardava più al punk e alla new wave, così i frontman più svalvolati sul palco facevano follie per regalare ai fan serate indimenticabili
Sin dagli albori, l’hard rock è sempre riuscito a mantenere, nel tempo, uno zoccolo duro di sostenitori irriducibili, anche quando il mainstream si era sintonizzato altrove. Proprio sul finire degli anni ‘70, periodo in cui parte la nostra storia, si verificò uno dei classici crolli di popolarità del genere.
Mentre le nuove leve continuavano a riempire i piccoli club anche quando band come Kiss e Black Sabbath passavano in città, la stragrande maggioranza dei fruitori di musica era più interessata a gruppi new wave quali The Knack, Go-Go’s, The Cars, i Police, e anche Elvis Costello e The Attractions, band che non disdegnavano l’uso di sintetizzatori, le cui chitarre non erano per forza eroiche, e in più i loro riff spigolosi, sfoggiati con condimento di capelli corti e appuntiti, dovevano molto di più al punk e alla moda mod che ai bellimbusti con i jeans a vita bassa e a zampa di elefante, come Led Zeppelin o Thin Lizzy.
“L’industria aveva le antenne puntate sulla scene locali di new wave e punk”, ricorda Rudy Sarzo, allora bassista in una delle band “da dinosauri” chiamata Quiet Riot in quel di Los Angeles. Per musicisti come Sarzo l’ascesa dei Van Halen fu una grande forma d’ispirazione, che li lasciava però anche spiazzati, per non dire confusi: un gruppo hard rock di Pasadena formato da quattro elementi, le cui elettrizzanti esibizioni dal vivo, il sorprendente frontman biondo lungocrinito e quel prodigio unico nel suo genere alla chitarra, erano una forza della natura così innegabile d’arrivare a trascendere i pregiudizi e le tendenze di settore, riuscendo a guadagnarsi perfino un contratto discografico con la Warner Bros. Records.
Il successo del gruppo, tuttavia, non accese nell’immediato la miccia, non si trascinò dietro da subito una scia di artisti nella stessa corrente stilistica. “Nessuno sembrava essere interessato anche a tutte le altre band”, ricorda il batterista dei Dokken “Wild” Mick Brown, all’epoca picchiatore di pelli in un gruppo del Sunset Strip chiamato The Boyz. “Lì per lì pensai fosse davvero strano, della serie: ‘Non è plausibile che le case discografiche si mettano subito a caccia, tipo, di altri nove Van Halen?’”.
Niente da fare. Senza lasciarsi condizionare dall’indifferenza delle major, molti giovani gruppi come Mötley Crüe e Ratt (agli esordi Mickey Ratt) adottarono un approccio fai-da-te-o-la-va-o-la-spacca, autofinanziandosi le registrazioni e investendo le proprie risorse per mettere in scena concerti esagerati, tanto appariscenti quanto azzardati.
Una bella lotta tra Nikki Sixx dei Mötley Crüe – che si spalmava i pantaloni di pelle con il gel infiammabile dandosi poi fuoco – oppure gli scapestrati W.A.S.P. che scagliavano carne cruda sul pubblico a copiose manciate, sparando lingue di fuoco a sfiorare il soffitto del minuscolo club Troubadour! Le band le escogitavano tutte, pur di lasciare il segno e regalare ai fan una notte che ancora oggi non hanno dimenticato.
“Per quei ragazzi, agli esordi era tutta una questione di musica e spettacolo”, afferma Brian Slagel, il fondatore della Metal Blade Records. “Le case discografiche volevano i Duran Duran. Volevano la new wave”, ricorda Alan Niven, che allora lavorava per un importatore e distributore di musica indipendente con sede a Los Angeles, chiamato Greenworld Distribution. “Quindi, se volevi andare un passo oltre, dovevi usare un po’ d’immaginazione. Dovevi far girare le rotelle e osare. Perché quello era l’unico modo che avevi per cominciare a costruirti un seguito”.
Da “Nothin’ But a Good Time”, di Tom Beaujour e Richard Bienstock, Il Castello Editore, 576 pagine, 23,75 euro.
Barbara Costa per Dagospia il 22 gennaio 2023.
Damia’, scansate! Sposta le tue chiappe pelose e i tuoi Måneskin più in là, che qua tu non c’entri: tu e i Måneskin siete ragazzi perbene, non succederà che vi scoprano “sdraiati per terra con le gambe sollevate a tuonare scoregge a raffica incendiandole con l’accendino”, e né sono sicura ad ingoiare vermi vivi durante un concerto, ma nemmeno su un palco a darvi fuoco, a gettar tranci di carne al pubblico, né a vomitare sangue e a sgozzarvi (ma per finta). Voi Måneskin non vendete lo spavento.
Ma a te, Damiano, “pollastrella col caz*o” forse ti ci hanno già chiamato, e per il tuo look, eccentrico sì ma non platino lungocrinito come i metallari anni '80, svitati completi, front-man di band di dischi suonati e venduti a tonnellate, e band che facevano il tutto esaurito (vero!) in arene e stadi, e band le cui gesta son celebrate in "Nothin’ But a Good Time. La Storia Non Censurata dell’Hard Rock Anni '80", bibbia del decennio hair-rock-metal, finalmente uscita in italiano (Il Castello ed.).
Non l’ammetteranno mai ma chi oggi 50/60enne è in prima fila a romper le p*lle ai Måneskin per come suonano, e cantano, e si conciano, era allora in prima fila ad acclamare i pupazzoni Mötley Crüe, Guns N' Roses, Ratt, Poison, Skid Row, e cento altre band al cui confronto i Måneskin sono prototipi da oratorio. E non solo per la fondamentale differenza che Damiano e soci son bravi ragazzi, puliti, mentre queste band eran formate da schizzati “sozzi scappati di casa” strafatti “ca*zutissimamente motivati”, ma per… l’attitudine.
I Måneskin non si puliscono le pudenda con gli elenchi del telefono (anche perché non esistono più), non stanno “a drogarsi e a ubriacarsi come non ci fosse un domani, caz*o!”, e non leccano la loro pipì come Ozzy Osbourne a sfida ai Mötley, e né si fanno fare p*mpini nel tour bus filmando l’exploit in tempo reale con telecamere a circuito interno, e men che meno ti porgono piatti colmi delle loro feci fumanti come ha fatto il batterista Tommy Lee, “ed eccovi serviti!”.
E poi, le donne: odierne 50/60enni, dove state? Che fate? Non vi ricordate? Avete buchi di memoria? O vi vergognate a ripensare voi stesse a quei tempi, super divertenti, quando eravate felici e innamorate perse di tali maschioni glammissimi chitarristoni? E chissà chi di voi ci è riuscita, a “rocks your boys” (a farseli), e solo una volta, una notte, da groupie 'mbriachissima…
Chi tra voi ora mamma e irreprensibile professionista negli '80s si abbigliava a tr*ia e pazza di vita e c-o-n-s-e-n-s-u-a-l-i-s-s-i-m-a si è lasciata andare a orge, se non con i membri delle band con le crews, con i roadies, o con tutti a scalare? Chi tra voi ebbra di gioia si fonava e cotonava i capelli fino al soffitto, si impiastricciava di fard, e correva ai concerti, si sdilinquiva a quelle hit, calamitata, ma ora ha paura a googolare determinate parole per riconoscersi in foto proibite di sc*pate a tre, un pene in bocca e uno nel sesso, e peni uno dietro l’altro, nei backstage, nei motel, con quei “rocchettari fr*cioni” per voi a quell’epoca divini?
Signore belle, datemi retta: se ci tenete alla vostra moralità, non aprite questo libro! Potreste offendervi a morte!!! In quel panorama musicale immensamente maschilista, a cui ogni cosa era concessa – e da voi soprattutto! – sapete come venivate considerate? “Gran m*gnotte”, “grassone e culone”, “straccia mutandine bagnate”, “gallinelle per maialoni assatanati sempre a caz*o duro”, “bagasce dallo spirito mooolto indipendente”, “mucche in calore entusiaste di essere trascinate nel backstage”, e chi era quella che al bancone di un bar da Vince Neil dei Mötley Crüe “si è lasciata sfilare le mutandine per farsi infilare un collo di bottiglia nella f*ga”, come se fosse la più bella esperienza della sua vita?
“Uno spassooooo!”, com’era una f*gata stare nel "DOG POUND", il "canile" dei Mötley Crüe: così stava scritto sulla porta di una stanza “zeppa di ragazze, eccitatissime, e smaniano per essere scelte”. Per far che? “Succhiartelo davanti a tutti!!!”. Tette e c*li nudi in videoclip volgari, e però “nessuna ha una volta espresso disappunto alcuno, né tantomeno sdegno”.
Già. Ma c’è chi lo riconosce: “Se allora fossero girati i dispositivi foto e video presenti, l’intera scena sarebbe finita in gattabuia”. Terremotante. “Fino allo stroppio”. Ma è successo, sai? Non puoi cambiarlo. Purtroppo “non sai mai cos’hai per le mani/finché non l’hai più”, e infatti, a un certo punto, “i fan hanno le p*lle piene di lacca, di cotonature e spandex”, e arriva Kurt Cobain, che tutti 'sti capelloni li spazza via. A cannonate. Liquidati in blocco come nulla fosse. Non c’è pace per i dannati, cari miei. Lo avete capito, e a vostre dure spese: a Kurt Cobain “Call Dirty To Me”, “f*ttuta fighetta del ca*zo”, o “negro rottinc*lo”, non lo dici.
Estratto dell’articolo di Ernesto Assante per “la Repubblica” il 22 gennaio 2023.
[…] Fa “fico”, insomma, insultare i Måneskin, perché ormai si sono venduti l’anima, perché non sono abbastanza rock o, opinione più in voga, non lo sono mai stati, perché sono un prodotto dell’industria, perché non sono abbastanza bravi e via discorrendo. Potrebbe essere tutto vero e, francamente, niente di tutto questo sarebbe un peccato mortale.
Nel mondo del rock ci sono stati artisti maiuscoli che hanno venduto la propria anima senza che diventasse reato, ci sono artisti che abbiamo amato perdutamente che non sono stati abbastanza rock o che non lo sono stati affatto, e ancora oggi le nostre playlist del cuore sono zeppe di prodotti dell’industria, di musica di consumo, di idiozie passeggere o di eterne puttanate. […]
Quindi perché prendersela così con i Måneskin? Proviamo ad azzardare delle ipotesi. Le critiche che vengono dall’estero sono spesso basate su un pregiudizio, per molti anni motivato: il rock è roba americana e inglese, quindi chiunque, europeo o del resto del mondo, che lo pratichi e lo frequenti, è comunque un prodotto di risulta di una cultura angloamericana.
[…] Solo un’errata convinzione “proprietaria” di un linguaggio musicale può far pensare che una band italiana non sia ampiamente legittimata a suonare rock. […] i Maneskin stanno mietendo successi in America, scavalcando decine, centinaia, migliaia di band a stelle e strisce. E qui entra in campo la seconda categoria di critiche, quelle inevitabili, che arrivano da un intero esercito di rosiconi, sia in Italia che all’estero, che sul “perché loro e non io che sono anche più bravo” hanno costruito un’esistenza.
La risposta è semplice: i Måneskin hanno toccato una corda tesa e l’hanno saputa far vibrare, con la loro energia, la loro gioventù, la loro sfacciataggine, la loro magnifica e poderosa presunzione. Altri, magari anche con pedigree migliori, non ci sono riusciti, tutto qui. E non è poco.
Poi ci sono le critiche più “artistiche”, che azzardano paragoni con i migliori artisti italiani e, più coerentemente, con le stelle del rock del bel tempo andato. Bene, diciamolo una volta e per tutte: i Måneskin non sono i Led Zeppelin, e nemmeno i Sex Pistols […] E meno male. Perché i tempi cambiano, la realtà muta, e tutti noi abbiamo bisogno di artisti che vivano il loro tempo alla loro maniera.
[…] I Måneskin sono bravi, sanno fare il loro mestiere molto meglio di tanti altri, sono credibili, potenti, rappresentano un mondo nuovo e lo rappresentano bene, con libertà e passione. Un’ultima cosa va detta sul “matrimonio” andato in scena due giorni fa. […] Politica pop? No, un gesto esemplare […] per dire che ora e qui i Måneskin sono “per sempre”. Un bell’obiettivo per quattro ragazzi, [che] […] suonano a un volume spaventosamente alto, sono belli, allegri, sexy e esagerati, sono italiani, stanno conquistando il mondo, e hanno davanti tutto il futuro che vorranno avere.
Marco Molendini per Dagospia il 22 gennaio 2023.
Confesso: ho letto l'articolo dell'amico Ernesto Assante su Repubblica (ripreso da Dagospia) sui Maneskin e sono perplesso.
Trasformare in vittima di una campagna denigratoria la band più pompata dai tempi di Volare e Modugno mi sembra quantomeno esagerato.
Un modo per rivoltare la frittata: i quattro ragazzi romani sono tutt'altro che vittima di una congiura (per di più internazionale) che vuole colpire la loro sfacciataggine e la loro presunzione.
Mi sembra, piuttosto, che la loro breve storia debba pagare pegno a un formidabile e unanime sostegno mediatico che li ha spinti fino a raggiungere risultati insospettabili (ho la memoria ancora viva di come venne presentata in coro dai media la loro partecipazione come opening act a un concerto degli Stones:
sembrava che Jagger e soci si fossero inchinati al fascino dei Maneskin instaurando una collaborazione, quando sappiamo tutti che ogni concerto dei Rolling prevede una band di supporto senza che ci sia alcun collegamento artistico).
Non ci vedo neppure nulla di male a definirli un prodotto commerciale, perché questa è la realtà.
E non c'è nulla di male a sostenerlo, nella musica rock (e pop) i confini fra industria e rivoluzione si sono spesso intrecciati.
Quanto al paragone con artisti del passato, anche qui farei una piccola riflessione.
Non si tratta di fare raffronti coi Led Zeppelin, ma semplicemente non fare finta che il passato non ci sia stato e che i Maneskin non abbiano avuto l'ardire (ma non sono i soli) di fare alcune fotocopie (anzi meglio dire scannerizzazioni) e riproporle con il supporto di chi è arrivato a parlare di rivoluzione.
Alla coscienza o al gusto musicale di ognuno di noi la libertà di azzardare paragoni artistici.
Quanto al matrimonio inscenato, più che “un gesto esemplare per dire che i Maneskin sono qui per sempre” (i matrimoni indissolubili non appartengono al nostro presente), mi è parsa un'idea al servizio di un disco in uscita (e non c'è nulla di male).
Sanremo 2023, Maneskin al Festival: l'annuncio di Amadeus. Da adnkronos.com il 21 gennaio 2023.
I Maneskin a Sanremo 2023. La band romana sarà al festival nella serata di giovedì 9 febbraio. Lo ha annunciato Amadeus intervenendo con i Maneskin nell'edizione del Tg1 delle 20 oggi. "Non vediamo l'ora, per noi è sempre un onore" salire sul palco dell'Ariston, dicono i Maneskin. "Sanremo ha una marcia in più quando ci sono i Maneskin", dice Amadeus.
I Maneskin tornano per la terza volta consecutiva al Festival, l'evento da cui è partita la loro incredibile ascesa verso il mercato internazionale. Dopo aver vinto l'edizione del 2021 con il brano 'Zitti e buoni' ed aver trionfato con lo stesso brano all'Eurovision 2021, che li ha fatti conoscere al pubblico internazionale, i Maneskin sono tornati all'Ariston lo scorso anno per il tradizionale passaggio di consegne (che Amadeus vorrà quest'anno anche da Mahmood e Blanco vincitori del festival dell'anno scorso).
Nel 2022, oltre a 'Zitti e Buoni', la band romana ha eseguito anche 'Coraline', con un Damiano David commosso fino alle lacrime. Quest'anno è probabile che la band farà ascoltare almeno un brano del nuovo album 'Rush!', uscito proprio oggi.
In America cominciano a stroncare i Måneskin, e per qualcuno era anche ora
Estratto dell’articolo di Patrizio Ruviglioni per esquire.com il 21 gennaio 2023.
Viene da sorridere ad assistere all'attesa quasi messianica che accompagna il lancio mondiale di Rush!, il nuovo album dei Måneskin, primo della loro carriera concepito direttamente per avere una gittata che copra tutto il pianeta, degna del fenomeno globale che sono diventati.
Viene da sorridere perché è un lavoro "rock", per cui seguire la veglia collettiva fatta di campagna promozionale, indizi sparsi su Instagram, un concerto-matrimonio organizzato a Roma e qualche isteria collettiva rigorosamente sui social riporta alla mente gli ultimi due dischi del genere ad aver segnato veramente la nostra cultura pop.
E cioè, la gente in fila nei negozi (in fila nei negozi!) per acquistare Be here now degli Oasis, o il milione di copie vendute nella prima settimana di Whatever people say I am, that's what im not degli Arctic Monkeys. Ma, ehi, quelli erano (rispettivamente) il 1997 e il 2006; questo è il 2023, la storia è un'altra e, appunto, il confronto fa sorridere. Non per altro: la musica e il disco in sé, stavolta, hanno un ruolo molto, molto più marginale.
Pur partendo da altre basi, l'ha fatto presente anche l'Atlantic, che alla vigilia dell'uscita di Rush! ha pubblicato una stroncatura abbastanza netta sul suo valore artistico, ripresa praticamente da tutta la stampa italiana.
S'intitola Questa è la band che dovrebbe salvare il rock & roll? e, a memoria, è la prima che esce negli Stati Uniti, testimone di come anche questa terra promessa, dove si stanno costruendo il loro mito di eredi della tradizione del rock & roll, abbia cominciato a guardarli con scetticismo.
Il critico Spencer Kornhaber, in sostanza, sente puzza di bruciato. Se ai pezzi con cui sono diventati famosi, da Zitti buoni a Beggin, riconosce "l'audacia" e delle atmosfere felicemente "sporche", capaci di anteporre uno spirito pure ribelle a delle melodie orecchiabili, ecco che in Rush! l'incantesimo si rompe.
Le nuove canzoni sono "così chiaramente riciclate" e "mediocri" da far dubitare dell'idea stessa – in voga lì come da noi, evidentemente – che siano loro la band deputata a riportare il rock di moda, per spartirsi l'egemonia culturale con il pop e il rap.
[…] "Più che le influenze classiche della band, come Stooges e MC5, vengono in mente imitazioni come Cold War Kids e Jet", conclude l'Atlantic, ammettendo che "il fascino della band non è per forza nella musica", ma magari la sua natura televisiva, e questo ovviamente sminuisce le ambizioni e lo spessore artistico "dell'industria del rock".
[…] La musica, qui, non è l'unità fondamentale di niente, ma un modo come un altro di veicolare valori e mostrare l'abilità della band di muoversi con il suo stile su più campi. In Rush! insomma la forma, questa forma, è sostanza.
E i Måneskin non sono certo i primi a pensarla così, ma sono probabilmente tra i primi (perlomeno dei nuovi) a farlo su un genere tradizionale come il rock – ed è questo, forse, che fanno rumore.
Gli spunti sono tanti, e riguardano la direzione che sta prendendo il mercato della musica così come la natura del successo della band nel mondo, ma esulano questo discorso.
Uno dice: che succederà se dopo questa stroncatura ne arriveranno altre?
Niente, l'album in questione è perfetto così com'è per raggiungere gli obiettivi prefissati, tra i quali non c'è mai stato salvare il rock.
[…]
Estratto da romatoday.it il 20 Gennaio 2023.
Maneskin lo avevano annunciato giorni fa che il 19 gennaio sarebbe stata una data speciale per loro a Roma. Quella marcia nuziale suonata da una terrazza sul Campidoglio da Thomas aveva incuriosito i fan, poi l'appuntamento: "Roma, 19 gennaio 2023". Un giorno prima l'uscita del nuovo album "Rush".
Così Damiano, Thomas, Ethan e Victoria si sono ritrovati nella serata di giovedì a Palazzo Brancaccio per un matrimonio simbolico, il "matrimonio musicale" targato Spotify. Un altare, quattro panchette. Non mancano fiori, candelabri e due ali di sedie per gli ospiti, separate da un lungo tappeto rosso, tra specchi, stucchi e un imponente lampadario: così i Maneskin hanno scelto di celebrare l'uscita di Rush.
Per l'inusuale cerimonia sono arrivati anche diversi vip, tra cui Baz Luhrmann, Fedez, Manuel Agnelli, Machine Gun Kelly. Hanno presenziato Dybala, Sabrina Impacciatore, Paolo Sorrentino, Fletcher Donohue, Benedetta Porcaroli, Cathy La Torre, Floria Sigismondi.
Tutti e quattro vestiti di bianco: Thomas e Damiano da sposi, Vittoria ed Ethan da spose, tutti con in mano un bouquet di rose rosse che poi hanno lanciato tra gli invitati, come tradizione vuole. Ad officiare la cerimonia è stato l'ex direttore creativo di Gucci Alessandro Michele. Una cerimonia in piena regola, organizzata da Spotify Global per la presentazione dell'album 'Rush!', alla fine della quale gli ospiti hanno tirato ai festeggiati del riso nero. […]
Estratto dell'articolo da lanazione.it il 19 Gennaio 2023.
"I Maneskin sono un'offesa alla cultura e all'arte". Da Siena è durissimo l'attacco di Uto Ughi alla famosissima band romana. Il celebre violinista, 78 anni, in occasione della conferenza stampa per gli appuntamenti del centenario dell'Accademia Musicale Chigiana, ha voluto dire la sua sul successo internazionale della band […]
Dopo aver definito i Maneskin "un'offesa alla cultura e all'arte" il maestro e direttore artistico degli eventi musicali speciali per le celebrazioni dello storico istituto senese ha dichiarato […]: "Non ce l'ho particolarmente con loro (i Maneskin, ndr). Penso che ogni genere abbia diritto di esistere, però quando si fa musica e non quando si urla e basta".
Intanto, tutto il mondo è in attesa del nuovo album dei Maneskin, "Rush!", in uscita domani, venerdì 20 gennaio. […]
Estratto dell’articolo di Alberto Mattioli per “La Stampa” il 20 Gennaio 2023.
Uto Ughi ha ragione. Ma ha anche torto. No, non si tratta di un tentativo di equidistanza veterodemocristiana, ma di una constatazione. Ha ragione perché, per chiunque sia abituato alla musica cosiddetta “classica”, in effetti quella dei Måneskin non può che risultare un po’ elementare, basica, perfino rozza.
Ma questo vale per tutto il pop che del resto, considerato dal compartimento stagno di chi ascolta la “classica”, risulta un mondo di indistinta bruttezza: probabilmente Ughi, e sicuramente chi scrive, non ha nemmeno gli elementi per capire, nel mare magnum della musica di consumo di oggi, di che livello siano Damiano & soci.
Di insulti magari non parlerei, anche perché gli insulti si subiscono e chi ascolta i Måneskin, al netto di tutto il marketing e la pubblicità che pure ci sono e pesano nell’indirizzare gusti e disgusti, lo fa per sua scelta. Senza che abbia molto senso prenderla come un’offesa, men che meno per l’Arte che ne ha viste di tutti i colori. […]
Però dove Ughi ha torto, e sul serio, è nella forma mentis che la sua invettiva esprime. E che diventa significativa perché, purtroppo, è tipica di molti frequentatori della musica “colta”. È l’idea, cioè, di vivere in una specie di torre d’avorio circondata dai barbari, di costituire una ristretta minoranza dotata di gusto, cultura ed educazione assediata da selvaggi che fanno un gran baccano.
Anche se la minoranza, a ben guardare, non è poi così ristretta, l’atteggiamento giusto non però è richiudersi sempre più nella torre e buttare via la chiave, ma provare a uscirne e convincere qualcuno che, dentro la torre, c’è qualcosa che vale la pena di ascoltare. La musica è un grande supermarket dove ognuno mette nel suo carrello quel che vuole.
Il valore dei prodotti non dipende certo dal numero di chi li sceglie. Però sarebbe bene fare lo sforzo di rendere un po’ meno di nicchia quelli di nicchia. Con un po’ più di educazione all’ascolto (e qui Ughi ha ragione da vendere), certo, ma anche con un atteggiamento meno élitario e sì, diciamolo, meno spocchioso. […]
Simona Siri per OGGI il 23 Dicembre 2022.
Quando, alla fine di Mamma Mia, Damiano incomincia a sventolare il tricolore passatogli da un ragazzo in platea, il pubblico non può che stupirsi nel vedere la bandiera italiana sul palco della Hammerstein Ballroom, una sala che ha visto esibirsi campioni di wrestler e rockstar, dai Grateful Dead a Britney Spears, da David Bowie ai Guns N’ Roses. E orgoglio quello che fa vibrare le ossa e la pelle dei molti italiani che vivono e lavorano a New York, ma ridurre il successo americano dei Maneskin solo a una questione patriottica e di nostalgia per la propria patria sarebbe riduttivo oltre che sbagliato.
La band romana piace e entusiasma gli americani tanto quanto gli italiani all’estero, se non di più. Il successo del loro Loud Kids Tour ne e la dimostrazione: tutto esaurito a Manhattan, ma anche a Seattle, San Francisco, Denver, Detroit, Toronto, Montreal, Boston, Phildelphia, Washington DC, Atlanta e Dallas con date aggiunte a San Francisco, Toronto, Philadelphia e New York e con quelle di Miami e Houston spostate in arene più grandi, per soddisfare la fame di biglietti.
Un tour che si e concluso a Las Vegas con i ragazzi che spaccano gli strumenti sul palco (come facevano gli Who negli Anni ‘70 e i Nirvana negli Anni ‘90) provocando polemiche sui social.
Il loro e un successo solido, meritato, duraturo, trasversale. Piacciono ai giovanissimi, ma anche ai meno giovani e alle signore di mezza eta. «Sono qui ad accompagnare la mia amica che li ha scoperti su Mtv», dice Lara del New Jersey: ha 52 anni, la sua amica 48. E no, non sono qui con i figli.
La ragazza con il nastro adesivo sui capezzoli come la bassista Victoria dice invece che e qui con un gruppo di amiche pazze per Damiano, considerato «la rockstar più sexy in circolazione». Harry, presente con la fidanzata Olivia, ma anche Dan, Warren, Alexi: si conoscono dal liceo, amano i Maneskin dopo averli visti al Saturday Night Live. «Non ce li saremo persi per nulla al mondo».
Gia l’anno scorso erano esplosi negli Stati Uniti con le ospitate nei programmi di Ellen DeGeneres e di Jimmy Fallon, e al concerto con i Rolling Stones. Quest’anno si sono superati: alla loro esibizione al Circo Massimo di Roma li hanno applauditi Angelina Jolie e la figlia Shiloh, hanno infiammato il pubblico ai festival rock di Coachella e Lollapalooza, hanno vinto, primi artisti italiani, gli Mtv Video Music Awards. Il Los Angeles Times li ha definiti «la band preferita degli americani».
Un successo che oltre a perseveranza, talento e duro lavoro ha nel mix anche l’elemento “fato”, la capacita di essere al posto giusto nel momento giusto. Esplosi a livello globale con la fine della pandemia, i Maneskin si sono fatti portatori della ritrovata voglia dei giovani di stare insieme e divertirsi. Non solo, in un mondo musicale come quello americano ormai da anni dominato da generi come il rap e il pop, il fatto che loro facciano rock con venature punk li pone in una categoria a se stante, musicalmente e visivamente (anche grazie ai total look Gucci firmati Alessandro Michele).
Negli Stati Uniti lo chiamano «vibe» e quello dei Maneskin e nostalgico senza essere vecchio, e Anni ‘70 pur essendo modernissimo. Ed e, per usare un’altra parola che oggi si usa spesso, fluido come si identificano molti ragazzi oggi, senza etichette, con una sessualità libera e liberata che va oltre le differenze di genere. «E l’unica band in circolazione in cui pensi che ciascuno dei quattro componenti sia andato a letto con gli altri tre», ha scritto su Twitter un giornalista americano, usando toni più coloriti.
Ma anche senza lanciarsi in analisi sociologiche, forse il motivo di cosi tanto successo e dovuto al fatto che ogni generazione ha bisogno di una rock band di riferimento, che non e quella dei genitori o degli zii. Interpreta “l’ora e l’adesso” e non importa quanto derivativa sia - una critica che viene mossa più in Italia che all’estero - o se saccheggi o meno la storia del rock. Come ha urlato Damiano la sera della vittoria all’Eurovison: «Il rock non muore mai».
I Marlene Kuntz.
Godano: «I Marlene Kuntz senza Luca, ognuno farà i conti con se stesso». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 03 Aprile 2023
Cristiano Godano si racconta e racconta la band dopo la scomparsa del batterista Luca Bergia
È quel cielo plumbeo senza pioggia, che scorre sotto un flusso di parole libero, quasi rilassato. Se il cielo piangesse un po’ forse… Ma tutto è fermo. Tutto attende. È passata una settimana. Dalla morte di Luca Bergia, batterista e fondatore dei Marlene Kuntz. È passata una settimana in cui il ritmo della band (dalla quale si era ritirato da qualche tempo) è stato squassato. Luca lo stanno piangendo un po’ tutti, un po’ in ogni dove. Cristiano Godano si è preso un tempo per questa intervista, si è seduto davanti alla Biblioteca Nazionale, «ci vengo a leggere, studiare, scrivere. Mi è congeniale quel silenzio senza distrazioni. Sono stato a Torino a fine febbraio a casa di un amico che era via. Ho lavorato a uno spettacolo con Telmo Pievani. Oggi sto cercando di ritrovare un po’ di sintonia con un romanzo su cui sto lavorando».
Che tipo di romanzo?
«Sta prendendo forma. Sono 4 o 5 anni che decanta. Sono tra la rinuncia e la lotta».
Nella lettera che ha letto al funerale di Bergia (pubblicata su Rolling Stones), lei parla dei chilometri macinati su un van, posture sbagliate che incidono sul corpo, stanchezza. Quanta fatica costa la musica?
«Le ossa non scricchiolano ancora. Però una bici quest’estate me la procurerò. I tour sono tosti. A meno che non diventi uno da jet privato. Ma se, come il 90% dei musicisti del pianeta, macini milioni di chilometri, la fatica è grande. Anche quella mentale. Quando torno, ho bisogno di almeno due giorni di riposo assoluto, sono 30 anni che sul palco esplodo fisicamente. Il tour, se sei un aspirante musicista, è il punto di non ritorno. Se lo passi, significa che hai la tempra per questo mestiere».
È stato all’altezza del suo sogno?
«La mia vita lo è stata. Non mi permettevo neppure di immaginare ciò che siamo riusciti a ottenere. Ho sempre avuto paura che la favola finisse. A chi mi domandava cosa volevo per il futuro ho risposto, per molto tempo: continuare a suonare».
Oggi cosa desidera?
«Non dover applicare troppa resilienza nel fare le cose. Le energie lentamente diminuiscono. Intravedo un gigantesco burnout, la gente non ce la fa più. Spero che la musica si assesti in un luogo dove riuscire a fare le cose in maniera umana».
Lei ci riesce? A parte i Marlene.
«Ho un nome da spendermi, e diversi progetti miei. Non sono pessimista ma pragmatico. Ci sono molte strade, oltre a quella del giudice».
Non le piacerebbe?
«Ricordo De André quando a proposito della tv diceva che per lui era troppo veloce, che aveva bisogno dei suoi tempi per filosofeggiare».
È stato Bergia a corteggiarla e farla entrare nella band. Non voleva?
«In zona c’erano la scena di Cuneo, post punk e new wave anni 80 e quella di Bra, molto più rock americano, blues. Io mi sentivo di appartenere più a quella. Poi abbiamo fatto qualche prova».
Come si sta insieme tutta la vita?
«Fino a pochi giorni fa eravamo in tre, siamo rimasti in due. Luca si era preso una pausa che speravamo avrebbe interrotto. Avevamo i nostri ruoli, io da leader, Riccardo per la dimensione tecnico-ingegneristica, Luca era il collante, teneva i piedi a terra. Una band non vive solo di arte, ci sono le relazioni, le occasioni da cogliere. Lui annusava, sentiva, ci metteva la faccia. Luca si alzava sempre col piede giusto».
È ancora più atroce.
«Da due anni suoniamo con Sergio Carnevale, musicalmente siamo pronti. Ma Luca non tornerà più. È durissima anche per Davide Arneodo che aveva un progetto con lui. Ognuno farà i conti con se stesso, lentamente so che ogni ricordo verrà fuori».
Cito: «Eravamo fighissimi…». Quanto si è sentito figo?
«So con certezza che chi ci ha seguiti dall’inizio abbia avuto una grande fascinazione estetica, non solo intellettuale. Avevo 27 anni quando uscì il primo disco e in modo inconsapevole creai un’immagine. Mi dovessero offrire un’età in cui fermarmi, sceglierei però i 45 anni».
Perché?
«Ero nel pieno della consapevolezza. È molto importante, sapere cosa stai facendo. A 45 anni sei molto lucido».
Si è sentito molto desiderato?
«È stata una bella gratificazione. Il rock&roll nasce sensuale non intellettuale. Sul palco si scatenano energia, vigorosità, sensualità».
È rimasto a Cuneo. Perché?
«Ci ho pensato moltissimo. Gli altri hanno fatto da subito una scelta conservatrice e hanno piantato radici, la sala prove era lì, separati non saremmo andati molto lontano. È stata un’avventura eroica: da Cuneo, con una musica per nulla mainstream e di fascinazione anglosassone. Sono sempre stato in bilico. Da una parte sapevo che stare a Cuneo ci rendeva esotici, originali. Dall’altra, non è stato ottimo per le relazioni. Non sarebbe stato diverso a Torino. Anche lì c’è una dimensione provinciale manifesta che, per certi versi, mi piace indossare».
Che padre è?
«Mio figlio è nato nel 1998. Stava uscendo il terzo disco, ero concentrato sulla mia carriera che mi esplodeva tra le mani. Mi sembrava miracoloso che una cosa così spigolosa decollasse, vivevo nella sensazione che potesse finire tutto da un momento all’altro. Invece, il miracolo si rinnovava. Quando tornavo, mi rintanavo qualche giorno per riprendermi e poi facevo la mia parte. Col tempo il senso di responsabilità si è allargato».
È un genitore ingombrante?
«Consapevolmente. Nell’adolescenza c’è stata una difficile gestione del sentimento tra me e lui. Pensavo che la mia sensibilità, l’essere un rocker mi facessero guadagnare punti nel rapporto con mio figlio».
Invece?
«Assolutamente no. Penso che mi rispetti, ammiri, spero di non averlo danneggiato nel suo rapporto con la musica. Non ha voluto imparare a suonare, credo anche per un po’ di pigrizia. A lui piace il rap».
E come figlio?
«Con mia mamma sono riuscito a fare ciò che era giusto fare».
Ovvero?
«Abbiamo recuperato la capacità di manifestarci affetto. Il ridere insieme, senza paura di lasciarsi andare, guardarci negli occhi. Non abbiamo paura di volerci bene. È una delle cose più importanti della mia esistenza».
Ci andrebbero i Marlene a Sanremo?
«Certo. Non deve essere un lavoro facile quello del direttore artistico del festival. Quest’anno: Lazza ci sa fare, Mengoni è di un altro pianeta, che talento».
I Metallica.
Così i cattivi Metallica mostrano a tutti il volto buono del rock. Il concerto benefico della grande band americana. Prima del tour e del nuovo disco. Matteo Ghidoni il 26 Dicembre 2022 su Il Giornale.
I Metallica, fondati a Los Angeles nel 1981, sono fra le ultime leggende del rock ancora in attività. Hanno fan in tutto il mondo e il loro ultimo singolo Lux Eterna, che in due settimane ha superato gli undici milioni di visualizzazioni su Youtube, ha già dato al pubblico la possibilità di pregustare il loro nuovo album, 72 Seasons in uscita nella primavera 2023.
Al Microsoft Theater di Los Angeles la band ha organizzato il concerto «Helping Hands», anticipazione del loro tour mondiale che partirà da Amsterdam il prossimo 27 aprile.
Una data unica quella californiana, organizzata per raccogliere fondi per la loro All Within My Hands Foundation, nata per volere della band nel 2017 con lo scopo di sostenere l'istruzione della forza lavoro nelle aree meno fortunate, lottare contro la fame nel mondo e creare altri servizi critici in località svantaggiate.
L'evento giunto alla sua terza edizione è stato accompagnato da un'asta online di memorabilia e oggetti autografati dalla band. I proventi di tutta l'operazione vanno interamente in beneficenza. A presentare la serata, un peso massimo dell'intrattenimento come Jimmy Kimmel. Il video del concerto, che è stato trasmesso live su Paramount ed è disponibile per lo streaming, è anche su Pluto TV e sulla pagina Youtube di MTV.
Hanno iniziato con la versione acustica di The unforgiven poi a far tremare le pareti dell'enorme struttura sono arrivati i grandi classici: Enter Sandman, Seek and Destroy, Nothing Else Matters e tutte le altre.
Fra le canzoni sono sfilati alcuni degli uomini simbolo della cultura alternativa californiana e mondiale, che hanno scelto di sostenere a titolo gratuito la causa portata avanti da James Hetfield e soci che sono Kirk Hammett, Lars Ulrich e Robert Truijllo.
Tony Hawk, leggenda dello skateboard e idolo di un'intera cultura underground, è stato fra i primi a presentarsi davanti ai nostri microfoni: «Sono un fan dei Metallica da sempre - ha raccontato l'unico uomo ad avere mai usato una tavola da skate alla Casa Bianca Abbiamo anche avuto il piacere di lavorare insieme, quando hanno firmato la colonna sonora di uno dei videogiochi ispirati a me. Ma soprattutto, abbiamo la stessa visione del mondo, condividiamo una volontà comune di restituire una parte della fortuna che la vita ci ha regalato. Io, con la mia fondazione The Skatepark Project, costruisco dei luoghi in cui i ragazzi possono ritrovarsi e fare skate, stando lontani dalla strada. Loro, fra le altre cose, finanziano progetti di formazione professionale in aree svantaggiate. Credo che sia importante coinvolgere anche i ragazzi in questo tipo di cause, attraverso passioni come musica e skate, perché vedere in prima persona gli effetti che una buona azione può avere sulla vita degli altri, oltre a essere la cosa giusta è anche una delle gratificazioni più grandi possibili».
Quando gli abbiamo chiesto se il rock and roll sia una musica adatta solo ai duri, Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine e attivista impegnato in diverse cause benefiche, ha risposto con un sorriso. «Credo che il rock possa ottenere molti risultati ha spiegato il musicista . Da una parte, può riempirti l'anima con un'eccitazione e sensazioni quasi tribali, dall'altra può essere usato per raccogliere tantissimi soldi, che possono cambiare la vita di molti, nel mondo reale. C'è chi usa questo potere per arricchire sé stesso. Altri, dopo avere guadagnato abbastanza grazie al loro talento, decidono di devolvere una parte di quella ricchezza per migliorare il nostro pianeta. Solo nell'aprile 2022, la band ha donato 500.000 euro a World Central Kitchen, per fornire cibo ai rifugiati in fuga dall'Ucraina. I Metallica sono sempre stati una band che tiene ai propri fan, è questo secondo me che li ha resi leggendari a livello globale».
Matt Sorum, batterista dei Guns N' Roses dal 1990 al 1997, è stato un altro degli ospiti d'onore della serata. L'ex membro dei Velvet Revolver ci ha spiegato in che modo secondo lui i Metallica coinvolgono i loro fan in questo tipo di raccolte fondi. «Non si può dire ai ragazzi cosa devono fare. Sono rockers, sono ribelli, se gli imponi qualcosa si voltano dall'altra parte. Io ero così negli anni novanta. Ora, che sono diventato più saggio, capisco che quello che fa questo gruppo è dire: noi siamo così, suoniamo e operiamo in questo modo, se ti sta bene sei il benvenuto».
I Modà.
Kekko dei Modà: «Lotto con la depressione, non riuscivo a piegare le gambe e ad uscire dal letto» «Canto il mio male oscuro». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.
Kekko Silvestre, voce dei Modà, racconta la sua malattia alla vigilia del Festival, dove la band è in gara con «Lasciami»: «Attacchi di panico prima dei concerti. Un giorno mi sono svegliato e non riuscivo a piegare le gambe, non uscivo dal letto» La band in gara a Sanremo con «Lasciami» Il leader Kekko Silvestre: «Soffro di depressioneNon riuscivo a piegare le gambe, non uscivo dal lettto»
I Modà: da sinistra Stefano Forcella (basso), Diego Arrigoni (chitarra), Francesco Silvestre (voce), Enrico Zapparoli (chitarra) e Claudio Dirani (batteria) Saranno a Sanremo con «Lasciami»
Baci e veleno, ricordi e sofferenze, e finalmente «il primo giorno senza te». Non è una donna la causa della sofferenza che i Modà raccontano in «Lasciami», la canzone che portano in gara al Festival di Sanremo. «Ho scelto una metafora per lasciare libera l’interpretazione: la fine di un amore per essere universale o di una depressione per raccontare il mio vissuto», racconta Kekko Silvestre, il leader della band.
Quando si è accorto di essere depresso?
«Il 29 aprile 2021: mi sono svegliato e non riuscivo a piegare le gambe. Pensavo fosse un’influenza ma dopo dieci giorni a letto ho temuto che potesse essere una malattia degenerativa. Mi ha visitato un neurologo e mi ha diagnosticato la depressione».
Un fulmine a ciel sereno?
«Ho capito tutto dopo. Da anni avevo attacchi di panico prima dei concerti, ma sono andato avanti negando, mostrandomi forte anche per il senso di responsabilità verso la mia famiglia e i miei genitori. Ho accumulato troppo e il cervello alla fine mi ha bloccato il fisico. La depressione è un male oscuro che non si fa vedere e vive dentro di te».
Torni ai primi segnali...
«Nel tour del 2017, quello dopo i due San Siro, sentivo le gambe che non tenevano, andavo in confusione... all’ultima data mia madre aveva in mano il rosario... Ho pensato di smettere del tutto. Nei mesi successivi mia figlia Gioia mi ha chiesto più volte: “Papà perché non canti più?”. Le dicevo che era per il mal di gola. Mi si è stretto il cuore quando la pediatra le ha prescritto un antibiotico e lei le ha detto di darlo anche a me».
E poi?
«Dopo due anni altro disco, “Testa o croce”, e un altro tour: ero così distrutto che accolsi bene la notizia dello stop dei tour per il Covid... La pandemia, invece, mi ha dato il colpo di grazia. Quando sei in quello stato cerchi di tenere solo le cose che ti fanno sentire al sicuro: il solito ristorante, i soliti amici... Il Covid mi ha tolto anche quello. Ci sono stati momenti non semplici, ricordo quando chi mi era vicino mi vedeva con lo sguardo perso nel vuoto... Quindi è arrivato il blocco fisico: un mese dopo, l’11 maggio, ho iniziato a curarmi. I farmaci sono il veleno di cui parlo nella canzone. All’inizio li vedi così, pensi che quelle medicine si diano ai pazzi. Mi vergognavo, ma lentamente sono tornato a vedere i lati positivi della vita».
Adesso come sta?
«Non sono guarito, ma il tour dell’anno scorso mi ha lasciato carico di adrenalina e mi ha fatto capire che se stai sul divano non guarisci. Questo mi ha dato il coraggio di affrontare il Festival».
Che aspettative avete?
«Sanremo sta tornando ad essere la Champions della musica italiana. Ci confronteremo con artisti che dominano lo streaming, ma del resto noi siamo vecchi, siamo sempre stati considerati così. Avere Sanremo nel palmarès è un sogno, ma non vinceremo mai. Ci andiamo per far sapere ai nostri fan che non seguono i social, e sono molti, che ci siamo ancora».
Vi dava fastidio essere bollati come un gruppo musicalmente vecchio?
«Se essere vecchi significa riempire stadi e palazzetti allora era una bella cosa... Oggi lo accetto, allora mi dava fastidio che non venissero mai considerati i nostri risultati. C’è sempre stato un pregiudizio verso chi fa musica nazional-popolare, come accade a Ultimo adesso, ma le mode passano, le canzoni restano».
Quarto Festival in 20 anni di carriera. Il primo nel 2005, con la casa discografica che vi aveva abbandonati... Come andarono le cose?
«Litigammo perché non ci fidavamo del promoter con cui ci volevano organizzare i concerti estivi. Andammo a quel Sanremo con la nostra auto, in un hotel a 15 chilometri dalla città... Fummo eliminati la prima sera e me ne tornai a Milano nella notte, incazzato, lasciando la band al Festival a fare le interviste. Che brutto ricordo».
Nel 2011 c’era Emma con voi e «Arriverà» si piazzò al secondo posto.
«Mi girarono un po’ le palle, ma non perché avesse vinto il maestro Vecchioni. Per noi era il Sanremo del riscatto e avrei voluto sentire “vince il festival... i Modà”».
Nel 2013 podio con «Se si potesse non morire»...
«L’ho vissuto più serenamente perché sapevo che ci aspettavano nove palazzetti sold out fra Roma e Milano e un tour importante. E poi avevo capito da due anni prima che non conta solo vincere».
I Negramaro.
«Il concerto dei Negramaro è stato un incubo: una disorganizzazione così non si era mai vista». Per i 20 anni della band salentina: chilometri di code, parcheggi al completo e spettatori che non hanno potuto assistere allo show pur avendo pagato il biglietto. Pronta una class action per chiedere il rimborso. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 14 Agosto 2023
«Tucca li curcheno crai’mmane», «Devono farli a pezzi domani mattina», sibila la donna che cammina controcorrente sullo sterrato che porta al concerto dei Negramaro, sabato 12 agosto. Ma il giorno dopo, sui giornali non c’è nessuna testimonianza di prima mano dell’incubo che hanno vissuto i 40mila spettatori paganti del concerto di compleanno della band salentina. Nelle recensioni dei giornalisti che si occupano di musica, e che come è giusto sono stati accompagnati all’aeroporto civile di Galatina come ospiti d’onore, c’è solo un cenno all’inizio ritardato di tre quarti d’ora, e alle scuse di Giuliano Sangiorgi ai presenti, «abbiamo aspettato i tanti che sono ancora in coda».
In coda? Sembra un problema di traffico, ma non lo è. Quella che ha accolto i 40mila spettatori è una disorganizzazione ingiustificabile in una zona d’Italia che da venticinque anni ospita un evento musicale che di spettatori ne attira 250mila, la Notte della Taranta. Il concerto è iniziato da mezz’ora, noi camminiamo su questa strada che sembra non finire mai. «Se potessi far tornare indietro il moooondo», canta commosso Sangiorgi. «Di certo non mi troveresti quiiiii», rispondiamo noi con un rimasuglio di allegria.
«Sono due chilometri», assicura la pattuglia di militari che controlla la rete col filo spinato intorno all’aeroporto militare. Perché dopo il danno la beffa: ci sono volute due ore per riuscire a entrare dentro il parcheggio PO («Oh, quello», esclama sconsolata una delle ragazze che controllano il flusso delle auto, «provate a passare di qua, se vi fermano dite che avete un’emergenza»). Un posto auto pagato in anticipo, online, 20 euro, quattro volte più di quello che costa in questa zona un parcheggio organizzato per eventi notturni. Deve essere stato dato un ordine preciso di dire che tutto è a due chilometri, quando invece sono quattro o cinque.
La stessa distanza ci era stata assicurata mentre eravamo in coda dai poliziotti che bloccavano le strade consigliate dai navigatori - «Non potete passare da qui, ci sono case private», ripetevano mentre obbligavano migliaia e migliaia di auto a imbottigliarsi sulle uniche strade permesse. In realtà erano cinque, i chilometri. Cinque chilometri a passo d’uomo significa che una donna che cammina a fianco a noi ci supera, ogni tanto la raggiungiamo ma alla fine è lei ad arrivare per prima al parcheggio.
Parcheggio, poi: un campo di patate pieno di buche, adatto solo a Suv e 4x4, circondato da cavi d’acciaio invisibili in cui gli aspiranti spettatori inciampano senza speranza, mentre chi ha lasciato l’auto si chiede come farà a ritrovarla, visto che non c’è nessuna indicazione che aiuti a identificare in che fila era («Facile, basta aspettare che vadano via tutti», esclama uno dopo il concerto, con eroica allegria»). Che meraviglia il profumo di origano a mentuccia, quando scendiamo dall'auto: al ritorno sarò affogato nei gasi di scarico delle auto bloccate per ore con i motori accesi.
Il Salento non si dimenticherà mai del ventesimo compleanno dei Negramaro, la band di casa. Una disorganizzazione così non s’è mai vista. Soprattutto ingiustificabile qui, dove ogni anno (lo so: ci vado sempre) la Notte della Taranta passa senza traumi. Il motivo iniziale dell’esperienza da incubo che hanno vissuto 40mila persone lo spiega ridendo Elisa dal palco, quando il concerto si avvia ormai alla fine: «Zio Peppu fa una grande festa, ho detto ai miei figli. Sapete com’è, lui esagera sempre: stavolta ha affittato un aeroporto». E giù a ridere. «Una location mai usata prima per un concerto», vantavano i comunicati stampa ripresi dalla stampa e dai social. Scommettiamo che non verrà usata mai più?
Nessuno ha avuto il coraggio di dire a Sangiorgi che organizzare un evento da 40mila persone in un posto mal collegato e senza parcheggi era una pessima idea. Gli organizzatori – Magellano per il concerto e Parkforfun per i parcheggi – si sono accollati un compiuto che sarebbe parso evidentemente impossibile a chiunque conoscesse la logistica del posto. E così quella che doveva essere una grande festa si è trasformata, per il pubblico pagante (da 50 a 70 euro a biglietto) in un incubo. Il problema non sono state tanto le code chilometriche sulle strade: la piana del Salento è intessuta di superstrade. Il problema sono stati i parcheggi. Insufficienti, difficilmente raggiungibili, con migliaia e migliaia di posti auto collegati alla superstrada da un budello sterrato a una corsia.
Dopo il concerto, gli spettatori stremati che avevano resistito fino alla fine si sono trovati davanti a una nuova prova: due ore per uscire dai parcheggi. Le decine e decine di parcheggiatori dell’inizio erano sparite, ne restavano solo due o tre. Dopo un’ora passata tra la folla di auto bloccate in una situazione senza speranza abbiamo chiamato i carabinieri ma non rispondevano: alla centrale del 112 ci hanno spiegato che a Galatina le chiamate erano talmente tante che i colleghi non riuscivano a gestirle. All’incrocio dove si forma l’imbottigliamento c’è un poliziotto (uno!): allarga le braccia: «Non possiamo occuparci di gestire il traffico all’interno del parcheggio, quello riguarda l’organizzazione». Ma gli organizzatori sono andati via.
All’una di notte i parcheggiatori rimasti guardano il caos basiti, appoggiati a una macchina, senza fare nulla. «Che mi dà la paletta luminosa che cerco di regolare il traffico?», chiede un giovane volenteroso. Viene da Galatina, lui: ci ha messo tre ore e mezzo come noi che arrivavamo da Tricase. Le storie si accavallano. C’è la famiglia arrivata da Avellino e tornata indietro senza essere riuscita a entrare. Il gruppo che esce dopo aver ascoltato mezz’ora di musica perché prevede il caos che, effettivamente, aspetta chi resiste fino alla fine.
I racconti dei giornalisti sono entusiastici. Il concerto è grandioso, è ben amplificato, la band suona benissimo, Sangiorgi canta come sa fare, gli ospiti sono generosi. Ma il pubblico è diviso a metà: più vicini al palco gli entusiasti, che malgrado tutto riescono a godersi lo spettacolo. Alle loro spalle una folla immobile, stremata dal caos che hanno attraversato e rassegnata a quello che le aspetta. «Alzate le mani», grida Sangiorgi, ma metà del pubblico resta fermo. «Cantate! Ballate!». Bah.
È difficile far capire cosa significa impiegare due ore a percorrere duecento metri, circondati da auto con guidatori sempre più esasperati. Solo il “nubbale” salentino ci salva dalle risse: quel fatalismo che ti convince fin dalla nascita che quello che puoi fare “non vale la pena”, non serve a niente. Mentre siamo incolonnati tiriamo giù i sedili e ci appisoliamo per una mezz’ora, ma un uomo accanto a noi se ne accorge e, per rabbia o per invidia, batte sul vetro: «Dovete andare di là! Stanno aprendo un’altra uscita!». Ma perché proprio noi dobbiamo provare questa alternativa? E come potremmo muoverci, incastrati come siamo come sardine in una scatola di latta?
Mentre torniamo ascoltiamo Rds. Chiedono agli ascoltatori di raccontare perché sono in macchina a quest’ora, «quando la gente normale dorme». In ogni gruppo di risposte, un commento su tre è di reduci del concerto. Ridono, i presentatori, la disorganizzazione del concerto salentino dei Negramaro è già la barzelletta delle radio italiane. Apprendiamo così che a noi è andata bene. C’è chi non è riuscito a entrare perché gli organizzatori dei parcheggi avevano fatto l’overbooking, e dopo aver pagato 20 o 25 euro e fatto due ore di coda molte persone sono state mandate via. C’è chi attraversato la campagna nel buio, alla luce dei cellulari, terrorizzato dall’abbaiare dei cani (il Salento ha un problema di randagi, anche se questa notte non ne abbiamo incontrato neanche uno). Una famiglia partita da Napoli non è arrivata neanche al parcheggio ed è tornata a casa. Chi si è fidato del servizio navetta ha avuto brutte sorprese: corse annullate, e spettatori lasciati comunque in mezzo al nulla, a quattro chilometri dal concerto. All’ingresso poi - e questa è probabilmente è la cosa più grave – non solo non venivano controllati i biglietti, ma nemmeno le borse: avessi avuto con me non solo delle bottiglie d’acqua col tappo (che nei concerti organizzati bene vengono sequestrate per motivi di sicurezza) ma un carro armato, non se ne sarebbe accorto nessuno. E tutto questo in un’estate in cui il Salento ha fatto parlar male di sé per tanti motivi. Una figuraccia come questa, proprio quest’anno i Negramaro ce la potevano risparmiare.
Noi che abitiamo vicino siamo usciti di casa alle sette di sera e siamo tornati alle cinque e un quarto. Sbollita l’ira e passato il Ferragosto, il proposito è di organizzare una class action per chiedere il rimborso dei biglietti del concerto e soprattutto quello del parcheggio. Cercheremo di coinvolgere Altro Consumo o la Polidream, associazione consumatori di Polignano specializzata in problemi della regione. Ci vediamo lì.
PS. Il giorno dopo mi ritrovo in testa “Diamanti” («È solo vento negli occhi. E non ho un cazzo da dirti…») e non me lo perdono. Corro ai ripari. Penso quel è la canzone più infettiva dell’estate, mi ricordo dei Kolors e mi obbligo a cantare «Questa non è Ibiza, Festivalbar con la cassa dritta…». Ha funzionato.
"Negramaro da 20 anni. Il nostro segreto? Aver scritto canzoni pensando al futuro". La band celebra con un tour in luoghi storici e un megaconcerto in Puglia "vicino a casa". Paolo Giordano il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.
Giuliano Sangiorgi dopo vent'anni cos'è cambiato?
«Come se ci fosse una nuova rivoluzione musicale».
Addirittura.
«È come se gli anni Sessanta fossero finiti ieri. Le stelle sono sempre lì, prendi Madame che cita De André e, senza dubbio, Mengoni e Tananai hanno una visione chiara e un forte legame con la tradizione. Ma un linguaggio nuovo sta nascendo».
Il vostro primo disco è del 2003.
«Era il frutto di una lunga gavetta. Per carità, anche oggi i ragazzi fanno spesso un po' di gavetta. Ma per molti è più breve anche grazie a band come i Negramaro».
Non per nulla sono diventati uno dei gruppi di riferimento del pop rock italiano. E che fossero in pole position si è capito già al loro primo Sanremo, tra i Giovani nel 2005, quando suonarono Mentre tutto scorre lasciando un po' tutti senza parole: era l'upgrade del rock italiano, la giusta via di mezzo tra chitarre selvatiche, elettronica all'avanguardia e melodia vincente. «Abbiamo sempre messo in primo piano le canzoni», dice adesso Giuliano Sangiorgi che l'altra sera a Che tempo che fa ha mostrato nuovi riflessi della sua voce, più agile, più leggera ma colorata. Sono in sei, i Negramaro, da sempre, e questa estate prima faranno concerti in posti che si sognano per tutta la vita (inizio il 13, 14 e 16 giugno alle Terme di Caracalla a Roma, poi il Teatro Greco di Siracusa e l'Arena di Verona) e poi suoneranno il concerto che si sogna sin da bambini: quello vicino a casa (Aeroporto Cesari di Galatina il 12 agosto), quello che raccoglie tutto il meglio della canzone, da Elisa a Samuele Bersani a Malika Ayane, Ermal Meta, Niccolò Fabi eccetera: «Ognuno di loro sceglierà un nostro brano nel quale interagire».
Nell'elenco manca Lorenzo Jovanotti.
«Eddai mica si può annunciare tutto subito. Diciamo che ci saranno sorprese».
Ma perché avete scelto un aeroporto per suonare?
«Quello è il centro nevralgico dei nostri ricordi, è da lì che abbiamo spiccato il volo e lì è giusto ritornare».
L'aeroporto fa pensare a Campovolo di Ligabue.
«Sì, il concerto che abbiamo battezzato N20 Back Home sarà la nostra Campovolo, ovviamente considerando tutte le intergalattiche distanze tra Liga e noi».
Come hanno fatto i Negramaro a rimanere insieme per oltre vent'anni senza esplodere, senza separarsi, senza litigare?
«Tra noi c'è una amicizia celestiale ma pure carnale nel senso della grande affinità nella ricerca di obiettivi e nei modi per raggiungerli. Ma c'è anche un'altra caratteristica fondamentale».
Qual è?
«Abbiamo sempre messo la canzone al primo posto».
Tutti dicono così.
«Allora mi spiego meglio. Per noi la canzone è sacra ma non può essere legata al momento, deve guardare più lontano».
Adesso vanno di moda i cosiddetti «cantanti da cameretta» che parlano di loro stessi.
«Noi invece non vogliamo descrivere solo i tre minuti in cui nasce una canzone».
La vostra discografica Caterina Caselli ha raccontato ieri che, quando ha sentito la sua voce per la prima volta, è stata travolta dalla sua intensità.
«Una persona unica, lei, una personalità rara, la sua. A Sanremo il rock italiano si esibiva alle 2 di notte come è capitato al nostro primo Festival. Grazie a lei e, se posso dirlo, anche a noi, si è arrivati ad avere i Måneskin subito all'inizio».
Giuliano Sangiorgi scrive parole nell'epoca del politicamente corretto che spesso le censura.
«In parte il politically correct è servito a superare i pregiudizi. Ma l'esagerazione della correttezza rischia di obbligarci a un medioevo culturale».
I Pooh.
Maurizio Crosetti per “la Repubblica” - Estratti martedì 17 ottobre 2023.
A un certo punto dell’intervista, per spiegarsi meglio i Pooh cominciano a cantare. Brividi. E così, nella sala in penombra dell’albergo s’alzano e si allargano, all’improvviso, le tre famose note di Parsifal , quel “mi/fa/la” che da mezzo secolo è quasi una sigla esistenziale dei «Pooh che sono altro dai Pooh», cioè, in definitiva, loro stessi profondamente. Era il 31 agosto 1973 e quell’album segnava una strada senza ritorno. Eccoli ancora qui, i ragazzacci in sospetto di eternità.
Roby Facchinetti socchiude gli occhi. (...) Io penso che i Pooh siano qualcosa di fenomenale, sinceramente non esiste nessuno come noi, è la realtà. Perché essere band è difficile, faticoso. Ci siamo rimessi insieme per l’insistenza dei nostri figli, autentici rompicoglioni. L’ospitata a Sanremo era un trappolone, ce ne siamo resi conto troppo tardi ma va bene così. La gente conosce le nostre canzoni meglio di noi, ci fa sentire classici senza essere vecchi, perché noi evochiamo le loro vite che poi sono le nostre, così come nostri sono i loro ricordi».
Dodi Battaglia, gli occhi li ha accesi.
(...) I Pooh sono un classico, un must indispensabile per comprendere mezzo secolo di musica italiana: chi non lo voleva ammettere, poi ha chiesto venia. Purtroppo, con noi non ci sono più Valerio Negrini e Stefano D’Orazio, cioè le nostre parole. Senza di loro avevamo smesso di cantare, ed ero sicuro che non saremmo più tornati. In fondo, si stava così bene senza rimettersi a faticare “con quelli là”… Poi, però, è successo. I Pooh sono un meccanismo armonico con matrice non solo italiana, a volte riconosci un po’ di Beatles, un po’ di Bee Gees. Siamo un mix di maniere di esistere.
E da 57 anni siamo pop, che vuol dire popolari: a qualcuno è sembrato imperdonabile, a noi invece è sembrata la nostra anima».
Red Canzian, con gli occhi lui sorride. «Entrai nella band proprio per Parsifal e fu un onore grande. Doppiavo i violoncelli, tendevo a suonare sempre troppo basso perché ero “un bassista con la sindrome dell’ottavino”. Parsifal lo chiamavamo “un maiale per Ringo” per via dell’atmosfera un po’ western, alla Morricone.
Quel disco è una pagina musicale meravigliosa e dimostra che i Pooh sono eterni perché sono sempre stati fuori moda. Parsifal non può invecchiare, ha una struttura classica e un testo coinvolgente, spiazzante, anni luce avanti rispetto all’epoca in cui nacque. Eppure voi giornalisti, razza brutta, non ci capivate, non ci filavate. Quanti pregiudizi su di noi. Per carità, con Pensiero e Tanta voglia di lei comprammo case e automobili, però eravamo anche altro. Nel 1990, alcuni critici musicali in partenza per Sanremo, si ritrovarono a Milano Centrale e dissero: “Eh, i Pooh li massacriamo”. Poi vincemmo il Festival con Uomini soli . Cosa siamo? Tu ascolti tre note e pensi, “ecco, questi sono i Pooh”.
Siamo un suono. Quando, nei concerti, può capitare di perdere qualche parola, leggiamo il labiale degli spettatori e le ritroviamo, perché la gente conosce le nostre quattrocento canzoni meglio di noi: 60 mila watt di potenza acustica non riescono a superare la forza del canto del pubblico. Ci arrivano messaggi bellissimi, persone che ringraziano per il conforto e per l’aiuto e dicono: “Voi parlate di me”. Siamo normali, siamo figli di operai, andiamo al supermercato, viviamo nella quotidianità e il pubblico lo capisce. Siamo tornati insieme per merito di Francesco Facchinetti e Daniele Battaglia, ma anche per quei 30mila biglietti venduti in 24 ore, ora siamo arrivati a 230mila per 15 serate. Non era finita, anche se avevamo perso le parole».
Riccardo Fogli ha occhi timidi. «Lasciai i Pooh prima di Parsifal , ora li accompagno nei concerti, cantiamo insieme e cerco di non sbagliare. Provo a essere all’altezza. Vorrei suonare la chitarra, non ho fatto in tempo a diventare bravo come loro. La mia fortuna, adesso, è osservarli dalla giusta distanza, tenendo il tempo: mi aiuta seguire Red, io canto sempre vicino a lui che mi soccorre. Non vado in camerino e nelle pause tra un ingresso e l’altro mi sistemo in un piccolo gazebo accanto al palco, e li guardo. In un certo senso è la mia doppia vita».
Anticipazione da “Oggi” mercoledì 27 settembre 2023.
Con un tour da tutto esaurito negli stadi e ora all’Arena di Verona e al Mediolanum Forum di Assago, i Pooh hanno vinto la scommessa del loro ritorno sul palco. Si erano sciolti dopo i concerti del 2016 che celebravano i 50 anni di carriera. Cosa li ha spinti a tornare insieme? Lo spiegano a Oggi, in edicola domani: «Non era previsto… a spingerci sono stati due dei nostri figli (Francesco Facchinetti e Daniele Battaglia, ndr), che ora fanno parte dell’organizzazione».
Poi raccontano aneddoti dei loro inizi. «Suonavamo il sabato in Puglia e la domenica in Lombardia e viaggiavamo a bordo di un furgoncino mezzo scassato. Dopo il concerto del sabato sera, ripartivamo all’alba. All’altezza di Vasto iniziavamo a pigiare sull’acceleratore e regolarmente ci fermava la Polizia. Ecco, ci è rimasta l’immagine di noi sulla strada, con un freddo bestiale, che cantiamo Piccola Katy davanti ai poliziotti, per non pagare la multa».
E ancora: «Una volta ho salvato Francesco De Gregori che, durante un concerto a Milano, era stato assalito da contestatori», racconta Red Canzian. «Lo volevano processare perché, con Buonanotte fiorellino, “aveva tradito la causa”. L’ho preso, caricato nella 127 della mia fidanzata e siamo scappati».
Poi concludono: ««In passato abbiamo litigato, ma siamo sempre riusciti a trovare un compromesso. Quando ci siamo sciolti, c’era disamore e invece ora abbiamo ritrovato l’affetto, l’amicizia, lo spirito di gruppo».
I Pooh e l'amore (non solo nelle canzoni), dall'affaire Fogli-Pravo alle storie con le sorelle Berté. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.
Le curiosità sulla vita sentimentale del quartetto tra mogli, figli, famiglie allargate e proposte di matrimonio in diretta tv
L'amore secondo i Pooh
Più di cinquant’anni insieme, tra «emozioni, dolori, gioie, sacrifici» ricordava qualche anno fa Dodi Battaglia a I Lunatici: nel corso della loro longeva carriera i Pooh - stasera celebrati con un doc su RaiUno alle 21 «Un attimo ancora») hanno raccontato storie di vita, di amicizia e l’amore in tutte le sue sfaccettature. Un fondamentale apporto - si sa - lo ha dato Valerio Negrini: è stato lui, «il quinto Pooh» (definizione da lui sempre odiata), a dare vita al primo nucleo del gruppo e a scrivere - dopo aver ceduto lo sgabello della batteria a Stefano D’Orazio nel 1971 - i testi di molte canzoni del repertorio della band. Ma nell’intervista su Rai Radio2 Dodi ha raccontato un curioso aneddoto che riguarda l’ex batterista e paroliere: era proprio lui quello che tra tutti aveva più successo con le donne («Forse era il meno carino di noi tutti, ma era quello più assatanato, amava le donne in una maniera incredibile. Non se ne lasciava scappare una»).donne in una maniera incredibile. Non se ne lasciava scappare una»).
In memoria di Negrini
Nel 1995 Valerio Negrini convola a nozze con Paola Racca, che nel 2006 lo renderà di nuovo papà (dopo Alice, nata nel 1979 e Linda, classe 1990): quell’anno infatti nasce Ginevra. Per ricordare il batterista e paroliere, scomparso il 3 gennaio 2013, il prossimo 20 febbraio il Teatro Lirico di Milano ospiterà una serata speciale a supporto all’associazione benefica ANPIL (a cui Valerio era molto legato), fortemente voluta da Paola e dal direttore ANPIL Massimiliano Salierno. L’evento avrà come ospiti non solo Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e Red Canzian, ma anche Mario Biondi, Christian Iansante, Leonardo Manera ed Enrico Ruggeri e sarà presentata da Daniele Battaglia, Francesco Facchinetti e Paolo Conticini.
Il primo a diventare nonno
Quando Louise Van Buren (discendente dell’ottavo Presidente degli Stati Uniti Martin Van Buren) incontrò Dodi Battaglia al Vum Vum, famoso locale romano, i Pooh - che si erano fatti notare con «Piccola Katy» - stavano ancora muovendo i loro primi passi. Il chitarrista, che era rimasto affascinato da quella giovane ragazza americana, la sposò non ancora ventenne nel 1970. Da lei ebbe Sara Elisabeth (1975) e Serena Grace (1977) ma qualche tempo dopo la coppia decise di separarsi. Battaglia, che ha avuto un figlio nel 1981 - Daniele - dalla compagna di allora Loretta Lanfredi, in seguito si è sposato altre due volte: la prima con Alessandra Merluzzi, conosciuta a Monza nel 1990 («Lui indossava un giubbino nero - ha confidato nel 2005 lei a Vanity Fair - era bello, anzi bellissimo. Ricordo che mi abbordò. Due anni dopo ci siamo sposati a Trieste»). La seconda con Paola Toeschi, madre di sua figlia Sofia (2005). Grazie alla sua primogenita Sara, che ha dato alla luce Victoria, nell’ottobre del 2009 Dodi è stato il primo dei Pooh a diventare nonno.
L’ultimo a sposarsi
Decenni di stoica resistenza, ma alla fine anche lo scapolo d’oro del gruppo ha ceduto: il 12 settembre 2017, giorno del suo sessantanovesimo compleanno, Stefano D’Orazio ha sposato con rito civile la compagna Tiziana Giardoni, con la quale conviveva dal 2007. Non solo: ha anche deciso di rivivere tutta l’avventura in un libro intitolato «Non mi sposerò mai. Come organizzare il matrimonio perfetto senza avere alcuna voglia di sposarsi» (Baldini e Castoldi). Non avrà avuto voglia di sposarsi ma per la (tanto attesa) proposta di matrimonio ha fatto decisamente le cose in grande: durante un concerto dei Pooh all’Arena di Verona alla classica domanda riguardante i progetti per il futuro il batterista ha risposto in diretta, semplicemente, «mi sposo». «Telefonai a Tiziana per accertarmi che fosse davanti alla Tv - scrive D’Orazio nel volume - cosa che raramente accade durante le mie performance perché preferisce rivedersele in un secondo momento, con me accanto, per potermi ammazzare di critiche. Infatti quella sera stava guardando un film su Sky, ma la convinsi a sintonizzarsi sull’evento di Verona. Le raccontai che avrei indossato una giacca improbabile e che volevo un suo parere. Un po’ di malavoglia cambiò canale e restammo d’accordo che l’avrei richiamata dopo il passaggio».
La «Yoko Ono dei Pooh»
Pochi mesi dopo essere convolato a nozze con Viola Valentino nel 1972 Riccardo Fogli incrocia la sua strada con quella di Patty Pravo (all'epoca lei e i Pooh erano in tour insieme) e per stare con lei arriva a lasciare sua moglie. Ovviamente i giornali scandalistici non potevano lasciarsi scappare un gossip così succoso, e queste attenzioni mettono per la prima volta a dura prova gli equilibri del gruppo: senza troppi giri di parole per il produttore Giancarlo Lucariello la relazione con Patty stava danneggiando l'immagine del quartetto. Così decide di correre ai ripari mettendo Riccardo davanti ad un bivio: lei oppure i Pooh. «Fu un errore - ha detto Fogli al Corriere - avevo lasciato mia moglie, la cantante Viola Valentino figurati se non lasciavo i Pooh». Dopo aver abbandonato la band Riccardo e Patty si sposano con rito celtico in Scozia (sollevando un ulteriore polverone a causa dell'accusa di bigamia perché entrambi erano già sposati con altri in Italia) ma nel 1975 gli impegni professionali della bionda del Piper hanno la meglio sull'amore: «Finì perché io dovevo lavorare e non è bello portarsi dietro uno che non lavora».
I Facchinetti, una (affiatata) famiglia allargata
Prima di abbandonare il gruppo (sarebbe poi rientrato nei Pooh in occasione della reunion del 2015) Riccardo Fogli oltre ad insegnare tutte le sue parti al nuovo bassista - Red Canzian, scelto dopo un provino organizzato nella lavanderia di un hotel di Roncobilaccio - collabora alla realizzazione di «Alessandra» (1972), album che porta il nome della prima figlia di Roby Facchinetti nata proprio quell'anno. Un paio di anni prima, nel 1970, il cantautore e tastierista aveva sposato Mirella Costa, che nel 1977 con la nascita di Valentina lo renderà di nuovo padre (rimarranno sposati fino al 1979). Dalle sue relazioni successive Roby ha avuto altri tre figli: Francesco (1980) da Rosaria Longoni e Roberto (1987) e Giulia (1991) da Giovanna Lorenzi - sposata nel 1989 -. Negli anni Facchinetti ha mantenuto con le sue ex un ottimo rapporto, riuscendo a costruire una famiglia allargata molto affiatata. Il segreto? Mettere da parte i dissapori e le negatività e pensare al bene dei figli come ha spiegato in un'intervista a Nuovo Francesco (a sua volta papà di Mia, avuta da Alessia Marcuzzi, e di Leone e Liv, nati dal matrimonio con Wilma Helena Faissol): «È abbastanza comica la cosa, perché nella stessa stanza, ci possiamo essere io, mia moglie, mio padre, la seconda moglie di mio padre, mia mamma, la mia ex fidanzata, il suo attuale compagno e il padre del primo figlio della mia ex fidanzata...tutti d'amore e d'accordo!».
Red Canzian e Mia Martini
Prima di sposarsi per la prima volta nel 1986 con Delia Gualtiero (sua compagna dal 1980 al 1992 e madre di sua figlia Chiara) Red Canzian - oggi felice insieme a Beatrice Niederwieser - negli anni Settanta ha avuto numerosi flirt, da Marcella Bella («Eravamo giovani. È stata una piccola cotta di pochi mesi», ha ricordato durante la partecipazione ad «Ora o Mai Più») a Serena Grandi fino a Patty Pravo, da sempre considerata la «Yoko Ono dei Pooh» per via dell'affaire Fogli. Ha avuto una relazione anche con le due sorelle Bertè, prima Loredana poi Mia Martini. Della cantante scomparsa nel 1995 ancora oggi Red conserva un affettuoso ricordo: «Con Mia Martini siamo stati insieme per un periodo bellissimo che ricordo con affetto - ha raccontato alla rivista Domanipress - Un giorno mi disse: "Ti lascio, perché ho paura di star male se mi innamoro troppo di te". Lei rinunciava all’amore per paura di perderlo, questo ti fa capire l’animo dolce e sensibile di Mia Martini. Per me è stato un onore poterla conoscere, è una grande persona ed artista che non dimenticherò mai».
Amore per sempre
«So che Stefano non ha mai amato nessuna come me. E io l’ho ricambiato totalmente». La felicità purtroppo dopo le nozze non è durata a lungo: il batterista ha cominciato a stare poco bene («Nella lettera scritta per il mio ultimo compleanno - rivelava Tiziana al Corriere nel 2020 -, già debilitato, diceva “auguri amore mio, le fatiche non sono finite, ma mi piace credere che i giorni che verranno saranno migliori»). Nel 2020 ai problemi di salute si è aggiunto il Covid, che purtroppo non gli ha lasciato scampo: il batterista dei Pooh si è spento il 6 novembre 2020. Ricominciare a vivere dopo un lutto così devastante è stato difficile: Tiziana ci ha provato portando a termine uno degli ultimi progetti di suo marito, il romanzo «Tsunami» (uscito postumo). Nel libro D’Orazio racconta di un’isola fantastica, su cui sognava di prendere per mano la sua amata «Titti», ed è proprio a questo luogo magico a cui Tiziana, con amore, fa riferimento nelle note finali: «Ci sono luoghi lontani dove tutto è possibile. È lì che ci incontreremo ancora, sulla tua isola».
Tra i gruppi più longevi e amati della musica italiana. La reunion dei Pooh a Sanremo, la storia della band e del perché si sono sciolti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Febbraio 2023
La 73esima edizione del Festival di Sanremo sarà ricca di grandi ritorni. Il più atteso è probabilmente quello dei Pooh, nella sua formazione composta da Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e Red Canzian e soprattutto Riccardo Fogli, che negli anni ’70 aveva lasciato la band. Secondo la stima fatta da Repubblica, la band, dopo i Nomadi, è la più longeva della storia della musica italiana. Formatisi nel 1966 a Bologna, sono poco più longevi di un’altra band storica che pure sul palco dell’Ariston farà, non solo il suo ritorno in reunion ma anche il suo debutto: I Cugini di Campagna nati a Roma nel 1970.
I Pooh tornano dunque a Sanermo, dove si aggiudicarono la vittoria nel 1990 con il brano “Uomini soli”. Sono i primi grandi ospiti a salire sul palco della 73esima edizione di Sanremo. Non si sa cosa proporranno al pubblico ma certamente non mancheranno i loro grandi successi che li hanno resi immortali e un omaggio al loro “amico per sempre” Stefano D’Orazio, scomparso nel 2020.
Il gruppo dei Pooh si è sciolto il 30 dicembre del 2016. Nato a bologna nel 1966, ha vissuto diverse formazioni nel corso dei suoi oltre 50 anni di storia. La composizione più stabile è quella durata per 36 anni, dal 1973 al 2009, composta da Roby Facchinetti alla tastiera, Dodi Battaglia alla chitarra, Red Canzian al basso e Stefano D’Orazio alla batteria e occasionalmente al flauto. La voce principale del gruppo è sempre stata quella di Facchinetti, autore di molti brani dela storica band in coppia con il paroliere Valerio Negrini, ma anche gli altri tre membri del gruppo, cui contribuirono con numerose proprie composizioni, erano voci soliste nei brani di propria creazione. Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga insignì i Pooh dell’ onoreficenza di Cavalieri.
Riccardo Fogli, bassista del gruppo, nel 1973 decise di intraprendere la carriera da solista. Lasciò i Pooh nel 1973 dopo l’album Alessandra. In realtà negli ultimi anni la band si è riunita in diverse occasioni tra cui il tour di addio alle scene che si è tenuto tra il 2015 e il 2016, terminando ufficialmente la loro carriera musicale il 30 dicembre 2016. In quella occasione tennero un concerto nella formazione a cinque: D’Orazio, Canzian, Facchinetti, Fogli e Battaglia. Il concerto si svolse in un clima di enorme emozione all’UNipol Arena di Casalecchio sul Reno, trasmesso in diretta via satellite nei cinema italiani e in diretta televisiva e radiofonica. Ma in realtà il 6 giugno 2017 tornarono insieme sul palco dell’Arena di Verona. Ora è la volta di tornare a Sanremo per la gioia dei loro fan.
“Non ho mai capito perché i Pooh si sono sciolti”, disse qualche anno fa Dodi Battaglia che evidentemente non era d’accordo sulla scelta di separare le strade: “Sono stato il peggior sostenitore della scelta di sciogliersi – ha fatto sapere in un’intervista a “Oggi” – Mi è stato detto che, come i pugili, dovevamo ritirarci da campioni del mondo. Ma se gli sportivi a 40 anni sono brasati, per i musicisti è diverso: Mick Jagger, Elton John e tanti altri continuano a fare concerti. Però sono una persona rispettosa e ho preso atto della volontà degli altri”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Notte di paura per Roby Facchinetti dei Pooh, rapina a mano armata in villa: “Erano tre banditi”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Febbraio 2023.
Quando i rapinatori hanno fatto irruzione, domenica scorsa in tarda serata, Roby Facchinetti era in casa con la moglie Giovanna Lorenzi e con il figlio Roberto. Sarebbero stati in tre: volto coperto e pistole puntate. Dalla villa circondata da alberi, affacciata sulla Città Alta di Bergamo, hanno portato via gioielli, orologi, forse anche denaro in contanti. Questa la notte di paura passata con la famiglia dal cantante tastierista, volto storico dei Pooh.
Le indagini sono condotte dagli uomini della Squadra mobile, per il momento coordinati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota. “Non è gossip, questo”, ha spiegato al telefono al Corriere della Sera Bergamo la figlia dell’artista, la 31enne Giulia. “È successa una cosa veramente grave e noi non possiamo dire nulla. Anzi, ci saremmo augurati che la notizia uscisse più avanti, visti gli impegni lavorativi di papà. Psicologicamente non è un momento facile da gestire per lui“. Si prosegue con estremo riserbo insomma. I dettagli sono avvolti dalla riservatezza delle indagini.
I rapinatori sarebbero entrati in azione con guanti e volti nascosti da passamontagna. Avrebbero minacciato la famiglia con le pistole, costretto Facchinetti e familiari a farsi consegnare oggetti di valore. Da accertare cosa, nel dettaglio. Il bottino non è stato quantificato. Sembra che i tre siano stati in grado di muoversi con familiarità all’interno della casa. Non sarebbero state forzate né porte né finestre.
La settimana prossima il cantante e tastierista, 78 anni, è atteso al Festival di Sanremo, per la reunion della sua storica band, alla prima serata della kermesse di martedì 7 febbraio.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassiona
Roby Facchinetti, il sospetto sul commando: "Sono andati a colpo sicuro". Roberto Tortora su Il Tempo il 03 febbraio 2023
Una rapina a colpo sicuro. Questa l’etichetta di una domenica da incubo per Roby Facchinetti, tastierista e frontman dei Pooh. Il cantante, infatti, ha subìto una rapina in casa sua a Bergamo, mentre era lì con la sua famiglia. I banditi, che hanno agito con guanti e passamontagna, hanno puntato le armi contro di lui, la moglie Giovanna e il figlio Roberto e sono fuggiti con il malloppo, costituito da soldi, gioielli, orologi e altri oggetti di valore. A destare stupore e scioccare Facchinetti e la sua famiglia, oltre al furto in sé, è stato il modus operandi della banda: i ladri, infatti, erano in tre e, una volta entrati in casa senza forzare porte o finestre, hanno dimostrato una certa padronanza nel muoversi nella casa del cantante a Bergamo Alta. Una confidenza più che sospetta, in una casa che non avrebbero dovuto conoscere. Praticamente, secondo quanto riferiscono indiscrezioni dagli ambienti investigativi, i ladri "sono andati a colpo sicuro". Le autorità stanno indagando e si ipotizza che dietro al colpo ci sia qualcuno che conosce la famiglia. O che abbia frequentato per qualche ragione la villa in passato.
Roby Facchinetti rapinato in casa a Bergamo: pistole puntate, tre banditi in azione. Maddalena Berbenni e Pietro Tosca su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.
Il cantante dei Pooh, super ospiti a Sanremo, aggredito nella sua villa vicino allo stadio: via i gioielli. La figlia Giulia: «Fatto molto grave, è un momento difficile»
Oltre la cancellata in ferro battuto e la siepe fitta, il cane di casa Facchinetti abbaia sotto un cielo terso. Al citofono risponde soltanto la domestica, mentre il cellulare di Roby, voce e tastierista dei Pooh, un’istituzione a Bergamo, squilla a vuoto. La chat spunta la lettura del messaggio, ma lui, stranamente, non richiama.
A pochi giorni dalla reunion della mitica band per la prima serata del Festival di Sanremo , il cantautore, 78 anni, è stato vittima di una violenta rapina nella villa a due passi dallo stadio dell’Atalanta e poco di più dal centro città. Domenica sera, gli si sono parati davanti tre banditi con le pistole spianate, poi fuggiti con gioielli e altri oggetti di valore.
I dettagli sono comprensibilmente avvolti dalla riservatezza delle indagini, in mano agli uomini della Squadra mobile, per il momento coordinati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota (ma è probabile che il fascicolo passi successivamente nelle mani di un altro pm). Riservatezza totale è ciò che chiede, a fine giornata, la stessa famiglia. Non è Roby a parlare, ma la figlia minore Giulia, 31 anni, che a Bergamo gestisce un centro wellness: «Non è gossip, questo», spiega al telefono e lo ripete. «È successa una cosa veramente grave e noi non possiamo dire nulla. Anzi — aggiunge —, ci saremmo augurati che la notizia uscisse più avanti, visti gli impegni lavorativi di papà. Psicologicamente non è un momento facile da gestire per lui».
Quando i rapinatori hanno fatto irruzione, il cantautore era in casa con la moglie Giovanna Lorenzi e con il figlio Roberto. Nell’incantevole villa, circondata da alberi e con le balconate affacciate verso Città Alta, Roby Facchinetti vive praticamente da sempre e senza troppi misteri. Sul campanello, ci sono i nomi di tutti: suo, della moglie, ci abitano anche gli ultimi due figli, Giulia e Roberto, appunto, con i rispettivi compagni e i nipotini.
Il commando è entrato in azione in tarda serata ed era composto da almeno tre persone armate, vestite di scuro, con guanti e i volti nascosti dietro a passamontagna. Minacciandoli con le pistole, hanno costretto Facchinetti e i familiari a farsi consegnare gioielli, orologi, non è chiaro se anche denaro, forse custoditi in una cassaforte, ma è un altro dettaglio che per ora non trova conferme.
Il bottino non sarebbe stato ancora quantificato con esattezza, mentre quel che appare certo, stando al materiale raccolto finora, è che i tre si sapessero muovere con una padronanza piuttosto sospetta all’interno della casa. Non risulta siano state forzate porte né finestre. Sembra che siano andati a colpo sicuro, sapendo bene quando colpire e in che modo. È solo un’ipotesi, ma questo spinge chi indaga a non escludere, in questa fase, che dietro al colpo possa esserci qualcuno che conosce i Facchinetti o che abbia frequentato per qualche ragione la villa.
Era fine febbraio 2017 quando dj Francesco si sfogava pesantemente sui social contro l’intruso che si era infilato sempre nella villa del padre. Un probabile tentativo di furto decisamente meno violento rispetto alla rapina a mano armata di domenica scorsa, ma pur sempre con il genero di Facchinetti, cintura nera di krav maga (un’arte marziale israeliana), che aveva affrontato il malvivente. «Sto andando a comprarmi un arsenale, se qualcuno entra in casa mia con i miei figli non esce vivo», erano state le parole di Francesco. Ora, silenzio. In attesa della voce, quella sì, di Roby sul palco dell’Ariston.
Estratto da corriere.it il 3 Febbraio 2023.
«Cari amici, avrete appreso dai media della vicenda che ha riguardato me e la mia famiglia. Sono stati 35 minuti terribili, i più brutti della nostra vita. Voglio però tranquillizzarvi. Stiamo tutti bene. Non posso rivelare altro, sono in corso le indagini, ma vi ringrazio per la vicinanza che mi state dimostrando. Un abbraccio Roby». Così Roby Facchinetti interviene su Facebook e Instagram per raccontare la rapina subita domenica nella sua casa di Bergamo.
Tre banditi con pistole e passamontagna hanno aggredito il cantautore e la moglie nella storica residenza di famiglia. I banditi hanno fatto irruzione domenica sera (29 gennaio 2023). Roby Facchinetti era in casa con la moglie Giovanna Lorenzi. Ci abitano anche i loro due figli: Giulia, con il marito e i suoi due bambini, e Roberto. Il commando era formato da almeno tre persone, entrate all’interno senza avere forzato porte né finestre. Non hanno usato violenza fisica. Ma minacce, sì. Si sarebbero fatti consegnare gioielli e oggetti preziosi.
Su Instagram è intervenuto anche il figlio del cantante, Francesco Facchinetti: «Purtroppo è vero, mio padre, mio fratello e mia sorella hanno subito in casa una rapina a mano armata. Una di quelle cose brutte che vorresti non capitasse mai della vita, vedi solamente nei film e pensi che non possa succedere e invece capita. Fortunatamente, nonostante la follia della cosa, stanno bene. Sono molto triste, amareggiato di come si è trasformato il nostro Paese. Qualcuno dice: “Voi avete una villa, siete ricchi, per quello entrano in casa vostra”. Cazzata, cazzata. Non è una condanna avere una villa, non è una condanna aver guadagnato i soldi onestamente e io mi devo sentire libero e sicuro nel Paese dove vivo».
Poi l’attacco alla politica: «È una vergogna — dice Facchinetti jr — che in un paese dove c’è la pressione fiscale superiore al 60%, noi non ci sentiamo sicuri. Siete bravissimi, al governo la destra e la sinistra incapaci di mantenere il controllo, incapaci di mantenere l’ordine in questo Paese. Non siete in grado di fare politica, ma solo propaganda politica. Chi può come ho fatto io va ad abitare da un’altra parte. Come mai siamo andati ad abitare in Svizzera? Il motivo è questo. Non voglio crescere i miei figli in un Paese dove non possono essere liberi, dove non possono uscire di casa, dove ho paura a farli giocare al campetto vicino a casa, dove ho paura di lasciare mia moglie a casa da sola, dove ho paura di lasciare mia figlia a casa con mia moglie. Non voglio più questo. Avete reso il Paese più bello del mondo, un paese insicuro, un paese dove c’è da aver paura».
Roby Facchinetti e la rapina nella villa di Bergamo: «Per 35 minuti in balia dei banditi». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.
I ladri sono entrati nella villa di Bergamo da una porta lasciata aperta: la moglie di Facchinetti si è poi sentita male. Il messaggio su Facebook e lo sfogo di dj Francesco
In poche righe, affidate a Facebook quando la notizia della rapina è ormai rimbalzata ovunque, Roby Facchinetti fa capire l’essenziale. Che è stato un incubo. E che, più o meno forzatamente, è deciso a mantenere il silenzio. «Cari amici — scrive il cantante —, avrete appreso dai media della vicenda che ha riguardato me e la mia famiglia. Sono stati 35 minuti terribili, i più brutti della nostra vita. Voglio però tranquillizzarvi. Stiamo tutti bene. Non posso rivelare altro, sono in corso le indagini, ma vi ringrazio per la vicinanza che mi state dimostrando. Un abbraccio». E, ora di sera, i like superano i 15 mila, la bacheca si trasforma in un lungo elenco di cuori e messaggi di vicinanza, mentre un capitolo a parte se lo ritaglia dj Francesco con un post dei suoi su Instagram contro i politici.
Il colpo è avvenuto domenica (29 gennaio 2023), ora si sa, alle 20.50, in un orario in cui la villa era accessibile. Si trova ai piedi di Città Alta, a pochi passi dallo stadio di Bergamo. Tre banditi hanno fatto irruzione semplicemente scavalcando la recinzione del giardino, tra faggi e folte conifere, e passando da una porta che, come d’abitudine, non era chiusa a chiave. In casa, c’erano il cantautore, la moglie Giovanna Lorenzi, il figlio Roberto e la compagna, mentre l’ultimogenita Giulia, che pure abita in uno degli appartamenti, era fuori con il marito e i due bambini. I rapinatori indossavano passamontagna e in quell’interminabile mezz’ora hanno ripetutamente puntato le pistole contro i Facchinetti: «Dateci i soldi o vi ammazziamo», il succo delle minacce anche verbali. Non si sono accontentati dei soldi e dei gioielli che la famiglia ha consegnato loro subito, sostanzialmente tutto ciò che avevano a portata di mano. Ma hanno insistito per ottenere di più, come se avessero un’idea piuttosto precisa di ciò che potevano trovare.
Questo dettaglio, unito al sospetto che ben sapessero come intrufolarsi senza problemi attraverso la porta aperta, fa dubitare che esista un qualche legame con la villa o con persone che l’hanno frequentata. Sono le prime impressioni tra gli investigatori. Al lavoro, anche sulle telecamere, ci sono i poliziotti della Squadra mobile, per ora coordinati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, che ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per rapina pluriaggravata: erano più malviventi, a volto coperto e armati.
Se ne sono andati con un bottino non ancora quantificato — a spanne parrebbe non così ingente — costituito da qualche migliaio di euro, orologi e gioielli. Dopo la fuga, a villa Facchinetti è stata chiamata anche un’ambulanza. La moglie del cantante ha avuto un lieve malore dovuto allo choc. Di un momento «psicologicamente difficile da gestire» ha parlato la figlia Giulia riferendosi al padre. A 78 anni portati benissimo, il leader dei Pooh si prepara a calcare la scena di Sanremo per la reunion della storica band, evento clou della prima serata del festival, martedì.
«Qualcuno dice: vabbé ma voi avete la villa, siete ricchi, è per quello che entrano in casa vostra — scrive Francesco Facchinetti —. Non è una condanna avere una villa e avere guadagnato i soldi onestamente. Per chi si chiede perché siamo andati a vivere in Svizzera, il motivo è questo: io non voglio crescere i miei figli in un Paese dove ho paura di farli andare al parchetto, di lasciare mia moglie a casa da sola. Complimenti a voi incapaci, capre che avete reso il Paese più bello del mondo un Paese insicuro».
Roby Facchinetti, nella villa c’era un bottino da centomila euro: le indagini sui filmati delle telecamere pubbliche. Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023.
I banditi hanno sorpreso il musicista e la sua famiglia mentre facevano uscire il cane in giardino. Attraverso i social un nuovo messaggio da Roby, per ringraziare i fan e gli investigatori al lavoro sul caso
Niente volume per non spoilerare. Il ritmo lo dà l’ondeggiare dei nipotini, che seguono nonno Roby Facchinetti durante le prove per il grande palco di Sanremo. Francesco riprende e pubblica in Instagram, come a volere spazzare via il buio. E fare arrivare un messaggio: dopo il terrore vissuto domenica sera dal padre e dal resto della famiglia , seguito dall’inevitabile frastuono della notizia, ora i Facchinetti, uniti come sempre appaiono sui social network, pensano a godersi la reunion dei Pooh all’Ariston, per la serata inaugurale del Festival, martedì. Questo mentre in Questura a Bergamo gli agenti della Squadra mobile provano a ricomporre il puzzle.
L’elenco dettagliato del bottino ancora non c’è, ma tra gioielli, due orologi e contanti per qualche migliaio di euro, il valore dei beni rubati dovrebbe viaggiare intorno ai centomila euro. Almeno dalla prima stima.
I contorni della rapina, nella villa in zona stadio dove il cantante abita da una vita, sono chiari. La banda era composta da almeno tre persone e quasi sicuramente all’esterno c’erano uno o più complici pronti a fare da palo e ad assicurare la fuga. Erano armati di pistole e con passamontagna, guanti, abiti scuri. Alle 20.50, sono entrati da una porta aperta perché, dopo cena, la famiglia aveva appena fatto uscire il cane in giardino.
Roby, la moglie Giovanna Lorenzi, il figlio Roberto e la sua compagna, sono stati sorpresi in quel frangente dai rapinatori che, scavalcata la recinzione, forse attendevano proprio quel gesto abituale. A differenza di quanto riportato nei giorni scorsi, anche Giulia Facchinetti, ultimogenita del cantante, che alla rotonda dei Mille gestisce un centro wellness, era in casa, con il marito e i figli. Ma erano nel loro appartamento, che i banditi non hanno raggiunto. Si sono resi conto di quanto accaduto solo dopo che i rapinatori si erano allontanati e alla villa si sono precipitate volanti e ambulanza per il lieve malore, dovuto allo choc, di Giovanna Lorenzi.
Traumatizzata lo era l’intera famiglia, tanto che la polizia conta di risentire tutti per mettere meglio a fuoco le testimonianze. Ad esempio, sulla presunta nazionalità dei rapinatori. Dovrebbero essere stranieri, ma, nelle prime dichiarazioni, sono state date descrizioni differenti: è stato riconosciuto sia un accento dell’Est sia sudamericano. Di sicuro, erano determinati a farsi consegnare il più possibile. Non sono bastati i soldi e i gioielli offerti subito. La banda ha frugato negli appartamenti per 35 interminabili minuti , mentre ai Facchinetti venivano puntate le pistole contro e proferite minacce anche di morte. È stato lo stesso musicista a raccontarlo al suo pubblico nel breve messaggio pubblicato in Facebook dopo che la notizia è uscita: «Sono stati 35 minuti terribili, i più brutti della nostra vita. Stiamo tutti bene. Non posso rivelare altro, atteso che sono in corso le indagini».
Un secondo post di ringraziamento è comparso nella giornata di domenica, rivolto «a chi si è adoperato e si adopera non solo per dovere professionale ed istituzionale ma anche per vicinanza umana per prestare soccorso, assistenza, sicurezza e conforto a me ed ai miei cari in questi giorni in cui è ancora presente e vivo il terribile ricordo di quei brutti momenti». Il cantante ha poi citato il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, il questore Stanislao Schimera, il sindaco Giorgio Gori. «Grazie a tutti gli amici e a tutti i fans che in mille modi e con migliaia di messaggi hanno voluto dimostrare a me e alla mia famiglia quel grande affetto che tanto ha aiutato e aiuta tutti noi a gestire la paura».
In procura è stato aperto un fascicolo a carico di ignoti per rapina pluriaggravata, e disposto una serie di accertamenti sulla base dei primi riscontri. Sommariamente sono stati sottratti gioielli, due orologi di valore e qualche migliaio di euro. Non c’era una cassaforte in casa. Gli investigatori lavorano in particolare sui filmati delle telecamere pubbliche, che nel quartiere, con lo stadio a due passi, non mancano. Anche la settimana scorsa l’Atalanta, di cui Roby è tifosissimo, ha giocato di sabato. Al Gewiss le luci erano spente.
Estratto da corriere.it il 4 febbraio 2023.
Zoe Cristofoli , la compagna di Theo Hernandez, leggendo della rapina nella casa di Roby Facchinetti a Bergamo, ha rivissuto il dramma capitato alla sua famiglia ad ottobre.
E allora ha utilizzato i social per raccontare in maniera anche più dettagliata quella esperienza ma anche per ribadire la sua preoccupazione rispetto alla mancanza di sicurezza. La dinamica della rapina subita nella villa dove abita con il calciatore del Milan (che in quel momento però non c’era) e il figlio Theo Junior, è abbastanza simile: una banda di malviventi aveva fatto irruzione e avevano portato via tutto usando anche la forza fisica.
Zoe, dopo aver saputo quanto accaduto a Facchinetti, ha scritto un lungo post su Instagram, rivelando tra l’altro diversi dettagli della violenza usata dai malviventi quella sera di metà ottobre.
Lo sfogo
«Ancora una volta la stessa storia. Dopo mesi nessuna novità. Mi sveglio e ogni giorno notizie identiche. Stesse dinamiche, stesse bande, stessi animali... Lavori una vita, compri cose in modo pulito e poi ti entrano in casa mentre ceni o mentre esci dal cancello... Ti picchiano e ti spaventano quasi a morte, toccano tuo figlio, ti rubano tutto quello hai... ti portano via la voglia, la serenità di vivere.
Ebbene oggi parlo io. Sono stufa di vivere in un Paese dove, capisco, siamo oberati di casi, di queste situazioni, ma si può vivere così? Nella speranza che qualcuno faccia qualcosa? E intanto questa gente vive e campa nel nostro Paese allegra e spensierata... Perché vi assicuro parlavano italiano meglio di me ma non erano per nulla italiani (parlavano poi nella loro lingua). E quindi mi chiedo a chi mi dovrei rivolgere per avere giustizia? E non parlo di quello che hanno portato via, quello mi frega poco... Ma una c... di giustizia dov’è?».
La mancanza di tutela
Il racconto prosegue: «Quella sera mi sono ritrovata una pistola alla testa... No so le botte che ho preso... calci, pugni e schiaffi in faccia. Hanno cercato di soffocarmi con le mani... Mio figlio tirato dalle braccia... Tirata per aria dai capelli, 3 uomini contro di me. Pronto soccorso, 20 giorni a letto, nessun rimborso assicurativo perché insomma ti devono prendere per il c... pure le assicurazioni. Nessun giornale ha approfondito perché era una “semplice rapina”, sapete ormai queste cose sono normali, non ci si può fare nulla, succedono. Fanno il boom con la notizia e poi ciao, grazie e arrivederci. Danno colpa alle persone vicino a te e dicono è colpa tua te la sei cercata. Eh già, quella sera arrivati i Carabinieri hanno guardato se qualcuno era gravemente ferito, per fortuna niente sangue... quindi dai vabbè non è successo nulla.
I Righeira.
Estratto dell’articolo di Ylenia Giorgione per “La Repubblica” domenica 22 ottobre 2023.
Johnson Righeira, come ricanterebbe oggi “L’estate sta finendo”?
«Forse metterei il punto interrogativo. È vero che abbiamo dei momenti in cui il clima impazzisce. Mi ricordo, come recita un passo della canzone, che verso il finire dell’estate c’erano i gabbiani che venivano in città in cerca di cibo e questa è un’immagine che io fissai nella canzone; adesso i gabbiani vivono costantemente in città […]».
E lei come sta trascorrendo questa estate senza fine?
«Ho lavorato molto, sono andato in vacanza a fine settembre, in Sardegna. Avrei ancora voglia di andare al mare, visto che come si può intuire dalle canzoni che ho scritto, l’estate è una stagione che amo e amo il mare quello vero, come quello di Formentera. […]».
Ci scriverebbe una canzone?
«Non riesco a scrivere a comando. Vamos a la playa, ad esempio, rifletteva, in modo inconsapevole e inconscio, le paure del momento storico in cui l’ho scritta. Chi lo sa, magari la scriverò, non ne ho idea, non so cosa mi verrà in mente».
Quest’anno canteremo “L’estate sta finendo” fino a Natale...
«In realtà ho una canzone natalizia che non ho mai finito di scrivere: mi era venuta un’ispirazione ma poi mi sono arenato ed è rimasta lì a metà. Ne parlavo proprio qualche giorno fa con un mio collaboratore, volevamo riprenderla in mano. Una canzone di Natale a modo mio potrebbe essere interessante. Prima o poi la finirò».
Estratto dell'articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 29 giugno 2023.
Chi ricorda l’estate italiana del 1983? (...) E' l'estate di Vamos a la playa, tipico singolo balneare, tormentone che dura da quarant’anni e non accenna a smettere. Gli autori e interpreti si chiamano Michele Rota e Stefano Righi, in arte Michael e Johnson Righeira. Prodotto dai Fratelli La Bionda, tra i massimi specialisti dell’Italian Disco, anche Michael e Johnson sono fratelli d’arte che hanno litigato diverse volte, si sono rimessi insieme e ora non si parlano più.
Dice Johnson, quello che ancora trovi in giro per dj set e notti revival, quando non produce vino in campagna o non si occupa della nuova etichetta indipendente, la Kottolengo Recordings: «volevo fare una canzone da spiaggia, ma postatomica, con abbondante utilizzo di elettronica e mi venne improvvisamente, mettendo le mani un po’ a casaccio su una tastiera... il ritornello di Vamos a la playa e devo dire che sicuramente è stato uno dei momenti più importanti della mia vita... La composi a 22 anni e dopo un mese mi arrivò la cartolina per partire militare».
ESODO Johnson ragazzo abita con i genitori nella periferia di corso Giulio Cesare mentre Torino si svuota d’agosto quando chiude la Fiat. Un vero e proprio esodo, tutti i negozi chiusi e non un solo turista, neppure per sbaglio.
Vamos a la playa non fa che registrare, in una lingua ipoteticamente spagnola con strafalcioni inclusi che fa il verso alle discoteche di Ibiza, uno stato di cose sotto gli occhi: gli italiani in vacanza. Ma attenzione, perché sullo sfondo il paesaggio postatomico non è affatto consolatorio; non solo gli anni Ottanta della New Gold Dream, ma anche, e soprattutto, gli incidenti nucleari cominciati con il danno al reattore nucleare di Three Mile Island e terminati con il disastro di Chernobyl nel 1986. Felici di essere finalmente in spiaggia, si abbronzano davanti a tv che emanano raggi radioattivi.
VIDEOCLIP Che i Righeira non siano per niente banali, anzi, lo conferma il secondo singolo No tengo dinero che, a partire dal videoclip diretto da Pierluigi De Mas, maestro dell’animazione italiana, compendia l’estetica postmoderna, zeppa di riferimenti colti all’architettura futurista di Sant’Elia.
«Abbiamo collaborato con diversi creativi, come Massimo Mattioli, che realizzò la copertina del disco in cui c’è un missile che ci proietta nello spazio e noi siamo raffigurati come supereroi volanti, inseguiti da una popolazione di scimmie mentre sorvoliamo il cielo di Italia 61 sullo sfondo del Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi con la monorotaia che sfreccia. Allora noi, senza falsa modestia, eravamo piuttosto avanti e pochi afferravano fino in fondo i riferimenti che utilizzavamo. Il successo popolare ci portò una considerazione prettamente commerciale, il nostro pubblico non era toccato da altro, ma a distanza di anni mi rendo conto che siamo più oggetto di culto oggi che allora.
Abbiamo collaborato anche con il fotografo Guido Harari, il pittore Maurizio Turchet e l’architetto-designer Massimo Josa Ghini che realizzò la copertina per un mio disco solista, la versione house di Yes, I Know My Way di Pino Daniele». I Righeira, in fondo, sono un’espressione dell’arte contaminata di quel meraviglioso decennio.
Estratto dell'articolo di Mattia Marzi per “il Messaggero” l'1 maggio 2023.
«Il mondo della politica ci ha sempre snobbati: due come noi, che cantavano Vamos a la playa, tre milioni di copie vendute in tutto il mondo, in certi circuiti non erano ammessi. Però con le nostre canzoni abbiamo raccontato l'Italia meglio di tanti cantautori impegnati», sorride Johnson Righeira, vero nome Stefano Righi, che dal 2019 porta davanti da solo l'eredità del duo campione delle hit parade negli Anni '80 dopo la separazione dallo storico sodale Michael Righeira (vero nome Stefano Rota).
Non ha un po' paura di quella piazza?
«[…] Un tempo i Righeira sarebbero stati banditi da un contesto come il Primo Maggio. Politici e intellettuali ci hanno sempre trattati come roba di serie b».
Ora invece gli scrittori vi dedicano anche libri-inchiesta, come il recentissimo "Oh, oh, oh, oh, oh.
I Righeira, la playa e l'estate 1983" di Fabio De Luca, appena uscito.
«Riscatta la nostra storia: ci avevano condannati all'isolamento, anche se poi le classifiche ci davano ragione. Ci stavo male, perché nei brani c'erano sottotesti da decifrare. Vamos a la playa, ad esempio, parlava di bomba atomica, in piena Guerra Fredda. Oggi quelle canzoni le conoscono anche i ragazzini. Che però non sanno nemmeno chi siano i Righeira (ride)».
Ne è sicuro?
«Sicurissimo. Una mia amica insegnante ha fatto un esperimento con una classe delle elementari.
Ha chiesto ai bambini se conoscessero i Righeira e quelli inevitabilmente hanno risposto no. Poi ha cantato l'incipit del ritornello di Vamos a la playa e quelli hanno risposto: oh, oh, oh, oh, oh».
[…]
Estratto dell’articolo di Demented Burrocacao per Il Venerdì- la Repubblica il 25 Aprile 2023.
"Non si esce vivi dagli anni 80" è uno degli adagi che avrete spesso sentito, e che in un certo senso getta una accezione negativa rispetto a quel periodo storico. Ma già il fatto che quest'ultimo venga citato, riciclato, rinnovato, finanche criticato, e in ultima istanza "ricreato", vorrà pur dire qualcosa: ma che cosa?
Ci troviamo di fronte alla semplice "nostalgia canaglia" di una generazione che da futuribile (per autocitare il mio libro Italian Futuribili) è oramai alla pari con gli anziani che ballano l'"alligalli" nelle parrocchie pensando "ah, i favolosi anni 60"? O forse nella musica di oggi ci troviamo di fronte a un inaridimento creativo generalizzato, visto che ad esempio le produzioni trap di tutto il mondo si basano tutte sulle "sbarattolate" della Roland TR808, batteria elettronica tipicamente anni 80?
Forse c'è ben altro: per cercare di indagare su questo, Fabio De Luca (conosciuto per essere una sagace penna di Rolling Stone di cui è stato anche vicedirettore e tra le altre cose storico conduttore radiofonico di Suoni e Ultrasuoni e del mitico Planet Rock) pubblica il libello Oh oh oh oh oh, in libreria dal 28 aprile: il titolo si riferisce all'epocale 45 giri che ha inaugurato un po' la fase dei "tormentoni", ovvero Vamos a la playa dei Righeira.
De Luca scrive il libro usando questo brano come simbolo di un'era, come uno dei singoli che ha trainato il pop italiano verso una certa idea di futuro, svecchiando il nostro canzoniere in maniera tanto improvvisa quanto - in realtà - mutuata dall'eredità del punk e post punk italiano di cui i cari Johnson e Michael Righeira erano due portavoce prima della svolta La Bionda (che producendoli in maniera certosina li eternarono). Vamos a la playa in teoria, nel libro, viene vista un po' come il perno intorno al quale accadono dei fatti: storici, politici, culturali, musicali.
Un pretesto per tentare di cucire parti che sembrano molto diverse tra loro: stralci di interviste, retrospettive storiche, analisi sociologiche e di costume, per non parlare di svariati momenti autobiografici. È palese dove De Luca voglia andare a parare: cristallizzare in un'aura di propulsione verso il nuovo un anno in particolare, ovvero il 1983. L'anno appunto di pubblicazione di Vamos a la playa, colonna sonora di una nazione che ha deciso di sprigionare positività depensante. Ed è anche grazie ai Righeira che tutto ciò accade: nonostante il brano parli di bombe che sono esplose, un momento balneare radioattivo poco rassicurante quindi, nel pezzo c'è questo sentore a non arrendersi. Sticazzi se c'è stato l'Armageddon, noi andremo in spiaggia comunque.
Interpellato in proposito, Johnson racconta: "C'era molto ottimismo, venivamo da anni bui, dal terrorismo: c'era voglia di divertirsi , voglia di fare. Sono stati anni fantastici, al di là del fatto che siano stati dipinti spesso come anni di superficialità: per me non lo sono. È stato l'ultimo decennio di grandissima creatività in tutti gli ambiti artistici. C'era una quantità pazzesca di musica che ancora adesso stanno riscoprendo: nasce l'Italo Disco ad esempio. Non è un caso che siano tornati in modo prepotente anche oggi".
(…)
(…)
Un altro personaggio fondamentale di quegli anni è Maurizio Marsico, che come Monofonic Orchestra è stato braccio "sinistro" musicale del collettivo Frigidaire: "I "nostri" sintetizzatori, le nostre batterie elettroniche e le nostre voci trattate sono tornati a suonare nei dischi patinati e di tendenza in ogni parte del globo. Nel mio calendario mentale identifico il 1983 come la data che sancisce l'inizio della fine. L'inizio di una traiettoria scellerata che via via ha condotto la musica in Italia, nello stato in cui verte oggi. La fine dell'immaginazione pura e di un'arte che avrebbe diritto di esistere pur senza essere connessa alla politica o al mercato".
(...)
Il finale del libro è un colpo di scena - forse telefonato ma vabbè, non spoileriamo - che in qualche modo rende "mitologica" l'eredità del Festivalbar che lanciò - fuori gara - i Righeira di quella famosa estate 1983, ovvero l'avanguardia delle "visualizzazioni" che all'epoca erano i gettoni nel juke-box e ora il like su YouTube o su TikTok. Ebbene sì, ammettiamolo: tutto si è cristallizzato nel 1983, Eden perduto che la nostra attualità vorrebbe recuperare, ma hai voglia a estati radioattive che hanno da passa'... Intanto "Vamos a la playa", che è meglio: leggendo, ovvio, il libro di De Luca sdraiati sull'asciugamano.
L'autore del pezzo è autore del libro Italian Futuribili (Minimum Fax)
Righeira, Stefano Righi: «Ci credevano due imbecilli. Oggi non parlo più con Rota». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 14 gennaio 2023.
Il musicista ora gestisce un’etichetta discografica: «Tre anni fantastici poi il buio. Eravamo amici per la pelle. Mi ha salvato il revival»
Stefano Righi e Stefano Rota. Così due sconosciuti, ma famosissimi come Johnson e Michael Righeira, la coppia che con due canzoni è rimasta incisa nel bronzo del tempo della musica pop. Da «Vamos a la playa» a «L’estate sta finendo», una parabola eterna durata due sole stagioni. Liceo a Torino, Stefano più Stefano sono in classe insieme, diventano amici per la pelle, ma oggi non si parlano più. «Ex punk, ora venduto» è la scritta denigratoria che campeggiava su un muro e che lui ha fatto diventare una raccolta musicale: Johnson Righeira, 62 anni, oggi ha una sua etichetta, la Kottolengo Recordings & Wines. Musica e vino, altra coppia evergreen.
Eravate al liceo insieme...
«Sono finito in classe con lui alla mia prima bocciatura e abbiamo legato istantaneamente, siamo diventati immediatamente sodali. La musica è stato il collante».
A scuola chi andava peggio?
«Tutti e due. Siamo stati anche bocciati insieme. O meglio, Michael si ritirò due volte dalla quarta liceo. Cambiò e andò alle magistrali nel tentativo di essere ammesso direttamente all’ultimo anno ma avvenne l’imponderabile e in pratica fu retrocesso in terza liceo: credo sia l’unico al mondo a cui è capitata una cosa genere».
Come si arriva da Righi a Righeira?
«Ero in prima liceo, non conoscevo ancora Michael. Avevamo un prof sessantottino che ci faceva giocare solo a calcio e per divertimento ci cambiavamo i cognomi alla brasiliana. Come primo nome invece avevo cercato qualcosa di assonante con Hamilton Bohannon, una delle figure chiave della disco music, un mio idolo. Johnson Righeira nella mia testa doveva essere un oriundo, le prime biografie recitavano che ero stato rapito dagli alieni e poi ero ricomparso misteriosamente anni dopo; sognavo palme, avevo in testa un immaginario tropicale ma anche tecnologico».
L’immaginario di «Vamos a la playa», anno 1983...
«Quella canzone a tutti gli effetti è l’evoluzione delle prime cose che avevo scritto, ispirate agli anni 60, da autarchico e futurista quale mi sentivo. Vamos a la playa era sì una canzone da spiaggia ma postatomica, immaginava uno scenario apocalittico fatto di bombe, radiazioni, mare contaminato. I fratelli La Bionda divennero i nostri produttori, ci presero sotto la loro ala e intuirono il potenziale del brano. La mia versione però era molto più dark, new wave, molto cupa, l’idea era il contrasto tra l’andare in spiaggia e le bombe che esplodevano; loro la resero molto piu solare, tanto che del testo non si è parlato per molti anni, nessuno ci ha fatto caso, è stato oscurato dalla melodia».
Un successo travolgente, ma voi nel frattempo eravate a fare il servizio militare.
«Infatti è un successo che non ci siamo goduti. Anzi è stato psicologicamente devastante perché eravamo primi in classifica ma dovevamo stare in caserma. Io usavo le licenze per andare a fare le prime ospitate in tv. A metà estate con il pezzo in testa alla hit sbroccai e mi feci mandare alla neuro per prendere la classica convalescenza da crisi depressiva. Li identifico una sliding door della mia vita perché all’inizio mi rispedirono in caserma; nel corridoio però fermai lo psicologo civile: gli chiesi se conosceva Vamos a la playa e gli dissi che avevo bisogno di 20 giorni per preparare la finale del Festivalbar. Arrivò un capitano che mi fece un gran pippone sul fatto che il militare era una cosa seria. Però mi diede i 20 giorni. E ho capito che qualcosa era cambiato».
«L’estate sta finendo» (1985) fu pubblicata prima dell’estate, un controsenso...
«Infatti la casa discografica era preoccupata, temevano che la gente potesse prendere male questa incongruenza, ma un pezzo estivo non poteva uscire a settembre! Andò bene perché poi abbiamo vinto il Festivalbar».
Come ha vissuto questo schiaffo improvviso di popolarità?
«Con estrema incoscienza: sono passato dal non avere una lira a poter prendere aerei e taxi senza pensarci, potevo scegliere gli alberghi più belli, vivevo nei residence. Ho buttato via un sacco di soldi».
Quanto ha sperperato?
«Non ne ho la minima idea, anche perché non so neanche quello che ho guadagnato»
Tre anni fantastici e poi?
«Sanremo 1986 è stato brutalmente il nostro canto del cigno, arrivammo tra gli ultimi. Lì ci trovammo spiazzati, non eravamo abituati. Ci eravamo creati la fama di quelli che sfornavano tormentoni, da noi si aspettavano quello, ma eravamo dei performer e dei situazionisti più che dei musicisti. Avevamo idee deliranti e una pressione addosso non facile da gestire. Siamo entrati in un vortice negativo che via via ci ha fatto mollare il colpo».
Dal boom alla normalità, come l’ha vissuta?
«Con la stessa incoscienza e serenità. Non sono mai stato con le mani in mano, poi è arrivato il revival anni 80 e con quello la consapevolezza di aver segnato un periodo storico della musica pop italiana».
Vi sentivate incompresi?
«All’inizio eravamo snobbati, ritenuti due imbecilli sia come personaggi sia musicalmente. I critici musicali ci stroncavano e io pativo un casino, mi stava proprio sulle balle questa cosa. Non voglio sembrare presuntuoso ma eravamo avanti».
Nel 1993 lei venne arrestato, assieme ad altre 37 persone, per spaccio. Rimase in carcere per 5 mesi, salvo poi essere completamente assolto.
«Fui messo in mezzo perché la solita notizia locale che avevano arrestato qualche pusher, con il mio nome diventava di rilievo nazionale. Mi crollò il mondo addosso, passai cinque mesi di merda in cui temevo mi potessero condannare. Vedevo tutto nero».
Gli anni Novanta sono segnati da separazioni e reunion. La chiusura definitiva dei Righeira è del 2016.
«Con Stefano c’è stato un progressivo allontanamento culminato in una lite che ha sancito la separazione. Ho continuato a fare serate da solo e da tempo non ci sentiamo più».
L’ultima lite?
«Uno scazzo dovuto a un progressivo aumento di incompatibilità, niente di specifico, ma non ci sopportavamo più».
Da blitzquotidiano.it il 12 novembre 2021. Stefano Righi, conosciuto anche come Johnson Righeira, è stato uno dei due componenti dei Righeira, gruppo degli anni Ottanta (L’Estate sta finendo, Vamos a La Playa e No tengo dinero). I Righeira si sono sciolti nel 2016 e si è parlato molto della loro separazione.
Righeira, i motivi dello scioglimento
Proprio Johnson Righeira, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva parlato così dei motivi dello scioglimento: “Sono gli stessi motivi, con aggravanti. Non abbiamo più niente da condividere. Sono riuscito a dilapidare i soldi man mano che li guadagnavo. Andava tutto così veloce, ma adesso io e lui non abbiamo più nulla in comune”. Stefano Righi è rimasto nel mondo della musica. Nel 2019 ha collaborato coi La Bionda, pubblicando il singolo Formentera, mentre lo scorso anno ha fondato la sua etichetta discografica: la Kottolengo.
Johnson Righeira e la telefonata ad Andy Warhol
In una intervista a Oggi è un altro giorno, Stefano Righi aveva rivelato un retroscena di quando era all’apice del successo. “Una telefonata a Andy Warhol davvero surreale. Tornavo a casa da una serata un po’ movimentata ed ero un po’ ubriaco. Ero riuscito a prendere il numero da un amico. Era notte e mi sono detto: “Adesso ci provo”. Inaspettatamente lui ha risposto e io ho farfugliato di tutto. Ma non mi ricordo neanche cosa gli ho detto”, le parole di Johnson.
Righeira: “Sognavamo di essere come Paoli e Di Capri”. Ernesto Assante su La Repubblica il 28 agosto 2021. L’estate secondo i Righeira nel 1983 non era perfetta, c’era un vento radioattivo a spettinare i capelli, ad abbronzare il corpo non era il sole ma le radiazioni atomiche, c’erano mutanti che si combattevano sui surf, perché “la bomba” era esplosa e il mondo non era più lo stesso. Eppure Vamos a la playa fu il singolo di maggior successo di quell’estate, anzi secondo molti il dizionario Zanichelli inserì la parola “tormentone” in quell’anno proprio per colpa loro. E con ragione, visto il seguito con No tengo dinero e L’estate sta finendo, che hanno permesso a Stefano Righi (Johnson Righeira) e Stefano Rota (Michael Righeira) di diventare eternamente estivi come Edoardo Vianello. Oggi il duo non c’è più, a meno di colpi di scena durante lo show Arena Suzuki ’60 ’70 ’80 che Amadeus presenterà all’Arena di Verona il 12 e il 14 settembre. Intanto Rota fa il produttore e l’attore, Righi si divide tra la passione per musica e quella per il vino ed è candidato consigliere comunale di Torino nella lista civica Torino Città Futura, che insieme al Partito Comunista sostiene il candidato sindaco Giusi Greta Di Cristina. Ma Vamos a la playa, da giugno a settembre, torna puntualmente a sonorizzare le nostre estati.
Righi, come le era venuto di scrivere, lei ventitreenne di Torino, una canzone come Vamos a la playa?
"E chi lo sa, ci vorrebbe uno psicologo per capirlo. Scrivere una canzone del genere in una città com'era la Torino che ho vissuto da ragazzino può sembrare strano, lo capisco. Torino non era una città che dava l'idea di essere particolarmente solare e allegra, ma proprio per questo le vacanze avevano un senso. Finita la scuola andava via il grigio, arrivava l'estate e c'era la libertà".
L'Italia dei primi anni Ottanta era ancora sotto la cappa degli anni di piombo.
"C'era chi lo chiamava 'riflusso', ma era voglia di vita, di uscire dagli schemi, di fare cose nuove. C'era voglia di fare musica, di divertirsi e io, da autarchico, volevo fare qualcosa che avesse delle radici italiane, mi piaceva l'idea del revival dei Sessanta in chiave punk. Identificavo quell'ondata del surf, dei Vianello, Di Capri con il twist, come lo stacco con la musica italiana del passato, pensavo che bisognasse partire da lì per una new wave che fosse italiana".
In salsa esotica.
"Ma sì, e anche quello da prima. Il nome Righeira me l'ero dato giocando a calcio a scuola, faceva molto Brasile, magari mi piaceva l'idea di essere oriundo, va a sapere. Tutto questo alla fine è diventata una cifra stilistica, assieme a un certo piacere per l'assurdo. Uno dei primi pezzi che metteva insieme tutto questo si chiamava Clonazione geghegè, cantavo 'voglio un figlio uguale a me per ballare il geghegè', mettevo gli anni Sessanta in un contesto post-atomico".
L'estate del dopo-bomba era cantata anche un altro tormentone dello stesso periodo, Tropicana del Gruppo Italiano.
"Sì, sono molto amico di Raffaella Riva, la cantante della band, ha disegnato il marchio della mia nuova etichetta, la Kottolengo Recordings. Eravamo totalmente in sintonia, la paura della fine all'inizio degli anni Ottanta ce l'avevamo tutti e la esorcizzavamo con il disincanto di ventenni che non avevano le preoccupazioni degli adulti, la buttavamo sull'ironia. Uscivamo da anni davvero bui e volevamo colorare il mondo, anche se le tensioni nel Paese erano ancora fortissime. E poi ci piaceva l'immaginario futuribile, fantascientifico, un po' Blade Runner e un po' fumettistico. Il nostro era un linguaggio postmoderno ma declinato in chiave pop".
Come scrisse la canzone?
"È una domanda alla quale è impossibile rispondere, perché se sapessi come ho fatto ne farei delle altre! Mettevo insieme il twist, l'elettronica, il punk, sognavo di scrivere qualcosa come Sapore di sale di Paoli o Saint Tropez twist, ma non sapevo come".
Eppure c'è riuscito, visto che quasi quaranta anni dopo la sua canzone è ancora 'gettonatissima'.
"Sì, e mi sembra bellissimo. Già al ventennale mi ero meravigliato della capacità della canzone di vivere per conto proprio. Ma quelle fortunate sono veramente come dei figli, a un certo punto imparano a camminare e vanno avanti da sole, con le proprie gambe. Magari i ragazzi di oggi non sanno chi sono i Righeira, ma la canzone la conoscono eccome. È la forza degli evergreen, la gente alla fine non sa più chi li ha scritti o cantati".
L'estate è rimasta al centro dl suo mondo, dunque?
"L'estate era fino a due anni fa il periodo di massima intensità del mio lavoro, quello in cui la formica prepara l'inverno, quindi in realtà per me luglio e agosto sono normalissimi mesi di lavoro. Io ho vissuto la mia vita in mezzo ai locali, ai club, alle discoteche, ma da due anni ovviamente tutto è fermo, e non si sa come andrà. Quando riprenderà magari non sarà come prima e della vecchia normalità probabilmente nemmeno ci ricorderemo. Ma, al di là della curiosità di capire come andrà, non vedo l'ora che finisca questo terribile periodo e che ricominci, finalmente, l'estate".
E ora?
"Tanti anni fa c’è stata la separazione del duo ma io ho rimesso in piedi la baracca, ho rifatto le basi delle canzoni con la mia voce e dato spazio ad altri interessi. A un certo punto mi sono trovato a un bivio e ho preso un'altra direzione: ho affittato una casetta nel Canavese, a trenta chilometri da Torino, zona di castelli e di laghi, e sono rimasto lì. Ho aperto la mia etichetta "dance oriented", durante il lockdown, il che la dice lunga sulla mia follia. Ma ho anche preso una vigna, che mi coinvolge tantissimo. Così ho un’etichetta underground e una vigna underground, entrerò nel mondo del vino come sono entrato in quello della musica".
I Ricchi e Poveri.
“Il successo di sarà perché ti amo” che torna a Sanremo 2023. Perchè i “Ricchi e Poveri” si chiamano così, la storia della band dalla separazione al ritorno a Sanremo. Elena Del Mastro su Il Riformista il 30 Gennaio 2023
I Ricchi e Poveri ora sono rimasti in due, Angelo Sotgiu, il “bello”, 76 anni e Angela Brambati, la “brunetta”, 75 anni. Marina Occhiena “la Bionda” se ne andò nel 1981 ed è tornata solo per la reunion a Sanremo nel 2020. Franco Gatti “il Baffo” è scomparso tre mesi fa ma “lo sentiamo sempre accanto a noi”, dicono Sotgiu e Brambati. A Sanremo 2023 Coma_Cose & Baustelle canteranno in duetto la loro celebre “Sarà perché ti amo” nella quarta serata dedicata alle cover.
I due raccontano al Corriere della Sera gli esordi della band dopo essere stati scoperti da Fabrizio De Andrè. “Ci mandò a chiamare da un comune amico. ‘Venite a casa mia’. Ci presentammo con le nostre chitarrine – racconta Sotgiu al Corriere della Sera – Ci ascoltò e poi ci propose di andare a Milano dalla sua casa discografica. Partimmo da Genova con la Seicento della mamma di Franco, in cinque non ci si stava, De André era grande e grosso, perciò viaggiò per conto suo. Ma il produttore non ci trovò interessanti”. “’Questi qui non capiscono un belìn’, disse Fabrizio. ‘Avrete successo lo stesso’”, aggiunge Brambati.
Poi arrivò Franco Califano che fu per loro una sorta di padre musicale. “Era direttore artistico della Carosello. Ci convocò a Milano. Gli cantammo tre pezzi, forse quattro, il repertorio era tutto lì”, racconta Sotgiu. “Andò a chiamare Alfredo Cerruti. Senti questi qui, sono bravi. E ci fece ricantare. Poi convocò il maestro D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Ricantammo. Alla fine restammo senza voce. Califano si licenziò. ‘Voglio diventare il vostro produttore’. Ci portava in giro su una macchinona bianca americana, ogni sera a cena fuori, pagava sempre lui”.
I due continuano il racconto del loro esordio e citano il momento esatto in cui fu coniato il nome del gruppo proprio per l’ennesima cena che lui voleva offrire alla giovane band: “Per vergogna, una sera gli abbiamo risposto che avevamo già un invito. Non era vero. Ci fermammo alla prima curva e tirammo fuori i panini. Ma Franco uscì subito dopo di noi e ci vide. ‘Siete ricchi di spirito e poveri di tasca. Da oggi vi chiamerete così, i Ricchi e Poveri’”. “Ci portava a Capri – continua a ricordare la brunetta – dove comprava i sandali fatti a mano. Noi ci vestivamo ai mercatini, lui dal sarto, sceglieva le stoffe e ordinava quattro completi su misura. Aveva classe, era affascinante, non per me, non ero il suo tipo, gli piacevano quelle con la puzzetta sotto al naso”.
E racconta come cambiò loro anche il look: “Portavo i capelli lunghi, ondulati. ‘Tagliali corti, cortissimi’. Non andavano nemmeno di moda, però gli ho dato retta, mi fidavo, sono una che si butta, non mi spaventa niente”. Anche Sotgiu cambiò look: “A me ordinò: ‘Fatti biondo’. A quei tempi, per un uomo, andare dal parrucchiere e chiedergli una tinta platino non era proprio facile… Mia madre si vergognava. ‘A casa siamo tutti bruni, cosa penserà la gente?’. Così è diventata bionda pure lei”.
Poi arrivò il momento del debutto a Sanremo con “La prima cosa bella” nel 1970. “Ci chiamarono all’ultimo minuto, come tappabuchi, si era liberato un posto. Doveva andarci Gianni Morandi, invece toccò a noi”, raccontano. E ancora nel 1971 con “Che sarà”: “Anche quella volta doveva esserci Morandi e invece alla fine ci lasciò il posto. Grazie ancora, Gianni”. Poi nel 1981 Marina uscì dal gruppo: “Sul momento fu un trauma, pensammo che potesse finire tutto”, racconta Sogiu. “Poi però venne Sarà perché ti amo. Vero, si chiude una porta e si apre un portone”, conclude Brambati.
Nel 1981 avvenne la rottura del quartetto con l’allontanamento di Marina Occhiena a seguito di uno scandalo. La donna, infatti, avrebbe avuto una storia con Marcellino Brocherel, all’epoca compagno dell’altra componente del gruppo Angela Brambati. Dopo la valanga di critiche e pettegolezzi, la Occhiena non vuole separarsi dal gruppo ma l’agente dei Ricchi e Poveri l’avrebbe convinta ad accettare l’abbandono con una cifra di 20 milioni delle vecchie lire. Così rimasero solo in tre, continuando a portare avanti alto il nome della band. La separazione avvenne proprio al Festival di Sanremo, nell’edizione in cui presentarono l’indimenticabile Sarà perché ti amo. Al giornalista del Corriere della Sera che le chiede quanto tempo ci ha messo a perdonarla, Brambati risponde: “Arrivederci, cambiamo discorso”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
I Ricchi e Poveri: «Io ero operaio e lei benzinaia, poi fu Califano a lanciarci. Il nostro amore fu bellissimo». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.
Angelo Sotgiu (il «bello») e Angela Brambati (la «brunetta»): «Le vacanze a Courmayeur con Sandra Mondaini». La profezia di De André: «Ci ascoltò e ci propose di andare a Milano dalla sua casa discografica». Sanremo: «Nel 1970 doveva andarci Gianni Morandi, tappammo noi il buco con “La prima cosa bella”»
«Dai, raccontale quella dello Scià di Persia», salta su Angela, tipo molla.
Si vola.
Angelo: «Uh, già, già. Allora: era il 1979. Il cugino dello Scià, ambasciatore a Roma, ci invitò a Teheran per il compleanno della sorella di Reza Pahlavi. Eravamo onorati ma preoccupatissimi: e se facessimo qualche figuraccia?».
Angela: «Più che altro non sapevo cosa mettermi per una serata di gala a Palazzo Reale. Scelsi un vestito lungo di velluto blu scuro, con dei fiorellini rosa».
Angelo: «A un certo punto ci chiamano per tagliare la torta, in una sala enorme».
Angela: «A un tratto mi giro, vedo gli altri tre che ridono e non capisco perché».
Angelo: «Il suo abito era identico alla moquette. Sembrava che il tappeto facesse un grosso bozzo, invece era lei».
Adesso i Ricchi e Poveri sono rimasti in due. Marina Occhiena «la Bionda» se ne andò nel 1981 ed è tornata solo per la reunion a Sanremo 2020. Franco Gatti «il Baffo» è scomparso tre mesi fa («Lo sentiamo sempre accanto a noi»), ma Angela Brambati (la mitica «Brunetta», 75 anni) e Angelo Sotgiu (il Bello, 76) — nuovi coach a The Voice Senior 3 su Raiuno — sprizzano allegria ed entusiasmo per quattro e anche di più («Dove troviamo tutta questa energia? La compriamo al mercatino sotto casa», gioca lui — non più biondo dorato anni Settanta ma di un più portabile cenere), persino in collegamento gracchiante su Facetime.
Dove siete?
Angelo: «A Vilnius in Lituania, a 10 gradi sottozero, tra poco abbiamo un concerto».
Angela: «E io, rimbambita, ho mandato un video agli amici dicendogli: “Guarda quanto è bella Tbilisi”, perché l’altro giorno eravamo in Georgia, poi ci hanno cancellato il volo e siamo finiti a Istanbul e infine qui, ma ancora non so dove mi trovo e la memoria fa cilecca».
A proposito, vi è mai capitato di dimenticare qualche parola di una canzone?
Angelo: «Mi è successo con Come vorrei, una per giunta che conoscono tutti. Da allora mi viene l’ansia ogni volta che la canto».
Angela: «E adesso la sbagli sempre tutta».
Prima dei R&P la Brunetta faceva la benzinaia, il Bello l’operaio all’Italsider.
Angela: «Abitavo accanto a un distributore della Shell, gli stavo sempre tra i piedi, perciò il titolare alla fine mi ha assunto. Me la cavavo, a parte qualche pasticcetto... come quando ho versato dell’acqua nel serbatoio dell’olio».
Sarà stato contento il malcapitato.
Angela: «Mica tanto. Ho fatto pure l’aiuto parrucchiera. Lei lavorava in casa, in cucina. Dovevo risciacquare i capelli a una cliente, ho sbagliato pentola, invece dell’acqua calda le ho versato in testa il brodo con la minestrina. Licenziata».
Angelo: «Tornato dal servizio militare ho mollato la fabbrica. Ho lavorato come barista, falegname, tornitore, ascensorista, che mi è tornato comodo: non ho più paura di prendere l’ascensore perché, se si ferma, so come farlo ripartire».
Angela: «Dimenticavo, tentai anche come sarta. Ho cucito un cappottino per il mio cuginetto, solo che mi è venuto con le maniche dritte, orizzontali, come se avesse le braccia ingessate».
Da ragazzini siete stati fidanzati.
Angelo: «Avevo 17 anni, lei 16. Un rapporto bellissimo, infatti è finita».
Angela: «Perfetto, poi dopo qualche anno lui aveva voglia di divertirsi e l’ho lasciato andare».
Angelo: «Nel frattempo era iniziata l’avventura dei Ricchi e Poveri, stavamo insieme 24 ore al giorno, è subentrata una confidenza diversa, da amici, da fratelli».
Angela: «Mi chiedeva consigli sulle sue conquiste. “Che dici, ti piace questa?”».
Vi ha scoperto Fabrizio De André.
Angelo: «Ci mandò a chiamare da un comune amico. “Venite a casa mia”. Ci presentammo con le nostre chitarrine. Ci ascoltò e poi ci propose di andare a Milano dalla sua casa discografica. Partimmo da Genova con la Seicento della mamma di Franco, in cinque non ci si stava, De André era grande e grosso, perciò viaggiò per conto suo. Ma il produttore non ci trovò interessanti».
Angela: «“Questi qui non capiscono un belìn”, disse Fabrizio. “Avrete successo lo stesso”».
E arrivò Franco Califano.
Angelo: «Era direttore artistico della Carosello. Ci convocò a Milano. Gli cantammo tre pezzi, forse quattro, il repertorio era tutto lì».
Angela: «Andò a chiamare Alfredo Cerruti. Senti questi qui, sono bravi. E ci fece ricantare. Poi convocò il maestro D’Anzi, quello di O mia bela Madunina. Ricantammo. Alla fine restammo senza voce. Califano si licenziò. “Voglio diventare il vostro produttore”. Ci portava in giro su una macchinona bianca americana, ogni sera a cena fuori, pagava sempre lui».
Generoso, il Califfo.
Angelo: «Per vergogna, una sera gli abbiamo risposto che avevamo già un invito. Non era vero. Ci fermammo alla prima curva e tirammo fuori i panini. Ma Franco uscì subito dopo di noi e ci vide. “Siete ricchi di spirito e poveri di tasca. Da oggi vi chiamerete così, i Ricchi e Poveri».
Angela: «Ci portava a Capri, dove comprava i sandali fatti a mano. Noi ci vestivamo ai mercatini, lui dal sarto, sceglieva le stoffe e ordinava quattro completi su misura. Aveva classe, era affascinante, non per me, non ero il suo tipo, gli piacevano quelle con la puzzetta sotto al naso».
Vi cambiò il look.
Angela: «Portavo i capelli lunghi, ondulati. “Tagliali corti, cortissimi”. Non andavano nemmeno di moda, però gli ho dato retta, mi fidavo, sono una che si butta, non mi spaventa niente».
Angelo: «A me ordinò: “Fatti biondo”. A quei tempi, per un uomo, andare dal parrucchiere e chiedergli una tinta platino non era proprio facile... Mia madre si vergognava. “A casa siamo tutti bruni, cosa penserà la gente?”. Così è diventata bionda pure lei».
Nel 1970 il debutto a Sanremo con «La prima cosa bella», voi e Nicola Di Bari.
Angelo: «Ci chiamarono all’ultimo minuto, come tappabuchi, si era liberato un posto. Doveva andarci Gianni Morandi, invece toccò a noi».
Angela: «Gli altri cantanti ci mettevano soggezione, ma noi sapevamo di essere bravi».
Nel 1971 il bis con «Che sarà», in coppia con Josè Feliciano.
Angelo: «Anche quella volta doveva esserci Morandi e invece alla fine ci lasciò il posto. Grazie ancora, Gianni».
In tv a «Tante scuse» con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello.
Angelo: «Cantavamo la sigla e ogni volta, nella gag, Raimondo doveva trovare un modo diverso per ucciderci: ci sparava, ci schiacciava con un sasso, come nei cartoni animati, i bambini si divertivano moltissimo. Con lui non sapevi mai se scherzava o se parlava sul serio».
Angela: «Con Sandra siamo diventate molto amiche, vacanze insieme a Courmayeur».
Nel 1981 Marina è uscita dal gruppo.
Angelo: «Sul momento fu un trauma, pensammo che potesse finire tutto».
Angela: «Poi però venne Sarà perché ti amo. Vero, si chiude una porta e si apre un portone».
Fece scandalo il «tradimento» dell’amica, che ebbe una storia con il suo ex marito. Quanto tempo ci ha messo a perdonarla?
Angela: «Arrivederci, cambiamo discorso».
Le sue mossette sono leggenda. Le parodie si sprecano.
Angela: «Mi viene tutto d’istinto, non provo mai nulla».
Il posto più assurdo in cui siete esibiti?
Angelo: «In Kamchatka, sul mare di Bering».
Angela: «Siamo atterrati di notte, con 25 gradi sottozero. Ci hanno portato in un centro termale a fare il bagno nell’acqua calda che sgorgava tra le rocce vulcaniche, ogni tanto saliva uno zampillino rovente che bruciava i piedi».
Un concerto sfigato dove va tutto storto?
Angela: «No, siamo fortunelli, arriviamo che non funziona niente e di colpo si ripara tutto».
Angelo: «Se piove, smette. E ricomincia appena finiamo di cantare».
Il piatto più tremendo che vi è toccato mangiare in tour?
Angelo: «In Siberia ci fecero assaggiare i pelmeni, ravioli ripieni di carne di alce, un sapore atroce».
Angela: «In Kazakistan abbiamo bevuto il latte di cammello, è acido. Però il khachapuri, un pane ripieno di uova e formaggio che fanno in Georgia, è meraviglioso. Come il borsch, la zuppa di barbabietole rosse».
Riti scaramantici pre-show?
Angelo: «Nessuno, crediamo in noi e in quel che facciamo».
Angela: «Al massimo ti dai una toccatina, che poi io non ho niente da toccare».
Discussioni tra voi?
Angelo: «Qualche volta, ma niente di grave, se resistiamo insieme da 55 anni».
Angela: «Cinquantacinque che ti sopporto».
I critici vi maltrattavano.
«Ci rimproveravano di essere troppo popolari. Negli anni Settanta e Ottanta era un’offesa, oggi siamo pop, una consacrazione».
A The Voice giudicate voi i concorrenti.
Angelo: «Sono timido, ho sempre paura di offenderli».
Angela: «Non devi mica dirgli che fanno schifo, solo dare qualche consiglio».
Con Toto Cutugno e Al Bano siete amici veri.
Angelo: «Abbiamo fatto tante tournée insieme, siamo molto affezionati a entrambi. Quando si è sposata Cristel, la figlia di Al Bano, lui ci ha voluto in chiesa a cantare l’Ave Maria, promettendoci che avrebbe ricambiato. E infatti è venuto al matrimonio di mio figlio. Quello di Angela invece non si è ancora sposato».
Angela: «Magari canterà alle mie nozze, se mi risposo con un bel vecchietto».
Angelo Sotgiu dei Ricchi e Poveri: le origini sarde, il matrimonio che dura da 40 anni, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.
Il cantante - insieme all’inseparabile Angela Brambati - è tra i coach del talent The Voice Senior. Stasera il secondo appuntamento, alle 21.25 su Rai 1
Nato in Sardegna
Angelo Sotgiu dei Ricchi e Poveri, insieme all’inseparabile Angela Brambati, è tra i coach della nuova edizione di The Voice Senior (questa sera su Rai 1 alle 21.25 il secondo appuntamento). Nato il 22 febbraio 1946 in provincia di Sassari, a Trinità d’Agultu in Gallura, si trasferì con la famiglia a Genova all’età di sedici mesi. «Io non mi sento sardo, io sono sardo - raccontava nel 2013 al quotidiano La Nuova Sardegna -. Tornai in Sardegna a 11 anni e subito me ne innamorai, in particolare dell’Isola Rossa e del suo mare straordinario. Tanto che con i primi soldi guadagnati con i Ricchi e Poveri comprai una casetta ai miei genitori proprio all’Isola Rossa. Nella stessa località con i miei compagni per tanti anni siamo venuti in vacanza. A maggio, però. Ci portavamo dietro tutti quelli che lavoravano con noi, una volta eravamo in 24».
Non voleva cantare
Oggi i Ricchi e Poveri hanno alle spalle più di 50 anni di carriera. E pensare che inizialmente Angelo non voleva cantare. Fu Angela a convincerlo: «Mi vergognavo - diceva Sotgiu nel 2016 a Vanity Fair -. Da ragazzo avevo chiesto a mia madre di comprarmi una chitarra. Per accontentarmi avrebbe dovuto firmare cambiali, così decise di chiedere prima il parere di un musicista. Avevo 12, 13 anni. Mi fece cantare e sentenziò: “Nella vita potrà fare tutto meno che il cantante”».
Gli inizi con i Jets
Prima di dare vita ai Ricchi e Poveri nel 1967 Angelo Sotgiu e Franco Gatti (morto il 18 ottobre 2022 a 80 anni) hanno fatto parte dello stesso complesso, i Jets: il primo come cantante-sassofonista e il secondo come chitarrista. Con i Jets Angelo e Franco hanno inciso quattro 45 giri, tra il 1963 e il 1964, per l’etichetta ITV di Genova.
Come è diventato il «biondo» dei Ricchi e Poveri
È stato il primo produttore della band, Franco Califano, a trasformare Angelo nel «biondo» dei Ricchi e Poveri: fu lui a consigliare questo radicale cambio look (anche a Marina, mentre Angela diventò la «brunetta»). Una curiosità che forse non tutti sanno è che anche la madre di Angelo, in quell’occasione, si fece bionda.
Lui e Angela sono stati fidanzati
Agli inizi della carriera Angela Brambati e Angelo Sotgiu hanno vissuto una breve storia d’amore. Si sono conosciuti giovanissimi: lei aveva 16 anni, lui 17. «Angelo è la mia famiglia - ha detto Brambati a Gigi D’Alessio nella prima puntata di The Voice Senior -. È un figlio, un fratello, è tutto». «E tu anche per me», ha subito risposto l’altro componente dei Ricchi e Poveri.
Il malore nel 2014
Nel 2014, proprio nei giorni del Festival di Sanremo, Angelo Sotgiu è stato ricoverato in ospedale, a Genova, in seguito ad un malore: «Una sera ho avuto un dolore al cuore, un peso sul petto - ha poi raccontato in un’intervista a Dipiù -. Sono rimasto quattro giorni in ospedale per accertamenti. Avevo qualche vena ostruita per colpa del fumo. Ero molto stanco, avevo trascorso quasi tutto il giorno nello studio di registrazione e lavorando mi ero affaticato molto. Ho sentito un dolore al petto e ho spento subito la sigaretta perché avevo capito che era colpa sua. Ho avuto paura ma non ho chiamato nessuno». Fortunatamente nei giorni successivi le condizioni di salute del cantante sono andate subito migliorando.
Sotto la maschera di Baby Alieno
Nel corso della loro carriera i Ricchi e Poveri hanno preso parte a numerosi programmi televisivi, tra cui Music Farm (come concorrenti, 2004), Sanremo Young (come giurati, 2018) e Ora o mai più (come coach, 2019). Sono stati anche ballerini per una notte a Ballando con le stelle e nel 2021 hanno partecipato a Il cantante mascherato, nascosti sotto la maschera di Baby Alieno (il gruppo si ritirò dalla gara in diretta).
40 anni di matrimonio
Nel 1982 Angelo Sotgiu ha sposato Nadia Cocconcelli, già sua compagna da diversi anni. I due si erano conosciuti nell’ambito dello spettacolo itinerante «Teatro Music Hall» organizzato da Pippo Baudo (Nadia faceva parte del cast in qualità di cantante e ballerina mentre Angelo si esibiva insieme ai Ricchi e Poveri).
I Ricchi e Poveri a The Voice Senior: che lavoro faceva prima di diventare famosa, la lite con Marina Occhiena, 8 segreti su Angela Brambati. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 13 Gennaio 2023.
La «brunetta dei Ricchi e Poveri» sarà, insieme ad Angelo Sotgiu, tra i coach dello show, in onda su Rai 1 dal 13 gennaio ogni venerdì in prima serata
Ha lavorato come benzinaia
I Ricchi e Poveri approdano a The Voice Senior, il talent condotto da Antonella Clerici che premia le più belle voci over 60. Insieme all’inseparabile Angelo Sotgiu Angela Brambati sarà tra i coach di questa edizione - la terza - dello show, che torna dal 13 gennaio ogni venerdì in prima serata su Rai 1, insieme ai confermatissimi Loredana Berté, Gigi D’Alessio e Clementino. Forse non tutti sanno che la «brunetta dei Ricchi e Poveri», nata a Genova il 20 ottobre 1947, prima di dedicarsi alla musica da giovanissima ha lavorato come benzinaia. «Abitavamo attaccati a un distributore di benzina - ha raccontato Angela a Io Donna nel 2018 -, andavo ad aiutare i miei amici che lo avevano in gestione e mia mamma, da casa, mi buttava il panino per la merenda». E questa non è l’unica curiosità su di lei.
Miss al Giro dell’Appennino
Nel 1964, a 17 anni, è stata miss al Giro dell’Appennino (fu lei a premiare il vincitore della gara ciclistica, Franco Cribiori).
Come nacquero i Ricchi e Poveri
Nei primi anni Sessanta Angelo Sotgiu e Franco Gatti (scomparso a 80 anni lo scorso 18 ottobre) suonavano in una band, i Jets. Erano, rispettivamente, cantante-sassofonista e chitarrista. «Io andavo a ballare con una mia amica nel locale dove suonavano. Ci siamo conosciuti lì», ha raccontato qualche anno fa Angela a Vanity Fair. Quando il gruppo si sciolse Angelo e Franco decisero di dare vita ad un quartetto polifonico, insieme a Brambati (all’epoca fidanzata di Sotgiu) e ad una sua amica, conosciuta in una scuola di canto: Marina Occhiena.
I primi successi
Il primo a credere in quelli che sarebbero diventati i Ricchi e Poveri fu Fabrizio De André, che organizzò ai quattro un'audizione presso una casa discografica milanese (che però non andò bene). Fu poi il cantautore Franco Califano a prenderli sotto la sua ala: fu lui a suggerire il nome Ricchi e Poveri («Siete ricchi di spirito e poveri di tasca», disse), creò nuovi look - fece tagliare i capelli corti ad Angela e tingere di biondo Angelo e Marina -, e diventò il loro produttore. Dopo aver esordito al Cantagiro nel 1968 i Ricchi e Poveri parteciparono per la prima volta - nel 1970 - al Festival di Sanremo con «La prima cosa bella». Arrivarono secondi. Stesso risultato anche l’anno successivo, con «Che sarà».
Il matrimonio
Prima di quel fortunato Sanremo Angela e Angelo si lasciarono, ma rimasero in buoni rapporti («Lui aveva un codazzo di donne, si era fatto le sue storie. All’inizio ci avevo un po’ sofferto, poi ha prevalso l’affetto. La verità è che eravamo troppo giovani. Siamo come fratello e sorella. Tanto che quando sono andata a vivere in campagna e mi sono isolata lui ci pativa», raccontava nel 2016 Angela a Vanity Fair). Successivamente Angela si sposò con un albergatore, Marcello Brocherel. Dall’unione, nel 1976, nacque il figlio Luca.
La lite con Marina Occhiena
L’unione con Brocherel naufragò, burrascosamente, nel 1981: alla vigilia di una nuova partecipazione del gruppo al Festival di Sanremo (con un’altra canzone poi diventata una hit, «Sarà perche ti amo») Angela accusò Marina di aver avuto una relazione con il marito. Quest’ultima lasciò così il gruppo, che rimase in formazione a tre. Nel 2020 la reunion, sempre sul palco della kermesse festivaliera. Inizialmente Angela non era convinta (diceva lo scorso anno a Rolling Stone «noi andavamo bene, avevamo una sicurezza di lavoro e di successo anche in Russia, in Kazakistan, avevamo paura di fare troppi cambiamenti prima eravamo in quattro, poi in tre, infine eravamo rimasti solo io e Angelo ed era un po’ triste. Non mi sono entusiasmata subito all’idea») poi però ha cambiato idea: «Ho ritrovato Marina, che conoscevo da quando avevamo 16 anni. E sono contentissima a prescindere dal lavoro. Ho ritrovato un’amica».
Ha avuto un agriturismo
A Borassi nel 2012 Angela ha aperto, insieme a suo figlio, un agriturismo (oggi chiuso): la «Locanda di mamma Maria», il cui nome si rifà ad un’altra celebre canzone dei Ricchi e Poveri .
Il tormentone di Maurizio Micheli
L’innamorato pazzo della «brunetta dei Ricchi e Poveri», ve lo ricordate? Era uno dei personaggi interpretati alla fine degli anni Settanta dall’attore e comico livornese Maurizio Micheli, che in ogni sketch cercava di convincere Angela Brambati a sposarlo (in un’occasione, a diventare punk).
I Rolling Stones.
Estratto dell'articolo di Simona Orlando per "la Repubblica" venerdì 20 ottobre 2023.
«Ho dovuto dare una scadenza al gruppo o Hackney Diamonds non sarebbe uscito. Nessuno ci chiedeva: ma il disco nuovo? Senza, abbiamo addirittura fatto un tour». Mick Jagger chiama puntuale via Zoom. […]Un disco di inediti, dopo diciotto anni. Anzi un disco nuovo, fresco, contro ogni pronostic […] Gli Stones fanno se stessi, qua e là citano ancora il sesso e la compagnia del diavolo, e vanno oltre con Stevie Wonder al Rhodes Fender e Lady Gaga. «Era lì che registrava nello studio accanto ed è passata a trovarci», minimizza Jagger[…]
[…] In due brani swinga lo scomparso Charlie Watts (uno è con l’ex bassista Bill Wyman), e in Bite My Head Off Paul McCartney sguaina un basso distorto. Beatles e Stones uniti. Si mischiarono già in ordine sparso ma mai così. La linguaccia continua, il famoso logo campeggerà anche sulla maglia del Barça nel ‘clasico’ del 28 ottobre con il Real Madrid. […]
Con McCartney fate un pezzo punk. È andata come ragazzini in un negozio di caramelle?
«Sì! Per gli Stones ho scritto vari pezzi punk, ma questo l’ha fatta franca. La sua rabbia è nata nel lockdown. Per Paul pensavo più ad una ballata, non ero convinto di fare insieme questo pezzo. Gli piacerà una roba così energica? Be’, l’ha adorata, ed è stato bravissimo. Buona la prima. È un musicista dall’apprendimento rapido. Mi sono divertito un mondo».
Siete ormai liberi dal ruolo di rivali?
«Certo, anche se di tanto in tanto Paul se ne esce con cose divertenti, tipo che gli Stones sono una cover band di blues. La mia risposta con un sms: “Non sono offeso, Paul. Mi stai dando un sacco di materiale comico per una commedia”».
Non è l’ultimo pezzo con lui, vero?
«Il secondo sarà nel prossimo disco. Abbiamo undici tracce buone, in alcune suona Charlie. Sarebbe felice di sapere che continuiamo».
[…]
Lady Gaga in studio era ai suoi piedi.
«Non troppo sicura di sé all’inizio. Seduta a terra, faceva solo vocalizzi, poi le ho dato il testo e ha tirato fuori una gran voce».
[…]Gli Stones furono protagonisti di una rivoluzione culturale. Le spiace che la musica non incida più così sulla società?
«È un grande tema, però io non credo che l’arte non sia più rilevante. Musica, teatro, cinema, filosofia, anche se non diventano un movimento, fanno ancora differenza nella vita delle singole persone».
Non guardarsi mai indietro è un segreto della longevità?
«Io mi guardo indietro, ma non voglio stare solo lì, mi spiego? Lo so che è stiloso dire “Io vivo il momento”, ma desidero davvero stare qui e ora. Ci pensano gli altri a ricordarmi costantemente il passato».
[…]
Pianificate un tour?
«Per il 2024, in posti grandi, anche se non abbiamo ancora prenotato».
Come vorreste essere ricordati?
«Diranno solo che gli Stones sono la rock band più longeva del mondo! In pratica, arrivi al punto da essere famoso perchè sei rimasto in giro più a lungo degli altri. Piacevole, ma vorrei essere menzionato più per le cose che ho fatto o sto facendo. Comunque, non m’importa più di tanto».
Non prende la vita troppo seriamente?
«Penso ancora che la vita sia solo una moda passeggera».
Estratto dell'articolo di Andrea Palazzo per "Il Messaggero" mercoledì 18 ottobre 2023.
Mick Jagger la definì «Il sesto membro dei Rolling Stones» ma Anita Pallenberg, morta nel 2017 a 75 anni, oggi è dimenticata da tutti. […]. Che l'aria stia cambiando, ce lo suggeriscono il documentario Catching the fire: the story of Anita Pallenberg di Alexis Bloom e Svetlana Zill (sarà alla Festa del cinema di Roma il 20 ottobre) e il libro di Elizabeth Winder, Parachute Women (Hachette, Usa).
Entrambi vogliono rendere giustizia a un personaggio che ha avuto un'influenza determinante sui Rolling Stones […] «Basta ipocrisie, il loro successo deve molto a una figura carismatica come Anita, che negli anni 60/70 ha lavorato instancabilmente dietro le quinte per farli diventare i rivoluzionari bohémien che avrebbero stregato il mondo».
Secondo la Winder, […] «La Pallenberg era molto più cool degli Stones, che agli inizi era una band della classe media: leggevano cruciverba, guardavano Bond e vestivano con pantaloni comprati dalla mamma - dichiara la Winder -. Lei e la sua amica Marianne Faithfull (76) gli hanno aperto le porte all'arte underground e agli stili di vita alternativi, mettendoli in contatto con registi e scrittori come Allen Ginsberg. Sono state anche stylist, creando look provocatori presi in prestito dai loro guardaroba e pur senza suonare nel gruppo, li hanno aiutati a remixare i brani e scrivere i pezzi».
Come è successo nelle vite di tanti artisti degli anni '60, tutto è iniziato con la droga. Gli Stones non avevano mai fatto uso di sostanze illegali finché un giorno del 65 incontrarono la giovane modella italo-tedesca: «Volete fumarvi una canna?», chiese la Pallenberg. Lei era cresciuta a Roma, frequentando Mario Schifano e dopo una breve periodo alla Factory di Warhol, era approdata a Londra negli ambienti dell'avant-garde come il Living Theatre. […]
«Li ha sedotti con la sua elegante spavalderia cosmopolita - racconta la Faithfull nel libro - e ha trasformato questi cinque ragazzotti goffi e irrimediabilmente ingenui, portandoli a infrangere ogni regola». «Sarebbe ingiusto definirla solo musa. Era l'asse centrale degli Stones, l'ingrediente magico del loro successo», ha scritto il giornalista musicale, Robert Greenfield.
[…]. All'inizio, c'è il racconto del suo invaghimento con il polistrumentista del gruppo, Brian Jones, […] Dopo le intemperanze di Brian (sarebbe morto per overdose nel '69), la donna passo a Keith con spontanea nonchalance («Quando fai sesso con lei, non te lo scordi più», rivelò lui).
La sua influenza fu fondamentale su quel chitarrista così introverso, che se ne innamorò subito e nella sua orbita sbocciò, adottando l'aura da musicista maledetto per cui diventò famoso. Un giornalista notò che la differenza tra l'aspetto di Richards prima e dopo Anita era come quella «tra un cantante pop anni '50 e Jack lo Squartatore».
La Pallenberg, intanto, intraprendeva una fortunata carriera di attrice, ottenendo un ruolo in Barbarella e quello della moglie del protagonista di Dillinger è morto. Ma Keith la persuase a lasciare il cinema, ingelosito dalle scene di sesso nel film Sadismo - forse non simulate - proprio insieme a Mick Jagger, che si era invaghito della donna. E se Richards le dedicava Gimme shelter dopo che era tornata da lui, uno Jagger inconsolabile firmava You Can't always get what you want. Passati 13 anni di vita insieme, la storia fra Anita e Keith si esaurì: «Eravamo arrivati al punto che l'unica cosa in comune erano gli spacciatori», disse lei, che al termine dell'avventura con il musicista riuscì finalmente a disintossicarsi e si dedicò negli ultimi anni alla moda, diventando amica di Kate Moss. […]
DAGONEWS sabato 7 ottobre 2023.
È forse la mossa meno appariscente che i Rolling Stones abbiano mai fatto. E forse anche la più imbarazzante. Hackney Diamonds, il nuovo album degli Stones che uscirà su Polydor il 20 ottobre, vede il ritorno di Bill Wyman , il bassista scomparso dai radar più di 30 anni fa.
Wyman, 86 anni, suona il basso nel brano “Live By The Sword”: è scomparso dalla scena pubblica dopo lo scandalo esploso dopo il suo matrimonio con la fidanzata Mandy Smith, che aveva 18 anni, nel 1989. Si sono conosciuti quando lei aveva 13 anni e lui 47, e lei successivamente ha detto che hanno fatto sesso per la prima volta quando lei aveva 14 anni.
Wyman non lo ha negato, ma ha difeso la relazione definendola "emotiva e speciale". In un film sulla sua vita nel 2019 ha aggiunto che è stato un errore sposarla. Ha anche detto di essersi rivolto alla polizia per discutere della relazione, ma gli è stato detto che non erano interessati.
Nelle interviste alla stampa rilasciate finora da Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood, il nome di Wyman non è stato fatto - il trio ha invece parlato di collaborazioni con Sir Paul McCartney e Lady Gaga - e lui non ha partecipatp al loro photocall a Londra.
La biografa degli Stones, Lesley-Ann Jones, che era presente all'inizio della storia d'amore di Wyman con la studentessa Smith, dice di essere disgustata da questo ritorno: «Quando ho saputo che aveva lavorato con la sua vecchia band per il nuovo album, mi si è accapponata la pelle. La relazione tra Bill Wyman e Mandy Smith era illegale e immorale. Fu accettato e qualcuno fece finta di non vedere».
Wyman ha raccontato di ver visto per la prima volta la tredicenne Smith al Lyceum Ballroom di Londra. Ha detto che lei lo faceva sentire come se fosse stato "colpito in testa con un martello".
La relazione fu tenuta segreta fino a quando lei non ebbe 16 anni. Si sposarono quando lei ne aveva 18 e al matrimonio parteciparono Jagger, Richards, Wood e le loro mogli.
In un'intervista del 2010, Smith ha detto: «È stato tenuto nascosto alla stampa e agli sconosciuti, ovviamente. Per i primi due anni ho dovuto mentire. Quando uscì la notizia avevo 16 anni, quindi suppongo che non fosse poi così male. Anche se era ancora brutto. Si scateno l'inferno». La coppia si separò nel 1991. In questo periodo Wyman lasciò gli Stones.
Traduzione dell’articolo di Neil Shah per wsj.com mercoledì 27 settembre 2023.
Quest'anno Mick Jagger avrebbe dovuto cantare "Start Me Up" negli stadi di tutti gli Stati Uniti. Nel mondo della musica si diceva che il tour era stato prenotato. Invece, ad aprile i Rolling Stones hanno fatto uno scherzo interno tramite i social media: una foto del 1972 di un Keith Richards debosciato accanto a un cartello con la scritta: "Pazienza per favore... Un'America libera dalla droga viene prima di tutto!". Il messaggio? I fan degli Stones non possono sempre ottenere ciò che vogliono.
"Volevo avere l'estate libera", dice Jagger ridendo durante una videochiamata dall'Italia in una soleggiata giornata di agosto, nonostante le speculazioni su malattie o infortuni.
Jagger si meritava "di prendersela un po' comoda", come ha detto lui stesso. Gli Stones non saranno più in tournée come un tempo, ma restano tra le più grandi attrazioni della musica dal vivo, con tournée quasi annuali negli ultimi dieci anni. Jagger ha un figlio di 6 anni con la fidanzata Melanie Hamrick. Nel 2019 si è sottoposto con successo a un intervento al cuore. A luglio ha compiuto 80 anni.
Oltre a tutto questo, la macchina promozionale degli Stones ha ingranato la marcia più alta per sostenere l'uscita, in ottobre, di Hackney Diamonds, il primo album di materiale originale della band in 18 anni. Affrontare l'album e il tour contemporaneamente lo avrebbe distrutto, dice Jagger. Così ha deciso di rimanere a casa. Un Mick Jagger felice e in salute è un Rolling Stones felice e in salute. È il tipo di acume manageriale chiaro e lungimirante che ha aiutato la band a rimanere l'impresa rock 'n' roll più longeva dei nostri tempi.
Jagger non aveva intenzione solo di rilassarsi in piscina. C'era un servizio fotografico a New York. Interviste con la band. Video musicali da realizzare. Quando mi ha parlato dall'isola italiana della Sicilia, dopo aver ospitato di recente i suoi figli e i loro partner ("è stato molto divertente e... un po' impegnativo"), Jagger si stava godendo un po' di pace e tranquillità. La settimana successiva si sarebbe recato a Parigi per vedere gli amici e assistere a uno spettacolo degli Imagine Dragons.
"Sono molto fortunato a essere così in salute", dice, sminuendo il fatto che mangia con attenzione e va in palestra quasi ogni giorno. "È più che altro fortuna. È solo genetica".
La generazione del rock 'n' roll sta scomparendo sotto i nostri occhi. La serie di necrologi recenti può indurre una sorta di vertigine. Eppure i Rolling Stones sono durati, lasciandoci l'illusione che la mortalità possa rimanere un problema di domani.
I Beatles non hanno superato il decennio. Gli Stones, formatisi nel 1962, sono al sesto. La prima volta che Jagger ricorda che gli fu chiesto se gli Stones avrebbero mai fatto un altro tour fu nel 1966. Due anni dopo, la rivista Rolling Stone pubblicò una copertina sul loro ritorno. Quando la band pubblicò il suo ultimo grande successo, "Start Me Up" del 1981, fu considerata da molti come un gruppo finito. Sono ormai 50 anni che si parla di "vecchiaia" degli Stones.
Come ha fatto questa band, più di ogni altra della sua epoca, a rimanere unita? La risposta più convincente potrebbe essere quella di un giovane che ha abbandonato la London School of Economics, Michael Philip Jagger, che è diventato inavvertitamente una leggenda del mondo degli affari oltre che della musica. Jagger dice di non aver mai pensato di costruire il primo marchio colossale del rock. Tuttavia, ha tracciato un percorso che ha portato gli artisti lontano dall'ingenuità e dal potenziale sfruttamento, fino a un commercialismo sfrenato, come nel caso dell'"Eras Tour" di Taylor Swift. È stato un atto di autoconservazione, dice. In realtà non mi piacciono gli affari, capite cosa intendo?", dice. "Alcune persone lo amano e basta. Io devo farlo e basta. Perché se non lo fai, sei fottuto”.
Secondo l'ortodossia dei Rolling Stones, è stato Keith Richards a tenere insieme la band quando ha rischiato di disfarsi in vari momenti, soprattutto durante gli anni '80. Ma c'è da credere che se non fosse stato per Mick Jagger, gli Stones sarebbero già crollati.
Le minacce mortali nel corso dei decenni sono state numerose: la tragica instabilità di Brian Jones, i gravi conflitti con i partner commerciali, la dipendenza dall'eroina di Keith Richards, le intense lotte intestine della band che Richards una volta ha definito "Terza Guerra Mondiale", la morte nel 2021 dell'amato cronometrista della band, il batterista Charlie Watts. Ma il serendipico mix di competenze di Jagger lo ha reso in qualche modo l'amministratore delegato ideale per portarli a termine.
Non si tratta solo del fatto che Jagger è uno dei più grandi frontman della storia del rock. Non è solo la sua atleticità sul palco (corre una mini-maratona ogni sera), o la sua intelligenza negli affari. È la sua lucidità, la sua istintiva avversione all'auto-mitologizzazione e alla sovraesposizione. Musicalmente, è la sua apertura a nuove sonorità, che si tratti di pop, reggae o disco. Forse, più di ogni altra cosa, è la sua mancanza di sentimentalismo.
La resilienza degli Stones parla dell'ombra lunga dei boomers, ma significa anche qualcosa di decisamente controculturale: la necessità per i musicisti pop di essere uomini d'affari. Gli Stones non erano dei veri e propri esperti di finanza quando hanno iniziato. Hanno imparato nel modo più duro, avendo seri problemi di business. Ancora oggi, non possiedono i diritti d'autore di grandi successi degli esordi come "Satisfaction". Vi ricorda qualcosa? Anche nel 2023, artisti potenti come Taylor Swift possono ancora avere difficoltà a possedere e controllare il proprio lavoro a causa di decisioni precoci.
Mick Jagger era all'avanguardia: Gli Stones hanno investito in merchandising, branding e sponsorizzazioni in un'epoca in cui fare soldi era proibito. Loro hanno preso i proiettili, mentre gli artisti di oggi raccolgono i soldi.
"Una delle cose di cui sono davvero orgoglioso, con gli Stones, è che siamo stati i pionieri dei tour nelle arene, con il loro palco, il loro suono e tutto il resto, e abbiamo fatto lo stesso con gli stadi", dice Jagger. "Voglio dire, nessuno ha fatto un tour negli stadi".
Se vi state chiedendo perché gli Stones hanno impiegato 18 anni per completare un nuovo album di canzoni originali, c'è una ragione assolutamente non sexy: Continuavano ad andare in studio e ad uscirne a mani vuote.
Richards ama fare jam session in studio in modo meno strutturato, coltivando le condizioni per l'ispirazione: un grande groove, una melodia indimenticabile. Ma Jagger è pragmatico e orientato ai risultati. Non gli è piaciuto particolarmente l'interminabile soggiorno francese, drogato, che ha prodotto il classico degli Stones del 1972 Exile on Main Street. Non è un robot, ma vuole che le sessioni di registrazione si traducano rapidamente in canzoni.
Gli Stones erano quindi in crisi. Per risollevarli, Jagger fissò un calendario serrato e assunse un nuovo produttore. Da questi sforzi è nato Hackney Diamonds, un mix relativamente diretto e senza fronzoli di rocker e ballate che sembra racchiudere le diverse epoche degli Stones.
Dopo la conclusione dell'ultimo tour europeo della band nell'agosto del 2022, Jagger si sedette con Richards. Disse che gli Stones avrebbero dovuto fare un salto di qualità, anche se nessuno era particolarmente entusiasta del materiale che avevano registrato. Richards era d'accordo.
Ma Jagger voleva anche una scadenza. "Quello che voglio fare è scrivere alcune canzoni, andare in studio e finire il disco entro San Valentino", disse a Richards. "Che è solo un giorno che ho scelto dal cappello, ma che tutti possono ricordare. E poi andremo in tour con questo disco, come facevamo una volta".
Richards disse a Jagger che non sarebbe mai successo.
"Gli ho detto: "Forse non succederà mai, Keith, ma l'obiettivo è quello. Dobbiamo avere una cazzo di scadenza"", dice Jagger, facendo un movimento di karate. "Altrimenti andremo in studio per due settimane, ne usciremo e sei settimane dopo ci torneremo. Come dire, no. Fissiamo una scadenza". (Richards ha rifiutato una richiesta di intervista).
Jagger dice che stava cercando di replicare la rapida evoluzione di Some Girls del 1978, un album incisivo e di ispirazione newyorkese guidato da Jagger che includeva la hit "Miss You" e rinvigoriva la band. "Non che tu abbia fretta", dice Jagger. "Ma non stai facendo, tipo, la 117. In modo da non rimanere impantanati in conversazioni sul fatto che questa canzone sia buona o che ne valga la pena".
Gli Stones avevano già preparato un paio di brani con il compianto Charlie Watts alla batteria, tra cui "Mess It Up", che evoca "Miss You", in stile disco. Ma "il resto è stato fatto tutto molto in fretta", dice Jagger. L'obiettivo era quello di dare urgenza alle registrazioni. "Anche se è una bella canzone, se non è fatta con entusiasmo, non ti colpisce davvero, no?", dice.
Per rinfrescare le cose, Jagger ha scelto Andrew Watt, 32 anni, produttore pop e rock, vincitore di un Grammy, che Jagger ha conosciuto grazie a Don Was, che ha prodotto gli album in studio degli Stones negli anni '90 e 2000. "Mick serve le persone. E Keith le tiene o le butta via", dice Watt.
A partire dallo scorso novembre, Jagger, Watt e gli Stones sono entrati negli Henson Recording Studios di Los Angeles e, nei mesi successivi, hanno ridotto centinaia di potenziali canzoni a circa 25 brani. In un modo diverso per la band, Watt ha il merito di aver scritto tre composizioni che sono state inserite nell'album, tra cui "Depending on You", i cui accordi Jagger, Richards e Watt hanno scritto insieme dopo aver scartato alcuni dei brani proposti da Jagger stesso.
"Keith, io e Andy volevamo fare una ballata, e io continuavo a dire: "Ho queste grandi ballate, facciamo questa!". ", racconta Jagger. "Loro dicevano: 'Beh, non è abbastanza buona'. 'Ok, eccone un'altra!'... Dicevano: 'No, scriviamone una da zero'". "
La lista degli ospiti dell'album è una riunione di amici musicisti di alto livello, tra cui Paul McCartney (che ha contribuito al basso), Elton John (pianoforte), Stevie Wonder (pianoforte) e Lady Gaga (voce), l'ultima delle quali si è trovata a lavorare nello stesso studio durante una sessione. Compare anche Bill Wyman, l'ottantaseienne bassista originale degli Stones, che ha smesso di suonare con la band negli anni Novanta.
La scadenza ha funzionato, dice Jagger. Gli Stones registrarono le tracce di base in quattro settimane e alla fine si accordarono su 12 canzoni. Hackney Diamonds è stato effettivamente realizzato poche settimane dopo il giorno di San Valentino. "Non suonano come degli ottantenni in questo disco", dice Watt.
Una lunga coda per la produzione di dischi in vinile, tuttavia, ha impedito agli Stones di pubblicare immediatamente l'album. "Ho incontrato i responsabili della casa discografica e ho detto: "Beh, quando potete farlo uscire?"". racconta Jagger. "E loro mi hanno risposto: "E a Natale?" E io: "Ma vaffanculo. Natale? No. "Il compromesso: ottobre. La band sta parlando di andare in tournée negli Stati Uniti e, si spera, altrove, l'anno prossimo.
In Sicilia, Jagger è apparso rilassato e gioviale, indossando una maglietta bianca con scollo a V e una camicia sbottonata. Era fluido e scattante. Faceva battute. L'estate di riposo stava facendo la sua magia.
Ho chiesto a Jagger se pensava che questo potesse essere l'ultimo album originale degli Stones. "No, perché abbiamo un intero album di canzoni che non abbiamo pubblicato!". dice Jagger. "Devo finirle. Ma ne abbiamo fatto tre quarti".
Jagger non sopporta l'idea che lui si occupi solo di affari mentre Richards si occupa dell'arte ("Mi piace andare nella mia stanza della musica, accendere un loop di batteria e fare una canzone: è divertente"). Ha le sue mancanze personali e riconosce di aver contribuito alle tensioni interne alla band. "Non sono stato perfetto", dice.
Il suo desiderio di costruire una propria identità artistica lontano dagli Stones ha portato le cose sull'orlo del baratro con Richards negli anni Ottanta. In generale, non ama indulgere in discussioni sul mito degli Stones. "Non mi guardo mai indietro", dice.
Eppure, a malincuore, ammette di aver avuto un'influenza stabilizzante sugli Stones. Più volte ha fatto andare avanti le cose. "Voglio dire, è un po' il mio ruolo, sapete? Credo che la gente si aspetti che io lo faccia", dice. "Non credo che qualcuno dica: 'Oh, dovrei fare il ruolo di "chiarezza"'. Non vedo Ronnie [Wood, chitarrista di lunga data della band] che mi dice: 'Mick, penso che dovresti ritirarti dal ruolo di chiarezza e visione e lo farò io'. Nessun altro vuole farlo! Mi hanno semplicemente scaricato. E ho fatto molti errori, quando ero molto giovane. Ma si impara".
Le radici del lavoro di Jagger alla guida degli Stones risalgono a Dartford, in Inghilterra, dove da bambino incontrò per la prima volta Richards, che abitava a una strada di distanza. Il padre di Jagger era un insegnante di educazione fisica. Da adolescente, Jagger si esibisce nei club mentre studia finanza e contabilità alla London School of Economics. Alla fine abbandonò gli studi, decisione che fece infuriare il padre.
Dopo il decollo degli Stones negli anni Sessanta, si sentirono scottati dal loro stesso team. Avevano assunto il contabile americano Allen Klein, impressionato dai suoi sforzi per conto di altri artisti. Klein negoziò un nuovo accordo con l'etichetta Decca, facendo ottenere agli Stones un enorme anticipo di un milione di sterline per il loro prossimo album. Ma alla fine Klein e gli Stones finirono per litigare in tribunale.
Tra i problemi c'era quello di ottenere la proprietà delle canzoni degli Stones. Di conseguenza, oggi è la sua società, ABKCO Music & Records, a detenere i diritti d'autore per la musica degli Stones precedente al 1971. È morto nel 2009.
Jagger ha assunto un banchiere privato, Prince Rupert Loewenstein, per ricostruire la loro attività. Si scoprì che agli Stones non mancava solo la liquidità: dovevano una grande quantità di tasse arretrate, creando una spirale di debito schiacciante, date le aliquote fiscali britanniche. Gli Stones fecero causa a Klein e, all'inizio degli anni Settanta, si esiliarono in Francia per rientrare in attivo. (Il contenzioso continuò per molti anni).
"L'industria era così nascente che non aveva il supporto e la quantità di persone in grado di consigliarti come oggi", dice Jagger. "Ma sai, succede ancora. Voglio dire, guardate cosa è successo a Taylor Swift! Non conosco bene i dettagli, ma ovviamente non era felice".
Negli anni Settanta, gli Stones hanno lanciato tour giganteschi - il loro tour negli Stati Uniti del 1972, ad esempio, è diventato un evento di cultura pop molto simile all'Eras Tour di Swift - che hanno inaugurato l'era moderna dei concerti. I tour erano ancora inefficienti dal punto di vista commerciale. Ma col tempo Jagger ha contribuito a trasformare gli Stones in una macchina ben oliata per la musica dal vivo, in grado di realizzare ripetutamente i tour con i maggiori incassi di sempre.
La dipendenza da eroina di Richards si aggravò negli anni Settanta. Questo, insieme all'umiliante vicenda Klein, spinse Jagger ad assumere un ruolo più centrale nell'attività della band. Forse gli sforzi di Jagger in questo periodo salvarono anche, indirettamente, la vita di Richards. Tuttavia, le tensioni tra i due si acuirono, raggiungendo il punto più oscuro a metà degli anni Ottanta, durante l'album Dirty Work del 1986.
Richards voleva portarlo in tour. Jagger disse di no, in parte perché Richards e anche Charlie Watts erano entrambi in pessime condizioni con la droga. "Col senno di poi, avevo ragione al cento per cento", disse Jagger al cofondatore di Rolling Stone Jann Wenner in un'intervista del 1995. "Sarebbe stato il peggior tour dei Rolling Stones. Probabilmente sarebbe stata la fine della band".
"Ci sono stati molti litigi", mi dice ora Jagger. "E poi, con Charlie che non funzionava più... probabilmente perché era il suo modo di fuggire. Arrivi a una certa età e non vuoi avere a che fare con queste cose. Voglio dire, tutti prendevano droghe, gli anni '80 sono stati un grande periodo di droga. Ma anche gli anni '70! E gli anni '60!".
La mano guida di Jagger si estende anche alla musica degli Stones.
Quando immagino la collaborazione di Jagger e Richards nella scrittura delle canzoni, immagino un atomo, con un elettrone che sfreccia intorno al nucleo. Richards è il nucleo, l'"anima" della band, l'eterno custode della sua fiamma musicale. Per decenni ha sposato un suono rock 'n' roll alla Chuck Berry, suonato nel suo modo inimitabile e staccato. Ma il nucleo generativo degli Stones non risiede solo in lui, ma nella tensione tra lui e Jagger, che, come l'elettrone, lo spirito errante, è volubile, avventuroso e incostante, si diletta in nuovi generi e collaborazioni e li riporta tutti a casa negli Stones. Grazie all'apertura mentale di Jagger, il gruppo ha subito nel tempo cambiamenti stilistici impressionanti: blues, pop, psichedelia, country rock, disco, new wave.
Guardando al futuro, ho chiesto a Jagger se gli Stones avessero intenzione di vendere il loro catalogo (post-1971). Ha risposto di no. Sa che un bel gruzzolo di denaro potrebbe lasciare agli eredi un'eredità meno bizantina, ma "i bambini non hanno bisogno di 500 milioni di dollari per vivere bene. Andiamo". Forse un giorno andranno in beneficenza. "Forse si può fare del bene al mondo", dice. Non ha nemmeno intenzione di pubblicare un'autobiografia.
È tuttavia consapevole che l'attività dei Rolling Stones sopravviverà a lui. "Si può avere un'attività postuma, no? Si può fare un tour postumo", dice. "La tecnologia ha fatto passi da gigante dopo l'evento degli ABBA [il recente spettacolo virtuale "Voyage" del gruppo pop], al quale avrei dovuto partecipare, ma me lo sono perso", dice. A Jagger sembra logico che un giorno i fan degli Stones e di altri gruppi più vecchi guarderanno produzioni di questo tipo, mentre setacciano i caveau di musica inedita. Tuttavia, la costante riproposizione di musica più vecchia - di cui gli Stones sono maestri - lo trova "piuttosto noioso".
Il problema della vecchiaia, dice Jagger, è che le persone si sentono impotenti, inutili e irrilevanti.
Almeno per ora, lui non sembra avere queste afflizioni. Anche se viene trattato in modo diverso ("la gente si toglie di mezzo, nel caso in cui io cada", dice), il suo recupero nel 2019 è stato notevolmente rapido ("in due settimane sei in palestra"). Oltre agli innumerevoli fan degli Stones che gli danno uno scopo, c'è suo figlio Dev, di 6 anni. "Ho una famiglia davvero meravigliosa che mi sostiene. E ho dei bambini piccoli che ti fanno sentire importante".
Jagger è anche sempre più a suo agio con i social media. C'è una battuta umoristica in "Mess It Up", dal nuovo album, in cui Jagger canta: "Hai condiviso le mie foto con tutti i tuoi amici / Le hai messe in giro, non ha senso". Come qualcuno che è stato pubblico per 60 anni, Jagger vuole ancora mantenere alcune cose private. Ma è orgoglioso dei suoi post, che lo mostrano spuntare qua e là per il mondo. La sua fidanzata, Melanie, ex ballerina, ha una propria presenza online. "È solo un fatto della vita", dice Jagger. "Ma ci sono dei limiti che mi piace avere". In un certo senso, i social media sono diventati meno minacciosi. Prima la gente postava cose e tutti pensavano: "Qualunque ragazza tu abbia accanto... è la tua nuova ragazza?". Sai... Ma ora lo sanno tutti", dice.
E Jagger ama ancora ballare, naturalmente.
A luglio ha festeggiato il suo 80° compleanno a Londra, prima con una cena di famiglia per circa 50 persone e poi con una festa più grande per 250 in un locale vicino che ha affittato. Tra i festeggiati c'erano Jerry Hall (con cui Jagger condivide quattro figli) e Lenny Kravitz (che ha partecipato all'album solista di Jagger del 1993). Si è esibita una band cubana.
Ho chiesto a Jagger se a 80 anni si sentisse diverso che a 70, di fronte alla sua mortalità. Ha fatto spallucce, con la giocosità e la concretezza da ragazzo che ha fatto tanto bene agli Stones.
"Sono entrambi numeri importanti", dice. "Uno è più dell'altro".
Rolling Stones: «Come facciamo a stare insieme da 60 anni? Non ci parliamo troppo spesso». Storia di Andrea Laffranchi, inviato a Londra, su Il Corriere della Sera mercoledì 6 settembre 2023.
Che sia l’ultimo, vista l’anagrafe e i tempi di gestazione – 235 anni in tre e 18 dal precedente album di inediti «A Bigger Bang» – o che non lo sia, chissene. Quello che conta è che c’è un nuovo disco dei Rolling Stones.
«Siamo stati pigri, però siamo anche stati molto on the road in questi anni – si giustifica Mick Jagger davanti ai circa mille giornalisti, influencer e addetti ai lavori seduti fra i velluti, i lampadari di cristallo e gli stucchi délabré dell’Hackney Empire, teatro vittoriano a East London –. A un certo punto ci siamo dati una dead line. È stato tutto veloce, giravano molte idee e da Natale dell’anno scorso a San Valentino abbiamo messo assieme ventitré tracce, praticamente due album».
«Hackney Diamonds», questo il titolo in slang londinese con riferimento alle schegge di vetro che fanno del quartiere una zona non proprio tranquilla, esce il 20 ottobre ma un assaggio è disponibile da ieri con «Angry»: ovviamente rock ed energia, riff di chitarra e l’inconfondibile timbro di Mick per una storia in cui quella arrabbiata, angry appunto, è lei e lui, che sta attraversando un periodaccio con pillole a sostenerlo, si chiede dove abbia sbagliato.
Un finto annuncio nella piccola pubblicità di un giornale di quartiere londinese nei giorni scorsi, l’iconico logo della linguaccia in versione vetro spaccato proiettato in giro per il mondo e ieri Mick Jagger, giubbino in raso ricamato e fresco di 80 candeline, Keith Richards e Ron Wood in giacca scura, hanno ufficializzato tutto con quattro chiacchiere insieme a Jimmy Fallon, star dei late night show televisivi americani.
Video correlato: Rolling Stones: "Il nuovo album 'Hackney Diamonds' ad ottobre" (Dailymotion)
È il primo album del dopo Charlie Watts, il batterista scomparso due anni fa. Che è però presente non solo in spirito: suona su due dei dodici brani, «Mess It Up» e «Live by the Sword». «È tutto diverso da quando lui se ne è andato – commenta Keith –. Era il numero quattro e ci manca incredibilmente. È stato lui a raccomandarci Steve Jordan. “Se dovesse accadermi qualcosa è lui il vostro uomo” diceva. Conosciamo Steve da anni, ma sarebbe stato duro senza la benedizione di Charlie». Altro salto nel passato. Sempre su «Live by the Sword» c’è Bill Wyman, bassista che lasciò la band nel 1993: «Il resto è nuovo, ma per una traccia abbiamo i Rolling Stones delle origini», sorride Mick. A chiudere la lista delle collaborazioni tre giganti: Paul McCartney, Stevie Wonder e Lady Gaga. Per concludere la carrellata di star, la protagonista del video di «Angry» è Sydney Sweeney, attrice Gen Z ( Euphoria e White Lotus), che gira su una cabrio per le strade di Los Angeles e i cartelloni pubblicitari prendono vita con gli Stones in azione ripresi in epoche diverse.
Atmosfera leggera, Keith scherza sul viziaccio del fumo, Fallon imita Mick alla perfezione, parte una versione a cappella di «Off the Hook».
Oltre 60 anni di carriera insieme. Il segreto per un matrimonio così solido? «Ditecelo voi», ghigna Keith. Battuta fulminante di Mick: «Non parlarsi troppo spesso».
A Londra c’era aria di evento. Ben diversa l’atmosfera del lancio del disco di debutto. «Era in un pub a Denmark Street e c’erano un giornalista dell’Nme e uno di Melody Maker (storiche testate musicali britanniche ndr) – ricorda Jagger –, gli abbiamo offerto una birra e gli abbiamo consegnato il disco. Recensioni contrastanti ma direi che ha venduto bene».
Barbara Costa per Dagospia sabato 29 luglio 2023
Brian Jones. Keith Richards. Mick Taylor. Eric Clapton. Andrew Loog Oldham. David Bowie. Chi di loro è stato a letto con Mick Jagger? Ma tutti, ovviamente!!! E tutti mica una volta sola. Se il signor Mick Jagger, fresco 80enne, si è finora negato di firmare un suo memoir, restio ai milioni di milioni che più di un editore gli ha garantito, è perché lui è indisposto e indisponente a metter gli affari del suo pisello in piazza. Poco male!
È mezzo secolo che escono biografie su biografie, minuziose e uncensored, sui caz*i privati di Sir Mick Pene Vivace Jagger, e non solo: ci sono le sue ex, mogli, amanti, groupie, fidanzate, che sciorinano veleno, però della sessualità bisex di Jagger, sapete chi ne sa di più? Le mogli degli uomini che Jagger si è portato a letto! Iniziamo dalla più pettegola, Angela Bowie, prima moglie di David, una che mai si è tenuta un cecio in bocca, e non solo, e che, da New York, torna a Londra, dal legittimo gaio consorte, e lo trova a letto con Mick.
I due erano usciti la sera prima insieme, come facevano sovente, a due. Soltanto loro due. Perché Jagger si sarebbe dovuto fermare a dormire a casa Bowie quando, guarda te il caso, in quel periodo abitava a soli 300 metri dai Bowie, e perché nello stesso letto con Bowie? Paura del buio?
I due a quanto pare si son amati a lungo, consumati di passione almeno fino alla fine dei '70, quando Mick cade pazzo di Jerry Hall. Sc*pano da Bowie per il via libera (da lui Jagger ha la moglie, Bianca, nera) e, importantissimo, Angela Bowie non si scompone davanti ai due piccioncini addormentati, abbracciati. Gli porta il suo buongiorno, e caffè e succo d’arancia.
A farci sapere di Mick Jagger e Brian Jones è Anita Pallenberg, musa Stones, sesto Stones, che finché è stata in vita l’ha ribadito che lei teneva “Mick per le p*lle”, per robette inenarrabili, e che Mick sia stato con Jones Anita lo sa perché glielo dice Brian, suo primo fidanzato Stones. "Brown Sugar" è “leccare la f*ga”, sì, è la droga, l’eroina, ma Jones “si è ucciso da solo, si è buttato via. Era geloso di Mick e di Keith. Come autori. Brian a scrivere testi era negato”.
Signori, a rinvenire Jagger a letto con Keith Richards è nientepopodimeno che… John Lennon, che lo riferisce a Paul, McCartney, e che Renzo Stefanel mette in "Sesso, droga e calci in bocca. Vol. 2" (ehi, ma… è di questo che parla "I wanna be your man", brano Lennon-McCartney passato agli Stones…?) E però, maliziosi, i due Beatle, perché, dai, è come Keith spiega a John, “ci difendevamo dal freddo”. Mick lo svela: i soli rapporti Stones-Beatles erano “amichevoli, ma competitivi, e alla fine… ho vinto io” (onore a te, Mick).
Nel 1963, Mick è fidanzato con la modella Chrissie Shrimpton, la quale, aizzata dai sospetti della moglie di Andrew Oldham, manager dei Rolling Stones, li pedina, e tutti e due, Mick e Andrew, fino a coglierli nudi, in pose inequivocabili. È Marianne Faithfull, nuova fidanzata di Mick, che "sorprende" Mick con Eric Clapton. (Mah. Io non ci credo). La storia tra Mick e Marianne è vitale, e lunga, tanto che lei l’ha sgamato in ugual modo con Mick Taylor, a detta di Mick “chitarrista fluido”. Rose, la ragazza di Taylor, a differenza netta di Marianne, non prende la novità con aplomb, bensì prende il suo, di Mick, per il collo.
In "Life", sua illuminante autobiografia assurta a Bibbia rock, Keith Richards nulla menziona della sua… "intimità" con Mick. Parla solo del di lui pisello. E il pisello di Mick “è striminzito, tra un paio di c*glioni enormi”. È grazie alla lingua di Richards che sappiamo che, quando gli Stones erano agli inizi, e Mick e Brian e Keith coabitavano in una topaia, non era insolito vedere Mick con mascara e rossetto e fondotinta, abbigliato a vestaglia, calze di nylon, retina nei capelli, e tacchi alti. Faceva le prove. “Mick è rimasto in quella fase più o meno sei mesi”.
E Mick lo conferma: “Era più o meno nel 1960. Era prima che cominciassimo a fare i dischi”. Keith ha sedotto Marianne, la fiancée di Mick, sì perché violentemente attratto dai suoi seni, ma più per vendetta contro Mick che, sul set di "Performance", ha fatto sesso e tanto con la consensuale protagonista – e donna di Keith – Anita Pallenberg. Pochi lo sanno, ma "Performance", esordio di Mick come attore, e film che è la più nera, provocatoria, perversa celebrazione di sex & drugs & violenza secondo unanime parere cinefilo britannico, è un film anche pornografico.
Le performance di sesso, a due, a tre – e di droga, si calano degli acidi – sono tutte r-e-a-l-i. Nel montaggio finale non si capisce, apposta, a ossequio censura. Ma è talmente pornografico che ha vinto un premio a un festival porno olandese. Girando "Performance", Mick perde la testa per Anita Pallenberg.
La vuole per sé. Per Anita, Mick è uno sfizio. Lei vuole e si prende e tiene Keith. Anita è irremovibile: “Mick è innamorato di Keith. Keith è l’uomo che Mick vorrebbe essere, e non può”. A performance terminata, Mick e Marianne e Keith e Anita, vanno in vacanza a Rio de Janeiro. Qui Anita e Marianne non si danno a reciproche raffinatezze lesbiche, che si gustavano quando Mick e Keith erano in tournée, e non a loro intorno.
Mick Jagger compie 80 anni: dove ha conosciuto Keith Richards, ha studiato Economia, 20 (+1) segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera sabato 26 luglio 2023
Una raccolta di aneddoti e curiosità, dalla A alla Z, sul fondatore e frontman dei Rolling Stones nato a Dartford il 26 luglio 1943
A di Amori (e figli)
Compie oggi 80 anni (ma non li dimostra affatto) il fondatore e frontman dei Rolling Stones, sir Mick Jagger. In occasione del suo compleanno vi sveliamo una serie di aneddoti e curiosità poco note su di lui, dalla A alla Z, partendo dalla A di Amori. Jagger è stato sposato una volta soltanto: dal 1971 al 1978 con Bianca Pérez-Mora Macias. Dal 1990 al 1999 ha avuto una intensa storia d’amore con Jerry Hall (i due si sono sposati con rito indù, ma le nozze sono state dichiarate nulle), mentre nel 2001 cominciò una relazione con la stilista L'Wren Scott (morta suicida il 17 marzo 2014). In tutto il cantante ha avuto 8 figli: Karis (1970, dalla cantante Marsha Hunt a cui è dedicata «Brown Sugar»); Jade (1971, dalla prima moglie Bianca Jagger); Elizabeth (1984), James (1985), Georgia (1992) e Gabriel (1997) (avuti da Jerry Hall); Lucas (nato nel 1999 dall’amore con la modella Luciana Gimenez); Deveraux (avuto dalla sua compagna, la ballerina Melanie Hamrick, nel 2016).
B di Beatles
Beatles vs Rolling Stones, più di 60 anni di rivalità. O no? Nel 2020, per rispondere a Paul McCartney (che intervistato da Howard Stern aveva definito i Beatles «meglio dei Rolling Stones»), Mick Jagger ha detto a Zane Lowe: «I Rolling Stones sono una grande band che suona nelle arene, i Beatles non l’hanno mai fatto, non hanno mai suonato al Madison Square Garden con un bell’impianto. Si sono sciolti prima che il business dei concerti iniziasse davvero. Noi abbiamo iniziato a suonare negli stadi negli anni Settanta e lo facciamo ancora adesso. Questa è la vera differenza tra i due gruppi. Uno è incredibilmente fortunato e suona ancora negli stadi, l’altro non esiste più».
C di Chris Jagger
Mick Jagger ha un fratello minore, Chris, nato il 19 dicembre 1947. Ha lavorato in molti campi, tra cui teatro, cinema e design di abiti (ha disegnato lui la famosa giacca con gli occhi indossata da Jimi Hendrix). Ha lavorato come giornalista e si è anche dedicato alla musica: nel 2021 ha pubblicato il singolo «Anyone Seen My Heart», cantato in duetto con Mick.
D di Dartford
In questo comune del Kent, a circa trenta chilometri a est di Londra, Mick Jagger è nato il 26 luglio 1943. Figlio dell’insegnante Basil Fanshawe "Joe" Jagger e della parrucchiera Eva Ensley Mary Mick ha conosciuto Keith Richards, futuro fondatore e chitarrista dei Rolling Stones, tra i banchi della scuola elementare.
E di Ealing Broadway
Nei primi anni Sessanta Mick Jagger e Keith Richards si incontrano nuovamente, e scoprono di aver coltivato una comune passione per il rhythm and blues. Iniziano così a suonare insieme - Mick alla voce, Keith alla chitarra - e si esibiscono in un piccolo club nel seminterrato di fronte alla stazione della metropolitana Ealing Broadway a Londra (in seguito chiamato Ferry's Club).
F di Film
Come attore Mick Jagger ha recitato in alcuni film, tra cui «I fratelli Kelly», «Sadismo», «Freejack», «La tela dell'inganno» e «L'ultimo gigolò». È stato preso in considerazione per interpretare Alex De Large in «Arancia Meccanica» e ha fatto un provino per il ruolo del Dr. Frank N. Furter nell'adattamento cinematografico del 1975 di «The Rocky Horror Show» (ruolo poi andato a Tim Curry).
G di Ginnastica
Per mantenersi in forma - ma soprattutto per affrontare le fatiche dei tour mondiali - Mick Jagger si tiene sempre in allenamento, tra corsa, yoga e alimentazione sana. «Sei settimane di allenamento prima ancora che iniziamo a fare le prove. E poi ballo e faccio palestra ogni giorno della settimana. Non mi piace molto, ma bisogna farlo».
H di Hotel
Secondo alcuni tabloid inglesi Mick Jagger avrebbe un bizzarro capriccio da star: si dice richieda, in ogni albergo in cui è ospite, per il suo letto un materasso nuovo.
I di Imitazione
Nel 2002 David Bowie, ospite dello show della BBC Parkinson, fece un’imitazione praticamente perfetta di Mick Jagger. Stava raccontando di quando vide per la prima volta i Rolling Stones: «Ho visto per la prima volta i Rolling Stones nel 1963 quando aprivano i concerti di Little Richard in Inghilterra. Suonavano alla Brixton Academy di Londra. Eravamo tutti lì per Little Richard, gli Stones erano praticamente sconosciuti, ma non avevo mai visto niente di così ribelle in vita mia. Qualcuno dal pubblico ha gridato a Mick: tagliati i capelli e lui ha risposto subito: Perché? Per assomigliare a te? Non dimenticherò mai quella risposta. Ho pensato: fantastico, questo è il futuro della musica».
L di Libertà condizionale
Nel 1967 Mick Jagger e Keith Richards sono stati arrestati per detenzione di stupefacenti, e condannati a tre mesi di reclusione (pena poi commutata in libertà condizionale).
M di Moves like Jagger
I passi di danza di Mick Jagger durante le sue esibizioni con i Rolling Stones sono leggendari. Il frontman nel 2011 è stato omaggiato dai Maroon 5 nel brano «Moves like Jagger»: «Siamo stati molto fortunati ad avere il consenso di Jagger per inserire diverse sue clip nel video - ha detto il frontman Adam Levine intervistato da Mtv -. Non molte persone le hanno viste, specialmente la generazione più giovane che non sa quanto Jagger fosse incredibile».
N di Noto
Il frontman dei Rolling Stones ama moltissimo la Sicilia. Negli ultimi anni ha trascorso diverse settimane di vacanza tra Modica, Palazzolo Acreide, Noto e Siracusa e ha acquistato una casa a Portopalo di Capo Passero.
O di Onorificenza
I Rolling Stones sono stati inseriti nel 1989 nella American Rock and Roll Hall of Fame e nel 2004 nella UK Music Hall of Fame. Nel 2002 Mick Jagger è stato insignito del titolo di Sir.
P di Primo concerto
Il primo concerto dei Rolling Stones fu al celebre Marquee Club di Londra il 12 luglio 1962.
Q di Queen (Elizabeth)
«Per tutta la mia vita Sua Maestà, la regina Elisabetta II, è sempre stata lì. Mi ricordo quando guardavo le immagini del suo matrimonio alla tv quando ero bambino. Mi ricordo di lei bella e giovane donna fino alla amatissima nonna della nazione. Il mio affetto più sentito va alla Famiglia reale». Questo il toccante messaggio pubblicato lo scorso anno sui social da Mick Jagger in occasione della scomparsa della Regina Elisabetta II. Il cantante è stato molto amico della sorella minore della sovrana, la principessa Margaret.
R di Rolling Stones
Il nome Rolling Stones si rifà ad un brano di Muddy Waters e non, come erroneamente si pensa, alla canzone «Like a Rolling Stone» di Bob Dylan (composta nel 1965, tre anni dopo la fondazione del gruppo).
S di Sea Shepherd
Mick Jagger sostiene Sea Shepherd, organizzazione che si occupa della salvaguardia della fauna ittica e degli ambienti marini.
T di Thatcher (Margaret)
Quando nel 2013 Margaret Thatcher, ex primo ministro del Regno Unito, morì Mick Jagger si disse sorpreso - intervistato dal magazine Q - della generale reazione negativa alla scomparsa. Il cantante ha rivelato di aver incontrato la «Lady di ferro» del Partito Conservatore in un paio di occasioni e di essere rimasto colpito: «Non voglio dire di cosa abbiamo parlato, soprattutto ora che tutti gli altri parlano di lei. Ma le ho ricordato che il suo primo tentativo di entrare in Parlamento lo fece a Dartford, dove sono cresciuto. Me la ricordavo mentre faceva campagna elettorale, quando avevo 10 anni o qualcosa del genere».
U di Università
Nel 1962 Mick Jagger si trasferì a Londra, nel quartiere Chelsea, per studiare Economia e diventare un giornalista o un politico.
V di Vinyl
Nel 2016 Mick Jagger ha ideato, insieme a Martin Scorsese, Rich Cohen e Terence Winter per HBO, la serie «Vinyl», incentrata sull'ascesa del rock e del punk nella New York degli anni Settanta. La prima (e unica) stagione, composta da 10 episodi, ha debuttato il 14 febbraio 2016.
Z di Zucchero
A proposito di Mick Jagger Zucchero (che lo scorso anno ha aperto il concerto dei Rolling Stones a Gelsenkirchen) ha raccontato in un’intervista al Corriere: «Ci siamo rivisti l’estate scorsa in Toscana. Era ospite del conte della Gherardesca a Castagneto Carducci e sono stato invitato alla festa di compleanno di Mick. Quando è arrivato ho fatto una delle mie solite battutacce: “I’ve heard about you”, ho sentito parlare di te. E lui “anche io”. E si è rotto il ghiaccio. Dopo cena qualcuno del pubblico mi ha riconosciuto e mi ha chiesto di cantare. Ho preso una chitarra dallo studio di Jagger e ho fatto “Con le mie lacrime”, la versione di “As Tears Go By” che gli Stones incisero in italiano. Lui mi ha seguito, se la ricordava. E poi ho attaccato con “Senza una donna”. Mick conosceva la cover di Paul Young, ma sbagliava e diceva “Senza Madonna”». Ovviamente Zucchero non l’ha corretto: «No, come fai a dirglielo? Ho chiuso con “Diamante”: aveva il figlio piccolo in braccio e gli ho visto gli occhi lucidi, gli sarà arrivato qualcosa al di là del testo».
Estratto dell'articolo di Carlo Massarini per “la Stampa” il 21 luglio 2023.
Partiamo da quella dichiarazione in bianco e nero del 1964 di faccia-da-cucciolo Mick, quando gli Stones erano appena agli inizi e il mondo del rock ancora tutto da venire: «Non so cosa farò l'anno prossimo. Magari tutto questo sarà già finito, e mi cercherò un altro mestiere» […] È uno dei tanti reperti che costellano Crossfire Hurricane di Brett Morgen, uno dei migliori rock-doc mai fatti […]
Perché allora il r'n'r era così, una scommessa da vivere giorno per giorno, con leggerezza, senza troppi calcoli, con la giusta ambizione e allo stesso tempo la giusta dose di menefreghismo. In sessant'anni è cambiato tutto: il rock, o comunque lo vogliate chiamare, ha una storia solida, costellata di genialità, cialtronismo, tragedie e momenti che ci hanno cambiato in meglio la vita. […]
Quel senso di leggerezza, menefreghismo e incertezza del futuro - che nell'arte ci deve sempre essere, altrimenti che arte è? - quasi del tutto cancellato dal big business, dalle dimensioni mastodontiche degli spettacoli dal vivo, dagli uffici stampa e promoter vere macchine da guerra. Ora l'incertezza è quanto possa durare ancora non il successo, ma la salute.
Per gli Stones […] che nel tempo hanno perso tre membri fondatori (Brian Jones e Charlie Watts per decesso, Bill Wyman per ritiro), l'unica cosa che non è cambiata è la musica. Forse è un po' cambiato il suono, ora molto più potente e pieno di allora, ma la radice è sempre quella: il vecchio caro blues nero americano. […]
Mick non ha più quella faccia innocente e maliziosa: il suo volto è scavato dal tempo come i preistorici canyon americani dall'acqua. […] Sono la sua medaglia d'onore, la certificazione di autenticità. Ha scritto testi che son diventati gergo moderno (da Satisfaction in poi), è passato attraverso matrimoni e divorzi, figli legittimi e non, dischi trionfali con la band e malaccolti da solo, accuse di simpatia per il diavolo (diciamo che questa se l'è cercata) e per qualsiasi droga sul pianeta; abbiamo notizie dalla bio dell'altro Stone originale e partner musicale per la vita, Keith Richards, che il mojo è piccolo ma evidentemente funziona bene perché con la compagna Melanie (quarantaquattro anni più giovane) ha una figlia di sette anni.
[…] Sul palco, è una sorta di miracolo della natura, ancora detentore alla sua età di medaglia olimpica (se solo ci fossero) della maratona-con-canto della sua generazione (e non solo). Non viene generalmente più citato come frontman supremo, ma per me è solo fuori categoria: quel modo di suonare l'armonica, quelle mossette col piede che batte apprese da Tina Turner e quello scivolare rubato a James Brown settant'anni fa, quel suo buffo modo di agitare le mani facendo cento segni diversi, quelle boccacce e gli sculettamenti, quel saper scendere fino in fondo a una ballata come di urlare, e far urlare una platea, uno stadio, un Circo Massimo sono fantastiche. Trovane un altro.
«Il r'n'r, in verità qualsiasi forma di pop music, non andrebbe fatta quando sei nei tuoi settanta», ha dichiarato l'anno scorso al Sunday Times, «Non era stato pensato per quello. Fare qualsiasi cosa ad alta energia a quest'età è veramente portare le cose all'estremo. Ma questo lo rende ancora più una sfida. Per cui è "Ok, dobbiamo farlo al meglio", ma deve essere carico il più possibile. Oppure, potremmo anche fare un altro tipo di musica, abbiamo anche tante ballate. Potrei star seduto su una sedia».
E invece… Quando arrivano i tour si prepara per mesi, «Tutti i giorni palestra e danza. Non mi piace molto, ma va fatto». Certo, l'ipertiroidismo che lo rende magro come un chiodo sotto quel capoccione pieno di capelli ben tinti aiuta, mettiamoci anche mangiare e vivere sano, ma quando pensate a un professionista serio - non uno sportivo che in 10 o 15 anni ha già finito la carriera- pensate a Mick Jagger. Non esattamente l'ottantenne che ti aspetti.
Ottanta voglia di Jagger. L'eterna gioventù di chi odiava la vecchiaia. Il leader degli Stones compie 80 anni pensando a dischi, tour e nozze. Dopo una vita di eccessi. Paolo Giordano il 13 Luglio 2023 su Il Giornale.
Secondo le ultime notizie, ha appena comprato una casa di vacanze (a Portopalo di Capo Passero in Sicilia) e ha chiesto alla fidanzata di sposarlo (Melanie Hamrik, ballerina, con lui dal 2014). Un quadretto da quarantenne di buona famiglia tutto casa e lavoro. Però Mick Jagger di anni ne compirà 80 il 26 luglio, delle proprie case ha probabilmente perso il conto e, qualora tutto andasse a buon fine, Melanie sarebbe la terza moglie, lui è già padre di otto figli, ma è nonno e pure bisnonno oltre che essere un dio di quella curiosa religione che si chiama rock e mescola musica, attitudine, moda, vizi e cultura come nessun altra nell'ultimo secolo.
Buon compleanno Mick, una delle poche rockstar per le quali non c'è bisogno di Wikipedia perché tutti sanno tutto di lui, dalla casetta di Dartford a est di Londra alla London School of Economics ai Rolling Stones che dopo 60 anni di attività nel loro ultimo tour hanno incassato 115 milioni di dollari in un anno. Nell'epoca di giovani molto spesso già vecchi, Mick Jagger è un vecchio che rimane giovane e non è soltanto merito della palestra (tutti i giorni), della dieta (seguita da esperti) o, banalmente, del Fattore C ossia della fortuna che non l'ha fatto entrare nel cosiddetto Club dei 27 (Kurt Cobain, Amy Winehouse, Brian Jones, Janis Joplin ecc) o in qualsiasi altro infausto circolo di rockstar distrutte dalle droghe. Anche a 80 anni, vagamente ingobbito e ricoperto di rughe (sempre sia lodato per non aver mai abusato della chirurgia come altri colleghi ormai inguardabili) Mick Jagger rimane un simbolo di gioventù perché non si ferma, continua ad aver progetti, rimane fedele a una generazione di musicisti che disprezzava così tanto la vecchiaia da abolirla del tutto. Quand'era giovane Mick Jagger, come gli Who o i Beatles, pensava di morire prima della maturità e non si immaginava neanche di invecchiare perché, capite anche voi, nella Swingin' London dei piaceri ininterrotti e del profumo di vita eterna, immaginarsi in una Rsa era vietato per legge.
Così, quando l'anagrafe ha iniziato a presentare il conto, ha fatto finta di niente e ancora oggi pensa a registrare nuovi dischi (atteso il nuovo dei Rolling Stones) e a fare concerti mentre si gode la vita come pochi altri sono riusciti a fare. Dopotutto, con un patrimonio da mezzo miliardo di dollari secondo Celebrity Net Worth (occhio ci sono anche 250 milioni in immobili) arrivare a fine mese non è un problema e ci si può concentrare sui piaceri. Ma non solo. Il Mick Jagger che l'anno scorso correva cantando come un ventenne a San Siro in una serata d'estate bollente non è solo il nuovo, fortunato testimonial dell'eterna gioventù. È anche la conferma che a invecchiare sono soprattutto gli slogan.
Come ricordato da Andrea Laffranchi, sir Michael Philip Jagger nel 1975 aveva detto: «Preferirei essere morto che cantare Satisfaction a 45 anni». Allora ne aveva 32. Ora che ne ha 80 non vede l'ora di cantare Satisfaction anche a 90 o magari pure oltre, chissà. In Gimme shelter, uno dei brani più belli della storia non solo rock, canta «dammi un riparo oppure scomparirò» e forse lo sta ancora cercando, questo riparo. Nonostante il cambiamento epocale, quasi traumatico della musica, Mick Jagger resta ancora al centro non soltanto nel ruolo di «vecchia leggenda» ma in quello molto più autorevole di «punto di riferimento». Anche l'ultimo trapper che canta di Ferrari (senza averne neanche una) sogna di poter diventare il Mick Jagger del futuro e forse questo è il vero elisir di eterna gioventù del neo ottantenne: rigenerarsi nei sogni delle nuove generazioni.
Ovvio, nessuno suonerà più come i Rolling Stones, nessuno mescolerà più il blues del Mississippi con le camicette di Celia Birtwell, a meno che non sia un irriducibile nostalgico. Ma tutti vogliono essere Mick, anche i ventenni che odiano i boomer, anche i trapper che odiano il rock, anche i politicamente corretti che oggi sai come si indignerebbero se leggessero di Mick Jagger ritrovato dalla polizia con la testa tra le gambe di Marianne Faithfull di fianco a una barretta di Mars piazzata proprio lì (secondo la leggenda mai smentita, accadde nel 1967, la polizia si mosse su soffiata del News of the World, oggi le soffiate dei giornali sono altre...).
Insomma, dall'alto del suo cielo rock, Mick Jagger entra negli ottant'anni come è entrato nei trenta, nei quaranta e via di seguito: facendo progetti e godendosi la vita perché «I can't get no satisfaction but I try...», non posso essere soddisfatto ma ci provo. Il bello è che ha intenzione di provarci ancora per un bel po'.
Estratto dell'articolo di Andrea Laffranchi per corriere.it/sette domenica 9 luglio 2023.
Il rock è nato con dentro il mito dell’eterna giovinezza. La rottura che portò nella musica e nella società – anticipando la rivoluzione giovanile del Sessantotto – si basava proprio sull’anagrafe. Noi, giovani, e voi, i vecchi o i bambini. C’erano gli Who che in My Generation cantavano “I hope I die before I get old”, spero di morire prima di invecchiare.
«Quella canzone non parlava tanto di età, quanto di creare un confine tra una generazione e l’altra. Quella frase era il modo per dire “non voglio essere come voi”», ha spiegato Pete Townshend, il chitarrista del gruppo inglese. E chissà cosa pensava Paul McCartney quando, in epoca Beatles, vedeva così lontano il traguardo dei 64 anni – oggi manco in pensione si può andare a quell’età – in When I’m Sixy-Four, quando avrò 64 anni: i capelli non li ha persi e non credo passi il tempo a strappare erbacce nel giardino come si era immaginato nel testo di quella canzone.
E allora buon compleanno con cifra tonda, ne fa 80 il 26 luglio, a Mick Jagger. Anche lui ci era cascato nella celebrazione dell’eterna giovinezza. Era 1975, aveva 31 anni: «Preferirei essere morto che cantare Satisfaction a 45 anni» disse in un’intervista al magazine americano People. «Potevo sbagliarmi più di così? – scrisse nell’autobiografia della band, Rolling Stones 50, per il mezzo secolo di carriera. «Man mano che i decenni rotolavano via abbiamo continuato a fare quello che più di ogni altra cosa ci piace fare: suonare dal vivo e offrire un grande spettacolo».
Secondo le statistiche dei fan quel brano iconico l’ha cantato altre 793 volte da allora, quel crescendo con una nemmeno troppo implicita venatura sessuale è un cardine dei loro concerti, compreso quello della scorsa estate a San Siro. Show che ha fatto morire di invidia i 56 mila presenti nello stadio milanese. Con quasi un’ora di show nelle gambe e nei polmoni, Mick ha impressionato tutti facendosi la passerella del palco di corsa durante un’infuocata versione di Miss You. Come se non bastasse per stupire, solo la settimana prima era risultato positivo al covid, che ha fiaccato fisici più giovani. Le rughe gli segnano il volto, non come al suo compagno di avventura Keith Richards che ha una faccia solcata dagli anni come il Grand Canyon, ma vorrei essere così io a 54 anni…
Quello che colpisce di Jagger è che, più di altri suoi colleghi finiti male, sembrava un candidato naturale al club dei 27, le star morte a quell’età, travolte dagli eccessi, come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain o Amy Winehouse. O forse ce l’ha solo fatto credere. «Faresti uscire tua sorella con uno dei Rolling Stones?»: questo titolo, suggerito dal loro geniale manager Andrew Oldham al Melody Maker per un articolo che uscì nel 1964, trasformò i Rolling Stones nei rivali dei troppo puliti Beatles, assegnando loro la casella dei bad boy della musica. E visto che il rock allora era considerato la musica del diavolo, figuriamoci l’effetto… Ne hanno poi combinate, ma la sensazione è che Mick a differenza di Keith che è rimasto un personaggio fuori dalle regole (ha confessato di essersi pippato pochi anni fa le ceneri del padre), attorno al mezzo del cammin di nostra vita il festeggiato si sia dato una regolata. Altro che Glimmer Twins come vennero soprannominati a metà degli Anni 70.
In palestra
Dietro la forma di Mick c’è sicuramente la benedizione del Dna, ma anche tanta preparazione fisica che arriva forse da un’attitudine familiare: papà Jagger era un’insegnante di educazione fisica. «Sei settimane di allenamento prima ancora che iniziamo a fare le prove. E poi ballo e faccio palestra ogni giorno della settimana. Non mi piace molto, ma bisogna farlo», ha dichiarato l’anno scorso il frontman. Quando vennero a suonare sotto le mura di Lucca nel 2017, il camerino di Jagger aveva il nome in codice “Workout”, ovvero allenamento (quello di Keith era Camp X Ray, Ron Wood aveva scelto Recovery e Charlie Watts si accomodava al Cotton club), e un pavimento ricoperto di erba sintetica per potersi riscaldare. Nel rider, il documento con le richieste della band, era specificato che fosse almeno di dieci metri per tre.
(…)
Simbolo della controcultura e non solo del rock Anni 60, icona immortalata da Andy Warhol (e con il resto della band pure nei Simpson), accettato dall’establishment con l’onorificenza di “sir” nel 2002, nel corso della sua vita Mick ha anche dato da lavorare ai magazine di gossip: qualche incidente con la giustizia per possesso di droga, otto figli da cinque donne diverse, un debole per top model come Jerry Hall, Carla Bruni e Luciana Gimenez, stiliste come L’Wren Scott (morta sucida nel 2014), conigliette di Playboy come Bebe Buell o colleghe come Marianne Faithfull a cui regalò, e il titolo dice tutto, Sister Morphine.
Lui e la band non si fermano. È in arrivo un nuovo album e chissà se ci saranno altri concerti, l’ennesimo “ultimo tour” che però loro mai hanno annunciato e mai annunceranno. Ci sono sempre, il rock è cresciuto e invecchiato sulla faccia e sulla bocca di Mick. La mancanza la sentiremo dopo.
I Santi Francesi.
Milano, i Santi Francesi in concerto all'Alcatraz: la scaletta e le curiosità. «Andare a X Factor non era nei nostri programmi». Raffaella Oliva su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.
Il duo di Ivrea: «Da otto anni tentiamo di vivere di musica». Alessandro De Santis: «Appena nato papà mi ha messo uno stereo sul passeggino». Francese: «Il mio aveva una band, mi ha spinto a suonare»
«Da otto anni cercavamo di trasformare la musica in un lavoro». Freschi vincitori di «X Factor», i Santi Francesi ci tengono a sottolineare che il loro percorso è iniziato prima della partecipazione al talent di Sky, ma anche di quella ad «Amici» nel 2016, quando erano un trio e si chiamavano The Jab.
«Non era nei nostri piani tornare in tv l’anno scorso, però siamo stati contattati dallo scouting di “X Factor” e abbiamo pensato che avere un grande riflettore come quello acceso addosso potesse darci una mano. Così ci siamo buttati». Martedì 24 gennaio il duo di Alessandro De Santis, voce e chitarra, e Mario Francese, tastiere e synth, sarà all’Alcatraz. In scaletta qualche vecchio brano e le tracce del recente Ep «In fieri», dal singolo «Non è così male» alla cover di «Creep» dei Radiohead.
Vita in provincia
«Sono settimane che tra concerti, interviste e altro non abbiamo un giorno libero, ma sarebbe il colmo lamentarsi, dobbiamo tenere botta», dice Alessandro. «Prima di dare il via al tour la responsabilità nei confronti dei tanti che hanno comprato un biglietto per venire a vederci ci metteva un po’ d’ansia, ma già dopo la prima data ci siamo rilassati: con il nostro pubblico vorremmo creare una sorta di famiglia, poterlo incontrare è bellissimo». Sia lui, sia Mario, rispettivamente classe ’98 e ’97, sono cresciuti a Ivrea, già patria del collega Cosmo. E non si può dire che il pop elettronico dei Santi Francesi non evochi qua e là le sonorità di quest’ultimo, basti ascoltare «Medicine». «Abitiamo vicini, ogni tanto ci si incrocia, e il cugino di Ale è nel team di Ivreatronic (collettivo di dj co-fondato dallo stesso Cosmo, ndr)», afferma Mario. «Non siamo amici, ma è di sicuro tra le nostre influenze». E Alessandro: «Crescere in una realtà di provincia come Ivrea significa crescere in un posto che ti insegna ad accettare e a combattere la noia. Questo ci ha stimolati da ragazzini, quando avevamo io una band metal e Mario un gruppo prog rock. Dopodiché Cosmo ci ha messo il suo, dimostrando che anche partendo da una piccola cittadina si può ottenere riscontro nazionale».
Lo stereo di papà sul passeggino
Ora siamo alla prova del nove e per affrontarla Alessandro ha lasciato il suo lavoro di commesso da Decathlon, Mario il suo di programmatore. «Il nostro sogno è vivere di musica», ribadisce il primo. «Io può darsi che lo debba a mio padre: appena sono nato mi ha montato un impianto stereo sul passeggino: mi addormentavo con gli Eagles e i Kiss». E Mario: «Anche nel mio caso c’entra papà che da giovane ha avuto una band. Quando ero piccolo mi ha spinto a suonare il piano». All’Alcatraz li raggiungeranno sul palco i Fast Animals and Slow Kids, con loro nella canzone «Spaccio». «Ma ci sarà anche un altro ospite, e sarà una sorpresa».
I Sex Pistols.
Estratto dell’articolo di Valerio Benedetti per “la Verità” lunedì 14 agosto 2023
La sinistra non è più punk. Sempreché lo sia mai stata per davvero. A certificarlo è nientemeno che John Lydon. Conosciuto anche con il nome d’arte Johnny Rotten, Lydon è stato per anni la voce e il frontman dei Sex Pistols, la band più iconica del punk rock. […]
Secondo un luogo comune molto diffuso, il punk sarebbe uno stile di vita tipicamente di sinistra. Ma le cose, appunto, sono molto più complicate. D’altronde, com’è possibile definire punk rock qualcosa come il politicamente corretto, i buoni sentimenti da beghine o quella «cultura del piagnisteo» che permea l’intera ideologia woke? Esatto, non è possibile. E questo lo sa benissimo anche John Lydon.
Intervistato l’altro ieri dalla Welt, l’ex cantante dei Sex Pistols ha letteralmente demolito la sinistra contemporanea, sparando ad alzo zero contro tutti i dogmi del globalismo [...]. [...] il carismatico ed eccentrico artista britannico si è lamentato del fatto che «il mondo si è spostato sin troppo a sinistra».
[…] Ormai, ha fatto notare Lydon, i progressisti woke si occupano solo della «politica simbolica», ossia di battaglie che non hanno nulla a che fare con le strutture socioeconomiche delle nostre comunità: «I neri vengono invitati solo perché sono neri e perché fa trendy», è l’esempio citato dall’ex cantante dei Sex Pistols.
Che poi deplora il modo in cui la sinistra ha abbracciato l’immigrazione di massa e senza confini, insultando come «razzista» chiunque sostenga la necessità di regolare i flussi migratori. Peggio ancora: con un’ipocrisia senza pari, insorge Lydon, le élite progressiste spediscono i richiedenti asilo nei quartieri popolari, portando in quelle aree urbane già degradate «ancora più criminalità e disoccupazione».
Ecco, l’ex voce dei Sex Pistols non ci sta a questo giochetto: «Non appena si va contro a tutto questo, si viene subito bollati come razzisti». Eppure […] «io non sono affatto un razzista e non lo sarò mai», anche in virtù delle sue origini proletarie: la politica, puntualizza, «sta distruggendo i valori della classe lavoratrice». […] valori che «si basano sull’empatia, l’amore e il rispetto, su un codice che prevede che non si ruba a nessuno e che, in caso di bisogno, ci si debba aiutare reciprocamente». E la sinistra di oggi, dimentica delle sue radici culturali e sociali, «sta sacrificando questi valori sull’altare di un elitismo modaiolo». Non si sarebbe potuto dir meglio.
[…] per Lydon […] La maggioranza delle persone […] segue questa nuova politica «come fosse una religione», lasciandosi dettare una lunga serie di regole.
«Quando il numero di questi individui avrà raggiunto la massa critica, allora sarà la fine del mondo». Per l’ex cantante dei Sex Pistols, infatti, moltissime persone si sarebbero fatte mettere sotto «una tutela collettiva»: sono «come pecore che trotterellano in un grande gregge».
Insomma, è una crisi di civiltà quella di cui ci parla Lydon: una crisi che viene acuita dall’ideologia woke e dai tanti feticci della postmodernità. Di fronte al supremo culto del globalismo, […] anche i seguaci delle religioni tradizionali diventano atei devoti, come «quelle persone che si definiscono cristiane o musulmane, ma che non hanno mai letto la Bibbia o il Corano».
Tra i tanti bersagli dei suoi strali, Lydon non si fa mancare neanche una stoccata al nuovo re d’Inghilterra, Carlo III. Il sovrano, specifica il cantante, «non è certo la persona più assennata del pianeta» e, pertanto, tenta «con disperazione di accattivarsi le simpatie dell’universo woke. Io temo che farà parecchio casino non appena si immischierà nelle faccende di politica internazionale». […]
Estratto dell'articolo di Luca Valtorta per “Robinson - la Repubblica” sabato 12 agosto 2023.
[…] Era il 26 settembre del 1976 quando uscì Anarchy in the U.K. e da quel momento la musica e la società sarebbero cambiati per sempre. John Lydon, cantante dei Sex Pistols con il nome di Johnny Rotten (“marcio”) per la patina verdastra che copriva i suoi denti, era arrivato a terrorizzare i benpensanti di tutto il mondo, a distruggere, appunto, l’individuo medio che passa per strada, inconsapevole di quello che sta succedendo intorno a lui. Era nato il punk. Un fenomeno molto più complesso di quanto possa apparire, che ha affermato una precisa etica e lasciato un segno ancora oggi tramandato: l’idea di indipendenza e del costruire le cose da sé.
Il 27 maggio 1977 God Save the Queen rincarava la dose[…] I Sex Pistols per i media diventano il “gruppo più rivoltante mai visto” e Johnny Rotten il “nemico pubblico n. 1”: spesso oggetto di violenza, tanto che il 21 giugno del ’77 lui e due amici vengono circondati da nove persone armate di rasoi e di coltelli che lo feriscono al volto e a un braccio.
[…]Ma se “l’immagine pubblica” di Rotten assomigliava a quella di un pazzo delinquente (non a caso in alcune celebri foto appare con la camicia di forza), quella reale è molto più complessa. Lo dimostra creando un nuovo gruppo, i PiL: Public Image Limited […]
Con questa nuova rivoluzione, fatta di suoni minimali e dissonanti Johnny Rotten, ri-diventato Lydon, crea di fatto le coordinate del post punk: il movimento che produce la musica più sperimentale e interessante che ha attraversato il rock. Un grande salto temporale per arrivare a oggi. Molte cose sono cambiate: la più importante è che John ha passato gli ultimi anni ad accudire l’amatissima moglie Nora Forster, colpita da Alzheimer, venuta a mancare lo scorso 5 aprile. A lei è dedicata Hawaii, un pezzo straniato di commovente bellezza. Ma la rabbia non manca: […]
Tu non hai fatto solo musica: con i Sex Pistols e i PiL hai cambiato anche la vita di molte persone....
«Grazie. Ma devo dire che preferisco molto gli insulti». «Perché sono così divertenti! Quando leggi delle recensioni negative è come mangiare una deliziosa torta con una ciliegina sopra. Il disprezzo e l’animosità del mondo sono tangibili. E hanno un sapore così piacevole!».
[…]
Il tuo uso dell’ironia infatti mi ha sempre colpito.
«Oh, l’ironia è lo strumento più bello e delizioso nella lingua inglese, dove puoi dire una cosa, ma in realtà ne intendi un’altra. È meraviglioso. “Double entendres”, doppi sensi, come direbbero in Francia».
[…]
In Italia, quando i Sex Pistols cantavano “Dio salvi la regina, il regime fascista”, pensavano foste dei fascisti.
«Sì, lo so, prendendolo letteralmente. E non dovresti farlo. Devi essere in grado di leggere tra le righe e cogliere il significato. Ma succedeva anche in U.K.».
Ovviamente il regime fascista era un altro. Il problema era che tu cantavi anche, all’inizio di “Anarchy in the U.K., “I am an antichrist/ I am an anarchist”, ovvero “Sono un anticristo, sono un anarchico”.
«È stato divertente quando mi consideravano un estremista di sinistra e, contemporaneamente, un fascista. E io non ero né l’uno né l’altro».
[…] È vero, però, che ti piace Trump? Com’è possibile?
«Il signor Trump non è una brava persona, e non ha mai fatto finta di esserlo, ma non è un politico. Il vero nemico per me è la solita routine delle stesse vecchie facce stanche in entrambi i gruppi. Nulla cambia mai. Washington D.C. è una cloaca, una palude. Ed è stato piacevole sentire il signor Trump dire certe cose».
Immagino che tu non abbia una buona opinione del “politicamente corretto”.
«È orribile. Penso che la definizione si tradisca da sola con la sua completa mancanza di umorismo, dimostrando di non avere una risposta intelligente alle domande. Finisce sempre tutto in urla e accuse di razzismo o di qualsiasi “ismo” che possa nascondere la mancanza di pensiero intellettuale. E questo è un grosso problema per me».
[…]
Perché hai deciso di intitolare il nuovo album dei PiL “End of the World”? Pensi che la fine sia vicina?
«Più progrediamo, più ci avviciniamo alla fine. Forse, perché c’è una vergognosa mancanza di dialogo tra, beh, diciamo sinistra e destra. E al momento non sembra esserci senso comune nel mezzo. Questo mi preoccupa molto perché una volta che si elimina il dialogo, il passo successivo è la guerra. E non so per cosa combatteremmo, tranne che per il fatto di combattere. Ma io non voglio essere carne da cannone per nessuno, spiacente».
[…]
Quando da giovane ascoltavo le tue canzoni, provavo rabbia, un sentimento che si connetteva all’idea di fare qualcosa per cambiare ciò che non mi piaceva.
«Grazie. Questo per me è il complimento più grande perché quello che dici è successo spontaneamente in tutto il mondo. Ed è stata una cosa molto positiva. Ma alla fine, come tutti i movimenti, il punk è stata cooptato dal commercio e dall’idolatria che ne ha istituzionalizzato anche il look. Io mi sono ribellato contro tutto questo. E ciò mi ha reso molto odiato dai presunti punk ,perché sono rimasto fedele a me stesso, che voleva dire non esserlo. […]».
Nella tua autobiografia “No Irish, no Blacks, no Dogs” (Arcana Editore) racconti che sapevi leggere all’età di cinque anni, ma poi hai avuto la meningite.
«Sì, porta a tutti i tipi di dolori: perdita di memoria, la vista se n’è andata a causa di quello... Sono stato in ospedale per un anno e quando sono uscito ne avevo otto e non sapevo nemmeno il nome dei miei genitori. Non li riconoscevo. Non sapevo come usare coltello e forchetta. Ero un vegetale. Ho ricominciato da capo, leggendo moltissimo».
[…]
Oh, ma adesso hai dei denti belli: non sei più “marcio”!
«Ho dovuto. Mi hanno detto che se non avessi speso dei soldi per i denti sarei morto... (ride), Mio padre per lavarseli usava lo spazzolino per lucidare gli stivali. L’igiene orale a casa non era contemplata. E ne ho pagato le conseguenze: innumerevoli ascessi, gengive marce. Peccato: avrei preferito essere un ubriacone con i denti brutti (ride), […]
Ilary Blasi.
Estratto dell'articolo di Katia Riccardi per repubblica.it domenica 3 dicembre 2023.
La fine della storia tra Ilary Blasi e Francesco Totti, da qualunque punto di vista la si voglia vedere, è la storia della separazione di una famiglia. Le case vicine, quella della madre, e poi le sorelle di Ilary, Melory e Silvia, una famiglia grande, di cognati e nuore, amici, cuginetti cresciuti insieme. [...]
Ad eccezione dei tre figli Totti, Isabel, Chanel e Cristian, che meritano il rispetto globale già solo per la dignità e la forza con cui dedicano post social in pari numero a madre e padre, Roma invece si è divisa, separata, tra chi riscopre Blasi grazie a un docufilm, chi ‘c’è solo un capitano’ e chi ripete a denti stretti che ‘sono cose che capitano’. C’è anche, ancora, un ristretto e silenzioso gruppo che spera in una riappacificazione. Lo dice anche la mamma di Ilary, Daniela Blasi, nel docufilm Unica. Non si sa mai magari. Ma è una frase in mezzo ad altre, una maglietta allo stadio.
In questi mesi di dubbi, notizie su siti e giornali, tentazioni, accuse, Rolex, borsette e scarpe, e bugie da scoperchiare come il contro soffitto di un soppalco, anche la famiglia reale della capitale si è scissa. Giorgia Lillo Lori, per esempio. [...]
È la moglie di Angelo Marrozzini, lui e Francesco Totti sono cresciuti insieme, hanno frequentato le stesse scuole elementari e medie. L’ex capitano è stato il loro testimone di nozze. Grandissimo tifoso della Roma, per Totti sempre presente alle partite, alle cene di famiglia, alla vita. Si dice che l’ex capitano gli abbia dedicato il suo 200esimo gol perché all’epoca il cugino era in coma a seguito di un grave incidente. [...]
È lei ad accompagnare Ilary Blasi sotto casa di Noemi Bocchi una volta che i sospetti non sono più tali. Nonostante tutto non lo racconta ad Angelo, “gli ho detto che venivo da te perché arrivava il tipo a leggerci tarocchi”, spiega. Forse il marito altrimenti le avrebbe fermate. E invece le due donne vogliono vedere, andare fino in fondo o comunque in fondo a Roma Nord. Il racconto che fanno le due cugine amiche è esilarante, ma sono loro due a colorarlo così.
Giorgia fino alla fine spera che sia tutta una follia. “Non potevo crederci, oh. Quando me l’hai raccontato..” dice con la gola chiusa, “se capitava a me una cosa del genere mi ricoveravano in clinica”. Blasi le sorride: “Vabè dai ormai lo sapevamo, siamo andate dirette”. E Giorgia: “Eh no, io fino alla fine ho sperato che magari la macchina di Francesco non c’era, che non era andato”. E invece.
Poi le lacrime, la scena di Ilary che scappa e prende un albero in retromarcia e loro due come ragazzine che hanno fatto l’avventura, corrono via, tornano a casa, ridono, ma sanno che non sarà più quella di prima. Giorgia nel film è un personaggio incredibile, bellissima. Ilary unica ma non sola. A circondarla nel film ci sono altre donne.
Angelo invece nel film non compare, gli unici uomini sono il tassista che rappresenta i sussurri di Roma (“Tutti in città lo sanno che a Totti je piacciono due cose, i maritozzi con la panna e le donne”) e il fabbro che scassina la porta della spa senza sapere perché.
Gli amici ci sono in una scena, seduti a tavola, Blasi brinda a chi le è stato vicino “nel periodo più diffic.. pazzo di tutta la mia vita”. [...]
Da corrieredellosport.it domenica 3 dicembre 2023.
Ilary Blasi: "Perché ho fatto il documentario su Netflix"
Ilary Blasi ha svelato a Verissimo il motivo che l'ha spinta a raccontare la fine del suo matrimonio nel docufilm Unica su Netflix: "Sono stata un po' a osservare, capire cosa era successo, a leggere, sentire tutti i vari punti di vista, le varie opinioni. Però di fatto era la mia storia. Come sai io ho sempre messo la faccia in tutto quello che ho fatto e anche questa volta mi sembrava giusto metterci la faccia"
Ilary Blasi: "Con Totti nessuna crisi prima della separazione"
Ilary Blasi ribadisce a Verissimo che non c'era alcuna crisi con Francesco Totti prima della separazione definitiva arrivata nell'estate 2022. "A novembre 2021 io inizio a vedere mio marito strano. Tra noi due non c'era alcuna crisi, abbiamo fatto anche dei viaggi insieme, non c'era nulla di grave", assicura. Silvia Toffanin mostra poi alcuni video tratti dal docufilm Netflix Unica
Ilary Blasi e l'assurda richiesta di Francesco Totti
Ilary Blasi commenta con Silvia Toffanin la richiesta di Francesco Totti: il calciatore ha chiesto all'ex moglie di lasciare il lavoro, cancellarsi dai social network e non vede più la sua migliore amica nonché parrucchiera di fiducia Alessia Solidani. "Francesco è sempre stato geloso nei miei confronti, non era una novità la sua gelosia. Però non mi sento di paragonare questa cosa alle tragedie di oggi. Lui è il papà dei miei figli. Magari era confuso, spaventato, forse era una via di fuga più facile. Ho sempre cercato un dialogo, una speranza, provarci prima di mettere fine ad un matrimonio"
Ilary Blasi a Verissimo chiede scusa alla stampa
Quando Silvia Toffanin ricorda l'intervista in cui Ilary Blasi ha attaccato la stampa che ha spifferato della liaison tra Francesco Totti e Noemi Bocchi la bionda conduttrice fa ammenda: "Chiedo scusa ai giornali e ai giornalisti. Ma anche loro dovrebbero chiedere scusa a me: io ho reagito così perché avevo una versione dei fatti che ho raccontato. Ero convinta. Avevo creduto a mio marito, come sempre. Ero in buona fede". Interviene Silvia: "Anche io ci credevo, hanno detto che ci eravamo messe d'accordo ma non era così"
Ilary Blasi e l'aiuto della figlia Isabel con il tradimento
"Dopo quella smentita tra me e mio marito la situazione era strana, si faceva fatica a dialogare", aggiunge Ilary Blasi a Verissimo per poi parlare dell'incontro con la piccola Isabel e i due figli di Noemi Bocchi. "Quando poi ho chiamato l'investigatore privato io già lo sapevo ma volevo le prove. Lui aveva una storia parallela che tutti sapevano tranne io e la mia famiglia. Reazione? Delusione da una parte, sollevata dall'altra. Libera". E poi: "Quando l'ho affrontato ha continuato un po' a negare e alla fine si è arreso"
Totti e la reazione dei genitori di Ilary Blasi
"I miei genitori non si aspettavano una cosa del genere: per loro Francesco era il quarto figlio, il figlio maschio mai avuto. Sono delusi ma gli vogliono ancora bene", afferma Ilary Blasi. "Se mi sono sentita tradita da Roma? Sì e no. Alla fine chi ti dice una cosa del genere? Solo una sorella può".
Ilary Blasi e i presunti tradimenti di Totti
"Dal chiacchierato gossip su Flavia Vento a Noemi Bocchi sospetti altri tradimenti in questi venti anni?", chiede Silvia Toffanin. "Da quello che mi ha fatto capire Roma, forse. A me non sono mai arrivate voci concrete ma solo illazioni. Non ho mai visto foto o messaggi. Nessuna è mai venuta da me a dirmi questo. Probabilmente sì ma non ho nessuna prova", risponde Ilary Blasi.
Marco Giusti per Dagospia il 27 Novembre 2023
Ok. Mi sono visto “Unica”, docu-confessione o, se volete, Ilary’s version o Netflix’s version, sulla fine di una delle coppie più amate d’Italia, quella formata da Ilary Blasy e Francesco Totti, diretta da Tommaso Deboni, ma orchestrata da una vecchia volpe dello spettacolo come Pepi Nocera, che funziona anche da intervistatore invisibile. Cosa dire? Intanto. Troppe lacrime. Poi.
Non c’è molto da vedere e da sentire. Il raccontino di 15-20 minuti di Ilary in uno studio rigorosamente nero stesa su una poltrona e molti momenti con la famiglia, la mamma e le sorelle per allungare il brodo. Con la supervisione narrativa di una voce autorevole come Michele Masneri. Ma non c’è nessuno, diciamo, che parla dalla parte di lui. Andando alla polpa, insomma, poca o pochissima. Questa storia del caffè, che Ilary assieme all’amica Alessia vanno a bere a casa di un misterioso amico che abita vicino alla Stazione Centrale di Milano e che darà il via alla folle gelosia di Totti verso la moglie, mi sembra un po’ troppo esibita.
Come non crediamo che Ilary non sapesse proprio nulla del modello di vita di Totti. Insomma. Non è che si dicono cose non vere, penso che siano vere anche le lacrime, ma si dice una realtà forse un po’ aggiustata. In fondo stiamo facendo tv. E non possiamo ovviamente credere che Ilary e Pepi Nocera non lo sappiano. E, occhio, non siamo più sui canali Mediaset, dove Ilary fino a poco fa era una star. Però, figurarsi se non si crede al dispiacere, dopo vent’anni di matrimonio, e vent’anni di tv, della fine di una grande storia d’amore popolare come questa. Con un Totti che, a detta di Ilary, l’ha desiderata fino all’ultimo (“facevamo sesso regolarmente, anche più regolarmente di una coppia sposata da vent’anni”), anche nei giorni dei tradimenti.
Vedendo il film o la docu-confessione non capivo bene a cosa dovessi sentirmi interessato di più. Alla storia d’amore, all’“ha ragione lui? ha ragione lei?”, alla storia delle corna. Alla fine, a parte le lacrime, che Ilary scaccia con l’unghia, mi sentivo più interessato semmai alla storia dei rolex, delle borse e delle scarpe. Finalmente qualcosa di palpabile. O alle case dove abitano la mamma e le sorelle di Ilary. Tutte vicine a lei. Già pronto per una miniserie americana. Al fatto che Ilary riconosca a Dagospia lo scoppio del casino mediatico, senza citare mai Mediaset o ricordarci di quel che disse a Verissimo.
A parte la richiesta-capestro di Totti, se lasci tutto, il lavoro, la tv, i social e l’amica infedele… Ma non è che, malgrado la coincidenza dello scoppio della giusta rabbia delle ragazze in strada dopo l’omicidio della povera Giulia Cecchetin, Ilary sia un esempio così luminoso di donna martoriata dal patriarcato o dal marito. E non racconta nessuna storia terribile del marito, a parte il tradimento con Noemi Bocchi, che non è certo una novità. E alla fine, insomma, se mi chiedo a cosa mi devo interessare rispetto a questa docu-confessione, vi rispondo che non lo so. Però. Certo. L’ho visto.
Da leggo.it il 27 Novembre 2023
Fabrizio Corona ha seguito attentamente la vicenda della separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi e sostiene che la conduttrice non abbia detto la verità ma abbia solamente voluto mettere in cattiva luce l'ormai ex marito. Nelle sue ultime storie Instagram, l'ex re dei paparazzi ha voluto anche rinfrescare la memoria agli utenti social ribadendo che tutto ciò che, in passato ha sostenuto, ovvero i presunti tradimenti da parte di entrambi (motivo per cui lui e Ilary litigarono in diretta al Grande Fratello), era fondato.
Fabrizio Corona ha registrato delle storie al veleno contro Ilary Blasi: sostiene che non abbia affatto raccontato la verità nel documentario Unica. L'ex re dei paparazzi ha detto: «In questi vent’anni di relazione, di matrimonio, di figli, ci sono varie cose certe che non vengono riassunte in questa storia (Unica, ndr), che dice in parte il falso. Totti amava da morire Ilary e credo che la ami tutt’ora ma l’ha sempre tradita, sempre.
Ilary, a poco a poco, si è innamorata di Totti ed è diventata famosa e ha cominciato a lavorare grazie a Francesco Totti a cui deve tutto. Dovendogli tutto, lo ha sempre perdonato e ha sempre fatto finta di non vedere. La seconda cosa certa è che Ilary ha cominciato a tradire Totti, il caffè non è solo un caffè, e prima del ragazzo del caffè, ce ne sono stati altri che vi racconteremo.
Qual è stato il vero problema? Che Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell’agosto del 2021. A poco a poco ha deciso di sostituire la vecchia famiglia con la nuova famiglia».
Infine, Fabrizio Corona ha concluso dicendo: «Ilary ormai indipendente, che i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente, è rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica. Questa storia è veramente complessa e ve la racconteremo sul sito Dillinger News e dalle pagine del nostro Instagram, pezzo per pezzo, nome per nome. Adesso giochiamo noi!».
"Venivano qui spesso". I testimoni smentiscono Ilary Blasi sul presunto amante. Spuntano nuove indiscrezioni sul presunto amante di Ilary Blasi, l'uomo citato nel docufilm "Unica" con cui la conduttrice avrebbe preso solo un caffè. Novella Toloni l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Chi è l'uomo del caffè con Ilary Blasi
La testimonianza dei camerieri
Nella serie "Unica", il docufilm di Ilary Blasi su Netflix, tutto ruota attorno a un caffè. "Uno solo", ha ribadito più volte la conduttrice nel racconto fatto sulla fine del suo matrimonio con Francesco Totti. Secondo le ultime indiscrezioni, però, di caffè ce ne sarebbero stati più di uno tra la Blasi e l'uomo misterioso, il cui nome nel docufilm non viene mai fatto. La testimonianza arriva da alcuni camerieri, che hanno servito i famosi caffè alla coppia proprio a Milano, a due passi dalla stazione; luogo citato dalla stessa Blasi nel suo docufilm.
Chi è l'uomo del caffè con Ilary Blasi
A svelare l'identità del giovane ci aveva già pensato - un anno fa - Fabrizio Corona. Mentre Totti e Ilary si preparavano a darsi battaglia in tribunale per la causa di divorzio, l'ex re dei paparazzi aveva rivelato il nome del presunto amante della conduttrice dell'Isola dei Famosi: Cristiano Iovino. Influencer con la passione per i viaggi, i tatuaggi e la Lazio, Iovino era finito al centro del gossip più caldo del momento e gli inviati di "Non è l'Arena" avevano provato a intervistarlo - senza successo però - per ottenere conferme sulla presunta relazione con Ilary. L'uomo era rimasto in silenzio ma attraverso i suoi avvocati aveva fatto sapere di essere estraneo ai fatti, parlando di "ricostruzioni false e strumentali". E a quel punto uscì fuori un secondo nome, quello di Alessio La Padula, che smentì a sua volta ogni coinvolgimento.
La testimonianza dei camerieri
A oltre un anno di distanza, e con l'uscita a sorpresa del docufilm "Unica", il nome dell'aitante influencer milanese è tornato alla ribalta della cronaca per quel fantomatico caffè, che Ilary Blasi avrebbe preso proprio con lui. Ma la verità potrebbe essere un'altra rispetto a quella raccontata dall’ex letterina su Netflix. A smentire le dichiarazioni di Ilary ci sono le testimonianze di alcuni camerieri del bar sotto casa di Cristiano Iovino, che hanno parlato di più di un incontro tra i due. A rivelarlo è il sito MowMag, che un anno fa si occupò della vicenda e inseguì - senza fortuna - Iovino fuori dalla sua abitazione in cerca di risposte. "I camerieri del ristorante che hanno visto tutta la scena di noi che inseguivamo Iovino, ci hanno dato la notizia: 'Cristiano e Ilary sono stati qui diverse volte, spesso'", riferisce il sito, ricordando che, nel docufilm, Ilary Blasi parla di un caffè preso nell'appartamento del misterioso uomo. "Invece quel giorno, quei camerieri, ci svelano - non sapendo di essere inquadrati dalla telecamera tenuta bassa - di incontri ripetuti, che sanno tanto di una relazione andata avanti per un po'", conclude il portale di informazione.
"Ha tradito anche Ilary". Corona fa i nomi degli amanti della Blasi. Attraverso Instagram Fabrizio Corona è tornato ad accusare Ilary Blasi di infedeltà, facendo il nome di uno dei presunti amanti della conduttrice. Novella Toloni il 27 Novembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le parole di Corona
I presunti tradimenti di Ilary
"Ecco con chi Ilary ha tradito Totti"
Il racconto fatto da Ilary Blasi nel suo docufilm "Unica"? Falso, almeno in parte. A sostenerlo è Fabrizio Corona, che poche ore fa ha rilasciato pesanti dichiarazioni sulla conduttrice e sul suo matrimonio con Francesco Totti. "Ci sono cose certe che non vengono riassunte in questa storia (Unica, ndr), che dice in parte il falso", ha detto in un video post Instagram l'ex "re" dei paparazzi, dichiarando nuovamente guerra alla Blasi con la quale anni fa si scontrò proprio sul tema dell'infedeltà.
Le parole di Corona
Fabrizio Corona ha sempre sostenuto che Ilary Blasi sia stata infedele tanto quanto Totti all'interno del loro lungo matrimonio, ma non ha messo indubbio l'amore del Pupone per la consorte: "Totti amava da morire Ilary e credo che la ami tutt'ora anche se l'ha sempre tradita, sempre". L'ex "re" dei paparazzi ha invece messo nel mirino Ilary Blasi: "A poco a poco si è innamorata di Totti ed è diventata famosa e ha cominciato a lavorare grazie a Francesco Totti a cui deve tutto. Dovendogli tutto, lo ha sempre perdonato e ha sempre fatto finta di non vedere". Secondo Corona, insomma, la conduttrice avrebbe sempre saputo delle "scappatelle" del capitano della Roma ma avrebbe taciuto.
I presunti tradimenti di Ilary
Fabrizio Corona ha rivelato che nel corso della loro relazione anche Ilary Blasi avrebbe avuto relazioni extraconiugali, delle quali il Pupone però non sapeva nulla, almeno fino al fantomatico caffè. "La cosa certa è che Ilary ha cominciato a tradire Totti, il caffè non è solo un caffè, e prima del ragazzo del caffè, ce ne sono stati altri che vi racconteremo", ha raccontato su Instagram l'ex di Nina Moric, che poi ha parlato dei motivi che avrebbero portato all'addio: "Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell'agosto del 2021".
"Ecco con chi Ilary ha tradito Totti"
Prima di concludere il suo video, Corona ha lanciato altre accuse contro Ilary Blasi: "Lei ormai indipendente e i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente. È rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica". Fabrizio ha parlato di una storia complessa, promettendo nuove scottanti rivelazioni che sono arrivate subito con tanto di nome e cognome di uno dei presunti amanti della Blasi: "Durante le riprese del programma Star in the star avrebbe avuto un flirt con il cantante e ballerino Alessio la Padula proveniente dal talent show Amici di Maria De Filippi". Già un anno fa Corona fece questo nome, ma Padula smentì tutto su Instagram così oggi Fabrizio è tornato alla carica: "Ho incontrato Alessio nella palestra di un famoso hotel a Poltu Quatu, e mentre scherzava e rideva, ironizzava sul tradimento di Ilary fatto proprio con lui". Tutto, sostiene Corona, documentato con prove audio.
Corona fa il nome dell'ex ballerino di Amici: "Blasi ha tradito Totti con lui". Libero Quotidiano il 28 novembre 2023
Fabrizio Corona torna a parlare della coppia Ilary Blasi-Francesco Totti. L'ex re dei paparazzi smentisce la versione della conduttrice sulla separazione dal fu capitano della Roma. Nel documentario sulla sua vita, Unica, la Blasi ha detto: "Totti non mi ha trovata che sco***o con un altro. Lui mi faceva sentire in colpa per un caffé". Eppure per Corona le cose non sarebbero andate così. "Ilary Blasi avrebbe tradito Totti con Alessio La Padula, ancor prima del ragazzo del caffè, di cui domani vi diremo nome e cognome, raccontando la storia che si cela dietro", è la bomba sganciata dall'imprenditore.
E ancora: "Ilary Blasi durante le riprese del programma Star in the Star avrebbe avuto un flirt con il cantante e ballerino Alessio La Padula proveniente dal talent show Amici. La notizia era stata data già da Fabrizio Corona nel 2022, ma il ballerino aveva smentito attraverso una storia Instagram". L'ex paparazzo avrebbe infatti un rapporto abbastanza stretto con La Padula e con i suoi conoscenti.
Qual è stato il vero problema per Corona? "Che Totti, avendo una concezione patriarcale della relazione, una volta scoperto il tradimento di Ilary, non è riuscito più ad accettarlo e a poco a poco ha consacrato quella relazione che era già da prima iniziata con Noemi Bocchi nell’agosto del 2021". Da qui l'accusa conclusiva al volto di Mediaset: "Ilary ormai indipendente, che i sensi di colpa non li ha mai avuti veramente, è rimasta a guardare la fine del matrimonio studiandosi le carte per vendicarsi e per cominciare la sua battaglia mediatica".
La letterina e il campione. “Unica” è la storia di Ilary, ma è anche uno scaldamutande di documentario. Guia Soncini Linkiesta il 25 Novembre 2023
Il docufilm Netflix sulla Blasi, ex moglie di Totti, non dice nessuna delle cose che fa venir voglia di sapere, l’unico pregio è che lei sa essere stronzissima e conosce l’importanza di regalare citazioni citabili. La speranza è che almeno ci sia un sequel al maschile con protagonista Pupone
«A riguardarmi, una cretina». “Unica” è a due terzi quando smette di essere il «non prendetevela: prendetevi tutto» di una città che al posto delle socialite di Park Avenue ha le vallette; quando non è più solo la storia arcitaliana d’una quarantenne che se sospetta che il marito la tradisca chiama la mamma in lacrime; quando diventa la storia di tutti gli adulteri.
La storia di tutte le smentite del fedifrago, e tu che ci credi, tu che decidi che sono pettegoli gli altri, mica cornuta tu, e tieni il punto e dici ma-che-ne-sapete-voi, solo che se sei Ilary Blasi coniugata Totti non vai a dirlo a cena con le cognate ma in tv.
È perfetto e inverosimile come sa sceneggiarlo solo la realtà che, dal programma con Gerry Scotti nel quale si sculettava in mutande, siano usciti due pezzi della classe dirigente del secolo successivo. È perfetto che le due Letterine rimaste famose abbiano sposato una Francesco Totti e una Piersilvio Berlusconi, e quando si è trattato di andare a dire «ma quali corna» in tv la prima sia andata dalla seconda.
Nella storia di tutti gli adulteri c’è anche il dettaglio che abbiamo vissuto se non tutte noi almeno una nostra amica (più spesso: decine di nostre amiche): la moglie che, a corna ancora smentite, scopre che la sua prole viene portata fuori, dal fedifrago, coi figli dell’altra donna. Tu a mia figlia la tua amante non gliela fai incontrare capitoooo.
Ilary passa “Unica” a fare l’unica cosa che facciano le donne di successo in questo secolo: a dirci che non è unica ma tale e quale a noi. A dire «metterci la faccia», a fare la vittima di sessismo che «lui lo chiamavano “campione” e me “ex Letterina”», a piangere: Ilary piange benissimo, sembra proprio una di noi cornute a reddito inferiore.
Netflix non pensa che io voglia vedere “Unica”: non me lo propone in nessun punto della pagina di apertura della app (definita da un critico americano «il più prezioso metro quadro che si possa affittare»: siamo pigri, clicchiamo su quel che ci propongono, mica insistiamo a cercare qualcosa per cui avevamo aperto la app, ammesso che quel qualcosa esista).
All’inizio penso che sia un limite – che diamine potrà mai voler vedere, un’italiana, il mattino in cui esce la versione di Ilary Blasi: veramente mi proponete “Suburra” e Zerocalcare e “Lidia Poët”? – poi mi viene il sospetto che si stiano tutelando.
Mi viene il sospetto che non vogliano rischiare che ci clicchi gente che qualche giornale straniero ogni tanto lo sfoglia, e sa come funzionano e sa che per fare più d’un articolo su qualcosa quel qualcosa dev’essere come minimo una guerra, e riderà in faccia a Netflix quando l’esperto italiano dirà senza ironia che il New York Times ha pubblicato «decine di articoli» sulla separazione Totti/Blasi (articoli pubblicati sul tema dal NYT: uno).
“Unica” è uno scaldamutande dei documentari: non mi dice nessuna delle cose che mi fa venir voglia di sapere. La premessa è che, prima del vero tradimento con Noemi Bocchi, Francesco Totti colpevolizza la moglie per aver preso un caffè con un tizio.
Il caffè Ilary l’ha preso, a casa di questo misterioso tizio, assieme ad Alessia, la sua parrucchiera (puoi togliere a una ragazza il costume da Letterina, ma non puoi farne una che non si scelga come amiche le sorelle, le cognate, la parrucchiera: non capisco cos’aspetti la sociologia a raccontarci lo schema sempre uguale degli arricchiti che frequentano solo il loro staff, staff perlopiù fatto di parenti).
Ci fanno vedere persino le schermate di WhatsApp, e sentire gli audio con cui viene concordato questo caffè, eppure non si capisce niente: chi è questo ragazzo? Dove l’hanno trovato? Dai messaggi scambiati con la parrucchiera, che gli chiede persino se sia italiano, è chiaro che vanno a casa sua a prendere un caffè senza averlo mai incontrato prima.
Una delle donne più famose d’Italia va a casa d’uno sconosciuto? È questo quel che succede quando ti circondi di parenti e parrucchieri invece che di consigliori che sappiano dirti cosa non fare?
Tutto questo nessuno ce lo spiega, così come non ci spiegano l’allontanamento di Totti dal cugino, cugino che era «come un fratello», e la cui moglie è una delle migliori amiche di Ilary. Quindi il documentario che sono riusciti a tenere segreto fin quando Netflix non l’ha annunciato ufficialmente (bravissimi: l’unico documentario che vorrei vedere è quello sull’impresa impossibile di tenere un segreto a Roma) è stato girato coinvolgendo la moglie d’un cugino di colui che meno di tutti doveva saperlo. Me lo volete spiegare, questo nodo? Macché.
A un certo punto Ilary e questa moglie di cugino e le altre vanno a Londra, dove finalmente possono girare per strada e Ilary può trasecolare perché la prendono per russa (e la vedete quarantenne e ripulita e con le unghie normali, cari passanti londinesi: aveste visto la french quadrata con cui si sposò ventiquattrenne, chissà per cosa l’avreste presa).
Giacché a Roma puoi miracolosamente tenere il segreto del documentario su Ilary, ma certo non puoi farlo portandola nei posti dove vi vedrebbero; sarebbe stato bello farla parlare di suo marito all’Olimpico, ma non si poteva fare: stiamo parlando della tizia il cui matrimonio in diretta televisiva segnò la fine d’un’epoca, anche se allora non lo sapevamo.
Nel 2005 mancavano tre anni alla diffusione di massa dei social, e cinque a Instagram: le nozze Blasi/Totti andarono in diretta su Sky, come si usava nel secolo scorso, come quelle della Diana Spencer che si poteva permettere un paese senza star system.
Per parecchio tempo è sembrato che la storia non finisse, o almeno non male come quella di Diana e Carlo, ma poi sono arrivati i Rolex, le borsette, la più ridicola trattativa di divorzio di queste sciamannate lande. La Blasi, che in “Unica” racconta di non aver ceduto subito alla corte di Totti perché non voleva essere «un nummmero», è diventata la rapitrice degli orologi del marito («Quindi praticamente non solo mignotta, pure ladra»: se c’è una cosa che emerge dal documentario è che Ilary Blasi conosce l’importanza di regalare citazioni citabili).
Totti è diventato quello che le aveva preso le Chanel (intese come borse). Nel frattempo su Instagram arrivavano il diciottesimo di Cristian, con un décor che faceva sembrare minimal i Casamonica, e la vita quotidiana di Chanel (intesa come figlia), le cui unghie fanno sembrare la madre una dilettante: Ilary è una Visconti di Modrone, in confronto alla seconda generazione di ricchezza dei Totti.
(Ma per fortuna non lo è, sennò non ci direbbe mai, raccontando dell’investigatore da cui fa pedinare il marito, che mentre quello la tradiva «il bello è che la sera prima mi cercava, sessualmente»: dio benedica le ragazze non particolarmente ben nate, perché da esse ci vengono le uniche storie che valga la pena ascoltare, quelle non particolarmente beneducate).
Ovviamente “Unica” è una biografia autorizzata, e quindi la carriera di Ilary, che inizia a condurre reality quando i reality muoiono, ci viene presentata come poco meno di quella di Raffaella Carrà, e come insanabile ferita all’ego del marito che contemporaneamente veniva pensionato dal calcio.
Ilary Blasi sa essere stronzissima, come ricorda chiunque vide in tv la sua tirata contro Fabrizio Corona; tirata che era, come un po’ è anche “Unica”, un interessante trattato sulle classi sociali: in quel caso, era uno scontro tra una burina ripulita e uno ben nato ma determinato a imburinirsi.
Ilary Blasi sa essere stronzissima, e ce ne ricordiamo quando rievoca l’addio al calcio del marito, una diretta televisiva che, ancora una volta, sostituiva la nostra mancanza d’uno star system, così disperante da farci accontentare dell’ultima partita d’un calciatore locale.
(Se Francesco Totti fosse uscito dall’utero romano, se fosse andato a giocare all’estero, se non avesse preferito essere un imperatore locale all’avere una vera carriera, Ilary Blasi sarebbe stata una Victoria Beckham? Non lo sapremo mai).
Ilary Blasi sa essere stronzissima, dicevo, e lo si capisce quando butta lì, in levare, come non fosse la frase che resta d’un’ora e venti di documentario, come non fosse l’immagine che d’ora in poi verrà associata a Francesco Totti sempre e per sempre, che per giorni, settimane, suo marito «era sul divano a vedere a loop l’addio».
È un’immagine più convincente di quella evocata dalla madre di Ilary, convinta che Totti sia un uomo raffinato, che spiega che all’inizio, quando lui aveva preso a frequentare la loro umile casa, era un po’ imbarazzata, pensandolo abituato ad ambienti più eleganti.
Speriamo che sia più vero l’identikit da ex povero di quello da ex principe, altrimenti non possiamo sperare nelle speculari rivelazioni dell’ex marito, in un prossimo “Unico” dal quale avere un’altra versione sui doppifondi in cui nascondere accessori di Hermès; ma, soprattutto, un’intervista in cui il marito ci sveli dove la moglie e la parrucchiera avessero trovato il misterioso tizio dell’inspiegabile caffè.
Ilary Blasi e Totti: «Volevo vedere con i miei occhi e avere delle prove, lui non l'avrebbe mai ammesso: ecco cosa è successo il 2 luglio». Renato Franco su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
Su Netflix arriva «Unica», il docufilm in cui la conduttrice parla per la prima volta della fine della sua storia d’amore con Francesco Totti: «Una sera andiamo a cena e comincio a notare un marito diverso: da lì un disastro»
«Non potevo credere che l’uomo che è stato accanto a me per vent’anni, che ha sempre detto di amarmi, che giurava che senza di me non poteva vivere, avesse fatto una cosa del genere: mi sono sentita stupida, poi ho provato delusione, schifo, un po’ di rabbia»: Ilary Blasi racconta così, tra le lacrime, la fine del rapporto con Francesco Totti in Unica — il docufilm di Netflix prodotto da Banijay Italia dove la conduttrice accetta di parlare per la prima volta della fine della sua storia d’amore con l’ex capitano della Roma.
Il nodo centrale è il tradimento di Totti con Noemi Bocchi. Le famose foto rivelate da Dagospia che immortalavano l’attuale nuova fidanzata seduta allo stadio poche file dietro di lui, l’inizio del precipizio che porterà alla definitiva rottura.
Quando esce il nome di Noemi Bocchi, lei pensa a una bufala, del resto lui nega: «Giura davanti a me e davanti ai miei figli che era tutto inventato. Lo giura». Così quando Ilary va a Verissimo per lanciare l’Isola dei famosi non ha dubbi, attacca tutti, usa parole dure contro stampa e media: «Lui mi aveva rassicurato: puoi dire quello che vuoi, non ho niente da nascondere. E io sono andata lì come un kamikaze, a bomba: a riguardarmi una cretina».
I primi sospetti di Ilary cominciano quando Francesco Totti porta la figlia più piccola fuori a pranzo e la bambina torna casa con un mucchio di giochi nuovi. «Mi dice che sono dei regali, che ha conosciuto nuovi amichetti, mi fa i nomi e a quel punto mi ricordo dagli articoli di giornale che questa ragazza (Noemi, ovviamente) aveva due figli. Inizio a unire i puntini e faccio qualche chiamata per scoprire come si chiamavano i ragazzini: coincideva tutto. E prendo coscienza del fatto che è tutto vero».
La favola di Cenerentola e del Principe Azzurro sta venendo giù insieme a tutto il castello, ma Ilary vuole essere sicura: «Volevo vedere con i miei occhi e volevo avere delle prove, perché Francesco non l’avrebbe mai ammesso. La sera del 2 luglio dice che ha una cena. Io riesco a trovare il civico dove abitava la ragazza, arriviamo (si era fatta accompagnare da un’amica, Giorgia, moglie del cugino di Francesco) e c’era la macchina parcheggiata. Ho fatto una foto all’auto, ma sono stata zitta».
Per fugare ogni dubbio sull’infedeltà del marito infatti ingaggia un investigatore privato. «Ma l’investigatore si è fatto sgamare, siamo al tragicomico: quindi Francesco sa che io so. A questo punto gli dico: dai basta, so tutto. Lo metto all’angolo, ammette il tradimento ma ne parla come di una frequentazione leggera: era bravo a dire cazzate». Ilary non può accettarlo: «È stata un’umiliazione come donna e come madre».
Quella tra Francesco Totti e Ilary Blasi è stata una storia anche di Rolex e Chanel (le borse, i figli), ma era iniziata «per amore, non per soldi»: «Francesco l’ho difeso contro Spalletti e contro Corona, l’ho difeso perché ho sempre creduto a mio marito». Una rapporto sereno per 20 anni: «Mai grandi litigate, facevamo sesso regolarmente, forse anche di più rispetto a coppie che stanno insieme da tanto tempo».
Nota a margine. Il docufilm è una storia con tante donne protagoniste: Ilary ovviamente, ma anche la mamma, le due sorelle, le amiche sempre al fianco. Una storia che tra tanti retroscena ne svela uno più inquietante di tutti, quando Totti detta le sue condizioni per tornare ad avere fiducia in lei: «Non devo vedere mai più la mia amica Alessia, devo cancellarmi dai social e smettere di lavorare». Una parabola che rivela una mentalità che in questi giorni fa riflettere ancor di più: lui sempre chiamato l’ex capitano, lei definita con perfidia l’ex letterina…
Dai gossip al tribunale, dalla maglia «Sei unica» a due anni di liti: Totti e Ilary Blasi, cosa è successo. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.
A febbraio 2021 le prime voci sulla crisi, le smentite e poi la separazione. Ecco che cosa è successo da allora a oggi
Ilary Blasi sarà pure «unica», invece le cause che la vedono in guerra con il suo ex Francesco Totti, da tre che erano, sono diventate quattro. Dopo quella di divorzio (prossima udienza il 24 gennaio 2024), la disputa sull’impianto sportivo della Longarina (restituito al Capitano) e il primo capitolo della saga dei Rolex (incentrato sul possesso dei preziosi orologi e risolto con un provvisorio affido congiunto), la conduttrice tv – che nel docufilm su Netflix si commuove per la crisi del suo matrimonio con Totti: («L’ho sposato per amore, non per soldi») - finite le lacrime, è tornata alla carica.
Presentando una nuova istanza al tribunale civile con cui stavolta rivendica la proprietà dei Rolex e denuncia (ancora) la sparizione di abiti, accessori e gioielli. Prima udienza il 4 dicembre, stesso giudice, Francesco Frettoni, che non ha accolto le sue precedenti richieste. E via con la seconda stagione della serie che più appassiona i rispettivi sostenitori.
La fine del matrimonio dopo 17 anni
Un succoso spin-off della vicenda principale, ovvero la fine di un amore che pareva indistruttibile. Quello tra il Capitano e la Letterina più bella di tutte, 20 anni e quasi 17 di matrimonio, tre figli (Cristian, Chanel e Isabel), gol, dediche appassionate («Sei unica», appunto, scritto sulla maglietta mostrata dal numero 10 giallorosso dopo il pallonetto del 5 a 1 nel derby del 2002), foto al tramonto, estati a Sabaudia, quando non c’era Totti senza Ilary e viceversa.
La «bomba» di Dagospia
In quasi due anni è successo di tutto e di più. Da quando, il 21 febbraio del 2022, il sito Dagospia lanciò la bomba: «La favola Totti & Ilary alle battute finali? Durante una gitarella familiare al lago di Castel Gandolfo, sarebbe esploso l’ennesimo litigio tra l’ex capitano della Roma e la conduttrice del Biscione». Il giorno dopo Roberto D’Agostino pubblica la foto di Noemi Bocchi allo stadio Olimpico, seduta qualche fila dietro Francesco, presentandola come il suo nuovo amore. Segni particolari: una evidente somiglianza con Ilary, appassionata di padel e grande tifosa giallorossa.
Prima la doppia smentita, poi le ammissioni
Il tempo di accusare il colpo e la conduttrice dell’Isola dei Famosi, per smontare il pettegolezzo, posta una foto di tutta la famiglia al ristorante, mentre Totti, cupo e spalle al muro, registra un video pubblicato sui social in cui accusa la stampa di diffondere false notizie senza curarsi della serenità dei minori coinvolti. Una doppia smentita poco convincente. In realtà, come ammetterà lui stesso mesi dopo («La nostra storia è iniziata dopo Capodanno 2022»), lui e Noemi già si frequentavano di nascosto. Ilary gli chiede spiegazioni, lui nega. E lei si avventura in un’intervista a Verissimo con cui rinfaccia ai giornalisti di aver fatto una gran brutta figura.
L'annuncio della separazione
A metà giugno – ma si apprenderà soltanto dopo – Ilary Blasi con un blitz porta via la collezione di Rolex del marito, del valore di oltre 1 milione di euro. L’11 luglio, con un doppio comunicato stampa (non si mettono d’accordo nemmeno su quello), Francesco e Ilary annunciano la separazione. Più fredda lei, più contrito lui. Il giorno dopo Ilary parte per la Tanzania e Zanzibar con la sorella Silvia e i ragazzi. Torna, riparte, torna, riparte, fino a fine agosto. Immortala ogni momento su Instagram. Scatti in bikini, stesa come una sirena sulla barca, in montagna, dalla nonna Marcella. Totti resta a Sabaudia. Noemi però viene avvistata al Circeo, poco lontano. Il suo ex marito, Mauro Caucci, da cui si sta separando, dichiara sarcastico: «Totti ha tutta la mia comprensione, io so bene cosa c’è dietro l’immagine di mia moglie».
Totti: «Non ho tradito io per primo»
Gli avvocati preparano le carte bollate per la separazione Totti-Blasi. Alessandro Simeone per Ilary, Antonio Conte e Annamaria Bernardini de Pace per l’ex calciatore. L’11 settembre sul Corriere esce l’intervista-confessione del Capitano con Aldo Cazzullo. Con cui Francesco fa risalire l’inizio della crisi coniugale alla primavera del 2021 e ammette la love story segreta. Ma precisa: «Non ho tradito io per primo. Ho trovato messaggi compromettenti sul cellulare di Ilary, è stato uno choc». E racconta pure del “ratto dei Rolex”, che Ilary ha prelevato dalla cassetta di sicurezza cointestata con l’aiuto del padre Roberto.
Il gelo tra Francesco e Ilary
Lui, per rappresaglia, le ha nascosto cento paia di scarpe e costose borse griffate. Ritrovate, tempo dopo, negli sgabuzzini della mega-villa all’Eur da 1.500 metri quadrati, in cui a lungo continuano a vivere insieme da separati in casa. Comunicando il meno possibile, spesso soltanto via Whatsapp. I rapporti sono pessimi. A un certo punto lei farà cambiare la serratura di casa. Un detective sostiene di essere stato assoldato dalla conduttrice tv per pedinare e spiare Francesco Totti con Gps, camere a infrarossi, auto e moto civetta. Costo della parcella: 75 mila euro. Spuntano i nomi dei presunti flirt di Ilary. Il più gettonato è Cristiano Iovino, personal trainer muscoloso e giramondo, pendolare tra Roma e Milano, che le sarebbe stato presentato dall’amica Alessia Solidani, la sua parrucchiera di fiducia dai tempi delle nozze all’Ara Coeli il 19 giugno 2005.
La battaglia legale per i Rolex
La guerra borsette contro Rolex finisce in tribunale. Prima udienza il 14 ottobre 2022. Ilary intanto provoca: e si fa fotografare davanti a una boutique del marchio svizzero mentre mima il gesto di chi sgraffigna qualcosa. Francesco non si diverte per niente. Il 17 novembre, a Dubai per i Globe Soccer Awards, fa la sua prima uscita pubblica con Noemi, che al dito porta un vistoso anello di diamanti, con una gemma di 7 carati, valore stimato sui 300 mila euro. E si separa pure dall’avvocato Bernardini de Pace, affidandosi unicamente allo storico legale Antonio Conte.
Nella vita di Ilary entra Bastian Muller
Pochi giorni dopo appare all’orizzonte Bastian Muller, aitante imprenditore tedesco di 36 anni, nuovo compagno di Ilary Blasi. I due vengono fotografati a Zurigo, durante un weekend romantico. A Capodanno 2023 volano in Thailandia. Poi a Parigi, poi a Monaco di Baviera, in Brasile. Il “Vichingo” viene presentato in famiglia. Dorme nella villa coniugale, suscitando l’ira del Capitano, ma tant’è. Francesco fa le valige e si trasferisce in un attico di Roma Nord con Noemi e i suoi bambini, Sofia e Tommaso.
L'affido condiviso dei figli
Ad aprile 2023 il giudice Simona Rossi emette i provvedimenti provvisori urgenti sulla separazione. Per il mantenimento dei figli Ilary riceve 12.500 euro al mese. Ne aveva chiesti almeno 24, sperava in 18, ne ottiene la metà. Le spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) sono divise al 50 per cento. A parte quelle scolastiche, che per il 75 per cento dovranno essere sostenute da Totti. La super-villa dell’Eur (che ha costi di manutenzione stellari) è assegnata a Ilary e ai figli, per i quali però l’affido è condiviso. La prima udienza, il 20 settembre 2023, è solo tecnica. La seconda viene fissata per il prossimo 24 gennaio. I legali delle due parti hanno presentato voluminose memorie con prove, accuse, dossier, testimoni. Entrambi richiedono l’addebito per l’altro. Ilary punta il dito contro Noemi. Totti ribadisce che non è stato lui ad esserle infedele per primo. Ed è pronto a fare nomi e cognomi dei flirt di Ilary.
Longarina, il centro sportivo conteso
La lite si sposta pure sul centro sportivo della Longarina, che ospita la scuola di calcio di Totti, gestito negli ultimi tempi da una società che fa capo a Silvia Blasi. L’ex 10 giallorosso pretende di rientrarne in possesso. La cognata, per ripicca, chiude i cancelli. Francesco ottiene lo sfratto forzoso. E procede al pignoramento dei beni della cognata per circa 190 mila euro di canoni di affitto non pagati. Lei presenta opposizione, non è ancora finita.
La battaglia infinita per i Rolex
Il giudice che decide sulla sorte dei Rolex contesi alla fine stabilirà una sorta di affido congiunto. Ilary mesi dopo fa ricorso, sostenendo che fossero regali per lei, la corte di appello lo respinge. E le ordina di riportare indietro gli orologi, a disposizione di entrambi i contendenti. Si arriva ad agosto 2023. Dopo continui rinvii, a ottobre tre Rolex, tra cui l’esclusivo Daytona Rainbow, tornano a casa, in una nuova cassetta di sicurezza cointestata. Sono soltanto quelli, però. Secondo Totti ne mancano almeno altri 4/5. In realtà nella cassaforte ce ne sarebbero stati almeno 12. Non si sa bene che fine abbiano fatto. Non sono ancora ricomparsi. Ora Ilary ne rivendica la proprietà con una nuova causa. Nell’entourage di Totti qualcuno sospetta che stia cercando di prendere tempo. Il timore è che, per qualche motivo, non li abbia più.
E arriviamo a questi ultimi giorni. Mentre Netflix manda in onda il docufilm su di lei, Ilary vola a New York con Bastian, con cui festeggia un anno d’amore giusto giusto. Francesco, che è appena stato a ritemprarsi alle terme di San Quirico D’Orcia con Noemi e i figli acquisiti, si è riconciliato con Luciano Spalletti. Con Ilary invece sarà dura, ancora di più dopo la programmazione di «Unica». Nella sua più recente intervista a Veltroni il campione del mondo 2006 si augurava di trovare con l’ex moglie «un nuovo equilibrio». Ma per ora appare soltanto un pio desiderio.
Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” giovedì 3 agosto 2023.
E guerra sarà. Fino all’ultima velenosa ripicca, all’estremo rinfaccio: «Hai tradito per primo», «no sei stata tu». La separazione tra Francesco Totti e Ilary Blasi, che già non si presentava come delle più amichevoli, tutt’altro, sta per imboccare una via di non ritorno.
Nei giorni scorsi la conduttrice tv (che in termini tecnici è la ricorrente), tramite i legali Alessandro Simeone e Pompilia Rossi, ha presentato al Tribunale civile di Roma una richiesta formale di addebito contro l’ex marito. Sostenendo che il loro matrimonio, durato quasi 17 anni, sarebbe finito per colpa di Noemi Bocchi, con cui l’ex 10 giallorosso l’avrebbe rimpiazzata.
L’atto è stato depositato e notificato alla controparte, che ha tempo fino al 10 agosto per rispondere. E lo farà. Gli avvocati Antonio Conte e Laura Matteucci, che assistono il Capitano (il resistente) starebbero preparando una dettagliata contro-richiesta.
[…]
Forse non negheranno che Francesco si sia innamorato di Noemi — fu lo stesso Totti ad ammetterlo nella celebre intervista al Corriere con Aldo Cazzullo: «La nostra storia è iniziata dopo Capodanno. E si è consolidata nel marzo 2022».
Metteranno nero su bianco anche una lista dei (presunti) flirt di Ilary. Con nomi e cognomi. Allegando i messaggini compromettenti scoperti sul cellulare della showgirl. («Non avevo mai spiato sul suo telefonino. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Ho guardato. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro»).
Ovvero Alessia Solidani, fedele amica e parrucchiera di Ilary, che l’aveva pettinata anche per il giorno delle nozze all’Ara Coeli in diretta su Sky.
Nel documento, che verrà consegnato in queste ore, si farebbe quindi esplicitamente il nome di Cristiano Iovino, il tatuato e palestrato personal trainer romano di cui tanto si è scritto la scorsa estate. E forse anche del fascinoso attore Luca Marinelli, amico di Melory Blasi, sorella di Ilary. Più altri di cui si è lungamente dibattuto su siti e giornali.
Il giudice del Tribunale civile Simona Rossi, che ha fissato la prima udienza per il 20 settembre, non subito, ma in seguito, potrebbe quindi decidere di convocare le persone chiamate in causa. Tra cui molto probabilmente Noemi Bocchi. Ma forse anche il prestante Iovino. […]
Intanto però proprio ieri, nell’ormai epica contesa borsette contro Rolex, il collegio della VII sezione del Tribunale civile di Roma, presieduto dal dottor Cinque, ha respinto l’appello di Ilary Blasi contro l’ordinanza-sentenza del giudice Francesco Frettoni. Condannandola in più al pagamento delle spese legali per 4 mila euro. Una dura sconfitta.
L’appello è stato ritenuto infondato. I Rolex non sono considerati regali per lei. Anzi, il Tribunale le ha ordinato di riportarli con urgenza in una cassetta di sicurezza cointestata. Confermando il compossesso, finché altra causa non ne stabilirà la proprietà.
Inoltre i giudici precisano che la stessa Blasi, nei verbali dell’istruttoria di primo grado, aveva ammesso di aver prelevato 6 o 7 Rolex. E quindi adesso non può sostenere di averne presi 2 o al massimo 4. Quelli erano e quelli deve riconsegnare, non uno di meno. […]
Blasi e Totti, il giudice scontenta Ilary: assegno da 12.500 euro per i figli (ne aveva chiesti 30 mila). Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023
Per la separazione tra Totti e Blasi il Tribunale ha deciso per l'affido condiviso e spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) al 50%, a lui il 75% di quelle scolastiche. La villa resta alla showgirl
In realtà Ilary Blasi sperava di averne il doppio: per il mantenimento dei figli la conduttrice dell’Isola dei Famosi aveva chiesto a Francesco Totti 24 mila euro al mese. E che tutte le spese straordinarie fossero accollate al suo ex marito. Per un totale di quasi 30 mila euro. Invece ne riceverà 12.500, appena più della metà. Questo ha deciso il giudice Simona Rossi, che ha emesso i provvedimenti provvisori urgenti sulla separazione tra la showgirl e l’ex 10 giallorosso.
Affido condiviso: le spese per i figli
Stabilendo che le spese straordinarie (viaggi, svago, cure mediche) siano divise al 50 per cento. A parte quelle scolastiche, che per il 75 per cento dovranno essere sostenute dal padre di Cristian, Chanel e Isabel. La villa dell’Eur da 1500 metri quadri è assegnata a Ilary perché è lì che vivranno i ragazzi, per i quali però l’affido sarà condiviso, come richiesto da entrambi i genitori. I due più grandi potranno alternarsi tra le due case (Totti ne sta cercando una all’Eur dove trasferirsi con Noemi), per la più piccola, che ha 7 anni, invece il giudice ha stabilito che resti con la madre. Totti potrà vederla secondo un calendario stabilito dal tribunale.
Accuse, dispetti, ripicche...
Abbastanza spesso, si suppone, considerando che Ilary sarà spesso a Milano per l’Isola dei Famosi per i prossimi tre mesi. Si chiude così la prima puntata del divorzio più mediatico degli ultimi tempi. Il rapporto tra i due Grandi Ex negli ultimi mesi è stato sempre più difficile. Con accuse, dispetti e ripicche a distanza. Come è successo lunedì sera, al debutto dell’Isola dei Famosi. La doppia frecciata di Ilary Blasi a Francesco Totti ha punto sì il destinatario, ma non più di tanto.
Le ironie di Ilary Blasi in tv
La conduttrice del reality dei naufraghi, aprendo la prima puntata su Canale 5 (di lunedì 17 aprile, edizione numero 17, con 17 concorrenti, cabala non ti temo), al primo minuto aveva ironizzato così: «Dall’anno scorso le cose sono cambiate, non c’è più un uomo accanto a me». Pausa strategica (in cui tutti naturalmente hanno pensato al Capitano romanista). Dopo di che la precisazione: «Sto parlando di Nicola Savino». E infine la chiusa: «Per uno che va, c’è sempre uno che arriva…». Ovvero Enrico Papi, il nuovo opinionista.
Francesco Totti non raccoglie la provocazione
Ma era inevitabile pensare all’alternanza, nella sua vita, tra l’ex marito Francesco e il nuovo compagno Bastian Muller, imprenditore tedesco, evocato anche alla fine dell’intervista a Verissimo di domenica 16 (“Ora Bastian così”). L’ironia di Ilary - una delle sue armi migliori nella vita e nel lavoro, ha diviso i social (chi apprezza, chi no) - ovviamente ha centrato il bersaglio. Non si sa se Totti stesse guardando la tv o se glielo abbiano riferito in tempo reale. Però non ha gradito, tantomeno riso. Si è dispiaciuto, certo, per quella che considera l’ennesima mancanza di tatto e di rispetto. Però non ha raccolto la provocazione – non la prima né l’ultima - se la lascia scivolare addosso.
In sospeso la causa su borsette e Rolex
Convinto, pare, che sia soltanto una mossa per fare parlare del programma. E nonostante glielo abbiamo chiesto in tanti, ha deciso di non rispondere. Nemmeno con una battuta. Preferisce ignorare e fare finta di niente. Quanto alla vicenda dei Rolex di Francesco (il Capitano sostiene ed è pronto a provare che la collezione è sua e non un regalo per Ilary, che li ha presi dalla banca a sua insaputa e messi in un’altra cassetta di sicurezza) e delle borse e scarpe della showgirl (ritrovate quasi tutte in un ripostiglio della villa), anche qui il giudice Francesco Frettoni è tuttora in riserva. Sta valutando se sentire dei testimoni e quanti (la lista arriverebbe almeno a 24, più del cast di un reality) o se gli basta aver studiato la documentazione, corposa anche questa (solo la memoria difensiva di Totti conta 120 pagine). Probabile stesse aspettando le valutazioni della collega Rossi sulla causa principale. Idem per la disputa della Longarina. Come dice Ilary all’Isola: «Il meglio deve ancora venire». O il peggio, fate voi.
DAGOREPORT il 18 aprile 2023
L’autogol del Pupone. Se Totti avesse chiuso sei mesi fa l’accordo consensuale proposto dal suo avvocato di allora, Annamaria Bernardini De Pace, e accettato dal legale di Ilary, Alessandro Simeone, oggi sarebbe già pronto per firmare il divorzio.
Non solo. Come raccontano le amiche di Noemi, l’accordo Bernardini-Simeone era economicamente più vantaggioso per il portafogli dell’ex capitano giallorosso. Ma l’accanita Noemi lo bocciò perché lo riteneva troppo esoso (insisteva per 6 mila euro: 2 mila a figlio). A quel punto, dall’alto del suo magistero di scafata matrimonialista, la Bernardini girò i tacchi.
Le voci che circolarono sei mesi fa, al momento della rottura con l’avvocatessa, erano queste: Totti sborsava a Ilary 12 mila euro al mese (4mila per ogni figlio) e sulle spese straordinarie dei tre pargoli (rate scolastiche, costi imprevisti, eccetera) da suddividere 70% al padre e 30 alla madre.
Invece, grazie alla vispa Noemi, l’importo che ogni mese Totti dovrà bonificare alla Blasi sarà di 12.500 euro con le spese straordinarie da suddividere in 75% e 25. Non basta: il giudice Benedetta Rossi ha deciso che i versamenti dovranno iniziare non da oggi ma da febbraio scorso, dal giorno che lui lasciò la villa coniugale all’Eur. Più autogol di così…
Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 18 aprile 2023
La villa all’Eur, un assegno da 12.500 euro mensili. E soprattutto la custodia dei figli. Il primo round del divorzio dell’anno va a Ilary Blasi. Francesco Totti quindi, letta la prima sentenza provvisoria formulata dal giudice civile, esce sconfitto dal confronto con l’ex moglie.
Alla conduttrice, come detto, va la casa coniugale. Cristian e Chanel, i figli più grandi, potranno vedere il papà quando vorranno, potendo muoversi autonomamente. Diversa la questione per quanto riguarda la più piccola di casa Totti. Per vedere Isabel, l’ex capitano della Roma dovrà rispettare il calendario dettato dal tribunale.
C’è anche una parte economica: Francesco Totti dovrà versare 12.500 euro al mese a Ilary Blasi per il sostentamento dei figli. Una somma a cui vanno aggiunte le spese scolastiche: l’ex campione giallorosso e della Nazionale dovrà coprirle per una quota pari al 75%.
Così si è espresso il giudice, rigettando di fatto le proposte di Totti: l’ex calciatore chiedeva di tenere per se la casa e di poter tenere i figli per metà dell’anno. Sul fronte economico, il numero 10 aveva offerto prima 0 euro al mese. Poi 6 mila. Che alla fine sono diventati 12.500. E' un primo round anche per i super avvocati coinvolti in questa causa, da un lato Antonio Conte per l'eterna stella della Roma, dall'altro i legali Alessandro Simeone e Pompilia Rossi.
Totti-Blasi, Ilary «vince» la mega villa all’Eur. Ma le costerà 30 mila euro al mese. Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 20 aprile 2023
A carico della conduttrice gran parte delle spese di gestione della casa che include 25 stanze, due piscine, Spa, campi da tennis e da calcio
Voleva tanto la casa di famiglia e l’ha avuta. Perciò Ilary Blasi potrà disporre come più le piace della mega-villa all’Eur a cui aveva già cambiato le serrature. Però dovrà pure pagarne — almeno in parte — gli altissimi costi di gestione e si parla di 30 mila euro al mese, mica spiccioli. Proporzionati a una gigantesca proprietà da 1.500 metri quadri, valore stimato sui 18 milioni, con 25 stanze, campi da tennis e da calcetto, parco, Spa, due piscine, telecamere e sofisticato sistema di sicurezza, dotata persino di un macchinario per la separazione automatica della spazzatura. Un saldo a cui finora provvedeva quasi sempre Francesco Totti (a cui è intestata), che si fa carico anche del mutuo.
L'assegno di mantenimento per i figli
Non sarà più così. Nei 12.500 euro di mantenimento per i figli previsti nei provvedimenti provvisori d’urgenza emessi dal giudice Simona Rossi, della I sezione del tribunale civile — che ha fissato la prossima udienza per il 20 settembre 2023 — per legge sono compresi vitto, abbigliamento, babysitter, carburante e telefonia, ma anche il contributo per le spese domestiche. Quelle straordinarie, invece, sono divise al 50 per cento con l’ex 10 giallorosso che pagherà il 75 per cento di quelle scolastiche. Le ordinarie no.
La super-bolletta del gas da 10 mila euro
E pare che una delle ultime bollette del gas, con i rincari, fosse di 10 mila euro, tanto per capirci. A cui si aggiungono gli altri consumi e gli stipendi di governanti, giardinieri, addetti alla sicurezza. «Adesso se li ritrova tutti lei sul groppone», riassume in romanesco una fonte molto ben informata.
Le richieste di Ilary Blasi
Anche per questo la conduttrice dell’Isola dei Famosi, nel ricorso, aveva chiesto 24 mila euro. E che le spese extra fossero tutte a carico dell’ex marito, per cui si arrivava intorno ai 28-30. Ha ottenuto meno della metà. E appunto la sospirata villa, almeno finché Isabel, 7 anni, non diventerà maggiorenne. Ma proprio i costi elevati potrebbero indurla a ripensarci e a spostarsi altrove. Lasciando la residenza a Totti, che proprio in questo spera.
Totti ora cerca casa all'Eur (con Noemi Bocchi)
Intanto il Capitano sta cercando casa all’Eur. Forse potrebbe tornare nel condominio di lusso in cui abitava prima, allargandosi all’appartamento accanto, visto che ci saranno anche Noemi Bocchi e i suoi due bambini. Di certo lascerà l’attico di Roma Nord per stare vicino ai figli, troppo scomodo fare avanti e indietro nel traffico.
E il giudice ordina a Totti di tenere i figli il lunedì
Il giudice per Cristian (17 e mezzo), Chanel (16 a maggio) e Isabel, ha concesso l’affido congiunto, come chiesto dai genitori, con il collocamento presso la madre. E un calendario di visite, weekend e vacanze solo per la più piccola, a cui Totti si dovrà attenere. Si comincia subito. Da ora e fino al 23 giugno, ogni lunedì, così ha disposto il giudice Rossi, il padre dovrà tenersi a disposizione e prendersi cura dei ragazzi, visto che Ilary Blasi sarà a Milano, impegnata con il reality.
Il caso dei Rolex e della borsette
Dopo questa prima manche della causa di separazione giudiziale, è molto probabile che seguano, a cascata, anche le due dispute accessorie: quella su borsette e Rolex e quella sul circolo sportivo della Longarina. I rispettivi avvocati — Antonio Conte e Laura Matteucci per lui e Alessandro Simeone e Pompilia Rossi per lei — sono allertati.
La famiglia Blasi sfrattata dal centro sportivo di Totti
Nel caso degli accessori griffati (ritrovati nei ripostigli della villa) e della collezione di orologi svizzeri di Francesco (che Ilary ha prelevato dalla banca e spostato in un’altra cassetta di sicurezza a lei intestata) il giudice Francesco Frettoni sarebbe sul punto di prendere una decisione : sentire o meno i testimoni. O procedere in base alla documentazione. Così come la questione del centro sportivo alla Longarina, creato e finanziato da Totti e negli anni poi passato in gestione parziale alla famiglia Blasi, che non ha ancora mollato la presa. A quel punto l’eterno 10 giallorosso ha intimato loro lo sfratto.
Da leggo.it il 6 gennaio 2023.
Bikini maculato e posa sexy. Chanel Totti si mostra nel suo splendore, a soli 15 anni, e i follower non restano indifferenti. In vacanza con tutta la famiglia, ma al posto di mamma Ilary Blasi c'è Noemi Bocchi, Chanel si sta godendo la crociera in America. Stavolta la tappa è alle Bahamas, come rivela la secondogenita dell'ex capitano della Roma che pubblica stories Instagram mostrando le belle spiagge e gli animali marini che sta ammirando. Ma il post che ha pubblicato sul suo profilo ha suscitato scalpore per la posa hot e il fisico in bella vista. «Ma perchè crescere così in fretta» si legge, «sei troppo piccola per fare questo tipo di pose» e così via.
«E questa ha solo 15 anni.....» scrive un altro hater, «Quando Onlyfans?» si legge ancora. Sono tantissimi i commenti al veleno rivolti a Chanel, e si contano quelli più morbidi, tra cui: «Bellissima», «Non li ascoltare», «Il gol più bello di Totti».
La chiacchierata Chanel
Poche ore fa, Francesco Totti ha voluto condividere una foto con i suoi tre figli durante la vacanza che sta facendo insieme a Noemi Bocchi. La foto, postata nelle stories, deve essere stata scattata proprio dalla compagna del Pupone e per quello che è successo dopo sembra che la seconodogenita Chanel abbia deciso di prendere le parti della mamma Ilary Blasi. Lo scatto infatti è stato condiviso sui social da Christian ma non da Chanel. C'è chi ha interpretato questo gesto come un segno di solidarietà verso la mamma, visto che, è molto probabile che quella foto sia stata scattata dalla donna per la quale il padre avrebbe lasciato Ilary.
Il relax
Intanto però Chanel si sta godendo le vacanze con la sua famiglia, lontano dalla madre che nel frattempo è volata Thailandia con il suo nuovo compagno di cui però continua non mostrare il volto nelle sue pagine social. Scegliendo di non condividere lo scatto Chanel sembra aver voluto indirettamente mandare un messaggio alla madre, che si sarebbe potuta infastidire per quell'immagine. Non è un segreto infatti che tra mamma e figlia ci sia un rapporto molto speciale.
Da leggo.it il 9 gennaio 2023.
Francesco Totti e Noemi Bocchi sono da poco tornati da una lunga vacanza insieme ai figli di lui, ma continuano ad essere al centro del gossip e delle polemiche. Dopo le accuse dell’ex marito di Noemi, Mario Caucci, spuntano nuove ombre sulla 34enne compagna del campione della Roma. Una persona vicina alla Bocchi, che pare la conosca da diverso tempo, ha messo Francesco sull'allerta.
«Noemi pur di ottenere ciò che vuole non guarda in faccia a nessuno, è cinica e non si fa troppi scrupoli», ha raccontato questa fonte anonima al settimanale Nuovo, «Ha obiettivi precisi, con l’ex ha sempre fatto la bella vita». Accuse molto simili a quelle fatte da Caucci. Ancora una volta Noemi viene descritta come una donna molto ambiziosa, a tratti opportunista, che avrebbe come unico interesse il vivere nel lusso.
Le continue accuse non sembrano scalfire però la nuova compagna di Totti che ha solo replicato alla lunga intervista dell'ex con una storia su Instagram in cui, con una musica da circo, ha scritto: «Grazie per questi 10 anni unici». Una frecciatina con cui ha voluto rispondere a Caucci con cui è in causa per maltrattamenti. Di pareri divergenti sembra essere invece Totti, che ha sempre speso belle parole per la Bocchi, così come il suo amico Nuccetelli e Tommaso Eletti, l’ex star di Temptation Island che frequentava la Bocchi con la stessa comitiva.
Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 15 Gennaio 2023.
Nel circuito di Francesco Totti le auto devono essere proprio una passione. E non mancano le sorprese. La nostra storia riparte da D.M., l'amico poliziotto che tra luglio e ottobre 2016 ha ricevuto dal Pupone due bonifici per complessivi 160.000 euro come «prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi». Soldi che in realtà non sono mai stati ridati all'ex capitano della Roma.
Come gli ulteriori 80.000 euro inviati, nel novembre 2021, alla suocera dello stesso D.M.: un trasferimento «disposto da Francesco Totti con causale prestito infruttifero» e segnalato nell'agosto scorso all'Antiriciclaggio poiché i risk manager non conoscevano «i legami tra le parti». Ma D.M. ci ha spiegato di non aver avuto bisogno di quel denaro e che quei soldi non sarebbero usciti dal suo conto.
Nella segnalazione è indicato anche un bonifico estero da 27.000 euro per l'acquisto del telaio di un'auto da una ditta individuale italiana con conto in Belgio. Il titolare dell'azienda, secondo la banca dati della Camera di commercio, sarebbe gravato da protesti e pignoramento immobiliare.
L'auto sarebbe una Porsche acquistata all'estero per essere immatricolata (nazionalizzata) in Italia. Si tratterebbe di una Porsche Cayenne S. Questo tipo di operazioni vengono controllate con particolare attenzione per evitare l'evasione dell'Iva. Certamente dietro all'acquisto di macchine fuori dall'Italia esiste un ricco mercato. Nei giorni scorsi avevamo scritto che D.M. nell'aprile 2021 aveva acquistato una Porsche Cayenne, probabilmente pure questa di importazione, che è stata rivenduta nell'ottobre scorso. Non è chiaro se sia la stessa al centro del bonifico attenzionato dalla banca.
Prima di disfarsi della Porsche, a fine settembre, il poliziotto aveva, però, messo in garage una Audi di grossa cilindrata seppur usata. Con noi D.M. aveva un po' balbettato a proposito della sua passione per le auto sportive: «La Cayenne? Vabbè, ma io quella ce l'ho. No, non ce l'ho, l'ho venduta ce l'ho, ma mica è per Francesco che l'ho venduta».
Nei mesi scorsi D.M. è stato avvistato anche su una Lamborghini Urus. E pure in questo caso il poliziotto ha barcollato: «È di Francescooo» ha esclamato inizialmente.
Salvo poi fare un rapido dietrofront: «So' macchine praticamente sono delle persone che noleggiano è un noleggio, degli amici nostri hanno un noleggio e ogni tanto così». Ma adesso scopriamo che D.M. tra il 2020 e il 2021 aveva acquistato altre due Porsche successivamente cedute.
Dunque un poliziotto con uno stipendio di poco superiore ai 2.000 euro al mese che vive in una bella villetta ad Anzio compra e vende bolidi da diverse decine di migliaia di euro. Nel maggio del 2019 aveva acquistato una Porsche che ha rivenduto nel giugno del 2020 a un autosalone con sede nella zona di Tor Vergata. Nel gennaio 2022 l'auto è stata esportata all'estero o rubata.
Nel febbraio 2020, prima di cedere la prima Porsche, D.M. ne avrebbe comprata una seconda, rivenduta a un altro commerciante di autovetture nell'aprile del 2021, quando arriva il terzo esemplare della marca tedesca. Dai dati del Pubblico registro automobilistico risulta che dalla costruzione all'immatricolazione in Italia per queste fuoriserie è trascorso sempre un po' di tempo, il che lascia immaginare che possano essere tutte auto di importazione. L'ultima cessione è stata fatta a un salone a due passi dalla stazione Prenestina, Motocash.
Socio e amministratore unico è Massimo Torcolacci, che da questo mese controlla e amministra anche la Automotocash Srl. All'indirizzo dell'autosalone, specializzato anche nella compravendita di moto usate aveva la sede la Moto Incontro, di cui Torcolacci deteneva una quota del 33%. La vecchia società ha chiuso i battenti nel 2020. Ad accogliere i clienti nei giorni scorsi c'erano il titolare e un giovanotto che potrebbe essere l'amministratore unico. A ottobre avevano acquisito la Porsche di D.M. con il cosiddetto minipassaggio che costa circa 100 euro, poi, il 5 dicembre, è stato fato il passaggio ufficiale e la macchina è rimasta intestata all'autosalone.
Torcolacci nel 2016 era stato segnalato all'autorità giudiziaria dal compartimento Polstrada di Roma per riciclaggio di autovetture e nel 2015 dai carabinieri di Vico Equense per truffa. Ma l'imprenditore contattato dalla Verità replica: «La querela di Vico Equense è stata archiviata. Si trattava di una donna che aveva comprato una moto, dopo due anni le avremmo restituito la cifra che aveva pagato, ma lei voleva 5.000 euro di risarcimento. Ci stava facendo una sorta di estorsione e noi abbiamo denunciato lei».
Nel procedimento per riciclaggio era accusato insieme ad altre due persone di aver tentato di «nazionalizzare» due veicoli di presunta provenienza illecita, noleggiati con falsa documentazione in Spagna. «Sono andato al processo come testimone perché la mia posizione è stata archiviata immediatamente» puntualizza anche in questo caso Torcolacci. «In 25 anni di questo tipo di lavoro può capitare qualsiasi genere di inconveniente» conclude l'uomo.
Una delle auto disponibili a noleggio della Motocash, una Ferrari Gtc4 gialla compare in molte delle foto scattate (sembra anche dalle forze dell'ordine) al funerale di Nicholas B., il giovane di origine rom che nel luglio scorso si è schiantato sul Gra a 294 chilometri orari con un'Audi R8 presa a noleggio (apparentemente da un'altra società), mentre l'altro passeggero stava girando un video probabilmente destinato alla pubblicazione su Tiktok. Su questo social anche dopo il funerale si trovavano i video con le folli corse del giovane.
La famiglia del ragazzo sarebbe già nota alle forze dell'ordine perché coinvolta nello spaccio di cocaina e hashish nel quadrante sud di Roma e sarebbe legata ad alcune cosche della 'ndrangheta. Una circostanza smentita, però, dai legali dei genitori della vittima. «Molti dei noleggiatori, non le dico quasi tutti i noleggiatori di auto di grossa cilindrata per i funerali di quel ragazzo hanno fornito una o più macchine in forma di rispetto.
Poi magari sono state usate in modo un pochino esagerato, però» ci spiega Torcolacci a proposito della sfilata. Anche sul profilo Instagram di un altro personaggio controverso si trova traccia di una delle auto che la Motocash ha pubblicizzato attraverso i suoi profili social. È una Mercedes G63 Amg nero opaco, immortalata in una delle storie che Danilo V., il ventenne rapito (e poi rilasciato il giorno successivo) in un locale di Ponte Milvio, aveva pubblicato sul suo profilo Instagram poi disattivato. Danilo V. è il figlio di Maurizio, conosciuto come «il sorcio» uno dei boss dello spaccio di San Basilio, già oggetto di una gambizzazione qualche mese fa. Probabilmente per una coincidenza, Chanel Totti è andata nello stesso locale di Ponte Milvio proprio la sera del rapimento di Danilo. Dopo che questa circostanza è diventata di pubblico dominio i due ragazzi sono diventati follower l'uno dell'altra, salvo poi ripensarci.
Giacomo Amadori per la Verità il 7 gennaio 2023.
A Ilary Blasi alcuni articoli pubblicati dai media dopo lo scoop della Verità sulle segnalazioni dell'Antiriciclaggio sul suo ex compagno Francesco Totti non sono proprio piaciuti. In particolare le indiscrezioni in base alle quali «l'entourage di Totti» sospetterebbe che dietro alla nostra esclusiva e al relativo «nuovo scandalo» ci possa essere «lo zampino» della Blasi.
Che avrebbe rifornito di notizie tanto succose un giornale con cui non ha mai avuto rapporti e che per la prima volta si è occupato delle presunte disavventure extracalcistiche dell'ex capitano della Roma.
E così l'avvocato milanese Alessandro Simeone, legale della showgirl, ha precisato con le agenzie che «la propria assistita nulla sapeva dei movimenti di denaro da e per l'estero evidenziati nell'inchiesta del quotidiano La Verità e segnalati come sospetti dagli organi competenti. È dunque impossibile che le notizie siano state fatte trapelare dalla signora Blasi, come malignamente ipotizzato nel tentativo maldestro di coinvolgerla in eventi a cui è estranea. D'altra parte, i conti oggetto di segnalazione erano di pertinenza esclusiva del signor Totti e la moglie, con la fiducia che contraddistingue ogni solido rapporto matrimoniale, non ha mai effettuato su di essi alcun tipo di controllo».
La Blasi è ritornata nelle scorse ore in Italia dopo aver trascorso il Capodanno in Thailandia.
Ieri un quotidiano sportivo si è sostituito all'ufficio stampa del Pupone e ha pubblicato un idilliaco articoletto di risposta alla nostra inchiesta. E ha scelto un titolo furbetto e acchiappa lettori: «Totti e il gioco d'azzardo, ecco la risposta del Capitano dal Messico». Risposta che in realtà non c'è. Ecco il seguito del «comunicato»: «Mentre continuano le indiscrezioni sull'indagine che lo riguarda, Francesco pubblica una foto al tramonto con i tre figli: "L'amore della mia vita"». L'ultima frase è una citazione della canzone di Arisa che fa da sottofondo al post.
Il testo prosegue: «Se la vacanza caraibica gli sia stata, davvero, rovinata, forse lo sa solo lui. Ma Francesco Totti, per il primo vero viaggio con i figli da papà separato, sta cercando comunque di mantenere il sorriso, dall'altra parte del mondo, per i suoi ragazzi. Ma di certo le notizie uscite ieri non gli hanno fatto piacere, per usare un eufemismo, perché hanno rappresentato l'ennesima bufera mediatica nei suoi confronti. Una bufera a cui, per ora, lo storico capitano della Roma non ha replicato ufficialmente: forse lo farà nei prossimi giorni, quando rientrerà in Italia, e intanto valuta il da farsi, anche dal punto di vista legale per tutelare la sua immagine. Nel frattempo, però, Totti sceglie di far parlare immagini e musica».
In attesa delle spiegazioni «ufficiali» di Totti sulle operazioni finanziarie attenzionate dall'Antiriciclaggio, noi abbiamo deciso di portare avanti le nostre ricerche.
Da un conto su cui venivano versati gli stipendi dell'ex fuoriclasse, tra il maggio 2017 e il maggio 2018 è stata rilevata come critica l'emissione di cinque assegni bancari per 1,5 milioni di euro, tutti a favore della società che controlla il casinò di Monte Carlo. Sotto osservazione anche due bonifici datati luglio e ottobre 2016 disposti a favore di D.M. per totali 160.000 euro con causali «prestito in amicizia con vincolo di restituzione entro 24 mesi». Soldi che in realtà non sono mai stati ridati al Pupone. Come gli ulteriori 80.000 euro inviati, nel novembre 2021, alla suocera dello stesso D.M.: un trasferimento «disposto da Francesco Totti con causale prestito infruttifero» e segnalato nell'agosto scorso all'Antiriciclaggio poiché i risk manager non conoscevano «i legami tra le parti».
Con noi il beneficiario dei finanziamenti ha negato di averne avuto davvero bisogno, ma ha anche escluso che quei soldi possano essere serviti per effettuare scommesse al posto di Totti attraverso alcune ricevitorie dei Castelli romani specializzate in scommesse sportive, poker e casinò online. Come abbiamo scritto ieri l'ex campione del mondo, essendo iscritto dal 23 marzo 2021 al registro federale degli agenti sportivi, non potrebbe in alcun modo puntare sul calcio e l'amico, lo ribadiamo, ci ha assicurato che questo non è accaduto.
L'amico D.M., che nel 2022 ha incassato circa 87.000 euro di vincite sul proprio conto (20.000 sono arrivati anche su quello del suocero) e che sostiene di poter contare su 10.000 euro di entrate al mese grazie a stipendi e pensioni, lo scorso autunno ha venduto la Porsche cayenne acquistata nuova nell'aprile 2021. L'uomo non ci ha voluto spiegare se il motivo della cessione sia legata alla passione per il gioco, «vizio» che, però, aveva già smentito che avesse causato danni alle sue casse famigliari. L'autosalone sulla Prenestina che è diventato proprietario del bolide e che promette di comprare quattro ruote e motocicli «in contanti» ieri era chiuso.
Ma sul profilo Facebook della società si può ammirare una foto risalente al gennaio del 2021 in cui i presunti titolari si sono fatti immortalare al fianco di uno degli ex calciatori della Roma più legato a Francesco, Vincent Candela. Dietro a loro campeggia proprio una maglia di Totti, il 20 della Nazionale, in versione opera d'arte. Per D.M. si tratta di un salone di amici. Lo stesso che noleggia la Lamborghini urus con cui D.M. è stato visto in giro. L'auto fa bella mostra di sé anche sul sito insieme a Ferrari, Maserati e Porsche.
Resta aperta la questione della grande quantità di denaro contante (centinaia di migliaia di euro) ritirato allo sportello da Totti e dal fratello Riccardo negli anni, prelievi attenzionati dai risk manager della loro banca. Infine non è ancora chiaro chi abbia ceduto e perché a un gioielliere di Monte Carlo, città molto amata dal Pupone per via del casinò, i due Rolex griffati Totti (uno sarebbe un regalo di Natale dell'ex presidente della Roma James Pallotta) rivenduti per circa 30.000 euro nell'estate del 2020.
Dagonews il 29 Dicembre 2022.
Chi è stato a fare la prima foto della love story tra Totti e Noemi Bocchi? L’eroe del Dago-scoop è Ferdinando Mezzelani che racconta come è nato lo scatto che ha aperto "il romanzo delle corna" tra il "Pupone" e la Blasi finito anche sul "New York Times".
“Quella foto l’ho fatta per caso”.
Correva il 4 dicembre 2021, all'Olimpico la Roma affronta l’Inter. Era la serata in cui l’ex Capitano giallorosso tornava allo stadio a vedere la Roma dopo 2 anni. Il fotografo Mezzelani è nella sua solita postazione, in attesa dei vip della tribuna d’onore.
“Ho visto questa bella donna che assomigliava a Ilary e ho iniziato a scattare. Clic! Quando Dago, a febbraio, mi ha chiamato per dirmi se avevo mai visto Noemi, mi sono messo a cercare in archivio.
Quando ho ritrovato quei vecchi fotogrammi, ho fatto un salto sulla sedia. Era lei. La fortuna è che non butto mai niente. Ho lavorato 20 anni in cronaca e la storia mi ha insegnato che in tribuna d’onore all’Olimpico passa il mondo. C’è di tutto, dal futuro capo dei servizi all’assessore che finisce indagato. E magari lo scopri, come nel caso di Noemi, dopo qualche mese”.
A quella foto ne sono seguite altre, sempre all’Olimpico. “Noemi arriva sempre 5 minuti prima dell’inizio della partita”, spiega Mezzelani. “Non ho mai capito per quale motivo dovesse andare in settima fila, dove la partita, tra l’altro, si vede malissimo. Ma tanto a lei quel che accade in campo interessa poco, passa il suo tempo incollata al telefonino…”.
Il fotografo spiega anche di non essersi meravigliato più di tanto per il fatto che nessun giornale gli abbia mai chiesto foto di Noemi. “Erano tutti terrorizzati”.
Totti ha goduto di coperture da parte della stampa italiana. “A Tirana metà dei giornalisti presenti ha visto lui e Noemi giocare insieme al casinò ma si sono ben guardati dal pubblicare le foto o scrivere qualcosa in merito”. Timore reverenziale nei confronti del “Pupone”. Del resto per anni si è detto che a Roma di Francesco ce ne è solo uno e non fa il Papa…
Da “tag24.it” il 27 dicembre 2022.
Danilo Valeri e Chanel Totti. A poche ore dal suo rilascio, dopo essere stato sequestrato, il 20enne Danilo Valeri è ritornato alla sua vita di tutti giorni e ha deciso di festeggiare riprendendosi in un video in cui viaggia a 200 km all’ora sul Grande Raccordo Anulare.
Nello stesso ristorante dove Valeri fu rapito, insieme ad altre cento persone, c’era anche Chanel Totti, la figlia dell’ex capitano della Roma. La giovane aveva postato sul suo profilo Instagram una foto della serata. Anche lei segue sui social Valeri e ha seguito il ragazzo su Instagram dopo la storia a bordo della Mercedes che sfrecciava sul Gra ben oltre i limiti di velocità…
Il 20enne di San Basilio è stato rapito la notte del 22 dicembre dal ristorante Moku a Ponte Milvio e tenuto in ostaggio per circa 12 ore prima di essere rilasciato. La principale ipotesi investigativa, per ora, ruota attorno ai precedenti del padre, Maurizio Valeri detto il “sorcio”, che nel maggio scorso venne gambizzato nell’ambito di una faida per il controllo dello spaccio nel quartiere San Basilio. Il 20enne sarà riconvocato dagli inquirenti e se non dovesse aiutare le indagini, rischierebbe il favoreggiamento.
Totti: «Ilary? Non ho tradito io per primo. Ho trovato i messaggi sul suo telefono, è stato uno choc». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.
Francesco Totti racconta la rottura con Ilary: «Con Noemi stiamo insieme da dopo Capodanno. La crisi? Tutto è iniziato nel 2016, il mio penultimo anno da calciatore. E c’era una terza persona che faceva da tramite tra Ilary e l’altro». L’intervista esclusiva
Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2022, quella di Aldo Cazzullo a Francesco Totti, uscita sul Corriere del 12 settembre.
Francesco Totti, sa qual è l’argomento più cliccato e dibattuto in Rete nel 2022, più del Covid, della guerra, della regina…
«Si fermi. Questa storia per me non è gossip. Questa storia per me è carne e sangue. C’è di mezzo la mia vita. Ci sono di mezzo tre persone che amo più di me stesso: i miei figli, che voglio proteggere in ogni modo. E c’è un amore durato vent’anni. Tutto mi sarei aspettato, tranne che finisse così».
Resta il fatto che ne parlano tutti.
«Tutti, tranne me. Non ho ancora detto una parola. Avevo detto che non avrei parlato e non l’ho fatto. Ma ho letto troppe sciocchezze, troppe bufale. Alcune hanno anche fatto soffrire i miei figli. Ora basta».
Quali sciocchezze?
«Molte, in particolare una: che il colpevole della rottura sarei soltanto io. Che il matrimonio sarebbe finito per colpa del mio tradimento.
Non è così?
«Questo punto voglio chiarirlo: non sono stato io a tradire per primo. Poi tornerò a tacere. Qualunque cosa mi sarà replicata, starò zitto. Perché la mia priorità è tutelare i miei figli».
Lei e Ilary siete l’argomento dell’anno perché eravate bellissimi. Pareva una fiaba: il calciatore più amato, la star della tv.
«Le fiabe non esistono. Abbiamo avuto alti e bassi, come ogni coppia. Poi qualcosa si è rotto».
Quando?
«La crisi vera è esplosa tra marzo e aprile dell’anno scorso. Ma io soffrivo da tempo».
Perché?
«Tutto è iniziato nel 2016. Il mio penultimo anno da calciatore. Smettere non è facile. È un po’ come morire».
Lei aveva più di quarant’anni.
«Sì, ma giocavo in serie A da quando ne avevo sedici. E certe cose ti mancano. L’adrenalina, la fatica. L’ho anche detto, nel discorso di addio allo stadio: “ho paura, statemi vicino”. E i romanisti non mi hanno mai lasciato solo».
Lei in campo dava di sé un’immagine spavalda, quasi strafottente. «Mo je faccio er cucchiaio».
«Perché sapevo, in quella semifinale dell’Europeo, che il portiere dell’Olanda si sarebbe buttato a destra o a sinistra, e se facevo il pallonetto avrei segnato. Ma quel che mi aspettava dopo il ritiro, io non lo sapevo. E comunque il rigore che ricordo con più soddisfazione è quello ai Mondiali con l’Australia».
C’ero. Kaiserslautern, 26 giugno 2006. Ultimo minuto. Eravamo 10 contro 11, se lei avesse sbagliato non avremmo vinto la Coppa.
«C’era pure Ilary. Io segnai e inquadrarono lei, in mondovisione. Fu l’unica partita che venne a vedere in Germania, prima della finale».
Lei Totti mise in bocca il pollice, come un bambino.
«Come Cristian, il nostro primogenito. Aveva otto mesi. Ci tenevo: per la mia famiglia, per l’Italia, e per Lippi. Quando mi spezzarono la gamba, al risveglio dall’anestesia l’avevo trovato in clinica. Era venuto a dirmi: Francesco, ti aspetto e ti porto ai Mondiali».
Quando lei litigava con un altro allenatore, Spalletti, Ilary intervenne in sua difesa, lo definì «piccolo uomo».
«Fece tutto da sola. Voleva proteggermi, ebbe una reazione quasi materna. Di pallone non ha mai capito molto».
Lei lasciò il calcio.
«E dopo lasciai anche la Roma, dove avevo cominciato a lavorare come dirigente. La rottura con la vecchia proprietà fu traumatica: come dover abbandonare la propria casa. Ero fragile, mi mancavano i riferimenti, e Ilary non ha capito l’importanza di questo dolore. Poi è arrivato il 12 ottobre 2020».
Cos’è successo il 12 ottobre?
«È morto papà mio. Di Covid. E io l’ho visto l’ultima volta il 26 agosto. Sapevo che stava male, e non potevo fargli visita. Papà mio per me c’era sempre, non perdeva una trasferta. A me non faceva mai un complimento, ma con gli altri era fierissimo: Francesco è il numero uno, diceva. Poi ho preso il Covid pure io, in forma violenta: 25 giorni chiuso in casa, stavo per finire in ospedale. Insomma, per me è stato un periodo tremendo. Per fortuna c’erano i figli. Finalmente ho potuto stare più tempo con Cristian, Chanel e Isabel. Mia moglie invece, quando avevo più bisogno di lei, non c’è stata. Nella primavera del 2021 siamo andati in crisi definitivamente. L’ultimo anno è stato duro. Non c’era più dialogo, non c’era più niente».
E lei, Totti, non ha commesso errori?
«Certo. Quando si rompe, si rompe in due: 50 e 50. Avrei dovuto stare di più con lei, da solo. Invece nel week end organizzavo con gli amici. C’era anche Ilary; ma avrei dovuto portarla a cena, dedicarle più attenzioni».
Lei, Totti, aveva una storia con Noemi Bocchi.
«Non è così».
Dagospia ha pubblicato una foto in cui il 4 dicembre 2021 siete seduti poco distanti allo stadio.
«Noemi non era allo stadio con me. Siamo arrivati con auto diverse, avevamo posti diversi. Le pare che mi porto l’amante all’Olimpico? Un ambiente più intimo no? Comunque è vero che la conoscevo già. E la frequentavo come amica, con gli amici del padel. La nostra storia è iniziata dopo Capodanno. E si è consolidata nel marzo 2022. Ripeto: non sono stato io a tradire per primo».
Che cos’è successo?
«A settembre dell’anno scorso sono cominciate ad arrivarmi le voci: guarda che Ilary ha un altro. Anzi, più di uno».
E lei ci ha creduto?
«Mi pareva impossibile. Invece ho trovato i messaggi».
Lei spiava il telefonino di sua moglie?
«Non l’avevo mai fatto in vent’anni, né lei l’aveva mai fatto con me. Però quando mi sono arrivati avvertimenti da persone diverse, di cui mi fido, mi sono insospettito. Le ho guardato il cellulare. E ho visto che c’era una terza persona, che faceva da tramite tra Ilary e un altro».
Quando è successo?
«Me ne sono accorto in autunno, ma i messaggi erano di prima».
Chi era la terza persona?
«Alessia, la parrucchiera di Ilary, la sua amica».
E l’altro?
«Non mi faccia dire il nome. È una persona totalmente diversa da me, che appartiene a un mondo lontanissimo dal mio, e per fortuna. È stato uno choc. Non solo che Ilary avesse un altro; ma che potesse avere interesse per un uomo del genere. Eppure l’ha avuto».
Cosa dicevano i messaggi?
«Qualcosa tipo: vediamoci in hotel; no, è più prudente da me».
E lei come ha reagito?
«Mi sono tenuto tutto dentro. Non l’ho detto a nessuno, neppure a Vito Scala, l’amico che è al mio fianco da quando avevo undici anni. Io non sono uno che chiude un occhio, ma ho preferito far finta di niente. Ho mandato giù, per non sfasciare la famiglia, per proteggere i ragazzi. Soffrivo come un cane. Lei mi diceva: quest’anno rimango un po’ di più a Milano, torno meno a Roma, e io pensavo: ci credo, hai quest’altro… Ma speravo ancora che non fosse vero».
Totti, guardi che capita. Tutte le coppie sono esposte a tentazioni; a maggior ragione una coppia come la vostra. Sarà successo a Ilary. Sarà successo anche a lei. Non è che lei somiglia al classico maschio italiano, che si prende le proprie libertà ma si infuria se scopre quelle della moglie?
«Sono girate voci in passato. Su di lei e su di me. Ma erano appunto voci. Qui c’erano le prove. I fatti. E questo mi ha gettato in depressione. Non riuscivo più a dormire. Facevo finta di niente ma non ero più io, ero un’altra persona. Ne sono uscito grazie a Noemi».
Sa cos’hanno pensato tutti? Che Noemi ricorda molto la Ilary di qualche anno fa.
«Io non ci ho pensato proprio. Anzi, Noemi è l’opposto di Ilary, anche come carattere. Ma non mi piace fare paragoni».
Quando è cominciata la vostra relazione?
«Prima ci frequentavamo come amici. Poi, dopo Capodanno, è diventata una storia. Quando il 22 febbraio Dagospia ha pubblicato la foto allo stadio, quella scattata a dicembre, Ilary me ne ha chiesto conto».
E lei?
«Io ho negato. All’inizio non ho detto la verità, né a lei né ai figli; com’era inevitabile che fosse, visto che speravo ancora di salvare tutto. Ma a quel punto mi sono tolto un peso, e ho domandato a Ilary di quest’altro uomo. Anche lei sulle prime ha negato. Diceva di non averlo mai incontrato. Poi ha capito che sapevo, e mi ha raccontato che con quel tipo si erano visti solo per prendere un caffè. Abbiamo avuto un confronto a tre anche con Alessia, ed entrambe hanno negato. In realtà so che si erano conosciuti già nel marzo del 2021. E che lei ha frequentato lui e altri uomini un po’ troppo da vicino. Prima che nascesse la mia storia con Noemi».
Eppure con Ilary ancora poco fa vi siete fatti fotografare al ristorante, come se foste sempre una coppia. Avete provato a ricostruire il matrimonio?
«Un po’ ci abbiamo provato, ma non fino in fondo. Nessuno ha voluto tentare qualcosa di più. Diciamo che non è stato un grande tentativo. Io sapevo quel che aveva fatto lei, anche se non ho detto niente per non danneggiare la sua immagine, tanto più mentre stava facendo l’Isola dei Famosi. E lei probabilmente si era stufata. Perché in realtà il matrimonio era finito».
E avete annunciato la rottura. Con due comunicati separati.
«Avrei preferito un comunicato solo, firmato da tutte e due, per dire che avevamo provato a superare le difficoltà ma non ci eravamo riusciti. Ilary non ha voluto: perché era andata in tv a negare, ad assicurare che andava tutto bene; e non poteva rimangiarselo. Così ha scritto il suo comunicato, per sostenere che lei aveva fatto qualcosa per salvare il rapporto, e io no».
E siete andati per avvocati. Lei ha affiancato Annamaria Bernardini De Pace a un suo legale storico, Antonio Conte.
«Cercavo un accordo. Non volevo finire in tribunale. Così ho proposto: pensiamo prima ai figli, lasciamo la casa a loro, e noi ci alterniamo, facciamo tre giorni per ciascuno. Non volevo vedere i ragazzi con la valigia in mano, tra l’Eur e Roma Nord. Ma Ilary ha detto no. Allora le ho proposto di dividere la casa, in fondo è grande. Oppure di prenderne una tutta per lei. Niente da fare: in casa vuole restare soltanto lei, e basta. Poi non ci siamo più parlati, perché è partita con la sorella per la Tanzania. Una vacanza pagata da me».
Che sarà mai…
«Non è tutto qui. Con suo padre è andata a svuotare le cassette di sicurezza, e mi ha portato via la mia collezione di orologi. Non ha lasciato neanche le garanzie, neanche le scatole».
Gli orologi?
«Ci sono alcuni Rolex di grande valore. Sostiene che glieli ho regalati; ma se sono orologi da uomo… Mi rifiuto di pensare che sia questione di soldi. Semmai, è un dispetto».
E lei cos’ha fatto?
«E che dovevo fare? Le ho nascosto le borse, sperando in uno scambio… (Totti sorride) Ma non c’è stato verso. E non è finita».
Cosa c’è ancora?
«Mi ha fatto seguire da un investigatore privato. Persone a lei vicinissime mi hanno messo le cimici in macchina, e il gps per sapere dove andavo; quando bastava che me lo chiedesse. Altre persone si sono appostate sotto la casa di Noemi…».
In effetti «Chi» ha pubblicato la sua foto sotto la casa di Noemi.
«E dov’è lo scandalo? Ormai tutti sanno della nostra storia. Cerco di viverla con discrezione, sempre per non turbare i ragazzi».
Come sono i ragazzi?
«Li adoro, e mi adorano. Il mese scorso me li sono portati tutti e tre a Sabaudia. Cristian gioca a calcio: mezz’ala. Ha una grande passione, faceva su e giù tutti i giorni con Roma per allenarsi. Con le femmine mi sciolgo. Chanel ormai è un’adolescente, non è un’età facile, non voglio che soffra. Un po’ erano già abituati fin da piccoli a vedere mamma e papà uno per volta: eravamo entrambi molto impegnati con il lavoro, e i calciatori non hanno il week end libero... Isabel è ancora piccola, ma mi sa che ormai ha capito tutto. Anche perché a un certo punto lei me l’ha portata via».
Cos’è successo?
«L’accordo era: luglio con la madre, agosto con me. Poi Ilary si è preoccupata che Isabel sentisse la sua mancanza, ma io la tranquillizzavo: Isabel stava benissimo, e poi facevamo le videochiamate tutti i giorni. Invece lei è arrivata a Sabaudia e se l’è portata in barca in Croazia».
Sua madre Fiorella cosa dice?
«Nulla. Soffre in silenzio».
È vero che era contraria al suo matrimonio?
«Sciocchezze. Mamma ha sempre rispettato le mie decisioni. Al massimo, può aver provato la normale gelosia della mamma romana per il figlio maschio; che se le porti come nuora la Madonna, non le va bene manco lei…».
E adesso cosa succede?
«Non lo so. Temo che con Ilary finirà in tribunale. Spero ancora che si possa trovare un accordo e chiudere qui questa storia. Di sicuro, io adesso mi taccio. Non so se si è capito, ma questo pomeriggio mi è costato sei mesi di vita. Avrei preferito mille volte darle un’intervista per parlare di calcio e della Roma, che porto sempre nel cuore».
Elena Anna, Ilona Staller: Cicciolina.
Estratto da indiscreto.info venerdì 8 dicembre 2023.
Fra le mille vite di Ilona Staller la meno conosciuta è quella di cantante anche se negli anni Settanta ci ha provato seriamente, tentando di salire sull’affollato treno della disco music. Più avanti avrebbe poi puntato su canzoni di culto, legate alla sua attività cinematografica, ma comunque l’artista ungherese naturalizzata italiana è stata per almeno due decenni uno dei personaggi più noti nel nostro paese e i suoi dischi oggi sono fra i più richiesti dai collezionisti. […]
Dopo le prime canzoni incise ai tempi di Radio Luna (Voulez vous coucher avec moi la più famosa, richiamando il titolo dalla trasmissione in cui è nato il personaggio di Cicciolina) e alcuni tentativi oltre la follia (fra cui il duetto con Franco Franchi in Cappuccetto rosso, che tentano di portare a Sanremo), la Staller con autori (anche Morricone) e produttori di primo piano prova nel 1979 la strada della disco con un album targato RCA, intitolato Ilona Staller, con il pezzo più riuscito che è I was made for dancing, cover della canzone di Leif Garrett.
[…]. Nel 1987, da neoeletta deputata del Partito Radicale, in veste di Cicciolina incide il suo secondo album, che prende il nome dalla sua canzone più famosa, Muscolo Rosso, il cui testo non troppo criptico (“Voglio il cazzo vestito di pelle – Il cazzo, piu duro del muro – Il cazzo nel buco del culo – Il cazzo che mi sfonderà, ah – Insieme a me schizzerà”) è senz’altro più ricordato della musica.
Il porno-pop verrà poi abbandonato per un ritorno alla musica da discoteca, questa volte in chiave italodisco, con diversi brani fra cui il trascinante San Francisco dance, del 1989, scritto da Jay Horus, cioè Paolo Rustichelli, e rivisitato in seguito da tanti deejay. Con la fine degli anni Ottanta e il matrimonio con Jeff Koons si chiude la carriera musicale di Ilona Staller […]
Estratto dell’articolo di Teresa Ciabatti per il “Corriere della Sera” lunedì 7 agosto 2023.
«Non vi preoccupate, ora abito in un attico» dice Ilona Staller, 71 anni, per rassicurare i fan dopo la notizia che la sua casa è all’asta. Piano terra, 136 metri quadri, giardino, piscina circolare a uso privato, veranda. Prezzo di partenza: 231 mila euro. A margine la precisazione: «Sia la veranda, sia la piscina dovranno essere demolite perché non conformi alle norme».
Ma l’appartamento di via Cassia 1818, altezza La Storta, è un pezzo di storia del porno: lì sono stati girati numerosi film; lì, nello stesso comprensorio, hanno vissuto, oltre a Ilona, Moana, Riccardo Schicchi, Eva Henger, Milli D’Abbraccio. Sempre lì c’era la sede di Diva Futura, l’agenzia di Schicchi e Ilona. E dunque all’asta oggi non è solo l’appartamento di 136 metri quadri, bensì il sesso nella vasca da bagno in salotto […] All’asta i capricci di Ramba invidiosa di Cicciolina, i peluche regalati dai fan, Moana che prende il sole a bordo piscina — e è l’ultima immagine. All’asta c’è l’intera vita sentimentale e professionale di Cicciolina (colei che a Radio Luna chiamava gli ascoltatori «cicciolini» — da cui il nome).
Nata a Budapest nel 1951, all’anagrafe Elena Anna, Ilona cresce con la mamma, ostetrica, e col patrigno, funzionario del ministero dell’Interno. A 13 anni lavora come modella, a 16 come cameriera dell’Hotel Danube Continental — periodo questo in cui Ilona sostiene di essere stata spia dei servizi segreti ungheresi (non esistono tuttavia riscontri in merito).
Nel ‘70 sposa Salvatore, un ricco rappresentante calabrese che una volta in Italia si rivela per quel che realmente è («mangiavamo pastasciutta tutti i giorni perché non potevamo permetterci la carne» — dichiara Ilona a Elvira Serra su 7). Nel ’73, a salvarla, l’incontro con Schicchi, studente di architettura e fotografo.
[…] Schicchi fotografa Ilona immersa nella natura, nei campi di papaveri. Prigioniera degli zombi nelle tombe etrusche. Foto rivendicate da Ilona persino in punto di morte: «Ero andata a salutarlo all’ospedale, assieme alla mia amica Ursula Davis, in arte Hula Hop. Gli chiesi se poteva ridarmi il mio materiale fotografico e lui mi gridò dietro: “Morirai prima tu!”. Al che gli risposi: “Mi dispiace, Riccardo. Questa volta ti sbagli» — era il 2012, il tempo del grande conflitto tra lei e Schicchi, nonché l’anno della morte di Schicchi (aveva ragione Ilona).
Tornando invece al ‘70/‘80, ai ricordi felici: Riccardo e Ilona per le strade di Roma, lei che si sfila le mutandine per lanciarle ai passanti. Lei sul cavalcavia del raccordo anulare a gambe aperte con macchine e camion che inchiodano. […] lei che salva Schicchi svenuto in una sorgente termale […]. Quindi Moana Pozzi: «È stata la mia migliore amica» ha detto più volte Ilona — smentita nel 2022 da Eva Henger: «Negli ultimi tempi non erano più molto amiche».
Falso: «Abbiamo lavorato tanto insieme, fatto tanto sesso insieme e ci siamo raccontate le nostre cose» — racconta Ilona alla Serra. «Quando è morta, sua mamma mi ha chiesto di scegliere un capo di abbigliamento, voleva regalarmelo: presi un paio di stivali, anche se io calzo 37 e lei 42». […]. Con Moana Ilona fonda Il Partito dell’amore dopo una militanza politica iniziata nel ‘79 con Il Partito del Sole, e proseguita nel Partito radicale con cui viene eletta in Parlamento. Il 2 luglio 1987 Cicciolina entra a Montecitorio. Vestita castigata, così lei definisce l’abito verde con balza tricolore indossato quel giorno.
[…] l’accoglienza dei deputati è ostile. Il primo giorno Ilona Staller si ritrova nell’aula di Montecitorio senza sapere dove sedersi, sotto gli occhi di tutti che la lascerebbero laggiù, se non fosse per una donna: l’onorevole Adele Faccio, radicale, che va da lei e simbolicamente, non realmente, la prende per mano, le stringe forte la mano, per condurla al suo posto.
Lo stesso giorno ad aspettarla fuori da Montecitorio una folla adorante, e le amiche: Moana, Baby Pozzi e Ramba, a seno scoperto. Allora Cicciolina si sente meno sola (per quanto quel giorno a piazza Montecitorio ci siano anche le femministe a protestare contro di lei). I cinque anni in Parlamento per Staller sono difficili («Tira su la gonna», «Il culetto non lo facciamo vedere?» — le frasi degli onorevoli tra i banchi). L’unico gentile: Giulio Andreotti, il quale nel 1983 le spedisce a casa un biglietto di Buon Natale.
Tra derisioni e richieste di dimissioni, Ilona Staller fa le sue proposte di legge: educazione sessuale nelle scuole, istituzione dei parchi dell’amore, diritto della sessualità dei detenuti. Senza dimenticare la campagna in difesa degli animali che porta avanti dal ’79. […] Di quegli anni Cicciolina dice: «Molti giornalisti e intellettuali si innamorarono di me».
Lei però ama Jeff Koons, artista americano che la ritrae in diverse opere, e che sposa nel ‘91. Non conoscendo la tradizione di lanciare il bouquet, Ilona porta i fiori a casa per riporli in una scatola dove sono tutt’oggi: appassiti, rinsecchiti. […] arriva Ludwig — è il 1992, ma Ilona e Jeff litigano, volano schiaffi. Fino al ’93, quando Koons con l’inganno porta il figlio in America. Ha così inizio la battaglia di Ilona per riprendere il bambino che si conclude col mandato di cattura a suo carico da parte dell’Fbi: rapimento di minore.
A cui segue la vicenda legale — processi, perizie psichiatriche. Nel 2006 la sentenza definitiva che affida il bambino alla madre. Quel figlio che oggi, trentunenne, Ilona denuncia: «Mi ha chiesto soldi minacciandomi con un taser». Difesa di Ludwig: «Il taser era un regalo di un amico, non sapevo fosse illegale». È questa, in estrema sintesi, la vita di Ilona Staller parte della quale si svolge nell’appartamento di via Cassia 1818. […]
Irene Maestrini.
Gianni Vigoroso per ottopagine.it il 6 gennaio 2023.
Il porno è la seconda vita di Irene Maestrini, 25 anni torinese di origini ma residente in irpina a Montaguto, piccolo comune al confine tra Campania e Puglia con la sua famiglia. Dalla sonnacchiosa provincia meridionale ai set hard, il riscatto di una giovanissima e promettente attrice hot è stato innanzitutto una sfida e una scommessa.
Un passato turbolento, nei guai per spaccio di droga qualche anno fa, per poi tuffarsi sul set come attraente e sensuale modella e oggi avvenente e provocante attrice porno proiettata verso un futuro decisamente intrigante.
Con la pugliese Malena e compagnia sarà già ospite al Bergamo sex, Fattolandia edizione invernale 2023 il 27-28 e 29 gennaio. E siamo solo all’inizio.
Da un piccolo comune montano una stella futura del porno?
Spero proprio di sì. Questo è il mio obbiettivo. Ho già girato per varie produzioni tra Torino, Praga e Milano.
Chi è Irene Maestrini?
Sono una semplice ragazza di 25 anni che ha iniziato a fare la modella, per dei problemi con me stessa. Non mi piacevo, ma la fotografia mi faceva rendere conto che comprendere i propri difetti, diventava poi un pregio.
Successivamente mi sono aperta Onlyfans, inizialmente per mancanza di soldi, siccome vendevo solo le mie foto, poi invece, ho scoperto il mondo del porno. Non è brutto come si dice o si pensa. Come ogni cosa, ha il suo lato positivo e negativo. Credo sia stato messo in cattiva luce, dalla società e dal bigottismo. In realtà, è un mondo che va visto con gli occhi della scoperta e del perché si creano pregiudizi su di esso.
Quindi mi sono imbattuta in questa strada, con la consapevolezza dei tanti pregiudizi e critiche, pensando a quanto poteva formare in meglio i miei pensieri su questo argomento così indiscriminato. Sono una persona che non si limita a nulla, specialmente nel conoscere e nel vivere ma con il rispetto di me stessa.
Provi imbarazzo a girare scene hot?
Agli inizi avevo un po' di titubanze. Poi invece è diventato divertente. In fondo tutti facciamo ciò che faccio io, magari senza delle videocamere.
È più facile mettere a nudo il proprio corpo o la propria anima?
La propria anima. Ho tanti scheletri nell'armadio, ancora da rimuovere del mio vecchio passato. Ma ciò mi aiuta ad affrontarli.
Perché hai scelto questa strada?
Sinceramente è venuta così, senza programmare nulla. È diventato un vero lavoro senza che mi accorgessi di questo grande passo. Sono severa nelle cose che faccio, perché questo insegna a distinguere il lavoro dalla vita privata.
Una notizia che susciterà sicuramente scalpore. Temi pregiudizi e pettegolezzi paesani?
No, già mi credevano diversa da quel che sono veramente. Per me conta, stare bene con me stessa. Purtroppo nei paesi come il mio, la vita delle persone e la propria mentalità è da tempo, chiusa, con tante limitazioni e paure.
Io sono nata e cresciuta a Torino, sono 10 anni che sono qui. Sempre sentita un pesce fuor d'acqua. In tutto e per tutto. Quando ho visto che non criticano, per farti dei torti, ma perché frustrati dalla loro vita e la dipendenza di sentirsi migliori degli altri, anche con brutte azioni alle spalle, non mi è fregato assolutamente nulla.
Sono in tanti a seguire questa tua affascinante avventura, quanto è importante per te tutto questo?
È importante perché rende onore ai sacrifici e il tempo che impiego nel realizzare il mio sogno. Questa mia vita, ora mi rende viva, quindi è davvero importante per me. Anche avere degli haters. Ciò significa che stai facendo bene il tuo lavoro! Perché chi ti critica, non è per farti capire che stai sbagliando, in realtà è perché loro vogliono essere al posto tuo.
Qual è la cosa che ti piace particolarmente di te?
Purtroppo mi critico davvero tanto, da non riuscire a trovare un pregio.
Qual è il tuo sogno?
Poter trasferire la mia famiglia, fuori da questi piccoli paesi e iniziare a vivere come non abbiamo fatto mai. In più, se dovessi diventare davvero qualcuna importante, poter investire i miei soldi, in un progetto da me portato avanti sin da piccola, per aiutare e cani e gatti randagi.
Isabella Ferrari.
Dagospia martedì 24 ottobre 2023. Anticipazione dall’ultima puntata di “Belve”, in onda martedì 24 ottobre in prima serata.
Isabella Ferrari si confessa in un’intervista intima a “Belve”. Francesca Fagnani, in riferimento alla famosa scena di sesso in Caos Calmo, chiede: “Una volta per tutte, era reale o no?”. E la Ferrari risponde: “Quando ho fatto la prima prova entro dalla porta, do un bacio a Nanni, Nanni si ferma e mi dice “Questo non è sapore di mare”. Ci sono delle scene che richiedono comunque una forza, una verità… io voglio starci dentro, non mi interessa fingere”.
Quando la Fagnani ricorda che l’equivoco era nato anche da alcune dichiarazioni della Ferrari stessa, l’attrice risponde “Al festival di Berlino Nanni mi disse che dovevo rispondere io alle varie domande che riguardavano quella scena. Ognuno aveva il suo compito, io avevo quel compito lì che era quello più ingrato, e forse ho detto qualche cazzata”.
Quando la Fagnani le chiede se le sia mai capitato di fare dei controlli sul cellulare del marito, perché di solito chi cerca trova, l’attrice conferma: “Abbiamo trovato”. La conduttrice chiede e viceversa? L’attrice annuisce e aggiunge: “Siamo pari”.
E alla domanda sulle droghe Ferrari risponde: “Le ho provate tutte, ma mai quelle pesanti”. La Fagnani chiede: quali? Ferrari risponde: ho provato canne, cocaina...” Al che la conduttrice interviene: “che è un po’ pesante...”, e Ferrari chiarisce: sì, ma fermandomi sempre a un dosaggio veramente omeopatico”. Fagnani ribatte ironicamente: “la cocaina pediatrica”. “Non voglio perdere il controllo” conclude Isabella Ferrari.
Su Boncompagni, quando la Fagnani le chiede se lei avesse a 16 anni gli strumenti per vivere quel rapporto in maniera equilibrata, l’attrice spiega: “Era equilibrato. È stata una grande fortuna averlo incontrato così giovane, era un po’ un padre”.
La conduttrice ricorda infatti che l’attrice viveva con la figlia di Boncompagni, sua coetanea: “Sì, era diventata una bella famiglia. Io questo problema della differenza di età non l’ho mai veramente sentito”. La Fagnani le ricorda di aver parlato tempo prima di una cicatrice, e a quel punto la Ferrari interviene: “di cicatrici ne ho diverse, non riesco a vedere una cicatrice in quel mio rapporto con Gianni Boncompagni”.
L’attrice racconta anche della sua malattia, di cui non ha mai rivelato il nome: “Credo che non rivelerò mai il nome di questa malattia perché internet è tremendo, ci inganna. Quando io l’ho fatto io mi sono molto spaventata, non l’ho detto nemmeno ai miei figli per tanto tempo perché non volevo che andassero a leggere”. Neanche adesso lo sanno? “Il nome sì, adesso lo sanno. La malattia comunque è la mia forza, la mia stabilità. Mi ha cambiata, mi ha resa più sicura di me, più stabile”.
Belve è prodotto da Rai-Direzione Intrattenimento Prime Time in collaborazione con Fremantle Italia. Ideato e condotto da Francesca Fagnani. Scritto con Ennio Meloni, Gabriele Paglino, Antonio Pascale. Regia di Mauro Stancati.
Isabella Rossellini.
Estratto dell’articolo di Valerio Cappelli per corriere.it il 19 maggio 2023.
Forse c’è bisogno di rimettere a fuoco il primo piano di Isabella Rossellini. Come dice lei stessa, «la mia carriera ha avuto un marchio internazionale, meno in Italia: non che non volessi, ma non è successo». Un simbolo di stile e di eleganza, è nata a Roma, ha 71 anni e non ha mai nascosto i segni del tempo: «Che tormento quando me lo chiedono…Io mi tengo le rughe».
E ora sullo schermo ha giocato a essere imbruttita e invecchiata, i capelli bianchi, sulla sedia a rotelle. Così sembra che apparirà a Cannes, in La chimera di Alice Rohrwacher.
(...)
Svezzata in tv da Renzo Arbore, ha imparato da tutti, «anche dai miei figli e dai miei animali». A Long Island coltiva la biodiversità, alleva (anche) galline, «ne ho avute 150 e delle prime 30 ricordavo i nomi, e poi tanti animali in via di estinzione. Sono stati loro a ispirarmi, a farmi tornare all’università a 60 anni e a prendere una specializzazione in Etologia. Da piccola portavo a casa tutti i gatti e i cani che trovavo, ma anche vermi, rane e insetti. Papà si arrabbiava, i cani randagi erano pieni di pulci, mi disse che se continuavo a prendere dalla strada qualunque animale mi avrebbe mandato in collegio in Svizzera. Però li amava anche lui, una volta comprò un canguro, fu costretto a darlo allo zoo di Roma».
Vuole continuare a fare l’attrice e l’etologa. «Dopo una certa età (è un dato di fatto), per le donne ci sono solo ruoli da non protagonista, anche se le cose stanno cambiando sui film in streaming. Uno dei motivi per cui ho accettato il David alla carriera è stato di non essere sempre “la figlia di”, “la moglie di”. Ho adorato i miei genitori, mi sono sposata con grandi registi, ma basta con questo modo di definire le donne sempre come un riflesso di altre persone».
Una volta le chiesero se si sente un’icona: «Io non mi ci sento ma mi fa piacere, l’icona è un’idea collettiva, che però non tutti condividono». Il cinema italiano? Le piacciono Sorrentino e Martone, «certo che mi piacerebbe lavorare con loro, ma non è un mio fine, se mi invitano vado molto volentieri. Senno’ continuo nel mio lavoro da etologa». Il suo film preferito? «Il circo di Chaplin, che combina il cinema con gli animali». Ca va sans dire, direbbero a Cannes
Isotta.
Isotta: «Tacchi bassi e giacca oversize mi fanno cantare meglio». Emozioni private. Gioco di squadra. E la certezza che scrivere è solo l’inizio del lavoro di una cantautrice. Che per le performance dal vivo preferisce vestiti comodi. Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 12 Gennaio 2023.
«Mi vesto così perché con i pantaloni larghi e i tacchi bassi canto meglio»: ha le idee chiare Isotta, cantautrice attesa al varco nel 2023 per vedere se manterrà le promesse accumulate l’anno scorso, quando le chiedi perché, con il fisico che ha, si nasconda dietro tailleur oversize e scarpe da educanda. È una risposta al vecchio dilemma delle cantanti: come conciliare aspetto e musica, bravura e sex appeal? Non è un problema superato, e vale in tutto il mondo: basta considerare il duello a distanza tra Dua Lipa e Bebe Rexha. Voce simile, stesse radici albanesi, successo parallelo: ma mentre Rexha, che ha premuto molto di più sul pedale della bomba sexy (e ci gioca fino in fondo nel video di “I’m blue” con David Guetta), sbanca il box office dagli Stati Uniti, Lipa in Gran Bretagna sta costruendo una carriera più solida, in cui colleziona premi per la sua musica e riconoscimenti per le iniziative di impegno sociale.
Anche in Italia lo scontro è nell’aria, ed è bastato un post di Nina Zilli per farlo scoppiare: «Consiglio a chi volesse mai intraprendere la carriera da cantante e/o cantautrice: esci le canzoni belle, non la f***», ha scritto, proprio nei giorni in cui Elodie lanciava il nuovo video sempre più sexy (“Ok. Respira”) e Beatrice Quinta, la più chiacchierata finalista di “X Factor”, si faceva fotografare nuda nella metropolitana di Milano. Niente di simile per Isotta Carapelli, trentenne toscana che ha condito con alcuni tra i riconoscimenti più importanti della musica indipendente (il Bianca d’Aponte per cantautrici e due premi al festival Musicultura) il lancio del suo primo cd “Romantic dark” (uscito per Women Female Label & Arts, etichetta discografica tutta al femminile aperta anche ad arte e poesia). E che in questa intervista racconta come lavora una cantautrice in un Paese che nelle donne vede ancora solo grandi interpreti di canzoni altrui.
Partiamo dalla prima cosa che colpisce il pubblico: davvero se si veste oversize canta meglio?
«Sarà che sono timida, ma io a cantare seminuda non ci riuscirei proprio. Quando sono tornata al Teatro Cimarosa di Aversa per cantare al Premio D’Aponte avevo i tacchi e mi sentivo sui trampoli. E mi sono resa conto che non mi aiuta: trasmettere le mie emozioni al pubblico è più difficile se io fisicamente non mi sento a mio agio mentre canto. Cerco di guidare chi mi ascolta verso una certa atmosfera e per riuscirci devo fargli arrivare testo e musica, melodia ed elettronica. Vestirmi in modo da attirare troppo l’attenzione sul mio aspetto sarebbe controproducente. Ma sto ancora sperimentando...».
Firma tutte le canzoni del suo disco. Come le scrive? Nasce prima la musica o il testo?
«Generalmente parto da un'idea di testo, metto a fuoco un’emozione che voglio condividere con chi mi ascolta. Poi ci costruisco sopra un “beat” anche con l’aiuto dei musicisti con cui collaboro. Per esempio, una volta Pio Stefanini, con cui ho scritto quasi tutte le canzoni del disco, mi ha detto che andava a portare suo figlio a giocare a palla avvelenata. E io mi sono ricordata che da ragazzina non mi volevano mai in squadra: “Sai, ero grassa”, ho spiegato a Pio, “avevo i riflessi di un pesce morto”. E lui mi ha detto: “Vado e torno, tu butta giù questa storia che ci scriviamo un pezzo”. È nata così “Palla avvelenata”, una canzone sul bullismo che pensavo di non poter mai cantare in pubblico».
E invece?
«Invece l’ho cantata a Musicultura ed eseguirla in pubblico è stato catartico almeno quanto scriverla. Certo l’emozione quando canto dal vivo è ancora fortissima. Ma mi ha colpito una cosa che mi ha detto il mio pianista prima di salire sul palco a Recanati. Gli ho detto “Mamma mia, non si può vivere così: guarda come tremo, ho la bocca completamente secca». E lui mi ha risposto: “Ma è questo il bello di questo mestiere, se non ti emozionassi più che lo faresti a fare?”».
Che genere di emozioni racconta nelle canzoni del suo disco?
«La più personale è quella con cui ho vinto il Premio d’Aponte, “Io”. All’inizio ho scritto le prime due strofe, in metrica, su un ritmo che avevo in testa ma senza musica. Volevo raccontare un viaggio interiore, la ricerca dell’energia che ti spinge in strade diverse rispetto a quella che stavi percorrendo. Io ho sempre aspirato alla musica ma per sicurezza facevo anche l'università. E in quella canzone ho voluto raccontare l’esigenza di darmi una spinta in più verso un percorso che sentivo vitale».
Ha frequentato una scuola per cantautori?
«No: fin da piccola ho fatto lezione di canto, poi di solfeggio, ma per la scrittura ho iniziato da sola, e imparo dagli autori con cui collaboro. Già a sei anni, con la prima maestra di canto, ho scritto la mia prima canzoncina - me la ricordo ancora anche se era una cosa indecente… A 14 anni l'ho presa un po’ più seriamente perché sentivo proprio il bisogno di cantare parole mie. Alle canzoni del disco ho iniziato a lavorarci cinque o sei anni fa».
E nel suo futuro cosa c’è?
«Sto lavorando al secondo album, sto chiusa in studio a scrivere e mettere in musica. Fare dei live è sempre un piacere, anche poter portare la mia musica a delle orecchie esterne. L’estate scorsa ho aperto i concerti di Madame, Raphael Gualazzi, Simona Molinari ed è stato bellissimo cantare davanti a un pubblico così grande. E in posti meravigliosi: grazie a Musicultura ho cantato in giro per l’Italia, in posti stupefacenti come lo Sferisterio di Macerata o a Paestum, davanti al tempio di Poseidone: uno scenario davvero mozzafiato, un’emozione che non è il massimo se devi cantare! Però ora penso solo a scrivere: mi capita di sognarle di notte, le parole di una canzone. Poi appena sveglia le scrivo su un blocchetto, anche se poi magari quando le rileggo non mi piacciono più...».
Iva Zanicchi.
"Sono una tuttologa curiosa. E ora vorrei cantare con Mina". A 83 anni, l'artista emiliana ha una fitta agenda di lavoro e due sogni: un duetto con l'amica-rivale e trasformare il suo libro in una fiction. Serena Sartini il 29 Agosto 2023 su Il Giornale.
Cantante, conduttrice televisiva, impegnata in politica, attrice, scrittrice. Una carriera straordinaria, da tuttologa. Ottantatré anni e non sentirli. Iva Zanicchi non si ferma e si racconta, svelando i suoi prossimi impegni e il suo sogno nel cassetto: far sì che il suo ultimo libro «Un altro giorno verrà» diventi una fiction. Parla a ruota libera, l'Aquila di Ligonchio - in provincia di Reggio Emilia - raccontando le sue passioni, i suoi hobby e definendosi anche una «grande fan di Giorgia Meloni».
Iva Zanicchi, siamo nel pieno dell'estate. Come trascorre le sue vacanze?
«In realtà ho sempre lavorato d'estate, ma ora ho rallentato molto anche se quest'estate farò ancora qualche spettacolo interessante e divertente. E poi continuo a fare concerti. Negli ultimi anni, però, cerco di assaporare di più le vacanze. Solitamente a luglio accontento il mio compagno - e anche me stessa - andando in Sardegna. Lui è sardo, fosse per lui vivrebbe tutto l'anno in Sardegna. Ma io resisto solo un mese e quindi il nostro accordo è un mese, tutto l'anno no. È un posto bellissimo, abbiamo una piccola casa a cinque chilometri da Porto Rotondo. Una insenatura stupenda».
Quindi mare italiano?
«Certo. Mare italianissimo, non vado all'estero, non sono mai andata in vacanza fuori dai confini nazionali. Sono andata tantissime volte per lavoro, ma mai in vacanza. Invece ad agosto mi riservo un periodo in cui vado al mio paese, tutti gli anni, per tornare alle mie origini, a Ligonchio. Lì respiro meglio, è casa mia, conosco ogni pianta, ogni pietra, ogni casa; ci torno sempre volentieri, anche se ultimamente con un pizzico di tristezza per la perdita di mio fratello, scomparso a causa del Covid. Tuttavia, tornare nel mio paese di origine fa bene al mio spirito e alla mia anima».
Ha una vita molto piena, tra canto, tv, concerti. Ma ritaglia del tempo libero per sé? Hobby?
«Avevo un grandissimo hobby: lavoravo all'uncinetto, una cosa che ritengo meravigliosa. Sa che i carcerati, anche uomini, lavorano all'uncinetto perché rilassa tanto e toglie i pensieri? Perché bisogna contare ogni punto e non pensare ad altro. Ecco, io amavo lavorare all'uncinetto: ho fatto cose molte belle, delle tende e delle tovaglie stupende. Pensate che lavoravo all'uncinetto anche in auto, mentre mi recavo ai concerti, durante le tournée. Non mi fermavo mai. Adesso, purtroppo, ho un difetto alla vista che mi impedisce di fare tante cose. Ed ancora: leggevo tantissimo, un passatempo meraviglioso, e scrivevo tantissimo, ho scritto quattro libri, era per me un divertimento. Scrivere era un po' come vivere tante vite».
E adesso?
«Ora il mio hobby è curare le piante e i miei fiori, lo adoro. Mia figlia mi porta sempre le sue piante morte perché lei è tremenda e io riesco a rivitalizzarle, a farle vivere. Perché? Perché io parlo con le piante, dialogo con loro. Le innaffio, credo che la pianta senta, credo che abbia una specie di anima. Sarò matta ma la penso così. Ho poi delle piante che abbraccio, e sento che mi fa stare bene. Fatelo anche voi. Ho un ricordo bellissimo, di quando facevo Ok il prezzo è giusto. Tutti gli anni, verso giugno, registravamo le puntate di Natale. Facevamo l'albero, era bellissimo; un albero vero, che poi mi regalavano, e ogni anno piantavo un nuovo albero. Qua intorno è diventata una pineta. Un anno mi sono talmente affezionata a un albero, tanto da dargli un nome: l'ho chiamato Pierino. Gli davo l'acqua ogni due giorni, ci parlavo, lo curavo. Nessuno gli dava possibilità di sopravvivere, invece ce l'ha fatta, è sopravvissuto, è cresciuto e ora Pierino è vicino a casa di mia figlia. È bellissimo».
A proposito di sua figlia: tra di voi c'è un legame molto forte.
«Sì, è vero. Mia figlia Michela è il mio opposto. Siamo diversissime di carattere, forse per questo mi affascina. Lei è introversa, mentre io sono piuttosto estroversa (ride). Lei è riservata, a lei non scappa mai una parola fuori posto, invece io ogni tanto mi lascio andare. Non è sdolcinata, io invece sì. Ha pudore, le dico sempre: Bacia la mamma. E lei niente, non lo fa. Io sono molto carnale, devo toccare le persone. Lei questo no. Adesso, con il passare degli anni, si è avvicinata tantissimo, mi aiuta nel mio lavoro. E quando ho bisogno lei diventa la mia infermiera speciale. Provo per lei un grande amore, come tutte le mamme ovviamente, e le auguro di avere un rapporto bello con sua figlia come ho avuto io con lei».
Ha un bel rapporto anche con sua nipote?
«Sì, ho un rapporto bello anche con lei, che si avvicina più a me. È meno introversa e come carattere ci assomigliamo molto. Fino all'anno scorso voleva diventare cantante, perché ha anche una voce bellissima. Ma io l'ho messa in guardia su questo mondo, bellissimo, fantastico, che ti può dare tanto, ma allo stesso tempo durissimo. Devi avere una forza morale come pochi, devi avere l'amore per la musica, la consapevolezza che andrai incontro anche a momenti difficilissimi. Alla fine mi ha detto: 'Nonna lascio perdere, per ora continuo l'università'».
E poi ha anche un nipote maschio...
«Luca. Lui potrebbe fare il modello. È alto 1,93, è bellissimo. Anche lui sta per laurearsi, lo sto spingendo a fare le sfilate, ma non vuole; è timidissimo».
E il rapporto con il suo compagno?
«Sto insieme a Fausto da 40 anni. È dei Gemelli, io Capricorno. Non è facile, i Gemelli hanno veramente una doppia personalità. Non è stato sempre facile vivere con lui, ma devo dire che il grande amore e il bene che ci sono sempre stati fra noi hanno vinto su tutto. E poi, mai come negli ultimi tre anni ci sentiamo vicini, non ci stacchiamo mai. Ha avuto dei problemi gravissimi di salute, che in parte ancora ha, ma che sta cercando di combattere e speriamo di vincere. In queste malattie così gravi, la volontà e la determinazione, il sentirti amato dalle persone vicine, aiutano molto. Il tumore fa paura a tutti. Invochiamo la ricerca e cerchiamo di aiutare, solo da questo può venire la speranza di debellare buona parte dei tumori».
Ha un legame molto forte con la sua famiglia di origine...
«Sì, appartengo a una famiglia molto numerosa. Fino a quando c'erano i miei genitori, dieci anni fa, ci ritrovavamo tutti insieme a casa, eravamo una trentina. Adesso mi sono rimaste due sorelle, entrambe più anziane di me. Mia sorella abita in montagna, la chiamo l'angelo di famiglia, perché è una donna estremamente buona, religiosa, sempre pronta ad aiutare tutti, è stato un esempio per me. Poi ho la sorella maggiore che è estrosa, simpatica, diversissima dall'altra. E poi c'era mio fratello, morto due anni fa di Covid. Mi ha lasciato un dolore immenso, che non si rimargina. La sua morte è stato il dolore più grande della mia vita».
Come ha vissuto il periodo del Covid? In cosa l'ha cambiata?
«In realtà sono una donna molto forte, riesco a stare anche da sola. Durante la pandemia ho fatto tante cose che di solito non si fanno e non è stato difficile. Invece ho notato in mia nipote un cambiamento radicale; lei forse non si è ancora ripresa. Ha dovuto festeggiare i suoi 18 anni chiusa in casa. Non usciva mai, e questo l'ha cambiata tanto. Ciò che mi ha cambiato molto, invece, è stata la morte di mio fratello. Eravamo ricoverati insieme, anche con mia sorella; tutti e tre insieme. I medici scherzavano e chiamavano il nostro il Reparto Zanicchi. Poi io e mia sorella siamo state dimesse, mentre hanno trattenuto mio fratello perché era cardiopatico. Sembrava una cosa sotto controllo, invece dopo pochi giorni è mancato».
Parliamo del suo lavoro. Progetti per il futuro?
«Ho in cantiere di fare il coach dei bambini nel programma Mediaset con Gerry Scotti, Io canto. Sono sei puntate e per la prima volta canterò con i bimbi, cercherò di insegnare loro ciò che potrò e di essere utile. È una cosa molto carina, che mi alletta molto. E poi sono in trattativa per una trasmissione, sempre su Mediaset, ma è ancora tutto da definire».
Lei si è occupata spesso anche di politica. Cosa pensa di Giorgia Meloni presidente del Consiglio?
«Sono una sua fan, una ammiratrice di Giorgia, non faccio mistero nel dirlo. E aggiungo anche che lo sono sempre stata, anche prima che diventasse premier. È una donna molto tenace, preparata, decisa, deve lottare. Le auguro di riuscire ad andare avanti, perché purtroppo gli avversari politici che ha, da sempre sono pronti a sbranare chiunque sia al governo. Questa è una cosa orribile che abbiamo solamente noi italiani. Per cui, deve lottare tantissimo con gli avversari. Ma, attenzione, avrà anche dei nemici interni, perché la gelosia è sempre in agguato. Posso fare una battuta? È una donna... non con le palle, ma con le tette! È una tosta, lavora tantissimo, è sempre in giro, sono una sua fan convinta e determinata».
C'è qualche cosa che vorrebbe dire ai giovani di oggi?
«Più che ai giovani, voglio rivolgermi con la preghiera e la supplica ai genitori di farsi un esame di coscienza. Credo che purtroppo spesso non siano capaci di essere una guida per i propri figli. È un compito che non possono delegare a nessun altro, una responsabilità importante che fa parte del pacchetto completo di essere madre e padre. I genitori devono saper dire dei no, quando serve. Io credo in questa generazione, che ha grosse potenziali, ma voglio dire loro che non hanno bisogno di inebriarsi con alcol e droghe, che sono solo un modo per non affrontare i problemi che, però, fanno parte della vita. Devono trovare la forza per non cedere, trovando la propria direzione, accettando di cadere, di riprovare e magari ricalcolare la rotta. Ricordatevi che il futuro è vostro: fatelo bellissimo!».
Con chi vorrebbe duettare oggi Iva Zanicchi?
«Mi piacerebbe con Zucchero, la sua musica blues fa parte del mio modo di sentire. Poi, senti cosa ti dico... mi piacerebbe un duetto con Mina: sarebbe una bella sfida tra la Tigre e l'Aquila, che può sembrare più debole, ma sa volare».
Recentemente è scomparso il Maestro Danilo Minotti...
«Sì, vorrei poter dedicare un pensiero a un grande musicista, ma soprattutto un gentiluomo, un uomo d'altri tempi. Una presenza importante a livello professionale come mio direttore d'orchestra a Sanremo, a D'Iva e in una tournée teatrale, ma soprattutto un vero amico, prezioso e indimenticabile. Ti voglio ricordare sorridente sul palco dell'Ariston con il nostro Voglio Amarti e la tua bacchetta tra le mani... ciao Danilo».
Iva Zanicchi ha fatto di tutto: cantante, conduttrice tv, attrice, una carriera straordinaria. Lei in che panni si sente meglio?
«Iva Zanicchi è una donna curiosa, ma in un modo micidiale; la curiosità è la cosa che mi fa andare avanti, e per certi versi mi fa fare anche cose sbagliate. E poi mi piace diversificare. Sono partita come cantante, che è la cosa che amo di più; mi sento intimamente e profondamente una cantante e lo sono. Poi ho avuto l'esperienza della politica; poi ho scritto libri, poi mi sono data al teatro. Insomma, ho fatto un po' di tutto. Mi diverto a diversificare, ho fatto tanta televisione: questa è la curiosità che c'è dentro di me. Ero così anche da bambina, volevo sperimentare, volevo fare tante cose».
E c'è un sogno nel cassetto? Qualcosa che ancora non ha fatto e desidererebbe fare?
«Sì, una cosa c'è. Vorrei che l'ultimo libro che ho scritto, Un altro giorno verrà (Rizzoli editore) diventasse una fiction. Si tratta di un romanzo, una storia d'amore, il racconto di un nonno che deve allevare da solo un piccolino perché i genitori sono morti. Vorrei vederlo in televisione; una fiction dove non ho alcuna parte, ma avrei la soddisfazione di vedere questo racconto stupendo in tv».
Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per repubblica.it il 24 giugno 2023.
Iva Zanicchi lo ripete: "Guardi, io ho voluto veramente bene a Silvio. Gli sono riconoscente, non posso che parlarne bene".
Parliamone.
"Intanto era generosissimo, capiva le persone e vedeva lontano perché era un visionario. Ai tempi di Ok il prezzo è giusto, non avevo mai pensato di fare la conduttrice. E glielo dissi chiaro e tondo: 'Ma che c'entro? Io canto, ho sempre e solo cantato'. Ma per lui ero quella giusta e non cambiò idea".
Che le disse?
"Mi convocò - era il 1986 - e mi spiegò perché secondo lui ero perfetta per la trasmissione: 'Hai una grande capacità di comunicare con la gente, provaci. Lo fai per un paio di mesi, poi se non va pazienza, è un'esperienza. Secondo me ti diverti'. Era bravo a convincere le persone. Un paio di mesi... Sono rimasta a fare il programma dodici anni. Aveva visto lungo".
In cosa era diverso dagli altri?
"Era empatico, gli piaceva il contatto con la gente, era curioso. Sapevo tutto delle persone che lavoravano con lui. All'epoca feci anche altri programmi, che non hanno avuto successo come Ok il prezzo è giusto e anche serate musicali. Lui c'era sempre. Era così generoso, le racconto una cosa per farle capire".
(...) L'ultima telefonata me l'ha fatta quando ho finito Ballando con le stelle. 'Non sapevo che fossi una grande ballerina, sei stata bravissima. Però le barzellette le racconto meglio io'. Ho scherzato: 'Attento che ora vado alla Scala'. È vero che raccontava le barzellette, ma le sue erano sempre le stesse, però. Poi fu veramente carino, salutandomi mi disse: 'Devi tornare a casa, e fare un grande spettacolo per noi'".
Lei ha fatto anche politica. Come la consigliò?
"Veramente ho fatto politica contro la sua volontà, mi disse solo: 'Hai l'amore della gente, perché vuoi farlo? Hai un gioco che ti ha dato la popolarità, l'affetto di tante persone, arriveranno le beghe, le cattiverie: sei proprio sicura? Ti candido ma ti arrangi da sola'. E io gli ho fatto vedere che la gente sapevo conquistarmela, sono andata per mercati, ovunque. Lui rimase colpito. E sono andata in Europa".
(...)
Investimenti stellari. I bond Argentina, l'arte e le lenzuola. Iva Zanicchi: "Adesso sono generosa". La cantante e conduttrice emiliana racconta il suo rapporto con il denaro a ilgiornale.it. "Negli investimenti bisogna affidarsi a chi è capace”. Degli affari di famiglia se ne occupa la figlia. Massimo Balsamo l'1 Maggio 2023 su Il Giornale.
Una voce unica, una personalità travolgente ma anche un'artista a tutto tondo. Iva Zanicchi è una leggenda dello spettacolo italiano e continua a stupire tutti. Dopo aver pubblicato il suo nuovo romanzo "Un altro giorno verrà", l'aquila di Ligonchio è la protagonista de "Il cantante mascherato" su Rai 1, in attesa di tornare a calcare i palchi di tutta Italia. Ma Iva Zanicchi che rapporto ha con il denaro? Di questo e di molto altro ha parlato con IlGiornale.it.
Iva, secondo lei il denaro è sinonimo di successo?
“Non necessariamente. Alcuni grandi del passato sono morti in povertà. Solitamente chi fa spettacolo ha un guadagno tra concerti ed eventi. E guadagnare denaro è importantissimo, sarebbe sciocco dire il contrario. Anche se a dire il vero quando si sale sul palco non si pensa mai ai soldi, assolutamente: se io accetto un lavoro lo faccio in primis perché artisticamente mi sta bene; poi subentra il mio agente e tratta la componente economica."
Che rapporto ha con il denaro?
“È sempre stato importantissimo per me. Nei primi venticinque anni della mia vita non ho mai visto un soldo, se non di sfuggita (ride, ndr). Quando ho iniziato a lavorare e a fare i primi spettacoli, mi è venuta la fobia del risparmio: venendo da una famiglia povera ho messo via tutto. Finchè un giorno mia madre mi ha detto: ‘Che stai facendo? Sei diventata avara? Mi ha riportato alla realtà: stavo accumulando tutto, senza spendere niente. Ho capito che era sbagliato, è stata una lezione di vita: da quel momento sono diventata generosa."
Cosa ha comprato con i soldi del primo contratto importante?
“Disgraziatamente mi era presa la mania della pittura. I primi soldi che ho guadagnato, fino all’ultima lira, li ho usati per acquistare un quadro di Luca Giordano: bello, grande, straordinario. Poi purtroppo me l’hanno rubato. Ma ho amato tantissimo i quadri e ho sempre speso diverso denaro per acquistare opere d'arte."
Ha fatto investimenti in passato che non rifarebbe?
“Io me ne occupo poco, da un po’ di anni lascio fare a mia figlia Michela, che è abbastanza spendacciona (ride ndr). Io amavo molto l’Argentina e quando mi hanno proposto di investire su qualche titolo argentino ho detto subito di sì. Ho preso una batosta che non me la sono più dimenticata, perdendo tutto. Da quel giorno non mi sono più lasciata trasportare dai sentimenti: negli investimenti bisogna affidarsi a chi è capace.”
Qual è stato il suo investimento più azzeccato?
“Dopo quello che mi è successo, non ho più seguito nulla in prima persona. Perdere soldi costati tanta fatica mi ha fatto stare male e ne ho sofferto. In quel periodo c’è stato anche un altro tracollo – porto sfiga io evidentemente – quello di una banca americana. Quando sono andata a fare una tournèe negli Stati Uniti e ho visto il grattacielo della banca, mi son detta: ‘Qualche finestrella l’ho pagata io, visto che mi hanno fregato mica poco’. Allora ho deciso di smetterla, se ne occupa mia figlia e me ne frego (ride ancora, ndr)."
Ama fare shopping? Preferisce i negozi fisici o comprare online?
“Sono stata attratta per un periodo, soprattutto per i negozi di antiquariato. Ma non sopporto le boutique, odio misurare i vestiti. Ma per il resto amo fare shopping, tranne che per l’abbigliamento. Mi piace acquistare cose particolari. In ogni viaggio in giro per il mondo, anche in quella che era l’Unione Sovietica, ho acquistato biancheria per la casa, come tovaglie e lenzuola. A Mosca acquistai delle tovaglie bellissime ricamate a mano. In Perù e in Uruguay non le dico. Mi rovino per quelle cose lì, sì. A casa sono infatti piena di lenzuola, asciugamani e così via."
Ivan Cattaneo.
Estratto dell’articolo di Luigi Bolognini per la Repubblica il 25 Aprile 2023
Ivan Cattaneo ha un bel carattere, allegro, ottimista, uno che della vita sa sempre trovare il meglio. Ma se volete farlo arrabbiare è facilissimo: ditegli che è un cantante che si dedica anche alla pittura. "Anzitutto ho il diploma di scuola d'arte, la musica è stata solo una passione collaterale. E poi guardi che i miei quadri piacciono, il mio mercante è lo stesso di Marco Lodola e Ugo Nespolo. Ho spesso una mostra da qualche parte per l'Italia, l'ultima ha appena aperto a Prato sotto un diluvio universale: all'inizio della vernice, via le nuvole e un magnifico sole".
Però raccontiamolo un po' questo revival. Come ebbe l'idea?
"La domanda giusta è dove: a Parigi. Andai in una discoteca sotterranea e trovai tutti vestiti da Elvis Presley, che ballavano le sue canzoni. Una folgorazione. Lo proposi, adattato per l'Italia, a Caterina Caselli. Le canzoni non mancavano, comprese alcune sue, e mi divertii parecchio a pescare perle da quello scrigno, per poi riarrangiarle come mi veniva in mente".
Era così imprevedibile fin da bambino?
"Ho sempre avuto un temperamento artistico, omosessualità compresa, il che mi ha creato problemi in famiglia. I miei erano delle brave persone, ma pensi la Bergamasca negli anni Sessanta. Papà era contadino e tassista nel paese, Pianico, accanto all'Iseo. Era stato prigioniero degli inglesi a El Alamein, aveva sempre in bocca le parole "Montgomery" e "Rommel". Mamma sì, era modernissima, non ebbe problemi ad accettare il mio orientamento sessuale, ma fece l'errore di parlarne al medico di famiglia, che mi spedì per un anno alla neurodeliri di Bergamo. Nessun trauma, ai tempi non c'erano neanche le parole per definire certi sentimenti".
E forse neanche per viverli. Quanti amori impossibili ebbe allora?
"Uno solo, un ragazzo di 10 anni più vecchio di me, che non ha saputo nulla fino all'anno scorso, quando sono uscito a cena con lui e la moglie. Ci siamo fatti delle matte risate tutta la sera".
Lei ebbe anche il coraggio del coming out a fine anni Settanta. Danni?
"Ma no, anzi anche della pubblicità. Ai tempi dichiararsi gay era quasi un atto rivoluzionario, eri una pecora nera, ma anche scintillante. Adesso le battaglie degli omosessuali sono per la pensione di reversibilità. E con tutto questo sono per ogni diritto civile, sia chiaro.
A parte l'utero in affitto che svilisce la donna". dei giovani d'oggi, che ostentano la fluidità di genere e non fanno più tante distinzioni tra sessi e orientamenti, che pensa?
"Che danno tutto un po' troppo per scontato e pensano di aver inventato loro la libertà sessuale. Ragazzi, un po' di rispetto per noi settantenni che c'eravamo prima. Il discorso vale anche per i cantanti dell'ultima generazione. Rosa Chemical cosa voleva dimostrare esibendosi così a Sanremo? Non sa quanta gente l'ha fatto sui palchi italiani e mondiali nei decenni passati? E la risposta è no, non lo sa, perché anche il look adesso è tutto studiato, non crea stupore e neanche scandalo. Noi eravamo naif, forse troppo, ma veri, e volevamo fare quel che sosteneva Duchamp, creare una domanda nella testa del pubblico. Sa cosa dice Laurie Anderson?"
No.
"Che gli unici artisti di avanguardia oggi sono i terroristi, perché non sai mai cosa faranno".
E all'arte poté dedicarsi subito: lei fu uno dei primi a essere riformati alla visita di leva per omosessualità. Quantomeno che si sappia.
"Scena buffissima. Mi presentai in caserma con una lettera di una psichiatra che era la sorella di Mario Mieli, il padre dell'attivismo gay. C'era scritto che ero "incompatibile col servizio militare" e che sarebbe stato pericolosissimo. Il dettaglio era che avevo le unghie verdi, i capelli rosso fucsia e una pelliccia. Un colonnello mi guardò e disse: "sarebbe lei pericolosissimo per i commilitoni, non il contrario""
E quindi, sotto con la musica.
"Lì ebbi una gran fortuna: Nanni Ricordi mi ascoltò e mi mise subito sotto contratto. Stava per lanciare l'etichetta Ultima Spiaggia, mi produsse il disco d'esordio Uoaei, roba di avanguardia, inascoltabile. Ma mi valse un incontro con Lucio Battisti. O uno scontro, non so".
Racconti tutto.
"Ricordi fu chiamato da Battisti che doveva chiedergli delle cose, e mi portò con sé. Quando lo vidi, sottobraccio aveva dei dischi e il primo era proprio il mio! Ci disse che era sconvolto dalla batteria. Ci credo, era di un maestro come Walter Calloni. Lucio stava lavorando a un disco dal titolo significativo, La batteria, il contrabbasso, eccetera. A suonare nel quale chiamò proprio Calloni".
E lo scontro?
"Ci fece ascoltare le prime incisioni del disco e ci chiese un parere. Io, giovane e sfrontato, dissi che era troppo disco music e che lui voleva fare il Barry White dei poveri. Lui mi prese, mi mise su uno sgabello al centro della sala di incisione e fece partire la musica. Poi mi disse "Ma tu devi sentire quanto colpiscono basso e batteria, senti?" e ci aggiunse un violentissimo cazzotto in pancia che mi fece rotolare a terra".
Dopo quest'esperienza, fece due anni a Londra. Come furono?
"Fantastici. Beccai in pieno l'esordio del punk e al ritorno inventai il look della prima Anna Oxa, quella di un'emozione da poco. E feci delle conoscenze come Francis Bacon".
Il pittore? E com'era?
"Un maiale, ma non in quel senso lì. Aveva uno studio-stanzone lastricato di colori tempere oli, lercio che non ha idea. Diventammo amici perché sono di Bergamo, da dove - diceva - veniva una sua zia. Poi un giorno calpestai un tubetto di vernice che schizzò fuori, lui disse che avevo sporcato tutto e mi cacciò in malo modo".
Non si è annoiato nella vita. Ma adesso senza musica non si annoia un po'?
"Non è che non ci sia, è che non ho più voglia di girare. Anche se sto preparando un libro, Titanic orchestra, che avrà una parte multimediale con musica, aneddoti, racconti che poi diventerà anche uno spettacolo teatrale. Poi sa, io la musica l'ho sempre fatta come un bambino col piccolo chimico, mescolando, le cose, giocando, inventando. Ora come si fa? Le case discografiche dicono ai collaboratori "non perdete tempo con chi abbia più di 40 anni", capisce che devo fare altro".
Tipo i reality? Ne ha fatti ben tre.
"Vabbè, Music Farm parlava di musica. Dall'Isola dei famosi sono scappato dopo 15 ore. E il Grande Fratello Vip l'ho fatto per soldi, e ne ho avuti tanti. Ma ho rivelato il meno possibile, ho portato l'essere umano e non l'artista. Cecchi Paone provò a fare il giornalista e lo asfaltarono".
Ma trasmissioni così non levano qualcosa a un artista?
"Certo, ma quanti ragazzini di 14-15 anni mi hanno visto e conosciuto? "
Quanta disillusione nella politica, lei che è stato uno storico sostenitore dei Radicali.
"Ma a Pannella rimprovero una cosa: sosteneva i diritti dei gay senza il coraggio di dichiararsi tale. Una cosa che spesso fanno gli omosessuali, penso anche a Testori e a Pasolini, del quale ho un brutto ricordo".
Ovvero?
"Avevo un fidanzato bellissimo, Francesco, monzese. Lui me lo rubò facendogli fare la comparsa nel film Salò. Uno dei tanti episodi che mi conferma quel che ho imparato dell'amore dopo 70 anni".
Cosa?
"Che è una trappola. Gli etero hanno l'abbaglio di continuare la specie, io ho perso tempo con gente assurda che mi ha distolto dal lavoro, sennò sarei stato Sinatra, o quasi. Avrei dovuto fare come Battiato , che si è chiuso in se stesso e nella propria arte".
Ivan Cattaneo compie 70 anni: quando inventò il look punk di Anna Oxa, la passione per la pittura, 9 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023
Il cantante di «Polisex» e «Una zebra a pois» è nato a Bergamo il 18 marzo 1953
Il «canta-pittore»
Compie oggi 70 anni il «canta-pittore» (così lo definì il suo primo produttore Nanni Ricordi) Ivan Cattaneo. Nato a Bergamo il 18 marzo 1953 da una famiglia di umili origini Ivano Cattaneo - questo il suo nome all’anagrafe - ha vissuto a Pianico, sul lago d’Iseo. Forse non tutti sanno che nel 1965, a 12 anni, si recò a Bologna per un provino per lo Zecchino d'Oro: cantò la canzone «Lui» di Rita Pavone. E questa non è l’unica curiosità su di lui.
In ospedale psichiatrico a 13 anni
A soli 13 anni Ivan Cattaneo vive una terribile esperienza: viene mandato in un ospedale psichiatrico per la sua omosessualità. «A 13 anni mi ero innamorato di un ragazzo, ma all’epoca avevo letto sui giornali che questi omosessuali, definiti ‘mostri’, per innamorarsi e curare la loro imperfezione, dovevano diventare donne», ha raccontato l’artista nel 2018 ospite di Verissimo. «Quindi, per avere questo ragazzo pensavo di dover diventare una donna, anche se non lo volevo, e sono andato a dirlo a mia mamma - ha aggiunto -. Lei mi ha portato da un dottore e gli ha detto che ero omosessuale. Purtroppo si è fidata di questo dottore e così mi hanno mandato in un ospedale psichiatrico, dove mi facevano dormire in continuazione e mi sedavano e basta. A un certo punto, quindi, ho capito che dovevo difendermi dal mondo perché nessuno mi avrebbe mai aiutato e ho deciso di dire che ero guarito, che stavo benissimo e non ho più affrontato il problema».
A Londra negli anni Settanta
Nel 1972, finito il liceo, Ivan Cattaneo parte alla volta di Londra: qui conoscerà il produttore Mark Edwards, ma anche Cat Stevens, Marc Bolan, il fotografo David Bailey e il pittore Francis Bacon. «Vivere a Londra nel 1971 e 1972 - raccontava nel 2015 in un’intervista a faremusic.it - significava cambiare totalmente la propria vita e darle tutto quel coraggio di cui aveva bisogno per emancipare nella lotta personale, estetica e politica il proprio bisogno di essere altro, diverso dai modelli troppo antiquati che nella società di allora persistevano, soprattutto in Italia».
Ha creato il look punk di Anna Oxa
Dopo aver pubblicato i suoi primi album - «UOAEI» nel 1975 e «Primo secondo e frutta (Ivan compreso)» nel 1977 per l’etichetta indipendente Ultima Spiaggia, in cui era entrato grazie a Nanni Ricordi - nel 1978 Ivan Cattaneo produce una allora giovanissima Anna Oxa. La accompagna al Festival di Sanremo e crea per lei l’iconico look punk di «Un’emozione da poco» (brano che arriverà al secondo posto).
Una zebra a pois
Il grande successo per Ivan Cattaneo arriva negli anni Ottanta con i dischi «Urlo» (che contiene il famosissimo singolo «Polisex») e «Duemila60 Italian Graffiati». In quest’ultimo l’artista riprende e riarrangia alcune tra le più grandi hit italiane e internazionali degli anni Sessanta, come «Nessuno mi può giudicare» e «Una zebra a pois».
La fuga dal revival e la pittura
«Ho iniziato così, con i miei brani, poi sono stato intrappolato dal successo delle cover anni Sessanta. E la Zebra a pois per me è diventata la Lebbra a pois, mi si è appiccata addosso senza abbandonarmi più. Così l'Ivan cantautore è stato oscurato. È il mio più grande rimpianto, anche se non rinnego il revival». Così raccontava nel 2015 Ivan Cattaneo a proposito del suo periodo legato al revival negli anni Ottanta. Per allontanarsene si rifugiò nella pittura: nel 1989 realizzò la mostra «100 Gioconde Haiku». Ancora oggi Cattaneo alterna la sua attività di musicista e cantante (il suo singolo più recente è «Polisex (40th Anniversary)», pubblicato nel 2021 per celebrare i quarant'anni dall'uscita del brano) a quella di pittore e artista multimediale (ha esposto anche alla Biennale di Venezia).
L’esperienza televisiva
Nel 2004 Ivan Cattaneo partecipa al reality Music Farm, in sostituzione di Scialpi. Dopo una fugace partecipazione all’Isola dei Famosi nel 2007 (si ritirò dopo poche ore) nel 2018 prende parte alla terza edizione del Grande Fratello VIP: finito al televoto con Lory Del Santo viene eliminato nel corso dell’undicesima puntata.
Testimonial dei City Angels
Dal 2019 Ivan Cattaneo è testimonial ufficiale dei City Angels.
Vita privata
Ivan Cattaneo è stato tra i primi artisti a fare coming out, ma ha sempre mantenuto il massimo riserbo sulla sua vita privata. Nel 2018, nella Casa del Grande Fratello Vip, si è lasciato sfuggire di essere fidanzato da alcuni anni con un ragazzo più giovane di lui. Una volta uscito dal reality, intervistato da Verissimo, ha rivelato che la relazione era terminata: «Avevo qualcuno che mi aspettava fuori dalla casa, ma ho scoperto che si è innamorato di un’altra persona. Lui è bisex, ha conosciuto una ragazza e si è messo con lei. Io, però, sono felice che lui abbia trovato una persona e così mi sono messo in disparte come al solito».
Ivana Spagna.
Estratto dell’articolo di Franco Giubilei per “la Stampa” giovedì 17 agosto 2023.
«Il tormentone? Lo cantano tutti perché la gente lo vuol sentire e risentire, è diventato tale perché ha dato spensieratezza al pubblico e se continuano a chiedertelo è perché ha sempre qualcosa di buono. Grazie al cielo ne ho avuti di miei». Ivana Spagna parla dall'alto dei milioni di copie vendute in Italia e all'estero per canzoni come Easylady […]
Stasera (17 agosto) Spagna, come tutti la chiamavano quarant'anni fa, canterà a Ferrara con altre glorie dance dell'epoca – Johnson Righeira, Den Harrow, Gazebo, Sandy Marton, Le Dolce Vita –, in questo lungo revival che non ha mai conosciuto pause, come se gli Anni 80 non fossero mai finiti. E infatti, giustamente, lei insiste: è recente l'uscita di un brano in inglese col gruppo In Da Club, titolo "Crazy for the disco dance". "Un ritorno alle sonorità di quegli anni", spiega la cantante.
Quelli erano anche tempi di eccessi, ne ha vissuti anche lei?
«I miei eccessi erano solo le serate musicali. La mia vita è particolare, esco per andare a cantare, se no sto a casa con i miei gatti o al massimo vado a cena con gli amici. Ne ho cinque di gatti, per limitarmi ai miei, il resto è ostello della gioventù per altri che vengono a mangiare a casa mia».
Come si è trovata con colleghe come Patty Pravo e Loredana Bertè?
«Mi sono trovata bene con entrambe. Con Loredana ho condiviso un anno di lavoro e un Sanremo: è un uragano, un fiume in piena, e ci assomigliamo. La Bertè si creava i suoi vestiti e a Sanremo ha pensato anche a questo.
Quanto a Patty, è proprio la diva per eccellenza: da bambina feci un concorso canoro, avevo quattordici anni e c'era lei come ospite; mi ritagliai un cartoncino con foto e le chiesi un autografo. È l'unico che ho conservato».
Lei è credente, che ruolo gioca la fede nella sua vita?
«Io sono cristiana, ti dà forza, speranza, però è una cosa molto combattuta perché, quando perdi delle persone care o vedi soffrire i bambini, vai in crisi, ma ogni sera prego, se no non riesco a dormire. So cosa sono la tristezza e la disperazione legate alla perdita di qualcuno che si ama, in compenso la noia non so cosa sia».
L'essere una sex-symbol l'ha esposta a molestie nel suo ambiente?
«[…] non sono mai stata toccata da molestie, ma a diciotto anni c'era mio fratello con me, che ha fatto sacrifici enormi per aiutarmi. […] Colleghe che hanno avuto problemi di molestie ce ne sono di sicuro, ma io non frequento il mio ambiente al di fuori delle serate in cui canto, quindi non so dire molto sull'argomento».
Nel suo libro "Sarà capitato anche a te" lei racconta esperienze molto inconsuete, con esperienze inspiegabili, come il sogno di una bambina che era morta e di cui incontrò la madre il giorno dopo, dedicandole un concerto.
«Ci vorrebbe più tempo e più spazio per parlare di questi argomenti in modo adeguato, diciamo che penso di avere una sensibilità particolare, ma è una cosa che abbiamo tutti, spesso senza rendercene conto. Posso dire dei miei gatti, che mi hanno fatto capire che sto meglio con gli animali: loro sentono tutto, ti leggono nel pensiero, per esempio se penso di dare loro una medicina oppure penso al veterinario, loro si nascondono subito sotto al letto».
Ci racconti il suo incontro con Tina Turner.
«[…] scoprii che era una persona grande e umile, mi colpì la semplicità di questo mito. I veri grandi sono semplici. È stato come uscire a cena con qualcuno che conosci da sempre. Dopo quella volta venni invitata a casa sua a Zurigo, col mio manager le avevamo preso delle mozzarelle di bufala che le piacevano, ma la mia gattina, che aveva diciotto anni, stava male e per starle vicina rimasi con lei: dissi al mio manager di avvisare Tina che non potevo andarci perché mi era morto il gatto… Non so se ci abbia creduto, ma era successo davvero».
Estratto dell’articolo di Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023.
La celebre pettinata a istrice biondo.
«Non avevo soldi, li ho tagliati io: aculei sul davanti e dietro una coda. Per la tinta invece sono andata dalla parrucchiera. Li avevo neri e rossi, li volevo biondi. Dopo un pomeriggio intero sono uscita con la testa arancione. […]».
Messa in piega da riccio.
«Con quintali di lacca e la piastra passata su ogni ciocca, alla fine li ho bruciati tutti. Ci dormivo pure. E al mattino mi spaventavo da sola». […]
Sfondare, che faticaccia.
«Gavetta di quelle toste. Già a 18 anni suonavo con mio fratello Giorgio e con Larry, il mio fidanzato. Seconda tastierista e cantante. Vivevamo in un buco di casa, il tavolino con le cassette della frutta dipinte di nero e sopra la moquette rossa, l’armadio, due assi inchiodate e un telo davanti, il letto, due reti legate con lo spago. Ma ero felice».
On the road.
«I pochi soldi che entravano servivano per l’affitto. Perciò si mangiava solo pasta, uova e insalata, il lunedì pizza. Gli strumenti li pagavamo con le cambiali, quelle con la statuina sulla sinistra, quante ne ho firmate. Giravamo con un Ford Transit e il carrellino attaccato dietro, che vergogna.
Si arrivava, si scaricava l’attrezzatura — ho imparato pure a fare una presa jack con il saldatore — si suonava per 5 ore e poi via tutto e di nuovo sul furgone, ritorno a casa alle sei del mattino. Una volta saltò l’impianto e mio fratello riparò il fusibile con un pezzo di ferro: prese fuoco tutto».
Fino a «Easy Lady».
«Facevamo già musica dance, in inglese, nostre produzioni con nomi inventati, tipo Ivonne K, in un piccolo studio di registrazione pagato sempre con le cambiali. Un giorno scrissi questo pezzo e proposi di metterci la mia immagine. Scelsi di chiamarmi soltanto Spagna, una dedica a mio padre Teodoro. A Valeggio sul Mincio i paesani lo prendevano in giro: “Ehi Spagna, tua figlia è già diventata famosa?”. Ne abbiamo stampate poche copie, le abbiamo mandate in Francia, le hanno prese due dj e in un attimo era ovunque». […]
Feeling con le colleghe festivaliere, da uno a dieci?
«Non ho mai avuto grandi amicizie, parlo poco per paura di perdere la voce. A un altro Sanremo dividevo il camerino con Patty Pravo. Io facevo i vocalizzi, lei si truccava. “ Ma cossa te canti ti? ”, mi chiese (la imita). Mitica Patty. Nel 2008 mi chiamò Loredana Bertè per il duetto, anche se poi la canzone fu squalificata.
Cantammo fuori gara per tre sere. Loredana è un uragano, una forza della natura, aveva disegnato persino i vestiti. Mi disse: “Dai, fatti i capelli belli gonfi”. Andai a dormire con le treccine, il giorno dopo le sciolsi e cotonai i capelli, un testone incredibile. “Perfetta”, approvò lei. Mi sono tanto divertita, la ringrazio ancora».
Rimorchiò Richard Gere.
«A Milano, cantavo per il Dalai Lama, c’era anche lui, in un angolo. Ad un tratto si avvicinò e mi prese la mano tra le sue, bello come il sole».
Il quadro per Tina Turner .
«Mi invitò alla sua festa di compleanno. Mi piace dipingere, perciò le feci un ritratto a olio, lo teneva sul camino nella casa di Zurigo».
Nel 1992 si sposò a Las Vegas, ma il matrimonio durò solo una settimana.
«Patrick, ex modello, produttore musicale. L’avevo conosciuto a Parigi, lavorava con Sandy Marton. Colpo di fulmine. Era impegnato, io stavo con Larry, non se ne fece niente. Mi cercò quando vivevo a Los Angeles. Dopo un mese mi chiese di sposarlo».
E lei?
«Ne parlai con un mio amico sensitivo, Mario De Sabato. Mi rispose: “Lascia stare, durerebbe una settimana”. Cerimonia in una cappella di Las Vegas, in jeans, pranzo di nozze con hamburger, birra e patatine. Scrisse il mio nome sul fondo della piscina vuota».
Post Romantico.
«No, scrisse “Spagna”, non “Ivana”. Fu il primo di tanti segnali rivelatori, capii che avrei sofferto e la chiusi lì».
La depressione profonda.
«Dopo la morte di mia madre, nel ’97, mi sono sforzata di concludere il tour. Prendevo troppe pastiglie, non dormivo. Mi chiusi in me stessa. Mi isolai. Avevo un corvo nero sulla spalla. Decisi di farla finita. Nella lucida follia ho pulito la casa, volevo andarmene lasciando tutto in ordine. Con calma fredda avevo organizzato ogni dettaglio».
Ci ha ripensato.
«Stavo per farlo, la mia gattina mi è saltata in braccio miagolando. E mi sono risvegliata dall’incubo. Ho pianto per ore. Ma ero di nuovo io. In un attimo la mia vita è cambiata. Ho capito che avrei punito le persone a me più care, non era giusto». […]
Ivano Fossati.
Da fanpage.it - Estratto venerdì 24 novembre 2023.
(...) Per sua natura estremamente riservata, furono pochi gli amori vissuti sotto i riflettori. La relazione più nota è di certo quella con Ivano Fossati. I due si conobbero nel 1977. Si amarono, collaborarono, si detestarono e si dissero addio nel 1983. Mia Martini parlò della fine di questa relazione in un'intervista rilasciata nel 1990 a Ivana Zomparelli per il magazine ‘Noi donne'. Descrisse un sentimento soffocato dalla gelosia e la sua difficoltà a credere fino in fondo all'amore di un uomo che, a suo dire, si sarebbe rifiutato di renderla madre:
"Intanto era iniziato, su basi sanguinolente e catastrofiche il rapporto con Ivano Fossati. E avevo il mio bel da fare con questo campo minato. Avevo un contratto con un'altra casa discografica e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, dei musicisti, di tutti. Ma soprattutto era geloso di me come cantante. Diceva che mi voleva come donna, ma non era vero perché infatti non ha voluto nemmeno un figlio da me, e la prova d'amore era abbandonare del tutto anche la sola idea di cantare e distruggere completamente Mia Martini".
Bruno Viani per “la Stampa” - Estratti venerdì 24 novembre 2023.
«La verità è che in questo momento la musica sta attraversando un cambiamento che è paragonabile solo a quello dei primissimi Anni '60: chi c'era allora, quando io avevo 14 anni, ha potuto vivere 60 anni di carriera perché fondamentalmente in questi decenni non è mutato nulla. Oggi il mutamento è totale».
Ivano Fossati, classe '51, una storia sul palco interrotta senza rimpianti nel 2012, aveva già tenuto laboratori di cultura musicale all'Università di Genova e la scorsa primavera era stato insignito della laurea Honoris Causa. Oggi torna da professore e accetta di raccontare questa nuova sfida accademica.
(...)
È una scelta di campo, contrapposta alla musica considerata "alta"?
«L'ho detto ai ragazzi, di musica alta si parla sempre: ma noi parleremo anche di quella bassa, leggera e leggerissima che viene sempre tralasciata. Magari si ascoltano i Pink Floyd, e io ho conosciuto gente che ha ascoltato per tutta la vita solo i Pink Floyd e non ha capito nulla, ma figuriamoci Rita Pavone o Morandi. E allora noi parleremo anche di quella musica che magari non ti è mai piaciuta ma quando la ascolti per radio casualmente ti viene voglia di alzare il volume».
Sono solo canzonette...
«Eppure ti prendono per il bavero, ti agganciano. Si impigliano nel cervello e nei sentimenti. Qualcuna finisce nel dimenticatoio, altre sono storicizzate e oggi sono la fotografia perfetta di un'epoca, non solo banalmente qualcosa che ti rimanda a un momento privato. Non dico che ciò che non piace debba improvvisamente piacere, ma è necessario essere consapevoli che esistono questi meccanismi e anche se ieri non le sopportavi oggi ti fanno alzare dalla sedia: canzoni che oggi magari ti infastidiscono e poi si impigliano nei tuoi neuroni e nei tuoi sentimenti»
(...)
Lei parla di momento cambiamento totale per la musica come negli Anni '60, cioè?
«La modalità della musica precedente è stata letteralmente cancellata dallo tsunami dei Beatles e dei Rolling Stones, io avevo 14-15 anni e noi ragazzini non ascoltavamo altro. Oggi lo posso dire, noi di Tenco non volevamo sapere nulla, non ci interessava nulla che non avesse un suono di chitarre elettriche. Fino ad oggi non è cambiato niente, la svolta è ora».
Cosa sono i giovani per lei?
«Forse per me sono la proiezione di quello che sono stato io, quindi in realtà abbiamo la presunzione di conoscerli e capirli, ma non è così. Siamo stati diversi e questo mi rende curioso, anche oggi che ho 72 anni e vedere le mie copertine nella sezione "Adult" mi fa sorridere, quasi fossero pornografici. Quando ho fatto la mia precedente esperienza tenendo laboratori universitari ho imparato da loro molto, lo dico davvero e senza retorica. Oggi qui ne ho visto molti di quei ragazzi che nel frattempo si sono laureati e mi fa piacere, è una bella sensazione di scambio culturale».
Ha parlato di svolta segnata dalle classifiche ufficiali di diffusione della musica, 7 brani su 10 sono rap o trap.
«Sì, ovviamente ci sono delle fluttuazioni, ma siamo arrivati a questo. E non significa niente di male, solo è necessario prenderne atto. Cambia la struttura delle canzoni, cambia il modo di scriverle. Se metti fianco a fianco un brano di un cantautore e uno di un rapper, vedi che il secondo è quasi sempre una monodia che a volte va avanti su un accordo solo. Non è un giudizio, è sempre una presa d'atto».
È musica anche questa?
«Sì ed esiste da tempi lontani, ha radici nella black music che in Italia è arrivata con un percorso più tortuoso attraverso l'Inghilterra. Ma anche i pezzi James Brown a volte sono una monodia».
La paura di molti genitori è che i brani inneggino alla violenza e siano sprezzanti nei confronti della donna.
«Sono contenuti che viaggiano spesso dentro questa musica, io certe volte resto senza fiato per il tipo di violenza che esaltano. Per capire, non per giustificare, dobbiamo considerare che anche questo viene da lontano, ha radici profonde in altre società che non sono la nostra. I cattivi maestri ci sono sempre stati, sta a noi cercare di non incontrarli».
Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “La Stampa” il 19 Giugno 2023.
«Nell'universo della mia pazzia, ho una nuova teoria, per me la gente vola». È difficile spiegare l'effetto che fa. Ma, insomma, Ivano Fossati è lì, in carne e ossa, seduto su una poltroncina di pelle marrone con il suo fisico imponente, un gomito appoggiato a una tastiera e un sorriso lungo e misterioso abbozzato sul volto inevitabilmente familiare.
[…] Intorno ci sono le chitarre, un microfono, molti libri e un Golden retriever che si rotola sul tappeto (Liù, femmina, tre anni). Naturalmente, in un angolo, un mappamondo. Lui, il Maestro (suppongo che odi essere definito così) risponde con quella voce che diventa subito canzone.
[…] Gli intellettuali, i Delirium, Mimì e Loredana, Battisti e Oscar Prudente, Keith Richards e Mina, Schlein e Meloni, Berlusconi e gli Anni Settanta, Guido Gozzano e il padre violento («Potevo diventare un brutto uomo»). Le donne. Sua madre e Mercedes (sua moglie) che hanno lavorato su di lui come fanno i giapponesi con i vasi rotti, li incollano con l'oro per renderli più belli.
[…]
«Alzati, che si sta alzando la canzone popolare». Ivano Fossati si aspettava che andasse in questo modo?
«Guardi, è una canzone che ho scritto quattro anni prima che l'Ulivo la utilizzasse per i suoi comizi. E aveva un intento completamente diverso».
Non era un inno per il centrosinistra?
«Solo una canzone facile da cantare assieme. Con l'obiettivo preciso che ha la musica popolare: unire le voci. Era già la sua funzione nell'antichità, indipendentemente dal fatto che si parlasse di amore, di lavoro o di piccole cose. Quando l'ho buttata giù pensavo a quello, non alla politica».
Il vento del popolo si è messo a soffiare a destra. Stupito?
«Non direi. La verità è che la nostra capacità di previsione è molto limitata. Io nelle previsioni umane non credo più da tempo».
Chi ha sbagliato più forte in questi anni?
«Vogliamo fare una classifica?».
Basta il primo posto.
«Chi ha distrutto la scuola. La devastazione sistematica dagli anni Sessanta ci ha portato ai risultati di oggi. Se si può parlare di demerito, di colpa, quello è il più grande».
Lei si sente un uomo di sinistra?
«Mi ci sono sentito senz'altro. Fino a quando ho visto che stavo camminando sulle sabbie mobili. Oggi non mi definirei più così».
Come si definirebbe?
«Difficile dirlo. Amo scartate, come fanno certi cavalli che non vogliono farsi domare. Per questo ho risposto così. Poi c'è il mio lavoro che parla per me. E anche se le idee corrono in fretta e le cose cambiano, in effetti le mie idee di fondo sono rimaste quelle».
[…] «Smetto di andare a scuola, faccio il musicista». Sua madre pensò che fosse un matto?
«Mia madre era una persona con un'apertura mentale piuttosto rara. Mi disse: va bene, basta che sia davvero un mestiere. Non voglio vederti in giro per casa con la tua chitarra a fare lo scemo».
Coraggiosa.
«In famiglia c'erano già dei professionisti. La sua sicurezza derivava da quello. Ma devo dire che la sua reazione stupì anche me. Anche perché la nostra situazione economica non era propriamente florida».
Quanto ci mise a ottenere il primo ingaggio?
«Due mesi. Mi chiamò un'orchestrina che suonava in riva al mare in un locale che esiste ancora in Corso Italia. Serviva un sostituto per il chitarrista».
Come andò?
«Decisero di tenermi per tutta l'estate».
Suonava e cantava?
«All'inizio suonavo. Poi il cantante si prese il mal di gola. Mi fecero esibire con "Let's go get stoned". Un brano che cantava anche Ray Charles. La bofonchiai con un inglese fonetico più che grammaticale».
Un successone?
«Non so. Comunque me lo fecero rifare».
Che rapporto ha con la sua voce?
«Non buono. Avevo imparato a suonare il piano, la chitarra e il flauto. Sognavo di fare il jazzista. Cantare era l'ultimo dei miei obiettivi. Neppure adesso amo la mia voce».
Qual è la voce più a voce più bella che ha sentito?
«Nick Drake».
Quello di Pink Moon?
«Lui».
Tra gli italiani?
«Lucio Battisti. Nonostante molti si ostinino a dire che non è stato un grande cantante».
Perché lo dicono?
«La verità è che tantissima gente non ci capisce niente».
Che rapporto ebbe con Battisti?
«Me lo presentò Oscar Prudente. Stava registrando "Il mio caro angelo" e ci raccontò come avrebbe usato la chitarra elettrica in un modo semplice, ma che nessuno aveva mai utilizzato. Ci contagiò immediatamente».
[…]
Quando scoprì di avere una capacità di scrittura diversa dal normale?
«Non saprei dire l'anno, ma so che a un certo punto ho cominciato a scrivere dal niente».
Che cosa significa?
«Che non avevo un progetto. Non mi ero detto: adesso voglio scrivere canzoni. Una mattina ho preso la chitarra e invece di suonare la canzone di un altro ho fatto la mia».
Titolo?
«"Canto di Osanna", registrata con i Delirium, un successo europeo. L'ho scritta in cucina, guardando la lavatrice. Ma non è che avessi il fuoco sacro. Non ce l'ho mai avuto».
La vocazione, quella almeno ce l'aveva?
«Quella sì. Unita a qualche talento. Ma il fuoco sacro davvero no. Quando ho smesso di fare concerti tanti si mi hanno detto: ma come, non ti mancherà il palcoscenico?».
Domanda giusta.
«Domanda sbagliata. E comunque risposta semplice: no. Non avevo intenzione di morire sul palco come gli attori dell'Ottocento. Volevo decidere io. Peraltro quando finivo i concerti, non vedevo l'ora di scendere dal palco».
Non amava neppure suonare?
«Quello moltissimo. Mi sentivo a mio agio. Era come entrare in una bolla e ho sempre fatto mia una frase di Keith Richards: i concerti sono una meraviglia perché in quelle due ore nessuno può romperti le palle».
Perché con i Delirium finì subito?
«Colpa di Sanremo».
Mike Bongiorno presentatore, 1972. Che cosa successe?
«Sanremo non ci serviva, che "Jesahel" avrebbe funzionato era chiaro a tutti. Noi non volevamo andare, la casa discografica insistette».
Che male vi fece?
«Salimmo sul palco, cantammo e alla fine sentimmo un po' di fermento. Era andata bene. Poi ciascuno passò la serata per conto suo. Io a bere birra».
Non ho ancora capito il problema.
«Il mattino dopo, nel nostro alberghetto arrivò una marea di giornalisti e di fotografi. Un assalto. Fu evidente che era successo qualcosa di inaspettato. Eravamo senza manager, senza produttore, senza ufficio stampa. Quel successo sgangherato ci travolse. Ma vendemmo oltre un milione di dischi».
Jesahel vi fece ricchi?
«No. Ho appena ritrovato il contratto in un archivio, ci garantiva il 4% dei profitti. E noi eravamo in cinque. Non faceva neanche l'1% a testa».
Faccio un salto avanti, 1978. Lei scrive tre testi clamorosi per Anna Oxa, Loredana Bertè e Patty Pravo: Un'emozione da poco, Dedicato e Pensiero Stupendo.
«Avevo un contratto con la Rca. Si accorsero che ero un autore da tenere d'occhio. Mi mandarono in America a collaborare con un gruppo e mi chiedevano canzoni in continuazione. Un giorno il direttore generale della casa discografica mi disse che voleva qualcosa di eclatante per Nicoletta Strambelli».
Patty Pravo?
«Patty Pravo. Ne parlai con Oscar. Abbiamo qualcosa? Ci venne in mente "Pensiero Stupendo"».
L'aveva già scritta?
«Sì. E l'avevo messa da qualche parte in un cassetto».
Non le piaceva?
«Tutt'altro. Solo che all'inizio, quando proponevamo le nostre canzoni, nessuno le voleva. Quando hanno cominciato a cercarci il nostro divertimento maggiore era quello di riportare i testi che ci avevano bocciato. Pensiero Stupendo ci mise dieci giorni per diventare un successo».
Parlava di un triangolo.
«Per non capirlo bisognava avere il prosciutto sugli occhi, o, meglio, sulle orecchie».
In molti finsero di averlo. Ci furono un lungo dibattito e molti scrupoli moralistici.
«Eppure io credo, se posso dirlo senza presunzione, che il tema fosse trattato con delicatezza, persino con eleganza. Ma è difficile negare che il testo fosse chiaro».
Erano due donne e un uomo o due uomini e una donna?
«Sulla copertina del disco non era specificato».
E nella sua testa?
«Forse è la prima volta che mi viene chiesto. Immagino di avere ragionato su due donne e un uomo, il contrario sarebbe stato un po' più greve».
C'è mai stato niente tra lei e Loredana?
«Assolutamente no. Io con lei, e grazie a lei, ho prodotto tre dischi e lavorato molto in America. Era diverso dall'Italia. Le difficoltà erano più grosse. Ma andò così bene che mi chiesero di rimanere a New York a fare il produttore. Rifiutai».
Perché?
«Ci pensai, scelsi la famiglia, avevo un figlio piccolo».
Rimpianti?
«No. Me li vieto. E poi chi lo sa. Avrei guadagnato delle cose e ne avrei perse delle altre».
Com'era New York?
«Viva. Andavamo a cena al Mister Ciao con i musicisti. Era facile incontrare Mick Jagger o Andy Wahrol».
Fa molto droga e rock and roll.
«Io nella droga non mi ci sono mai buttato dentro. Ero impermeabile. Non so se fosse disinteresse o paura».
[…]
Il 1978 fu anche l'anno del rapimento Moro.
«Il Paese era oscuro già da parecchio. In quel decennio sembrava che qualcuno avesse abbassato la luce. La sera le strade erano vuote. L'appartenenza obbligatoria. Io e Oscar, per avere pubblicato un album con delle canzoni d'amore fummo accusati di essere dei fascisti. Anni difficili».
Poi arrivò la Milano da bere.
«Non mi sono piaciuti tanto neppure gli anni Ottanta».
Silvio Berlusconi incarnò la sbronza collettiva.
«Non sono mai stato, come dire, un suo fan».
Si sente un intellettuale?
«Me lo sono sentito ripetere spesso e ho sempre cercato di respingere la cosa».
Snobismo?
«Figuriamoci. Ma ho bene in mente che cos'è un intellettuale. In Italia per diventarlo basta mettere insieme tre aggettivi. Penso lo stesso quando mi danno del poeta. Forse non sapendo che cosa siano letteratura e poesia».
Cos'è la poesia?
«Io ho un amore per Guido Gozzano».
La signorina Felicita ovvero la Felicità?
«Esatto. Mi dà fastidio pensare che da ragazzino, a scuola, lo trattavano come un minore. Ha qualità, ironia, sensibilità, intelligenza e sensualità. Ha presente Le Golose?».
Vado a googlare: io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie.
«Ecco. E dovrebbe andare avanti. Allusivo e sensuale in un tempo in cui era praticamente proibito».
[…]
Le piace Elly Schlein?
«È una donna, dunque ha una marcia in più. Oltretutto parla chiaro e questo mi bendispone».
Giorgia Meloni?
«Non è un po' presto per pensare qualcosa di Giorgia Meloni?».
Ha una storia.
«Ma io parlo del suo operato di governo. Ci sono quelli che hanno sempre un'opinione in tasca e ce l'hanno già il giorno dopo. Io no. Certo, questa apertura a destra del Paese mi lascia perplesso. Sono anni che parliamo di una destra democratica, europea, anche se quando lo diciamo poi ci viene da fare l'espressione che ha lei in questo momento».
[…]
Fossati, parliamo di donne?
«Oddio, sono troppo vecchio».
C'è chi mi odia per gli amori di un'ora e chi mi cerca ancora. Era il turbinio della vita o una licenza poetica?
«Quando fai il mestiere che ho fatto io e hai venti, trent'anni, entri nel frullatore».
E?
«Certamente non è sgradevole».
Ha inciso molto sul suo ego?
«In verità no. Mi sono sentito molto spesso inadeguato. Dei sentimenti sono stato capace di scrivere, ma ho già confessato in passato di non averci capito gran che. Ho dato la colpa alle valigie che avevo sempre in mano. Era più facile».
Parlare di Mia Martini l'affatica?
«Non mi affatica per niente. Mi affatica il fatto che di lei si parli sempre con pruderie».
Ha avuto un destino complicato.
«Sì, anche se è vero fino a un certo punto. La cosa che andrebbe detto a gran voce, sottolineandolo con stendardi e bandiere, è quanto grande fosse quell'artista».
Qual era la sua differenza?
«La prima cosa che ti colpiva era la tecnica smisurata. Unita a una intelligenza e a una sensibilità incredibili, perché la tecnica senza intelligenza musicale non è niente».
Me lo spiega meglio?
«Il massimo si raggiunge quando il pensiero lavora una frazione di secondo prima dell'emissione della voce. Una cosa che a Mia Martini succedeva. E che succede a Mina».
L'ha molto amata o lo ha scoperto dopo?
«È stata una storia con i suoi alti e bassi. Credo che il resto ce l'abbiano messo gli altri».
Musicalmente meglio Loredana o Mimì?
«Mia Martini era più sofisticata, cercava la raffinatezza. Avrebbe potuto scalare qualsiasi vetta. Loredana è una vera artista rock. Anche adesso. Va a fondo e risveglia quell'istinto primordiale che c'è in ognuno di noi».
Sua moglie Mercedes ha detto: Ivano è una persona di cui senti subito la mancanza anche se lo conosci da poco.
«Bellissimo. Non so se sia vero. Non mi sento indispensabile, uno che esce dalla stanza e lascia un vuoto. Ma mi fido di Mercedes e allora spero che abbia ragione».
[…]
Ha paura della morte?
«No. Ma della sofferenza sì. L'ho vista da vicino».
Quando l'ultima volta?
«Mia mamma. L'ho vista stare male anche negli ultimi istanti. Avrei volentieri preso quella sofferenza su di me».
Quello vuole dire amare.
«È stata una guida per me e per mio figlio, ci ha talmente travolti di amore, che è inevitabile».
Che idea le rimane di suo padre?
«Orribile».
Anche dopo tanti anni?
«Mio padre oggi sarebbero uno di quelli monitorati. Era violento».
Anche con lei?
«No. Con mia madre. Ho assistito a cose che non auguro a nessuno».
Le ricorda ancora?
«Ho quasi 72 anni, ma quella violenza la vedo con la stessa chiarezza con cui vedo quel quadro. Eppure questa ferita non mi ha impedito di avere una mia famiglia. A volte, quando ne parliamo, mia moglie mi dice: è andata bene. Avrei potuto essere un uomo brutto».
Come è nata la collaborazione con Mina?
«Già negli anni Novanta avremmo dovuto lavorare assieme. Nel 2018 si è ripresentata l'occasione».
Ma lei non si era già ritirato?
«Sì, ma ho pensato: quella è Mina».
Esiste davvero?
«Esiste. Ed è sempre lei». […]
Jack Nicholson.
Estratto dell’articolo di Arianna Finos per repubblica.it domenica 13 agosto 2023.
Il ricordo di Jack Nicholson – […] Corinthia […] glorioso albergo londinese, a un passo da Trafalgar Square […] l’agitazione del dover affrontare Nicholson, consapevole della rarità dell’evento, preoccupata dall’imprevedibilità del carattere. […] Entro finalmente nella stanza. Nicholson, di persona meno vecchio di come appare sullo schermo in quel film dimenticabile uscito nel 2007, mi invita a sedermi vicino a lui su una panchetta. Sbircia dalla mia parte, intercetta il foglietto ripiegato e dice: «Mica avrà una lista di domande, vero?». Lo faccio sparire in tasca.
Lui rigira la sigaretta tra le dita: «Le dispiace? La stanza d’albergo è rimasto l’unico posto in Inghilterra dove si può fumare». […] Per Nicholson ci sono due costanti, sigaretta e occhiali da sole: al paparazzo che durante il photocall del mattino gli ha chiesto di togliersi le lenti, ha ghignato: «Tu sei nuovo del mestiere, vero».
Stavolta, siamo nella penombra, gli occhiali se li toglie, e pian piano si gira dalla mia parte, lo sguardo diretto, il fare morbido. Si parla di arte – nella villa a Mulholland Drive ha opere di Picasso e de Lempicka, «per me dipingere è una seconda lingua», dice, «ho iniziato ritraendo i miei figli» – , di politica, anni Settanta, cinema italiano. Professione: reporter «l’esperienza più esaltante, il viaggio rocambolesco nel deserto africano, l’allegria della troupe italiana, Michelangelo Antonioni una figura paterna, meraviglioso e iconoclasta».
Racconta di quando, 20enne, trascinò Warren Beatty a vedere Il posto di Ermanno Olmi. Al ricordo di Marcello Mastroianni e Alberto Sordi, ride: «Marcello era meraviglioso, e Alberto...»: rifà il gesto dell’ombrello di Sordi ne I vitelloni, con tanto di urlaccio: “Lavoratoriiii”. Ha appuntamento a cena con Bernardo Bertolucci: «Siamo amici, ci incontrammo giovanissimi a Pesaro, peccato non aver fatto un film insieme». E io ho provato a immaginarla più volte, quella cena tra titani.
Quella da istrione per Nicholson è una posa da tappeto rosso, a 70 anni (allora, nel 2008, oggi ne ha 86), si era appena ripreso da un’infezione alla gola dopo le riprese di The Departed di Scorsese. «Un tempo, quando visitavo qualcuno in ospedale ostentavo buonumore, cercavo di far ridere la gente. Dopo i miei viaggi notturni tra i corridoi, aver visto i pazienti morire più per le visite che per le malattie, districarsi soffrendo tra i tubi, correre a vomitare al gabinetto, ho imparato il valore del silenzio». […]
Da lastampa.it il 13 Gennaio 2023.
Jack Nicholson non esce più di casa. Lo confidano ai giornali gli amici di sempre, che si dicono preoccupati per la salute mentale dell’attore. «Morirà da solo», hanno confidato alcuni insider a RadarOnline notando che è da più di un anno che l’attore non viene visto in pubblico. L’ultima volta è stata nell'ottobre 2021, quando ha accompagnato il figlio Ray a una partita di basket.
«Fisicamente sta bene, ma il suo cervello è andato», ha detto una fonte alla rivista di gossip. La preoccupazione più grande: quella di una possibile demenza senile, anche se in passato voci analoghe erano state smentite. Nel 2013, sempre tramite RadarOnline, era trapelato che il divo, 85 anni lo scorso 22 aprile, aveva smesso di recitare per problemi di memoria nel ricordare le battute. Da qui la scelta, sembrerebbe, di non accettare più copioni.
Secondo gli insider, Nicholson sarebbe ancora in contatto con qualche parente, soprattutto il figlio Ray e la figlia Lorraine, ma non avrebbe più contatti con il mondo esterno, nemmeno con gli amici più cari. «Ha fatto della sua casa il suo castello – si legge – È come se non volesse più affrontare la realtà». Secondo le fonti, gli amici temono che la sua fine possa rispecchiare i tristi ultimi giorni del grande Padrino Marlon Brando, suo vicino di casa per anni a Beverly Hills.
«Brando è morto da recluso virtuale dopo aver condotto una vita così colorata, e gli amici di Jack stanno facendo i paragoni». Anche Brando, che è morto nel 2004, passò infatti isolato gli ultimi anni dalla sua vita.
Jack Nicholson, da un anno il divo non esce più di casa. "Temiamo possa morire come Marlon Brando". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 13 gennaio 2023.
Preoccupati gli amici dell'85enne attore, tre volte premio Oscar. "I figli Ray e Lorraine lo vanno a trovare, ma sono rimasti il suo unico contatto col mondo"
Jack Nicholson si è ritirato dalle scene nel 2010, vive ritirato nella sua villa a Mulholland Drive, ma si è isolato dal mondo e gli amici dell'attore tre volte premio Oscar temono che faccia la fine di Marlon Brando. "Morirà da solo", hanno confidato alcuni insider a RadarOnline notando che è da più di un anno che il divo di Shining, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Qualcosa è cambiato, che ha compiuto 85 anni lo scorso 22 aprile, non viene visto in pubblico.
L'ultima uscita pubblica
L'ultima volta in cui Nicholson è stato fotografato in mezzo alla gente è stato nell'ottobre 2021 quando ha accompagnato il figlio Ray, nato 30 anni fa dalla relazione con Rebecca Broussard, a una partita di basket. La comunità di Mullholland Drive, a Los Angeles, (dove vivono tante star di Hollywood) è molto unita e sono tutti preoccupati: "Jack non esce più". Fisicamente sta bene, ma "il suo cervello è andato", ha detto una fonte elencando tra le preoccupazioni quelle di una possibile demenza senile.
L'ultimo film
Dopo oltre sessanta film (il primo è stato The cry killer del 1958), l'ultimo lavoro in cui Nicholson ha avuto una parte risale al 2010: la rom-com Come lo sai (How do you know) con Reese Witherspoon, Paul Rudd e Owen Wilson. Nel 2013 l'attore aveva smesso di accettare copioni: "Problemi di memoria. Non ricorda più le sue battute", avevano detto fonti a RadarOnline.
Pochi contatti esterni
Ora Jack è in contatto con alcuni parenti, soprattutto con Ray, il figlio prediletto, ma i giorni della sua vita sociale sembrerebbero finiti. Nicholson è stato sposato dal 1962 al 1968 con l'attrice Sandra Knight, da cui ha avuto una figlia, Jennifer (1963). Nel 1970 ha avuto un altro figlio, Caleb James, dalla sua relazione con l'attrice Susan Anspach e nel 1981 ha avuto Honey, dalla relazione con l'attrice danese Winnie Hollman. Dal 1973 al 1989 è stato legato all'attrice Anjelica Huston, che lo lasciò quando scoprì che Nicholson stava per avere un figlio dall'attrice Rebecca Broussard, da cui poi ebbe Lorraine (1990) e Raymond (1992). Nel 1994 anche questa relazione finì. Dal 1999 al 2000, Nicholson ha frequentato l'attrice Lara Flynn Boyle; i due si sono successivamente rimessi insieme, per poi lasciarsi definitivamente nel 2004.
Vicino di casa con Marlon Brando
A Beverly Hills è stato per decenni vicino di casa di Marlon Brando; dopo la sua morte, ne ha acquistato la villa, una dimora di 300 metri quadri pagata 5 milioni di dollari, che l'attore "considera il suo castello". Il timore degli amici è che 'lo spirito del luogo' stia influenzando l'involuzione sociale di una star dalla vita sociale un tempo molto movimentata. Anche Brando, che è morto nel 2004, passò isolato gli ultimi anni dalla sua vita: "Gli amici di Jack fanno paragoni. Ray e Lorraine lo vanno a trovare, ma sono rimasti il suo unico contatto col mondo".
Jane Fonda.
Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per lastampa.it il 27 maggio 2023.
L’ultima lotta riguarda il cambiamento climatico, ma nella vita di Jane Fonda, protagonista ieri al Festival di un incontro aperto a un pubblico entusiasta e intergenerazionale, combattere, credere nelle proprie idee, trasmetterle agli altri, è regola di vita applicata fin dagli esordi, quando era una fantastica bionda, figlia d’arte, spregiudicata e ribelle: «Oltre al lavoro e alla carriera, per me ci sono sempre state tante altre cose, non mi sono mai sentita parte del meccanismo hollywoodiano, per andare avanti c’è bisogno di significati».
Lei ne ha trovati tanti, spesso grazie ai film interpretati, ma soprattutto grazie a una caratteristica che le appartiene nel profondo: «Il mio segreto? Non ne ho. Anni fa mi sono rivolta alla chirurgia plastica, ma non ne vado orgogliosa. Oggi ho semplicemente un bravo truccatore, per il resto dormo, cammino, e sono molto curiosa, la curiosità è fondamentale». Un anno fa Fonda ha lanciato, con Greenpeace Usa, il Jane Fonda Climate Pac, destinato a osteggiare gli alleati politici dell’industria dell’energia fossile: «Non dobbiamo perdere tempo né aspettare di vedere con i nostri occhi le conseguenze tragiche dei comportamenti sbagliati nei confronti di clima e natura. Non è solo importante protestare, dobbiamo impadronirci del potere, imparando a bocciare leader che non si occupano adeguatamente dell’ecosistema».
Femminista e pacifista dai tempi della guerra in Vietnam, Fonda ha passato in rassegna, durante l’incontro, la sua intera carriera, dalla parodia western del ’65 Cat Ballou alla commedia evergreen A piedi nudi nel parco al fianco di Robert Redford («Ero innamoratissima di lui, ma non voleva mai baciarmi sul set»), da Sindrome cinese a Una squillo per l’ispettore Klute, affrontato dopo un’immersione totale nel mondo della prostituzione, fino a Sul lago dorato, ultima prova del leggendario padre Henry. Ogni set è stato occasione per conoscere, indagare, scoprire: «Oggi il mio progetto più importante è fare solo film che costituiscano una vera sfida». Il MeToo, secondo Fonda, «ha fatto la differenza, ma la strada è ancora lunga, non è affatto finita. Essere aggredite e poi non essere credute è uguale a subire due volte violenza».
(..)
Barbara Costa per Dagospia il 25 giugno 2023.
“Adoro farmi sc*pare come una p*ttana!”. Queste sono le ragazze che mi piacciono: spudorate, sicure di sé, senza lagne da postare per farsi commiserare! Se poi hanno un c*lo che ti manda fuori di testa abbinato a due tette che non si riesce a capire se siano naturali o no per quanto sono deliziose, non ci sono dubbi: siamo davanti a Jennie Rose, astro nascente del porno, e una che i peli ce li ha ma radi sul sesso, non certo sulla lingua: “Il mio corpo è molto più bello di altri che vedo nel porno. E io nuda sono molto più sexy che vestita”.
Jennie Rose ha 31 anni, è nel porno dallo scorso novembre, e in rete non esistono suoi nudi, di nessun tipo, prima del suo porno esordio sui set professionali. Jennie è metà coreana e metà americana, ha vissuto nelle Filippine fino ai 10 anni, fino a che i suoi genitori l’hanno portata negli Stati Uniti, a Chicago. Lei è stata cresciuta a cibo coreano e religione, la sua è progenie di pastori protestanti in più ramificazioni: “Mio nonno è ministro di culto, i fratelli di mio nonno pure, e mio padre e i suoi di fratelli sono tutti ministri di Dio”.
Sicché Jennie ha studiato in scuole religiose, e ha una madre conservatrice pure di lingua, nel senso che la mamma è venuta negli USA ma non ha mai voluto imparare una parola di inglese. Jennie se n’è andata via da casa a 17 anni, quando i suoi hanno divorziato, e divorziato male: suo padre è sparito. Jennie è andata a vivere da una sua amica, e i genitori di quest’ultima, e con lavori part time ha finito la scuola e ha frequentato il college. Poi si è trasferita a Los Angeles, ma non per fare porno. Ha fatto altri lavori sognando di sfondare – e ancora sogna – con le sue opere “di espressionismo astratto”.
Jennie ha perso la verginità a 18 anni col suo primo ragazzo. Lo ha lasciato a 27. Dopo di lui ne ha avuti altri 10. Solo sc*pamici. Seppure a casa sua il porno fosse il demonio, Jennie ha trovato modo e piacere di onanisticamente sperimentarsi e sentite in che modo: con i cetrioli! Ora: io capisco l’invogliamento che i cetrioli, per forma e misura a scelta, ispirano in vagine ingorde, ma, tra gli ortaggi, il cetriolo è il meno raccomandato a convertirsi in sex toy.
E comunque prima di infilarvelo… pelatelo!!! E metteteci un preservativo. Il cetriolo può causare serie intime infiammazioni, alla peggio abrasioni, e questo vale pure se ve lo infilate dietro. Jennie ha deciso di provarci, col porno, e dopo che, pienamente single, si è ritrovata a masturbarsi, cetriolo e no, 5 ore di seguito. Lei ha mandato le sue foto ad agenzie porno di grido, una delle quali l’ha contattata e presa dopo ore e ore di colloquio. La scena di debutto di Jennie è il lesbo per "Slayed" con Lulu Chu (ehi, ma quanto s’è sfrenata Lulu Chu, che l’ano non se lo depila più?).
Jennie Rose ha intenzione di rimanere nel porno 2 anni. Minimo. Ha tante scene in uscita, e tante per "Brazzers". “Voglio provare tutto!”, dice, famelica, e tra questo tutto anche le doppie, “e gang bang e blow bang”, tuttavia ha più di un’esitazione nei confronti dell’anale. Jennie una sola volta ha saggiato l’anale, non con un cetriolo ma con un pene vero, e non è andata per niente bene: ha sentito dolore. Non ci ha più ritentato.
E Jennie non ha rivelato a nessuno della sua famiglia della sua "sterzata" nel porno. Non so se e quanto i suoi genitori siano illetterati del web, e del porno sul web, ovvio che non può tenerli all’oscuro a lungo. Lei dice che sta scrivendo una lettera a sua madre, per spiegarle e spiegarsi. Auguri. Nel frattempo, si trovi nel porno scena e collega capaci di farla venire! Finora gli orgasmi non lesbo di Jennie davanti alla telecamera “sono tutti finti, ma riconosco che mi ci sono divertita come non mai!”.
Sul set non ha preferenze, ma in privato Jennie esce con uomini più giovani che, per farla eccitare, non devono risparmiarsi nei preliminari. Con un tipo che le piace sul serio, Jennie gode pure nel missionario il più scontato. È nello sperma, che il suo palato si fa esigente. Sofisticato.
Jeremy Renner.
(ANSA l’8 aprile 2023) Jeremy Renner considerò l'eutanasia dopo l'incidente sulla neve dello scorso Capodanno in cui rimase travolto da un cingolato di oltre sei tonnellate. Lo ha rivelato lo stesso attore nella sua prima intervista televisiva con Diane Sawyer, in onda sulla Abc. "Non fatemi vivere attaccato ad un macchinario", ha detto ricordando una conversazione con la sua famiglia.
"Lasciatemi andare - continua - se la mia esistenza sarà con i farmaci". Alla fine ha scelto di sopravvivere e ora si sente un uomo fortunato. Durante l'intervista ha anche sottolineato che la colpa per tutto ciò che è successo è solo sua e si sente responsabile per aver causato tanto dolore alla sua famiglia.
L'intervista televisiva precede di pochi giorni il debutto di Rennervations, l'ultima serie di Renner per Disney+. Secondo Variety, l'attore parteciperà di persona alla prima mondiale l'11 aprile a Los Angeles.
DAGONEWS il 19 gennaio 2023.
Una concitata chiamata al 911 da parte del vicino di Jeremy Renner ha rivelato le grida angosciate dell'attore degli Avengers nei momenti successivi allo schiacciamento da parte di uno spazzaneve di 14.330 libbre.
Il 52enne stava aiutando un familiare in panne vicino alla sua villa vicino al lago Tahoe, in Nevada, quando è stato travolto dal gatto delle nevi.
Nell'audio rilasciato a TMZ si sente Renner lamentarsi ripetutamente durante la chiamata d’emergenza.
Amici e familiari vicini alla star di "Bourne Legacy" hanno detto che è "quasi morto" nell'attesa dei soccorsi e che potrebbero volerci fino a "due anni" per riprendersi dal trauma toracico e dalle lesioni ortopediche.
Nella clip audio si sente il vicino non identificato che dice a Renner di "stare fermo" mentre l'operatore di emergenza gli fa delle domande sulle condizioni del malcapitato.
L'audio chiarisce che il 52enne aveva bisogno di attrezzature salvavita e che ha gridato in agonia per oltre 15 minuti.
Renner è stato poi trasportato in ospedale in aereo, da una strada privata coperta da una fitta coltre di neve.
Il filmato mostra l'elicottero di emergenza decollare dal paesaggio invernale e scomparire dietro le montagne innevate.
Le condizioni di Renner sono state descritte da fonti vicine all'attore americano come molto più gravi rispetto a quanto riportato in precedenza.
Secondo quanto riferito, l'attore è consapevole di avere davanti a sé una lunga strada per il recupero, e gli amici dicono che potrebbero volerci fino a due anni prima che torni in forma.
“Jeremy soffriva molto e aveva difficoltà a respirare", ha dichiarato una fonte a RadarOnline. “Sapeva di essere in cattive condizioni e che avrebbe potuto non farcela.”
“Si dice che il danno al torace fosse così consistente da dover essere ricostruito in un intervento chirurgico", ha continuato la fonte.
“Finora ha subito due interventi chirurgici e probabilmente ne richiederà altri nelle prossime settimane. I medici tendono a distanziare le operazioni per dare tempo al naturale processo di guarigione del corpo".
I membri della famiglia di Renner sono stati al suo fianco, come la madre Cearley e la sorella Kym e lo stanno aiutando a divertirsi mentre lotta per la guarigione.
Lunedì, Renner ha condiviso sui social media una foto di uno scenario innevato a Lake Tahoe.
Il 52enne attore di Mayor Of Kingstown ha detto che gli mancava il suo "luogo felice".
La settimana scorsa la sorella Kym ha dichiarato a People che Jeremy sta lavorando duramente per recuperare la salute con una terapia in ospedale.
“Non potremmo essere più ottimisti riguardo alla strada da percorrere" ha dichiarato.
Nel mentre, la seconda stagione del dramma d'azione della star, Mayor Of Kingstown, ha debuttato domenica sera su Paramount+, e un post sui social media ha dato ai suoi amici e fan l'opportunità di inviargli affetto ed auguri.
Jerry Calà.
Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera domenica 6 agosto 2023.
(...)
Per «Sapore di Mare» prese certi ceffoni da Virna Lisi.
«Prima di girare la scena, Virna si scusò: “Mi spiace, ma io gli schiaffi finti non li so dare”. “Si figuri, nessun problema”. Che sberla. Era buona la prima, ma Carlo Vanzina ce la fece ripetere otto volte».
Baciare Marina Suma fu un altro bel problema.
«Nel cast c’era Angelo Cannavacciuolo, il fidanzato. Gelosissimo, ci controllava. Chiedevo al mio amico Mao di portarlo via con una scusa».
Nella scena finale, al suo fianco, un’esordiente Alba Parietti. Ha raccontato che fu lei ad abbordarla quando, tutta leopardata, passava davanti alla Rai di Torino.
«Alba non si tiene un cecio in bocca! Non mi ricordo se era leopardata, però sì, le ho chiesto il numero, avevo vent’anni, eh. Tempo dopo, in città per uno show dei Gatti, la chiamai. “Porta un’amica”. A cena, io ero seduto vicino ad Alba, Oppini all’altra ragazza. Ma loro due continuavamo a parlarsi, fulminati, ignorandoci. Franco urlò: “Cambio!”. E incrociammo posti e coppie. Uno smacco? No, con Alba non eravamo compatibili. E poi mi piaceva l’amica».
«Vacanze di Natale».
«Una banda di matti, padroni di Cortina. La sera si faceva baldoria. Una notte mi addormentai in baita, ciucco, dopo aver bevuto la “coppa dell’amicizia”, mix di grappe. Mi dimenticarono e rimasi lì. L’indomani venne a prendermi per le orecchie un furibondo Aurelio De Laurentiis».
A Las Vegas con De Sica per «Vacanze in America».
«La produzione ci aveva prenotato una normale stanza al Caesars Palace. Ma al check in l’impiegato riconobbe il cognome di Christian. “Parente? Il figlio?” E ci assegnò una favolosa suite con piscina».
Che film, quei film.
«Tengono il tempo, diventano cult. Erano e sono tanta roba, i Vanzina».
E sempre a Las Vegas si sposò con Mara Venier.
«Scegliemmo una cappella a caso, non avevamo i testimoni, prendemmo due persone al volo dal casinò, una ballerina e un croupier, festeggiammo con una pizza a forma di torta o una torta a forma di pizza, non ricordo».
Un amore travolgente.
«Diventato una grande amicizia. La nostra canzone è: “Gente come noi, che non sta più insieme, ma che come noi, ancora si vuol bene”».
Lei però «era molto birichino», parole di Mara, e pure al party nuziale...la sorprese in bagno con un’altra.
«Ma noooo».
Racconti la sua versione.
«Organizzammo un party per gli amici al Chucheba di Castiglioncello. Mentre Renato Zero cantava, io parlavo fitto fitto con una tipa. Mara, fumantina e gelosa, mi rincorse per tutto il locale. Renato era entusiasta: “Ahò, quanto me so’ divertito”. Le donne sono più mature, io a 32 anni ero un cazzone, non all’altezza».
Viveva per il lavoro.
«La domenica sera telefonavo a tutti i cinema per sapere com’era andato il mio film, ormai conoscevo le cassiere. Se gli incassi erano così così, cambiavo umore, diventavo insopportabile. E questo era motivo di litigio con Mara».
Nel 1994 la sua auto finì nell’Adige, ma lei si salvò.
«E ho resettato i valori. Anche l’infarto (a marzo, sul set del film “Chi ha rapito Jerry Calà?”) è stata una botta. Cose così ti ricordano che è importante la vita, non il resto. E ti ci attacchi ancora di più».
E pure i dottori...
«Mentre mi mettevano gli stent, mi hanno chiesto di dire: “Libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi”».
E lei?
«Li ho accontentati. Non mi scoccia, al pubblico è giusto dare sempre ciò che vuole».
Gli haters all'attacco dell'attore. Jerry Calà, dopo l’infarto ecco l’odio online dei No Vax: “Commenti ignobili, non li leggo”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Marzo 2023
Sta bene, le sue condizioni sono “in deciso miglioramento”. Il mondo del cinema, e non solo, tira un sospiro di sollievo per Jerry Calà, il 71enne attore che nella notte tra venerdì e sabato abbia dovuto affrontare una delicata operazione per uno stent coronarico dopo l’infarto che lo ha colpito mentre era in hotel a Napoli, dove sta girando il suo ultimo film.
L’entourage dell’attore spiega oggi che l’attore è uscito dalla terapia intensiva presso la clinica Mediterranea: da giorni Calà nella città partenopea per girare un film ambientato proprio tra Napoli, Ischia e il Molise: “Hanno rapito Jerry Calà: il riscatto è un problema”, di cui è regista e attore principale e supportato da un cast di cui fanno parte anche Sergio Assisi, Antonio Fiorillo e l’italo-cinese Shi Yang Shi.
Ma a tranquillizzare sulle sue condizioni è stato lo stesso attore, che su Twitter con la consueta ironia si è scagliato anche contro i “webeti” che, dopo la notizia del suo malore, hanno associato l’infarto al vaccino contro il Covid-19, ripescando dai social una foto del 19 maggio 2021 in cui l’attore si mostrava mentre si faceva vaccinare contro il Sars-Cov-2 e mostrava così di aver ottenuto il Green pass.
“Mi hanno avvertito di commenti ignobili su quello che mi è successo e infatti non li leggo proprio“, ha scritto l’attore su Twitter, evidentemente messo al corrente proprio dei messaggi di odio online dei no-vax, che lo hanno messo nel mirino anche per un breve video di due anni fa in cui Calà invitava gli italiani a fare il vaccino contro il Covid-19.
‘Jerry Calà ti sei guadagnato il tuo infarto‘, ‘povero fesso‘, ‘correli stavolta o farai la quinta dose? Dubito che ci arrivi…‘, ‘fatti un’altra pera di ossido di grafeno‘, sono alcuni dei commenti apparsi sotto il post di Calà, riportati dall’agenzia LaPresse, mentre in altri i ironizza sul ‘malore improvviso’ occorso all’attore, mettendolo in connessione con presunti effetti avversi del vaccino.
Uno dei post è stato ritwittato anche da Alessandro Meluzzi, psichiatra, personaggio televisivo ed ex deputato sospeso nel 2021 dall’Ordine dei Medici di Torino per inosservanza dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario.
Per fortuna, accanto agli haters, l’attore nelle ultime 24 ore è stato inondato anche da tantissimi messaggi d’affetto. “Amore mio, che spavento mi hai fatto prendere“, è stato il messaggio affidato ai social con tanto di foto assieme di Mara Venier, ex moglie di Jerry Calà.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
«Vacanze di Natale» 40 anni dopo. Feste e fantasmi: a Cortina si balla ancora Calà. Fabrizio Roncone, inviato a Cortina, per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2023.
Volti e battute, il primo cinepanettone segnò un’epoca. Ma tra vetrine e arrampicatori, oggi è (quasi) tutto fermo al 1983. Vanzina: «La sinistra non ci capì»
Da sinistra, Stefania Sandrelli, Jerry Calà e Marilù Tolo in «Vacanze di Natale», cinepanettone del 1983 dei fratelli Vanzina girato a Cortina d’Ampezzo
Istruzioni.
Per chi nel 1983 non era ancora nato e il film Vacanze di Natale non l’ha mai visto: non state per leggere solo la storia del primo «cinepanettone», ma di un piccolo grande capolavoro, puro neorealismo sui dorati, edonisti anni Ottanta, firmato dai fratelli Carlo ed Enrico Vanzina.
Per chi, all’epoca, c’era: fermatevi qui e, prima di proseguire, aprite YouTube e mettetevi a palla la colonna sonora, e riascoltatela, resta una roba pazzesca.
Per chi il film — una faccenda stracult, sia chiaro — lo conosce a memoria: continuate a leggere, stiamo andando a Cortina.
Seguitemi.
La neve di ovatta
Eccola qui — sulle note di Moonlight Shadow, la canzone dei titoli di testa — dietro l’ultimo tornante: in una giornata di sole magnifico e di neve fresca e soffice. Che però, quarant’anni fa, non c’era. Il film uscì nelle sale il 22 dicembre, ma fu girato a fine settembre. Gli effetti digitali non esistevano ancora. Il manto bianco è, in gran parte, ricostruito: molta schiuma sulle strade, sui davanzali il cotone idrofilo saccheggiato nelle farmacie della valle, il problema dei campi lunghi viene risolto dalla genialata di un tecnico del suono che chiede a ciascun componente della troupe di portare giù, dalla camera d’albergo, un lenzuolo matrimoniale. Le scene di sci sono girate sul ghiacciaio, con l’aiuto di alcune controfigure. Il film è prodotto da Luigi De Laurentiis e da suo figlio Aurelio. Ci sono anche loro due, in una sala mix di via Margutta, a Roma, per l’anteprima tecnica, insieme ai fratelli Vanzina e a uno dei protagonisti, Christian De Sica, che è accompagnato da sua moglie, Silvia Verdone. Quando si accendono le luci, un silenzio da tagliare a fette. Poi Aurelio si alza e, con un tono che è un miscuglio di stupore e stizza, chiede: «Ma che razza di film avete fatto?» (De Sica, invece, che era agli inizi della carriera, racconta di aver sussurrato a sua moglie: «Il film è bello: Silvié, finalmente se magna»).
La meraviglia di Aurelio De Laurentiis è, però, legittima. I fratelli Vanzina sono infatti reduci dal successo straordinario ottenuto con Sapore di mare (Forte dei Marmi, estate 1964: amori e malinconie, l’Italia del botto economico e di molte ingenuità, tra ombrelloni, risate e baci rubati). Aurelio, entusiasta, li ha convocati nel ristorante romano «Il Moro», dietro Fontana di Trevi, per proporgli un film molto simile, ma ambientato sulla neve. Tutti pensano subito a Cortina. Dove, nel 1959, è già stato girato — la suggestione è forte — Vacanze d’inverno, regia di Camillo Mastrocinque, con Alberto Sordi e Vittorio De Sica. I Vanzina e De Laurentiis firmano il contratto su un tovagliolo. Poi Carlo ed Enrico tornano a casa e cominciano a scrivere il soggetto e la sceneggiatura.
Qui succede qualcosa di speciale. Perché, forse senza nemmeno rendersene troppo conto, i due fratelli iniziano a raccontare com’è il nostro Paese in quel preciso momento. Una specie di instant movie. Con Cortina a fare da scenario ideale. Ci mettono dentro emblematici pezzi di società dell’epoca, descrivendo tipologie umane, conflitti, nuove manie, passioni goderecce, bassezze, modi di dire: c’è la Milano da bere, quella dei ricchi che non si nascondono, e c’è la Bologna opulenta; c’è la borghesia romana cafona e ci sono i romani di borgata, che vogliono inserirsi nel grande sabba del benessere. C’è insomma un’Italia che, al cinema, torna ad essere reale e improvvisamente distante dal pozzetismo e dal celentanismo, dall’impegno militante e dal sublime gigantismo di Sergio Leone.
«Aurelio De Laurentiis temeva che il film non facesse ridere abbastanza — ricorda Enrico Vanzina , suo fratello Carlo è scomparso nel 2018 —. In realtà, noi ci ritrovammo a narrare un Paese che era cambiato profondamente. Essendo cresciuti a Cortina, avevamo visto da vicino, e con sgomento, l’ondata del craxismo, i nuovi ricchi, la loro volgarità, l’arroganza. A sinistra molti non colsero la nostra operazione: si convinsero che il film fosse l’esaltazione di una certa nuova alta borghesia. Noi, invece, ne descrivevamo la tragica mutazione. Poi, per destino crudele, come sappiamo, la famiglia Covelli dei Parioli oggi voterebbe proprio Pd». La forza del film quale fu? «Intanto, poiché i grandi attori dell’epoca, Troisi, Nuti, Verdone, facevano anche i registi di se stessi, noi fummo costretti a fare un film corale. E poi devo dire che azzeccammo la colonna sonora: Dino Risi mi diceva sempre che uno dei segreti di un successo come Il sorpasso erano state le canzoni. La musica contestualizza. Noi utilizzammo il miglior sottofondo degli anni 80». Poi, i dialoghi: crudeli, scorretti, autentici. «E persino moderni. Il film ha anche il merito di aver sdoganato la bisessualità: il discorso che De Sica/Covelli fa ai genitori quando viene sorpreso a letto con il maestro di sci, è di un’attualità straordinaria».
Vacanze di Natale: chi è scomparsa per un tumore, chi fa la fotografa. Ecco come sono diventati i protagonisti
«Vacanze di Natale», 40 anni fa il primo cinepanettone. Che guadagnò 3 miliardi di lire e lanciò icone pop come il Dogui
La famiglia Covelli
La casa dei Covelli, in via Spiga, sotto la funivia che porta al rifugio Faloria, è rimasta identica. Scena iniziale: i riccastri arrivano da Roma a bordo di due macchine. Una Maserati guidata dall’avvocato Giovanni/Riccardo Garrone (frase di culto, a metà film: «E anche questo Natale… se lo semo levato dalle palle») con a bordo due dei tre figli, Diamante/Roberta Lerici e Luca/Marco Urbinati, e la moglie, interpretata da una bravissima Rossella Como (scende e si accorge che le due domestiche filippine, che erano sulla Jeep Mercedes di appoggio, hanno iniziato a tirarsi palle di neve: «Guarda là… terzo mondo… Assunciòn! Concepciòn! E andiamo… Aho’, e mica v’abbiamo portato in vacanza!»).
Sempre da Roma, ma su una Fiat Ritmo celeste — accompagnata dalle note di Grazie Roma cantata da Antonello Venditti — sbarcano i Marchetti. Borgatari. Meravigliosi. La prima a scendere è la signora Erminia/Rossana Di Lorenzo: «Ammazza come pizzica…». La madre Costanza/Franca Scagnetti: «Ma stamo suedolomiti, mica a Grottaferata, sa’». Scende anche il capofamiglia Arturo, il leggendario Mario Brega: «Aho’, e che cojoni… si dddavate retta a me, co’ treqqquarti d’ora stavamo a Ovindolo». Il figlio è Mario/Claudio Amendola: «A papà, che palle che sei co’ sto Ovindolo, eh»).
Scena terza: si apre lo sportello di una Mini De Tomaso-Innocenti turbo rossa targata Mi 13357T ed ecco Billo, cioè Jerry Calà . Musica di sottofondo: «I like Chopin» di Gazebo (i De Laurentiis, per acquistare i diritti di tutte le strepitose hit scelte dai Vanzina, furono costretti a spendere una cifra enorme: ma, stranamente, la colonna sonora non è mai diventata un album). Calà con Timberland, calzino bianco, giaccone di montone (tipo quello che indossava Messina Denaro al momento dell’arresto), Ray Ban a specchio (tipo quelli che porta Stefano Bonaccini, il candidato segretario del Pd), valigetta: suona al pianobar e s’innamora delle clienti, le illude, le tradisce (frase memorabile: «Non sono bello, piaccio», che lo stesso Calà inventa sul set).
«Alboreto is nothing»
Uno che di frasi nel film ne sforna a raffica è Donatone Braghetti, interpretato dal mitico Guido Nicheli detto Dogui, ex rappresentante di alcolici che diventa attore frequentando, la notte, il giro del Derby di Milano (Cochi e Renato, Jannacci, Teocoli, Beppe Viola). I Vanzina gli affidano il ruolo del milanese facoltoso e sbruffone, sempre abbronzato. (Sfoggiando una pelliccia da urlo, entra all’hotel Cristallo — che rimase aperto per ospitare le riprese — con la moglie Ivana, l’incantevole Stefania Sandrelli, e dice: «Ivana, fai ballare l’occhio sul tic: via della Spiga-hotel Cristallo di Cortina, 2 ore, 54 minuti e 27 secondi. Alboreto is nothing!». Salgono in camera, dà una mancia al cameriere: «Ivana… hai visto l’animale come è andato via scodinzolando?»).
Il film è materia di tesi universitarie, ha cinque club, un sito dedicato, Gianluca Cherubini ne ha tratto un bel libro, il web è invaso da spezzoni, c’è chi si è divertito a fotografare le location delle scene più celebri: com’erano, e come sono. Però, a parte la copertura aggiunta alla terrazza dello stadio Olimpico del Ghiaccio (dove — mentre Nada canta «Amore disperato» — Ivana/Sandrelli, insieme alla sua amica Grazia/Marilù Tolo, chiede a Donatone/Nicheli: «Vieni a pattinare?», lui risponde: «Ma la libidine è qui amore: sole, whisky… e sei in pole position»), Cortina appare immutata, immobile. E, quindi, decadente.
Prigionieri del mito
L’albergo che ospitò la troupe ha chiuso. Come il Fanes, dove alloggiava la famiglia Marchetti. Certi negozi non hanno cambiato neppure le vetrine. E lasciamo stare i ristoranti: arredamenti che, nella vicina Val Badia, hanno rottamato da tempo. Aperitivo al bar del Posta: solita misticanza di abitué (con molta imprenditoria del Nord-Est) ed eterni arrampicatori sociali di accento romanesco, Rolex Daytona e Moon Boot, classica speranza collettiva di essere invitati nella casa giusta per la cena giusta. In un paio di decenni, l’unica novità di un certo rilievo è stata la creazione di «Una montagna di libri», la prestigiosa rassegna letteraria inventata da Francesco Chiamulera. In attesa dei Giochi olimpici invernali del 2026, tutti sono come prigionieri di un ricordo. Per capirci: poche settimane fa, Armani ha organizzato un evento nel Vip club, lo stesso locale dove suonava Billo/Calà, e per l’intera serata s’è ballato sulla colonna sonora del film.
Il paese ha accettato di vivere con i suoi fantasmi. I coniugi Covelli, Riccardo Garrone e Rossella Como, sono morti. Come Moana Pozzi, che compare in un piccolo ruolo. E anche Karina Huff/Samantha non c’è più (noi tutti innamorati di lei, e il suo fidanzato De Sica/Roberto Covelli che la tradisce con il maestro di sci. Scoperto dai genitori, si esibisce in un monologo che al tempo sembrò eretico: «Mamma, il mondo va avanti. Tu sei rimasta agli anni 50. Guarda come sei pettinata, c’hai ancora il testone da matta. Papà, a te t’ha fregato il benessere. Tu facevi il capomastro. E invece oggi c’hai i soldi e te scandalizzi. M’hai mandato in America, a New York. Noi semo de Frascatiii!… E poi: mamma gioca a Gin al Circolo Canottieri e se veste da Versace? Tu te metti l’orologio al polso come Gianni Agnelli? E io vado a letto co’ Leonardo Zartolin… perché, nun se po’?»).
L’altro rampollo Covelli, Marco Urbinati — nel film grande amico di Mario/Amendola, un po’ coatto ma tifoso della Roma come lui — ha avuto sfortuna. I Vanzina lo scritturarono anche per un film successivo, Vacanze in America. Durante le riprese, negli Stati Uniti, accadde però qualcosa che nessuno ha mai voluto rivelare. Per lui, poche pose. Dicono non riuscisse più a recitare. Si perse ogni sua traccia. Fu creato persino un gruppo Facebook. Poi l’hanno trovato, c’è un video. È irriconoscibile, grande tenerezza, ma resta indimenticabile quando chiede alla fidanzata Serenella/Interlenghi: «Dì un po’: secondo te, dove lo festeggia il Capodanno Toninho Cerezo? Secondo me, dorme: perché è un professionista» (e, ancora adesso, racconta Cerezo, «ogni Capodanno, in Brasile, ricevo centinaia di messaggi dai tifosi della Roma che mi domandano se io stia davvero dormendo»).
Non c’è altro.
Il viaggio può finire qui.
Mi chiedono se ho voglia di vedere l’albergo per sultani dove Giuseppe Conte ha alloggiato, tra polemiche roventi, lo scorso Natale. Anche no, grazie. E non voglio sapere nemmeno della Santanché con il colbacco di visone e il micro-cane nella borsa.
Si ascolta «Maracaibo» nelle cuffie: e non c’è neve nemmeno adesso, al tramonto, su Corso d’Italia. Solo un grande freddo.
Ma dentro. Nell’animo. Perché sono già passati quarant’anni, accidenti.
Antonio Fiore per corriere.it il 2 gennaio 2023.
Vacanze di Natale ma con Sapore di mare: Jerry Calà ha appena festeggiato con un affollato one-man-show diurno nella piazzetta anacaprese di Santa Sofia il premio con cui la 27esima edizione del festival “Capri, Hollywood” lo ha incoronato “King of Comedy”. Mentre a febbraio inizierà le riprese di un film di cui è regista e protagonista, tutto girato tra Napoli, Monte di Procida e Ischia con produzione (Vargo Film) e cast tutti partenopei: il titolo e i nomi degli altri attori sono top secret, si sa solo che è la storia comica e buffa del sequestro di una star del cinema, il sospetto è che il rapito sia proprio Calà.
«E pensare che sono un professore mancato di greco e latino», scherza ma non troppo l’attore di tanti film “fichissimi” ricordando gli studi classici al Liceo Maffei di Verona e l’iscrizione alla facoltà universitaria di Lettere antiche a Bologna. “Ma mi fermai al primo anno. Avevo già capito che la mia strada era un’altra…”. Una strada bella lunga, visto che nel 2021 in una Arena di Verona gremita lei ha celebrato i suoi primi “50 anni di libidine” e oggi, a 71 anni, è pure diventato Re.
Calogero Calà, catanese cresciuto a Milano e poi a Verona per seguire il papà prima interprete per la compagnia inglese di bandiera, poi dipendente e infine dirigente dell’Ufficio Informazioni delle Ferrovie italiane, sarà contento come una Pasqua anche se Natale è appena passato.
«Altro che libidine: doppia libidine. Ora Capri, prima l’Arena. E chi se la scorda quella sera meravigliosa del 20 luglio: io sul palco con tutti gli amici e i colleghi di una vita, Ezio Greggio, Massimo Boldi, J-Ax, Fabio Testi, Gigliola Cinquetti, Katia Ricciarelli, ovviamente la mia ex moglie Mara Venier… ma anche tanti altri grandi della musica come Fausto Leali, Maurizio Vandelli dell’Equipe 84, Shel Shapiro dei Rokes. Ma come, mi chiedevo incredulo, questi erano gli idoli che da ragazzino ammiravo seguendo il Cantagiro, e adesso stanno qui a fare festa con me!».
Anche perché, studi classici a parte, nel suo destino non c’era la recitazione ma la musica.
«Modestamente nasco come bassista nel gruppo beat più giovane di Verona – ma forse d’Italia - nei ’60, i Pick Up, età media 14 anni. Ma la folgorazione per la scena è arrivata poco dopo, quando entrai nella filodrammatica del liceo: facevamo degli spettacolini in cui alternavamo gospel, spiritual, canzoni di De Andrè a sketch in cui facevamo satira, persino sui professori.
E mi resi conto che alle mie battute il pubblico rideva molto di più che a quelle degli altri: capii che era quella la mia vera vocazione. Così uscii dallo Studio 24 (era il nome della filodrammatica) ed entrai in un gruppo di soli quattro, perché con me c’erano altri tre compagni di scuola, Umberto Smaila, Nini Salerno e Franco Oppini. Non lo sapevamo ancora, ma erano nati I Gatti di Vicolo Miracoli».
Un omaggio a una stradina di Verona, mi pare.
«Sì, ma una stradina molto particolare, perché su un lato di quel vicolo c’era un bordello e di fronte c’era l’ufficio delle tasse. In pratica, da tutti e due uscivi in mutande».
Gli anni eroici del cabaret, il successo al Derby Club di Milano fianco a fianco con giganti come Cochi e Renato, Jannacci, Villaggio. E poi a Roma l’incontro con il cinema.
«Un incontro piuttosto buffo: una persona che ci aveva preso a cuore ci segnalò al regista Mino Guerrini, quello della serie sul Colonnello Buttiglione, che ci chiamò per una breve apparizione nel film che stava girando, un Buttiglione-movie, appunto.
Ma solo al termine delle riprese scoprimmo che ci avevano scritturato perché il resto del cast era in sciopero: finì che quasi ci linciavano. Poi però arrivarono i “veri” nostri film: “Arrivano i Gatti” e “Una vacanza bestiale”, che era un film di Vanzina molto avanti per l’epoca: infatti RaiTre, che è una rete molto intellettuale, ogni tanto lo manda in onda».
Eppure fu il cinema a causare la sua uscita dai Gatti. Come andò?
«Tutta colpa, anzi merito, del mio mentore: Bud Spencer».
In che senso?
«Stavo girando un film con lui, un sogno per me, all’insaputa degli altri Gatti. La sera facevo le serate con loro, e la mattina dopo mi presentavo sul set, distrutto. Bud un giorno mi aspettò a braccia conserte, nella tipica posa Bud Spencer. “No, così non va, vedo che fai fatica. Devi scegliere: o le serate, o il cinema”. Scelsi».
E venne il primo successo da protagonista assoluto con “Vado a vivere da solo” di Marco Risi. E poi i trionfi al botteghino con i Vanzina, le Vacanze dovunque, gli Yuppies. Ma nel bel mezzo della festa lei pianta tutti e se ne va a vivere, anzi a girare un film in Norvegia.
«Quei titoli degli anni ’80, così invisi alla critica, sono in realtà una fotografia molto nitida e fedele, anche se ovviamente sopra le righe, dell’Italia di quegli anni. Per non dire che film come “Sapore di mare” hanno rilanciato di colpo la musica italiana dei ’60, creando un revival infinito che infatti dura tutt’oggi. Ogni volta che mi incontra, Edoardo Vianello ancora mi ringrazia.
E poi, con “Vacanze di Natale”, abbiamo spinto pure la musica degli ’80: il mio arrivo a Cortina sulle note di “I like Chopin” è diventato un mito. Per non parlare di “Maracaibo”: tutti pensano che io mi sia arricchito con i diritti di quella canzone. Ma non è mia, è di Lu Colombo! Ma dicevamo della Norvegia: scelsi di fare quel film, “Sottozero”, perché mi sembrava di essere uscito da un gruppo, i Gatti, per entrare in un altro, quello della cinecommedia svagata, disimpegnata. Forse sbagliando, e certamente rinunciando a compensi ben più alti, volevo misurarmi anche come attore drammatico.
Così nell’87 accettai con entusiasmo di trasferirmi su una piattaforma petrolifera in mezzo al nulla per questo film scritto da Rodolfo Sonego, il leggendario sceneggiatore di Alberto Sordi.
Ma il regista Gian Luigi Polidoro era talmente rispettoso anche delle virgole dello script che, ogni volta che io sul set mi inventavo qualcosa che non era prevista nel copione, Polidoro dava lo stop e correva a telefonare a Sonego per sapere se potevo o non potevo fare queste minime “variazioni”: alla decima telefonata di Polidoro, in cui l’autore gli rispondeva “Ma lascialo fare!”, Sonego chiamò il produttore Bonivento per chiedere di fargli il biglietto per la Norvegia, e mi raggiunse. Sono l’unico attore ad aver avuto sul set lo sceneggiatore ad personam».
E cinque anni dopo arrivò un’altra telefonata, quella di Marco Ferreri.
«Con il suo accento da milanese romanizzato mi disse “Ue’, ma tu come sei drammatico?”. Io risposi subito “Bravissimo, maestro”. E lui: “Allora fai un film con me”, e buttò giù. Io, che stavo guidando (era l’epoca dei primi telefonini, quelli grossi così) quasi vado fuori strada per l’emozione. Poi però chiamai un amico che lo conosceva, e che mi confermò che era proprio Ferreri ad avermi telefonato, e che non si trattava dunque di uno scherzo. Cominciò così l’avventura di “Diario di un vizio”.
Quel film in cui interpretavo un erotomane alquanto disperato rappresento’ la mia rivincita sui critici nostrani, che al Festival di Berlino vollero premiarmi come miglior attore. Salvo poi, quando ripresi a girare i soliti “filmetti”, stroncarmi di nuovo ferocemente. Ma il ricordo più bello resta la risposta di Marco Ferreri che, con i giornalisti che gli chiedevano perché avesse scelto il comico Calà per un ruolo così intenso, sbottò: “L’ho scelto perché i comici sono i più bravi attori drammatici”. Per dirla con Jerry: capitto?!
Jo Squillo.
Estratto dell’articolo di Andrea Scarpa per “il Messaggero” lunedì 25 settembre 2023.
Nella nuova edizione di Tale e quale show di Carlo Conti, su Rai1, c'è anche lei, Jo Squillo, che venerdì scorso - nella prima puntata - si è esibita imitando Madonna […] nella seconda farà Patty Pravo. Sotto a chi tocca.
[…]
Che ne pensa della lotta contro il tempo di Madonna, fra ritocchini e provocazioni stereotipate?
«Mi fa tristezza. È un mito che si è arresa a un sistema malato che non permette alle donne, al contrario degli uomini, di invecchiare normalmente».
Lei interventi ne ha fatti?
«Mai. Sono vegana, ho accettato il tempo che passa, e sostengo la naturalezza».
Elodie ha appena pubblicato il singolo "A fari spenti" e nel video appare ancora una volta seminuda: per le donne del pop italiano giocarsi sempre più spesso questa carta è una conquista o una sconfitta?
«Le donne hanno il potere della seduzione e lo esercitano. È una questione di libertà. Per me è una conquista».
Lei a luglio ha detto che Elodie se non fosse stata così bella avrebbe avuto meno successo: conferma o è stato il solito giornalista...?
«Elodie faccia quello che vuole: è brava, bella e sensuale. Mi piacerebbe duettare con lei».
[…] aveva 20 anni quando la "sua" Kandeggina Gang diventò un caso.
«Sì, ma con un nome come Jo Squillo, in una band di sole donne, e con canzoni provocatorie come Sono cattiva, Orrore, Violentami. Nel 1980 non c'erano i social né altro e l'Italia era - ed è ancora - un Paese conservatore: per me si chiusero quasi tutte le porte. E pensare che io volevo portare leggerezza nell'impegno e impegno nella leggerezza».
[…]
A 63 anni che bilancio fa?
«Pubblicare 150 canzoni non è stato facile, ma sono soddisfatta. Siamo donne ancora oggi va benissimo e ho sempre fatto spettacolo portando avanti battaglie come pacifismo, rifiuto della violenza, ambientalismo. Nel 1982 mi feci i capelli verdi per comunicare a tutti le prime emergenze ambientali. Il ruolo dell'artista in fondo è quello, non di fare politica».
Le ricordo che nel 1980 si presentò come capolista del Partito Rock con il dito medio alzato come simbolo, giusto?
«Sì, è vero. Prendemmo 5000 voti, nonostante il giorno prima del voto ci ritirammo dalla corsa. Quel dito era rivolto a tutti gli altri partiti».
Come Grillo prima di Grillo.
«Assolutamente sì».
[…]
Nel 1980 cantava "Violentami sul metro, violentami piccolo...": oggi con il politically correct una cosa del genere non potrebbe assolutamente farla: che ne pensa?
«Per me il fatto che nessuno, oggi, faccia cose simili è sconfortante. Io, provocando, ribaltavo i ruoli e sfidavo i maschi. Oggi i giovani dovrebbero fare i giovani e contestare, e rimettere in moto energia creativa. Purtroppo sono anestetizzati dai modelli imposti dal marketing e dal web. Solo gli stereotipi funzionano. È imbarazzante oltre che deprimente».
Allude ai cliché del rap e della trap con i macho, i malandrini tutti auto, soldi, donne facili...
«Esatto. Non li sopporto. Ogni volta che incrocio uno di loro glielo dico: quando vi mettete a fare belle canzoni?».
E loro?
«Sgranano gli occhi, come a dire: che dici? Per loro conta solo il successo».
Lei, che non ha voluto figli, negli ultimi anni è diventata - sono parole sue - "diversamente mamma": che vuol dire?
«Che dopo la morte dei miei genitori ho conosciuto una ragazza, Michelle, con la quale si è sviluppato un legame fortissimo. Lei mi chiama mamma e io così mi sento, anche se lei ha i suoi genitori naturali. La vita mi ha fatto un regalo sorprendente e bellissimo. I ragazzi hanno sofferto tantissimo durante il lockdown e oggi più che mai hanno bisogno di guide».
La sua qual è stata?
«Il mio manager e compagno, Gianni Muciaccia».
[…] È vero che è dislessica?
«Sì. Ho seri problemi a memorizzare e per questo disegno fiorellini, vignette e altri cose grafiche. La dislessia mi ha insegnato a imboccare strade alternative».
Invecchiare la spaventa?
«No. Mi curo e ci tengo, ma sono serena. E con il sesso, che è importante a tutte le età, va molto meglio adesso che in passato. La maturità mi piace».
E cos'è cambiato?
«Diciamo che il trombamico serve, questi rapporti ormai bisogna sdoganarli».
[…]"Siamo donne" finisce con tre parole rivolte a un uomo: "Attento che cadi". Ne ha visti tanti finire così?
«Certo. Sopratutto fra i supponenti che credono davvero a tutto quello che arriva con il successo. Che, come sempre, viene e va.
Estratto dell’articolo di Michela Proietti per corriere.it il 17 luglio 2023.
Jo Squillo, cantautrice, conduttrice televisiva e attivista italiana. In una parola?
«Ar-tivista».
Vincenzo Trione ha definito l’artivismo una forma di arte politica per riflettere sulle emergenze del nostro tempo. Su quali emergenze si interroga?
«Su molte, a partire dalle donne, maltrattate, discriminate, uccise. Voglio portare un po’ di impegno proprio dove la gente si aspetta di trovare la leggerezza. Al Grande Fratello ho indossato il burqa, per ricordare la situazione delle donne in Afghanistan».
Quando ha iniziato con l’attivismo?
«Da sempre. Sono nata in un contesto fertile: papà era un rappresentante della Candy e nel privato un artista. Ha inventato i modellini degli aeroplani e costruiva le pipe da fumo».
Milanese da sette generazioni.
«Mi chiamo Giovanna Maria Coletti e sono una delle ultime milanesi doc, nella nostra casa in Città Studi parlavamo in milanese. Mia madre si è occupata di me e mia sorella gemella fino a quando non siamo cresciute, poi ha cominciato a fare la rappresentante di filati».
Sua sorella gemella.
«Ho il naso rotto, una cicatrice, due punti in testa, ma ci volevamo un casino di bene! Eravamo dislessiche: ho scelto l’artistico, lei fotografia. Al corso di scenografia ho capito che non volevo costruire palcoscenici, ma starci sopra».
(...)
Nel frattempo lei aveva molte cose da dire...
«Ho iniziato a frequentare il centro sociale Santa Marta. Era la fine degli anni ’70 avevo le chitarre a casa, ho cominciato a scrivere canzoni, la mia prima era “sono cattiva, se la sera mi gira prendo il coltello e ti stravolgo il cervello”».
Oggi questi testi non li potrebbe neppure pensare...
«Era la cultura punk. Avevo la cresta verde, già il green era nella mia testa. Scrivere quelle canzoni era un modo per parlare con la gente. Sono stata una delle prime donne che scrivevano per sé stesse, in quegli anni erano gli uomini che scrivevano per le donne».
Non voleva cantare canzonette.
«Una delle canzoni che mi ha stimolato di più è stata Violentami. Una ragazza era stata violentata in metropolitana e la gente diceva che se l’era cercata. Ho voluto ribaltare la visione: noi ragazze non dovevamo essere più né vittime, né colpevoli. Ho pensato: “ah sì? Bene sono io che ti dico di violentarmi, ho ribaltato la logica”».
I suoi genitori che le dicevano?
«Solo mia nonna mi comprendeva, perché mi amava. Mi aiutava a disegnare i primi abiti, il kilt e l’impermeabile, e a incollare le scarpe perché le volevo fluorescenti. Il mio maestro era Demetrio Stratos e la mia band le Kandeggina gang: eravamo la generazione del k».
Perché Kandeggina?
«Quando arrivavamo eravamo nocive, sbiancanti come la candeggina. Pulivamo tutto così dopo ci potevi ricostruire un mondo nuovo».
E il nome Jo Squillo?
«Gio è diminutivo di Giovanna e in casa avevamo il duplex: una volta per chiamare ci si metteva d’accordo con i vicini. Una linea telefonica aveva due utenze, la vicina ci gridava dalla finestra: “Mettete giù questo telefono!”. Con due gemelle in casa la linea era sempre occupata».
Chi era il suo pubblico?
«Avventurieri, femministe e future donne d’affari, gente che voleva costruire un futuro da giornalisti o da scienziati».
Cosa significava per lei essere femminista?
«La libertà. Avevo sperimentato il maschilismo, la sera non potevo uscire perché femmina, invece io lo facevo. Sembra passato un secolo ma non è lontano il tempo in cui non si poteva rifiutare di fare sesso con il proprio marito».
Una milanese che la ispirava all’epoca.
«Alda Merini: diceva che la follia le aveva dato la gioia. Mi ha fatto capire come essere speciali senza sentirsi diversi».
Sabrina Salerno con cui ha cantato «Siamo Donne» era una femminista?
«Sabrina non aveva mai cantato in italiano: era famosa in tutto il mondo, una icona pop straordinaria. All’inizio avevo pensato a un progetto di tante donne: una scrittrice, una danzatrice. Poi quando ho incontrato Sabrina ho pensato: io e lei già siamo un mondo».
Era credibile con gli hot-pants sfilacciati?
«Per seguirmi ha accettato di cambiare il suo produttore, che era prototipo di un certo tipo di femminilità e voleva cambiassimo il testo. Dovevamo andare in giro con 10 guardie del corpo».
Oggi vive di royalties?
«No, l’industria discografica non è facile. Essere artista dopo i 40 anni è parecchio complicato, tranne che per Orietta Berti e Iva Zanicchi. Le donne devono valere anche per il loro aspetto».
C’è un ageism nel mondo della musica?
«L’industria favorisce il giovane perché può gestirlo. Per fortuna i ragazzi di oggi sono parecchio determinati e hanno le proprie etichette».
Elodie se non fosse così bella avrebbe meno successo?
«Ne sono certa. Devi sempre far vedere, mostrare: questo agli uomini non è richiesto. La maggior parte delle acquirenti di musica sono donne e comperano la musica degli uomini».
(...)
Chi è Michelle?
«Mia figlia, ma in quel momento era in Friuli dai suoi genitori».
Ha una figlia adottiva?
«Ho una figlia elettiva. Lei ha una madre, io sono la sua diversamente madre. Quando ho perso i genitori questa ragazza bellissima è entrata nella mia vita e mi ha restituito la vita».
Come vi siete conosciute?
«Faceva la modella, si alzava all’alba per prendere quattro soldi e avere la possibilità di sfilare. Ero affascinata da questa ragazza che si “sbatteva”. I miei genitori avrebbero sempre voluto una nipote, me l’hanno mandata loro».
Quando avete deciso che eravate madre e figlia?
«Un giorno che non c’era posto in ostello si è fermata a dormire da me. E non se n’è mai più andata. Una mattina in cucina mi ha detto, all’improvviso: “Mamma”. Mi sono messa a urlare, non doveva permettersi. Non ero pronta e sentivo di mancare di rispetto alla sua famiglia. Ma ha continuato imperterrita».
Oggi che rapporto avete?
«Simbiotico: è molto affettuosa, quando non siamo insieme mi manda messaggini scrivendomi che le manco. Sta crescendo con me, come avrei fatto con i miei figli naturali, che non ho voluto per non lasciarli con la baby sitter».
Non ha mai pensato che potesse essere un rapporto d’amore?
«Io no, gli altri sì, anche le persone che mi volevano bene e mi conoscevano da una vita. Ma quando ci vedi insieme, capisci subito che rapporto è. Mi è venuta a trovare al Grande Fratello. Dicevo: “Non piangerò mai”. Per lei ho pianto».
Il Grande Fratello.
«Dovevo portare avanti delle battaglie, come quella per Chico Forti, l’italiano che nel 2000 è stato condannato per omicidio negli Stati Uniti. All’Isola invece sono andata quando ho perso ai genitori. Parlavo con la Luna, le stelle, i pesci».
(...)
Cosa manca oggi al femminismo?
«La consapevolezza che insieme vinciamo».
L’esibizione del corpo ci indebolisce?
«Io sono per il topless, da sempre, perché voglio essere libera. Le ragazze oggi mostrano il lato B: il femminismo passa attraverso questo».
Avrebbe voluto essere un uomo?
«No, voglio essere più di un uomo».
John Malkovich.
John Malkovich: «Perdere la memoria è la mia più grande paura. Mi atterrisce più la demenza della vecchiaia». «Lavorare per me è una necessità, mi tiene vivo, mi piace. È il mio sport di oggi». Protagonista di tanti film indimenticabili, l’attore e regista americano a quasi 70 anni è più impegnato che mai: tra nuove uscite, serie tv. E uno spettacolo teatrale. In arrivo al Campania Teatro Festival. Claudia Catalli su L'Espresso il 12 luglio 2023.
Com’è essere John Malkovich? Se lo chiedeva nel 1999 Spike Jonze con il film pluripremiato agli Oscar “Essere John Malkovich”. Il diretto interessato risponde oggi a L’Espresso: «Essere abbastanza vecchio, avere una buona memoria e non smettere mai di lavorare».
John Malkovich, 69 anni, non ha perso il senso dell’umorismo, tanto meno la voglia di lavorare: si esibisce sul palco del Campania Teatro Festival, ha in arrivo più di dieci film e la serie tv “The New Look”. Eppure di persona appare sereno, rilassato, solo quando parla del collega Julian Sands il suo volto si incupisce. Dato per disperso durante un’escursione a gennaio, è stato appena ritrovato morto, nelle montagne della California. Era un suo caro amico, insieme hanno recitato anche nel film che Malkovich ha presentato alla scorsa Berlinale “Seneca”.
Come si sente?
«Molto triste. Ero profondamente legato a Julian, ci conoscemmo trent’anni fa sul set di “Killing Fields” e siamo rimasti sempre uniti. Sono il padrino del suo primogenito, conosco bene la sua prima moglie Sarah e sono stato io a presentargli la seconda moglie Eugenia. Sono senza parole».
È inutile temere la morte, dice nel film “Seneca” nei panni del grande filosofo.
«Già, fa parte della vita. Per interpretare Seneca mi sono documentato a lungo sui testi latini, ho studiato tanto, letto Tacito e mi sono riguardato il Socrate di Rossellini. Il cinema italiano è da sempre grande fonte di ispirazione per me».
Il suo regista italiano preferito?
«Bernardo Bertolucci. Lo amavo. Aveva un umorismo straripante, l’esatto opposto del pessimismo di Woody Allen. Bernardo era una persona veramente divertente e un caro amico, amavo stare con lui e lavorare insieme a lui. Anche se mi rimproverava».
Perché?
«Non concordavo con lui sul fatto che ogni film dovesse essere politico».
Fare un film non è di per sé un atto politico?
«Questo sosteneva lui, io continuo a non essere d’accordo, mi spiace: un film viene da dentro, racconta qualcosa di molto personale. Può essere politico, ma non è detto che lo sia o lo debba essere. Non mi sembra possibile, inoltre, prevedere la percezione degli spettatori, quello che penseranno di un film».
Il pensiero del pubblico è qualcosa che la interessa?
«Non quando accetto un ruolo, non mi interessa fare film che diventeranno campioni di incassi come “Titanic”, mi basta che siano storie originali raccontate in un modo speciale. Mi interessano anche i giudizi dei detrattori, che a volte detestano film per motivi validissimi: quello che ho imparato, in decenni di carriera, è che detrattori e adulatori vanno accettati in egual misura, fanno parte del gioco».
Anche invecchiare fa parte del gioco?
«Mi atterrisce più la demenza della vecchiaia. È stata diagnosticata ad alcuni miei amici coetanei, ma conosco persone anche molto più giovani di me con lo stesso problema. Perdere la memoria è uno dei miei grandi timori».
Non corre pericolo: Geraldine Chaplin, di recente intervistata da L’Espresso, mi ha detto che ha una memoria di ferro.
«Ho una super memoria, è vero. Quando non bevo. Quando bevo un po’ meno».
Viva la sincerità. Come si allena?
«Lavorando. Un giorno imparo nove pagine a memoria per una serie tv, un altro passo sei settimane tutto il giorno solo a imparare un monologo, dipende. Un attore passa il tempo anche così, imparando, ripetendo, solo che questo nessuno lo vede».
Quale attore, in 45 anni di carriera, le è rimasto più impresso tra tutti quelli che ha incontrato?
«Marcello Mastroianni. La sua gioia di recitare è stata una grande lezione per me».
Ci sono film che rimpiange perché avrebbe potuto interpretarli meglio, o diversamente?
«Pochi, a dire il vero. Uno è “Attenti al ladro” con Andie MacDowell».
Qual è il segreto per essere John Malkovich?
«Lavorare, e amare profondamente il proprio lavoro. Alcuni miei colleghi, in realtà, non lo amano, io da sempre non vedo l’ora di stare sul set».
I suoi figli la seguono in giro per i vari set nel mondo?
«Loewy e Amandine da piccoli venivano sempre con me, soprattutto a teatro, adesso (hanno 31 e 33 anni, ndr.) meno. Appena torno dai miei viaggi di lavoro, in compenso, sto più tempo possibile con i miei nipoti».
Ma è un’impressione oppure oggi lavora più di prima?
«È proprio così. Per me è una necessità, mi tiene vivo, mi piace. È il mio sport di oggi, da giovane ne praticavo molti altri di sport: giocavo a football, basket, tennis, baseball. Non mi bastava un solo sport. E in fondo oggi accade un po’ la stessa cosa: non mi basta un solo film».
Ha abbracciato senza riserve il mondo delle serie tv: il cinema non le bastava?
«Considero le serie tv come un ampliamento di narrazione. In più, i tempi sono molto veloci: quando ho iniziato a fare l’attore passavo gran parte del tempo seduto ad aspettare mentre aggiustavano il set, le luci e tutto il resto. Adesso i tempi morti non ci sono più, e questo da un certo punto di vista è meglio».
Il grande pubblico l’ha amata in abiti papali nella serie di “The New Pope” di Paolo Sorrentino. Che ricordo ne conserva?
«Antonioni sapeva mettere gli attori in uno spazio estetico meraviglioso, Paolo Sorrentino fa la stessa cosa ma sa anche cosa far fare agli attori in quello spazio così speciale. È un regista divertente, scrive davvero bene. Amo qualsiasi film che fa, ritengo sia un grande talento con un’accuratezza visiva, una poesia, una grazia e un senso dell’umorismo davvero rari. Come autore sa guardare, oltre che raccontare. Dice di non essere bravo con gli attori, io, invece, lo trovo bravissimo».
Johnny Depp.
Amber Heard, la grande inquisitrice di Johnny Depp che finì divorata dal circo mediatico. Per i giudici le accuse contro l’ex marito erano false: il web l’ha punita con l’umiliazione su scala globale. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 23 ottobre 2023
Come si comporta una vittima di violenza domestica? Quali gesti, quali espressioni, quali parole sono considerati coerenti con gli abusi subiti, quando bisogna raccontarli? Una vittima al di sopra di ogni sospetto non ride, ma neanche si dispera. Ci vuole sincero dolore ma anche moderazione per convincere il pubblico, e le “smorfie” esibite da Amber Heard nel processo contro Johnny Depp di certo non rientrano nel catalogo stilato dagli spettatori del web, che poi sono diventati anche componenti “speciali” della giuria. Lo si capisce benissimo dalla docuserie in tre puntate arrivata su Netflix un paio di mesi fa, a distanza di un anno dal “processo del secolo”, forse il più seguito negli Usa dai tempi di O.J. Simpson.
In molti, e da ogni parte del mondo, sono entrati in aula attraverso le telecamere durante i sei mesi di udienze culminate nel verdetto del giugno 2022. L’attesa della sentenza, per un intero week end, ha tenuto l’America col fiato sospeso. E anche dopo, quando i giochi ormai erano fatti, le tifoserie non hanno mai abbondato il campo: qualcuno, e a dire il verso la maggior parte delle persone, ha esultato per la sconfitta di Amber Heard; altri hanno puntato il dito contro un sistema legale che mette a tacere le vittime che osano sfidare il potere. In questo caso il potere mediatico di una star del cinema, Johnny Depp, che ha chiesto di riabilitare in tribunale la propria reputazione.
Ora, che la battaglia legale tra i due attori fosse più vicina a uno show è stato chiaro da subito. Ma riguardare il processo dalla prospettiva offerta da Netflix dà le vertigini: non soltanto per quella miscela letale che ha reso il caso il modello perfetto di giustizia spettacolo, ma anche per gli effetti che una “banale” causa per diffamazione sembra aver avuto sulla società.
L’epilogo è noto: Amber Heard è stata condannata per diffamazione dalla giuria del tribunale di Fairfax, in Virginia, per un editoriale del 2018 pubblicato sul Washington Post con il titolo “Mi sono esposta contro la violenza sessuale e ho affrontato l’ira della nostra cultura”. Nell’articolo l’attrice non cita mai l’ex marito, ma si definisce come un «personaggio pubblico che rappresenta gli abusi domestici». I giurati hanno ritenuto che il riferimento a Johnny Depp fosse evidente, oltre che diffamatorio, perché di quelle violenze non ci sono prove. Il danno è quantificato nella cifra di 15 milioni di dollari. Al contempo la giuria ha riconosciuto un risarcimento di 2 milioni di dollari a Heard, perché vittima a sua volta di diffamazione. Per l’avvocata-eroina di Depp, Camille Vasquez, in ballo c’è il buon nome del suo cliente, contro il quale l’attrice ha messo in scena “la migliore interpretazione della sua vita”. Per Heard, invece, la sua sconfitta è la sconfitta di tutte le donne.
I due alla fine hanno patteggiato. La star dei Pirati dei Caraibi si è ripreso il suo posto sul set, dopo esserne stato brutalmente escluso nel 2016. Il matrimonio allora era già finito, dopo appena 15 mesi, il movimento MeToo sarebbe esploso di lì a poco. Amber Heard ne diventa il simbolo, uno fra i tanti: la prima foto del suo volto tumefatto è uno choc per tutti. L’opinione pubblica si schiera con l’attrice, Hollywood cancella Depp con un tratto di penna. Qualche fan però non si arrende, vuole vederci chiaro. Comincia la macchina del fango.
Con il processo la vita coniugale dei due finisce in piazza insieme ad ogni dettaglio intimo e agghiacciante emerso dalle prove delle rispettive difese. Ci sono i video, le registrazioni vocali, gli sms con gli amici, le testimonianze di collaboratori e familiari. Tutto finisce in pasto a TikTok, comprese le dichiarazioni alla sbarra di Amber Heard, manipolate e rilanciate sui social come arma di umiliazione. La disinformazione intorno al caso è senza precedenti, come lo è l’interesse in rete di chi commenta passo dopo passo il processo. Su Tik Tok l’hashtag #justiceforjohnnydepp raccoglie 20 miliardi di visualizzazioni, #justiceforamberheard “appena” 77.5 milioni. La domanda a cui la Corte è chiamata a rispondere - “può Amber Heard definirsi una vittima di violenza domestica?” - non ha più alcun valore. In ballo c’è molto di più, e il pubblico ha deciso: l’attrice ha preso in giro tutti - fan, femministe, vittime di violenza domestica. La vera vittima è Johnny Depp, ma la vittima siamo anche noi - è il ragionamento - perché abbiamo creduto a questa manipolatrice seriale e violenta, e ora dobbiamo anche pagare il conto di una falsa denuncia.
Subito dopo il verdetto un gruppo di sostenitrici di Heard pubblica una lettera aperta per prendere le distanze dall’attrice, che con il suo piano diabolico avrebbe ingannato e danneggiato l’intero movimento.
In quello stesso giorno è morto il MeToo, scrive Michelle Goldberg sul New York Times: «L’attrice instabile - che a volte era violenta nei confronti di Depp, e che non ha mai mantenuto la promessa di dare in beneficenza l’intera cifra ottenuta dal divorzio - è molto lontana dall’essere la vittima perfetta. Ciò l’ha resa il bersaglio perfetto in reazione al MeToo». Dal Saturday Night Live Chris Rock riadatta lo slogan: “Credi a tutte le donne, tranne che a Amber Heard”. Il movimento ha mangiato la sua creatura infedele, senza mai fare mea culpa.
Estratto dell’articolo di S. U. per il “Corriere della Sera” il 18 maggio 2023.
Mi si nota di più se vengo, non vengo, arrivo in ritardo. Johnny Depp dopo l’abbraccio dei fan sul red carpet e gli applausi del Grand Théâtre Lumière alla proiezione ufficiale di Jeanne du Barry di Maïwenn, manda in tilt il cerimoniale della conferenza stampa ufficiale del film che ha aperto, fuori concorso, Cannes 76. Arriva in ritardo, a conferenza iniziata «troppo traffico» (ma non ci crede neanche lui), poi si dimostra generoso e sincero.
Disarmato e disarmante. […] «Quando ti chiedono di lasciare il cast di un film solo in base a parole al vento, sì ti senti boicottato —il riferimento è al sequel di Animali fantastici — . Ora no. Nel senso che Hollywood non è nei miei pensieri. Non ho bisogno di Hollywood». Il film è uscito martedì in Francia, è secondo al box office. Non ha ancora distribuzione Usa (da noi arriverà il sala con Notorius).
Non si sente più boicottato, ma non ha dimenticato nulla. «Se leggo quello che è stato scritto su di me in questi anni mi sembra un’opera di fiction terrificante. La gente pensa quello che vuole ma la verità è la verità. Noi portiamo al pubblico il nostro lavoro, non il nostro privato». Non vuole sentire parlare di ritorno.
«È solo un bel cliché. Ma quale ritorno? Io non ero andato da nessuna parte. Sono qui, a Cannes, dove sono venuto la prima volta con Emir Kusturica. Viviamo un’epoca molto strana in cui la gente vorrebbe essere sé stessa ma non ci riesce, e si accoda alle vite degli altri. Se volete vivere quel tipo di vita, auguri. Io sarò sempre dall’altra parte».
DAGONEWS il 7 giugno 2023.
Johnny Depp è "orgoglioso" della figlia Lily-Rose e del suo ruolo scandaloso nella serie “The Idiol” che ha fatto scalpore per le scene in topless e per quella in cui la ragazza si masturba con un cubetto di ghiaccio.
L'attrice 24enne è la protagonista dell’ultima serie di HBO in cui interpreta la cantante Jocelyn che ha un esaurimento nervoso durante il tour prima di incontrare il misterioso impresario del nightclub Tedros, interpretato da The Weeknd.
La serie, in cui non mancano scene di sesso spinte, masturbazione, strozzamenti e selfie espliciti di Lily-Rose, è stata accolta dalle critiche di chi ha messo alla berlina il creatore Sam Levinson, accusato di aver trasformato la serie in "porno tortura con fantasia di stupro".
Ma, nonostante le polemiche, una fonte vicina a Johnny ha detto al DailyMail.com che lui è impassibile e "crede che lei stia facendo qualcosa di giusto per ottenere così tanta attenzione".
«Johnny ama il fatto che Lily si stia ritagliando una carriera tutta sua e si stia sfidando assumendo ruoli che la mettono alla prova – ha detto la fonte - Adora che lei non stia basando il suo successo sulla sua carriera e gli piace il fatto che sia una persona così forte, soprattutto ora che ha ricevuto attenzioni in più per il suo recente ruolo in “The Idol”. È orgoglioso di lei e non presta attenzione alle chiacchiere. Crede che stia facendo qualcosa di giusto dato che il ruolo sta ricevendo così tanta attenzione, ed è orgoglioso del suo successo».
Johnny Dorelli.
Johnny Dorelli: «L’America, Volare, l’amore per Gloria Guida. Racconto la mia vita e mi sento felice». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023
L’artista: «Quando provavo la risata di Dorellik i vicini protestavano. Non rinnego le commedie di successo degli anni Settanta. Putin non lo capisco proprio, spero che in Ucraina torni la pace»
Johnny Dorelli non parla da molti anni. La sua ultima apparizione televisiva credo sia stata nel programma di Fabio Fazio, era il 2018. Fu un’intervista molto dolce, piena di immagini del tempo in cui Johnny viveva «all’incrocio dei venti», travolto da un successo senza confini: musica, televisione, radio, teatro. E poi un bel libro, «Che fantastica vita», scritto con Pier Lugi Vercesi.
Discreto, elegante, misurato, Johnny ha attraversato decine di anni nel rutilante mondo dello spettacolo senza perdere la sua caratteristica principale: la gentilezza. Audrey Hepburn, che se ne intendeva, diceva: «Per avere labbra attraenti pronuncia parole gentili». Virtù in via di estinzione, la gentilezza confina spesso con un altro atteggiamento encomiabile: il senso dell’umorismo e l’autoironia.
Qualsiasi italiano che lo abbia conosciuto vedendolo nei suoi anni ruggenti credo abbia conservato proprio questa sensazione di Dorelli. Certo un bravo cantante, un bravo attore, un bravo presentatore. Ma, soprattutto, una persona che ha frequentato il sorriso e ha regalato sorriso agli altri. Gli ho chiesto se sa quanto gli italiani gli vogliano bene. Una domanda inutile, una non domanda. Era solo un modo per dirglielo, per ricordarlo a questa persona di ottantasei anni che da molto tempo si è ritirato, con discrezione, e condivide con la sua meravigliosa moglie, Gloria Guida, e con i figli che ama questo tempo di riposo e di riflessione.
«Anche io voglio bene agli italiani, mi hanno dato molto, mi hanno colorato la vita» dice, ed è sincero. «Sono nato a Milano ma vivevo a Meda. Era il 1937. Ero troppo piccolo e non posso ricordare la guerra. Però ho memoria che a Meda si combattevano i nazisti e i partigiani, questo sì. Dopo la liberazione mio padre, che faceva il cantante, partì per l’America. Come tanti italiani, in quel periodo. Lui era un cantante all’italiana, pensava che quella musica universale sarebbe piaciuta nella terra delle promesse. E partì.
Ce la fece e noi lo raggiungemmo. Fu un lungo viaggio su una nave di cui ancora ricordo il nome, la Sobietski. Eravamo in cabina con la mamma e il tempo non passava mai. Finché arrivammo al porto di New York e io la vidi, l’America. Sulla banchina c’era mio padre, con i suoi capelli di brillantina e il suo sorriso rassicurante. Lì iniziò una nuova vita, lì feci tutte le scuole, lì ho imparato la musica, lì ho cominciato a cantare. Feci tanti concorsi canori e li vinsi tutti».
Cantare in napoletano
Gli chiedo quale fosse allora il suo cavallo di battaglia. Mi risponde, ridendo, che era «Oje marì».
In realtà il titolo del brano era «Maria Marì», canzone scritta da Edoardo di Capua e Vincenzo Russo quando l’ottocento stava per finire. L’anno dopo, quello dell’inizio del secolo breve, fu pubblicato il primo disco a 78 giri in Italia. Era proprio «Maria Mari», la canzone che il piccolo Johnny cantava, in napoletano — lui che era milanese — e, nella parte finale, in americano.
D’altra parte quel brano piacque tanto agli americani che poi lo eseguiranno Dean Martin e Ray Gelato e persino Louis Armstrong in coppia, inopinata, con Claudio Villa.
«Quando scadde il permesso di soggiorno tornammo in Italia. Era destino che fossi legato a Napoli e allora con Bideri, grande uomo di musica, feci il festival di Piedigrotta. Mi notarono, avevo una bella voce e fui chiamato al Musichiere di Mario Riva. Feci solo tre puntate. Ero con Nuccia Bongiovanni uno dei cantanti giovani del programma. Ma Ladislao Sugar, il fondatore dell’etichetta, mi disse che dovevo fare un’altra cosa, per lui più importante: andare al festival di Sanremo. Aveva ragione.
Il pezzo che dovevo eseguire non era male, forse ne hai sentito parlare: “Volare”. Io non capii subito cosa sarebbe stato quel brano nella storia della musica, quando lo ascoltai ero giù di voce e questo mi preoccupava. Modugno era un buon collega e un grandissimo autore.
Con lui vinsi anche l’anno dopo con “Piove”. La musica italiana stava cambiando e noi demmo una bella spinta. Ma l’edizione che ricordo più delle altre è quella del 1967. Per due ragioni: ho cantato una delle canzoni che più ho amato eseguire: “l’Immensità” scritta da Don Backy e poi, al contrario, per la morte di Luigi Tenco. Quando lui è morto noi non sapevamo se fosse stato ucciso o si fosse suicidato. Ricordo che più le ore passavano più i dubbi crescevano. Io non mi sarei mai aspettato che si togliesse la vita. Era una persona piacevole e aveva scritto delle bellissime canzoni».
«Galbani vuol dire fiducia», per sei anni Johnny Dorelli è entrato nelle case degli italiani pronunciando, immancabilmente, la stessa frase.
Per la mia generazione, quella che andava a letto dopo Carosello, la pubblicità di quel programma non erano «consigli per gli acquisti»; erano puro, esaltante, spettacolo. Ogni prodotto, ogni marchio era identificato con personaggi e storie che venivano interpretate dagli attori più famosi del momento. «Il logorio della vita moderna» che sarebbe stato risolto da un liquore al carciofo — ah saperlo! — e un dentifricio che, sui denti della splendida Virna Lisi, faceva sì che lei, e noi, potessimo «con quella bocca» dire quello che volevamo.
Dorelli in quel tempo è sulla cresta dell’o nda. Alla fine degli anni cinquanta, mentre giravano insieme «Tipi da spiaggia» di Mario Mattoli, incontra Lauretta Masiero, ottima attrice che avrebbe conosciuto una grande popolarità nei panni dell’investigatrice Laura Storm.
«Con lei ho fatto un figlio che amo, come gli altri, Gianluca. Credo, se ho fatto bene i conti, che sia il prodotto di una notte in cui mi arrampicai su un terrazzo dell’albergo e penetrai, non respinto, nella stanza di Lauretta. Era una gran donna, molto simpatica».
Parodia di successo
Mentre Johnny racconta questo episodio non riesco a non immaginare che in quella scena avesse i panni di uno dei personaggi più famosi e amati della storia televisiva degli anni sessanta: Dorellik.
Versione comica di Diabolik, con Margaret Lee nei panni di Eva Kant, il personaggio interpretato da Johnny divenne in poco tempo un successo nazionale.
«Fu anche un film con la regia di Steno. Il personaggio lo inventarono Castellano e Pipolo, allora ogni parodia funzionava. Dorellik era geniale, sfortunato e vanesio».
Non diverso da Gatto Silvestro o da Wil il Coyote, altri eroi di un tempo in cui non era politicamente scorretto tifare per la genialità dei cattivi di fantasia.
Ora ce ne sono troppi, di cattivi veri.
Chiedo a Johnny come nacque la celeberrima risata, un ghigno che nelle scuole di allora era il suono più frequente.
«Ero al Grand Hotel e la notte provavo il personaggio. Avrò fatto cento varianti di quella risata satanica. Ricordo che una volta mi telefonò il portiere di notte perché i miei vicini di stanza protestavano...».
Ho fatto teatro con quei geni di Garinei e Giovannini, ho cantato i brani di un musicista come Armando Trovajoli, ho girato con dei registi immensi. Il film di cui sono più orgoglioso è «State buoni se potete...» di Gigi Magni. Ho girato «Cuore» con Comencini e non rinnego le commedie che ebbero, a cavallo degli anni settanta e ottanta, un grande successo. Erano prodotti ben scritti, con cast di qualità. Ricordo con affetto Laura Antonelli, persona semplice e attrice di vaglia. Un’estate venne in vacanza in Sardegna con Jean Paul Belmondo. Noi lavoravamo e lui andava pesca con la barca mia... È stato tutto molto bello. Anche la radio. “Gran varietà” fu un successo incredibile, la radio era divertente.
Non posso davvero lamentarmi della vita che ho vissuto. Se me l’avessero detto, mentre arrivavo con i calzoni corti e il cuore stretto al porto di New York...
Anche nella vita privata. Fortuna aver incontrato Catherine Spaak, con la quale sono stato undici anni e ho fatto un figlio che si chiama Gabriele. Era una donna di grande intelligenza, carattere non facile... Ma importante.
Una donna formidabile
E poi è arrivata Gloria. Stiamo insieme dal 1979. È una persona formidabile. È intelligente, disponibile, gentile in ogni cosa che fa, ha una grazia rara. È bello vivere ogni giorno della vita con lei».
Chiedo a Johnny se ha una speranza per il futuro.
«Che finisca la guerra in Ucraina. Mi dà un grande dolore. Non capisco Putin. Non voglio capirlo. Distruggere una diga. Ma come si fa?».
Gli chiedo con chi, delle persone che ha conosciuto, vorrebbe passare delle ore a parlare. La risposta mi sorprende e mi intenerisce: «Fausto Cigliano, era un mio grande amico. Una volta la polizia ci fermò in macchina e lui reagì male. Ci misi otto ore a tirarlo fuori da quel guaio. Ora non so che faccia...».
Cigliano, chitarrista e cantante di vaglia, interpretò «E se domani» nel 1964 a Sanremo.
Ho il dovere di dirgli — la sua era una domanda, non un’affermazione — che Cigliano se ne è andato l’anno scorso...
«Mi dispiace tanto. Ci stavo bene insieme».
Gli chiedo di scegliere un momento, uno solo, della sua spettacolare esperienza umana, immaginando di poterla rivivere.
«Quando in uno studio di New York, al termine di un’audizione, tutti andarono via. E io restai solo al pianoforte. Suonavo per me, passata l’emozione. Non mi ero accorto che alle mie spalle c’era l’autore della colonna sonora di Scandalo al Sole. Mi disse di andare avanti. È quello che ho fatto, sempre. Ho girato quaranta film, calcato il palcoscenico per venti anni, inciso centinaia di canzoni, riempito tante serate televisive degli italiani. Ora, a ottantasei anni, mi riposo, guardo il mondo e non ho nessun rimpianto. E, se è vero quello che mi dici: che gli italiani mi vogliono bene... allora sì, grazie, sono proprio contento».
Joss Stone.
Joss Stone: «Sono stata travolta dalla fama, il successo a 16 anni mi fece soffrire». Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 22 Dicembre 2022.
Il ritorno della cantautrice britannica con «Merry Christmas»: è cambiata anche la mia voce
Aveva 16 anni quando la sua voce soul ha fatto breccia nel grande pubblico, trasformandola in una star da 12 milioni di dischi, fenomeno britannico di inizio Millennio. Oggi Joss Stone di anni ne ha 35, ha i capelli più biondi, un sorriso più smagliante ed è appena diventata mamma per la seconda volta. Si avvicina ai 20 anni di carriera mettendo in curriculum il suo primo disco di Natale, «Merry Christmas, love», quattordici classici più due inediti scritti da lei.
Come mai anche lei ha voluto fare il disco di Natale?
«È il mio periodo preferito dell’anno e sognavo questo disco da più di 10 anni: volevo un album elegante e delicato, con arrangiamenti orchestrali e tanti classici pieni d’amore. Poi, se piace, ho già in mente la seconda parte, con i brani più divertenti».
Com’è stato lavorare all’album mentre era in attesa del suo secondogenito?
«Mentre scrivevo uno dei due inediti, “If you believe”, pensavo che lo facevo per i miei figli. Ne avevo una fuori e uno dentro la pancia e pensavo “tutto è per loro”. Prima era tutto per gli altri, mai per me: faccio musica perché le persone possano goderne, come quando prepari la cena a qualcuno. Ma ora è per i miei figli e quindi al tempo stesso è anche per me, come in un cerchio».
Che ricordi ha dei suoi Natali?
«Io e i miei fratelli siamo cresciuti in una famiglia molto tradizionale, con mia mamma che cucinava e faceva le decorazioni, cosa che ora io porto avanti. Mio padre non ci dava il permesso di guardare i regali finché non avevamo fatto colazione. Poi ce li consegnava molto lentamente, creando grande attesa. E alla fine della giornata, mentre sorseggiava il suo Brandy, mi diceva: “Merry Christmas, love”. E quindi questo è il titolo del disco».
Si avvicina ai 20 anni di carriera: come si sente cambiata?
«Ho avuto il primo contratto a 14 anni, a 16 è uscito il mio primo disco. Paragonare come ero allora a come sono oggi è impossibile, è cambiata anche la mia voce. Però il mio spirito e quel che amo credo siano rimasti uguali. Ho sempre voluto una famiglia, dei bambini, degli animali, cucinare per tutti: queste cose sono salde da quando avevo 3 anni. Ma ho imparato tanto, sono più saggia e so anche fidarmi di più di me stessa».
È stato difficile ritrovarsi così famosa così giovane?
«Lo è stato per alcuni aspetti. Una volta che sono riuscita a farmi entrare in testa che la musica doveva essere divertente e non stressante, è diventato più semplice, ma non è andata sempre così: all’inizio, per qualche anno, è stato ok. Poi è diventato tutto più difficile perché ho frainteso a cosa serve la musica, la prendevo troppo sul serio e mi prendevo troppo sul serio. Poi è tornato di nuovo tutto semplice».
Quali erano gli aspetti più complicati?
«Oggi con i social sarebbe peggio, ma per me al tempo è stato veramente un cambiamento gigante perché la gente si fa un’opinione su di te e non si tratta di poche persone, ma di un’intera nazione. Se l’opinione è negativa è davvero orribile, se è positiva non è niente male. Tutto questo è stato strano, ma ora non me ne curo più».
Diventare madre l’ha cambiata come artista?
«Mi ha dato grande ispirazione, storie per i testi ed emozioni per il palco perché sei più pieno d’amore e anche di paure... c’entreranno anche gli ormoni (ride). Ma se musicalmente è un arricchimento, a livello logistico è difficile. Ad esempio ora devo allattare ogni due ore e mezza e dovrò interrompere ogni tanto la mattinata di interviste per assentarmi, mentre un tempo nulla mi fermava. Ma è bello essere fermata da queste cose».
Si riesce a conciliare tutto?
«Certo, ma non riuscirei se non avessi aiuto. In questo momento Cody (il compagno Cody DaLuz, ndr.) è in salotto che si occupa dei bambini, se non ci fosse lui dovrei chiamare la nonna, una zia o la tata. Le donne che affrontano tutto questo da sole meritano una medaglia».
L’anno prossimo la vedremo in concerto in Italia?
«Verrò sicuramente. Ma anche il mio modo di fare i tour è cambiato: porto i bambini con me, prendiamo un autobus e viviamo lì, come una casa che si muove. L’abbiamo già sperimentato con una e ha funzionato benissimo, ora proviamo con entrambi, spero che sarà divertente».
Jude Law.
Jude Law, l’attore inglese compie 50 anni. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.
Dal nome dovuto ai Beatles alle turbolente relazioni sentimentali, 7 curiosità sul sex symbol britannico
Origini
David Jude Heyworth Law è nato a Londra il 29 dicembre 1972. I genitori erano entrambi insegnanti, mentre ora dirigono un teatro in Francia. L’attore ha una sorella maggiore, Natasha, nota pittrice e graphic designer.
Gli inizi
Law lasciò la scuola a 17 anni per partecipare alla famosa soap inglese Families, ma prima di diventare veramente famoso passò diverso tempo a Londra dividendo un appartamento con altri due aspiranti attori: Jonny Lee Miller e Ewan McGregor.
Il nome
Law deve il suo nome a due pilastri della cultura britannica. I genitori presero infatti ispirazione da due titoli: la canzone “Hey Jude” dei Beatles e il libro “Jude l’Oscuro” di Thomas Hardy.
Tatuaggio
I Beatles tornano nella vita di Law sotto forma di tatuaggio, quando l’attore riportò un verso di “Sexy Sadie” sul proprio avambraccio in onore dell’allora compagna Sadie Frost. Oggi l’omaggio è invece coperto dall’immagine di un pesce.
Ricordo macabro
In tre dei suoi più famosi film Jude Law muore malamente. Come ricordo per queste intense interpretazioni in “Il talento di Mr. Ripley”, “Gattaca” e “Mezzanotte nel giardino del bene e del male”, l’attore si è tenuto per sé tutte e tre le maglie che il suo personaggio indossava nel momento della dipartita.
Relazioni
Jude Law ha l’abitudine di innamorarsi sul set. Nel 1994 durante le riprese di “Shopping” conosce infatti la sua prima moglie, Sadie Frost, con la quale ebbe tre figli e dalla quale si separò nel 2003. Girando “Alfie” conobbe invece Sienna Miller, che lasciò l’attore nel 2006 dopo aver scoperto una relazione clandestina con la babysitter. I due tornano brevemente insieme nel 2009 e si lasciano nuovamente nel 2011. Law ha avuto anche una figlia con la modella Samantha Burke nel 2009 e una con la cantante Catherine Harding nel 2015. Dal 2019 è invece sposato con la psicologa Phillipa Coan.
Bevute estreme
Per prendere peso e interpretare il suo personaggio in “Dom Hemingway” nel 2013, Jude Law ha scelto un metodo poco salutare: un regime che prevedeva il consumo di 10 lattine di Coca-Cola al giorno.
Julia Roberts.
Da lastampa.it il 17 gennaio 2022.
Julia Roberts non è una Roberts. O meglio, lo è all'anagrafe, ma non a livello genetico. Una scoperta sensazionale prima di tutto per la stessa attrice che, grazie al programma Ancestory (la più grande azienda di genealogia a scopo di lucro al mondo, gestisce una rete di documenti genealogici, storici e siti Web di genealogia genetica correlati), ha visto scombinarsi il proprio albero genealogico.
La sua trisnonna, la signora Rhoda Suttle Roberts, dopo la morte del marito ebbe una seconda relazione che portò alla nascita del bisnonno di Julia. Grazie ad un'ulteriore verifica con la prova del DNA, si è scoperto che il vero cognome della star hollywoodiana dovrebbe essere Mitchell.
Julia Roberts scopre che in realtà dovrebbe chiamarsi Julia Mitchell. Storia di Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.
Julia Roberts in realtà si dovrebbe chiamare Julia Mitchell. La vera identità della 55enne attrice è stata svelata in una recente puntata della docu-serie «Finding Your Roots», dove il dottor Henry Louis Gates Jr. ricostruisce l’albero genealogico delle celebrità attraverso gli archivi del DNA e un puntiglioso lavoro di ricerca. La minuziosa indagine ha così permesso di scoprire la verità sulla famiglia della star di Hollywood: a metà dell’Ottocento la sua bis bisnonna paterna, Rhoda Suttle, sposa Willis R. Roberts, che però muore nel 1864, ovvero più di dieci anni prima della nascita del bisnonno della Roberts, John Pendleton Roberts, venuto alla luce il 26 agosto 1878.
«Sbalordita»
«Non è possibile che Willis Roberts fosse il tuo bis bisnonno, perché era morto», ha spiegato il conduttore del programma all’attrice che, comprensibilmente scioccata, ha replicato «Quindi non sono una Roberts?». Prima di scioglierle il dubbio, il dottor Gates Jr le ha spiegato che, pur scavando in profondità negli archivi della Georgia, il suo team non era riuscito a trovare alcun dettaglio sull’identità del suo bis bisnonno, così hanno cercato il padre biologico dell’uomo usando i campioni di DNA della stessa Roberts e di uno dei cugini di primo grado di suo padre. Confrontando poi i risultati con quelli di altre persone nei database pubblici disponibili, i ricercatori hanno trovato un gruppo di corrispondenze che lega Julia e suo cugino a Henry MacDonald Mitchell Jr. Di fatto, il bis bisnonno biologico della star di «Pretty Woman», che all’epoca però era sposato con una donna di nome Sarah e aveva già sei figli. «Quindi siamo Mitchell?», ha chiesto attonita la Roberts e il conduttore non ha potuto fare altro che confermarle la verità. Ovvero, che lei è Julia Mitchell e non Julia Roberts, almeno biologicamente. «Sono sbalordita - ha ammesso l’attrice - questa sì che è stata una svolta davvero inaspettata!». Ovviamente non c’è modo di sapere se il bisnonno della Roberts, John, abbia mai saputo l’identità del suo vero padre, ma è ragionevole pensare che la madre Rhoda abbia voluto tenere il segreto per evitare lo scandalo. «In ogni caso preferisco il nome Roberts!», ha concluso ridendo Julia.
Justine Mattera.
Mattia Pagliarulo per Dagospia il 14 aprile 2023.
Molti di noi si ricordano della sexy e frizzante Justine Mattera al fianco di Paolo Limiti, tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, nel programma Ci vediamo in tv, scelta dal conduttore Rai per la sua somiglianza con Marilyn Monroe, e da allora la carriera della bionda statunitense naturalizzata italiana ha spiccato il volo. Iniziata con la musica, nel 1995 il singolo Feel it ha venduto 24 mila copie, è proseguita tra programmi televisivi, produzioni teatrali e addirittura film, sia per il cinema che per la tv.
D: Justine, tra poco taglierà il traguardo dei cinquantadue anni, che bilancio fa?
R: È un bilancio più che altro positivo, direi che ho ancora tanto da fare, ma se ripenso ai miei cinquant’anni più due e a tutto quello che mi ha portato a essere qua oggi mi parte una bella e sana risata. Penso di aver imparato tanto e di aver fatto tante cose da sola. Non ho mai avuto paura di partire, di iniziare, di cambiare e di evolvere. Penso sia questo il segreto.
D: Non tutti sanno che ha studiato presso la Stanford University, negli Stati Uniti, laureandosi in letteratura italiana e inglese. È vero che le piacerebbe insegnare ai ragazzi?
R: Sì, non tutti sanno che ho studiato presso la Stanford University, ma forse perché non leggono neanche il mio profilo. È scritto sul mio profilo Instagram e su Wikipedia, forse non interessa più di tanto alle persone. Eppure mi ricordo di essere stata scelta da Abel Ferrara per Go Go Tales anche perché sono andata a Stanford. Ricordo che lui mi aveva detto: “noi non saremmo mai stati presi da Stanford”. È una scuola molto prestigiosa, è difficilissimo entrare. Ho il mio bagaglio culturale e mi sono laureata in letteratura italiana e inglese, ho fatto una scelta di passione, puntando su quello che mi piaceva di più. Ho trascorso due anni a ingegneria meccanica però era una forzatura, andavo contro me stessa quasi, nonostante fossi bravissima in matematica.
Ho comunque goduto molto di ciò che offriva l’università, ho fatto parte di due squadre e avevo un sacco di altri interessi, allora ho scelto quello che mi affascinava e coinvolgeva di più, ovvero la letteratura, mi veniva più facile. Mi piacerebbe insegnare ai ragazzi? Sì, mi piacerebbe ma purtroppo non è stata un’esperienza positiva il mio tentativo di insegnare al liceo, ho notato uno scarso interesse nella letteratura. Avevo chiesto di leggere Uomini e topi di Steinbeck, visto che avrei parlato di quello, e nessuno lo lesse.
Sono rimasta molto delusa da questo comportamento, perché io non avrei mai nemmeno pensato di presentarmi in classe senza aver letto almeno un libro per rispetto, specialmente nei confronti di una persona che viene una sola volta per fare una lezione speciale. Ci sono rimasta male. Forse si trattava solo di quella scuola o di quei ragazzi. Mi rendo conto che i ragazzi di oggi leggono veramente pochissimo e si sente da come parlano, da come e da cosa dicono. Caspita… mi piacerebbe insegnare, trasmettere la mia passione per la letteratura ai ragazzi, io ci proverei… magari in futuro riuscirò a trovare il pubblico giusto per insegnare.
D: Non pensa che una professoressa sexy come lei possa distrarre i ragazzi dallo studio?
R: Spero proprio di no, anzi penso che potrebbe essere un incentivo a frequentare più spesso i corsi, per magari leggere di più. Io penso che sia ridicolo giudicare il valore di una persona in base a come è vestita o a cosa ha fatto nel passato. Ho fatto la showgirl ma sono pure laureata. E allora?
D: Nuoto, corsa, bicicletta: il suo fisico è scolpito dallo sport, e fa veramente concorrenza alle ventenni. Che rapporto ha con il suo corpo?
R: Fare concorrenza alle ventenni non è il mio obiettivo. Io vedo bene la mia età. Ho quasi cinquantadue anni e se si fa sport in maniera costante, se si mangia bene e se ci si ama a sufficienza si può arrivare a essere come me. Il mio corpo è il prodotto di anni e anni di attività fisica, di passioni, di felicità. Penso che si legga in faccia, e anche sul corpo, ciò che è stato il passato. Non che non si possa cominciare a qualsiasi età, io a quarantacinque anni ho corso la mia prima mezza maratona e mi piace pensare che qualcuno possa anche essere ispirato dal mio esempio. Seguo la voglia di uscire di casa e andare a correre, con questo mi sembra già di aver assolto al mio compito in modo esemplare.
D: È mamma di due figli. Quanti anni hanno e che mamma è?
R: Sono mamma di Vincent di 15 anni e di Vivienne di 13. Sono americana, ma dopo tanto tempo in Italia mi si è attaccata questa cosa tipica italiana, sono una mamma ansiosa, molto presente, mi piace portare i miei figli a scuola e poi andare a prenderli, faccio dei “numeri” per esserci sempre. Mi piace assistere alle loro gare sportive e quando lavoro provo a organizzarmi meglio che posso, anche con modi incredibili per tornare. Se sono in teatro, appena finito torno a casa, partendo magari dal Friuli per arrivare a Milano la mattina per preparargli la colazione. Chi l’avrebbe mai detto?
D: È molto corteggiata dai ragazzi giovani? Se sì, le fa piacere o la infastidisce?
R: Non sono molto corteggiata dai ragazzi giovani, c’è una bella differenza tra un corteggiamento e due commenti lusinghieri sui social. I complimenti fanno sempre piacere poi, ripeto, non sono così tanto corteggiata, forse perché non do spazio al corteggiamento. Sono sposata e tra gli allenamenti, i miei figli e il lavoro non è che ho tanto tempo da dedicare ad altro.
D: Lei è insieme allo stesso uomo da anni. Ci sveli il segreto?
R: Sono insieme a Fabrizio dal 2001, è un botto di tempo e direi che comunque siamo anche noi in crescita, siamo cresciuti insieme. Nonostante il lavoro, bisogna avere tempo per la coppia perché avendo due figli non è così facile avere una certa intimità a casa, eppure riusciamo a essere felici insieme condividendo l’amore per lo sport, i viaggi, il cinema. Abbiamo tante cose in comune e viaggiamo da soli, così recuperiamo tempo per noi
D: Spesso il suo nome viene accostato al Grande Fratello Vip o all’Isola dei Famosi, ma non figura mai nel cast ufficiale, perché?
R: Non sono mai nel cast ufficiale perché per me sarebbe troppo difficile lasciare i miei figli. Se non ci sono io non riescono ad andare agli allenamenti, sono ciclisti, e poi vivrei male un lavoro di tre mesi lontana da loro.
Pensare di dover stare su un’isola a fare niente mentre loro lottano per fare i compiti o per fare sport mi verrebbe il magone, non potrei godermi nemmeno l’esperienza sapendo di averli lasciati in difficoltà. Non che siano piccolissimi, (ride) ormai stanno crescendo, però hanno ancora bisogno di me. Chissà se ci sarà un momento in cui potrò dire “ok, adesso posso fare una cosa da sola, lontano da voi”. Il difficile è quello, poi in realtà a un certo punto dici “ok, se riescono a pagarmi abbastanza potrei anche dire di sì”, ma non dispongono di quelle cifre e allora giustamente rimango a casa.
D: Ha scritto un libro molto intenso dal titolo Just me, edito da Cairo. Di cosa parla?
R: Just me, come dice il titolo, parla di me, è la mia biografia. Quando mi hanno chiesto se fossi interessata a scrivere un libro ci ho pensato quattro, cinque volte prima di accettare perché la scrittura è un lavoro duro, è un lavoro serio e non pensavo di essere all’altezza, però poi, ripensandoci… se non ora, quando? Ci sono tanti treni nella vita e sono convinta che bisogna saltarci su, visto che poi passano. In fondo, non c’era regalo migliore per i miei cinquant’anni, è un po’ un ritorno alle origini: la lettura, la scrittura, quello che ho studiato. È un’idea inaspettata per il pubblico, una cosa che mi poteva arricchire. Spero che sia in un qualche modo di ispirazione per le persone. Sono arrivata da un paese piccolissimo situato sul confine est della città di New York, quindi da qui il libro ripercorre la mia infanzia fino a dove sono adesso.
D: Ha quasi 575 mila follower su Instagram. Che regalo promette di fare ai suoi fans, che la seguono con così tanto calore al traguardo dei 600 mila?
R: (Ride) Cosa prometto ai miei fans? Io sono sempre stata molto disponibile con i miei fans, non ho mai negato una foto a nessuno, mi piace chiacchierare con la gente. Le persone mi hanno sempre incuriosito, mia figlia mi dice sempre “ti perdi sempre nelle chiacchiere”, perché parlo veramente con tutti. Spero di poter offrire qualcosa di interessante.
D: Va molto di moda aprirsi un profilo OnlyFans, lei ce l’ha? Cosa ne pensa?
R: Non ho un profilo OnlyFans. Purtroppo ha una connotazione molto negativa, è tremendamente triste. Sicuramente potrei guadagnare molto, ma per rispetto della mia famiglia non lo faccio.
D: Nel 2006 a La Fattoria abbiamo assistito a un litigio molto acceso, quasi fisico, con la collega Randi Ingerman, che è successo? Vi siete più viste? Avete chiarito?
R: Sì, nel 2006 ho avuto un brutto litigio in televisione con Randi Ingerman. Lei mi accusò di aver provato a rubarle il marito, che si chiamava Luca, ed era assurdo perché non avevo nessun interesse. Lui era un caro ragazzo, parlavamo con lei, però mai, mai, mai mi sarebbe passato per la testa di avere qualcosa a che fare con lui, era veramente incredibile! Ha anche detto, in onda, che mi piaceva rubare i mariti delle amiche ed era una cosa talmente lontana da me che non ci ho visto più, anzi ho visto rosso e le ho dato un pugno.
Ricordo che quando glielo stavo per tirare ho pensato di prenderla sul naso, ma poi osservando il suo naso rifatto, e rifatto così bene, non ho voluto rovinare l’opera e allora ho mirato alla mandibola e le ho detto che se la trovavo lungo la mia strada la investivo (ride).
Ovviamente la D’Urso ha preteso che io mi scusassi davanti a tutto il pubblico e a Randi, io l’ho fatto volentieri, ma in realtà non ci siamo mai chiarite in seguito. E con una come Randi Ingerman, che aveva diversi problemi di salute, e di questo mi dispiace, era impossibile. Lei si è immaginata un qualcosa che non aveva niente a che fare con la realtà e allora ho lasciato perdere. Non so dove sia adesso, ma spero che si sia curata e che stia bene.