Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
LA MAFIOSITA’
SESTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.
L’Arresto di Matteo Messina Denaro.
La Morte di Matteo Messina Denaro.
SECONDA PARTE
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Lotta alla mafia: lotta comunista.
L’inganno.
Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.
I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.
I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.
I gialli di Mafia: Attilio Manca.
Gli Affari delle Mafie.
La Mafia Siciliana.
La Mafia Pugliese.
La Mafia Calabrese.
La Mafia Campana.
La Mafia Romana.
La Mafia Sarda.
La mafia Abruzzese.
La Mafia Emilana-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Lombarda.
La Mafia Piemontese.
La Mafia Trentina.
La Mafia Cinese.
La Mafia Indiana.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Canadese.
TERZA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”.
Gli Infiltrati.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.
QUARTA PARTE
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Concorso esterno: reato politico fuori legge.
La Gogna Territoriale.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Ipocrisia e la Speculazione.
Il Caporalato dei Giudici Onorari.
Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.
Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.
Il Caporalato dei Fotovoltaici.
Il Caporalato dei Cantieri Navali.
Il Caporalato in Agricoltura.
Il Caporalato nella filiera della carne.
Il Caporalato della Cultura.
Il Caporalato delle consegne.
Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.
Il Caporalato dei buonisti.
QUINTA PARTE
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Usura.
Dov’è il trucco.
I Gestori della crisi d’impresa.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Caste.
Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.
Il Business delle Misure di Prevenzione.
I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.
Le Associazioni.
Il Business del Proibizionismo.
I Burocrati.
I lobbisti.
Le fondazioni bancarie.
I Sindacati.
La Lobby Nera.
I Tassisti.
I Balneari.
I Farmacisti.
Gli Avvocati.
I Notai.
SESTA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La P2: Loggia Propaganda 2.
La Loggia Ungheria.
Le Logge Occulte.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Censura.
Ladri di
Case.
LA MAFIOSITA’
SESTA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La P2: Loggia Propaganda 2.
Dagospia martedì 5 settembre 2023. Riceviamo e pubblichiamo:
Ancora una volta il professore Nando dalla Chiesa, professore ordinario di sociologia della criminalità organizzata (ma che materia è?!) inciampa in cose di 40 anni fa. L’ultima versione data sulla morte del suo grande padre parla del generale lasciato solo per salvare gli equilibri nazionali della DC di Andreotti.
Sino a qualche mese fa il professore diceva che Andreotti non aveva dato a suo padre poteri speciali richiesti lasciandolo così solo alla mercé della mafia.
Qualcuno poi gli avrà fatto notare che nel settembre del 1982 Andreotti era da tempo fuori dal governo e quindi, contrordine compagni, la versione deve essere un’altra, possibilmente più eterea ed impalpabile. Di qui gli equilibri nazionali della DC.
Cosa sarebbero questi equilibri nazionali nessuno lo sa, salvo la permanente dialettica tra le correnti della DC.
A me non fa piacere ricordare confidenze di chi non c’è più ma dinanzi a sciocchezze ripetute l’obbligo di riservatezza scompare e resta quello nei riguardi della verità.
Nel lontano 1991 in occasione del mio compleanno, che cade il 3 settembre, Andreotti facendomi gli auguri mi ricordò che in quel giorno non solo iniziò nel 1939 la seconda guerra mondiale, ma nel 1982 fu ucciso dalla mafia il generale dalla Chiesa.
Ebbe parole di grande stima per il generale il quale fu sostenuto proprio da Andreotti nella sua battaglia contro il terrorismo e mi confidò che quando lo andava a trovare la sua più grande preoccupazione erano i difficili rapporti con il figlio perché era comunista!
Quella sinistra che da sempre parlava dei rapporti di Lima e di Andreotti con la mafia
era la stessa sinistra che accusava Falcone e Borsellino fino ad impedire al primo, con l’aiuto della sinistra giudiziaria organizzata da Violante, di guidare la nuova direzione nazionale antimafia contro la istituzione della quale aveva votato contro.
Era sempre quella sinistra che voleva che i boss del maxi processo uscissero per decorrenza dei termini e quindi nel1989 votarono contro il decreto Andreotti-Vassalli che raddoppiava la custodia cautelare per gli imputati di mafia.
Le balle riprese anche da grandi ed autorevoli giornali non sono più tollerabili. Forse sarebbe il caso che la materia insegnata dal professore dalla Chiesa venga modificata in “legislazione antimafia e forze politiche”. Una materia ricca di spunti e di nuove verità.
Paolo Cirino Pomicino
Sospetti e ombre sul caso Moro, i dossier e i misteri di un covo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 settembre 2022
I magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli. Trovano gli elenchi della loggia P2. Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso»...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
È soprattutto un’operazione speciale nei covi brigatisti a segnare la storia degli anni del terrorismo e forse la stessa sorte di Carlo Alberto dalla Chiesa. È la scoperta di un nascondiglio, quello di via Monte Nevoso, a Milano.
Aldo Moro è stato ucciso da sei mesi quando un capitano dell’Antiterrorismo viene a sapere che il brigatista Lauro Azzolini è rifugiato lì, in via Monte Nevoso. Il 1° ottobre del 1978 i carabinieri lo fermano, nel covo c’è anche la nuova compagna di Curcio, Nadia Mantovani. Nell’appartamento trovano le lettere di Aldo Moro scritte durante la prigionia brigatista.
È il «memoriale» del presidente della Dc rapito dalle Br. Il generale consegna le carte al capo del governo, Giulio Andreotti, dal quale dipende direttamente per decreto. Tutte? Le consegna tutte?
È questo il sospetto che comincia a circolare in Italia: dalla Chiesa ha tenuto per sé alcune lettere, come arma di ricatto contro Andreotti e altri uomini politici italiani.
Allusioni che si rincorrono per anni, che raccontano di un dalla Chiesa intento a trafficare con i dossier, custodire segreti per uso estorsivo, a minacciare il tempio del potere italiano con le carte di Moro.
Qualcuno – il giornalista Mino Pecorelli – dice anche che i «memoriali» sono più di uno e che la vita del generale è in pericolo. Ma è Pecorelli che nel marzo 1979 muore ammazzato.
Che cosa è realmente avvenuto in via Monte Nevoso? Chi spande veleni intorno al cadavere di Aldo Moro?
Carlo Alberto dalla Chiesa, probabilmente, è a conoscenza di retroscena indicibili sul «caso Moro». I misteri del covo di via Monte Nevoso serviranno a qualcuno come movente o come alibi per liberarsi in futuro del generale.
Nel 1980 è a Milano, comandante della Divisione Pastrengo.
Gli «anni di piombo» stanno per finire. I brigatisti sono isolati nel Paese, la repressione è durissima, il generale ha quasi concluso il suo compito.
È sempre a Milano quando, all’inizio dell’anno successivo, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli.
Trovano gli elenchi della loggia P2.
Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso».
Dopo aver ceduto agli inviti di Franco Picchiotti, il suo ex vicecomandante, dalla Chiesa qualche mese dopo ha chiesto di non voler più entrare nella loggia. Ma la notizia del suo coinvolgimento nella P2 filtra subito, anche se non è nell’elenco, confuso con tutti gli altri.
Il generale è disperato. Lui in mezzo a quella teppa. Golpisti. Ladri di Stato. Amici dei mafiosi. È fuori di sé, si vergogna.
Convocato come testimone dai giudici milanesi racconta dell’incontro con Picchiotti del 1976, della sua curiosità verso quella loggia fin dai primi anni dell’Antiterrorismo – quando ha incrociato alcuni «neri» in contatto con la P2 –, del suo pentimento per essersi piegato alle pressioni dell’ex vicecomandante. Tutti i documenti sulla P2 vengono pubblicati il 7 maggio 1981.
Lo scandalo è enorme. Ricominciano gli attacchi contro dalla Chiesa anche se lui nella lista non compare.
I più duri arrivano ancora una volta dall’interno dell’Arma.
È il Comandante Generale, Umberto Cappuzzo, uno di quelli che non l’ha mai sopportato, a invitarlo «a farsi da parte».
Il governo fa quadrato intorno al generale. Alcuni uomini politici lo stimano, uno di loro è Bettino Craxi. Ma i suoi superiori si accaniscono, cercano di convincere il ministro della Difesa Lelio Lagorio e quello dell’Interno Virginio Rognoni. Vogliono cacciarlo dall’Arma. Non ci riescono. Alla fine del 1981 ne diventa vicecomandante. Come suo padre Romano nel 1955
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Tina Anselmi e la Commissione d’inchiesta sulla P2. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 05 settembre 2023
Lo scandalo fa tremare l'Italia. Una lista di 962 nomi, vertici delle forze armate e alti magistrati, grandi editori e ministri della Repubblica, attori e imprenditori, giornalisti famosi, la crema della finanza e della burocrazia, questori, prefetti, generali dei carabinieri e ammiragli. Tutti iscritti a una loggia segreta che aveva in mano lo stato italiano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Lo scandalo fa tremare l'Italia. Una lista di 962 nomi, vertici delle forze armate e alti magistrati, grandi editori e ministri della Repubblica, attori e imprenditori, giornalisti famosi, la crema della finanza e della burocrazia, questori, prefetti, generali dei carabinieri e ammiragli. Tutti iscritti a una loggia segreta che aveva in mano lo Stato italiano.
È il 17 marzo del 1981 quando i magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo ordinano ai finanzieri di perquisire Villa Wanda a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, la residenza del venerabile maestro della loggia P2 Licio Gelli. E' un elenco incompleto di una ”fratellanza” segretissima che operava nel mistero con il suo capo, Gelli, interlocutore abituale delle più alte cariche delle istitituzioni, compresi i presidenti della Repubblica.
La scoperta della P2 avviene dopo anni di indagini dei magistrati milanesi intorno alle acrobazie finanziarie di Michele Sindona, banchiere siciliano legato a Giulio Andreotti (che difronte a critiche e sospetti sempre più forti lo definisce “il salvatore della lira”) e - come si accerterà in seguito - ai boss dell'aristocrazia di Cosa Nostra.
La lista ritrovata a Villa Wanda non contiene tutti gli uomini iscritti al sodalizio ma ce n'è abbastanza per provocare un terremoto politico.
Così alla fine del 1981 viene creata la commissione parlamentare d'inchiesta sulla “P2” presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, un'ex partigiana. È un lavoro estremamente difficile, all'interno della commissione non mancheranno scontri e paure. Qualche anno dopo, nel 1984, verranno trasmesse al Parlamento le relazioni finali, una di maggioranza e una di minoranza.
Da oggi sul Blog pubblichiamo ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione Anselmi.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
Le difficili indagini sulla loggia e le oscure manovre del potere. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 05 settembre 2023
La Commissione ha operato uno sforzo nel tentare di capire e di interpretare non solo ciò che veniva sottoposto alla sua attenzione, ma altresì ciò che ad essa veniva celato, quanto le carte e le testimonianze dicevano in termini espliciti e quanto esse rivelavano, e spesso era il più, implicitamente, attraverso i silenzi e le omissioni
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
La valutazione e l'esatta comprensione delle conclusioni che la Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2 consegna al Parlamento al termine dei suoi lavori, richiedono ali cune preventive precisazioni intorno al metodo ed ai criteri secondo i quali la presente relazione è stata redatta.
Il problema fondamentale con il quale la Commissione nel corso dei suoi lavori ed il relatore nella stesura del documento finale si sono dovuti confrontare è stato quello della vastità della materia oggetto di indagine, che non solo interessa i più svariati campi della vita nazionale, intrecciandosi altresì con argomenti oggetto di altre inchieste parlamentari, ma si estende inoltre lungo l'arco di un periodo di tempo più che decennale.
Sta a testimonianza di questa peculiare natura del fenomeno analizzato l'ampiezza dei lavori della Commissione, protrattisi per oltre trenta mesi, secondo un impegno che pochi dati statistici bastano ad evidenziare in modo eloquente.
La Commissione ha effettuato un totale di 147 sedute, nel corso delle quali sono state ascoltate testimonianze, per un totale di 198 persone che hanno, a vario titolo, collaborato ai lavori di inchiesta in sede di audizione. Valendosi dei poteri concessi dalla legge istitutiva, la Commissione ha ordinato l'effettuazione di 14 operazioni di polizia giudiziaria, tra le quali particolare rilievo hanno assunto quella diretta ad accertare la situazione reale dell'assetto proprietario relativo al Corriere della Sera, nonché quelle effettuate presso le comunioni massoniche maggiormente accreditate al fine di verificare in termini ultimativi sia la consistenza della Loggia massonica P2 sia la natura dei vari legami con l'ambiente massonico.
Nel corso dei suoi lavori la Commissione ha infine accumulato una mole di documenti, valutabile nell'ordine di alcune centinaia di migliaia di pagine, che risulta in parte formata direttamente da attività della Commissione, in parte acquisita da fonti esterne, ovvero, oltre che da privati, da autorità giudiziarie ed amministrative di ogni ordine e grado, che hanno prestato la loro collaborazione sia autonomamente che su impulso della Commissione.
I dati esposti offrono da soli, nella loro sintetica enunciazione, un quadro significativo dell'importanza del fenomeno e della sua ramificazione. Si vuole qui ricordare infine che la materia oggetto di indagine, o suoi aspetti particolari, è altresì oggetto di numerose inchieste giudiziarie attualmente in corso, nelle quali sono rinvenibili presenze non marginali di uomini ed ambienti che nella Loggia P2 trovavano espressione.
Le considerazioni esposte rendono palese che il primo problema che la Commissione ha dovuto affrontare in sede di conclusione dei propri lavori è stato quello di delimitare l'ambito del proprio documento conclusivo, al fine di consentire al Parlamento ed ai cittadini uno strumento atto a comprendere e valutare il fenomeno nella sua portata reale, nella convinzione che dilatare indiscriminatamente il discorso oltre un certo limite equivarrebbe, in ultima sostanza, a perdere il significato reale dell'evento.
Quando si ponga mente alla varietà e qualità delle persone affiliate alla loggia, alla estensione dei campi di attività che esse rappresentavano, alla durata nel tempo della sua accertata operatività, appare evidente che una scelta metodologica che avesse privilegiato il criterio di inseguire il fenomeno nelle sue molteplici ramificazioni non avrebbe avuto altro esito che quello di riprodurre descrittivamente, nel migliore dei casi, una determinata situazione, senza peraltro pervenire ad una comprensione politicamente apprezzabile della sua genesi, della sua sostanza e delle finalità ad essa prefissate.
La Commissione, facendosi carico del grave compito assegnatole dal Parlamento e della vigile attenzione con la quale l'opinione pubblica ha seguito questa vicenda, ha ritenuto che una simile scelta si sarebbe risolta in un sostanziale fin de non-recevoir politico, eludendo la vera sostanza del problema, che è, ed altro non potrebbe essere, quella di identificare la specificità dell'operazione piduista. Si tratta in altri termini di verificare se sia possibile individuare, indagando quella che il Commissario Battaglia ha definito la natura polimorfa di tale organizzazione, un filo conduttore che attraverso la molteplicità degli aspetti e degli eventi riconduca ad una interpretazione unitaria il fenomeno.
In tale prospettiva il, relatore ha proceduto, ponendosi di fronte al corpus testimoniale e documentale a disposizione con l'intento di operare una selezione tra i fatti e i documenti che si presentavano contrassegnati da maggiore interesse e per i quali era possibile stabilire un apprezzabile collegamento avente significato interpretativo.
La enucleazione di questi momenti di analisi di maggior pregio si è posta come intervento pregiudiziale ed indispensabile alla necessaria opera di interpretazione dei dati, nella quale si è proceduto alla verifica di una possibile ricostruzione generale del fenomeno, dando rilievo preminente, in tale operazione, alla verosimiglianza interpretativa dei risultati raggiunti, considerati soddisfacenti quando confortati dalla logica della conclusione proposta ovvero dalla sua congruità a fornire una spiegazione coerente alla massa indistinta di dati sottoposti alla nostra attenzione.
In questo contesto, la Commissione ha operato uno sforzo nel tentare di capire e di interpretare non solo ciò che veniva sottoposto alla sua attenzione, ma altresì ciò che ad essa veniva celato, quanto le carte e le testimonianze dicevano in termini espliciti e quanto esse rivelavano, e spesso era il più, implicitamente, attraverso i silenzi e le omissioni.
Le conclusioni alle quali si è pervenuti sono pertanto ritenute attendibili e come tali meritevoli di essere portate all'esame del Parlamento, poiché ricevono supporto, oltre che dalla documentazione in nostro possesso, dalla constatazione che gli elementi relativi trovano coerente sistemazione e logica spiegazione.
Una siffatta operazione ha comportato l'emarginazione di alcune situazioni istruttorie, che pure avevano nel corso dei lavori della Commissione trovato adeguata attenzione, ma alle quali in sede conclusiva si è dato più circoscritto rilievo o perché nulla aggiungevano di significativo ai risultati ai quali si è pervenuti o perché l'approfondimento analitico relativo non ha raggiunto ancora livelli che si possano giudicare sufficientemente stabiliti.
Tale ad esempio la ricostruzione della vicenda del presidente dell'Ambrosiano, Roberto Calvi, oggetto di inchieste giudiziarie ancora in corso, che peraltro, ai fini della presente relazione, può dirsi sufficientemente conosciuta ed inquadrata nell'ambito del sistema di relazioni che si incardinavano nella Loggia P2 e ruotavano intorno al suo Venerabile Maestro, Licio Gelli.
Si intende pertanto che la scelta operata dalla Commissione è stata, piuttosto che di circoscrivere l'ambito del proprio operato in sede conclusiva, quella di qualificarlo funzionalmente, nell'intima convinzione che quanto il Parlamento ed il Paese da essa si attendono è una risposta chiara e precisa di fronte ad un fenomeno che nella sua stessa costruzione avvia ad una rete complessa di falsi obiettivi e di illusorie certezze, giocando sull'ambiguità ed elevando a sistema di potere le allusioni e le mezze verità e quindi l'intimidazione ed il ricatto che su di esse si possono innestare.
È proprio la natura polimorfa di tale organizzazione che ne spiega quella che il Commissario Battaglia ha definito la sua pervasività, e chiarisce come primario obiettivo sia quello di fornire una risposta politica precisa che individui la specificità del fenomeno; perché, come ha rilevato il Commissario Petruccioli, questa distinzione costituisce il presupposto politico imprescindibile per l'estirpazione definitiva del fenomeno.
La presente relazione rappresenta pertanto uno sforzo di sintesi e di interpretazione diretto alla individuazione, attraverso la poliedrica realtà del fenomeno e la sua voluta ambiguità, della connotazione specifica e della peculiarità propria che hanno contraddistinto la costruzione della Loggia P2 e la sua operatività.
È convincimento del relatore che finalizzare il proprio lavoro nel senso esposto abbia costituito il modo più adeguato per ottemperare al dettato della legge istitutiva, la quale, nel momento di istituire la Commissione, ha fissato l'obbligo di presentare una relazione al Parlamento sulle risultanze delle indagini.
La Commissione ha tratto da questa previsione normativa la precisa indicazione dell'ambito della sua competenza e del suo ruolo nel quadro prefissato dei poteri costituzionali, entro i quali essa si colloca come un momento, sia pure di incisivo rilievo, proceduralmente coordinato alla competenza ultima del Parlamento cui spetta di esaminare e deliberare, nella sua plenaria responsabilità, in ordine ad ogni aspetto che attenga alla vita della Nazione.
A questo fine la relazione della Commissione mira ad inserirsi in tale articolato procedimento; e, lungi dal pretendere di esaurire in modo definitivo l'esame e la valutazione di un fenomeno che ha interessato gli aspetti più qualificati della società civile, si pone l'obiettivo di consentire che il dibattito su questi problemi e sul complesso delle implicazioni e delle responsabilità ad essi inerenti sia argomentato e documentato nel modo più serio e costruttivo.
In questa prospettiva ed entro i limiti indicati, è convincimento di questa Commissione parlamentare di inchiesta che, pur nella naturale perfettibilità delle cose umane, i risultati del proprio lavoro, che vengono rassegnati nella presente relazione, potranno adempiere la funzione che è loro propria di costituire la base ragionata per un sereno ma fermo dibattito nel Parlamento e tra i cittadini, a conferma — e del resto ne è testimonianza l'esistenza stessa di questa Commissione — dell'intatta forza della democrazia italiana.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Il “venerabile maestro” e la massoneria di Palazzo Giustiniani. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 06 settembre 2023
L'organizzazione ispirata e guidata da Licio Gelli, denominata Loggia Propaganda Due, nasce e si sviluppa nell'ambito della maggiore comunione massonica esistente in Italia: il Grande Oriente di Italia di Palazzo Giustiniani
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
L'organizzazione ispirata e guidata da Licio Gelli, denominata Loggia Propaganda Due, nasce e si sviluppa nell'ambito della maggiore comunione massonica esistente in Italia: il Grande Oriente di Italia di Palazzo Giustiniani. Si rende pertanto necessaria una breve disamina della presenza massonica nel nostro paese e delle sue strutture al fine di comprendere e valutare nella sua esatta dimensione il fenomeno della Loggia massonica P2, oggetto di un apposito provvedimento di scioglimento votato dal Parlamento.
La massoneria italiana si compone di due maggiori organizzazioni o «famiglie», comunemente indicate con il sintetico riferimento alla sede storicamente occupata, come di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù; questa si configura a sua volta come promanazione della prima a seguito di una scissione intervenuta nel 1908, in ragione di contrasti attinenti l'atteggiamento da assumere sulla legislazione concernente l'insegnamento religioso nelle scuole.
Accanto a questi due gruppi di rilievo nazionale — la cui consistenza è valutabile tra i 15-20 mila iscritti per Palazzo Giustiniani e tra i 5-10 mila per Piazza del Gesù —- sono presenti altri minori gruppi locali con una consistenza valutabile, per ognuno di essi, nell'ordine di alcune centinaia di iscritti.
Prendendo in esame le due organizzazioni principali va messo in rilievo, ai fini che qui interessano, che il modello strutturale assunto è quello dì una distribuzione degli iscritti secondo una scala gerarchica modulata per gradi. Questa scala gerarchica conosce una divisione fondamentale tra Ordine, comprendente i primi tre gradi, e Rito, comprendente i gradì dal quarto al trentatreesimo, talché, mentre tutti coloro che fanno parte del Rito sono necessariamente membri dell'Ordine, non necessariamente vale l'assunto contrariò.
Trattasi in altri termini di due livelli collegati ma non coincidenti, l'uno sopraordinato all'altro secondo un modello di struttura verticalizzata che presiede a tutta l'organizzazione massonica, all'interno della quale poi la mobilità degli iscritti nella gerarchia è regolata dalla stretta applicazione del principio di cooptazione che determina ogni passaggio di grado, nonché l'ingresso nell'Ordine e poi nel Rito.
Gli iscritti, a loro volta, sono raggruppati in logge aventi base territoriale; e la domanda di iscrizione ad una loggia è requisito fondamentale per l'ingresso di un « profano » nella massoneria, per cui, in linea di principio, non si può appartenere alla massoneria, se non attraverso il momento comunitario della iscrizione ad una loggia.
La massoneria di Palazzo Giustiniani contemplava, oltre a tale situazione, la possibilità di accedere all'Ordine per iniziazione operata direttamente dal responsabile supremo — il Gran Maestro — senza pertanto sottostare alla votazione che sancisce l'ingresso dell'iniziando nell'organizzazione.
I «fratelli» che venivano iniziati «sul filo della spada» si venivano pertanto a trovare in una posizione particolare («all'orecchio» del Gran Maestro) sia per non avere una loggia di appartenenza, sia per il carattere riservato della loro iniziazione, intervenuta al di fuori delle ordinarie forme di pubblicità statutariamente previste; essendo pertanto la loro iniziazione nota solo all'organo procedente, il Gran Maestro, tali iscritti venivano designati come «coperti» ed inseriti d'ufficio in una loggia anch'essa «coperta» comprendente per l'appunto la lista degli iscritti noti solo al Gran Maestro.
Tale loggia veniva designata come loggia «Propaganda»; ogni loggia poi essendo contrassegnata da un numero oltre che da un nome, la loggia «Propaganda» avrebbe avuto in sorteggio il numero due. Tale almeno è la spiegazione fornita dai responsabili massonici sull'origine di questa denominazione. Dalla vasta documentazione acquisita dalla Commissione nell'ambito di operazioni di perquisizione e di sequestro di documenti, secondo i poteri attribuiti dalla legge, è emerso che il fenomeno della « copertura » era comune alle altre famiglie ed interessava sia singoli iscritti che intere logge, rivestendo portata più ampia di quanto non rappresentato in questa prima schematica descrizione.
È accertato che, sia in sede centrale che in sede periferica, era assai frequente l'uso di denominazioni fittizie per mascherare verso l'esterno, verso il mondo « profano », la presenza di strutture massoniche. Così ad esempio era prassi consueta intitolare a generici Centri studi i contratti di affitto per i locali necessari all'attività della loggia; ed è dato rilevare come gli statuti di tali organismi non contenessero alcun riferimento alla massoneria e alle attività massoniche nel designare l'oggetto dell'attività dell'ente, salvo poi riscontrare una perfetta identità personale tra gli iscritti al Centro studi ed i membri della loggia.
Nella linea del fenomeno descritto si poneva pertanto il Gelli quando intestava le varie sedi successivamente occupate dalla Loggia P2 ad un Centro studi di storia contemporanea che fungeva, anche a fini di corrispondenza tra gli iscritti, da copertura per l'organismo massonico da lui guidato. La tecnica impiegata realizzava una forma di copertura rivolta verso l'esterno, verso il mondo « profano », accanto alla quale deve essere esaminata una seconda forma di copertura rivolta in tutto od in parte all'interno della stessa organizzazione.
Sono stati infatti rinvenuti documenti che fanno riferimento a logge coperte periferiche, ad una loggia coperta nazionale numero uno (presso l'organizzazione di Piazza del Gesù), ad un Capitolo nazionale riservato (presso il Rito Scozzese Antico ed Accettato di Palazzo Giustiniani). Sono stati inoltre acquisiti registri di appartenenti a logge (piedilista) nei quali gli iscritti venivano elencati invece che con il proprio nome con soprannomi o pseudonimi di copertura.
La documentazione in possesso della Commissione, ancorché frammentaria, testimonia in modo certo un modus procedendì all'interno delle organizzazioni massoniche improntato a connotazioni di riservatezza volte a salvaguardare le attività degli iscritti, o di alcuni settori, dall'indiscrezione e dall'interessamento non solo degli estranei all'istituzione ma anche a parte, maggiore o minore, degli stessi affiliati alla comunione.
Tale costume di vita associativa è stato dai massimi responsabili della massoneria rivendicato come una forma di riservatezza propria dell'istituzione, motivata dal rinvio ai contenuti esoterici che sarebbero propri della dottrina massonica nonché dal richiamo a situazioni storiche di persecuzione degli affiliati.
Ai fini che interessano nella presente relazione, va posto in rilievo che i fenomeni di copertura indicati erano comunque largamente invalsi nella vita delle varie famiglie massoniche con riferimento al periodo anteriore alla legge di scioglimento della loggia P2 e traevano alimento, oltre che nelle ragioni storiche addotte, largamente superate al presente, nell'assenza di un preciso quadro di riferimento normativo che desse attuazione alla norma costituzionale in materia di libertà di associazione.
E sintomatico peraltro che posteriormente all'approvazione della legge di scioglimento della Loggia P2 gli elementi più sensibili della massoneria si siano posti il problema della ortodossia di tali modelli organizzativi, risolvendolo nel senso di alcune modifiche statutarie, con la conseguente soppressione di organismi quali il Capitolo riservato e la Loggia nazionale coperta numero uno, come avvenuto presso la comunione di Piazza del Gesù. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Fratelli riservati, ma molto interessati al mondo “profano”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Panorama il 07 settembre 2023
In definitiva e per concludere sembra doversi rilevare il rischio che la solidarietà massonica, quando si traduca in una occulta agevolazione di successi personali, possa rendersi incompatibile con non poche regole della società civile, specie quando tale forma di solidarietà operi all'interno di carriere pubbliche
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Accanto alla connotazione della riservatezza altra peculiarità dell'organizzazione massonica generalmente considerata, sulla quale soffermare l'indagine, è quella dello spiccato interessamento delle varie comunità massoniche verso le attività del mondo «profano».
Se è pur vero che uno dei landmarks fondamentali della originaria massoneria inglese, che fungono da pietra miliare per le comunità massoniche di tutto il mondo, contiene il divieto di occuparsi di questioni politiche, una abbondante documentazione in possesso della Commissione dimostra che l'attività delle logge non è volta soltanto allo studio ed all'approfondimento di questioni esoteriche, ma abbraccia un vasto campo di interessi che trovano il loro momento di unificazione nella pratica massonica della solidarietà tra fratelli.
La solidarietà esplica la sua funzione per le attività dell'affiliato nel mondo «profano», giungendo sino all'appoggio esplicito per i fratelli candidati, formalizzato in circolari tra gli iscritti, in occasione di consultazioni elettorali. Particolarmente significativo al riguardo è l'esempio di un modello organizzativo verificato presso la comunione di Piazza del Gesù: le camere tecniche professionali.
Si tratta di organismi settoriali che, su iniziativa e propulsione del centro, raccolgono gli iscritti in ragione della professione esercitata. Viene pertanto affiancato al modello delle logge, che funzionano su base territoriale ed inter professionale, un sistema di raggruppamento degli affiliati parallelo alla struttura delle logge ed organizzato su base nazionale, avente quale momento unificativo gli interessi e le attività «profane».
Secondo tale schema troviamo così raggruppati i medici, i professori universitari e i militari, esempio questo degno di particolare attenzione, ove si consideri che la relativa «camera» rivestiva carattere di riservatezza. Va peraltro posto in rilievo che una ragione non ultima della pluralità di famiglie massoniche esistenti va probabilmente ricercata — oltre che in ragioni di ordine puramente teorico — in una diversa consonanza di opinioni e di interessi in materie estranee alle questioni di esclusivo profilo esoterico.
La stessa massoneria d'altronde rivendica a proprio merito l'aver rivestito un ruolo importante in vicende storiche del nostro paese, anche se, purtroppo, osta ad una esatta valutazione di tali affermazioni il carattere di riservatezza della istituzione, di cui si è trattato.
Nasce da questa propensione all'intervento nelle attività «profane» ed in essa trova ragione di esistere, l'istituto tipicamente massonico della «solidarietà» tra gli affiliati, ovvero della mutua assistenza che essi si garantiscono nell'esercizio delle loro attività professionali e comunque delle vicende personali estranee alla vita associativa.
La solidarietà tra fratelli rappresenta l'estensione al di fuori della comunione del vincolo associativo, che viene di tal guisa ad esplicare una efficacia di rilevante portata e nel contempo di difficile valutazione, attesa la riservatezza che gli affiliati mantengono nel mondo «profano» sull'esistenza del rapporto di reciproco affratellamento.
La solidarietà massonica sanzionata in forma solenne al momento dell'iniziazione, costituisce infatti un elemento che potrebbe in sé considerarsi non solo legittimo ma perfettamente naturale, poiché appare logico che individui che dichiarino di condividere i medesimi convincimenti morali ed esistenziali in ordine ai problemi fondamentali dell'uomo si sentano legati da un forte vincolo che per l'appunto viene chiamato «fraterno».
Quello che induce non poche perplessità nell'osservatore esterno é l'accentuata riduzione in termini pratici e concreti di tale affratellamento e la sua coniugazione con un radicato costume di riservatezza. Non è in altri termini la solidarietà in sé e per sé considerata a destare legittime riserve, quanto piuttosto la sua non avvertibilità sociale. Una avvertibilità che tanto più dovrebbe essere consentita quanto più chi ne è protagonista attribuisce ad essa effetti di immediato rilievo terreno.
In definitiva e per concludere sembra doversi rilevare il rischio che la solidarietà massonica, quando si traduca in una occulta agevolazione di successi personali, possa rendersi incompatibile con non poche regole della società civile, specie quando tale forma di solidarietà operi all'interno di carriere pubbliche.
Ultima connotazione di ordine generale utile ai nostri fini è la rilevanza dell'aspetto internazionale della massoneria, che si pone come un contesto di organizzazioni nazionali fortemente legate tra di loro secondo due schieramenti, che, per quanto concerne l'Europa, possono identificarsi in una parte a primazia britannica verso la quale è orientata la comunione di Palazzo Giustiniani, ed una parte di orientamento cosiddetto latino egemonizzata dalla massoneria francese, alla quale si ispira la famiglia di Piazza del Gesù.
In un più ampio contesto argomentativo si può dire che la massoneria vive sotto l'egida del mondo anglosassone, nell'ambito del quale il primato attribuito agli inglesi per motivi di tradizione è confrontato dalla grande potenza organizzativa della massoneria nord-americana. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Frank Gigliotti, l’agente della Cia massone vicino ai cugini italiani. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani l'08 settembre 2023
L'artefice del primo riconoscimento del Grande Oriente da parte della prestigiosa Circoscrizione del Nord degli Usa (il riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita di Inghilterra verrà soltanto nel 1982) fu nel 1947 Frank Gigliotti, già agente della Sezione italiana dell'Oss dal 1941 al 1945, e quindi agente della Cia
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Ai nostri fini il dato che viene particolarmente in luce è la connessione tra la massoneria statunitense e la comunione di Palazzo Giustiniani. Traccia di questi legami si rinviene nella presenza di tale Frank Gigliotti in momenti particolarmente qualificati nella storia recente della comunione di Palazzo Giustiniani.
L'artefice del primo riconoscimento del Grande Oriente da parte della prestigiosa Circoscrizione del Nord degli USA (il riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita di Inghilterra verrà soltanto nel 1982) fu infatti nel 1947 Frank Gigliotti, già agente della Sezione italiana dell'OSS dal 1941 al 1945, e quindi agente della CIA. Più tardi Gigliotti fu presidente del «Comitato di agitazione» costituitosi negli Stati Uniti per rispondere all'appello lanciato dai fratelli del Grande Oriente impegnati nella contestata opera di riappropriazione della casa massonica di Palazzo Giustiniani confiscata durante il periodo fascista, a seguito dello scioglimento autoritario dell'istituzione.
Il compromesso tra il Grande Oriente e lo Stato italiano, patrocinato dai fratelli americani, fu siglato il 7 luglio 1960. L'atto di transazione fu sottoscritto dal ministro delle finanze Trabucchi e dall'allora Gran Maestro Publio Cortini, e vedeva presenti, al tavolo della firma di una stipula tutta italiana, l'ambasciatore americano, J. Zellerbach, e Frank Gigliotti.
Sempre nel 1960 i fratelli americani intervennero attraverso il Gigliotti nell'operazione di unificazione del Supremo Consiglio della Serenissima Gran Loggia degli ALAM del principe siciliano Giovanni Alliata di Montereale (il cui nome sarà legato alle vicende del golpe Borghese, a quelle della «Rosa dei Venti», alle organizzazioni mafiose), poi finito nella Loggia P2, con il Grande Oriente.
Sembra che quella dell'unificazione del Grande Oriente con la massoneria di Alliata, di forte accentuazione conservatrice, sia stata la condizione posta da Gigliotti in cambio dell'intervento americano nelle trattative con il Governo italiano concernenti il Palazzo Giustiniani. L'unificazione comportò l'estensione al Grande Oriente del riconoscimento che aveva già dato alla Serenissima Gran Loggia di Alliata la Circoscrizione Sud degli USA, nonché numerosi elementi di prestigio nell'ambiente massonico.
Non solo si deve rilevare, secondo quanto emerge da queste vicende, che il progetto di unificazione della massoneria italiana sembra corrispondere ad interessi non esclusivamente autoctoni, ma risalta altresì alla nostra attenzione la comparsa di Gelli sulla scena quando Gigliotti scompare, secondo una successione di tempi ed una identità di funzioni che non può non colpire significativamente.
Si deve infine sottolineare come la denegata giustizia — nella quale sostanzialmente si concretò la mancata restituzione del palazzo confiscato dal fascismo — ebbe l'effetto di rendere la massoneria italiana indebitamente debitrice di quella nord-americana.
Nell'ambito del quadro sinora sinteticamente tracciato va vista e studiata l'attività di Licio Gelli e della Loggia Propaganda Due, mirando ad accertare quanto di tale fenomeno sia addebitabile all'impulso organizzativo ed alla intraprendenza personale del Gelli, ed in tale contesto con la protezione e l'appoggio di quali organi e di quali personaggi nell'ambito dell'ambiente massonico o eventualmente estranei ad esso.
Quanto qui preme riassuntivamente segnalare è che l'organizzazione e l'attività massonica sembrano contrassegnate, ai fini che al nostro studio interessano, dall'adozione di forme di riservatezza, interne come esterne, sia della vita associativa che dell'appartenenza individuale. Tale riservatezza si appalesa poi come posta a tutela, oltre che dell'attività di indagine esoterica propria dell'istituzione, di attività volte eminentemente ad intervenire in vario modo nella vita extra-associativa degli iscritti, in applicazione della pratica della solidarietà tra fratelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Amicizie preziose, la scalata di Licio Gelli tra i liberi muratori. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 09 settembre 2023
La posizione di preminenza assunta con rapida ascesa da Licio Gelli nella comunione di Palazzo Giustiniani non è in realtà spiegabile se non attraverso l'analisi dei rapporti che questi riuscì ad intrattenere con i dirigenti dell'organizzazione ed in particolare con i Gran Maestri, a cominciare dal Gamberini, che patrocinò l'ascesa iniziale di Gelli, in sintonia con il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Quando si passi ad esaminare il ruolo ricoperto da Gelli nella massoneria e la portata dell'influenza da lui esercitata nell'ambito dell'istituzione, e fuori di essa valendosi della sua posizione massonica, il dato al quale occorre in primo luogo dare adeguato rilievo è quello relativo alla data relativamente recente della sua militanza massonica.
Il Gelli infatti, personaggio che domina la scena massonica dalla fine degli anni sessanta sino all'inizio degli anni ottanta, entra in massoneria solo nel 1965 e apparentemente non senza contrasti, poiché la sua domanda di ammissione viene fermata per un anno prima di essere messa in votazione. Ma già l'anno successivo il Gran Maestro aggiunto, Roberto Ascarelli, segnala Licio Gelli al Gran Maestro, Giordano Gamberini, raccomandandolo come elemento in grado di portare un contributo notevole all'istituzione, in termini di proselitismo di persone qualificate.
Così che il Gelli, ancora fermo al primo grado della gerarchia (apprendista), viene prima cooptato dalla originaria Loggia Romagnosi alla Loggia riservata Hod che fa capo allo stesso Ascarelli — con un provvedimento di avocazione del fascicolo personale preso direttamente dal Gran Maestro Gamberini — per essere quindi nominato nel 1971 segretario organizzativo della Loggia Propaganda che diventa «Raggruppamento Gelli-P2».
Se il procedimento di cooptazione è, come prima rilevato, tipico della organizzazione massonica, bisogna pertanto constatare che esso funziona, nel caso dì Gelli, in modo particolarmente accelerato, poiché successivamente al primo trasferimento ricordato, già di per sé anomalo, il Gelli appare già nei 1969 investito di delicate mansioni che concernono questioni dì massimo rilievo per l'intera comunità massonica nazionale.
Pur senza infatti rivestire alcuna carica ufficiale nel vertice di Palazzo Giustiniani, il Gelli nel 1969 ha l'incarico, secondo un documento in possesso della Commissione, di operare per la unificazione delle varie comunità massoniche, secondo l'indirizzo ecumenico proprio della gran maestranza di Gamberini, che operava attivamente sia per la riunificazione con la comunione di Piazza del Gesù, sia per far cadere le preclusioni esistenti con il mondo cattolico.
Licio Gelli quindi, a pochi anni dal suo ingresso in massoneria, appare ricoprire un ruolo di rilievo, d'intesa con il vertice dell'istituzione ed in modo del tutto personale, sia per la por-i tata delle questioni affidate alla sua gestione, sia per la posizione affatto speciale che gli viene attribuita.
La posizione di preminenza assunta con rapida ascesa da Licio Gelli nella comunione di Palazzo Giustiniani non è in realtà spiegabile se non attraverso l'analisi dei rapporti che questi riuscì ad intrattenere con i dirigenti dell'organizzazione ed in particolare con i Gran Maestri, a cominciare dal Gamberini, che patrocinò l'ascesa iniziale di Gelli, in sintonia con il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli.
Terminata la Gran Maestranza del Gamberini nel 1970, a questi succedeva, all'insegna della continuità, il medico fiorentino Lino Salvini, il quale provvedeva a ritagliare al predecessore un proprio spazio di influenza, affidandogli l'incarico retribuito di sovrintendere alle pubblicazioni della comunione, nonché quello di tenere i rapporti con le massonerie estere e, secondo vari testimoni, con la CIA.
Di fatto quindi il Gamberini veniva ad assumere il ruolo di plenipotenziario per i contatti internazionali del Grande Oriente conservando nell'istituzione una posizione di personale prestigio e influenza, che gli avrebbe consentito di traversare indenne, a differenza del suo successore Salvini, le vicende burrascose e le aspre polemiche, spesso poco «fraterne», che contrassegnano la vita della comunità negli anni settanta.
Sarà comunque il Gamberini, all'uopo retribuito dal Gelli, a presenziare, nella sua qualità di Gran Maestro, alle iniziazioni che si tenevano presso l'Hotel Excelsior ed è ancora il Gamberini che secondo un documento in possesso della Commissione (debitamente periziato) provvede a redigere la minuta della lettera con la quale il Salvini eleva nel 1975 il Gelli alla dignità di Maestro Venerabile.
Un documento, questo, che getta una luce invero rivelatrice sulla natura dei rapporti che correvano tra Gelli e la Gran Maestranza, quale ne fosse il titolare, palesando una continuità di indirizzo per la quale è legittimo chiedersi quali radicate motivazioni essa avesse e quali ambienti ne fossero la reale fonte ispiratrice. Non meno stretti sono peraltro i rapporti di Gelli con il Gran Maestro Salvini che egli dichiarava, agli inizi degli anni settanta, di poter distruggere in qualsiasi momento.
A testimonianza del legame non certo limpido tra i due personaggi vale a tal fine ricordare l'attacco che il Gelli, manovrando dietro le quinte, fece portare da Martino Giuffrida al Gran Maestro nel corso della Gran Loggia di Roma (1975). L'operazione sostanziata da una serie di precise accuse sul piano della correttezza e moralità personali, venne fatta cadere solo dopo un incontro riservato tra il Gelli ed il Salvini, intervenuto a seguito della mediazione dell'onnipresente Gamberini.
Quanto infine ai rapporti con il successore del Salvini, generale Battelli, basti qui ricordare i documenti in possesso della Commissione che riportano le dichiarazioni scritte di testimoni, secondo le quali il Battelli ed il suo Gran Segretario, Spartaco Mennini, erano finanziati dal Gelli per le spese di campagna elettorale, oltre che regolarmente retribuiti.
In questa cornice di rapporti, che si svolgono sotto il segno della prevaricazione e della compromissione reciproche, vanno inquadrate la carriera massonica di Licio Gelli e lo sviluppo della Loggia Propaganda Due, luna e l'altra strettamente connesse, poiché vedremo che non solo la presenza e l'opera di Licio Gelli nella massoneria si risolvono sostanzialmente nella sua gestione della Loggia P2, ma altresì che l'organizzazione e la consistenza di questa seguono di pari passo la storia personale del suo Venerabile Maestro e le vicende che lo vedono protagonista, al di dentro come al di fuori della istituzione.
La costante relazione tra il personaggio e l'organismo a lui affidato, che viene alla fine a risolversi in una sostanziale identificazione, costituisce non solo, come vedremo, un valido strumento interpretativo ma si pone altresì come fonte di preziose considerazioni in sede conclusiva.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
La prima fase della P2 e l’obiettivo di avvicinare “gente qualificata”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 10 settembre 2023
Il carteggio Ascarelli-Gamberini ci mostra che Gelli non solo aveva avallato il proprio ingresso in massoneria ed il suo successivo passaggio alla Loggia P2 dimostrandosi in grado di avvicinare e reclutare «gente qualificata», ma altresì di avere sin dall'inizio piani precisi di ampia portata in materia di organizzazione delle strutture massoniche
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Il punto di partenza di questa duplice vicenda, dopo i prodromi descritti, va fissato con l'inizio della Gran Maestranza di Lino Salvini (1970), il quale, tre mesi dopo la sua elezione, delegava al Gelli «la gestione» della Loggia P2, conferendogli altresì la facoltà di iniziare nuovi iscritti.
Provvedimento questo del tutto inusitato nell'istituzione massonica essendo il potere di iniziazione, a norma degli statuti, esclusivamente riservato al Gran Maestro e ai Maestri Venerabili, o in caso di loro impedimento, a chi già aveva ricoperto tali cariche. Nel settembre dell'anno successivo il Salvini provvedeva quindi a nominare Licio Gelli «segretario organizzativo della Loggia P2» incaricandolo di «voler predisporre uno studio per la ristrutturazione della stessa».
Ed a tal proposito è interessante rilevare che, pochi mesi dopo (19 novembre 1971), Salvini si esprime, in una lettera a Gelli, nei termini seguenti: «prima che le cose entrino in funzione, avremo un faticoso lavoro di assestamento per i residui della passata gestione». I dati esposti si prestano ad alcune osservazioni di rilievo non secondario.
È d'uopo innanzi tutto osservare che la carica di segretario organizzativo non è compresa in alcun modo tra quelle componenti il «Consiglio delle luci» (dirigenti della loggia) ed è appositamente escogitata da Salvini per attribuire un incarico fiduciario e personale a Licio Gelli nell'ambito dell'organismo che, dà quel momento, assume connotati di spiccata personalizzazione anche nella denominazione, che diviene quella di «Raggruppamento Gelli - P2».
Assistiamo, in buona sostanza, con le iniziative esposte al concreto inserimento di Gelli nella Loggia P2; ed è interessante notare come esso si accompagni ad una prima ristrutturazione dell'organizzazione, realizzata al di fuori dell'ortodossia statutaria. È questo il primo esempio concreto, secondo il rilievo esposto in premessa, del peculiare incardinamento di Licio Gelli nella Loggia Propaganda e della circostanza che esso si accompagna immediatamente ad un intervento che incide non marginalmente nelle strutture e nella natura stessa della Loggia.
Va in proposito sottolineato come questa operazione contrassegni la Gran Maestranza del Salvini sin dal suo primo esordio; ed appare significativo come lo spiccato interesse del nuovo Gran Maestro verso 1 «fratelli coperti» non si esaurisca con l'adozione dei provvedimenti studiati, poiché, nel 1971, il Gran Maestro firma la bolla di fondazione di un'altra organizzazione coperta, la Loggia PI, che nelle intenzioni del Salvini doveva essere ancor più segreta ed elitaria: di essa infatti avrebbero potuto far parte solo coloro che nell'amministrazione dello Stato avessero raggiunto il grado quinto.
Criterio, questo, di proselitismo sufficientemente rivelatore della reale natura di questi organismi. Non è dato allo stato attuale della documentazione esprimere un avviso definitivo sull'esistenza di questa organizzazione, ma quello che più conta è rilevare che nel mentre Salvini dava avvio ad un processo di sostanziale spossessamento da parte del Grande Oriente della Loggia Propaganda, tentava di costituire o meglio ricostituire nell'ambito della comunione una struttura analoga a quella che aveva ceduto in delega a Licio Gelli.
Il senso dell'operazione appare ancor più chiaro quando si pensi che pochi mesi dopo il provvedimento concernente la Loggia Propaganda Uno il Salvini aveva, durante una seduta della Giunta esecutiva del Grande Oriente, esternato le sue crescenti preoccupazioni per quanto stava accadendo nella Loggia P2, per il gran numero di generali e colonnelli affidati ad un uomo come Licio Gelli, che, a detta del Gran Maestro, stava preparando un colpo di Stato.
A completare il quadro descritto va ricordato che sempre nel luglio del 1971 Gelli aveva affermato di fronte a Benedetti e Gamberini di avere «la possibilità di girare l'interruttore e di rovinarlo» (Salvini) — vedremo in seguito la conseguenza di questo episodio — e va infine rilevato che Gelli pervenne ad entrare nel progetto salviniano della Loggia PI, facendosi in essa riconoscere l'incarico di Primo Sorvegliante.
Il complesso dei dati offerti all'attenzione e le vicende che attraverso essi si dipanano consentono al relatore di fornire un quadro abbastanza preciso dei rapporti che sin dall'inizio si instaurano tra Licio Gelli e Lino Salvini e, tramite questi, tra Licio Gelli e il Grande Oriente.
Grazie al successore di Giordano Gamberini, Gelli compie infatti un sostanziale secondo passo in avanti nella comunione giustinianea, che gli consente questa volta, dopo i primi progressi iniziali dianzi esaminati, di entrare direttamente in armi nel cuore più riposto dell'istituzione, la Loggia Propaganda, dando avvio ad un processo di appropriazione personale della sua più tutelata ed efficiente struttura di intervento nel «mondo profano».
In realtà il carteggio Ascarelli-Gamberini ci mostra che Gelli non solo aveva avallato il proprio ingresso in massoneria ed il suo successivo passaggio alla Loggia P2 dimostrandosi in grado di avvicinare e reclutare «gente qualificata», ma altresì di avere sin dall'inizio piani precisi di ampia portata in materia di organizzazione delle strutture massoniche.
La rapida ascesa, agevolata dal Gamberini, porta Gelli, nel giro di pochi anni e attraverso posizioni di rilievo strategico, a pervenire al centro della comunione di Palazzo Giustiniani e vede come esito conclusivo di questa prima fase il provvedimento ricordato con il quale il Salvini delega al Gelli la funzione di «rappresentarmi presso i Fratelli che ti ho affidato, prendere contatto con essi, esigere le quote di capitazione, coordinare i lavori, iniziare i profani ai quali è stato rilasciato regolare brevetto».
Una delega di poteri di così vasta portata illumina meglio di ogni altra considerazione la posizione affatto speciale che Licio Gelli viene ad occupare nella massoneria, per consapevole volontà dei massimi responsabili della comunione, i quali, attraverso successivi provvedimenti, consegnano la Loggia Propaganda ad un elemento che dimostra sin dagli esordi di avere idee ben precise sull'impiego al quale si può pervenire di uno strumento di tal fatta. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Quelle riunioni segretissime per parlare di politica e di comunisti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani l'11 settembre 2023
Di una di queste riunioni ci è dato apprendere che tra gli argomenti dibattuti vanno annoverati «la situazione politica ed economica dell'Italia, la minaccia del Partito comunista italiano, in accordo con il clericalismo, volta alla conquista del potere, la carenza di potere delle forze dell'ordine, il dilagare del malcostume, della sregolatezza e di tutti i più deteriori aspetti della moralità e del civismo»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
La Loggia Propaganda è in questa prima fase un organismo contrassegnato da una connotazione di accentuata riservatezza che confina (se non probabilmente rientra) con una situazione di vera e propria segretezza.
Licio Gelli non solo procede ad accentuare tali caratteristiche — come si evince dalla circolare 20 settembre 1972 nella quale viene data notizia che «con l'elaborazione degli schedari in codice, è stata ultimata l'organizzazione della nuova impostazione, adeguandola alle più recenti esigenze» — ma soprattutto dà all'organizzazione un nuovo impulso di attività.
Così nel medesimo testo è dato leggere: «Nonostante il nostro Statuto non preveda riunioni, a seguito di sollecitazioni pervenute è stato disposto un calendario di incontri fra elementi appartenenti allo stesso settore di attività».
Un'azione questa di vasto respiro che il Gelli porta avanti in piena intesa con la Gran Maestranza del Grande Oriente, come oi dimostra a sua volta la circolare con la quale Lino Salvini comunica agli iscritti: «Sono lieto di informarti che la P2 è stata adeguatamente ristrutturata in base alle esigenze del momento oltre che per renderla più funzionale, anche, e soprattutto, per rafforzare ancor più il segreto di copertura indispensabile per proteggere tutti coloro che per determinati motivi particolari, inerenti al loro stato, devono restare occulti.
Se fino ad oggi non è stato possibile incontrarci nei luoghi di lavoro, con questa ristrutturazione avremo la possibilità ed il piacere, nel prossimo futuro, di avere incontri più frequenti, per discutere non solo dei vari problemi di carattere sociale ed economico che interessano i nostri Fratelli, ma anche di quelli che riguardano tutta la società».
La Commissione ha agli atti il verbale di una di queste riunioni. Da essa ci è dato apprendere che tra gli argomenti dibattuti vanno annoverati «la situazione politica ed economica dell'Italia, la minaccia del Partito comunista italiano, in accordo con il clericalismo, volta alla conquista del potere, la carenza di potere delle forze dell'ordine, il dilagare del malcostume, della sregolatezza e di tutti i più deteriori aspetti della moralità e del civismo, la nostra posizione in caso di ascesa al potere dei clerico-comunisti, i rapporti con lo Stato italiano».
Inviando il verbale della riunione agli iscritti che ad essa non avevano potuto prendere parte, Licio Gelli così si esprime: «Come potrai osservare, la filosofia è stata messa al bando ma abbiamo ritenuto, come riteniamo, di dover affrontare solo argomenti solidi e concreti che interessano la vita nazionale».
E aggiungeva: «Molti hanno chiesto — e non ci è stato possibile dar loro nessuna risposta perché non ne avevamo — come dovremmo comportarci se un mattino, al risveglio, trovassimo i clerico-comunisti che si fossero impadroniti del potere: se chiuderci dentro una passiva acquiescenza, oppure assumere determinate posizioni ed in base a quali piani di emergenza».
Un'altra circostanza di estremo interesse al fine di valutare il clima politico della Loggia P2 in questa sua prima fase organizzativa, e la natura dell'attività attraverso essa condotta da Licio Gelli, è la testimonianza di una riunione tenuta presso il domicilio aretino del Gelli (villa Wanda) nel 1973.
Partecipano a tale riunione il generale Palumbo, comandante la divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il suo aiutante colonnello Calabrese, il generale Picchiotti, comandante la divisione carabinieri di Roma, il generale Bittoni, comandante la brigata carabinieri di Firenze, l'allora colonnello Musumeci, il dottor Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso la corte d'Appello di Roma.
Licio Gelli si rivolse agli astanti affermando che la situazione politica era molto incerta; esortandoli a tenere presente che la massoneria, anche di altri Stati, è contro qualsiasi dittatura di destra e di sinistra e che la Loggia P2 doveva appoggiare in qualsiasi circostanza un governo di centro, il Venerabile invitava infine i presenti ad operare a tal fine con i mezzi a loro disposizione e pertanto a ripetere il discorso ai comandanti di brigata e di legione alle loro dipendenze.
In questo contesto di discorsi fu altresì ventilata l'ipotesi di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo, sulla quale, come sull'intero episodio, ci si soffermerà più diffusamente in seguito. Altra riunione della quale è di un certo interesse, ai nostri fini, fare menzione è quella tenuta il 29 dicembre 1972, presso l'Hotel Baglioni di Firenze, dallo stato maggiore della Loggia P2.
Dal verbale agli atti della Commissione, si evidenzia un'intensa attività organizzativa e di solidarietà, la previsione di una articolazione in «gruppi di lavoro atti a seguire situazioni e problemi attinenti alle varie discipline di interessi», la proposta dell'invio «ad alcuni Fratelli di una lettera in cui si chiede di voler fornire quelle notizie di cui possano venire a conoscenza e la cui diffusione ritengano possa tornare utile... le notizie raccolte, previo esame di un non precisato "comitato di esperti" dovrebbero essere poi passate all'Agenzia di Stampa O.P.».
Tale ultima proposta non venne accettata per la decisa opposizione del generale Rosseti, uscito poi dalla Loggia P2 in aperta polemica con Licio Gelli I dati proposti all'attenzione ed i documenti relativi consentono alla Commissione di delineare in termini sufficientemente definiti il quadro di intenti e di attività entro il quale si muove la Loggia P2 durante questa prima fase di espansone.
Ci ritroviamo di fronte ad un'organizzazione caratterizzata da una forma di riservatezza — innestata con connotati accentuativi nell'ambito della riservatezza rivendicata come propria dalla comunione di Palazzo Giustiniani — che evolve verso forme di indubbia segretezza quale certamente denotano l'adozione di appositi codici per gli iscritti nonché di un nome di copertura, «Centro studi di storia contemporanea», per indicare l'organismo. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Ombre e sospetti, stragi e «soluzioni politiche di tipo autoritario». COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 12 settembre 2023
In un anno che vede giungere al suo apice quella che fu definita la strategia della tensione, con gli episodi dell’Italicus e di Piazza della Loggia, Lino Salvini confida al confratello Sambuco di ritenere opportuno non allontanarsi per l’estate da Firenze perché è stato informato da Gelli sull’eventualità di possibili soluzioni politiche di tipo autoritario
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La loggia si muove comunque ancora nell'ambito della tradii zione massonica e conserva sostanziali legami strutturali ed operativi con l'istituzione che ad essa ha dato origine.
Ne sono testimonianza la presenza di un forte numero di militari — a due di essi, De Santis e Rosseti, sono tra l'altro assegnate le funzioni di segretario amministrativo e di tesoriere — che s'inquadra nella tradizionale propensione della massoneria verso tali ambienti, nonché il ruolo ancora centrale del Gran Maestro nella gestione della loggia, pur se esercitato in condominio con il personaggio emergente che all'organismo ha dato nuovo impulso: il segretario organizzativo Licio Gelli.
Quello che appare invece affatto nuova è l'accentuata connotazione politica dell'organizzazione, che, sotto il profilo operativo, si rivela come in tutto dedita alla gestione e all'intervento nelle attività «profane» inquadrate nell'ambito di una ben definita connotazione politica e gestite ad un livello di impegnativo rilievo.
A tal proposito è di primario interesse rilevare che la Loggia P2, formalmente e sostanzialmente strutturata come loggia massonica, non conduce peraltro nessuna attività di tipo rituale, quale correntemente esplicata dalle logge massoniche; la vita della loggia infatti, «messa al bando la filosofia», si palesa del tutto incentrata nella gestione della solidarietà tra affiliati e, in un più ampio contesto, nell'attenzione rivolta alle vicende politiche del Paese.
Il progetto politico sottostante a tale contesto organizzativo potrebbe apparire informato ad una generica visione di stampo conservatore, di per sé non particolarmente allarmante e perfettamente lecita, se non fosse accompagnata da due elementi meritevoli di particolare attenzione.
Il primo è rilevabile nella posizione di rilievo assunta nella vita della loggia da elementi di spicco della gerarchia militare, che divengono così destinatari dei discorsi politicamente contraddistinti in modo univoco tenuti nelle riunioni di loggia, secondo quanto ci documenta la riunione tenuta ad Arezzo nel 1973: un dato questo che impone di prestare la dovuta attenzione a quelle che altrimenti potrebbero essere considerate banalità prive di concreto valore politico.
La seconda osservazione è relativa alla connotazione marcatamente antisistematica della loggia, i cui affiliati svolgono un discorso politico che denuncia una posizione di critica generalizzata nei confronti di tutto il sistema politico, sbrigativamente identificato nella formula clerico-comunista, e delle soluzioni legislative che da esso promanano nei più vari campi: dalla magistratura alla politica sindacale, dalla riforma dei codici alla riforma scolastica, che, si legge sempre nel documento citato, avrebbe dovuto essere preceduta da un piano di riforme elaborato «non da politici, ma da tecnici».
Lo sviluppo della Loggia Propaganda nell'ambito della comunione di Palazzo Giustiniani secondo le linee tracciate, non mancò peraltro di provocare ripercussioni all'interno della famiglia, poiché le iniziative di Salvini determinarono, sin dal primo momento, la reazione di un gruppo di dissidenti interni che sotto le insegne della denominazione: «massoni democratici», raccolse la parte politicamente meno retriva della comunione giustinianea, conducendo una serrata battaglia contro la coppia Gelli-Salvini.
Questo gruppo esercitò una notevole influenza nel portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti e trame destinati altrimenti a restare ignoti, grazie alla copertura fornita dai vertici di Palazzo Giustiniani, anche se non è del tutto chiaro il senso dell'operazione, poiché alcuni almeno degli oppositori di Gelli ne conoscevano i trascorsi fascisti sin dal momento del suo ingresso in massoneria, che peraltro non vollero o non poterono contrastare in modo risolutivo.
I cosiddetti «massoni democratici» si fecero promotori di due iniziative di portata ufficiale nell'ambito massonico, decisamente avverse alla gestione Gelli: la prima era incentrata in una tavola di accusa firmata da Ferdinando Accornero, membro della Giunta esecutiva del Grande Oriente. Il documento era relativo alle affermazioni del Gelli sul suo potere di ricatto nei confronti del Gran Maestro Salvini, nonché alle attività di Gelli a danno dei partigiani, durante la guerra di liberazione.
Il Salvini decise per un sostanziale non luogo a procedere, non ritenendo colpa massonica i fatti addebitati e disponendo che gli atti del procedimento restassero nell'archivio personale del Gran Maestro. La seconda iniziativa si sostanziò nella denuncia del «caso Gelli», effettuata dal Grande Oratore, Ermenegildo Benedetti, nel corso di uno dei momenti più significativi della vita dell'istituzione: la Gran Loggia Ordinaria (1973).
Anche questa seconda operazione non condusse peraltro a nessuna conseguenza immediata, rimanendo priva di eco nella comunione la denuncia effettuata in una occasione particolarmente solenne da colui che ne era pur sempre uno dei massimi dignitari. II punto che a tale proposito è da valorizzare è che mentre la requisitoria di Benedetti non sortì effetto alcuno, ci è dato constatare che, nell'anno seguente (1974), il Grande Oriente delibera di prendere le distanze dalla Loggia P2 e dal suo capo, Licio Gelli.
Sul rilievo politico che quell'anno assume nella nostra storia ci si soffermerà più diffusamente in seguito, ma rileviamo per il momento che in un anno che vede giungere al suo apice quella che fu definita la strategia della tensione, con gli episodi dell'Italicus e di Piazza della Loggia, Lino Salvini confida al confratello Sambuco di ritenere opportuno non allontanarsi per l'estate da Firenze perché è stato informato da Gelli sull'eventualità di possibili soluzioni politiche di tipo autoritario. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Una battaglia tra «venerabili maestri» vinta da Licio Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 13 settembre 2023
Il Gran Maestro Salvini decreta l’abrogazione dei «regolamenti particolari governanti attualmente la Risp. Loggia P2», rivelando che la vera finalità dell’operazione era quella di mantenere in vita la Loggia P2, espellendone peraltro Licio Gelli. Interviene in tale momento la vicenda della Gran Loggia all’Hotel Hilton, con gli attacchi portati al Salvini e poi ritirati e il nuovo accordo Gelli-Salvini
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Non si può per il momento non sottolineare, salvo l'approfondimento successivo, che è proprio a chiusura di una fase politica così travagliata e di un anno così denso di eventi eccezionali che i Maestri Venerabili riuniti nella Gran Loggia di Napoli decretano la «demolizione» della Loggia P2.
Come questo voto rimarrà disatteso nella sostanza, è materia che verrà studiata nella sezione successiva; l'elemento di grande interesse è la coincidenza riscontrabile tra eventi di così grave rilievo politico ed il manifestarsi di una precisa volontà da parte dei rappresentanti più qualificati del «popolo massonico» di sbarazzarsi di Licio Gelli, la cui presenza era ormai avvertita, anche all'interno di Palazzo Giustiniani, come un peso ingombrante, per le sue collusioni con eventi politici di segno inquietante.
Il voto della Gran Loggia di Napoli denuncia, al di là di ogni dubbio, da un lato la effettiva consistenza dei rapporti equivoci di Gelli e della sua loggia con ambienti e situazioni fuori della legalità politica, che verranno in seguito analizzati diffusamente, dall'altro che tale realtà non era ignota all'interno della famiglia giustinianea, secondo una conoscenza che certamente coinvolgeva in maggiore misura i vertici della comunità, ma che era comunque sufficiente a rendere avvertito il «popolo massonico» dei pericoli cui la «famiglia» poteva andare incontro per il peso che in essa aveva acquistato il Venerabile Maestro della Loggia P2.
Gli anni che corrono dal 1975 al 1981 segnano il periodo cruciale nella storia della Loggia P2 per le vicende che essa attraversa sia all'interno della massoneria che al di fuori di essa. Per la comprensione di tali avvenimenti vanno premesse alcune considerazioni di ordine generale senza le quali risulta difficile la lettura dell'ampia documentazione in possesso della Commissione.
Si deve in primo luogo ricordare che è proprio in questi anni che va posto il culmine di espansione della loggia; sono questi anni nei quali, sia in termini quantitativi che in termini qualitativi, l'attività di proselitismo del Gelli perviene a dimensioni che trascendono di gran lunga la portata ridotta della antica Loggia Propaganda, tradizionalmente conosciuta dal Grande Oriente.
Salvo quanto in seguito si dirà sulla reale consistenza della associazione, il numero degli affiliati arriva a rappresentare comunque una quota oscillante tra il 10 e il 20 per cento dell'intero organico degli iscritti attivi al Grande Oriente. Ben si intende quindi come questo fenomeno trascenda ampiamente la ristretta cerchia di «casi di coscienza» che, secondo l'espressione del Gamberini, giustificava la creazione di una loggia riservata.
Ancor più rilevanti sono i risultati ai quali si perviene sotto il profilo qualitativo delle adesioni, tra le quali si annoverano figure eminenti in campo nazionale nei settori della pubblica amministrazione, sia civile che militare, dell'economia, dell'editoria ed infine del mondo politico.
Altra considerazione, dalla quale non si può prescindere, è quella relativa al graduale venire a conoscenza presso l'opinione pubblica dell'esistenza del personaggio Gelli e della sua organizzazione, che vengono posti all'attenzione, con connotati non rassicuranti, da parte di organi di stampa qualificati, i quali, pur nella approssimatività delle informazioni, sottolineano la pericolosità del fenomeno ed il suo collegamento con attività illecite, di criminalità sia comune che politica.
Non va infine scordato che sono questi gli anni contrassegnati da una fase politica di estremo interesse che segue ai risultati elettorali del 1976 e dal nuovo ruolo che, in conseguenza di essi, assume il partito comunista nel quadro politico nazionale: è quindi entro queste coordinate di riferimento, sia interne che esterne alla massoneria, che vanno studiati lo sviluppo e l'assetto della Loggia P2 e le vicende di Licio Gelli.
Il punto di partenza è costituito dalla Gran Loggia di Napoli del dicembre 1974 quando i Maestri Venerabili del Grande Oriente votano quasi all'unanimità la «demolizione» della Loggia Propaganda.
In esecuzione di tale deliberato il Gran Maestro Salvini decreta (30 dicembre 1974) la abrogazione dei «regolamenti particolari governanti attualmente la Risp. Loggia P2 e le deleghe e norme organizzative ed amministrative da essi derivanti». Il Salvini chiedeva altresì ai fratelli coperti se intendessero mantenere tale posizione, rivelando in tal modo che la vera finalità dell'operazione era quella di mantenere in vita la Loggia P2, espellendone peraltro Licio Gelli.
Interviene in tale momento la vicenda della Gran Loggia all'Hotel Hilton, sopra ricordata, con gli attacchi portati al Salvini e poi ritirati e il nuovo accordo Gelli-Salvini, garantito dal Gamberini; sta di fatto che subito dopo tali eventi, in data 12 maggio 1975, il Salvini decreta la ricostituzione della Loggia P2, stabilendo, tra l'altro, che essa «non apparterrà per il momento, a nessun Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili e sarà ispezionata dal Gran Maestro o da un suo Delegato».
La nuova Loggia P2 ha un pie di lista ufficiale dal quale si rileva che di essa fanno parte sette fratelli: pochi giorni dopo il Salvini, con procedura del tutto anomala, eleva il Gelli alla carica di Maestro Venerabile della ricostituita loggia. Le minute, sia del decreto di ricostituzione sia della lettera di nomina, come già accennato, firmati dal Salvini, sono di pugno del sempre presente Gamberini, nume tutelare della vita massonica di Licio Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Censure ufficiali e inchieste giornalistiche per i misteri della P2. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 14 settembre 2023
Accadeva infatti nel frattempo che il Gelli e la Loggia Propaganda venivano a trovarsi al centro di campagne di stampa di ampia risonanza che mettevano gli ambienti della loggia in contatto con eventi di malavita, quali i sequestri di persona, e con ambienti dichiaratamente di destra. Si vedano al proposito sia le disavventure giudiziarie dell'avvocato Minghelli...
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Al tirar delle somme si constata quindi che questa prima fase si apre con la presa di posizione di Maestri Venerabili che votano la eliminazione dal corpo massonico della Loggia Propaganda per chiudersi con una sua ristrutturazione il cui effetto sostanziale è quello di rendere ancora più riservata l'organizzazione che ha adesso un pie di lista ufficiale, mentre come precisa il Gelli scrivendo al Gran Maestro « rimane inteso che detta loggia avrà giurisdizione nazionale ed i fratelli, per la loro personale situazione, non dovranno essere immessi nella anagrafe del Grande Oriente ».
A questa prima ristrutturazione doveva seguirne nel giro di un anno una ancor più radicale. Accadeva infatti nel frattempo che il Gelli e la Loggia Propaganda venivano a trovarsi al centro di campagne di stampa di ampia risonanza che mettevano gli ambienti della loggia in contatto con eventi di malavita, quali i sequestri di persona, e con ambienti dichiaratamente di destra.
Si vedano al proposito sia le disavventure giudiziarie dell'avvocato Minghelli, compreso nel citato pie di lista ufficiale, arrestato per riciclaggio di denaro proveniente dai sequestri sia gli articoli apparsi su l'Unità e su altri quotidiani che ponevano in relazione Gelli e Saccucci e la lettera di smentita che Gelli invia al quotidiano nel maggio del 1976, dopo essersi fatto rilasciare da Italio Carobbi un terzo certificato di benemerenza partigiana. Gelli e la sua loggia costituiscono sempre più un peso non facilmente tollerabile per una organizzazione come il Grande Oriente, mentre nel contempo possono ormai dirsi ben lontani i tempi dell'assoluta ignoranza e disattenzione presso l'opinione pubblica nei confronti della massoneria e nelle sue vicende organizzative interne.
È lo stesso Gelli a chiedere allora l'inusitato provvedimento, non contemplato dagli statuti e dalla pratica massonica, della sospensione dei lavori della Loggia P2: la domanda viene accolta (26 luglio 1976) con la concessione della « sospensione dei lavori a tempo indeterminato ».
Ma la cautela della Gran Maestranza del Grande Oriente va oltre provvedendo ad una più radicale sterilizzazione amministrativa della interessante figura del Gelli al quale viene comminata la sospensione dall'attività massonica per tre anni.
Nell'autunno del 1976 viene infatti incardinato un procedimento massonico a carico di Gelli e di vari altri personaggi per i fatti relativi alla Gran Loggia di Roma tenuta un anno e mezzo prima. Questa vicenda giudiziaria massonica merita una attenzione particolare, infatti è doveroso ricordare che i processi massonici a carico di Gelli erano due: oltre a quello già citato, era stato instaurato presso il Tribunale del Collegio Circoscrizionale Lazio-Abruzzo un processo massonico per le ormai pubblicamente note e sospettate collusioni tra Loggia P2, eversione nera e anonima sequestri.
L'azione del Grande Oriente in tale congiuntura fu quella di avocare presso la Corte centrale — superando le vive resistenze dell'organo periferico che gli atti ampiamente documentano — questo processo di ben più grave contenuto e di unificarlo a quello relativo alle offese al Gran Maestro; a questo contesto procedimentale vennero altresì annessi i processi relativi ai cosiddetti « massoni democratici », anche in questo caso espropriandone il Collegio Circoscrizionale, dopo una contrastata ulteriore procedura di avocazione.
Il risultato finale di questa complessa operazione fu il seguente: a) il primo processo a carico di Gelli, relativo a sole vicende massoniche, si concluse con la censura solenne per le offese al Gran Maestro; b) l'altro processo, relativo a situazioni di grave rilievo esterno, scomparve, perché di esso non vi è traccia nella sentenza; e) il processo a carico del gruppo dei « massoni democratici », anch'esso avocato, si concluse con l'espulsione dall'Ordine di Siniscalchi, Bricchi, eccetera.
Il senso dell'operazione appare chiaro quando si consideri che il processo che portò alla censura di Gelli fu incardinato dopo più di un anno dall'episodio che ne costituiva il presupposto — concludendosi poi nel giro di due soli mesi — evidentemente all'esclusivo scopo di creare in sede centrale il presupposto processuale per le avocazioni del grave e più compromettente processo a carico di Gelli, instaurato in sede circoscrizionale, e del processo, sempre in tale sede avviato, a carico dei cosiddetti «massoni democratici».
L'esito della sentenza conferma l'interpretazione proposta, quando si consideri che Gelli venne subito dopo graziato dal Salvini, con un provvedimento interno al quale non venne peraltro data pubblicità alcuna.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Così fu permesso al “venerabile” Gelli di muoversi fuori da ogni controllo. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 15 settembre 2023
Sembra più ragionevole ritenere che la sospensione decretata nel 1976 rappresentò una più sofisticata forma di copertura. Gelli e la sua loggia costituivano un ingombro non più tollerabile per l'istituzione. Si pervenne così al duplice risultato di salvaguardare nella forma la posizione del Grande Oriente, consentendo nel contempo a Gelli di continuare a operare in una posizione di segretezza che lo poneva al di fuori di ogni controllo
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Non si può non sottolineare a tale proposito che questa sottile strategia giudiziaria è imputabile in modo esclusivo alla sede centrale del Grande Oriente e che fu attuata solo superando le vivaci resistenze della sede circoscrizionale, con palesi violazioni degli statuti massonici.
Ma il risultato ancor più rilevante è che la sospensione del Gelli comportava, come abbiamo detto, la sospensione per tre anni, poneva cioè una certa distanza di sicurezza tra il Venerabile ed il Grande Oriente, anche se ciò era solo nell'apparenza delle cose perché noi sappiamo che nella sostanza l'intreccio Salvini-Gelli Gamberini continuava come sempre ad operare, pur tra i contrasti, nella stessa immutata direzione di sostegno e di incentivazione dell'operazione piduista.
A stretto rigore di ortodossia statutaria si dovrebbe comunque fermare la storia massonica della Loggia P2 al termine del 1976. È a tale artificiosa situazione procedurale che evidentemente si fa riferimento quando si afferma che la Loggia Propaganda 2 altro non è che un gruppo privato del Gelli da questi organizzato all'insaputa del Grande Oriente, attivata valendosi abusivamente delle insegne di questo: tale assunto sarebbe comunque valido limitatamente al periodo di sospensione citato, che decorre dal luglio 1976, ma in realtà anche in tale più circoscritta accezione questa tesi non può essere accettata.
Ostano infatti a tale interpretazione alcune circostanze che risultano provate da atti in possesso della Commissione. 1) In primo luogo il 20 marzo 1979 il Gelli scrive al nuovo Gran Maestro, Ennio Battelli, quanto segue: «In relazione a quanto concordato in data 14 febbraio 1975 con il Tuo illustre predecessore, mi pregio confermare che i nominativi al VERTICE del R.S. A.A., non appariranno "nei pie di lista" del R.L. Propaganda 2 (P2) all'ORIENTE di ROMA «Resta ben inteso che della R.L. continuerà ad avere giurisdizione nazionale ed i Fratelli non potranno essere immessi nell'anagrafe del G.O.. mentre le capitazioni saranno da me pagate».
Si noti in tale documento il richiamo alla lettera del 14 febbraio 1975 sopra citata (2), che denota una continuità mai interrotta di rapporti tra il Grande Oriente e la Loggia P2 e denuncia in maniera inequivocabile la natur a fittizia e strumentale del pie di lista ufficiale. 2) Altrettanto esplicito è il significato della seguente lettera inviata da Lino Salvini a Licio Gelli in data 15 aprile 1977: «Ti delego ai rapporti con i FFr. inaffiliati, ossia a quei FFr. che non risultano iscritti ai ruoli né delle Logge come membri attivi né del Grande Oriente come membri non affiliati.
«Sono dunque i FFr. nella tradizione massonica italiana chiamati Massoni a memoria quelli di cui dovrai curare i contatti, ai fini di perfezionarne la vocazione e la preparazione massonica. «Per effetto di tale delega, risponderai soltanto a me per quanto farai a tale scopo, promuovendo e sollecitando quelle realtà che Tu stesso reputerai di interesse e di utilità per la Massoneria. «Sono sicuro che Tu svolgerai questo importante ruolo con l'animo intrepido che hai rivelato di fronte ai proditori attacchi dei traditori della Istituzione».
3) In terzo luogo è provato che sia il Salvini che il Battelli non cessarono di consegnare al Gelli tessere in bianco per procedere ad iniziazioni in assoluta autonomia. 4) Queste iniziazioni erano per lo più celebrate dal Gamberini nella sua qualità di passato Gran Maestro, la quale, d'altronde, lo abilitava a partecipare ai lavori della giunta direttiva del Grande Oriente. 5) Nel 1980 il Gelli invia al Grande Oriente la somma di lire 4 milioni quale versamento delle quote degli iscritti per il triennio precedente.
6) Si aggiunga infine a tali elementi, la normativa predisposta nell'autunno del 1981, con la quale si fissavano da parte del Grande Oriente le modalità per il reinserimento degli iscritti alla Loggia P2 nel circuito ordinario della vita massonica.
Ma al di là dei riferimenti testuali e documentali, pur inequivocabili, da inquadrare peraltro nella assoluta disinvoltura con la quale il Grande Oriente gestiva le procedure, l'elemento che va realisticamente considerato è che non appare assolutamente credibile sostenere che l'attività di massiccio proselitismo portata avanti in questi anni dal Gelli — che coinvolgeva alcune centinaia di persone, per lo più di rango e cultura di livello superiore — sia potuta avvenire frodando allo stesso tempo ed in pari misura il Grande Oriente e gli iniziandi.
Né appare dignitosamente sostenibile che tutto ciò si sia verificato senza che il primo venisse mai a conoscenza del fenomeno ed i secondi non venissero mai a sospettare della supposta frode perpetrata a loro danno, consistente nell'affiliazione abusiva ad un ente totalmente all'oscuro di tale procedura.
Sembra invece più ragionevole ritenere che la sospensione decretata nel 1976 rappresentò una più sofisticata forma di copertura, alla quale fu giocoforza ricorrere perché Galli e la sua loggia costituivano un ingombro non più tollerabile per l'istituzione. Si pervenne così al duplice risultato di salvaguardare nella forma la posizione del Grande Oriente, consentendo nel contempo al Gelli di continuare ad operare in una posizione di segretezza che lo poneva al di fuori di ogni controllo proveniente non solo dall'esterno dell'organizzazione ma altresì da elementi interni.
A tal proposito si ricordi che non ultimo vantaggio acquisito era quello di avere eliminato dall'organizzazione il gruppo dei cosiddetti «massoni democratici», avversari di lunga data del Gelli e dei suoi protettori. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Una “semplice” associazione segreta o una loggia massonica degenerata? COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 16 settembre 2023
Concludendo la ricostruzione di queste vicende la Commissione può pertanto affermare che la Loggia P2 può a buon diritto essere definita una loggia massonica, secondo la terminologia adottata dalla legge di scioglimento votata dal Parlamento, per la primaria considerazione che la sua forma degenerativa rispetto alla comunione di appartenenza fu dalla stessa, nella espressione dei suoi vertici elettivi, consapevolmente voluta e realizzata
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
La situazione che si delinea al termine del lungo processo sin qui ricostruito è pertanto contrassegnata da due connotati fondamentali: 1) Gelli ha acquisito nella seconda metà degli anni settanta il controllo completo ed incontrastato della Loggia Propaganda Due, espropriandone il naturale titolare e cioè il Gran Maestro;
2) la Loggia Propaganda Due non può nemmeno eufemisticamente definirsi riservata e coperta: si tratta ormai di una associazione segreta, tale segretezza sussistendo non solo nei confronti dell'ordinamento generale e della società civile ma altresì rispetto alla organizzazione che ad essa aveva dato vita. Rileviamo inoltre che le due ristrutturazioni seguite alla « demolizione » votata dalla Gran Loggia nel 1974 furono strettamente interdipendenti alle vicende personali di Licio Gelli tanto nella loro genesi quanto nel loro risultato finale, secondo quella logica di identificazione tra la Loggia Propaganda e Licio Gelli che, sin dall'ingresso di questi in massoneria, fu dai massimi dirigenti di Palazzo Giustiniani programmata e perseguita secondo una non smentita linea di comportamenti.
Furono infatti i responsabili della comunione che, manovrando statuti e procedure interne, crearono una situazione nella quale le insegne della massoneria venivano a fungere da schermo o, se si preferisce, da pretesto ad un organismo avente natura e finalità affatto peculiari.
Ma sia ben chiaro che tali anomalie altro non furono se non il frutto di processi interni alla istituzione che a questa organizzazione aveva dato origine, che aveva consentito si evolvesse verso l'assetto finale, guidandone con accorta regia lo sviluppo, che ne aveva infine tutelata la forma particolare di organizzazione raggiunta.
Concludendo la ricostruzione di queste vicende la Commissione può pertanto affermare che la Loggia P2 può a buon diritto essere definita una loggia massonica, secondo la terminologia adottata dalla legge di scioglimento votata dal Parlamento, per la primaria considerazione che la sua forma degenerativa rispetto alla comunione di appartenenza fu dalla stessa, nella espressione dei suoi vertici elettivi, consapevolmente voluta e realizzata.
Volendo capire le ragioni che sottostanno all'abnorme situazione che abbiamo delineato — anche al fine di evitare l'espressione di sommari giudizi che finirebbero per coinvolgere, con suo ingiusto danno, chi per tali vicende non porta responsabilità alcuna o comunque ha una responsabilità estremamente limitata — è necessario formulare alcune considerazioni finali di ordine generale.
Va in primo luogo dichiarato che il ruolo e le attività di Licio Gelli erano conosciuti, anche se in modo parziale e frammentario, nell'ambito dell'intera comunità massonica, presso la quale il fenomeno Gelli e le sue possibili implicazioni erano in qualche modo note e non pacificamente accettate, poiché è certo che esse costituirono punto di dissenso e di scontro all'interno della famiglia massonica: ne fanno fede la mai sopita lotta condotta dai cosiddetti « massoni democratici » nonché il voto dei Maestri Venerabili che decretarono la demolizione della Loggia P2 nel corso della Gran Loggia di Napoli.
Se dunque si pervenne alla situazione dianzi delineata fu in sostanza soprattutto, come si è dimostrato, grazie all'influenza che Gelli riuscì ad esercitare sui vertici del Grande Oriente. I rapporti non chiari di reciproca dipendenza, se non di ricatto, che egli instaurò con i Gran Maestri e con i loro collaboratori diretti, ampiamente documentati presso la Commissione, offrono un quadro di compromissione degli organi centrali di governo della famiglia massonica giustinianea che ampiamente giustifica e spiega le tormentate vicende ripercorse nelle pagine precedenti.
Sono vicende queste che richiedono un approfondito esame del rapporto tra Licio Gelli e la massoneria, per il quale dobbiamo, come punto di partenza, muovere dalla affermazione, prima ribadita, che la Loggia Propaganda è una loggia massonica inserita a pieno titolo nella comunione massonica di più antica tradizione e di più vasta affiliazione di aderenti.
La realtà dei fatti è incontestabilmente quella di un organismo presente nella comunione di appartenenza come entità integrata secondo peculiari prerogative che ad essa venivano riconosciute dagli statuti e dalla pratica stessa di vita dell'associazione: la connotazione della Loggia P2, secondo l'ordinamento massonico, era quella di essere una loggia coperta.
Come poi questa copertura sia stata gestita dai dirigenti responsabili, anche in violazione degli statuti dell'associazione, evolvendo verso forme di vera e propria segretezza, questo è argomento che nulla inferisce nel nostro discorso, poiché è palese che quanto viene stabilito nello specifico ordinamento massonico e quanto in esso viene operato, anche in sua violazione, nessuna influenza esplica nell'ambito dell'ordinamento giuridico generale, alle cui sole previsioni normative ci si deve riportare in sede di analisi giuridica e di valutazione politica del problema.
A tal fine possiamo affermare che l'adozione di forme di copertura dirette verso l'esterno come verso l'interno della comunione di appartenenza costituisce indubbia connotazione di segretezza ed è soltanto a fini di mera confusione che si può spostare il tema del discorso sulla presunta segretezza o meno della massoneria, poiché se è certo, secondo la pregevole notazione di un autore, che la massoneria non è una associazione segreta, è per altro certo che essa è una associazione con segreti, e uno di questi era la Loggia Propaganda Due.
Appare alla Commissione incontrovertibile, secondo l'analisi sinora condotta, che la Loggia P2 era a) una loggia massonica, b) dotata di segretezza, ma la posizione di queste due affermazioni non esaurisce il problema ed anzi potrebbe, se ci si arrestasse a questa prima soglia interpretativa, condurre ad una rappresentazione dei fatti monca se non del tutto inesatta.
Bisogna infatti riconoscere che una spiegazione della Loggia P2 risolta tutta in chiave massonica non spiega il fenomeno nella sua genesi più profonda e nel suo sorprendente sviluppo successivo. Per rendere esplicita questa affermazione non si può non riconoscere come Licio Gelli appaia, sotto ogni punto di vista, un massone del tutto atipico: egli non si presenta cioè come il naturale ed emblematico esponente di una organizzazione la cui causa ha sposato con convinta adesione, informando le sue azioni, sia pur distorte e censurabili, al fine ultimo della maggior gloria della famiglia; Licio Gelli in altri termini non sembra sotto nessun profilo, nella sua contrastata vita massonica, un nuovo Adriano Lemmi, quanto piuttosto un corpo estraneo alla comunione, come iniettato dall'esterno, che con essa stabilisce un rapporto di continua, sorvegliata strumentalizzazione.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’ascesa “pilotata” del venerabile tra i fratelli muratori. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 17 settembre 2023
Non si può non vedere come l'ingresso e l'ascesa di Licio Gelli, massone di fresca data, si svolgano sotto l'egida di una accorta regia che dopo aver superato le resistenze frapposte all'acquisto di questo nuovo fratello, ne pilota la carriera massonica con tempestivo e felice esito di risultati
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Ci soccorre a tal fine il rilievo cui dianzi si accennava, quando notavamo come il procedimento di cooptazione, proprio della massoneria, ebbe a funzionare per Licio Gelli con inaspettata e sorprendente celerità, secondo quanto ci dimostrano due dati a noi provenienti dalla documentazione in nostro possesso.
Il primo è che Licio Gelli ha dovuto subire un periodo di attesa, al suo ingresso in massoneria avvenuto nel 1965, di oltre un anno; il secondo è che una volta entrato nell'istituzione i tempi per l'apprendista Gelli si abbreviano singolarmente, poiché nel 1969 egli ci appare nelle vesti, secondo un documento già citato, di tessitore di una delicata operazione di riunificazione delle varie famiglie massoniche: una operazione di vertice che coinvolge tutta la massoneria italiana.
Tra queste due date, sappiamo, corre l'operazione di ascesa nella comunione pilotata dall'Ascarelli e dal Gamberini in favore di un personaggio che, come il primo non manca di sottolineare al secondo in una lettera agli atti, ha a disposizione un folto gruppo di domande di iniziazione « di gente estremamente qualificata » Ponendo questi dati in parallelo — e coordinandoli con le osservazioni svolte in ordine all'inserimento di Licio Gelli nella Loggia Propaganda, operato subito dopo dal Salvini — non si può non vedere come l'ingresso e l'ascesa di Licio Gelli, massone di fresca data, si svolgano sotto l'egida di una accorta regia che dopo aver superato le resistenze frapposte all'acquisto di questo nuovo fratello, ne pilota la carriera massonica con tempestivo e felice esito di risultati.
E non è chi non veda come il nome che compare come centrale in questa operazione sia quello del Gran Maestro che sarà il vero nume tutelare della vita massonica di Licio Gelli, quel Giordano Gamberini che, come abbiamo ampiamente dimostrato, ritroviamo nella veste di accorto consigliere e di fine stratega in tutte le vicende che vedono il Gelli al centro delle contrastate decisioni della comunione che lo interessano.
Possiamo quindi affermare che tutti gli elementi a nostra disposizione inducono a ritenere come la presenza di Gelli nella comunione di Palazzo Giustiniani appaia come quella di elemento in essa inserito secondo una precisa strategia di infiltrazione, che sembra aver sollevato nel suo momento iniziale non poche perplessità e resistenze nell'organismo ricevente, e che esse vennero superate probabilmente solo grazie all'interessamento dei vertici dell'istituzione i quali, questo è certo, da quel momento in poi appaiono in intrinseco e non usuale rapporto di solidarietà con il nuovo adepto.
Questa infiltrazione inoltre fu preordinata e realizzata secondo il fine specifico di portare Licio Gelli direttamente entro la Loggia Propaganda, instaurando un singolare rapporto di identificazione tra il personaggio e l'organismo, il quale ultimo finì per trasformarsi gradualmente in una entità morfologicamente e funzionalmente affatto diversa e nuova, secondo la ricostruzione degli eventi proposta. Quanto detto appare suffragare l'enunciazione dalla quale eravamo partiti, perché il rapporto tra Licio Gelli e la massoneria viene a rovesciarsi in una prospettiva secondo la quale il Venerabile aretino lungi dal porsi rispetto ad esso in un rapporto di causa ed effetto, come ultimo prodotto di un processo generativo interno di autonomo impulso, assume piuttosto le vesti di elemento indotto, di programmato utilizzatore delle strutture e della immagine pubblicamente conosciuta della comunione, per condurre tramite esse ed al loro riparo quelle operazioni che costituirono l'autentico nucleo di interessi e di attività che la Loggia P2 venne a rappresentare.
Ci troviamo in altri termini di fronte ad un complesso rapporto che non può semplicisticamente ridursi in sommarie attribuzioni di responsabilità, in forme di addebitamento più o meno generalizzate che come tali non rientrano nell'ambito degli interessi di questa Commissione, il cui primo compito è quello di studiare la genesi dei fenomeni e la loro ragione di essere e di svilupparsi, affinché il Parlamento possa su tali basi pronunciare il proprio giudizio ed assumere le eventuali deliberazioni conseguenti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
E la massoneria ufficiale fu complice e vittima delle vicende della P2. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 18 settembre 2023
Quello che per la Commissione è di primario interesse sottolineare è che la massoneria di palazzo Giustiniani è venuta a trovarsi, nel seguito della vicenda gelliana, nella duplice veste di complice e vittima, essendone inconsapevole la base e conniventi i vertici
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Quello che, per la Commissione è di primario interesse sottolineare è che la massoneria di Palazzo Giustiniani è venuta a trovarsi nel seguito della vicenda gelliana nella duplice veste di complice e vittima, essendone inconsapevole la base e conniventi i vertici.
Non v'ha dubbio infatti che la comunione di Palazzo Giustiniani in senso specifico e la massoneria in senso lato abbiano negativamente risentito dell'attenzione, tutta di segno contrario, che su di esse si è venuta a concentrare, ma altrettanto indubbio risulta che l'operazione Gelli, sommatoriamente considerata, abbia in quegli ambienti trovato una sostanziale copertura — per non dire oggettiva complicità — senza la quale essa non avrebbe mai potuto essere, non che realizzata, nemmeno progettata.
Quando parliamo di complicità — pur sostanziale che sia — non si vuole peraltro fare riferimento soltanto a quella esplicita dei vertici dell'associazione, peraltro espressione elettiva della base degli associati, ma altresì a quella più generale situazione risolventesi in una pratica di riservatezza, sancita dagli statuti ma ancor più da una concreta tradizione di radicato costume massonico degli affiliati tutti, che ha costituito l'imprescindibile terreno di coltura per l'innesto dell'operazione.
Perché certo è che Licio Gelli non ha inventato la Loggia P2 né per primo ha contrassegnato l'organismo con la caratteristica della segretezza, ed altrettanto certo è che non è stato Gelli ad escogitare la tecnica della copertura, ma luna e l'altra ha trovato funzionanti e vitali nell'ambito massonico: che poi se ne sia impossessato e ne abbia fatto suo strumento in senso peggiorativo, questo è particolare che ci interessa per comprendere meglio Licio Gelli e non la massoneria.
Il discorso sui rapporti tra Gelli e la massoneria è approdato a conclusioni che si ritengono sufficientemente stabilite e tali da consentire, a chi ne abbia interesse, di trarre le proprie conclusioni. Sia ciò consentito anche al relatore perché l'argomento e l'occasione sono tali da meritare una qualche considerazione di più ampia portata su un tema che vanta di certo una pubblicistica di non trascurabile impegno e valore, e che ha interessato sinora non solo il nostro ordinamento.
La storia della Loggia P2 ha il pregio, a tal fine, di svelare l'equivoco sul quale stanche polemiche si trascinano intorno alla distinzione tra segretezza e riservatezza. La certa segretezza della loggia, al di là di sofismi cartolari e notarili, trova infatti radice ed al tempo stesso costante e vitale alimento nella riservatezza della comunione intera.
Sollevandoci ad un più generale livello di considerazioni che prescinda dalla soluzione normativa concreta che gli ordinamenti vogliano dare a tale situazione, ci è consentito rilevare in via di principio che i due concetti si pongono, pur in teoria ed in pratica diversi, in rapporto di reciproca interazione e funzionalità tali che la segretezza senza riservatezza non ha modo di esistere e la riservatezza, non posta a tutela di una intima più ristretta segretezza, non ha ragione di essere.
Sono questi argomenti che ci conducono al cuore del problema e che allargano il tema sulla riservatezza massonica ad un più ampio contesto di considerazioni in ordine al ruolo che questa associazione può svolgere legittimamente nell'ambito dell'ordinamento democratico.
Chi infatti guardi al contenuto dottrinale proprio di questa forma associativa, il suo conclamato richiamarsi al trinomio di princìpi Libertà-Fratellanza-Uguaglianza (art. 2 delle Costituzioni massoniche), non può non constatare come questo sia verbo al quale mal si appongono forme di culto riservato e quanto piuttosto chieda di essere con orgoglio portato nella società degli uomini, nella quale è messaggio che non può porsi che come fonte di benefiche influenze.
È avviso di questa Commissione parlamentare che una terza soluzione non sia data tra i due corni di questo dilemma: o infatti questo, o altro lecito, è il cemento morale della comunione ed allora non v'ha luogo a riservatezza alcuna nel godimento dei diritti garantiti dalla Costituzione repubblicana a tutti i cittadini; o piuttosto la ragione d'essere dell'associazione è di diversa natura e va allora revocata in dubbio la sua legittimità in questo ordinamento.
Passando, poi, dal piano generale della logica corrente a quello più specifico della logica giuridica, e con riferimento alla normativa sulle associazioni segrete, il dilemma deve porsi in questi diversi termini: o la comunione esclude ogni possibile interferenza con la vita pubblica dalla sua sfera di interessi (come dovrebbe essere in base alle regole originarie), ed allora indulga quanto crede al rito esoterico del segreto, o vuol piuttosto partecipare in toto al divenire della nostra società.
Se è vera la seconda alternativa sarà giocoforza che essa rinunci alle coperture, alle iniziazioni sul filo della spada, alle posizioni «all'orecchio». Riti tutti che hanno il fascino dei costumi misteriosi di tempi lontani, ma che l'esperienza ha purtroppo dimostrato essere fertile terreno di coltura per illeciti di tempi recenti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Castiglion Fibocchi, la chiamata “preoccupata” del generale della Finanza. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 19 settembre 2023
Il generale Orazio Giannini, all'epoca comandante generale della Guardia di Finanza, telefonò al colonnello Vincenzo Bianchi che stava effettuando la perquisizione e lo invitò a prestare attenzione a quello che faceva, poiché nella lista dei nomi vi erano «tutti i vertici» e l'operazione avrebbe potuto essere di estremo pregiudizio per il Corpo
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L'esame dell'operazione di sequestro effettuata presso gli uffici e la residenza di Licio Gelli dalla Guardia di Finanza su ordine dei giudici Turone e Colombo, nell'ambito dell'inchiesta loro affidata sull'affare Sindona, precede logicamente l'analisi del problema relativo alla veridicità delle liste poiché elementi di sicuro interesse ai nostri fini possono essere tratti dall'esame degli eventi che precedettero ed accompagnarono il loro ritrovamento.
Ricordiamo in primo luogo che il generale Orazio Giannini, all'epoca comandante generale della Guardia di Finanza, telefonò al colonnello Vincenzo Bianchi che stava effettuando la perquisizione e lo invitò a prestare attenzione a quello che faceva, poiché nella lista dei nomi vi erano «tutti i vertici» e l'operazione avrebbe potuto essere di estremo pregiudizio per il Corpo.
Interrogato poi dalla Commissione il generale Giannini non ha saputo fornire persuasive spiegazioni circa la sua conoscenza di un'attività di polizia giudiziaria che sappiamo gli organi procedenti avevano cautelato con la massima cura e che il loro operato e la loro integrità ci garantiscono coperta dal più assoluto segreto istruttorio.
Il generale Giannini non è stato in grado di spiegare le ragioni che lo indussero a comportarsi nel modo descritto né, particolare ancora più significativo, di rivelare la fonte della sua effettiva conoscenza del contenuto degli elenchi. Numerose e concordanti risultanze generano poi legittime perplessità sugli antefatti dell'operazione di sequestro degli elenchi di cui si discute e, quindi, sulla sorpresa, in via generale, che essa abbia potuto costituire per Licio Gelli.
Testimonianze in questo senso sono state rese da vari personaggi al corrente delle vicende inerenti alla Loggia P2: tali infatti le dichiarazioni del colonnello Massimo Pugliese al giudice istruttore di Trento, da Placido Magri, la cui fonte dichiarata fu in proposito Francesco Pazienza, ed infine dall'ingegner Francesco Siniscalchi. Questi accenni e queste indiscrezioni trovano conferma in un esame analitico dell'operazione e dell'epoca in cui intervenne.
Le operazioni di sequestro ordinate dai giudici di Milano si iscrivono come conclusivo episodio di una vicenda di contorni non completamente chiari ma di significato generale abbastanza definito. II sistema gelliano di potere sembra infatti entrare in crisi alla fine degli anni settanta, secondo quanto denunciano alcuni avvenimenti che intervengono in quel periodo.
Così il processo che Salvini subisce negli Stati Uniti da parte della massoneria americana, motivato proprio in ragione delle sue compromissioni con Gelli; processo questo del tutto anomalo, ma che non può non colpire significativamente perché è comunque un dato di fatto che Salvini pone termine anticipatamente al suo mandato presentando le dimissioni da Gran Maestro, con un gesto invero inusuale per un personaggio che si era dimostrato quanto mai restio a simili passi.
Così ancora è nel 1979 che i Servizi segreti consegnano a Pecorelli l'informativa COMINFORM perché questi ne faccia uso: senza anticipare le conclusioni che su questo punto verranno tratte nel capitolo apposito, è questo un atto che non si può non interpretare come indubbio segno di incrinamento nel rapporto tra Gelli e questo apparato.
Così ancora infine è nel 1979, secondo le testimonianze, che compare presente in Italia Francesco Pazienza, uomo legato ai servizi segreti in ambienti internazionali, di non ben certa origine; il Pazienza è elemento comunque sicuramente legato ai Servizi segreti italiani, ed in particolare al generale Santovito, e ricopre un ruolo che non si riesce ad interpretare chiaramente se si ponga in termini di vicarietà o successione, consensuale o meno, rispetto a Licio Gelli.
In questa prospettiva il Commissario Crucianelli ha sottolineato l'autonomia acquisita dalla Loggia P2, come struttura obiettiva che ha messo in moto meccanismi che prescindevano anche dagli stessi protagonisti soggettivi: tale appunto Francesco Pazienza che vediamo subentrare a Gelli, quasi automaticamente, nei rapporti con Roberto Calvi e con il generale Santovito.
L'elemento connotativo di questa situazione, nella quale il potere del Venerabile sembra patire elementi di disturbo se non di cedimento, è certamente l'intervista che Licio Gelli rilascia al Corriere della Sera nel 1980, una iniziativa invero sorprendente per un uomo che si era sempre mosso nella riservatezza più assoluta e che in essa aveva trovato una delle armi più efficaci.
L'intervista di Gelli, letta attraverso l'ostentata sicurezza delle dichiarazioni, sembra in realtà un messaggio che il capo della Loggia P2 invia all'esterno come all'interno dell'organizzazione; di quell'organizzazione che aveva cautelato con gli stratagemmi che abbiamo studiato nel precedente capitolo, è ora egli stesso a svelare l'esistenza ed i contenuti, quasi a voler avvertire che il riserbo di cui tutti si erano sino ad allora giovati poteva un giorno, in parte od in tutto, cadere ad opera del suo stesso artefice.
Il quadro di eventi che abbiamo disegnato fa da cornice alla perquisizione di Castiglion Fibocchi ordinata dai giudici di Milano, titolari dell'inchiesta su Michele Sindona, ai quali l'avviso della pista Gelli, inserito in un ampio contesto istruttorio testimoniale e documentale, era stato fornito da un personaggio notoriamente legato al finanziere siciliano per il quale aveva gestito in Sicilia l'operazione di finto rapimento.
Quale segno sia da attribuire a questa iniziativa nei confronti di Gelli non può essere chiarito, ma certo essa si iscrive nel complesso rapporto Gelli-Sindona, mostrando che la collaborazione tra i due si era seriamente incrinata: l'interrogatorio reso da Miceli Grimi, in data 26 febbraio, ai giudici milanesi, mostra, al termine di una lunga, ostinata reticenza, la chiara volontà di denunciare il Gelli.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Documenti riservati e nomi degli affiliati, tutto custodito in valigia. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 20 settembre 2023
La constatazione che il nucleo della documentazione avente valore fondamentale ai fini dell'indagine non era contenuto nella cassaforte dell'ufficio, suo naturale luogo di deposito, ma in una valigia. Questa valigia conteneva, oltre ad una lista degli iscritti alla Loggia P2, tutta una serie di documenti che denunciavano in quali attività e di quale rilievo la Loggia era implicata
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Prendendo adesso in esame il materiale sequestrato proveniente alla Commissione come frutto dell'operazione eseguita a Castiglion Fibocchi un dato sopra ogni altro colpisce l'attenzione dell'osservatore: la constatazione che il nucleo della documentazione avente valore fondamentale ai fini dell'indagine non era contenuto nella cassaforte dell'ufficio, suo naturale luogo di deposito, ma in una valigia.
Questa valigia conteneva, oltre ad una lista degli iscritti alla Loggia P2, tutta una serie di documenti che denunciavano in quali attività e di quale rilievo la Loggia era implicata; si noti che qualora infatti la Guardia di Finanza avesse provveduto al sequestro del solo materiale contenuto nella cassaforte — nella quale erano altre copie dei soli elenchi — il dato conosciuto agli investigatori sarebbe stato soltanto quello relativo all'appartenenza ad una Loggia massonica di un certo gruppo di eminenti personalità. Il materiale contenuto nella valigia ha invece la natura di denunciare al contempo l'esistenza della Loggia, poiché contiene una ulteriore serie di elenchi, nonché la sua valenza politica, per la natura dei documenti a quegli elenchi annessi.
Rimane pertanto dimostrato che il blocco di documentazione a noi pervenuta ha una intrinseca reciproca funzionalità, perché la valigia che li conteneva, oggetto invero strano per collocare materiale di tal fatta, aveva un suo autonomo valore di eccezionale significato.
Avendo riguardo a queste considerazioni, l'importanza intrinseca dei documenti contenuti nella valigia, esaminati nella loro reciproca correlazione, porta a ritenere che questo materiale era verosimilmente inserito in un processo di trasferimenti dell'archivio di Licio Gelli, che l'incerta e contrastata ultima fase della vicenda del Venerabile, prima tratteggiata, rende attendibile ed al quale siamo indotti a pensare sia per la costituzione, da far risalire a questo periodo, della cosiddetta Loggia di Montecarlo, intesa da Gelli come alternativa alla localizzazione italiana del centro delle sue attività, sia dall'esistenza di una duplicazione dell'archivio in questione nella residenza uruguayana del Venerabile.
Questa ricostruzione, che non possiamo collocare nell'ambito delle certezze acquisite per l'incompletezza di informazioni su tale ultimo periodo, peraltro riveste certamente connotati di estrema attendibilità.
Quel che è fuori dubbio è che comunque essa ci consente di affermare che la documentazione in possesso della Commissione non può che essere presa in attenta e seria considerazione per la primaria constatazione che essa si trovava al centro di un complesso gioco nel quale i protagonisti le attribuivano altissimo valore, e tra essi va ricordato il Comandante generale della Guardia di Finanza, autore del maldestro tentativo di insabbiamento già ricordato.
Le considerazioni esposte sono riferite naturalmente agli attori espliciti di questa vicenda ed ai suoi retroscena, ed in nulla attengono alla integrità ed attendibilità dell'inchiesta giudiziaria e della operazione di sequestro in sé considerata, come si evince se non altro dalle modalità di esecuzione predisposte dall'organo inquirente ed attuate da quello procedente, delle quali è testimonianza eloquente la denuncia che il colonnello Bianchi effettuò dell'indebita ingerenza tentata nei suoi confronti dal superiore gerarchico.
La risposta al quesito circa la veridicità e completezza delle liste precede logicamente ogni altro problema ed esso sarà da verificarsi tenendo ben presenti l'oggetto e le finalità della legge istitutiva che all'articolo 1 demanda alla Commissione di accertare, tra l'altro, «la consistenza dell'associazione massonica denominata Loggia P 2».
Questo compito postula non già l'esigenza di analitici riscontri individuali sulla effettiva appartenenza alla loggia dei singoli iscritti, riscontri che invece sono propri dell'inchiesta giudiziaria finalizzata all'accertamento di responsabilità individuali, ma richiede per contro un giudizio complessivo inerente al numero e alla qualità degli affiliati che consenta di delineare «la consistenza» della loggia, al fine di poterne poi valutare i contenuti.
Quando si passino in rassegna le risultanze acquisite sul punto, pare corretto distinguere quelle emergenti da accertamenti riferibili all'autorità giudiziaria o ad altre autorità, da quelle desumibili da indagini disposte dalla Commissione o da documenti acquisiti. Quanto alle prime, si ricorda che la sentenza emessa dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura nei confronti dei magistrati iscritti nella lista ha dichiarato la «complessiva attendibilità» degli elenchi e della documentazione; nella requisitoria del procuratore della Repubblica di Roma, l'estensore mostra invece di non credere «alla veridicità delle liste degli iscritti»; a sua volta il Comitato amministrativo di inchiesta costituito a suo tempo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri esprime il dubbio che la lista non sia un «puntuale elenco di coloro che avevano effettivamente aderito alla P 2»; infine, nell'appello proposto avverso la sentenza del giudice istruttore di Roma, il procuratore generale presso la corte d'appello muove dal presupposto della «attendibilità complessiva di elenchi e documentazione sequestrati salvo riscontri negativi».
Vi è poi da considerare che la «relazione informativa sulla Loggia P 2» effettuata dal Sisde, per la parte relativa all'analisi strutturale dell'elenco dei novecentosessantadue (962) presunti affiliati, si sofferma sulla eterogenea e contraddittoria compresenza di alcuni componenti, postulando la esigenza di integrare le risultanze con il dato relativo alle domande di ammissione, ma esclude l'ipotesi di una falsificazione dell'elenco medesimo. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Chi era iscritto alla P2? Non uno, ma tanti “elenchi” sequestrati a Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 21 settembre 2023
Questi elenchi rappresentano un secondo elemento di indubbio significato perché dimostrano che la lista di Castiglion Fibocchi non costituisce un unicum ma si pone invece come il prodotto ultimativo di una stratificazione di documenti la cui redazione si è protratta lungo un arco di tempo più che decennale
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Con riferimento alle indagini disposte dalla Commissione, si premette che un primo accertamento riguarda l'epoca in cui presumibilmente sono stati formati gli elenchi in questione: tale arco di tempo può collocarsi con sufficiente approssimazione dal 1979 al 1981 in base alle risultanze desumibili:
a) dalla corrispondenza intercorsa tra Gelli e i capigruppo della loggia, da cui emerge che intorno al 1979 vi fu una generale revisione degli elenchi degli iscritti, una ripartizione degli effettivi tra i capigruppo e quindi l'aggiornamento e la riscrittura degli elenchi medesimi;
b) dagli esiti della perizia tecnica disposta dalla Commissione sul nastro della macchina da scrivere sequestrata a Castiglion Fibocchi. Di tale perizia, consistente nella decifrazione dei caratteri impressi sul nastro rimasto inserito nella macchina da scrivere della segretaria del Gelli, inequivocabilmente si evince che gli elenchi furono redatti con la macchina in questione e che furono ultimati in data precedente l'8 marzo 1981, con la inclusione degli ultimi 18 iscritti per i quali la data di iniziazione era stata programmata per il successivo 26 marzo 1981.
Tenendo conto di questo riscontro temporale, il primo problema da affrontare in ordine logico è quello relativo alla individuazione della natura del documento in esame, secondo una rilevazione esterna che attenga ai connotati funzionali del reperto studiato al fine di verificare se possa essere considerata autentica quella che appare essere ictu oculi la sua natura di elenco di iscritti ad una associazione data: nella specie la Loggia massonica P2.
A tal fine è primaria argomentazione rilevare che le liste di Castiglion Fibocchi trovano riscontro in ulteriori reperti, antecedenti o contemporanei che accompagnano, con significative concordanze, i dati relativi. Elementi di riscontro in ordine ai dati contenuti nelle liste sono stati infatti successivamente acquisiti dai documenti dell'archivio uruguaiano di Gelli, pervenuti alla Commissione nel corso dei lavori, comprendenti anche un duplicato (con annotazioni in lingua spagnola) della lista generale nonché 109 fascicoli personali di altrettanti iscritti, contenenti sicure conferme documentali sull'appartenenza alla loggia.
L'esistenza di un secondo archivio dell'organizzazione gelliana denuncia la non episodicità dei reperti sequestrati a Castiglion Fibocchi, e comunque denota una significativa e non improvvisata sistematicità di archiviazione. Inoltre, l'autenticità dell'elenco è comprovata dal riscontro con altri analoghi documenti ad esso anteriori.
In particolare la lista con cinquecentoundici (511) nominativi di cui si compone l'elenco degli iscritti alla disciolta loggia P2 consegnato al giudice Vigna di Firenze da Gelli e Lino Salvini separatamente e con il libro matricola, che consta di cinquecentosettantatre (573) effettivi, sequestrato dalla Commissione presso la comunione di piazza del Gesù, che porta a nostra conoscenza la composizione della loggia P2 durante l'arco di tempo che corre dall'anno 1952 fino al 1970.
Questi elenchi rappresentano un secondo elemento di indubbio significato perché dimostrano che la lista di Castiglion Fibocchi non costituisce un unicum ma si pone invece come il prodotto ultimativo di una stratificazione di documenti la cui redazione si è protratta lungo un arco di tempo più che decennale: considerazione che indebolisce significativamente la ipotesi di una artata prefabbricazione delle liste o della loro natura di documento informale e conduce anch'essa, come la precedente osservazione, ad una rassicurante valutazione in ordine alla sistematicità dell'archiviazione dei dati al nostro studio.
Argomento, poi, che si ritiene di estremo rilievo in ordine alla natura degli elenchi, secondo quanto osservato dal Commissario Mattarella, è quello che si ricava dalle conclusioni della seconda perizia ordinata sulle liste stesse dalla Commissione, non preceduta in questi suoi riscontri da alcuna consimile attività da parte di altri organi inquirenti.
I periti rispondendo ai quesiti loro posti hanno specificato che le liste non sono state compilate in un unico contesto ma risultano il frutto di successive, diverse operazioni di battitura; in particolare l'analisi peritale condotta partitamente su ogni pagina del documento dimostra che molte delle annotazioni apposte in margine ad ogni singolo nome non furono battute contestualmente al nome relativo.
Questa conclusione dimostra al di là di ogni verosimile dubbio che le liste sequestrate erano in sostanza quello che ad un primo esame denunciano di essere: un documento nel quale veniva registrata la gestione amministrativa e contabile della loggia. Si vuole infine rilevare che tali argomentazioni collimano con i risultati della prima perizia, dianzi citata, dai quali emerge che gli ultimi nominativi (di affiliati per i quali era da perfezionare l'iniziazione) vennero inseriti nelle liste poco prima della effettuazione della perquisizione, essendo i loro nominativi impressi nel nastro ancora inserito nella macchina da scrivere in uso nell'ufficio di Gelli.
Si osserva da ultimo che la constatazione dei periti che alcune delle annotazioni furono riportate invece contestualmente al nome relativo, vale a indicare che gli elenchi sequestrati non costituivano l'unico documento anagrafico in uso presso la segreteria di Gelli, ponendosi piuttosto come una copia od un estratto del documento di segreteria per il quale vi era correntezza di uso da parte del personale addetto.
Le conclusioni desumibili dalle perizie sono suffragate dalla testimonianza della segretaria di Gelli, la quale, pur rendendo la non verosimile dichiarazione di ignorare il significato delle sigle contenute nel documento, ha peraltro affermato che tali annotazioni venivano da essa effettuate meccanicamente, sotto diretta dettatura del Gelli.
Tale affermazione contiene dunque l'indiretta ammissione che l'elenco veniva usato per apporvi le indicazioni del caso, al momento nel quale se ne manifestava la necessità, ed è suffragata dalle annotazioni riportate in un foglio tra le quali il Gelli, sotto la voce «Memoria x Carla» ricordava tra l'altro alla segretaria di «finire gli elenchi per settori con aggiornamento».
Ultimo riscontro relativo alla rilevazione esterna del documento è quello relativo alla coincidenza tra le sigle apposte in margine ad ogni nome e le ricevute contenute negli appositi bollettari, le annotazioni del registro di contabilità nonché i versamenti sul conto intestato a Licio Gelli presso la Banca Popolare dell'Etruria, nel senso che ogni registrazione consegnata in uno di questi documenti risulta generalmente apposta, con la sigla relativa, sulle liste in esame, che pertanto, anche sotto questo profilo risultano frutto di puntuali aggiornamenti contabili COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Liste autentiche ma incomplete: così la P2 è sopravvissuta a sé stessa. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 22 settembre 2023
Le liste sequestrate a Castiglion Fibocchi sono il documento, o uno dei documenti, in uso presso la segreteria della loggia che conteneva, con adeguati aggiornamenti, la rappresentazione, nel suo dato oggettivo e personale, dell'organizzazione massonica denominata Loggia Propaganda 2
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Conclusivamente i dati peritali e documentali e quello testimoniale convergono nel denunciare la rilevata natura funzionale e non meramente dimostrativa del reperto, e considerati unitamente alle argomentazioni che verranno esposte successivamente consentono alla Commissione di affermare che le liste sequestrate a Castiglion Fibocchi sono il documento, o uno dei documenti, in uso presso la segreteria della loggia che conteneva, con adeguati aggiornamenti, la rappresentazione, nel suo dato oggettivo e personale, della organizzazione massonica denominata Loggia Propaganda 2.
Questa conclusione, relativa alla funzione del reperto sequestrato, viene dalla Commissione ritenuta di decisivo rilievo al fine della valutazione inerente alla autenticità dell'elenco considerato nella sua natura di documento che rappresentava, secondo l'espressione del Commissario Mattarella, «la vita della loggia».
Secondo la distinzione, sempre da tale Commissario argomentata, il discorso sulla autenticità delle liste precede logicamente quello relativo alla loro attendibilità, in quanto concettualmente distinguibile da esso.
Una volta infatti posto l'assunto che le liste di Castiglion Fibocchi sono, come documento, direttamente riferibili in modo certo alla Loggia P2, in quanto contenenti la rappresentazione del dato personale ed anagrafico di tale organismo, il problema della attendibilità delle liste viene di conseguenza a porsi, in modo più circoscritto, nei termini seguenti: se esse siano la puntuale ed esatta configurazione della Loggia P2 o se piuttosto possano essere ritenute inesatte per eccesso o per difetto.
A tal fine è necessario premettere che il discorso inerente alla attendibilità non può comunque mai essere trasformato in una argomentazione sulla esistenza o meno della Loggia P2.
L'esistenza della Loggia P2 come organismo operante nei più svariati e qualificati settori della vita nazionale è infatti ampiamente documentata, oltre ogni invocabile dubbio, dal complesso della documentazione in possesso della Commissione che dimostra l'esistenza di legami tra gruppi di individui, inseriti in rilevanti posizioni, che hanno operato in sintonia di intenti e di azioni durante un ragguardevole arco temporale.
Sarebbe dunque procedimento logicamente capzioso voler scindere i due dati, quello documentale e quello sostanziale, per procedere ad una analisi separata, argomentando infine da una supposta non attendibilità delle liste la non esistenza della loggia, o per contro da una non ritenuta credibile esistenza, la falsità degli elenchi.
Vero è piuttosto che procedimento logico corretto appare alla Commissione quello di considerare e valutare il dato formale e quello sostanziale congiuntamente, poiché essi concorrono entrambi, pur se partitamente analizzati per comodità espositiva, a formare la base delle conclusioni alle quali pervenire.
Le argomentazioni svolte in questa sede vanno pertanto lette e considerate unitamente alla complessiva analisi delle attività della loggia e del progetto politico che essa si poneva, diffusamente esaminati nei due capitoli successivi.
Partendo dalla premessa esposta, e riportandosi alle conclusioni parziali dianzi argomentate, è dato quindi ribadire che il problema dell'attendibilità degli elenchi si risolve nel più ridotto problema della loro puntuale attendibilità, e a tal fine possiamo in primo luogo sottolineare che esistono non pochi elementi o indizi di prova che militano a favore della ipotesi di un'incompletezza delle liste che, pertanto, non comprenderebbero nomi di altre persone, oltre quelle elencate, pur ugualmente affiliate alla Loggia.
Gli argomenti in proposito possono essere elencati secondo l'ordine seguente: 1) l'intervista rilasciata da Gelli al settimanale L'Espresso del 10 luglio 1976 secondo la quale l'organico della Loggia ammontava all'epoca a ben duemilaquattrocento (2.400) unità;
l'audizione del dignitario massonico Vincenzo Valenza (27 settembre 1983), il quale, sulla base di dati desunti dalla numerazione degli iscritti, afferma recisamente che la lista è veritiera ma incompleta;
le risultanze, testimoniali e non, riferentesi a persone formalmente non iscritte negli elenchi, ma indicate come appartenenti alla P2: è il caso del generale Mino, defunto comandante generale dell'Arma dei carabinieri;
la lettera del 20 marzo 1979 già citata nel I capitolo indirizzata da Gelli al Gran Maestro Ennio Battelli che, confermando precedenti intese intercorse con il predecessore Lino Salvini, dichiara che i nominativi di otto persone «al VERTICE del RSAA» (Cicutto, De Megni, Gamberini, Motti, Salvini, Sciubba, Stievano, Tomaseo) non sarebbero apparsi nel pie di lista della P2 pur facendovi parte: tali nominativi non risultano invece nell'elenco di Castiglion Fibocchi;
la raccomandata inviata dal generale Battelli alla scadenza del suo mandato nella quale alcune centinaia di fratelli alla memoria venivano invitati a decidere sulla loro destinazione (due dei nominativi in questione risultano essere iscritti alla Loggia P2);
la lettera inviata da Licio Gelli al capogruppo Bruno Mosconi con la quale, alla richiesta di istruzioni in ordine alla nuova Gran Maestranza del generale Battelli, il Venerabile della Loggia così si esprimeva: «Per quanto riguarda il Gruppo, come ti accennai ad Incisa, l'esame dello schedario centrale non è ancora terminato e, inoltre, se non trovi alcuni degli elementi da te segnalati, è per motivi che ti spiegherò al nostro prossimo incontro durante il quale ti indicherò anche le ragioni per cui ti sono stati affidati alcuni elementi che non erano stati segnalati da te.
«Con l'elezione del Gran Maestro Ennio Battelli nulla è cambiato nei confronti del Grande Oriente perché nulla poteva cambiare. «Perciò tutto procede come procedeva con le precorse Grandi Maestranze, anzi, meglio, perché devo dirti che l'attuale Gran Maestro ha dimostrato maggior intuito ed intelligenza degli altri, dandoci una maggior valorizzazione.
«Mi chiedi se abbiamo molti candidati: ti rispondo che il proselitismo che abbiamo avuto in questi ultimi tre anni è stato veramente massiccio: nel 1979 siamo arrivati ad oltre quaranta iniziazioni al mese». I due documenti da ultimo citati pongono il problema se in via generale e comunque in particolare nella seconda fase della Loggia P2, caratterizzata dalla totale acquisizione all'orbita di influenza gelliana, le due categorie degli affiliati alla Loggia Propaganda e degli affiliati alla memoria del Gran Maestro fossero in tutto coincidenti o meno.
Il quesito, riportato al contesto dei rapporti tra Licio Gelli ed i Gran Maestri, si risolve nell'accertare se il Grande Oriente fosse riuscito a preservare una propria quota di fratelli coperti, di fronte al potere acquisito dal Venerabile Maestro della Loggia P2. Si tratta di quesito al quale non è consentito, allo stato degli atti, dare una risposta definitiva in un senso o nell'altro, attesa la gestione tortuosa ed inaffidabile delle norme statutarie e delle procedure proprie del Grande Oriente: rimane pertanto aperta la possibilità che alcuni o tutti i nominativi ricompresi nella raccomandata del Gran Maestro Battelli fossero altresì membri della Loggia P2.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Le domande di iscrizione, firme vere e firme false, assegni e ricevute. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 23 settembre 2023
Si vuole ricordare che dei 671 affiliati ascoltati dal magistrato, 235 soltanto hanno negato di appartenere alla Loggia P2. La Commissione è in possesso di prove documentali (ad esempio, firme su assegni) che inducono a ritenere questa dichiarazione non vera per centosedici (116) delle situazioni indicate, ovvero per circa la metà dei casi
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Possiamo adesso prendere in esame il secondo aspetto del problema denunciato: se cioè le liste siano da considerare non attendibili per eccesso ovvero se in esse possano considerarsi inclusi nominativi che nulla avevano a che vedere con la Loggia Propaganda.
A questo fine la Commissione ha proceduto ad un censimento di riferimenti relativi ad ogni nominativo presente nelle liste in esame, preordinato, sempre secondo l'assunto metodologico premesso, alla valutazione generale del documento complessivamente considerato.
Prendendo in primo luogo in esame i documenti contabili, la Guardia di Finanza ha effettuato uno studio analitico del conto intestato a Licio Gelli presso la Banca Popolare dell'Etruria (conto «Primavera») ed ha riscontrato che sia le ricevute che le annotazioni contenute nel libro contabilità, sequestrati in Castiglion Fibocchi, trovavano puntuale riscontro in versamenti che venivano contestualmente effettuati nel conto «Primavera», secondo una continuità temporale che va dal maggio 1977 al febbraio 1981.
Questo dato consente di escludere l'ipotesi di una artata prefabbricazione della documentazione contabile (come tale eccessivamente macchinosa e non verosimile) e consente alla Commissione di rilevare che da tale contesto documentale emerge che per duecentosettantasei nominativi (276) esiste il triplice riscontro del rilascio della ricevuta, della notazione nel registro di contabilità e del versamento, alla stessa data o il giorno successivo, degli importi relativi sull'apposito conto bancario.
Il valore di questo dato deve essere posto in adeguata evidenza, poiché, se pur esso non si riferisce a tutti i nominativi compresi nell'elenco generale, per quasi un terzo di essi possiamo affermare che esiste una prova documentale inconfutabile sulla loro iscrizione alla loggia, suffragata paradossalmente dalle versioni fantasiose e palesemente non credibili che gli interessati hanno fornito alla Commissione in sede di audizione a giustificazione di tali versamenti.
Altro riscontro di estremo rilievo è quello relativo alle prove di appartenenza provenienti dai diretti interessati, ed in specie dall'esistenza di una firma apposta in calce ad una domanda di iscrizione, anche come presentatore, ad un giuramento o ad un assegno incassato dal Gelli: tale prova è riscontrabile in duecentosessantadue (262) casi, secondo la documentazione attualmente in possesso della Commissione.
Altro dato che si vuole sottolineare è quello relativo a trecentodieci (310) nominativi che, compresi nelle liste in esame, sono altresì presenti nelle altre liste sopraindicate (libro matricola ed elenchi consegnati ai giudici Vigna e Pappalardo): viene così suffragato il rilevante argomento della stratificazione dei documenti anagrafici della loggia, che corrisponde fedelmente alla sua accertata operatività lungo un arco di tempo più che decennale.
Si vuole infine ricordare che dei seicentosettantuno (671) affiliati ascoltati dal magistrato, duecento trentacinque (235) soltanto hanno negato di appartenere alla Loggia P2. La Commissione peraltro è in possesso di prove documentali (ad esempio, firme su assegni) che inducono a ritenere questa dichiarazione non vera per centosedici (116) delle situazioni indicate, ovvero per circa la metà dei casi.
I riscontri statistici accennati, che prescindono da ulteriori riscontri di tipo sostanziale, relativi ad alcune centinaia di nominativi, alcuni dei quali rientrano in più di uno dei riscontri proposti (che pertanto non sono da sommare tra loro) dimostrano che le liste si inseriscono in un corpus documentale più ampio nell'ambito del quale trovano puntuale riscontro e che sottostante ad esse è pertanto rinvenibile una griglia di riferimenti incrociati che suffragano l'attendibilità generale del documento.
Tutti i dati enunciati devono naturalmente essere poi interpretati, secondo l'assunto metodologico dianzi premesso, alla stregua del presuntivo, ma qualificante, argomento di prova costituito dal potere acquisito da Gelli nei più delicati settori ed ai più alti livelli della vita nazionale: tale acquisita influenza è indirettamente, ma univocamente, dimostrativa dell'esistenza di un esteso, autorevole e capillare apparato di persone del quale il Gelli, appunto nella sua qualità di Maestro Venerabile della loggia, poteva disporre e quindi rappresenta una obiettiva conferma della attendibilità della consistenza della Loggia P2 emergente dai documenti fin qui esaminati.
Non è azzardato, anzi, ritenere — proprio sulla base delle riferite circostanze, concomitanti all'esecuzione del sequestro, nonché di quant'altro attinente all'incompletezza della lista — che la forza e la capacità operativa della loggia, acquisite mediante la penetrazione nei più importanti settori delle istituzioni dello Stato e nei centri economici, fossero maggiori di quanto documentano gli elenchi, i quali sarebbero quindi approssimativi per difetto rispetto all'effettiva consistenza della Loggia P2 anche per queste più generali considerazioni di merito, che si aggiungono ai riscontri obiettivi dianzi citati.
Né deve essere trascurato il rilievo che a tali conclusioni la Commissione è potuta giungere pur senza aver consultato la maggior parte dell'archivio uruguaiano di Gelli, che avrebbe fornito esaurienti riscontri e puntuali verifiche sugli organici della loggia, come è dimostrato dall'importanza e dall'affidabilità del contenuto di quei pochi documenti dell'archivio medesimo pervenuti alla Commissione.
Si ricorda infine che lo stesso Licio Gelli ha, in un suo scritto di recente inviato alla Commissione, ribadito l'affermazione che le liste rappresentano un elenco di iscritti, di simpatizzanti e di amici. Volendo così sminuire il dato formale dell'iscrizione, affermazione alla quale peraltro la Commissione, secondo quanto sinora detto, presta credito relativo, il Venerabile della loggia ha confermato indirettamente la connessione di tutti coloro che appaiono nelle liste con le proprie attività.
D'altro canto si può rilevare che la detta tripartizione, giudicata in tale contesto ininfluente dai Commissari Battaglia e Petruccioli, potrebbe tutt'al più condurre, secondo l'osservazione del secondo Commissario, alla conclusione di una maggiore censurabilità, dal punto di vista sostanziale, del comportamento del simpatizzante, il quale in quanto tale non potrebbe dedurre a giustificazione del proprio comportamento il motivo della errata conoscenza del fenomeno. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Ma quanti erano davvero gli iscritti alla P2? COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 24 settembre 2023
Emerge l'impossibilità concreta di stabilire con certezza la consistenza della comunione massonica di Palazzo Giustiniani, nonché di avere dati certi sulle affiliazioni massoniche di molti iscritti alla Loggia P2, perché non è stata trovata in possesso di tali organizzazioni nessuna forma di documentazione certa, sulla tipologia del registro dei soci nelle società commerciali
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Il discorso sinora svolto conduce all'univoca conclusione che le liste sequestrate a Castiglion Fibocchi sono da considerare: a) autentiche: in quanto documento rappresentativo della organizzazione massonica denominata Loggia P2 considerata nel suo aspetto soggettivo; b) attendibili: in quanto, sotto il profilo dei contenuti, è dato rinvenire numerosi e concordanti riscontri relativi ai dati contenuti nel reperto.
Conclusivamente la risposta all'iniziale quesito circa la veridicità complessiva del pie di lista, di cui la Commissione doveva farsi carico, non può che essere ampiamente affermativa, in conformità alle molteplici e persuasive ragioni fin qui illustrate, con la conseguenza che «la consistenza dell'associazione massonica denominata Loggia P2» — cui si riferisce la legge istitutiva — si identifica quanto meno con il dato numerico e qualitativo del complesso degli iscritti.
Si deve naturalmente ribadire, a tal punto, riprendendo il discorso già accennato in apertura di capitolo, come esuli dai compiti della Commissione ogni e qualsiasi analisi di responsabilità a livello individuale, restando confinate le funzioni di una Commissione di inchiesta parlamentare all'accertamento di situazioni e responsabilità, trascendenti i singoli accertamenti di innocenza o di colpevolezza.
Avuto riguardo infine alle competenze proprie della Commissione che la legge istitutiva finalizza all'accertamento della consistenza della Loggia P2 ed alla valutazione del suo rilievo politico, rimane irrilevante la eventuale abusiva menzione di qualcuno che con Gelli abbia simpatizzato e non sia stato ritualmente affiliato alla loggia.
Il complesso contesto di documenti, nell'ambito del quale le liste abbiamo visto si inseriscono con puntuale riscontro, consente di affermare come il margine di dubbio è da circoscrivere a coloro che risultano menzionati nella lista e per i quali non si rinvengono ulteriori riscontri dell'appartenenza alla loggia né di attività in qualche modo riconducibili alla stessa.
Rilievo questo che, a prescindere dalla estrema esiguità dei casi, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, appare sicuramente insufficiente a smentire l'attendibilità generale dell'intero compendio documentale sequestrato al Gelli, dal quale ha preso le mosse l'inchiesta parlamentare.
Dovere di questa Commissione era esprimere, in termini di ragionevole convincimento basato su prove, su concordanti elementi indiziari e sulle argomentazioni logiche che da tale quadro si possono trarre un giudizio complessivo di attendibilità, al quale la Commissione ritiene doveroso aggiungere che l'ipotesi che singoli casi possano sfuggire in via di eccezione alla affermazione di principio non può certo essere esclusa, poiché la sfortunata coincidenza di un accumularsi di indizi fuorvianti è evento astrattamente ben ipotizzabile anche se statisticamente improbabile.
Il problema della veridicità degli elenchi va tenuto distinto dal problema dell'appartenenza alla massoneria degli iscritti alla Loggia P2, e proprio equivocando sui termini di tale discorso la generalizzata linea difensiva sostenuta in sede di procedimenti disciplinari e giudiziari da parte degli affiliati è stata quello o di negare in toto ogni forma di iscrizione o di affermare che essi ritenevano di affiliarsi alla massoneria e non ad una sua loggia retta da regime particolare, in essa ricompresa.
Bisogna premettere in proposito il rilievo proposto dal Commissario Gabbuggiani relativo alla provenienza degli affiliati alla Loggia P2, che la documentazione in nostro possesso ci mostra reclutati anche presso comunioni massoniche diverse da quella di Palazzo Giustiniani.
L'esistenza comprovata di logge coperte presso le famiglie di minor rilievo e la contemporanea iscrizione di alcuni soggetti presso più organizzazioni ci mostra un aspetto peculiare della Loggia P2, che veniva in un certo senso a porsi come la struttura più qualificata di questo variegato mondo sommerso. L'individuazione di questa complessa realtà complica peraltro l'analisi delle posizioni singole. Per fare chiarezza in questo discorso la Commissione ha effettuato due operazioni di sequestro di documenti, acquisendo le schede di tutti gli iscritti alle comunioni di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù.
La conoscenza dei dati sia globali sia analitici che ne è seguita non consente peraltro di risolvere in via definitiva il complesso problema, i cui termini vanno chiariti adeguatamente sulla scorta della ricostruzione effettuata nel capitolo precedente. Si è dovuto infatti constatare che in entrambe le organizzazioni non esiste una forma di tenuta dei registri degli iscritti tale da consentire di affermare con certezza se una persona data sia o meno appartenente a quelle comunioni.
Centrando il discorso sulla famiglia di Palazzo Giustiniani (ma in termini del tutto analoghi esso vale per la famiglia di Piazza del Gesù) si è riscontrato che gli iscritti venivano nominativamente classificati in appositi schedari con schede mobili non numerate in ordine progressivo, né secondo altro criterio che garantisse la non alterabilità del metodo adottato.
Ad un successivo livello di analisi e sulla scorta di informazioni pervenute in possesso della Commissione si è appurato che agli affiliati viene attribuito al momento dell'iscrizione un numero progressivo che distingue il brevetto massonico consegnato singolarmente ad ogni iscritto. È questo l'unico documento, al di là anche della tessera di appartenenza, che attribuisce la qualifica di massone e che come tale viene internazionalmente riconosciuto.
La Commissione avendo avuto notizia dell'esistenza di registri contenenti le varie progressioni dei numeri di brevetto, la cui esistenza è anche logicamente deducibile, ha provveduto ad una seconda ispezione che ha dato risultati non apprezzabili perché, non solo dei registri in parola è stata negata l'esistenza, ma in loro sostituzione sono stati esibiti dei bollettari relativi ad alcuni anni recenti, in serie non completa perché alcuni risultavano mancanti ed in loro vece era inserita la notazione: «consegnati alla Loggia P2».
Dalla narrativa di questi fatti emerge l'impossibilità concreta di stabilire con certezza, ai fini della nostra indagine, la consistenza della comunione massonica di Palazzo Giustiniani, nonché di avere dati certi sulle affiliazioni massoniche di molti iscritti alla Loggia P2, perché non è stata trovata in possesso di tali organizzazioni nessuna forma di documentazione certa, sulla tipologia del registro dei soci nelle società commerciali. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Soldi e affiliazioni, la loggia è ormai “scoperta”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 25 settembre 2023
È certo che, nella seconda fase della Loggia P2, coloro che si accostavano a Gelli erano mossi dall'intento di aderire a un’organizzazione la cui presenza era meno ignorata in ambienti qualificati, di quanto lo fosse presso il grosso pubblico
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Al fine di mettere ordine nella materia la Commissione ritiene di osservare quanto segue. Premesso che comunque i fratelli coperti affiliati «sul filo della spada» non venivano inseriti nei registri ordinari degli affiliati si può comunque identificare un primo consistente gruppo di iscritti (175) alla Loggia P2 per i quali siamo in possesso di dati che confermano l'iscrizione alla massoneria, al di là delle dichiarazioni degli interessati.
Per i restanti nominativi non si è in grado di confermare se l'affiliazione alla Loggia P2 avvenne direttamente presso Gelli, con eventuale successiva trasmissione dei dati al Grande Oriente, o in alternativa si trattò di affiliazioni alla comunione trasmesse poi alla Loggia P2.
Il problema non è nel suo significato reale una questione di ordine meramente anagrafico, poiché si inserisce nel contrasto che, come sappiamo, ha contrassegnato i rapporti tra Licio Gelli ed i Gran Maestri sino al definitivo impossessamento della Loggia P2 da parte del suo Venerabile Maestro ed alla sua attività di affiliazione diretta, materialmente officiata dal Gamberini, che aveva come punto di riferimento i recapiti romani della sede di Via Condotti e dell'Hotel Excelsior; questa attività era resa possibile dalla consegna di tessere in bianco da parte dei Gran Maestri, che rappresentava una forma di delega incontrollata, segno della loro resa al potere gelliano.
Questa situazione, di indubbio riscontro nella nostra ricostruzione, ribalta i termini del problema perché è certo che, nella seconda fase della Loggia P2, coloro che si accostavano a Gelli erano mossi dall'intento di aderire ad una organizzazione la cui presenza era certo meno ignorata in ambienti qualificati, di quanto lo fosse presso il grosso pubblico; un'organizzazione che — per l'indipendenza che si era acquistata nell'ambito di una comunione che le prestava ormai solo formale copertura — esentava l'affiliato dall'osservanza di rituali ed adempimenti di indubbio impaccio per l'iniziando mosso da più terrestri motivazioni.
Appare di palese evidenza infatti che la pratica inesistenza di attività massonica di ordine rituale nell'ambito della Loggia P2, non poteva che chiarire agli affiliati oltre ogni dubbio che l'iscrizione veniva effettuata presso un organismo di natura affatto particolare quale la Loggia P2. Vero è quindi che la eventuale non formalizzazione dell'iscrizione avvenuta presso la segreteria del Grande Oriente era, dal punto di vista degli affiliati ininfluente, attenendo essa ai rapporti interni tra la loggia e l'organismo di cui essa era emanazione.
Rimane da ultimo da ricordare che alcuni iscritti alla Loggia P2, per i quali sono state rinvenute le schede di appartenenza alla massoneria, recano poi l'indicazione anagrafica di essere usciti dall'organizzazione per passare ad altra loggia.
La Commissione in proposito rileva che sono stati rinvenuti piedilista di logge coperte (Emulation, Zamboni De Rolandis) alle quali appartenevano «fratelli» affiliati peraltro contemporaneamente alla Loggia P2; e del resto il principio della doppia appartenenza appare sanzionato dalle Costituzioni massoniche (art. 15).
Queste considerazioni, unitamente alle perplessità più volte espresse sulla regolarità della tenuta dei registri e della gestione delle procedure, non consente pertanto di dare pieno e definitivo affidamento a queste registrazioni e non esclude che elementi che appaiono in transito nella Loggia P2 fossero in realtà rimasti nell'ambito dell'organizzazione realizzando, attraverso Vexeat ad altra loggia, una forma ulteriore di copertura della loro appartenenza.
La Commissione ritiene in proposito di rilevare che la disinvoltura con la quale la massoneria di Palazzo Giustiniani ha gestito la propria segreteria ha finito per risolversi in un sostanziale danno per gli affiliati, concretando in tal modo un lampante esempio di come la salvaguardia della sfera dei diritti dei singoli vada ricercata, con primaria considerazione, nella trasparenza di ogni forma di vita associativa.
Il complesso di documentazione pervenuto alla Commissione consente di formare un quadro sufficientemente preciso in ordine alle strutture organizzative della Loggia P2. Il primo dato che emerge a tal fine dai documenti è l'assenza di quel fondamentale momento di vita associativa costituito dall'assemblea degli aderenti all'organizzazione, dalla riunione cioè nella quale i suoi dibattono i problemi dell'associazione, tirano i consuntivi dell'attività svolta, programmano la vita futura ed infine procedono alla elezione delle cariche sociali.
In una associazione regolarmente costituita e fisiologicamente funzionante, questa complessa attività interviene secondo scadenze prefissate in astratto, sulle quali il vertice non può influire ad arbitrio, ed è sottratta altresì ad un eventuale potere derogatorio dei soci, promanando dallo statuto sociale. Nulla di tutto questo è dato riscontrare nella Loggia P2.
I documenti al nostro studio, non abbondanti ma esaurienti ai nostri fini, e le testimonianze raccolte consentono di affermare che non solo una consimile attività collegiale non ha mai avuto luogo, sia pure in modo episodico, ma che di essa non si è nemmeno mai prospettata l'esigenza o quanto meno contestata la mancanza.
Questa incontrovertibile constatazione può condurre a due diverse soluzioni: ritenere non qualificabile la Loggia P2 come associazione o per converso riconoscerle natura associativa, tale peraltro da essere confinata nella patologia di tale forma di vita di relazione.
La Commissione considera che questa sia la soluzione da accogliere, per una serie di ragioni che possiamo elencare secondo l'ordine seguente. È in primo luogo accertato che la Loggia P2 conosceva momenti assembleari di parziale portata. Sono infatti in possesso della Commissione documenti che testimoniano di riunioni di gruppi di affiliati che per altro non avvenivano secondo una calendarizzazione prefissata, caratteristica tra l'altro di tutte le logge massoniche, quanto piuttosto per impulso episodico del vertice dell'organismo.
In secondo luogo è dato di sicuro riscontro la presenza di strutture stabili che garantivano la funzionalità dell'organizzazione in quanto tale, assicurando i contatti tra settori di soci variamente identificati: sono questi i diciassette gruppi costituiti nella seconda fase, ai quali si aggiungeva il gruppo centrale guidato da Gelli.
Sotto il profilo strutturale è altresì da rilevare che l'organizzazione aveva un vertice, ovvero un capo riconosciuto come tale dagli affiliati e che questo vertice, modellato secondo una tipologia strettamente personalizzata, andava individuato nella figura di Licio Gelli, poiché i riferimenti ad un vertice più allargato, che viene indicato come direttorio, non trovano pratica attuazione secondo i documenti in nostro possesso.
Terzo rilievo è che appare acclarato come una conoscenza interpersonale tra i soci, in quanto tali, fosse certamente garantita dalle riunioni di gruppo: è pacifico cioè che gli affiliati entravano in contatto con altri affiliati, riconoscendosi reciprocamente tale qualifica. Il quarto argomento è relativo all'esistenza di un indubbio momento qualificato, particolarmente solennizzato nella iniziazione, attraverso il quale l'affiliato riconosceva di aderire alla associazione accettandola in quanto tale.
Va da ultimo sottolineato, con riferimento alla sede, come dato certo che la loggia in quanto tale ha usufruito sempre di un punto di riferimento stabile in modo continuativo (Via Lucullo, Via Cosenza, Via Condotti, Via Vico, Via Romagnosi). Per altro a tale sede può farsi riferimento nell'ultima fase, solo per la sessantina di iscritti che figurano nel piedilista ufficiale.
È certo infatti che durante questo periodo, quello di maggior significato e di più grande sviluppo, la gestione amministrativa e contabile venne a trovare il suo punto di riferimento presso la segreteria personale del Gelli, negli uffici personali di Castiglion Fibocchi, mentre il vero centro di attività del Venerabile e della loggia andava localizzato nella suite da questi occupata presso l'Hotel Excelsior, mèta assidua di pellegrinaggi di affiliati (e non) secondo le concordi testimonianze.
Questa duplice localizzazione della reale sede della loggia ben rappresenta il rapporto di totale predominio che Gelli aveva infine raggiunto nella Loggia Propaganda, anche nei confronti della comunione di Palazzo Giustiniani. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Una piramide agli ordini di un uomo solo. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 26 settembre 2023
Lo schema di funzionamento sociale che abbiamo individuato ci consente di affermare che la Loggia P2 si pone come un’associazione di assetto piramidale caratterizzato dall'assenza o dall'estrema labilità dei rapporti orizzontali tra i soci. Ad essa corrisponde l'individuazione di una serie di rapporti verticali instaurati tra la base e il vertice, tra gli affiliati e il Gran Maestro
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Gli argomenti che abbiamo esposti ci consentono di affermare non solo che la Loggia P2 era oggettivamente costituita come struttura associativa ma che, in quanto tale, essa era soggettivamente considerata dagli aderenti. Il successivo passaggio è pertanto quello di stabilire secondo quali modalità questa associazione si organizzava relativamente alle peculiarità del tutto singolari del suo concreto operare e delle sue finalità, quali ci vengono mostrate dai documenti.
Riprendendo gli argomenti sopra esposti ci è dato osservare che una connotazione ad essi comune è la settorializzazione dei rapporti tra gli affiliati: non è tanto cioè che manchino del tutto strutture e modelli propri di una associazione normalmente funzionante ad assumere rilievo, quanto piuttosto che essi sono presenti in forme che tendono ad escludere la circolarità delle relazioni intersociali.
Così manca l'assemblea generale, ma esistono assemblee di gruppo; così pure è assicurata la conoscenza personale tra gli affiliati, ma è negato al socio il possesso del dato conoscitivo relativo alla totalità degli altri associati: altro elemento questo, si noti, assolutamente caratterizzante una associazione di tipo regolare.
Questi rilievi ci consentono di osservare come la prima manifestazione della patologia associativa della Loggia P2 risieda nella sua struttura, modellata al fine di realizzare una sostanziale parcellizzazione della vita sociale e dei rapporti tra i soci.
Tale assunto ci consente di pervenire all'acquisizione di un ulteriore risultato interpretativo di estremo interesse. Non è chi non veda che una struttura parametrata al modello descritto può avere possibilità di concreto funzionamento solo postulando una direzione di vertici che, superando la parzialità delle relazioni sociali ed in sé assumendole, consenta all'organizzazione di estrinsecare i propri contenuti.
L'assenza infatti di un fondamentale momento di vita associativa quale l'assemblea comporta di necessità l'esistenza di un modello funzionale nel quale il vertice provveda a quanto non realizzato dalla base: determinare, cioè, le linee generali di azione della organizzazione.
Tale modello era per l'appunto quello della Loggia P2 nella quale il Venerabile Maestro assumeva configurazione di dominus assoluto dell'associazione, non trovando di fronte a sé alcuna forma di espressione consorziata della volontà degli affiliati. Come tale Licio Gelli non ripeteva la sua posizione da procedimenti elettivi, dei quali non si ha traccia alcuna, mentre per converso ci è noto che il Salvini ne decretò, su impulso del Gamberini, l'elevazione al rango di Maestro Venerabile rigidamente elettiva secondo gli statuti massonici.
Lo schema di funzionamento sociale che abbiamo individuato ci consente di affermare che la Loggia P2 si pone come una associazione di assetto piramidale caratterizzato dall'assenza o dall'estrema labilità dei rapporti orizzontali tra i soci. Ad essa corrisponde l'individuazione, estremamente significativa, di una serie di rapporti verticali instaurati tra la base ed il vertice, tra gli affiliati ed il Gran Maestro, ampiamente documentati, in univoco senso, alla documentazione epistolare e dai riscontri testimoniali.
Questo modello funzionale era del resto esplicitamente portato a conoscenza degli affiliati, secondo quanto si ricava da una lettera circolare dal Gelli inviata ai nuovi iscritti, nella quale è dato leggere: «Colgo l'occasione per ricordarti che per qualsiasi tua necessità dovrai metterti sempre in contatto diretto con me e che nessuno che non sia stato da me esplicitamente autorizzato — della qualcosa ti darò preventiva comunicazione — potrà venire ad importunarti».
«Qualora si dovesse verificare la deprecabile ipotesi — che del resto è assai remota, per non dire impossibile — di un tentativo di avvicinamento da parte di persona che si presenti a te facendo il mio nome, sarei grato se tu respingessi decisamente il visitatore e mi dessi immediata notizia dell'accaduto».
Il testo citato offre alla nostra attenzione un duplice dato conoscitivo, perché, oltre alla puntuale descrizione della situazione di verticalizzazione dei rapporti sociali individuata come caratteristica strutturale della Loggia P2, ci conduce alla prospettazione in termini conclusivi del problema della segretezza dell'organizzazione.
La ricostruzione proposta della storia della loggia nell'ambito del Grande Oriente ci ha consentito di affermare che, attraverso il processo di ristrutturazione che intervenne a partire dalla Gran Loggia di Napoli del 1974, la Loggia P2 venne a porsi in una condizione di segretezza non più assimilabile alla riservatezza propria della tradizione massonica e tale da consentirci di definire l'organizzazione come contrassegnata da una connotazione oggettiva, ovvero strutturale, di segretezza.
Quando adesso si considerino le raccomandazioni agli iscritti contenute nella circolare riportata ci si avvede che in seconda analisi esse altro non sono che una modalità attuativa della segretezza della loggia, riportata all'estrinsecarsi delle relazioni sociali.
La segretezza della loggia vale cioè non solo nei confronti dell'esterno ma permea essa stessa la vita dell'associazione, trovando nella figura del Maestro Venerabile l'elemento esclusivo di contatto tra gli affiliati ovvero l'arbitro ultimo delle relazioni sociali e della loro stessa riconoscibilità nell'ambito della organizzazione.
Quanto all'esterno dell'organizzazione, nei confronti del mondo «profano» la segretezza veniva sanzionata da un documento che fissava le regole di comportamento dei soci. In questo singolare testo, intitolato «Sintesi delle norme», è dato leggere che l'affiliato deve evitare di cadere in situazioni che possano condurlo ad «infrangere — anche se involontariamente — la dura regola del silenzio».
Una regola questa che l'affiliato accettava sin dal momento del suo ingresso nella loggia, quando, prestando giuramento, si impegnava a non rivelare i segreti dell'iniziazione muratoria. I riferimenti documentali riportati, richiamati dal Commissario Bellocchio, ci consentono pertanto di affermare conclusivamente, completando il discorso impostato nel primo capitolo, che non solo la Loggia P2 era organizzazione oggettivamente strutturata come segreta ma che essa come tale era soggettivamente riconosciuta ed accettata dagli iscritti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’obiettivo della P2: potere per avere più potere. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 27 settembre 2023
Entrare a farvi parte denunciava la dichiarata e consapevole volontà di concorrere a tale azione perturbatrice per la parte di rispettiva competenza, ad essa apportando il patrimonio personale della propria capacità professionale, delle proprie relazioni e delle influenze esercitabili
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Dopo aver studiato la struttura dell'associazione, vediamo adesso come essa si ponesse in relazione al perseguimento dei fini associativi, nonché quali fossero la compartecipazione programmatica e la conoscenza reale dei soci in ordine agli scopi ultimi dell'organizzazione alla quale avevano scelto di aderire.
Anticipando qui argomenti e conclusioni che costituiscono lo sviluppo successivo del presente lavoro, possiamo affermare che la Loggia P2 si delinea nettamente alla nostra attenzione come una complessa struttura dedita ad attività di indebita, se non illecita, pressione ed ingerenza sui più delicati ed importanti settori, ai fini sia di arricchimento personale, sia di incremento di potere, tanto personale quanto della loggia.
Questa ramificata azione, perturbatrice dell'ordinato svolgimento delle istituzioni e degli apparati, interessava i campi più svariati della vita nazionale: dalla politica all'economia, dall'editoria ai ministeri. Questa enunciazione consente alla Commissione di affermare, con riferimento alla finalità immediata della Loggia P2, che essa era come tale non solo conosciuta dagli aderenti, ma si poneva come motivo primo della loro adesione alla associazione.
Entrare a farvi parte infatti altro non denunciava se non la dichiarata e consapevole volontà di concorrere a tale azione perturbatrice per la parte di rispettiva competenza, ad essa apportando il patrimonio personale della propria capacità professionale, delle proprie relazioni e delle influenze esercitabili.
In questa prospettiva possiamo affermare che la finalità immediata della Loggia P2 era come tale in pari modo conosciuta da tutti i membri dell'associazione, e da tutti con pari impegno perseguita, le differenze riscontrabili, rispetto a tale fine concreto, avendo ragione di essere solo per il diverso ruolo da essi membri ricoperto nella società civile.
Possiamo osservare da ultimo che l'identificazione della ragione associativa con questa finalità immediata altro non costituisce se non lo sviluppo del tradizionale concetto di solidarietà massonica, che il Gelli, dando notizia agli iscritti della costituzione dei gruppi, così efficacemente individuava: «...solidarietà che, come sai, rappresenta il trave maestro della nostra Istituzione...».
Notiamo allora che lo specifico apporto gelliano, nel consolidato quadro di vita massonica, risiede nello sviluppo, sino alle estreme conseguenze, di fenomeni prima di lui esistenti: come dalla riservatezza si passa per gradi alla definitiva segretezza, con un compiuto salto di qualità, così dalla tradizionale solidarietà, funzionale ad operazioni di piccolo cabotaggio, si arriva alla dimensione affatto nuova di una operazione generalizzata di interferenza nella vita del Paese.
È facile allora osservare come i due fenomeni, secondo quanto ci mostra lo studio della vicenda della loggia, corrano in parallelo secondo un legame di intrinseca reciprocità, il primo essendo funzionale alla ambizione di propositi del secondo. Accanto o meglio oltre questo fine immediato la Loggia P2 si poneva un fine mediato o ultimo al quale il primo era subordinato, e che verrà analizzato e studiato nel capitolo concernente il progetto politico della Loggia Propaganda: possiamo già dire, in tale sede, che il fine ultimo della organizzazione risiedeva nel condizionamento politico del sistema.
Il problema che ci poniamo è quello di rilevare quale reale conoscenza vi fosse presso gli affiliati in ordine a tale ultimo fine della Loggia P2, se e con quale grado di intensità fosse in loro presente la percezione che il concorso complessivo delle loro azioni, unificate dal vincolo associativo della loggia, tendeva al perseguimento del fine politico indicato: se cioè essi fossero avvertiti della subordinazione del fine immediato, da tutti condiviso, al fine ultimo della Loggia P2.
Dall'esame degli atti e della documentazione in nostro possesso non risulta che il concorso della solidarietà tra affiliati pervenisse al riconoscimento esplicito di questo collegamento; questa finalità ultima peraltro, secondo l'ampia analisi che svolgeremo in seguito, costituisce la connotazione generale del fenomeno piduista, più che come professata dichiarazione intenzionale, in termini di implicita, sottesa direzione delle azioni della loggia e dei suoi aderenti.
A riprova di quanto affermato notiamo che il piano di rinascita democratica, del quale si farà analisi particolareggiata, delinea lucidamente tale strategia ma ad essa non fa mai esplicito riferimento, come del resto è lecito attendersi attesa la gravità dell'obiettivo.
Tale premessa ci consente di affermare in via induttiva, ma con verosimiglianza di risultato, che la consapevolezza del fine ultimo della loggia non poteva che essere graduata a seconda del ruolo rivestito dagli affiliati, e trattandosi di finalità squisitamente «profana», per restare nella terminologia, non poteva che assumere a metro di paragone il loro ruolo «profano», ovvero gli incarichi e le funzioni da essi ricoperti nella società. In via esemplificativa ci sembra di poter evidenziare che, rispetto a tale ultimo fine, il coinvolgimento del direttore dei Servizi segreti fosse ben diverso da quello di un ufficiale subalterno.
Di pari evidenza risulta che per quanto invece attiene al fine immediato dell'organizzazione, diversa era la conoscenza delle attività della loggia a seconda dei settori di appartenenza; talché, tenendo anche conto del grado di espansione delle attività, quanto avveniva nel settore editoria coinvolgeva certamente gli appartenenti del gruppo Rizzoli ma non in pari misura, ad esempio, gli esponenti di vertice del mondo militare i quali, pur essendo a conoscenza della penetrazione nel settore, ricorrevano alla intermediazione del Gelli per i contatti reciproci, secondo quanto dimostrano vari episodi di ingerenza nel Corriere della Sera, gestiti, verosimilmente, dal Trecca.
Possiamo allora concludere che a livello di fini dell'associazione, immediati o ultimi che siano, si riscontra lo stesso fenomeno di parcellizzazione tra i soci rilevato a livello strutturale; conclusione questa che per la convergenza dei risultati interpretativi non solo arricchisce il nostro patrimonio conoscitivo, ma attribuisce connotazioni di verosimile attendibilità alla ricostruzione proposta.
Rimane da ultimo da precisare che il modello organizzativo studiato, anche a livello di finalità dell'associazione, presupponeva che il possesso completo della loro conoscenza risalisse soprattutto alla figura che vi fa capo e quindi al Venerabile Maestro, la cui infaticabile attività è testimoniata da tutte le fonti e che risulta ben spiegabile in un contesto associativo così organizzato.
La Loggia P2 ci appare allora in tutta la sua funzionale essenzialità, patologica certo rispetto ai modelli normali di associazione, ma assolutamente idonea quale strumento destinato alla gestione di una generale operazione di inserimento nel sistema a fini di condizionamento e controllo. Il modello assunto è stato definito «per cerchi concentrici» dall'onorevole Rognoni e tale espressione ben rappresenta la settorialità di strutture e di relazioni sociali proprie dell'organizzazione.
Non è infine chi non veda come questa tipologia associativa, pur patologica, non sia peraltro del tutto nuova. Il Procuratore generale della Repubblica, nei motivi di appello avverso la sentenza del Giudice istruttore del tribunale di Roma, ha infatti affermato, con riferimento al problema di segretezza, che «sembra quasi di vedere enunciate, per tabulas, le regole del silenzio, omertà e sicurezza a cui si dovevano attenere gli appartenenti ad organizzazioni terroristiche o mafiose o camorristiche».
Analogo riferimento è proposto dalla sentenza del Consiglio Superiore della magistratura. Questi rilievi possono essere allargati ad un più generale contesto interpretativo, poiché ci è dato osservare che da tali organizzazioni, che si muovono nell'illegalità in forma organizzata, la Loggia P2 mutua quella frammentazione dei rapporti sociali e quella non conoscibilità, nei gradi intermedi, dei fini ultimi dell'organizzazione, che la stessa non liceità di tali fini rende indispensabili connotati strutturali.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Le reticenze e omertà dei “fratelli muratori”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 28 settembre 2023
La storia della Loggia P2 è una storia di uomini sbagliati, di uomini che non hanno risposto alla fiducia che in loro veniva riposta dalla società. Durante le audizioni la Commissione ha riscontrato atteggiamenti negatori che contestavano emergenze istruttorie suffragate dalla logica stessa dei fatti, prima ancora che da innegabili riscontri documentali
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
L'analisi della struttura associativa che abbiamo sviluppato ci consente di affrontare il problema delle responsabilità degli affiliati in termini corretti, evitando di dare adito a controproducenti polemiche. Partendo infatti dalla distinzione tra fine immediato e fine ultimo della loggia ci sembra naturale concludere che tutti gli affiliati erano responsabili di appartenere ad una associazione che aveva il fine evidente di interagire nella vita del paese in modo surrettizio.
Rispetto al fine ultimo invece, cui tale inquinamento era diretto, si può affermare che la media degli affiliati ne era sostanzialmente non avvertita, per lo meno quanto alla sua concreta effettiva natura di pericolo grave per la società civile.
Questa generale esenzione non va peraltro estesa a tutti coloro per i quali è lecito presumere che l'elevato incarico ricoperto (pubblico o privato che fosse) ovvero la natura delicata delle funzioni svolte non consentono errori di valutazione così macroscopici o compromissioni di sorta nell'adempimento del proprio dovere.
Proseguendo nell'analisi del problema va ricordato che, in sede di procedimento disciplinare, alcuni ufficiali hanno addotto a giustificazione della loro adesione l'invito loro rivolto da ufficiali gerarchicamente sopraordinati, i quali avrebbero fatto intendere più o meno velatamente che l'ingresso nell'organizzazione costituiva passaggio obbligato per lo sviluppo della carriera.
Se è di palese evidenza che un simile comportamento costituisce una aggravante per coloro che hanno esercitato simili forme di pressione, lo spunto in esame si offre ad alcune considerazioni di più ampio respiro. Il modulo di domanda per l'affiliazione alla Loggia P2 conteneva oltre alle richieste di informazione che è dato attendersi in consimili occasioni, un'illuminante postilla: «... eventuali ingiustizie subite nel corso della carriera: ... ; ... danno conseguente: ... ; ... persone, istituzioni od ambienti a cui si ritiene possano essere attribuiti: ...».
Questi dati ci pongono di fronte all'esemplificazione palese del viziato rapporto associativo che sottostava a questo organismo, al malsano intreccio di interessi che sin dal primo momento il Venerabile Licio Gelli proponeva e gli affiliati accettavano, quale base della mutua collaborazione futura. La sottoscrizione di questa domanda suona a disdoro per tutti coloro che vi hanno apposto la loro firma, perché essi hanno così denunciato la loro sfiducia nell'ordinamento quale fonte di tutela e garanzia dell'individuo, affidandosi a tal fine ad una organizzazione parallela e clandestina.
Soccorre qui naturale il richiamo alle organizzazioni mafiose, già proposto, e alla loro collaudata tecnica di porsi allo stesso tempo come fonte di illegalità e di protezione contro l'illegalità da esse stesse creata, che costituisce il cardine di una sostanziale opera zione tentata di avocazione di poteri statuali, nella quale va individuata la maggior ragione di pericolo di tali forme associative per la collettività.
Analogamente la Loggia P2 sperimentava nei confronti di coloro che venivano individuati come elementi utili per l'organizzazione, quando recalcitranti, forme di pressione delle quali sono testimonianza, ad esempio, l'esperienza dell'onorevole Cicchitto, che ha denunciato di essersi iscritto dopo una persistente opera di pressione intimidatoria e le denunce degli ufficiali subalterni, sopra ricordate.
La valutazione della responsabilità degli iscritti va poi riportata, secondo quanto ha osservato il Commissario Battaglia, al momento di appartenenza alla Loggia P2 distinguendo tra coloro che ad essa appartenevano prima dell'ingresso di Licio Gelli nell'organizzazione e coloro che ad essa hanno aderito durante il periodo della gestione gelliana, con particolare riferimento alla seconda fase caratterizzata dalla sostanziale emancipazione dalle strutture massoniche che funzionavano oramai da semplice copertura formale.
Contrariamente a quanto sostenuto dagli iscritti in sede di esami testimoniali, lo studio delle vicende del rapporto tra la loggia e le istituzioni massoniche che ad essa avevano dato vita, consente di affermare che chi si affiliava alla Loggia P2 intendeva, soprattutto nel secondo periodo di sviluppo, accedere piuttosto che alla massoneria, per l'appunto all'organizzazione guidata da Licio Gelli.
In questo senso, come abbiamo affermato che Gelli era un massone atipico, così è dato osservare che gli affiliati alla Loggia P2 sono anch'essi massoni atipici tra i quali è dato distinguere una varia articolazione di individui che va da veri e propri massoni ovvero da coloro che accedevano alla massoneria, accettandone per altro le peculiarità organizzative della copertura — ed erano questi coloro che appartengono alla loggia prima dell'arrivo di Licio Gelli — a coloro che entrano nella Loggia P2 sotto l'egida della gestione gelliana e che hanno un rapporto con l'istituzione massonica via via più labile, secondo la rilevata progressiva emancipazione della loggia.
Questa valutazione che ci si ritiene in dovere di fornire sul comportamento degli iscritti attiene alla valutazione politica, propria come tale della Commissione ed alla quale la Commissione è doverosamente tenuta, ed in nulla interferisce sulle deliberazioni che verranno prese in proposito dai tribunali civili e militari, i quali sono tenuti, nella loro sovrana prerogativa giudiziaria, ad assumere criteri di giudizio di diversa natura e di diverse conseguenze.
La Commissione, giunta al termine dei suoi lavori, ritiene per altro doveroso affermare, con riferimento all'elemento della posizione personale degli iscritti, che non ci si può sottrarre all'impressione, ricavabile soprattutto dal contesto delle audizioni effettuate, che l'elemento della scarsa affidabilità e la approssimativa deontologia di comportamento di molti affiliati abbiano giocato un ruolo determinante nella creazione del sistema di potere gelliano.
In questo senso la storia della Loggia P2 è una storia di uomini sbagliati — una categoria del costume l'ha definita il Commissario Mora — di uomini che non hanno risposto alla fiducia che in loro veniva riposta dalla società. Durante le audizioni la Commissione ha riscontrato atteggiamenti negatori che contestavano emergenze istruttorie suffragate prima ancora che da innegabili riscontri documentali, dalla logica stessa dei fatti ed ha potuto constatare che tale atteggiamento accomunava, con sorprendente identità di tecniche e di forme, uomini che avrebbero dovuto apparire del tutto diversi tra loro per rango occupato nella società.
Questo comune porsi di fronte alla Commissione in posizioni di palese reticenza è del resto, vada detto in loro danno, ulteriore conferma dell'ampiezza del fenomeno e della sua eccezionale gravità. Una precisazione finale è d'obbligo: la peculiarità della struttura associativa e organizzativa della Loggia P2 e la distinzione sulla consapevolezza dei fini — immediati e ultimi — enunciata, comportano la ricostruzione di un modello funzionale che non consente di ritenere ciascun componente partecipe e responsabile di tutte le attività della loggia.
Se è vero, infatti, da un lato che la compromissione degli affiliati con un organismo di accertata illecita natura è complessivamente certa, vero è anche, dall'altro, che tale compromissione varia tra il minimo della consapevolezza del fine immediato (propria della media di base) ed il massimo della programmazione del fine ultimo eversivo, propria dei vertici.
Di più: il tipo di organizzazione per settori verticali, operanti il più delle volte con il sistema dei compartimenti stagni propri della Loggia P2, fa sì che l'attribuzione alla loggia di determinate attività debba intendersi riferita non già all'intera associazione, sibbene solo al settore competente nella relativa materia (così come, ad esempio, editoria, magistratura, commercio con l'estero, forze armate, eccetera).
In definitiva e per concludere, ogniqualvolta si voglia risalire a responsabilità personali per attività imputabili alla loggia, occorrerà procedere innanzitutto alla individuazione del «settore» dell'organizzazione competente per materia e quindi all'individuazione dei singoli affiliati che di quel settore facevano parte.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
I servizi segreti e quello speciale legame con Gelli durante la guerra. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 29 settembre 2023
Per una corretta interpretazione del problema del rapporto instaurato tra Licio Gelli e i Servizi segreti è imprescindibile prendere le mosse da un analitico e dettagliato esame dei documenti pervenuti e in particolare dal fascicolo intestato a Licio Gelli, conservato negli archivi dei Servizi di informazione
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Per una corretta interpretazione del problema del rapporto instaurato tra Licio Gelli ed i Servizi segreti è imprescindibile prendere le mosse da un analitico e dettagliato esame dei documenti pervenuti ed in particolare dal fascicolo intestato a Licio Gelli, conservato negli archivi dei Servizi di informazione, ed inviato dal SISMI alla Commissione. Questo fascicolo verrà analiticamente studiato al fine di interpretare nei suoi termini reali il ruolo svolto dai Servizi segreti nella vicenda della Loggia P2.
Dalla documentazione inviata apprendiamo che i Servizi si sono interessati per la prima volta di Licio Gelli nel 1945, nell'ambito di indagini relative a due agenti nemici che avevano lasciato Pistoia al seguito dei tedeschi. Da questa prima nota informativa apprendiamo che nel corso delle indagini era infatti emerso che nel novembre 1944 un certo Gelli si era presentato alla famiglia di uno dei due, cercando di scoprire se questa sapesse dove il congiunto fosse riparato.
I Servizi raccolsero a questo punto notizie sul Gelli in questione e lo identificarono in Gelli Licio di Ettore e fu Gori Maria, nato il 21-4-1919 e Pistoia. Gelli, che si trovava all'epoca e La Maddalena, fu sottoposto ad interrogatorio presso il Centro di Cagliari.
Nell'occasione raccontò che il 9 settembre 1943 si trovava a Viterbo come tenente dei paracadutisti; venne rastrellato da un reparto tedesco e, posto di fronte all'alternativa di aderire alla Repubblica di Salò o di essere deportato in Germania, optò per la prima soluzione, rientrando a Pistoia come ufficiale di collegamento con le SS presso la Federazione dei Fasci. Stando sempre a quanto dichiarato da Gelli, egli avrebbe quindi preso contatti con il CLN pistoiese e reso utili servizi ai partigiani.
I comandi nazifascisti, venuti a conoscenza di questa sua collaborazione, gli diedero la caccia istituendo una taglia di lire centomila (100.000) a favore di chi lo avesse catturato. Con l'aiuto del CLN Gelli e la sua famiglia ripararono allora in montagna, per rientrare in città soltanto dopo la liberazione, avvenuta nel settembre 1944.
Nell'ottobre del 1944, sempre secondo le sue dichiarazioni, Gelli fu chiamato a collaborare con il Counter Intelligence Corps al seguito della V Armata, vale a dire con il servizio di controspionaggio militare americano, su indicazione del quale si sarebbe recato nell'abitazione dell'agente nemico.
I servizi resi gli consentirono nel dicembre del 1944 di recarsi a La Maddalena, munito di u n lasciapassare rilasciatogli in data 12 gennaio 1945 dal Presidente del CNL di Pistoia, Italo Carobbi: una specie di «lettera di raccomandazione» per il CLN di Napoli affinché Gelli fosse aiutato «nel limite delle possibilità, nell'espletamento della concessione del permesso per recarsi in detta località» (La Maddalena).
Già nell'ottobre del 1944 Italo Carobbi, a nome del CLN pistoiese, aveva rilasciato a Gelli una sorta di «carta di libera circolazione». Il rilascio di questo attestato doveva aver suscitato critiche nell'ambito dello stesso CLN pistoiese, tanto che La Voce del Popolo (organo del CLN di Pistoia) dovette uscire il 4 febbraio 1945 con un articolo di chiarimento sulla vicenda.
In questo attestato, che Gelli esibì nel corso dell'interrogatorio cui fu sottoposto a Cagliari, si rileva che Gelli, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si era reso utile in vari modi alla causa dei patrioti pistoiesi.Egli aveva infatti:
1° - avvisato partigiani che dovevano essere arrestati;
2° - messo a disposizione e guidato personalmente il furgone della Federazione fascista per portare sei volte consecutive rifornimenti di viveri ed armi alla formazione di Silvano e alle formazioni di Pippo dislocate in Val di Lima;
3° - partecipato e reso possibile la liberazione dei prigionieri politici detenuti alla Villa Sbertoli.
La dichiarazione di Carobbi termina con questa frase: «Resta salva la facoltà di esaminare con maggiore cura le attività svolte dal Gelli Licio onde stabilire definitivamente la sua posizione». Questo dunque il tenore della prima informativa su Licio Gelli agli atti nei fascicoli dei Servizi.
Gelli fornì in occasione dell'interrogatorio cagliaritano la versione dei fatti a lui più congeniale, ma ammise comunque la sua attività di doppiogiochista e di delatore, e fornì in quell'occasione i nominativi di quelle 56 persone che avevano attivamente collaborato con i tedeschi; la lista che Pecorelli prometteva di rivelare nel successivo numero di O.P., quello che non sarebbe mai uscito. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Delitti e sospetti, il passato “nero” del Venerabile Maestro. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 30 settembre 2023
Nel 1943 aderisce alla Repubblica sociale italiana. È uno dei primi a costituire a Pistoia il fascio repubblicano. Diviene ufficiale di collegamento con le SS. È attivo nel rastrellamento dei prigionieri inglesi e degli antifascisti. Fa arrestare il parroco di San Biagio in Cascheri, che a suo dire avrebbe favorito alcuni di essi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Le due informative successive (luglio 1945 e gennaio 1946) contengono molte notizie sui trascorsi del Venerabile. Lette in parallelo con le informative contenute nel fascicolo inviato dalla questura di Pistoia, relative agli stessi anni, e con il fascicolo inviato dal Tribunale di Pistoia, ci consentono la seguente ricostruzione.
1936 - Gelli si arruola volontario nell'ex M.V.S.N. proveniente dalla G.I.L. Partecipa alla guerra di Spagna.
1940 - Si iscrive al Partito nazionale fascista, proveniente dai G.U.F.
1942 - È chiamato a Cattaro (Iugoslavia) da Alzona, ex federale di Pistoia. Qui diviene uomo di fiducia di Parini, segretario dei fasci italiani all'estero. Resta a Cattaro fino al 25 luglio 1943.
1943 - Aderisce alla Repubblica sociale italiana. È uno dei primi a costituire a Pistoia il fascio repubblicano. Diviene ufficiale di collegamento con le SS. È attivo nel rastrellamento dei prigionieri inglesi e degli antifascisti. Fa arrestare il parroco di San Biagio in Cascheri che a suo dire avrebbe favorito alcuni di essi. Capeggia le squadre per il rastrellamento dei renitenti alla leva; è complice dell'arresto di quattro di essi, poi fucilati nella fortezza di Pistoia.
1944 - 26 giugno. Partecipa, con la formazione partigiana di Silvano Fedi, all'attacco alle carceri giudiziarie di Pistoia, Villa Sbertoli, che consentì la liberazione di 57 detenuti politici e di due ebrei.
1944 - 28 agosto. È ucciso il commissario capo di PS presso la questura di Pistoia, Giuseppe Scripilliti, che collaborava con i partigiani. Gli fu teso un agguato proprio mentre stava portando al capo partigiano Silvestro Dolfi un elenco di fascisti repubblicani e di collaboratori dei tedeschi. Gelli fu coinvolto in questo delitto dalle deposizioni rese nel 1947 da Dolfi, al quale il nominativo di Gelli come sicario di Scripilliti era stato fatto da un altro partigiano, Michele Simoni. Il Simoni però, in seguito alle indagini personalmente compiute, modificò in un secondo tempo i suoi convincimenti e ritenne Gelli estraneo al delitto.
1944 - settembre. Dopo la liberazione di Pistoia, Gelli è oggetto di rappresaglie: l'11 novembre è aggredito in piazza San Bartolomeo. 1944 - 2 ottobre. Primo attestato di Carobbi (carta di libera circolazione).
1945 - 12 gennaio. Secondo attestato di Carobbi. 1945 - 4 febbraio. Sul settimanale La Voce del Popolo appare un articolo intitolato: «Un chiarimento del CPLN». Si giustifica il rilascio dell'attestato del 2 ottobre 1944.
1945 - febbraio. Ritornando clandestinamente dalla Sardegna è arrestato nei pressi di Lucca dalla polizia militare alleata.
1945 - 22 marzo. La procura del Re di Pistoia emette nei suoi confronti mandato di cattura per i delitti commessi durante il regime fascista (sequestro di Giuliano Bargiacchi, figlio di un collaboratore dei partigiani).
1945 - 21 aprile. È condannato in contumacia dal tribunale di Pistoia a due anni e sei mesi di reclusione per sequestro di persona e furto.
1945 - 11 settembre. In relazione al sequestro Bargiacchi è arrestato a La Maddalena.
1946 - 20 marzo. Sempre per lo stesso episodio ottiene la libertà provvisoria ed è rinviato da La Maddalena a Pistoia.
1946 - 25 marzo. Il procedimento penale presso la corte d'assise straordinaria provocato da una denuncia del colonnello dell'aeronautica Ferranti Vittorio (a suo dire Gelli avrebbe organizzato rastrellamenti di prigionieri inglesi), è trasmesso, con la richiesta di proscioglimento per insufficienza di prove, alla corte d'appello di Firenze che dispone invece l'istruttoria formale.
1946 - 1° ottobre. In relazione al sequestro Bargiacchi è assolto dalla corte d'appello di Firenze perché il fatto non costituisce reato. 1946 - 30 novembre. Nella cartella biografica intestata a Licio Gelli presso la prefettura di Pistoia leggiamo, nel riquadro riservato alla situazione economica: «Nullatenente. E aiutato dai parenti, mentre egli si industria con il piccolo commercio».
1947 - 7 gennaio. E’ iscritto nel Casellario politico centrale del Ministero dell'interno e sottoposto ad «attenta vigilanza».
1947 - 27 gennaio. Il processo penale iniziato a seguito della denuncia di Ferranti si conclude con sentenza assolutoria per amnistia della sezione istruttoria della corte d'appello di Firenze.
1947 - 11 settembre. Ottiene il passaporto per la Francia, Spagna, Svizzera, Belgio ed Olanda.
1948 - 9 luglio. Per quanto concerne la posizione del CPC, la vigilanza è ridotta da «attenta» a «discreta».
1949 - 12 aprile. Il tribunale di Pistoia lo condanna all'ammenda di lire 1.400 per contrabbando e frode dell'IGE. La pena è sospesa. 1950 - 24 marzo. È radiato dal CPC.
Questo è dunque il quadro che emerge dalle informative precedenti il settembre 1950.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Il Sifar e un’informativa tarocca: così si annacqua una storia già torbida. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 01 ottobre 2023
Nel rapporto si sostiene che Gelli, legato al partito comunista fin dal 1944, è per lo meno dal 1947 un agente dei servizi segreti dell'Est (Kominform). Avrebbe mascherato questa sua attività dietro quella di industriale e commerciante prima (trafilati di ferro e di rame), e di libraio in un secondo momento
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Il 20 gennaio di quell'anno [1950] perviene ad un Centro SIFAR periferico una nota proveniente dall'Ufficio romano.
L'Ufficio scrive al Centro periferico che «Organo collaterale ha segnalato quale sospetto agente del Kominform tale Gelli, non meglio indicato, da Pistoia» e chiede di svolgere accertamenti. Nel febbraio (il 24) il Centro risponde all'Ufficio che il Gelli segnalato deve identificarsi in Gelli Corrado, né peraltro l'organo rispondente fornisce alcuna spiegazione circa l'identificazione proposta, per quali motivi cioè la notizia in possesso della sede centrale possa essere riferita ad u n nominativo (Gelli Corrado) con esclusione di un altro (Gelli Licio).
Nel settembre successivo il Centro periferico invia all'Ufficio il documento noto come informativa COMINFORM, smentendo così la sua precedente segnalazione. Anche in questa seconda occasione il Centro non fornisce alcuna spiegazione di tale invero strano modo di procedere, poiché non rende ragione né di questa sua seconda definitiva identificazione, né delle ragioni dell'errore nel quale era incorso precedentemente, quando tale identificazione aveva negato.
Risalta in altri termini, dalla corrispondenza che accompagna l'informativa, un quadro invero singolare di rapporti tra una sezione periferica subalterna ed il centro che mal si concilia con la subordinazione gerarchica esistente tra i due organi corrispondenti; la corrispondenza che accompagna il documento appare in tale contesto più il pretesto formale, burocraticamente indispensabile, per l'incardinamento dell'informativa nel fascicolo, che la reale rappresentazione cartolare di una procedura di acquisizione di notizie tra organi posti in posizione di subordinazione gerarchica e funzionale.
Nel rapporto si sostiene che Gelli, legato al partito comunista fin dal 1944, è per lo meno dal 1947 un agente dei servizi segreti dell'Est (Kominform). Avrebbe mascherato questa sua attività dietro quella di industriale e commerciante prima (trafilati di ferro e di rame), e di libraio in un secondo momento.
Nella necessità di ottenere a tutti i costi un passaporto, il Gelli si sarebbe iscritto prima alla democrazia cristiana, quindi al partito monarchico e infine al Movimento sociale italiano. Vanterebbe relazioni con eminenti personalità politiche ed è in grado di spendere quantità di denaro esagerate rispetto alle sue probabili entrate.
L'informativa descritta dà luogo ad un unico accertamento successivo in ordine ai gravi elementi informativi in essa contenuti. Il solito Centro periferico comunica all'Ufficio centrale il risultato dell'unico riscontro che era stato effettuato in ordine alle notizie contenute nell'informativa: la libreria di Gelli era stata sottoposta ad attenta sorveglianza e l'attività in essa svolta dal Gelli non aveva dato luogo a nessun sospetto.
Non era inoltre risultato che al Gelli fosse stata perquisita l'abitazione perché sospettato di traffico d'armi e di spionaggio a favore dei paesi dell'Est né tanto meno risultava che egli fosse stato segnalato dalla questura di Livorno quale elemento in relazione con una banda di contrabbandieri di armi e di esplosivo (queste ultime affermazioni erano anch'esse contenute nel rapporto).
Dopo una nota in data 1953, che riepiloga in termini molto blandi il tenore dell'informativa, segue nel 1960 un ultimo documento nel quale il Gelli viene sostanzialmente presentato come un uomo di affari che non si occupa più di politica.
A partire da questa data cade il silenzio su Gelli per ben 13 anni, per arrivare al 1973, quando con una nota si chiede se è possibile identificare Gelli con tale Luigi Gerla, segnalato nel 1964 per avere reso servizi ai Servizi segreti ungheresi (A.V.H.). Nella stessa nota si sostiene che «il soggetto afferma di avere avuto connessioni con il SIFAR e sembra avere connessioni con i circoli ungheresi». COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Il terrorismo, la “Rosa dei venti” e un’indagine che si perse nel nulla. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 02 ottobre 2023
Il 1974 è anche l'anno della prima relazione sul «gruppo Gelli» inviata alla magistratura dall'allora direttore dell'Ispettorato per l'azione contro il terrorismo, Emilio Santillo. A essa, trasmessa nel dicembre del 1974 al giudice Tamburino, titolare dell'inchiesta sulla «Rosa dei venti», ne seguiranno altre due rispettivamente nel dicembre del 1975 e nell'ottobre del 1976
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Nel fascicolo proveniente dal SISMI quindi sono contenute due note scritte, nel 1972 e nel 1974, da ufficiali del Centro di Firenze su incarico dell'allora comandante del Raggruppamento Centri; dal loro testo emerge che Gelli avrebbe affermato, in data precedente il giugno 1971, di essere un agente del SID. La confidenza fu fatta a più persone, alle quali Gelli fornì anche una serie di elementi di riscontro, risultati poi attendibili; tra questi il suo nome di copertura nel Servizio, che era quello di Filippo. Nell'occasione le note aggiornavano il quadro delle conoscenze politiche del Gelli e gettavano luce sull'ultimo periodo frusinate.
Gelli si era infatti trasferito nel 1962 a Frosinone come uomo di fiducia del commendator Pofferi, proprietario della Permaflex, che lo aveva nominato direttore dello stabilimento locale. Risale a questo periodo l'episodio delle commesse di materassi per le forze armate NATO, ottenute dal Pofferi grazie alla intermediazione di Gelli, ma qualcosa d'altro avvenne poi a Frosinone perché Gelli è accusato nella nota del 1974 di essersi appropriato di trecento milioni della Permaflex.
Comunque alla fine del 1967 Licio Gelli lasciò Frosinone per Arezzo, passando ai materassi della società Dormire, dove comincia il suo rapporto con i fratelli Lebole.
Per la prima volta nella nota si parla dell'appartenenza di Gelli a logge massoniche. Come è ammesso nella lettera di trasmissione (1° settembre 1981) le due note non partirono mai per Roma ed il perchè possiamo capirlo leggendone un brano significativo: «Dopo qualche giorno lo stesso Comandante del... mise al corrente il Comandante di questo Centro che l'allora Comandante del Reparto D era andato su tutte le furie per le indagini svolte sul conto di Gelli.
Infatti qualche tempo dopo lo stesso Comandante del Reparto D rimproverò personalmente il Comandante di questo Centro di aver ubbidito al Comandante del... nello svolgere indagini su Gelli, persona, secondo lo stesso, influente e utile al Servizio, minacciandolo, per altro, di restituirlo all'Arma territoriale».
L'interesse della vicenda sta nella a dir poco singolare disparità di trattamento che i Servizi di informazione riservano a Gelli in sede periferica ed in sede centrale; ma questa incrinatura che si intravvede nell'atteggiamento dei Servizi nei confronti di Gelli va letta unitamente ai dati che analizzeremo relativamente al 1974, l'anno che il Commissario Crucianelli ha definito il momento di difficoltà di Licio Gelli.
Il 1974 è infatti anche l'anno della prima relazione sul «gruppo Gelli» inviata alla magistratura dall'allora direttore dell'Ispettorato per l'azione contro il terrorismo, Emilio Santillo; ad essa, trasmessa nel dicembre del 1974 al giudice Tamburino, titolare dell'inchiesta sulla «Rosa dei venti», ne seguiranno altre due rispettivamente nel dicembre del 1975 e nell'ottobre del 1976.
La seconda fu trasmessa al giudice Zincani che indagava su Ordine Nero, la terza ai giudici Pappalardo e Vigna, impegnati nell'inchiesta sull'omicidio del giudice Occorsio.
Queste tre relazioni sono di fondamentale importanza nell'ambito della nostra storia poiché dalla loro lettura si evince che Santillo aveva lavorato isolatamente e non aveva potuto accedere, nello svolgere le sue indagini, al fascicolo, o ai fascicoli su Gelli in possesso dei Servizi.
L'Ispettorato infatti per ricollegarsi ai trascorsi fascisti del Venerabile ricorre come fonte soltanto alla citazione di alcuni brani di documenti redatti dai massoni democratici. Santillo sostanzialmente centra, nelle tre relazioni, i collegamenti tra Gelli e gli ambienti massonici legati al generale Ghinazzi (comunione di Piazza del Gesù) con l'eversione nera, disegnando una aggiornata mappa della «massoneria nera», e parla per la prima volta di finanziamenti massonici a gruppi dell'estrema destra (golpe Borghese).
L'ispettore Santillo denota, nella sua attività investigativa, un crescente interesse per Licio Gelli, per il quale sin dalla prima nota (1974) afferma «... la cui Loggia definita anche "Raggruppamento Gelli" potrebbe significare che il gruppo aveva una destinazione di attività diversa da quella specifica della massoneria».
Di notevole interesse è infine la terza nota (1976) che verte completamente, con notizie sufficientemente precise e puntuali, su Gelli e sulla Loggia P2 e nella quale è dato tra l'altro leggere: «In occasione della recente campagna elettorale, egli avrebbe inviato ad alcuni "Fratelli", suoi intimi, un documento propagandistico, decisamente antimarxista, con cui si invita la Democrazia Cristiana ad uscire dalla grave crisi in cui versa il Paese, attuando un vasto piano di riforme: controllo radiotelevisivo, revisione della Costituzione, soppressione dell'immunità parlamentare, riforma dell'ordinamento giudiziario, revisione delle competenze delle Forze dell'Ordine, sospensione, per due anni, dell'azione dei Sindacati e il bloccaggio dei contratti di lavoro».
Non è difficile rinvenire in questa informazione gli estremi del piano di rinascita democratica, con elementi che ci orientano a ritenere che il riferimento sia da riportarsi a tale documento o ad un suo estratto o riassunto.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Le strane coincidenze: chi indaga su Gelli fa sempre una brutta fine. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 Il Domani 03 ottobre 2023
Le indagini svolte su Licio Gelli non giovarono agli ufficiali che se ne erano occupati. Il maggiore De Salvo appare iscritto alla Loggia P2; Luciano Rossi finì suicida dopo essere stato, come sembra, minacciato da Gelli; Serrentino abbandonò il Servizio per infermità; quanto al colonnello Florio, dopo aver subito una persecuzione nell'Arma, morì in un incidente d'auto
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Nelle informative dei Servizi su Gelli, redatte in quegli stessi anni e negli anni successivi, non vi è peraltro traccia delle relazioni Santillo e dovremo attendere il 1979 per sentire nuovamente parlare, in un appunto redatto dalla questura di Arezzo, di finanziamenti massonici all'eversione.
Nel 1974 anche l'Ufficio I della Guardia di Finanza si interessò a Licio Gelli predisponendo nella primavera tre relazioni, alle quali non fu riservata una sorte migliore di quella toccata alle due note del Centro SID di Firenze prima ricordate.
Le indagini sembra che furono avviate su richiesta dell'Ispettorato antiterrorismo di Santillo — in relazione a quelle svolte su Lenzi Luigi di Quarrata (P2), sospetto di traffico di armi — e furono affidate dal comandante dell'Ufficio I, colonnello Florio, al tenente colonnello Giuseppe Serrentino, al maggiore Antonino De Salvo ed al capitano Luciano Rossi.
Il più completo dei tre rapporti è senza dubbio quello del maggiore De Salvo che riferisce delle nuove attività economiche di Gelli e degli incarichi ricoperti in due società del gruppo Lebole nel settore dell'abbigliamento: la GIOLE e la SOCAM. Circa la posizione politica di Gelli, la qualifica « spiccatamente destrorsa», dopo aver peraltro riferito che il Gelli «in Pistoia sino al 1956 era di orientamento comunista»; il rapporto si dilunga sulle amicizie e sui rapporti politici e con le autorità civili e militari di colui che indica come «un alto esponente della massoneria internazionale» ed afferma che proprio attraverso la massoneria passerebbero i suoi rapporti con Peron e Campora (nel 1973 ha ricevuto la nomina a console onorario d'Argentina).
Il maggiore dà anche notizia dei rapporti di Gelli con i paesi arabi ed avanza l'ipotesi che egli svolga funzioni di public relation man per i rapporti non palesi e non ufficiali intrattenuti dall'Italia con Stati arabi, chiedendosi se ciò non sia in relazione al traffico di armi.
Questo filone di indagine non fu più ripreso da nessun apparato informativo, nonostante nel rapporto si documenti in modo certo il contatto tra Licio Gelli e Luigi Lenzi. Il rapporto accennava anche al sicuro possesso, da parte del Centro di Firenze, di un fascicolo personale intestato a Licio Gelli, del quale non gli fu possibile prendere visione.
Le indagini svolte su Licio Gelli non sembra giovarono agli ufficiali che se ne erano occupati. Il maggiore De Salvo appare iscritto alla Loggia P2; Luciano Rossi finì suicida dopo essere stato, come sembra, minacciato da Gelli; Serrentino abbandonò il Servizio per infermità; quanto al colonnello Florio, dopo aver subito una vera e propria persecuzione nell'Arma con l'arrivo di Giudice e Trisolini (su Giudice, a dire della vedova, aveva raccolto uno scottante dossier), morì in un incidente d'auto.
Ai fini dell'analisi successiva quello che preme qui rilevare è che il 1974 è l'anno in cui certi settori dei Servizi (Centro SID di Firenze, Ispettorato antiterrorismo. Ufficio I della Guardia di Finanza) si sono attentamente interessati di questo «personaggio emergente».
Il quadro complessivo che viene fuori da una lettura combinata dei rapporti è ancora oggi pienamente valido e significativo, e tanto più ci colpisce in quanto compilato nel 1974, l'anno che segna, come vedremo, l'apice del fenomeno terroristico, di connotazione nera, in Italia. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
La rassicurante relazione ufficiale del Sismi con a capo l’amico Santovito. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 04 ottobre 2023
Nel 1978, sotto la gestione del generale Santovito, il Servizio redige una relazione sull'argomento che verte non sulla Loggia P2 e su Licio Gelli ma sulla massoneria in generale. Il documento afferma che è «opinione diffusa» ritenere che la massoneria italiana, spinta da quella americana, si sia intromessa in note vicende politiche, ma con «un peso indiretto»
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Continuando la lettura del fascicolo del SISMI, troviamo una nota datata 1977, quando in seguito ad un articolo apparso su l'Unità il Servizio, sollecitato dal ministro della difesa, risponde di non avere «sinora sviluppato specifiche attività di ricerca sulla massoneria» e con riferimento a Licio Gelli afferma che «è risaputo che il noto Licio Gelli ha intrattenuto ed intrattiene rapporti con varie personalità di rango elevato, sia in campo nazionale che in quello internazionale».
Il Servizio è soltanto a conoscenza che «il PCI ha recentemente deciso di ridimensionare la forza e l'influenza delle logge massoniche italiane, ritenute "centri di potere" capaci di intralciare le attività politiche ed economiche del partito».
A tal fine avrebbe intrapreso una campagna di stampa che accusando la massoneria di «inquinamento fascista» tende solo a screditarla. Per concludere su questa nota, vale la pena di soffermarsi su quanto il Servizio scrive in materia di sua stretta competenza e sull'ineffabile rinvio all'ortodossia massonica per escludere la consistenza del reclutamento massonico di quattrocento ufficiali dell'esercito.
Nel 1978, infine, sotto la gestione del generale Santovito, il Servizio redige una relazione sull'argomento, che verte peraltro non sulla Loggia P2 e su Licio Gelli, ma sulla massoneria in generale. Il documento viene approntato per consentire al ministro della difesa di documentarsi in seguito alla presentazione di una interrogazione dell'onorevole Natta alla Camera dei deputati.
Dopo un lungo excursus storico, il documento afferma che è «opinione diffusa» ritenere che la massoneria italiana, spinta da quella americana, si sia intromessa in note vicende politiche (si citano la scissione di Palazzo Barberini, l'estromissione del PCI dal governo De Gasperi, l'introduzione del PSI nell'area di governo, il divorzio, la scuola laica), ma bisogna riconoscere che il suo peso in tali vicende è indiretto, ed è soltanto dovuto alla presenza di «fratelli» in Parlamento, negli enti locali, nella dirigenza statale, nell'industria, nella finanza e così via.
Su istigazione del comunismo internazionale, leggiamo nella pagina successiva, si tende a disgregare la massoneria, ma per fortuna Gamberini, a partire dal 1974 (lapsus freudiano?) ha cominciato ad espellere falsi fratelli antimassonici, affaristi e intrallazzatori. Si sostiene quindi che di fronte all'alternativa del compromesso storico si è scatenata in seno al Grande Oriente un'aspra lotta tra gruppi sostenitori da forze interne ed internazionali.
I gruppi che fanno capo a Salvini e a Gelli (recentemente giunti ad un accordo), in contrasto con il gruppo degli ex di Piazza del Gesù, sostengono la linea dell'attuale governo Andreotti di coinvolgimento del PCI, che porterà inevitabilmente o al compromesso storico o al totale rigetto del comunismo.
Si rileva quindi che l'azione mondiale della massoneria è ispirata dalla direttiva economico-politica che viene dagli USA e dall'Inghilterra; si chiariscono i termini di questo collegamento USA-massoneria italiana. L'intera azione sarebbe sostenuta dalla «Trilateral Commission», organismo creato da David Rockfeller nel 1973, che potrebbe a sua volta essere una emanazione della massoneria internazionale.
Farebbero parte della Trilateral circa 180 uomini politici e militari americani e una trentina di europei occidentali e giapponesi. Si legge inoltre che «sui presunti collegamenti della massoneria con attività criminose contingenti è noto soltanto che da tempo stanno indagando, in particolare, la magistratura fiorentina e quella romana e che in genere le persone chiamate in causa hanno risposto alle denunce con l'inoltro di querele».
Quanto alla diffamatoria campagna del PCI promossa contro la massoneria, questa è anche sostenuta dalle giovani leve socialiste, interessate a screditare il gruppo dei vecchi notabili del partito, in genere ritenuti massoni.
Infine, il documento conclude che «la massoneria, nell'ambito delle Forze Armate, ha un'influenza modesta e non certo tale, nonostante la propaganda in contrario, da riuscire a distorcere le leggi che regolano la progressione delle carriere e l'assegnazione degli incarichi».
Il documento esaminato costituisce un esempio probante di disinformazione mirata, in quanto è sostanzialmente centrato su una serie di valutazioni politiche, concernenti il ruolo del partito comunista, ma anche di altri partiti, mentre difetta in modo esemplare di informazioni e notizie precise. Nulla si dice infatti di concreto sulla massoneria, per la quale ci si riporta ad informazioni tanto più puntuali quanto più lontano nel tempo è il periodo al quale sono riferite; ma soprattutto notiamo che esso è del tutto carente di notizie concernenti Licio Gelli e la Loggia, massonica P2. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
I servizi segreti ormai “smascherati” si ricordano del “pericoloso” Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 05 ottobre 2023
Un’ultima informativa consente al Servizio di non escludere «che il Gelli possa essere divenuto un agente dell'Est nell'immediato dopoguerra» e successivamente «sia stato fatto penetrare in settori sensibili e tenuto alla mano per lo sfruttamento delle occasioni più propizie». Sono tutte notizie verosimili, ma alla base delle quali sta il difetto di origine di venire formulate solo dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Non meno singolare uno degli ultimi prodotti della gestione del generale Santovito agli atti nel fascicolo del SISMI; la data della declassificazione è quella del 3 aprile 1981 ed il documento va letto attentamente ponendolo in relazione a quello appena illustrato, poiché assai istruttivo è il combinato disposto dei due testi, che ci mostra un indubbio tentativo di continuità nella linea tenuta dai Servizi di informazione, pur di fronte al precipitare degli eventi.
In questo secondo documento, che può essere compreso nel suo valore reale solo ponendo attenzione alla circostanza che esso viene redatto dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, è dato leggere che dopo i trascorsi contatti con la resistenza, «richiede molta attenzione l'ipotesi che il Gelli sia stato posto "a dormire" (e non in senso massonico), abbia assunto una nuova veste, sia stato favorito per penetrare i più delicati ambienti politici, economici, industriali, militari, della magistratura, del giornalismo e professionali».
Sempre sul Gelli il Servizio afferma che «solo l'esplosione del caso poteva richiamare l'attenzione su un personaggio liberatosi da oltre un trentennio da un passato ambiguo e trasformatosi, da abile attore, in un manager di interesse per le questioni economiche e politiche del Paese».
Queste conclusioni vengono dal Servizio ricondotte all'esame dei documenti in possesso, e da noi analizzati sinora, ed in particolare dall'esame dell'informativa COMINFORM e dai trascorsi legami del Gelli con il partito comunista, in ragione dei quali «sembra possibile ritenere verosimile quanto sostenuto in rapporti dell'epoca, e cioè che il Gelli aveva avuto salva la vita in cambio di future prestazioni per le quali fu sottoposto successivamente a verifiche». Tutto quanto sinora detto si riporta all'assunto che «i documenti citati hanno esclusivo valore informativo e non di prove».
Ma ai nostri occhi ciò che veramente ha valore di prova è che il Servizio per la prima volta denuncia l'esistenza dell'informativa COMINFORM e delle notizie in essa contenute, elementi questi sinora accuratamente celati e dei quali ci si era ben guardati dal fare menzione nei rapporti precedenti, quale che fosse l'autorità richiedente.
L'informativa consente così al Servizio di non escludere «che il Gelli possa essere divenuto un agente dell'Est nell'immediato dopoguerra in cambio della salvezza, sia stato successivamente «congelato» secondo la metodologia più classica propria dei Servizi segreti, sia stato fatto gradualmente penetrare in settori sensibili e tenuto alla mano per lo sfruttamento delle occasioni più propizie».
Sono tutte queste notizie e valutazioni certo verosimili, ma alla base delle quali sta il difetto di origine di venire formulate solo dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, in un documento che letto in parallelo a quello precedentemente analizzato denuncia la sua inequivocabile natura di uscita di sicurezza da una situazione che vedeva il Servizio ben più pesantemente coinvolto nel fenomeno oggetto del rapporto, secondo l'analisi e le conclusioni alle quali si perverrà nel paragrafo successivo.
Si è ritenuto di fornire una illustrazione analitica dei documenti in possesso della Commissione su questa materia, in primo luogo perché questo è argomento assolutamente centrale per la comprensione del personaggio Gelli e della sua invero resistibile ascesa e per la spiegazione dell'accumulazione di potere che ha finito per confluire in capo ad un personaggio che molti affiliati, in sede di audizione, si sono trovati concordi a definire modesto e di mediocre cultura, non avvertendo forse come una simile affermazione finisse, in ultima analisi, per tornare a loro personale disdoro.
Una esposizione sistematica e dettagliata dei documenti si è inoltre resa necessaria perché essi sono suscettibili di analisi e possono fornire elementi conoscitivi non solo e non tanto per quello che ci dicono esplicitamente ma altresì per quanto in essi non viene detto, ovvero per quanto è implicitamente contenuto: per le omissioni come, se non forse più, per le azioni informative; poiché questa è, quant'altra mai, materia nella quale la rappresentazione documentaria e cartolare degli eventi e dei fenomeni risponde a sue proprie peculiari modalità e prerogative.
Partendo da questo assunto metodologico possiamo in prima approssimazione distinguere le fonti informative su Licio Gelli in due gruppi: quelle provenienti dai Servizi di informazione propriamente detti — e quindi nell'ordine SIFAR, SID e infine SISMI e SISDE — e quelle provenienti da organi informativi pubblici di diversa natura: Guardia di Finanza e Ispettorato generale antiterrorismo.
Dedicando la nostra attenzione al primo gruppo — premessa la considerazione che il materiale pervenuto alla Commissione offre garanzia di riflettere con genuinità quanto esistente sul conto di Gelli negli archivi dei Servizi, essendo l'invio stato operato sotto la nuova gestione immune da influenze piduiste — conviene innanzitutto farne un rilievo in termini quantitativi constatando come da esso risulti una consistente attività informativa dedicata al personaggio sino al 1950, alla quale si contrappone una carenza di produzione documentale nella fase successiva, tale da consentire di affermare tranquillamente che dopo il 1950 il fascicolo Gelli diventa praticamente inesistente, salvo poche eccezioni.
La cesura tra questi due così diversi atteggiamenti dei Servizi nei confronti di Licio Gelli è segnata dall'informativa COMINFORM che cade per l'appunto nel 1950 e che segna praticamente l'inizio della fine, si consenta il bisticcio, del fascicolo Gelli, dato questo che non può che colpire l'attenzione dell'osservatore in quanto non solo l'informativa costituisce il documento di gran lunga più esauriente sul personaggio, acquisito agli archivi del Servizio, ma perché proprio in ragione della gravità delle informazioni e valutazioni in essa contenute, lungi dal segnare la cessazione delle segnalazioni e delle note dedicate all'interessato, avrebbe dovuto inaugurare, a rigor di logica, una stagione di più ampia documentazione.
Rileviamo quindi una prima contraddizione, che caratterizza l'atteggiamento dei Servizi nei confronti di Licio Gelli, che possiamo indicare nella circostanza che essi cessano praticamente di occuparsi di lui proprio quando dovrebbero iniziare, avendolo schedato negli archivi quale «pericolosissimo» elemento sovversivo, probabile agente dei paesi dell'Est.
È questa una contraddizione che nasce dall'interno stesso della documentazione fornita dai Servizi, alla quale corrisponde la contraddizione rilevabile altresì da un approccio esterno al problema, prescindendo cioè dal fascicolo in esame, quando si rilevi che la mancata attività informativa sul Gelli da parte dei Servizi contrasta altresì con il peso che il personaggio viene via via acquistando nel frattempo sino a giungere a livello di pubblica notorietà, per argomenti e motivi tali da non poter non interessare un apparato informativo primariamente indirizzato, per ragioni di istituto, alla tutela della sicurezza dello Stato.
La contraddittorietà di questo atteggiamento viene denunciata in fatto dalla circostanza che altri organismi informativi quali la Guardia di Finanza e l'Ispettorato per l'antiterrorismo, palesemente non collegati con i Servizi di informazione, pervengono autonomamente a valutare, nel 1974, il Gelli elemento degno di essere preso sotto osservazione per le sue molteplici attività — prima fra tutte, quella di possibile contatto con ambienti eversivi di destra — sul rilievo delle quali attorno al 1974-1975 ormai anche la stampa è in grado di fornire notizie e valutazioni.
La giustapposizione, sempre in soli termini quantitativi, tra l'assenza di produzione di documenti da parte dei Servizi segreti e l'attività investigativa degli altri organismi informativi ci fornisce quindi un secondo punto di riferimento degno di attenta considerazione. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
“È uomo dei Servizi”, l’analisi della Commissione Anselmi su Licio Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 06 ottobre 2023
Non rimane altra conclusione che quella di riconoscere che il Gelli è egli stesso persona di appartenenza ai Servizi, poiché solo ricorrendo a tale ipotesi trova logica spiegazione la copertura di questi assicurata al Gelli in modo sia passivo, non assumendo informazioni sull'individuo, sia attivo, non fornendone all'autorità politica che ne fa richiesta
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Passando adesso ad una analisi che, abbandonando l'approccio quantitativo, entri nel merito dei documenti al nostro studio, estremamente significativo è il confronto tra la nota dei Servizi del 1977 e la relazione Santovito del 1978 da un canto e le informative Santillo, in particolare quella del 1976, dall'altro.
Si impone infatti all'attenzione come dato di tutta evidenza come i primi due documenti — che nascono per impulso esterno, la richiesta cioè del Ministero della difesa — sottovalutino, minimizzandola (nota del 1977), la Loggia P2 per incentrare l'analisi sulla massoneria in generale, secondo un'ottica che consente di sviluppare su tale generico argomento un ampio discorso a metà tra l'analisi sociologica e l'interpretazione politica; ci troviamo insomma di fronte ad un documento invero singolare quando si consideri che, per la sua provenienza da un servizio informativo, ci si dovrebbero in esso attendere informazioni (che mancano) piuttosto che valutazioni (che abbondano), proprie come tali più dell'autorità politica ricevente che dell'organo tecnico mittente.
Ben altro discorso invece per le note dell'Ispettorato antiterrorismo; il questore Santillo — confermando le doti di investigatore che tutti gli riconoscevano ma che non gli valsero la nomina al SISDE, naturale successore dell'IGAT, alla cui guida fu preferito il generale Grassini, iscritto alla Loggia P2 — centrando il cuore del problema fornisce una serie di documenti che, in luogo di fumose considerazioni sulla massoneria rilevabili anche da pubblicazioni in commercio, danno precise informazioni su Licio Gelli e sulla Loggia Propaganda 2.
Colpisce in particolare la nota del 1976 (ultima della serie) nella quale è dato riscontrare, accanto ad inesattezze anche vistose sulla massoneria (si confonde l'Ordine con il Rito scozzese), notizie precise e dettagliate sulla Loggia P2, che segnano una mirata attenzione investigativa in netto e stridente contrasto con la invero singolare disattenzione dei Servizi nei confronti di Licio Gelli e della sua organizzazione. Riepilogando le argomentazioni svolte possiamo quindi affermare come dato di tutta evidenza l'esistenza di una sorta di cordone sanitario informativo posto dai Servizi a tutela ed a salvaguardia del Gelli e di quanto lo riguarda secondo una linea non smentita di continuità, che non interessa soltanto il periodo dell'apogeo della carriera gelliana — epoca nella quale sarebbe spiegabile facendo ricorso all'argomento dell'influenza da lui acquisita nel Servizio e fuori di esso — ma che rimonta al 1950, quando il Gelli è personaggio di ben minore caratura, tale comunque da non potergli certamente addebitare azioni di pressione deviante sui Servizi. Una continuità di atteggiamento dunque che accompagna il Gelli durante lo sviluppo della sua carriera, senza apprezzabili scarti che ne contrassegnino i progressi invero sorprendenti.
Tra le varie spiegazioni possibili di tale costante atteggiamento — scartata quella della inefficienza dei Servizi perché palesemente non proponibile — non rimane altra conclusione che quella di riconoscere che il Gelli è egli stesso persona di appartenenza ai Servizi, poiché solo ricorrendo a tale ipotesi trova logica spiegazione la copertura di questi assicurata al Gelli in modo sia passivo, non assumendo informazioni sull'individuo, sia attivo, non fornendone all'autorità politica che ne fa richiesta.
L'assunto al quale si è pervenuti fornisce spiegazione ad alcuni dei problemi in esame, ma non ancora alla natura dell'informativa COMINFORM, inserita nel fascicolo Gelli nel 1950.
La presenza di questo singolare documento mentre infatti ci fornisce una indicazione orientata in una direzione — marcando vistosamente la successiva carenza di attività informativa, secondo la contraddizione dianzi sottolineata — per altro verso sembra porsi in contrasto con la stessa conclusione alla quale essa pur ci avvia, poiché fornisce comunque un segno di attenzione investigativa da parte dei Servizi nei confronti del Gelli ed è da essi inserita nel suo fascicolo.
D'altro canto non è difficile riconoscere che il documento per la quantità e la qualità delle notizie raccolte non può non suscitare l'interesse anche polemico di chi si accinga allo studio del fenomeno Gelli.
Non è mancato ad esempio nella Commissione chi, riportandosi all'informativa, ha elaborato una chiave di lettura del personaggio Gelli in termini antitetici a quelli della pubblicistica corrente: non si può infatti non riconoscere che le notizie sul Gelli fornite dal redattore del documento sono in stridente contrasto con il passato dell'uomo come con le successive, dichiarate e mai smentite professioni di fede anticomunista.
Per una soluzione del problema è necessario, anche in tal caso, fissare quali siano i punti di sicuro affidamento: a tal fine dobbiamo rilevare che dato certo e non controvertibile è che il Gelli, sul finire della seconda guerra mondiale, non si peritò di stabilire contatti di collaborazione e di intesa con la parte che si andava delineando come inevitabilmente vincitrice.
Mentre ancora indossava la divisa tedesca, o meglio proprio valendosi di essa, Licio Gelli si metteva a disposizione del CLN ed in particolare della componente comunista di esso, conducendo una difficile partita in costante equivoco equilibrio tra le due parti che ci consente di valutare appieno la sottigliezza del personaggio e che ci offre il dato di inequivocabile certezza che Licio Gelli operò in modo tale da contrarre presso i comunisti pistoiesi un credito di sicura portata e di non piccolo momento, se ancora nel 1976 Italo Carobbi, richiestone, si riteneva in dovere di rinnovare l'attestato di benemerenza partigiana.
La posizione di questo dato ci consente di affermare con buona certezza che alla base dell'informativa risiede un nucleo di verità non controvertibile; in altri termini l'informativa, riportata al momento nel quale fu redatta, è indubbiamente un documento attendibile. Il Gelli, infatti, negli anni politicamente turbinosi del dopoguerra proseguì nella sua attività di doppio gioco che gli consentiva di mantenere i piedi in due o più staffe in attesa che si delineasse la soluzione vincente; fu probabilmente dopo le elezioni di 1948 che egli comprese come fosse intervenuto il momento di una scelta di campo, se non definitiva, per lo meno meno equivoca.
L'informativa, fermando sulla carta una volta per tutte la sua attività di collaboratore con la parte perdente avversaria e non segnando per converso alcuna conseguente attività da parte di chi è in possesso di tale conoscenza, denuncia al di là di ogni equivocabile dubbio il momento nel quale il Gelli entra nell'orbita dei Servizi segreti italiani.
L'informativa come tale poteva infatti avere, secondo logica, due esiti soltanto: o accertamenti che ne dimostrassero l'infondatezza, con la conseguente chiusura del fascicolo, o riscontri sulla sua attendibilità con i relativi esiti di giustizia per una spia al servizio di un paese straniero.
Vediamo invece che da essa scaturisce una terza inaspettata soluzione, essa viene cioè semplicemente accantonata, il che, nel caso di specie, vuol dire tesaurizzata perché l'organo che ne è in possesso ha deciso di gestire in proprio il personaggio. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Non solo “venerabile”, ma anche persona “molto influente e molto utile”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 07 ottobre 2023
L'ignoranza della sede periferica sulla qualità di Gelli come elemento del Servizio dimostra che la sua posizione è stata quella di persona che sin dall'ingresso nell'orbita del Servizio ha interessato il vertice della gerarchia, per la qualità delle operazioni alle quali applicarlo. Per usare le parole della reprimenda del capo del reparto D al comandante del centro periferico, il Gelli era insomma «persona influente e utile al Servizio»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Seguendo tale assunto vengono infatti a dipanarsi anche le residue contraddizioni che dianzi sottolineavamo, poiché si perviene ad una linea ricostruttiva che consente di dare logica spiegazione a tutti gli aspetti del problema riconducendo ad una visione unitaria dati e documenti che sembrano porsi in contrasto reciproco.
Appare infatti chiaro perché l'informativa, pur vera nella sostanza, non ha alcun esito: i Servizi segreti al momento dell'acquisizione del Gelli, ben conoscendo l'individuo, accludono agli atti un documento che rappresenta per loro una sorta di polizza di assicurazione per il futuro; lo inchiodano in altri termini in una posizione che, per la sua radicale opposizione al ruolo che gli viene assegnato in pubblico, costituisce l'unica efficace garanzia di controllo di un personaggio la cui abilità essi sono i primi a valutare adeguatamente, ed i cui precedenti non rassicurano sulla fedeltà alle scelte di campo adottate.
Quello che accade nel 1950 è dunque la scissione dei due aspetti del personaggio Gelli: il Gelli nero, di solidi trascorsi fascisti, rimane quello pubblicamente noto e, a quei trascorsi viene riallacciata senza soluzione di continuità l'iconografia ufficiale del personaggio; da questa viene estratto il secondo volto del Gelli, il Gelli rosso, fermato in un documento custodito negli archivi, e di esso viene fatta sparire accuratamente ogni traccia.
Il collegamento tra i due è patrimonio conoscitivo detenuto da chi è in possesso dell'informativa ed assicura il controllo del personaggio. La soluzione prospettata è l'unica tra quelle in astratto ipotizzabili che fornisca adeguata spiegazione alle contraddizioni che abbiamo messo in evidenza nel corso dell'analisi sui documenti sinora condotta.
Secondo la linea interpretativa proposta appare chiaro perchè i Servizi organizzino quello che abbiamo definito un cordone sanitario informativo attorno alla figura di Licio Gelli ed al contempo trova adeguata spiegazione la presenza di un documento, in questo contesto, quale l'informativa: un documento che ad un primo livello di analisi sembra al tempo stesso denunciare e smentire l'inerzia del Servizio nei confronti di Gelli.
Per superare tale ambivalenza è necessario infatti porsi in un'ottica che centri l'attenzione, prima ancora che sul suo oggetto, al quale essa capziosamente ci avvia, sulla sua funzione; un'ottica che non si lasci fuorviare privilegiando quanto nell'informativa viene detto in termini espliciti, per tralasciare così quanto essa implicitamente rappresenta per la sua presenza nel fascicolo di Licio Gelli.
Diversamente operando si finisce inevitabilmente sul terreno della polemica, di evidente significato politico immediato, se Gelli sia o meno attribuibile a Servizi segreti di paesi dell'Est — tema questo da non considerare certamente risolto — per ignorare che prima ancora Gelli è comunque sotto il controllo diretto dei Servizi che dovrebbero operare tale verifica.
Nell'ambito di queste argomentazioni viene allora a chiarirsi secondo una luce significativa il disguido che interviene tra periferia e vertice dei Servizi quando il comandante di un centro ebbe a vedersi minacciato l'esonero dal servizio per le incaute iniziative prese sul Gelli, che ormai — d'altronde siamo negli anni settanta — è personaggio di ben altra levatura rispetto agli esordi.
L'ignoranza della sede periferica sulla qualità di Gelli come elemento del Servizio dimostra che la sua posizione, e la pratica relativa, non è mai stata quella di un qualsiasi agente ma quella di persona che sin dall'ingresso nell'orbita del Servizio ha interessato il vertice della gerarchia, per la qualità delle operazioni alle quali applicarlo.
Per usare le parole della reprimenda del capo del reparto D al comandante del centro periferico, il Gelli era insomma « persona influente e utile al Servizio ».
Viene da ultimo a trovare spiegazione, secondo l'analisi proposta, la difformità di atteggiamento che contrassegna l'attività investigativa della Guardia di Finanza e dell'ispettore Santillo da un canto e quella dei Servizi, sottolineata in precedenza; ed è a tal fine facile adesso osservare come il risveglio di interesse nei confronti di Licio Gelli cada nello stesso torno di tempo, il 1974, sia al di fuori che all'interno di alcuni ambienti dei Servizi, e come in entrambi i casi scatti il meccanismo di copertura e di disinformazione posto a protezione del Gelli; così pure è palese la diversità di posizione di Gelli davanti a questi e a quelli, dato che verso Santillo e la Guardia di Finanza egli può attuare, in presenza di iniziative investigative a lui sgradite, interventi repressivi dall'esterno (l'insabbiamento-avocazione dei rapporti e la punizione dei loro autori) propri di chi controlla quegli apparati senza esserne condizionato, mentre rispetto ai Servizi nei quali in qualche modo è incardinato non vi è necessità di pervenire ad analoghi risultati di censura e persecuzione.
Abbiamo visto il destino riservato agli ufficiali della Finanza che intrapresero indagini su Gelli; quanto all'ispettore Santillo, che non poteva essere liquidato con una reprimenda in via gerarchica come il comandante capocentro dei Servizi sopra ricordato, suscita a questo punto più di un motivo di seria riflessione la sua mancata ascesa alla guida del SISDE, cui si accennava innanzi. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’omicidio di Mino Pecorelli, un’informativa e uno scoop mai fatto. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani l'08 ottobre 2023
L'informativa Cominform finisce in mano al giornalista Pecorelli che, data la sua professione, inizia a farne un sapiente uso con il dosaggio delle notizie in essa contenute; dosaggio parziale che non viene portato a compimento perché il Pecorelli viene, come noto, assassinato pochi giorni prima della preannunciata pubblicazione integrale del contenuto del documento
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Vediamo adesso di sottoporre la tesi esposta a verifica muovendo alla ricerca di ulteriori elementi in un contesto di documentazione che non può dirsi abbondante, come del resto è logico attendersi in materia così riservata.
Dopo le considerazioni svolte sulla protezione accordata a Gelli dai Servizi non può non destare meraviglia che questo comportamento venga rovesciato radicalmente quando non solo il silenzio su Gelli viene rotto ma addirittura l'informativa COMINFORM finisce in mano al giornalista Pecorelli che, data la sua professione, inizia a farne un sapiente uso con il dosaggio delle notizie in essa contenute; dosaggio parziale che non viene portato a compimento perché il Pecorelli viene, come noto, assassinato pochi giorni prima della preannunciata pubblicazione integrale del contenuto del documento.
Documento che invero non poteva non avere effetti devastanti per il capo riconosciuto di una organizzazione a carattere segreto con accentuata colorazione politica anticomunista, perché essa in sostanza conteneva due informazioni che certo non avrebbero fatto piacere ai sodali di un capo che si veniva a sapere era a) un delatore, b) un ex agente dei Servizi dei paesi dell'Est.
È certo che il giornalista Pecorelli aveva accumulato nel corso della sua carriera più di un motivo per temere della propria incolumità, ma questa è valutazione che spetta comunque al magistrato responsabile dell'inchiesta ancora in corso.
Quanto compete alla Commissione osservare è che l'informativa COMINFORM appare presente in questa situazione con connotati tali che non consentono di svilirne oltre un certo limite il contenuto. Il punto centrale è infatti non tanto quello di stabilire se essa si ponga in rapporto di causa ed effetto con la morte del divulgatore finale del documento, quanto piuttosto e soprattutto quello di sottolineare che di essa viene fatto concretamente uso.
Noti infatti come sono i legami tra l'agenzia OP ed ambienti dei Servizi segreti che il Pecorelli stesso denunciava dichiarando nei Servizi la fonte del documento — al fine di suffragarne l'autenticità, attesa l'importanza dell'argomento — il suo apparire tra le carte del Pecorelli denuncia in primo luogo come nella carriera di Licio Gelli sia intervenuto un momento nel quale l'informativa viene in fatto utilizzata, viene cioè chiamata ad adempiere alla funzione per la quale era stata inserita nel fascicolo che i Servizi avevano sull'uomo e che noi abbiamo definito come quella di una polizza di assicurazione.
La vicenda Pecorelli, quale che sia l'esito istruttorio che essa avrà, ha, ai nostri fini, il valore di riconfermare l'informativa nella sua funzione, sulla quale si era in precedenza insistito in via di ipotesi; ma se questo è vero è allora giocoforza ammettere che essa viene confermata altresì nel suo contenuto, nella sua attendibilità, poiché è di palese evidenza che la funzione non avrebbe potuto essere adempiuta al momento dell'utilizzo se il contenuto fosse stato destituito di ogni fondamento.
Ed è altresì provato che chi aveva conservato per quasi trenta anni l'informativa negli archivi poteva gestire il documento, poiché essa era lo strumento attraverso il quale gestire la persona, come durante quei trenta anni era accaduto. Si vuole infine ricordare, nel quadro di riferimento che siamo venuti tracciando, un altro episodio che sembra inquadrarsi in modo univoco nell'esposizione sinora condotta. Citiamo in proposito la risposta che il direttore del SID, ammiraglio Casardi, firmò in data 4 luglio 1977, rispondendo ai giudici di Bologna che indagavano sulla strage dell'Italicus.
Essa va trascritta per esteso: « Il SID non dispone di notizie particolari sulla loggia P2 di Palazzo Giustiniani... non si dispone di notizie sul conto di Licio Gelli per quanto concerne la sua appartenenza alla Loggia P2 oltre quanto diffusamente riportato dalla stampa».
Non può non risaltare agli occhi, se non altro per questioni di stile, l'incredibile rinvio che un capo dei Servizi segreti fa alle notizie apparse sulla stampa, alla quale egli non ha vergogna di riportare il proprio patrimonio di conoscenze.
Per valutare del resto il tasso di segretezza di queste notizie si pensi che siamo, a parte ogni considerazione, a due anni di distanza dalla delibera di demolizione della Loggia P2, decisa dalla Gran Loggia di Napoli, quando i Maestri Venerabili delle logge di Palazzo Giustiniani avevano ritenuto Licio Gelli e la sua loggia un peso troppo compromettente per la comunione.
Come già detto, l'ipotesi della inefficienza sarebbe troppo macroscopica per venire nemmeno presa in considerazione. Ma il vero punto di interesse è che nel rispondere in tal modo il direttore dei Servizi negava al giudice inquirente la conoscenza delle notizie contenute nell'informativa, che, come sappiamo, era agli atti.
Ciò avveniva non solo e non tanto per proteggere il Gelli, ma per la più sottile ragione che il patrimonio di conoscenze contenuto dal documento veniva considerato dai Servizi come lo strumento in loro mano per controllare l'individuo: in quanto tale essi non potevano che essere gli unici arbitri sul come e sul quando farne uso, cosa che, per l'appunto, si sarebbe verificata dopo poco più di un anno.
I riscontri forniti e la linea di argomentazione che su di essi abbiamo incentrato testimoniano in modo chiaro l'esistenza di una barriera protettiva posta dei Servizi a tutela di Gelli e della loggia P2 che scatta puntuale di fronte a qualsiasi autorità politica e giudiziaria, che chieda, nell'esercizio delle sue funzioni, ragguagli e delucidazioni su questi argomenti. Abbiamo individuato la ragione profonda di questo comportamento nell'appartenenza di Licio Gelli all'ambiente dei Servizi segreti, ed abbiamo datato questa milizia al 1950, anno di compilazione dell'informativa COMINFORM.
Le conseguenze di tale affermazione sono che la ragione vera del cordone sanitario informativo va cercata non nel presunto controllo che Gelli eserciterebbe nei Servizi segreti, ma nell'opposta ragione del controllo che essi hanno del personaggio.
Le conclusioni che abbiamo esposto sono di tenore tale che l'estensore di queste note avverte per primo l'esigenza di procedere con la massima cautela possibile in questa materia, per la quale peraltro, si deve riconosce, è del tutto illusorio sperare di raggiungere dimostrazioni che poggino su prove inconfutabili.
Si è così argomentato sulla base dei documenti proponendo una linea interpretativa che essi riconduca a logica e coerenza, pronti a verificare tale assunto con altre possibili ricostruzioni posto che, secondo l'assunto metodologico seguito, consentano di fornire altra spiegazione coerente ed unitaria dei fenomeni.
La soluzione proposta ci consente di risalire un anello della catena rispondendo ad una serie di quesiti, per aprirne nel contempo altri di forse maggiore portata. Affermare che Licio Gelli è uomo dei Servizi segreti sin dagli esordi della sua carriera significa chiederci se questa sua situazione sia rapportabile all'organizzazione in quanto tale o a suoi settori, perché è certo che in questi ambienti l'apparato ha una sua variegata realtà interna che l'apparenza monolitica rilevabile dall'esterno non farebbe sospettare.
Significa altresì chiedersi se ed in qual modo il personaggio Gelli si muova nel contesto dei rapporti internazionali che i Servizi segreti intrecciano, secondo una logica naturale, nell'ambito di alleanze omogenee se non anche, sostengono alcuni, talora in via trasversale rispetto agli stessi contesti politici di appartenenza.
Vogliamo qui dire che l'ambiguità dell'operazione gelliana non può dirsi risolta dal dato conclusivo al quale si è pervenuti, il quale, ponendo la figura di Gelli sotto nuova luce, nel contempo ne arricchisse il chiaroscuro aprendo interrogativi ai quali non si ritiene si possa dare risposta in senso univoco, per lo meno allo stato degli atti.
Poiché è evidente che il cordone sanitario informativo di cui si è discusso opera adesso in nostro danno e non ci consente di acclarare a quali ultimi mandanti, e di quale parte, si possa risalire.
Quello che con tutta onestà si può dire è che in materia di così difficile trattazione e di fronte ad un personaggio di così sfuggente profilo ogni ipotesi è in astratto formulabile e nessuna conclusione può palesemente dichiararsi assurda. Questo è anche quanto può essere affermato, sulla scorta degli atti in nostro possesso, sulla vexata quaestio della veridicità o meno delle notizie che l'informativa COMINFORM ci consegna su Licio Gelli, anche per il periodo successivo alla sua redazione, pur se tale problema va adesso studiato nel quadro delle gravi conclusioni alle quali siamo pervenuti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Novantadue i generali e i colonnelli delle forze armate che erano piduisti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 09 ottobre 2023
Dei cinquantasei ufficiali dei carabinieri, in servizio o a riposo, che figurano negli elenchi, dodici ricoprono il grado di generale ed otto quello di colonnello; così ancora troviamo otto ammiragli, ventidue generali dell'esercito, cinque generali della guardia di finanza nonché quattro generali dell'aeronautica
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Negli elenchi rinvenuti a Castiglion Fibocchi gli iscritti sono ripartiti anche per settori di appartenenza: uno di questi settori è quello delle Forze Armate, nel quale figurano cinquantadue ufficiali dei carabinieri, nove dell'Aeronautica, ventinove della Marina, cinquanta dell'Esercito, trentasette della guardia di Finanza e sei della Pubblica Sicurezza. Dall'elenco generale degli iscritti sequestrato, peraltro, il numero complessivo degli ufficiali risulta anche superiore (centonovantacinque) e gli iscritti negli elenchi trovano riscontro, anche se non completo, nelle informative inviate alla Commissione dal Sismi e dal Sisde.
Il primo dato che occorre mettere in rilievo in proposito è l'elevato grado ricoperto dagli affiliati. Così, ad esempio, dei cinquantasei ufficiali dei carabinieri, in servizio o a riposo, che figurano negli elenchi, dodici ricoprono il grado di generale ed otto quello di colonnello; così ancora troviamo otto ammiragli, ventidue generali dell'Esercito, cinque generali della guardia di Finanza nonché quattro generali dell'Aeronautica.
Il dato totale, di per sé eloquente, ci dice che su centonovantacinque esponenti del mondo militare, ben novantadue ricoprono il grado di generale o colonnello.
Ancor più significativo, per quanto in seguito si dirà, è soffermarsi sulle funzioni assegnate a molti dei nominativi citati: così l'ammiraglio Torrisi che fu capo di Stato Maggiore della Marina negli anni 1977-1980 e poi della Difesa negli anni 1980-1981, il generale Grassini che diresse il Sisde dal novembre 1977 al luglio 1981, il generale Santovito che dilesse il Sismi dal gennaio 1978 all'agosto 1981 e il generale Picchiotti che fu negli anni 1974-1975 vicecomandante generale dell'Arma dei carabinieri e in precedenza comandante la divisione carabinieri di Roma, il generale Palumbo comandante la divisione carabinieri «Pastrengo» di Milano e poi anch'egli vicecomandante generale dell'Arma, il generale Miceli che diresse il Sis dal 1970 al 1974, il generale Musumeci che fu segretario generale del Sismi con il generale Santovito, i generali Giudice e Giannini che furono comandanti generali della guardia di Finanza rispettivamente negli anni 1974-78 e negli anni 1980-1981.
Come è facile rilevare a prima vista, si delinea una mappa del potere militare più qualificato, con personaggi che hanno spesso assunto un ruolo centrale in vicende di particolare significato nella storia recente del nostro paese, anche in relazione ad avvenimenti di carattere eversivo.
La maggior parte degli ufficiali che figurano negli elenchi sono stati sottoposti ad inchieste disciplinari che hanno portato a delle vere e proprie conclusioni solo per quelli che erano tuttora in servizio, per i quali la sanzione è stata generalmente quella del rimprovero, applicata in poco più di un terzo dei casi.
Le pronunce di proscioglimento sono state invece emesse perché non risultava pienamente provata l'appartenenza dell'ufficiale alla Loggia P2, facendo a tal fine soprattutto fondamento sul diniego di appartenenza alla loggia dell'ufficiale interessato.
Per un certo numero di ufficiali che non erano più in servizio, pur non applicandosi alcuna sanzione, è stata ritenuta provata l'appartenenza alla loggia. Vi è da rilevare infine che per alcuni ufficiali, anche di grado elevato e che hanno avuto compiti di rilievo nelle Forze Armate, non sono pervenuti alla Commissione i fascicoli relativi.
Per un esame del problema vanno in primo luogo ricordate le dichiarazioni rese da esponenti della massoneria (Siniscalchi, Brilli) circa i massicci reclutamenti di militari operati sulla fine del mandato di Gamberini: secondo le voci ricorrenti in ambito massonico il Gran Maestro aveva proceduto ad iniziare sul filo della spada circa quattrocento militari, all'uopo presentati dal Gelli.
Il dato è probabilmente esagerato, ma è peraltro certo che la prima fase della gestione gelliana della Loggia P2 è contrassegnata da una forte e qualificata presenza di militari: dato questo che non dovrebbe in sé essere considerato particolarmente significativo poiché è ampiamente documentata una tradizionale propensione degli ambienti militari verso istituzioni di tipo massonico. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Un intreccio politico eversivo, il terrorismo e la “Pastrengo” di Milano. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 10 ottobre 2023
Se indubbia appare quindi la valenza politica che l'intreccio tra ambienti militari e Loggia P2 assumeva nelle prospettive e nei piani di Licio Gelli, un ulteriore approfondimento analitico ci dimostra che tale connotazione politica non rimaneva astretta ad un piano di generica e velleitaria progettazione, ma trovava concreti sbocchi di pratica attuazione. Tale è l'esempio che ci viene fornito dalle vicende relative alla divisione Carabinieri « Pastrengo » di Milano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
L'elemento invece al quale va prestata adeguata considerazione, e che contraddistingue con carattere di specificità la Loggia P2 ed il suo intervento in questi ambienti, è per contro quello della spiccata connotazione politica che al complesso di tali affiliazioni veniva attribuita da Licio Gelli, al quale faceva riscontro, secondo gli atti in nostro possesso, l'accettazione da parte degli iscritti di tale impostazione.
Ne è esempio la riunione dei generali tenuta a Villa Wanda nel 1973; ed è in proposito da rilevare che i discorsi che in tale occasione si tennero non erano del tutto nuovi, ma anzi possono ritenersi in certa misura abituali se di essi abbiamo almeno un altro significativo esempio documentabile, quale la lettera che, nel 1972, il Gelli inviò agli elementi militari iscritti alla sua loggia — missiva che non sappiamo se diretta a tutta la categoria o solo agli elementi di maggior spicco — nella quale dai discorsi di condanna generalizzata del sistema, che già abbiamo segnalato, si traeva la conclusione che solo una presa di posizione molto precisa poteva porre fine al generale stato di disfacimento e che tale iniziativa poteva essere assunta soltanto dai militari.
Siamo, come si vede, di fronte ad una impostazione politica ben definita che si pone al margine della legalità repubblicana e che non solo non viene dissimulata ma è oggetto di valutazione e di esame presso alte gerarchie militari.
Essa segna certamente un salto di qualità rispetto al tradizionale interessamento massonico per le gerarchie militari, testimoniato tra l'altro, presso la Commissione, dai documenti relativi alla camera tecnico-professionale coperta dei militari, costituita presso la comunione di Piazza del Gesù, dai quali si evince un interessamento a questioni di più ristretto profilo, quali la gestione delle carriere o degli incarichi.
I due riferimenti documentali citati assumono poi piena credibilità quando si consideri come le ventilate ipotesi di soluzioni di tipo autoritario trovano un adeguato e conforme retroterra politico nella ideologia spiccatamente conservatrice — calata in una prospettiva di avversione al sistema nel suo complesso, e come tale sostanzialmente eversiva — consegnata al nostro esame dalla documentazione in possesso della Commissione, più volte citata.
Se indubbia appare quindi la valenza politica che l'intreccio tra ambienti militari e Loggia P2 assumeva nelle prospettive e nei piani di Licio Gelli, un ulteriore approfondimento analitico ci dimostra che tale connotazione politica non rimaneva astretta ad un piano di generica e velleitaria progettazione, ma trovava concreti sbocchi di pratica attuazione.
Tale è l'esempio che ci viene fornito dalle vicende relative alla divisione Carabinieri « Pastrengo » di Milano, in ordine alla quale il tenente colonnello Bozzo, che in essa ha prestato servizio, ha testimoniato della «presenza di un vero e proprio gruppo di potere al di fuori della gerarchia ... che aveva una matrice comune nella provenienza di servizio dalla Toscana». Il gruppo comprendeva il generale Palumbo comandante della divisione, il maggiore Antonio Calabrese e il generale Franco Picchiotti, la cui presenza ai vertici dell'Arma ne contraddistinse il «periodo di maggior splendore».
Succeduto al Palumbo il generale Palombi, estraneo al gruppo citato, la gestione di questi venne contrastata con il trasferimento a Milano di due ufficiali, il tenente colonnello Panella ed il tenente colonnello Mazzei, che risultano iscritti alla Loggia P2, e con il distacco (un'iniziativa dello Stato Maggiore dell'Arma) del Servizio speciale anticrimine, che si era segnalato per i brillanti risultati ottenuti specie nella lotta al terrorismo, dal comando di divisione alla legione di Milano e quindi alle dipendenze del Mazzei e del Panella.
Il Mazzei ebbe in seguito a subire procedimento disciplinare per la protezione offerta al professore Piero Del Giudice, imputato di reati connessi con fatti di terrorismo; prima della chiusura di tale procedimento il Mazzei diede le dimissioni dall'Arma assumendo presso il Banco Ambrosiano un incarico per lui appositamente creato e che al suo decesso non venne ulteriormente ripristinato
La situazione sommariamente delineata si presta a due osservazioni: la prima è relativa al riscontro che essa trova nell'appartenenza di tutti i nominativi del gruppo citato alla Loggia P2, e in particolare alla circostanza che tre di essi (Picchiotti, Palumbo, Calabrese) sono altresì presenti alla riunione in Villa Wanda del 1973.
La seconda concerne il rilievo strategico e politico che il comando della divisione «Pastrengo» venne ad assumere nella seconda metà degli anni settanta nella lotta contro il terrorismo, che faceva di quell'incarico un punto nevralgico sia per l'importanza della piazza di Milano sia perché la divisione ha competenza territoriale estesa a tutta l'Italia settentrionale. Il generale Dalla Chiesa ha deposto in proposito denunciando l'impressione ricevuta, durante il suo comando alla brigata di Torino, di una scarsa collaborazione da parte degli elementi della divisione di Milano. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Le alte sfere militari alle “dipendenze” del Venerabile Maestro. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani l'11 ottobre 2023
I legami che gli esponenti delle Forze Armate assunti con l'iscrizione alla Loggia P2 e la «dipendenza» nella quale si ponevano nei riguardi di Licio Gelli venivano a costituire una situazione per la quale esponenti di primo piano del potere militare si inserivano attivamente nel programma e nelle finalità politiche di Gelli e della Loggia P2, finalità difficilmente riportabili al servizio delle istituzioni democratiche...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Il progredire e lo svilupparsi della Loggia P2 denota un sempre più marcato interessamento di Licio Gelli per gli ambienti militari, soprattutto con riferimento alle alte gerarchie; per le nomine relative, secondo quanto ha testimoniato il generale Fulberto Lauro, il capo della Loggia P2 era comunque sempre estremamente informato in anticipo, con riferimento sia all'Esercito che ai Carabinieri ed alla Guardia di Finanza.
Iniziando dalla Guardia di Finanza si succedono al comando generale: Raffaele Giudice dal 1974 al 1978, Marcello Floriani dal 1978 al 1980, Orazio Giannini dal 1980 al 29 luglio 1981.
Gelli si interessa alla nomina di Giudice, che figura tra gli iscritti alla loggia, unitamente a Palmiotti, iscritto anch'egli alla Loggia P2 e segretario dell'onorevole Tanassi, all'epoca ministro delle finanze, titolare della competenza per la sua nomina: gli stretti legami tra Gelli e Giudice sono del resto ampiamente documentati dal fascicolo M.FO.BIALI.
Gelli propone al generale Floriani di iscriversi alla massoneria e probabilmente alla Loggia P2 e si vanta poi di averlo fatto nominare al comando generale della Guardia di Finanza. Quanto al generale Giannini questi ammette di essere iscritto alla massoneria e figura tra gli iscritti alla loggia: Gelli lo indica come futuro comandante della Guardia di Finanza (risultano infatti interventi di Gelli per la sua nomina), mentre l'interessamento di Giannini, al momento del sequestro operato a Castiglion Fibocchi, è ampiamente rivelatore dei suoi legami con Gelli.
Per quanto riguarda i Carabinieri il generale Enrico Mino, che ne è comandante generale dal 1973 al 1977, non figura tra gli iscritti alla Loggia P2, ma ad essa lo indicano come appartenente l'onorevole Pannella, nella sua audizione in Commissione, e il senatore Giovanni Leone.
Il maggiore Umberto Nobili ha dichiarato che Gelli affermò di essere riuscito a determinarne la nomina a comandante generale dell'Arma; ed è comunque provato che il generale Mino conosceva bene Gelli ed era con lui in stretti rapporti. È altresì documentato in atti che Licio Gelli si interessò alla nomina del successore del generale Mino prima ancora della sua naturale scadenza.
Le intercettazioni telefoniche del fascicolo M.FO.BIALI ci mostrano che la successione in esame fu oggetto di attivo interessamento da parte di Gelli, Giudice, Trisolini e del consigliere Ugo Niutta, che discutono del problema con sicurezza di toni e con padronanza dell'argomento: dalle conversazioni emerge una preferenza di Licio Gelli per il generale Santovito. Successore del generale Mino risultò alla fine il generale Pietro Corsini. Per quanto riguarda i comandi dei Servizi segreti Gelli, nella deposizione resa al giudice Vigna, ammise di essersi interessato per la nomina del generale Miceli a capo del SID: questa deposizione è suffragata da testimonianze del generale Rosseti e del giornalista Coppetti.
Anche dopo la riforma dei Servizi segreti nel 1978, i capi dei Servizi risultano tutti negli elenchi della P2: il generale Grassini capo del SISDE, il generale Santovito capo del SISMI ed il prefetto Pelosi capo del CESIS, che doveva coordinare i due servizi precedenti. Il generale Musumeci assume l'incarico di capo dell'ufficio controllo e sicurezza e la segreteria generale del SISMI all'epoca di Santovito.
Di particolare interesse ai nostri fini la figura di questo ufficiale, che non solo troviamo accanto al generale Santovito ma che, secondo attendibile testimonianza, mentre dipendeva dal comando della XI brigata in Roma era in stretta frequentazione con il generale Palumbo — presso la I divisione in Milano — dal quale non dipendeva gerarchicamente.
Il contatto tra il Palumbo ed il Musumeci, al di fuori dei rapporti gerarchici e delle strette esigenze di servizio, denota una consuetudine di legami e di interessi comuni che, considerato unitamente al dato relativo alla circostanza che gli stessi nominativi di iscritti alla loggia si trovano sempre assegnati a destinazioni comuni, segnala alla nostra attenzione una rete di interessi e di legami che corre parallela ai normali vincoli gerarchici.
Per il generale Santovito vi è anche da osservare che egli continua, pure dopo il 17 marzo 1981, a tenere stretti rapporti con ambienti massonici e con ambienti che possono configurarsi come continuatori dell'opera della Loggia P2: significativo a tale riguardo è il suo rapporto con Francesco Pazienza e il potere da costui assunto all'interno del SISMI, a documentare il quale esistono precise ed inequivocabili testimonianze.
Va rilevato, come osservazione generale, che i legami che gli esponenti delle Forze Armate assumevano con l'iscrizione alla Loggia P2 e la «dipendenza» nella quale si ponevano nei riguardi di Licio Gelli venivano a costituire una situazione per la quale esponenti di primo piano del potere militare si inserivano attivamente nel programma e nelle finalità politiche di Gelli e della Loggia P2, finalità difficilmente riportabili al servizio delle istituzioni democratiche quanto piuttosto alle direttive di centri di potere estranei se non ostili ad esse. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
E Gelli convocò i generali a casa sua come fosse un capo di Stato. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 12 ottobre 2023
Non senza disagio si ricorda la convocazione nella sua villa di alcuni generali della Repubblica da parte di un personaggio ampiamente al margine dell'ortodossia e della legalità come Licio Gelli; e veramente inaudito appare che essi ascoltassero da questi concioni sullo svolgimento delle loro delicate mansioni, facendosi destinatari dell'ordine di trasmetterle ai propri quadri subalterni
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In definitiva, attraverso loro Gelli e la Loggia P2 erano in grado di condizionare scelte importanti di alcuni settori delle Forze Armate con riferimento ai loro obiettivi politici. Indubbiamente almeno alcuni militari agirono, a volte, anche per interessi personali o parteciparono a traffici illeciti, cui erano interessati direttamente e che riguardavano anche uomini politici ad essi collegati, secondo quanto può desumersi dal coinvolgimento di Giudice, Lo Prete e Trisolini in vicende come quelle attinenti al traffico dei petroli, per le quali pendono vari procedimenti avanti l'autorità giudiziaria.
Non si può escludere che anche tali traffici non si esaurissero solo nell'ambito dell'interesse economico di coloro che ne sono stati coinvolti; ma il dato che più interessa ai fini della nostra analisi è quello politico, e a tal fine un episodio meglio di ogni altro illumina questo aspetto della problematica allo studio: la riunione dei generali tenuta ad Arezzo nel 1973.
In proposito un dato analitico di estremo interesse è la brevità del preavviso della convocazione che denuncia chiaramente come quella riunione non fu un evento eccezionale, ma si inseriva in una consuetudine collaudata di rapporti e di frequentazioni.
Non è comunque senza disagio che può essere rievocata la convocazione nella sua villa di alcuni generali della Repubblica da parte di un personaggio ampiamente al margine dell'ortodossia e della legalità come Licio Gelli; e veramente inaudito appare che essi ascoltassero da questi, alla stregua di un capo di Stato maggiore ombra, concioni sullo svolgimento delle loro delicate mansioni, facendosi destinatari dell'ordine di trasmetterle ai propri quadri subalterni.
La lettura dell'audizione del generale Palumbo, delle reticenze, delle scuse e delle mezze ammissioni in ordine all'episodio citato non possono non suonare offesa a quanti, e sono la maggioranza, indossano la divisa con dignità e senso dell'onore.
La propensione degli ambienti militari verso istituzioni di tipo massonico e la forte compenetrazione tra vertici militari e Loggia P2 sono peraltro argomenti che richiedono una qualche considerazione di ordine più generale.
Una conclusione politicamente significativa su tali vicende non può infatti prescindere dalla considerazione che il delicato tema del rapporto tra esercito e società civile va forse, rimeditato alla luce dei gravi episodi illustrati, evitando di cadere nelle opposte ed egualmente perniciose tentazioni di una neutralizzazione che si ammanti di ipocrita tecnicismo da una parte e di una appropriazione partitica mascherata da pretestuosi ideali di motivazione politica dall'altra.
Si pone in primo luogo il problema della responsabilità politica del controllo e della direzione di questi apparati, tema che per sua natura non può che essere rinviato e proposto dalla Commissione al dibattito del Parlamento.
In questa sede, alla luce delle conoscenze acquisite, è peraltro dato rilevare che l'attuazione di forme associative parallele alla struttura gerarchica ufficiale va, prima che stigmatizzata, compresa nelle sue radici e nelle sue motivazioni.
Per valutare appieno questo fenomeno è d'uopo riportarsi alla posizione che i militari sono venuti a rivestire nella società italiana a partire dal dopoguerra, sottolineando la particolare sterilizzazione politica che nei loro confronti si era venuta ad operare, nella classe politica come nella società civile, per una serie di ragioni, che qui non è il caso di analizzare a fondo, sulle quali comunque influirono in modo determinante sia l'esito del conflitto sia il cambiamento istituzionale.
Basti qui riportarsi ai discorsi che gli elementi più accreditati dei nostri vertici militari propongono attualmente sulla esigenza di un accordo permanente e fecondo tra esercito e società civile, per non ritenere azzardato l'affermare in questa sede che l'elemento di novità della Loggia P2 sta nella scoperta, o meglio riscoperta, a partire dalla metà degli anni sessanta, del ruolo e, in termini di presenza politica, dell'importanza che i militari possono assumere ed in fatto assumono nella vita del Paese.
Trattasi di una conclusione che, se accettata, fornisce ampia materia di riflessione non solo ai fini di una valutazione della Loggia P2 nel suo complesso, ma di una interpretazione del personaggio Gelli, del suo peso specifico, dei suoi eventuali punti di riferimento politico e strategico: poiché è di palese evidenza che simile intuizione politica trascende il personaggio Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Senza in tasca la tessera della P2, non si avanzava mai di grado. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 13 ottobre 2023
L'osservazione formulata con riferimento ai Servizi segreti dai Commissari Mattarella e Rizzo: la compenetrazione tra la Loggia P2 e gli ambienti del vertice della gerarchia militare aveva finito per creare una situazione nella quale l'accesso alla loggia costituiva una sorta di passaggio obbligato per accedere a superiori livelli di responsabilità
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L'inserimento prepotente della Loggia P2 negli ambienti militari (spesso non a caso definiti «casta») è stato certamente effetto di una disattenzione della società civile e politica nei confronti di un ambiente che trova il suo momento di coesione in motivazioni a torto spesso ritenute superate dalla moderna società, fortemente laicizzata e contrassegnata da una cultura, soprattutto di ordine superiore, al tempo problematica e dissacrante.
Un non corretto od incompleto circuito di motivazioni e di ideali tra società civile e società militare può certo generare quelle situazioni di frustrazione morale e materiale che hanno costituito il fertile terreno di coltura dell'interessato proselitismo di Gelli e della Loggia Propaganda, facendo balenare la possibilità di una presenza nella vita del paese che finiva per trascendere, pervertendolo, il ruolo che in un moderno Stato costituzionale i cittadini in divisa devono, in quanto tali, legittimamente ricoprire, nel quadro delle leggi e degli ordinamenti generali.
È dato qui individuare uno dei punti di possibile debolezza del sistema, nel quale trova spazio per inserirsi un'operazione di segno sostanzialmente eversivo quale quella al nostro esame. Un dato interpretativo di estremo interesse ai nostri fini sta nella considerazione che il piano di rinascita democratica, pur contenendo un'analisi dettagliata, corredata da proposte di riforma, praticamente di tutti gli apparati esecutivi, ignora completamente il settore delle Forze Armate.
È questa una disattenzione che non può non destare meraviglia, attesa la pignoleria argomentativa del documento, e che non può non essere interpretata se non nel senso che questi problemi costituivano per il Venerabile e per i suoi tutori una sorta di riserva personale da non porre in alcun modo in discussione con terzi.
Questa osservazione è suffragata dall'esame dei vari documenti citati sinora, dai quali emerge la constatazione che essi, contenendo argomentazioni critiche intorno ai più vari problemi della società, non toccano mai i problemi del mondo militare, pur essendo in sostanza tali ambienti tra i destinatari più qualificati di questi discorsi. L'enucleazione della tematica militare da questo contesto argomentato, non può non colpire in modo significativo e va, a questo punto del discorso, interpretata alla luce dell'analisi svolta nel precedente paragrafo sulla appartenenza di Licio Gelli all'ambiente dei Servizi, ovvero al settore che del mondo militare costituisce uno dei centri nevralgici di maggiore interesse politico.
Ricordiamo a tal proposito che il Gelli ebbe a testimoniare di aver influito sulla nomina di Miceli a capo del SID, e di averlo introdotto negli ambienti della massoneria facendolo iniziare da Salvini. Questa notizia, presa con la dovuta cautela che la fonte merita, quando fosse da considerarsi vera non potrebbe che indicare come il Gelli nell'ambito dei Servizi aveva conquistato un proprio potere contrattuale, che non lo sottraeva al loro potere di controllo ultimativo, come dimostra l'episodio Pecorelli, ma gli attribuiva di certo un margine di spazio autonomo.
Tale spazio può essere spiegato sia con il peso che il Gelli aveva nel frattempo conquistato come capo della Loggia P2 sia ipotizzando altri possibili punti di riferimento per l'operazione piduista, nell'ambito dei quali i Servizi trovavano collocazione non esclusiva. In altri termini, la carriera di Gelli, volendo prestare fede a questa sua testimonianza, lungi dal contestare la tesi espressa sulla sua appartenenza ai Servizi, verrebbe ad indicare che la parabola percorsa in quell'ambiente segna un percorso in parte analogo a quello seguito nella massoneria, dove da delegato del Gran Maestro egli era al fine pervenuto ad impadronirsi della Loggia P2 ed a condizionare la vita dell'intera comunione. In tale ottica il Commissario Gabbuggiani ha rilevato come il rapporto tra Gelli ed i Servizi si qualifica come un rapporto non a senso unico.
In questo senso può essere estesa in via generale l'osservazione formulata con riferimento ai Servizi segreti dai Commissari Mattarella e Rizzo, ipotizzando che la compenetrazione tra la Loggia P2 e gli ambienti del vertice della gerarchia militare aveva finito per creare una situazione nella quale l'accesso alla loggia costituiva una sorta di passaggio obbligato per accedere a superiori livelli eli responsabilità.
Del resto, testimonianze in tal senso, già ricordate, denunciano la pressione di ufficiali superiori nei confronti dei subalterni con la indicazione dell'ingresso nell'organizzazione per accedere ai gradi superiori della gerarchia ed a certe destinazioni particolarmente qualificate. Una concordante indicazione può essere colta nella testimonianza del generale Dalla Chiesa il quale, pur in modo sfumato, inquadra in tale contesto la proposta di iscrizione alla Loggia P2 rivoltagli dal generale Picchiotti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
I fratelli muratori, i colpi di stato e le due fazioni dei servizi segreti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 14 ottobre 2023
Gli eventi del 1974, punto culminante della strategia della tensione, e dalla successiva emarginazione dall'apparato del Miceli e del Maletti, massimi responsabili dei Servizi, che segue, in quel tragico anno, alla denuncia che il ministro della difesa, onorevole Andreotti, fa dell'esistenza di altri due tentativi di colpo di Stato (oltre quello Borghese) previsti per il gennaio e l'agosto del 1974
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Il tema dei Servizi segreti è stato dal Commissario Ruffilli inquadrato in un più ampio contesto di argomentazione politica, partendo dal rilievo che un ragionato esame di questo problema non può prescindere dalla considerazione della collocazione internazionale del nostro Paese, quale punto di raccordo di particolare rilievo, per la sua collocazione tra mondo occidentale e mondo orientale, nei conflitti che tra tali aree politiche si instaurano all'interno di una zona cruciale quale il bacino del Mediterraneo.
Queste considerazioni spiegano come l'Italia sia diventata, secondo tale Commissario, una base di operazione per i servizi segreti di diverse appartenenze; e in relazione a tale divenire storico trova allora comprensibile riscontro quella che il Commissario Andò ha definito l'ambivalenza ideologica dei nostri Servizi, nei quali, a partire da un certo momento, si sono identificati per lo meno due partiti: quello filo-arabo che faceva capo al generale Miceli e quello filo-israeliano che si riportava al generale Maletti, entrambi, come noto, iscritti alla loggia pur se dichiaratamente nemici.
Nell'ambito di questa dialettica di rapporti, si comprende come la Loggia P2 abbia potuto acquisire un ruolo determinante quale stanza di compensazione per l'assorbimento di tensioni e di contrasti che per loro natura non potevano che essere mediati in sede riservata.
Che poi tale sede fosse, per così dire, affidata a persona riconducibile all'ambiente, ovvero controllata ma ad esso non appartenente in forma ufficiale, come precedentemente abbiamo cercato di dimostrare, questa appare conclusione non solo logica, ma addirittura imprescindibile.
L'ordine di discorsi al quale siamo pervenuti solleva una serie di problemi fondamentali per il corretto funzionamento dell'ordinamento democratico che richiedono di essere conclusivamente inquadrati per consentire un approfondito dibattito del Parlamento su questa complessa materia. A tal fine il Commissario Crucianelli ha rilevato come una corretta determinazione del quadro entro il quale svolgere l'analisi richieda di evitare da un canto la prospettazione dei Servizi come variabile impazzita del sistema, dotata di autonoma soggettività politica, dall'altro il pericolo di ipotizzare meccanici rapporti di dipendenza rispetto al potere politico per apparati che, per definizione, si muovono nell'indistinto e conservano, sotto ogni latitudine, una rete articolata di legami orientati in più direzioni.
La complessa dialettica di questi rapporti è argomentata nel discorso di tale Commissario con la interpretazione fornita agli eventi del 1974, punto culminante della strategia della tensione, e dalla successiva emarginazione dall'apparato del Miceli e del Maletti, massimi responsabili dei Servizi, che segue, in quel tragico anno, alla denuncia che il ministro della difesa, onorevole Andreotti, fa dell'esistenza di altri due tentativi di colpo di Stato (oltre quello Borghese) previsti per il gennaio e l'agosto del 1974.
Riservandoci di soffermarci più approfonditamente su tale periodo cruciale della storia del nostro Paese in tema di analisi dei collegamenti con l'eversione, si vuole qui sottolineare in via conclusiva il rilievo, ampiamente condiviso dalla maggioranza dei Commissari, che l'intreccio tra Loggia P2, Servizi segreti ed ambienti militari assume nell'interpretazione del fenomeno oggetto dell'inchiesta parlamentare un rilievo centrale e che come tale pone l'imprescindibile esigenza che su tale delicato argomento si possa svolgere un discorso che rifugga da schematizzazioni preconcette, che ad altro risultato non conducono se non a quello di impedire la comprensione dei fenomeni nella loro reale portata.
Non è chi non veda peraltro che le conclusioni alle quali si è pervenuti hanno comunque un rilievo politico generale di straordinario rilievo, perché conducono ad una interpretazione di Gelli e della sua attività, attraverso lo strumento della Loggia P2, che amplia il tema dei rapporti tra Gelli, gli ambienti militari ed i Servizi segreti ben oltre la primitiva portata, di riferimento al dato di immediata percezione della presenza nella Loggia P2 dei vertici militari e dei Servizi.
Prendere le mosse dall'assunto che Licio Gelli è pertinenza dei Servizi sin da antica data rovescia il discorso sulla materia da un taglio in ultima analisi riduttivo, sull'inquinamento dei servizi segreti, alla prospettiva, di valenza politica diametralmente opposta, di una attività di inquinamento che i Servizi possono aver progettato di svolgere ed in fatto svolto, attraverso questo abile e fortunato personaggio.
Volendo sintetizzare in una formula, corre tra le due ipotesi tutta la differenza che c'è tra Servizi segreti inquinati e Servizi segreti inquinanti, tra strumento corrotto ed agente corruttore, tra oggetto e soggetto di attività eversive del sistema democratico.
È, questo, argomento che per la sua portata di ampio respiro politico coinvolge sedi ed autorità cui spetta, in via istituzionale, la competenza su questa delicata materia. Essi peraltro hanno già dovuto prendere atto nella storia della Repubblica di fenomeni di segno eversivo, che hanno sollecitato più di un intervento correttivo.
Il contributo che la Commissione può portare è quello di offrire a tali sedi ed al dibattito democratico tra le forze politiche il dato istruttorio che siamo venuti cercando di enucleare dai documenti e dagli atti in nostro possesso COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
La loggia P2 e il Golpe Borghese, i rapporti di Gelli con l’eversione nera. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 15 ottobre 2023
La Loggia P2 attraverso il suo capo o suoi esponenti si collega più volte con gruppi ed organizzazioni eversive, incitandoli e favorendoli nei loro propositi criminosi con una azione che mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio, da non identificare con le finalità, più o meno esplicite, che quelle forze e quei gruppi ponevano al loro operato
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Il periodo che corre tra il 1970 e il 1974 registra la proliferazione di movimenti extraparlamentari, la nascita di sempre nuove organizzazioni eversive paramilitari o terroristiche, la moltiplicazione di gravi delitti politici — secondo forme affatto nuove per il Paese — la rinnovata virulenza della malavita comune e delle sue organizzazioni criminali. Sono questi gli avvenimenti che formano il quadro entro cui si sviluppa quella che venne definita la « strategia della tensione », favorita dalla crisi economica e dalla crescente instabilità del quadro politico.
Quegli anni, oltre ad essere caratterizzati, come abbiamo già visto, dall'intensa opera di politicizzazione della loggia svolta da Licio Gelli, si contraddistinguono anche per i collegamenti che ci è consentito di identificare tra Licio Gelli, la Loggia P2, suoi qualificati esponenti ed il complesso mondo dell'eversione nera.
Dal materiale in possesso della Commissione si trae infatti la ragionata convinzione, condivisa peraltro da organi giudiziari, che la Loggia P2 attraverso il suo capo o suoi esponenti (le cui iniziative non possono considerarsi sempre soltanto a titolo personale) si collega più volte con gruppi ed organizzazioni eversive, incitandoli e favorendoli nei loro propositi criminosi con una azione che mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio, da non identificare con le finalità, più o meno esplicite, che quelle forze e quei gruppi ponevano al loro operato.
Al fine di procedere ad una lettura politica di queste relazioni e di questi collegamenti è d'uopo individuare entro la vasta mole di materiale documentale — peraltro ampiamente incompleto: né altirmenti poteva essere, in considerazione della vastità dell'argomento — che alla Commissione è pervenuto, alcuni episodi che si ritengono più significativi ai fini della nostra indagine, secondo il metodo di analisi espresso nell'introduzione al presente lavoro. Prima tra tali situazioni nelle quali appare sicuramente documentato un coinvolgimento significativo di Licio Gelli e di uomini della loggia, è il cosiddetto golpe Borghese, attuato nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, sotto la spinta degli esponenti oltranzisti del Fronte Nazionale, i quali avevano da ultimo prevalso all'interno dell'organizzazione.
La vicenda ha registrato un lungo e non facile iter processuale, concluso con sentenza passata in giudicato, sul cui esito non è qui il caso di entrare, perché ai fini che a noi interessano quel che più preme è porre l'accento su alcuni aspetti sicuramente documentati che suffragano l'ipotesi prospettata della collusione esistente tra esponenti della loggia con questa situazione eversiva, tale da consentire una valutazione attendibile del rilievo concreto che tali contatti ebbero a rivestire.
È così dato rilevare prima di tutto come molti dei personaggi che nel golpe ebbero un ruolo non secondario appartengano alla Loggia P2 o alla massoneria: così infatti troviamo tra gli attori di quella vicenda Vito Miceli, Duilio Fanali, Sandro Saccucci (da più fonti indicato come appartenente alla massoneria) assieme ad altri imputati del golpe quali Lo Vecchio, Casero, De Jorio, che tutti figurano nelle liste di Castiglion Fibocchi. Altre fonti poi riconducono alla massoneria sia Salvatore Drago, accusato di aver disegnato la pianta del Ministero dell'interno, sia il costruttore Remo Orlandini, che l'ispettore Santillo, nella sua terza nota informativa, indica più specificamente come appartenente alla Loggia P2.
Questo primo dato di palese riscontro è suffragato da ulteriori testimonianze, anche documentali, dalle quali si evince come ambienti massonici si fossero posti in posizione di collateralità o fiancheggiamento con i gruppi che al Borghese facevano capo. Esplicita in questo senso la lettera di Gavino Matta (comunione di Piazza del Gesù) al principe Borghese: « Caro Comandante, debbo comunicarle che la Loggia non intende assecondare la sua iniziativa, essendo per principio fondamentalmente contraria ai metodi violenti. Con la presente, pertanto, vengo autorizzato ad annullare ogni precedente intesa... ».
Questi elementi di indubbio riscontro fanno da cornice a situazioni di più puntuale incisività in ordine al ruolo che due personaggi quali Licio Gelli ed il Direttore del SID, Vito Miceli, ebbero a ricoprire durante e dopo il golpe. Come noto, punto cruciale di quella vicenda fu l'inopinato, per gli esecutori, arresto delle operazioni già avviate: Orlandini, stretto collaboratore del Borghese, dirà che non poca fatica gli costò correre ai ripari per fermare quei gruppi che già erano entrati in azione.
Lo sconcerto provocato tra i congiurati da quella improvvisa inversione di marcia è del resto ben testimoniato dalla reazione di Sandro Saccucci, che poche settimane dopo ebbe ad esprimere l'auspicio che il responsabile venisse «preso», distinguendo nella vicenda la posizione dei golpisti da quella di « altre piccole manichette, più o meno in divisa».
Numerose comunque sono le testimonianze dalle quali si evince la convinzione diffusa tra quanti avevano a vario titolo preso parte all'operazione « che qualcosa non aveva funzionato », o, come affermò Mario Rosa, stretto collaboratore di Borghese «... è la valvola di testa che non ha concorso a quello che doveva concorrere ...». Recentemente alcune deposizioni di appartenenti agli ambienti dell'eversione nera consentono di indirizzare l'attenzione direttamente su Licio Gelli in relazione al contrordine operativo che paralizzò l'azione insurrezionale. Si hanno infatti testimonianze secondo le quali il Venerabile era ritenuto elemento determinante nel contrordine: tale il convincimento di Fabio De Felice, il quale ne fece parte ad un giovane adepto, Paolo Aleandri, che poi provvide a mettere in contatto con Licio Gelli.
L'incarico era quello di tenere i contatti tra questi e l'avvocato De Jorio, allora latitante a Montecarlo; e in tale veste l'Aleandri ebbe numerosi incontri con Licio Gelli, che si sarebbe prodigato per « alleggerire » la posizione processuale degli imputati. Le deposizioni dell'Aleandri — che trovano conferma in quelle di altri elementi quali Calore, Sordi, Primicino — hanno il pregio di fornire la prova del contatto diretto tra Licio Gelli e quegli ambienti, aggiungendo un riscontro preciso alle considerazioni generali già espresse.
È stato altresì testimoniato che Licio Gelli teneva il contatto con ufficiali dei carabinieri, e certo è che tra i congiurati era diffusa l'opinione che ambienti militari sostenevano o quanto meno tolleravano l'operazione. Certo, il Borghese si esprimeva nel suo proclama con decisione: «Le Forze Armate sono con noi».
A loro volta questi elementi ben si inquadrano nel contesto di una serie di deposizioni dalle quali emerge come la generazione immediatamente successiva a quella direttamente coinvolta nel golpe Borghese vedeva nel Gelli l'espressione di ambienti «che in forma più o meno palese venivano contattati, però non con l'esplicita richiesta di aderire ad un golpe, quanto per avvicinarli a posizioni che implicassero un loro consenso per una svolta autoritaria o comunque per una democrazia forte».
Tale almeno l'interpretazione di Fabio De Felice. Sta di fatto che nell'analisi che questa generazione forniva di quegli eventi si assumeva che un'opera di strumentalizzazione fosse poi stata messa in atto proprio dal Gelli e da coloro che gli erano vicino.
Per tali considerazioni venne prospettata persino l'eventualità di eliminare fisicamente il Venerabile della Loggia P2, segno questo che la presenza di Gelli in quegli ambienti aveva assunto un rilievo non secondario, incidendo sulla loro operatività con conseguenze che venivano valutate come deleterie per l'organizzazione.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’inchiesta sulla Rosa dei Venti e il misterioso “Raggruppamento Gelli”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 16 ottobre 2023
Elementi di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta dal giudice Tamburino di Padova sul movimento denominato « Rosa dei Venti », nel quale troviamo la presenza di uomini iscritti al «Raggruppamento Gelli», secondo quanto affermato dall'ispettore Santillo nelle sue note informative
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Accanto alla figura di Licio Gelli, un altro elemento di spicco nell'analisi di questa vicenda è costituito dal generale Vito Miceli, Direttore del SID dal 1970 al 1974. In proposito quello che a noi interessa è rilevare come sia accertata l'esistenza di contatti tra il generale Aliceli, allora nella sua veste di capo del SIOS, Orlandini e Borghese, contatti da far risalire al 1969.
Tali eventi si accompagnano significativamente alla sua nomina al vertice dei Servizi, che il Gelli si vantò, come sappiamo, di aver favorito e che precede di poco il tentativo insurrezionale guidato dal principe nero. Contatti aveva altresì il generale Miceli con Lino Salvini, al quale aveva consentito di mettersi in contatto con lui sotto lo pseudonimo di « dottor Firenze ».
Questi dati, unitariamente considerati, vanno letti in parallelo con la successiva inerzia del generale nei confronti delle indagini sul Fronte Nazionale, condotte dal Reparto D guidato dal generale Maletti. Con questi il Miceli entrò poi in contrasto, avendo richiesto lo scioglimento del nucleo operativo facente capo al capitano La Bruna; e va a tal proposito sottolineata la svalutazione che il direttore del SID faceva dei risultati investigativi raggiunti sul golpe, come non mancò di esternare all'onorevole Andreotti e all'ammiraglio Henke.
Gli elementi conoscitivi indicati, che non esauriscono di certo una situazione oggetto di una contrastata vicenda giudiziaria, debbono essere a questo punto del discorso inquadrati nell'ambito delle considerazioni alle quali siamo pervenuti analizzando il rapporto tra Gelli ed i Servizi segreti.
Il dato relativo all'appartenenza di Licio Gelli a quegli ambienti va considerato alla luce delle successive attività che vedono il Venerabile impegnato a venire in soccorso degli imputati, svolgendo un'azione che si muove significativamente in perfetta sintonia con la documentata inerzia del Direttore del SID. Il minimo che si possa dire è che questi non sembra aver seguito con particolare accanimento le indagini sul Fronte Nazionale, pur avendo avuto contatti diretti con i suoi massimi dirigenti.
Contatti che peraltro egli aveva giustificato proprio con la necessità di acquisire informazioni, nella sua veste di dirigente di apparati informativi. È del pari in tale prospettiva che vanno valutate sia le diffuse convinzioni maturate nell'ambiente golpista sul ruolo di Licio Gelli, quale cerniera di raccordo con gli ambienti militari che il risentimento maturato per il fallimento dell'operazione.
Come si vede, anche muovendo da questa situazione l'analisi ci conduce alla figura di Licio Gelli, al suo ruolo di elemento intrinseco ai Servizi, come del resto riteneva il De Felice, ma soprattutto alla individuazione della Loggia P2 come struttura nella quale ed attraverso la quale si intrecciano rapporti e si stabiliscono collegamenti la cui ortodossia lascia ampi margini di dubbio, anche accedendo alla più benevola delle valutazioni.
Elementi di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta dal giudice Tamburino di Padova sul movimento denominato « Rosa dei Venti », nel quale troviamo la presenza di uomini iscritti al «Raggruppamento Gelli», secondo quanto affermato dall'ispettore Santillo nelle sue note informative. Venivano in tali documenti considerati come appartenenti all'organizzazione gelliana il generale Ricci, Alberto Ambesi e Francesco Donini.
L'inchiesta sulla «Rosa dei Venti» si segnala peraltro alla nostra attenzione per due testimonianze raccolte dal giudice patavino che rivestono per noi un sicuro interesse se poste in relazione ad altri elementi conoscitivi emersi nel corso del nostro lavoro. Va ricordato in primo luogo che il giornalista Giorgio Zicari ha testimoniato di aver collaborato con l'Arma dei carabinieri e con i Servizi segreti, entrando in contatto nel 1970 con Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando, elementi di spicco del gruppo dei MAR, ed ottenendo da costoro informazioni per i detti apparati investigativi. Quando nel 1974 lo Zicari venne riservatamente convocato dal giudice Tamburino, gli accadde di ricevere nel giro di poche ore l'invito ad un colloquio con il generale Palumbo nel corso del quale l'alto ufficiale ebbe ad esprimersi nei seguenti termini: « ... il tema centrale fu che io non dovevo parlare, che poteva succedermi qualcosa, dei fastidi, che io avevo tutto da perdere dalla vicenda, che i magistrati stavano tentando di sostituirsi allo Stato riempendo un vuoto di potere, che non si sapeva che cosa il giudice Tamburino volesse cercare, che non ero obbligato a testimoniare... ».
Questa iniziativa del generale Palumbo viene a collocarsi in modo preciso a sostegno della già ricordata osservazione del generale Dalla Chiesa sulla collaborazione non particolarmente motivata degli ambienti della divisione Pastrengo nell'azione che il generale conduceva contro il terrorismo.
Va altresì rilevato che l'atteggiamento del generale Palumbo riporta alla nostra attenzione il tipo di risposta che l'ammiraglio Casardi, Direttore del SID, forniva ai giudici che indagavano sulla strage dell'Italicus quando si rivolsero al Servizio per ottenere notizie su Licio Gelli, ottenendo un rinvio alle notizie apparse sulla stampa. Sempre nel corso del 1974 il giudice Tamburino raccolse alcuni riferimenti testimoniali sul cosiddetto «SID parallelo», il cui procedimento si chiuse infine con la richiesta di archiviazione formulata dal Procuratore della Repubblica di Roma, accolta dal giudice istruttore in data 22 febbraio 1980.
E di particolare interesse nel contesto di tali deposizioni quanto ebbe a dichiarare il generale Siro Rosseti, uscito nel 1974 dalla Loggia P2 in posizione polemica nei confronti di Licio Gelli. L'alto ufficiale in ordine al problema dell'esistenza di un'organizzazione parallela ai Servizi affermò: «...la mia esperienza mi consente di affermare che sarebbe assurdo che tutto ciò non esistesse... » ed ancora «... a mio avviso l'organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, della finanza, dell'alta delinquenza organizzata... ».
Questa descrizione letta oggi sulla base delle conoscenze acquisite in ordine alla Loggia P2, non può non porsi per noi quale motivo di seria riflessione, soprattutto quando si ponga mente alla sua provenienza da parte di un elemento che conosceva la loggia direttamente dall'interno e che professionalmente si occupava di servizi di informazione.
Passando ad altro argomento di ben più impegnativo rilievo, ricordiamo che i gruppi estremistici toscani compirono parecchi degli attentati (specialmente ai treni) che funestarono l'Italia tra il 1969 e il 1975. Il generale Bittoni (P2), comandante la brigata dei Carabinieri di Firenze, iniziò a svolgere indagini, cercando di dare impulso all'inchiesta e di coordinare le ricerche dei comandi di Perugia e di Arezzo. L'impegno degli ufficiali aretini si rivelò, peraltro, del tutto insufficiente, come ebbe a lamentare lo stesso Bittoni e come risulta dalle deposizioni dei sottufficiali.
Rilevato come ben due degli ufficiali superiori del comando di Arezzo incaricati delle indagini facessero parte della Loggia P2 (uno di essi parlò della relativa iscrizione come di una «necessità») e che Gelli rivolse al generale Bittoni discorsi sufficientemente equivoci da provocarne una accesa reazione, non sembra azzardato mettere in rapporto di causa ed effetto l'infiltrazione della Loggia nell'Arma e l'insufficienza dell'indagine.
A questo si aggiunga che analoga situazione si verificava per la questura della stessa città, essendosi pòtuta accertare l'iscrizione alla Loggia non solo di due dei suoi funzionari, ma addirittura del questore pro tempore. Anche in tal caso appare legittimo mettere in rapporto di causa ed effetto il fenomeno di infiltrazione piduista con disfunzioni « mirate »: così, ad esempio, nel caso della informativa su Gelli e Marsili e sui rapporti del primo con il gruppo Sogno e Carmelo Spagnuolo, richiesta dal giudice istruttore di Torino alla questura di Arezzo e mai ottenuta.
Fu rinvenuta, però, tra le carte di Castiglion Fibocchi copia dello scritto anonimo che aveva sollecitato alla richiesta i giudici torinesi: il Venerabile era stato quindi tempestivamente informato ed aveva potuto predisporre le sue difese.
In definitiva, sembra potersi concludere sul punto che le infiltrazioni piduistiche ad Arezzo nella Polizia e nei Carabinieri (ed il sospetto di infiltrazione anche nella magistratura, come si vedrà in seguito) servirono in quegli anni a conferire al Gelli un'aura di intangibilità, lasciandogli mano libera per tutte le proprie — non certo lecite — attività. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
La strage dimenticata dell’Italicus e le trame piduiste. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 Il Domani il 17 ottobre 2023
La strage dell'Italicus è ascrivibile ad una organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana; la Loggia P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare toscana...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Un discorso a parte merita, poi, la strage perpetrata con la collocazione di un ordigno esplosivo sul treno Italicus, ordigno esploso nella notte fra il 3 ed il 4 agosto 1974. I fatti relativi sono stati già giudicati in primo grado dalla corte d'assise di Bologna con sentenza assolutoria dubitativa che, pur se non passata in cosa giudicata, costituisce per la Commissione doveroso — anche se non esclusivo — punto di riferimento.
Le istruttorie di una Commissione di inchiesta e quelle dell'autorità giudiziaria penale hanno infatti la comune caratteristica di utilizzare prove storiche e prove critiche per giungere, attraverso un processo logico esternato di libero convincimento, a determinate conclusioni. Gli elementi differenziali riguardano invece l'oggetto e lo scopo dell'indagine.
Quanto al primo occorre rilevare che la giustizia penale ha come limite di accertamento realtà oggettivate od oggettivabili, mentre la Commissione parlamentare può (e deve) tener conto anche di più soggettive emergenze come modi di pensare, opinioni e convincimenti diffusi.
Quanto al secondo appare evidente che, mentre la giustizia penale ha un compito di accertamento strumentale rispetto ad affermazioni di responsabilità personali, la Commissione ha invece quello di un accertamento funzionalizzato ad un più puntuale futuro esercizio dell'attività legislativa, e in esso vi è dunque spazio per affermazioni di responsabilità che siano di tipo morale o politico, secondo la natura propria dell'istituto.
Tanto doverosamente premesso ed anticipando le conclusioni dell'analisi che ci si appresta a svolgere, si può affermare che gli accertamenti compiuti dai giudici bolognesi, così come sono stati base per una sentenza assolutoria per non sufficientemente provate responsabilità personali degli imputati, costituiscono altresì base quanto mai solida, quando vengano integrati con ulteriori elementi in possesso della Commissione, per affermare:
1) che la strage dell'Italicus è ascrivibile ad una organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana;
2) che la Loggia P2 svolse opera di istigazione agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra extraparlamentare toscana;
3) che la Loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell'Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Gioverà a tal fine riportarsi direttamente agli accertamenti giudiziari.
Già nella sentenza-ordinanza bolognese di rinvio a giudizio (14.4. 1980) si leggeva: « Dati, fatti e circostanze autorizzano l'interprete a fondatamente ritenere essere quella istituzione (la Loggia P2 n.d.r.), all'epoca degli eventi considerati, il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale: e ciò in incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie dell'istituzione ».
Più puntualmente nella sentenza assolutoria d'Assise 20.7. 1983- 19.3. 1984 si legge (i numeri tra parentesi indicano le pagine del testo dattiloscritto della sentenza): «(182) A giudizio delle parti civili, gli attuali imputati, membri dell'Ordine Nero, avrebbero eseguito la strage in quanto ispirati, armati e finanziati dalla massoneria, che dell'eversione e del terrorismo di destra si sarebbe avvalsa, nell'ambito della cosiddetta "strategia della tensione" del paese creando anche i presupposti per un eventuale colpo di Stato.
La tesi di cui sopra ha invero trovato nel processo, soprattutto con riferimento alla ben nota Loggia massonica P2, gravi e sconcertanti riscontri, pur dovendosi riconoscere una sostanziale insufficienza degli elementi di prova acquisiti sia in ordine all'addebitalità della strage a Tuti Mario e compagni, sia circa la loro appartenenza ad Ordine Nero e sia quanto alla ricorrenza di u n vero e proprio concorso di elementi massonici nel delitto per cui è processato».
Significativamente, poi, si precisa in proposito: «(183-184) Peraltro risulta adeguatamente dimostrato: a) come la Loggia P2, e per essa il suo capo Gelli Licio (dapprima "delegato" dal Gran Maestro della famiglia massonica di Palazzo Giustiniani, poi — dal dicembre 1971 — segretario organizzativo della Loggia, quindi — dal maggio 1975 — Maestro Venerabile della stessa), nutrissero evidenti propensioni al golpismo;
b) come tale formazione aiutasse e finanziasse non solo esponenti della destra parlamentare (all'udienza in data 27. 10. 1982 il generale Rosseti Siro, già tesoriere della Loggia, ha ricordato come quest'ultima avesse, tra l'altro, sovvenzionato la campagna elettorale del "fratello" ammiraglio Birindelli), ma anche giovani della destra extraparlamentare, quanto meno di Arezzo (ove risiedeva appunto il Gelli);
c) come esponenti non identificati della massoneria avessero offerto alla dirigenza di Ordine Nuovo la cospicua cifra di L. 50 milioni al dichiarato scopo di finanziare il giornale del movimento (vedansi sul punto le deposizioni di Marco Affatigato, il quale ha specificato essere stata tale offerta declinata da Clemente Graziani);
d) come nel periodo ottobre-novembre 1972 un sedicente massone della "Loggia del Gesù" (si ricordi che a Roma, in Piazza del Gesù, aveva sede un'importante " famiglia massonica " poi fusasi con quella di Palazzo Giustiniani), alla guida di un'auto azzurra targata Arezzo, avesse cercato di spingere gli ordinovisti di Lucca a compiere atti di terrorismo, promettendo a Tornei e ad Affatigato armi, esplosivi ed una sovvenzione di L. 500.000».
Aggiunge significativamente il magistrato: «Appare quanto meno estremamente probabile» — si legge a pag. 193 — «che anche tale fantomatico massone appartenesse alla Loggia P2».
La conclusione, su questo punto corre — significativamente — come segue: «(194) Peraltro tali importanti dati storici non sembrano ulteriormente elaborabili ai fini della costruzione di una indiscutibile prova di colpevolezza dei prevenuti circa la strage del treno Italicus». COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
I terroristi neri, le protezioni e i mandanti della strage sempre “ignoti”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 18 ottobre 2023
La pista della Loggia P2 e di Licio Gelli fu seguita in fase istruttoria dai magistrati bolognesi che indagavano sulla strage dell'Italicus e che chiesero notizie in proposito al SID: il Servizio, che altra risposta non fornì se non quella di nulla sapere riportandosi a quanto diffuso dalla stampa
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
La statuizione — che non spetta alla Commissione valutare — appare ispirata al principio di personalità della responsabilità penale ed a quello di presunzione di innocenza: letta in controluce e con riferimento alla responsabilità storico-politica delle organizzazioni che stanno dietro agli esecutori essa suona ad indiscutibile condanna della Loggia P2.
Una condanna rafforzata dalle enunciazioni contenute nella prima parte della sentenza ove si esterna il convincimento del giudice sulla matrice ideologica ed organizzativa dell'attentato, una matrice ovviamente irrilevante in sede penale finché non si individuino mandanti, organizzatori od esecutori ma preziosa in questa sede.
Scrivono ancora, infatti, i giudici bolognesi: « (13-14) Premesso doversi ritenere manifesta la natura politica dell'orrendo crimine di che trattasi (anche in assenza di inequivoche rivendicazioni), data la natura dell'obiettivo colpito e la gravità delle prevedibili conseguenze della strage sul piano della pacifica convivenza civile (fortunatamente poi risultate assai modeste per la " tenuta " della collettività) e dato l'inserimento dell'attentato in un contesto di analoghi crimini politici verificatisi in Italia negli anni 1974-1975 (si pensi alla strage di Piazza della Loggia ed alle bombe di "Ordine Nero")»; ed ancora: «(15) è pacifica l'immediata ascrivibilità del fatto ad un'organizzazione terroristica che intendeva creare insicurezza generale, lacerazioni sociali, disordini violenti e comunque (nell'ottica della cosiddetta "strategia della tensione") predisporre il terreno adatto per interventi traumatici, interruttivi della normale, fisiologica e pacifica evoluzione della vita politica del Paese.
«Ebbene, non è dubbio che, nel variegato quadro delle organizzazioni terroristiche operanti in Italia negli anni in cui fu eseguito il crimine al nostro esame, l'impiego delle bombe e la loro collocazione preferenziale su obiettivi "ferroviari" caratterizzasse, usualmente, gruppi di ispirazione neofascista e neonazista (si ricordino gli attentati sulla linea ferroviaria Roma-Reggio Calabria in occasione dei disordini di Reggio Calabria e dei successivi raduni, il mancato attentato in cui venne ferito Nico Azzi, l'attentato di Vaiano, rivendicato dalle Brigate Popolari Ordine Nuovo, gli attentati dicembre 1974- gennaio 1975, per cui furono condannati dalla corte di assise di Arezzo proprio Tuti e Franci) e che fra tali gruppi debba annoverarsi come già vivo e vitale, nell'agosto 1974, quello ricomprendente Tuti e Franci». Concludono peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione di un limite invalicabile alla loro indagine, costituito dal fatto che «l'imputazione riguarda solo esecutori materiali e non, ahimé, lontani mandanti».
Già tanto potrebbe bastare per legittimare le conclusioni sopra anticipate. A ciò si aggiunga che sospetti di protezione dell'ultradestra eversiva gravano su ben individuati uffici della magistratura aretina.
Persino la sentenza di Bologna (pag. 191) ne riferisce confermando il convincimento degli eversori neri di poter contare sull'importante protezione di un magistrato affiliato ad una potentissima loggia massonica, e risultano agli atti dichiarazioni assai gravi relative ad autorizzazioni di intercettazioni telefoniche non concesse ed ordini di cattura non emessi.
Il dato — al di là di responsabilità individuali su cui non è questa la sede per disquisire — è dimostrativo di una di quelle « opinioni » o « stati d'animo » significativi -— fondati o meno che siano — che legittimamente una commissione d'inchiesta accerta e da cui altrettanto legittimamente trae motivi di convincimento. Le affermazioni dei giudici competenti vanno adesso riportate alle conoscenze proprie della Commissione ed in particolare a due dati di conoscenza emersi con particolare significato in questa relazione.
Il primo è che la pista della Loggia P2 e di Licio Gelli fu seguita in fase istruttoria dai magistrati bolognesi che indagavano sulla strage dell'Italicus e che chiesero notizie in proposito al SID: il Servizio, che, come ben messo in risalto in altra parte della relazione, era assai più che documentato in proposito, altra risposta non fornì se non quella, già ricordata, di nulla sapere riportandosi a quanto diffuso dalla stampa. Secondo elemento di estremo interesse è quello riguardante i rapporti fra l'Ispettorato antiterrorismo ed i già ricordati ambienti della magistratura aretina.
Il commissario De Francesco che, per incarico di Santillo, seguiva la pista piduistica di Arezzo, in stretta collaborazione con i magistrati bolognesi, ebbe uno scontro violentissimo con un magistrato aretino che lo accusò — convocandolo in questura nel cuore della notte — di violare il segreto istruttorio.
L'incidente, che comprometteva in loco i rapporti tra magistratura e polizia, condusse al richiamo a Roma del commissario De Francesco da parte di Santillo per ordine superiore (cfr. deposizione del De Francesco al dott. Persico 9-6-1981), con conseguente accantonamento di una « pista » pur così sagacemente fiutata dal capo dell'antiterrorismo. Non è difficile vedere sulla base degli elementi sinora riportati come le considerazioni svolte dai giudici bolognesi si pongano in piena armonia con le conclusioni alle quali il presente lavoro è pervenuto in altra sezione.
Non è chi non veda infatti che, ricondotte ad un singolo episodio concreto quale quello in esame, le affermazioni prima argomentate trovano puntuale conferma. Emerge infatti che in primo luogo venne dai Servizi negata ai giudici bolognesi la conoscenza delle notizie su Licio Gelli che essi detenevano e che nei loro confronti venne attivato quel cordone sanitario informativo, le cui ragioni abbiamo prima individuato, e che adesso vediamo operante nei confronti del giudice inquirente che indagava sul caso dell'Italicus.
Appare in secondo luogo che il filone investigativo Gelli-Loggia P2 venne anche in questo caso specifico individuato dall'unico apparato investigativo — l'ispettore Santillo — che autonomamente arrivò ad intuire il valore di questa organizzazione e del suo capo perseguendola con costanza nel tempo.
Quanto sopra esposto ci mostra che, alla certezza raggiunta dai giudici bolognesi sul coinvolgimento piduista nella strage dell'Italicus attraverso prove storiche, si aggiungono i risultati ai quali la Commissione è pervenuta attraverso prove critiche tutte gravi, precise, concordanti e che quella certezza già acquisita, quindi, corroborano ed arricchiscono di particolari. Nel periodo compreso tra la fine del 1973 ed il marzo del 1974 viene ad evidenziarsi un'altra iniziativa nella quale si trovano coinvolti uomini risultati iscritti alla P2 o indicati, nella più volte ricordata relazione Santillo del 1976, come aderenti alla stessa quali Edgardo Sogno, Remo Orlandini, Salvatore Drago e Ugo Ricci.
Dai documenti in nostro possesso si può avanzare l'ipotesi che il gruppo facente capo a Sogno, pur non ignorando le iniziative più tipicamente eversive, abbia sviluppato sin dalla fine degli anni sessanta, per proseguire nella prima metà degli anni settanta, una linea più legalitaria, che però muove sempre dalle premesse di un grave pericolo delle istituzioni provocato dagli opposti estremismi e dalla incapacità delle forze politiche di farvi fronte.
Tale linea quindi si pone gli obiettivi di realizzare riforme anche costituzionali e mutamenti degli equilibri politici al fine di dare vita ad un governo forte e capace di resistere alle minacce incombenti sul paese. Possono citarsi in questo contesto la costituzione dei Comitati di resistenza democratica sorti nel 1971 per iniziativa di Edgardo Sogno e le proposte avanzate nei periodici Resistenza democratica e Progetto 80.
Quello che più interessa ai fini della nostra indagine è che la complessa tematica legata al gruppo Sogno, le proposte di riforme costituzionali avanzate, come pure, in parte, la strategia adottata, rivelano punti di contatto con il Piano di rinascita democratica e la strategia di Gelli dopo il 1974.
Ricordiamo infine che nella busta «Riservata personale» che Gelli custodiva a Castiglion Fibocchi era custodita copia di un anonimo, per il quale ci fu richiesta di informativa su Gelli inviata alla questura di Arezzo nel marzo del 1975 dal giudice Violante che indagava sulla eversione di destra.
Nell'anonimo leggiamo tra l'altro: «Il Gelli sembra inoltre collegato al gruppo Sogno e ad altri ambienti che fanno capo all'ex procuratore Spagnuolo oltre che ad ambienti finanziari internazionali ». Un'ultima notazione sul delitto del giudice Occorsio, il quale avrebbe iniziato ad investigare sui possibili collegamenti tra l'Anonima sequestri ed ambienti massonici ed ambienti dell'eversione. Tale almeno fu la confidenza che Occorsio fece ad un giornalista il giorno prima di essere ucciso. Per quanto a nostra conoscenza il questore Cioppa, iscritto alla Loggia P2, ha dichiarato alla Commissione di aver incontrato Licio Gelli nell'anticamera del giudice Occorsio, due giorni prima dell'omicidio del magistrato. L'esito dell'istruttoria relativa esclude collegamenti tra la Loggia P2 ed il delitto; rimane peraltro da spiegare per quale motivo il giudice avesse convocato il Gelli, secondo il dato in nostro possesso. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Una loggia massonica per tutte le stagioni, dall’eversione ai grandi affari. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 Il Domani il 19 ottobre 2023
Vedremo come Licio Gelli non abbia difficoltà a dismettere i panni del fascista quando di essi non avverte più la necessità in ragione del cambiamento dei tempi e del succedersi delle fasi politiche. Il Gelli che si muove all'insegna del piano di rinascita democratica e che in quel contesto controlla il Corriere della Sera è pur sempre lo stesso Gelli che nel verbale di riunione di loggia del 1971 identificava il nemico da battere in un'area di forze definite «clerico-comunismo»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di
Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa
pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno
in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi
stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2
presieduta da Tina Anselmi
Abbiamo elencato i punti di contatto che si possono fissare, sulla scorta dei
nostri atti, tra Licio Gelli, la Loggia P2 e gli ambienti della destra eversiva:
quelle fasce al margine, o meglio al di fuori del sistema politico legale,
raggruppate sotto una variegata quantità di formule, la cui azione caratterizza
la prima metà degli anni settanta, con iniziative di portata traumatica in
ordine alle quali dobbiamo purtroppo constatare come ben poche siano le certezze
acquisite.
I processi che su questi eventi si sono celebrati, o non sono ancora conclusi, pure a distanza di tempo, o hanno portato a sentenze che non consentono di arricchire sostanzialmente il quadro conoscitivo di dati certi dai quali muovere. Il nostro compito è quindi quello di portare al dibattito su questi fenomeni il contributo delle nostre conoscenze specifiche, cercando il possibile collegamento con quanto risulta noto, al fine di verificare la validità delle nostre tesi.
La prima constatazione riguarda la coincidenza riscontrabile tra il periodo politico così contraddistinto e la prima fase politica e organizzativa della Loggia P2. Risalta alla nostra attenzione, con evidente parallelismo, che il tono dei discorsi che si tengono nella loggia è in armonia, per quanto ci viene dai documenti, con questo contesto politico esterno di propositi ed azioni. Ancor più rilevante, ai nostri fini, è poi constatare, che quando nella seconda metà degli anni settanta il pericolo dell'eversione nera si avvia a scemare d'intensità, muta in parallelo il livello organizzativo e la composizione personale della loggia, considerata sotto il profilo qualitativo delle adesioni.
La loggia in doppio petto degli Ortolani e dei Calvi, caratteristica della seconda fase, ben si accompagna da un lato con la sostanziale attenuazione del pericolo nero e dall'altro con la fase politica che interviene in Italia dopo il 1976, Secondo la ricostruzione che proporremo nel capitolo seguente.
Riportandoci all'analisi della storia
organizzativa della Loggia P2 ci è dato riscontrare che quelle che abbiamo
delineato come due fasi organizzative di spiccata caratterizzazione, coincidono
sostanzialmente con due periodi della vita nazionale da un punto di vista
politico sufficientemente individuati ed il cui discrimine si pone a cavallo
della metà degli anni settanta: nel 1974 viene raggiunto infatti l'apice della
strategia della tensione, nel 1976 si registra il risultato elettorale che
inaugura le stagioni politiche della solidarietà nazionale.
Ponendo mente a queste coordinate di riferimento dobbiamo allora sottolineare
che il 1974 è un anno fondamentale non solo nella vita del Paese ma anche nella
vicenda organizzativa della Loggia Propaganda, poiché è questo l'anno che si
chiude con il voto della Gran Loggia di Napoli, nella quale viene sancita la
demolizione della Loggia P2.
Il punto che in proposito deve sollecitare
l'attenzione dell'interprete è che tale deliberazione non segue ad alcuna
particolare attività nota all'interno della famiglia massonica; al contrario la
relazione annuale del Grande Oratore (Ermenegildo Benedetti, appartenente al
gruppo dei cosiddetti « massoni democratici ») svolta nel 1973, nel corso della
quale erano state pesantemente denunciate le deviazioni politiche della Loggia
P2, era praticamente caduta nel vuoto non provocando alcuna reazione nella
comunione giustinianea. Non è dunque ad essa che dobbiamo riportarci per trovare
la causa scatenante delle decisioni assunte nella Gran Loggia di Napoli che
interviene invece, non preceduta direttamente da alcun evento interno, l'anno
successivo, ovvero l'anno che registra nel maggio la strage di Piazza della
Loggia e nell'agosto la strage dell'Italicus.
Quell'anno Licio Gelli aveva inviato ai suoi affiliati una lettera su carta
intestata «Centro Studi di Storia Contemporanea», nella quale, secondo la ben
nota tecnica gelliana più volte documentata, è dato individuare, calato nelle
abituali banalità, un messaggio politico ben preciso accompagnato da una
affermazione che non può non destare l'attenzione dell'osservatore: «Con il
nostro buon senso, con la nostra vocazione alla libertà, dobbiamo sperare che le
opposte tendenze, tutte per altro incluse nell'arco democratico-costituzionale,
trovino finalmente un terreno di intesa e di incontro al fine di dare l'avvio
alla esecuzione e alla programmazione di una azione intesa a conseguire una vera
pace sociale, ad un autentico atto di pacificazione politica».
«Non è allarmisticamente che si prevede una estate
veramente calda, direi scottante per una notevole quantità di problemi
estremamente impegnativi». Questa affermazione letta alla luce delle conoscenze
in nostro possesso, ovvero alla riscontrata specularità tra vicende politiche e
fasi organizzative della Loggia P2, al ricordato risveglio di interesse di
apparati investigativi nei confronti di Lcio Gelli che cade proprio nel 1974,
alla citata «demolizione» votata dalla Gran Loggia di Napoli, viene ad acquisire
un significato ben diverso da quello di innocue lamentazioni sulle disfunzoni
del sistema come a prima vista potrebbe apparire.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad un concordante quadro di elementi conoscitivi
che tutti si armonizzano tra loro in univoco senso: quello di denunciare un
legame tra quelle attività eversive e Licio Gelli, poiché se una coincidenza è
non solo possibile ma probabile, una serie di coincidenze come quella denunciata
è piuttosto indicativa di un rapporto di connessione e di causalità.
Ed è di conforto alla nostra ipotesi constatare
che tale collegamento venne individuato o comunque presentito sia all'interno
che all'esterno della comunione massonica e che la sua individuazione non fu poi
senza conseguenze, poiché all'interno della massoneria si avviò da quel momento
quel processo di ristrutturazione che valse a rendere definitivamente ancor più
segreta la Loggia e ad espellere dalla comunione i cosiddetti «massoni
democratici».
Quanto agli ambienti esterni abbiamo ricordato il destino non favorevole nel
quale incorsero gli ufficiali della Guardia di Finanza che avevano lavorato alle
informative, ed abbiamo anche alzato un velo di dubbio sugli esiti della
carriera dell'ispettore Santillo che, adesso sappiamo, era responsabile agli
occhi di Gelli non solo delle tre note già commentate, ma dell'accanimento con
il quale aveva seguito la pista individuata, tramite l'ispettore De Francesco.
Notiamo che terza autorità costituita ad
individuare un collegamento Gelli-eversione nera, sarebbe stato il giudice
Occorsio che comunque andò incontro ad un tragico destino: una coincidenza
questa, e non certo la prima nella nostra storia, che riteniamo comunque
doveroso, con piena autonomia di giudizio, sottolineare.
Quello che ci chiediamo allora è se Licio Gelli e la sua loggia siano in tutto
identificabili con situazioni che si ponevano decisamente al di fuori del
sistema democratico e comunque quale tipo di rapporto avessero stabilito con
tali realtà.
Certo è che la connotazione nera di Gelli e della sua loggia è quella consegnata all'iconografia ufficiale, per la quale non si è mai mancato di insistere sui trascorsi fascisti e repubblichini del Venerabile: questa almeno era l'immagine che di lui ampiamente pubblicizzava la stampa durante quegli anni, prima che Gelli e la sua organizzazione provvedessero a costituirsi quella radicale mimetizzazione che abbiamo studiato nel primo capitolo.
Ma che questa non sia la vera o per lo meno l'unica chiave di lettura del fenomeno ci viene offerto dall'osservare la trasformazione intervenuta nella seconda fase della Loggia P2, che alla luce di un attento studio del fenomeno verrà a dimostrarsi in realtà come una accorta operazione di adeguamento, all'insegna della continuità, alla situazione politica mutata.
Vedremo infatti come Licio Gelli non abbia difficoltà a dismettere i panni del fascista quando di essi non avverte più la necessità in ragione del cambiamento dei tempi e del succedersi delle fasi politiche. Il Gelli che si muove all'insegna del piano di rinascita democratica e che in quel contesto controlla il Corriere della Sera — non interferendo con la linea d'appoggio alla politica di solidarietà nazionale — è pur sempre lo stesso Gelli che nel verbale di riunione di loggia del 1971 identificava il nemico da battere in un'area di forze definite «clerico-comunismo».
In quella riunione nella quale era stata « messa
al bando la filosofia », si erano tenuti discorsi che, se per molti versi
anticipano nel contenuto il piano di rinascita democratica, peraltro si situano
in un contesto politico marcatamente diverso da quello nel quale il piano verrà
a collocarsi. Ma per comprendere allora se e quale interpretazione unitaria si
possa dare a questi dati è forse opportuno entrare, sia pure per un istante,
nella logica del sistema di potere gelliano e, «messa al bando la filosofia»,
cercare di vedere i fatti e gli avvenimenti, al di là del loro primo apparente
significato.
A tal fine riprendiamo lo spunto relativo al golpe Borghese per notare come il
colpo di Stato al quale il principe nero tramava, non manca di presentare alcuni
aspetti di sorprendente anacronismo. Vogliamo cioè fare riferimento a quel che
di vagamente ottocentesco che il piano nel suo insieme lascia trasparire nella
sua ideazione, fondata come è su un'analisi politica a dir poco approssimativa,
come quando ignora il peso che nel sistema hanno partiti e sindacati e trascura
la loro capacità di mobilitazione in tempo reale di vaste masse di cittadini.
Pensare di fronteggiare una situazione quale di
certo sarebbe ipotizzabile in una simile deprecata evenienza con un proclama
letto alla radio sembra a dir poco superficiale. Come altresì si mostra
superficiale il piano nei suoi risvolti attuativi, tra i quali gioca un ruolo
decisivo il famoso contrordine, sulla cui paternità sappiamo quali dubbi
esistano e quali possibili riferimenti ci conducano a Licio Gelli o a persone a
lui vicine. Questo contrordine rappresenta per noi molto più che un banale
disguido attuativo, quale sembra a prima vista, perchè in realtà si cela in esso
la chiave di lettura politica di tutta l'operazione.
Una operazione che nella mente di chi stava dietro le quinte mirava più
all'effetto politico che il golpe tentato poteva provocare in termini di
reazione presso l'opinione pubblica e la classe politica, che non al reale
conseguimento di una conquista del potere, che il piano poteva garantire solo ai
pochi e non molto provveduti congiurati che si esposero in prima persona.
Per contro quando si pensi al giustificato clamore
che l'evento suscitò all'epoca — e che solo adesso, nella prospettiva storica, è
possibile ridimensionare — non sembra un forzare l'interpretazione affermare che
il colpo di Stato tentato e non consumato, esperì comunque i suoi sperati
effetti politici alternativi: in altri termini se il piano operativamente fallì,
politicamente per qualcuno fu un successo perché pose sul tappeto come possibile
realtà l'ipotesi che in Italia esistevano forze ed ambienti pronti ad un simile
passo.
Ponendoci allora ad un livello di analisi meno approssimativo, non possiamo non
rilevare che la consistenza concreta, in termini politici, del golpe Borghese
appare di poco maggiore, secondo una evidente analogia, di quella del governo
sostenuto dai militari e presieduto da Carmelo Spagnuolo, del quale si discusse
nella riunione a Villa Wanda del 1973. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Dal “partito armato” al “partito occulto”, la P2 nella storia repubblicana. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 20 ottobre 2023
Un collegamento tra quello che fu chiamato il «partito armato» e quello che l'onorevole Rodotà ha definito il «partito occulto» che sembra saldarsi all'insegna della necessità, secondo il pensiero del filosofo Norberto Bobbio quando afferma: «dove c'è il potere segreto, c'è quasi come suo prodotto naturale, l'antipotere altrettanto segreto sotto forma di congiure e complotti, di cospirazioni»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Le considerazioni sulle quali ci siamo dilungati ci pongono il problema se dai rilievi proposti emergano elementi tali che consentano di suffragare una interpretazione dei fenomeni allo studio che rivesta connotati di verosimiglianza politica.
È chiaro per altro che il problema viene adesso a centrarsi prendendo le mosse dai due episodi citati, sulla cosiddetta strategia della tensione e sul suo reale significato, ed è problema che correttamente si pone nei termini di accertare quale sia stato il disegno politico sotteso agli eventi.
Si tratta, come si vede, di argomento di vasta portata che trascende l'indagine specifica assegnata alla Commissione, la quale peraltro è in grado di contribuire al relativo dibattito in sede politica e storica, ad esso prestando il patrimonio di dati e di conoscenze che le è proprio.
Possiamo allora rilevare che gli elementi conoscitivi in nostro possesso inducono a ritenere improbabile che Licio Gelli e gli uomini e gli ambienti dei quali egli era espressione si ponessero realisticamente l'obiettivo politico del ribaltamento del sistema, mentre assai più verosimile appare attribuire loro il progetto politico di un orientamento verso forme conservatrici di più spiccata tendenza.
Comprova questa interpretazione non solo l'esame delle testimonianze e dei documenti sinora ampiamente citati e che si pongono in una non interrotta linea di continuità, ma soprattutto, ed è questo patrimonio conoscitivo proprio della Commissione, lo studio di come gli stessi uomini si muovono in fasi politiche successive, di segno totalmente diverso: di come cioè adeguino tattiche e forme di intervento al mutare degli eventi.
È la stessa diversità tra le due fasi della Loggia P2 che, correndo in parallelo, secondo la ricostruzione che la Commissione è in grado di fornire, alla diversità di periodo storico, ci testimonia la identità del fenomeno e la sua sostanziale continuità. Se tutto ciò è vero, e tutto infatti ci conduce a questa analisi, non è azzardato allineare, accanto all'interpretazione più evidente dei fatti, un'altra ipotesi ricostruttiva di pari possibile accoglimento, che la prima non esclude: quella cioè che la politica di destabilizzazione — nella quale il Gelli ed i suoi accoliti si inserivano — mirava piuttosto, con paradossale ma coerente lucidità, alla stabilizzazione del sistema, su situazioni naturalmente di segno politico ben determinato.
Di fatto la realtà politica che si delinea alla nostra attenzione è che se certamente vi furono in quel periodo forze e gruppi che in modo autonomo si prefiggevano il ribaltamento del sistema democratico attraverso l'impiego di mezzi violenti, questa situazione di indubbia autonoma matrice da non sottovalutare, come ha sottolineato il Commissario Covatta, venne utilizzata da altre forze secondo un più sottile disegno politico.
Partendo dalla premessa del Commissario Battaglia che vi furono cioè certamente in quel periodo forze che aspiravano a destabilizzare per destabilizzare, la dialettica di rapporti che ci è dato individuare all'interno di questa articolata situazione consente la posizione di due affermazioni: la prima è che la Loggia P2 non è identificabile roro modo con gli ambienti eversivi, la seconda è che, proprio in ragione di tale distinzione, la diversa autonomia politica di questi ambienti ci consente di individuare un rapporto di strumentalizzazione che intercorre tra chi il sistema voleva soltanto condizionare e chi invece aspirava a rovesciare.
In questa prospettiva il Commissario Covatta ha sottolineato come costituisca un paradosso della politica clandestina la possibilità di essere più o meno consapevolmente utilizzata da altre strutture clandestine.
Un collegamento questo tra quello che fu chiamato il «partito armato» e quello che l'onorevole Rodotà ha definito il «partito occulto» che sembra saldarsi all'insegna della necessità, secondo il pensiero del filosofo Norberto Bobbio (citato nel corso del dibattito) quando afferma: «dove c'è il potere segreto, c'è quasi come suo prodotto naturale, l'antipotere altrettanto segreto sotto forma di congiure e complotti, di cospirazioni. Accanto alla storia degli arcana dominationis si potrebbe scrivere con la stessa abbondanza di particolari, la storia degli arcana seditionis».
Si comprende anche in questa linea come tracce di gellismo siano rintracciabili in eventi ben più drammatici che non il golpe Borghese: la strage dell'Italicus; anche in questo caso la cronologia ci viene in aiuto perché ci consente di constatare come le bombe della cellula eversiva toscana (è il 1974) segnino un sostanziale passaggio alle maniere forti. Un mutamento di tattica e di mezzi che possiamo comprendere quando si valuti come il paese e la classe politica avevano dimostrato, al di là di ogni residua illusione, di non cedere ai facili isterismi: chi voleva farli approdare verso lidi di più sicura conservazione doveva evidentemente rassegnarsi a ricorrere non a qualche spinta di orientamento ma a ben più robuste spallate.
Seguendo allora il solco della traccia argomentativa proposta sinora e dando come dato acquisito la compenetrazione ma non l'identificazione tra Loggia P2 ed ambienti eversivi, riusciamo a far combaciare con esatta simmetria le due facce della Loggia P2, perché la seconda trova origine nella prima e ad essa si collega con tutta coerenza.
E una constatazione questa che appare politicamente accettabile quando si tenga conto che il quadro di riferimento generale, nel quale la logica della strategia della tensione si era inserita, aveva segnato uno sviluppo dal quale era uscita una risposta politica del tutto inaspettata: quella delle elezioni del 1975-1976.
Si era così registrata una spinta a sinistra del quadro politico ed era maturata una situazione affatto nuova, tale da obbligare gli ambienti che gravitavano intorno alla loggia ad elaborare nuove e più sofisticate strategie.
Il Commissario Crucianelli ha sottolineato con dovizia di argomentazioni il valore politico cruciale degli eventi del 1974, già indicato precedentemente, rilevando che è proprio questo l'anno nel quale, oltre agli eventi citati, si registra lo scioglimento presso il Ministero dell'interno dell'Ufficio affari riservati, diretto dal prefetto D'Amato, presente negli elenchi della Loggia, l'avvio delle inchieste giudiziarie su Ordine Nuovo e su Avanguardia Nazionale, nonché il declino delle posizioni dei generali Miceli e Maletti.
Non è dato sapere con certezza se questo succedersi di eventi contrassegnò un momento di disgrazia delle sorti di Licio Gelli, ma se anche così fosse, certo è che, come abbiamo visto studiando la ristrutturazione della Loggia P2, a partire dal 1976 il Venerabile aretino appare saldamente sulla cresta dell'onda alla guida di una rinnovata organizzazione, strumento idoneo al formidabile sviluppo della seconda fase. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
La strage di via Fani, l’uccisione di Aldo Moro e l’ombra di Gelli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 21 ottobre 2023
La Commissione, analogamente a quanto rilevato dalla Commissione di inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'uccisione dell'onorevole Moro, non ha potuto non prospettarsi il problema del significato della presenza di numerosi elementi iscritti alla Loggia P2 che rivestivano in quel periodo ed in ordine a quella vicenda posizioni di elevata responsabilità
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
La Commissione, analogamente a quanto rilevato dalla Commissione di inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'uccisione dell'onorevole Moro, non ha potuto non prospettarsi il problema del significato della presenza di numerosi elementi iscritti alla Loggia P2 che rivestivano in quel periodo ed in ordine a quella vicenda posizioni di elevata responsabilità.
Sono questi interrogativi che emergono dalla testimonianza, ad esempio, del sottosegretario Lettieri, che di fronte a quella Commissione ha rilevato come le riunioni al Viminale del Comitato di coordinamento tra le forze dell'ordine vedevano presente intorno allo stesso tavolo una maggioranza di iscritti alla Loggia P2, tra gli organi tecnici di ausilio ai responsabili politici.
Dagli appunti del sottosegretario Lettieri risultano infatti presenti a queste riunioni, oltre ai ministri interessati e ai vertici della Polizia e dei Carabinieri, i seguenti affiliati alla Loggia P2: i generali Giudice, Torrisi, Santovito, Grassini, Lo Prete, nonché, ad una di esse, il colonnello Siracusano.
Questa, constatazione pone il quesito se l'inadeguatezza degli apparati informativi e di polizia dello Stato, sulla quale si è registrato un ampio consenso tra le forze politiche, abbia avuto a suo fondamento, motivazioni di ordine esclusivamente tecnico, o sia invece da riportare ad altro ordine di considerazioni.
Questa problematica non ha trovato nel corso dell'indagine ulteriori riscontri, fatta eccezione per la deposizione del commissario di Pubblica Sicurezza Elio Cioppa, vice del generale Grassini al SISDE, il quale ha confermato la testimonianza resa di fronte al magistrato di aver successivamente ricevuto dal suo superiore, all'epoca del suo arrivo al Servizio, l'incarico di effettuare ricerche nell'ambito dell'ambiente della sinistra, sulla base di informazioni e valutazioni, e tra queste anche valutazioni relative alla vicenda Moro, che il suo superiore aveva recepito direttamente da Licio Gelli con il quale si incontrava saltuariamente, nell'interesse esclusivo del Servizio.
La testimonianza non viene smentita dal generale Grassini il quale, dichiarando di non ricordare l'episodio riferito dal Cioppa, afferma peraltro che, se lo aveva riferito Cioppa — funzionario serio e competente — doveva essere senz'altro vero. Aggiunge che, se aveva ricevuto informazioni da Gelli, ciò era avvenuto non in occasione di una riunione alla quale Gelli era presente, ma in un incontro fra lui e lo stesso Gelli.
Il problema, sul quale si è soffermato a lungo il Commissario Flamigni, si pone, al di là dei supporti documentali e testimoniali in nostro possesso, nei termini di accertare se un episodio di così tragico e rilevante momento possa essere inquadrato nel contesto dei rapporti che Licio Gelli intratteneva con i suoi affiliati. Su tale ordine di problemi quello che la Commissione è in grado di affermare, facendo riferimento al patrimonio conoscitivo che le è proprio, è che, mentre si pone come dato sicuro l'interesse attivo e politicamente determinato delle relazioni che Gelli intratteneva con gli ambienti militari della Loggia, come è ampiamente documentato nel corso della presente relazione, per eventi e situazioni di ben minore portata rispetto a questo tragico evento, per contro, allo stato degli atti, non si hanno sicuri riscontri sul collegamento tra questo livello qualificato di rapporti e la vicenda specifica in esame.
Queste considerazioni relative alla precisa valenza politica che Licio Gelli attribuiva ai rapporti instaurati con quegli ambienti vanno pertanto a porsi in aggiunta alle osservazioni ricordate sulla insufficienza dimostrata dagli apparati e lasciano aperti, in un più ampio contesto, gli interrogativi da più parti sollevati. Interrogativi in ordine ai quali la Commissione non è in grado di fornire risposte certe ma che peraltro, attesa la delicatezza della materia e il suo preminente rilievo politico, non ritiene, alla luce soprattutto dell'ambiguo rapporto identificato tra Licio Gelli ed i Servizi segreti, di poter sottacere.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Quegli amici giudici che definivano la P2 di “scarsa pericolosità”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 22 ottobre 2023
Non può ancora passarsi sotto silenzio come la requisitoria del procuratore della Repubblica di Roma, dottor Gallucci, in data 29 maggio 1982 e la successiva sentenza istruttoria del dottor Cudillo in data 17 marzo 1983 tendono a rappresentare la Loggia P2 come un fenomeno associativo di scarsa pericolosità...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Per completare il quadro dei rapporti tra la Loggia P2 e la magistratura, vanno ricordate una serie di altre risultanze attinenti le posizioni del banchiere Roberto Calvi e di Francesco Pazienza, i quali assumono posizioni di rilievo nella fase finale della vicenda della Loggia P2 e nella fase successiva al sequestro di Castiglion Fibocchi.
A tal fine numerosi elementi testimoniali e documentali, denunciano una frenetica attività di Roberto Calvi indirizzata nei confronti di ambienti giudiziari al fine di sistemare le proprie pendenze penali. Presso la procura della Repubblica di Brescia fu instaurato un procedimento penale, poi trasmesso all'ufficio istruzione della stessa città, nei confronti di Roberto Calvi, Licio Gelli, Marco Cerruti (noto esponente della Loggia P2), Mauro Gresti, Luca Mucci e Ugo Zilletti per fatti connessi al sequestro e alla restituzione del passaporto a Roberto Calvi a seguito del processo promosso a suo carico a Milano per reati valutari e societari.
Il procedimento penale a Brescia veniva poi riunificato con gli altri procedimenti pendenti avanti agli uffici giudiziari di Roma concernenti la vicenda della Loggia P2. Nell'ambito del procedimento suindicato venne assunta la testimonianza del dottor Carlo Marini, all'epoca procuratore generale della Repubblica presso la corte d'appello di Milano, il quale riferì di aver appreso dal procuratore della Repubblica Mauro Gresti che quest'ultimo era stato sollecitato a restituire il passaporto a Roberto Calvi da Ugo Zilletti, all'epoca vicepresidente del Consiglio Superiore, e dal magistrato Domenico Pone.
Ha aggiunto inoltre il Marini che, dopo l'avocazione del processo al suo ufficio, ricevette una telefonata dal medesimo Zilletti che lo pregò di adottare la massima cautela nel trattare il procedimento a carico di Calvi, procedimento nell'ambito del quale era avvenuto il ritiro del passaporto, e che lo stesso Zilletti gli mandò, sempre per lo stesso motivo, come suo messaggero, il dottor Giacomo Capiendo, componente del Consiglio.
Dopo l'istruttoria compiuta, prima a Brescia e poi a Roma, il consigliere istruttore di Roma Ernesto Cudillo proscioglieva, con la sentenza-ordinanza emessa in data 17 marzo 1983, tutti gli imputati con ampia formula non ravvisando nella attività di nessuno di essi comportamenti penali rilevanti; la procura generale presso la corte di appello di Roma rinunciava all'appello in precedenza interposto sul punto avverso la sentenza-ordinanza istruttoria suindicata.
Clara Canetti, vedova Calvi, interrogata presso la procura della Repubblica di Milano in data 19 ottobre 1982, ha riferito che, nella primavera dello stesso anno e anche in precedenza, essa e il marito avevano ricevuto diverse visite da parte di un magistrato di Como, il dottor Ciraolo, che spesso veniva in compagnia dell'avvocato Taroni di Como, officiato dal Calvi per la sua difesa nel processo a suo carico pendente innanzi all'autorità giudiziaria di Milano; la Calvi ha riferito che il marito aveva dato al Ciraolo il numero di una sua riservatissima utenza telefonica che serviva la casa di Drezzo e a tale numero spesso riceveva telefonate dal suddetto magistrato.
La vedova di Roberto Calvi in data 24 novembre 1983 ha altresì dichiarato ai giudici istruttori di Milano che suo marito aveva instaurato con il magistrato dottor Gino Alma, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica di Milano, del quale si parla anche nel procedimento attinente la restituzione del passaporto cui sopra si è fatto riferimento, un rapporto in base al quale il suddetto magistrato percepiva dal Presidente dell'Ambrosiano un emolumento mensile fisso e si impegnava di comunicare a Calvi tutte le notizie che lo riguardavano raccolte negli uffici giudiziari milanesi.
Emilio Pellicani, nella sua audizione in Commissione il 24 febbraio 1983, riferisce poi che Flavio Carboni e Armando Corona, eletto Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani in successione al generale Battelli, avevano rapporti con due magistrati milanesi Pasquale Carcasio e Francesco Consoli, rapporti relativi alla ricerca di appoggi per la nomina del Consoli a procuratore generale di Milano.
A tal fine vi fu una riunione conviviale in Roma alla quale parteciparono l'onorevole Roich e Graziano Moro, nella quale si parlò anche del processo a carico di Calvi e degli interessamenti in atto per farlo concludere con l'assoluzione dell'imputato. Va sottolineato che questi episodi s'inquadrano nell'azione svolta nei confronti della magistratura da parte di Roberto Calvi per sistemare le pendenze giudiziarie scaturite dalla vicenda P2, nelle quali erano coinvolti lo stesso Calvi, Licio Gelli, Umberto Ortolani, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din.
Secondo quanto dichiara in più occasioni Emilio Pellicani, Calvi stava cercando di mettere insieme somme di denaro, che dovevano raggiungere la cospicua somma di 25 miliardi, sollecitando a tal fine la collaborazione di Rizzoli e Tassan Din, somme che dovevano essere consegnate all'avvocato Wilfredo Vitalone. Anche Rizzoli e Tassan Din riferiscono che Calvi, tramite Francesco Pazienza, li sollecitò a versare somme cospicue per ottenere una soluzione favorevole alle pendenze giudiziarie suindicate.
Rizzoli fa esplicito riferimento ai «giudici di Roma » e al conflitto di competenza poi risolto dalla Corte di cassazione con la riunificazione dei diversi procedimenti presso la magistratura romana. Sempre secondo quanto riferisce Rizzoli anche Gelli ed Ortolani avevano versato somme di denaro e Calvi aveva precisato minacciosamente che, se non avessero pagato, Rizzoli e Tassan Din non se la sarebbero cavata. Conclusivamente, volendo tentare una sommaria analisi — sulla scorta delle risultanze degli elenchi di Castiglion Fibocchi — circa la composizione del gruppo dei magistrati iscritti in base all'ufficio di rispettiva appartenenza, si rileva che la Loggia P2 aveva conseguito significative adesioni a livello di presidenti di tribunali, seppur in modo sporadico.
L'infiltrazione della loggia si presentava invece più debole con riferimento sia agli uffici di procura della Repubblica sia alla Suprema Corte di cassazione, pur non potendosi escludere una certa influenza, in considerazione delle vicende processuali che coinvolgevano esponenti della loggia.
Gli episodi citati peraltro testimoniano di una tentata penetrazione deviante nei confronti della procura di Milano, che prescinde dal dato meramente formale dell'iscrizione. Notevole, concentrata e capillare era invece la penetrazione realizzata all'interno del Consiglio Superiore sia a livello di componenti dell'organo di autogoverno (Buono, Pone) sia con riferimento agli uffici di segreteria (Pastore, Croce, Palaia).
L'attenzione e i propositi della Loggia P2, nonché le sue penetrazioni a livello della magistratura, appaiono comunque pericolose sotto più di un profilo. In primo luogo vi è da osservare che le connotazioni di segretezza e di accentuata solidarietà, in termini di concorso mutualistico tra gli iscritti nelle attività professionali, assumevano maggiore gravità con riferimento all'attività dei magistrati ed alle guarentigie fissate dall'ordinamento a tutela della loro indipendenza.
Questi rilievi vengono in considerazione non solo per quanto attiene gli sviluppi di carriera per il singolo magistrato — già di per sé fatto sospetto — ma per quanto riguarda possibili condizionamenti che il magistrato potrebbe subire a livello della sua attività giurisdizionale, soprattutto allorché tale attività abbia ad oggetto procedimenti importanti, con implicazioni anche di natura politica.
Infatti la solidarietà intesa in aggiunta alla segretezza dei rapporti potrebbe influire sulle scelte del magistrato e sulla sua attività giurisdizionale, ponendo in dubbio la sua imparzialità o almeno la sua serenità di giudizio.
L'elemento che viene peraltro in maggiore considerazione è che le proposte in materia di ordinamento giudiziario — alcune delle quali implicanti anche modifiche di natura costituzionale — sono tese a ridare una struttura gerarchica alla magistratura, con particolare riferimento agli uffici del Pubblico Ministero e ad intaccare il principio della separazione dei poteri (vedasi in merito la riforma del Consiglio Superiore). Tutto ciò acquista rilievo particolare con riferimento al piano politico generale, più volte espresso da Gelli ad esponenti della Loggia P2, di accentuare il momento autoritario nella vita dello Stato.
La ricerca di contatti con magistrati — anche non iscritti alla P2 (alcuni nomi di magistrati ricorrono in altri atti in possesso della Commissione) — induce a sospettare che si siano almeno tentate iniziative rivolte ad influire sull'andamento di alcuni procedimenti che o riguardavano uomini della istituzione o comunque avevano ad oggetto fatti nei quali la istituzione era coinvolta direttamente o indirettamente o ai quali era in qualche modo attenta.
A tale proposito non può passarsi sotto silenzio come la riunificazione disposta dalla Corte di cassazione di tutti i procedimenti giurisdizionali attinenti la Loggia P2 presso gli uffici giudiziari di Roma — anche se poteva trovare giustificazione in norme processuali e in motivi di opportunità — non abbia giovato alla speditezza dell'istruttoria e al raggiungimento di un risultato concreto (a tale proposito una rogatoria rivolta all'autorità giudiziaria svizzera relativa al cosiddetto «conto protezione», già trasmessa dalla magistratura di Brescia prima della riunificazione dei procedimenti a Roma, attende ancora la sua evasione a distanza di quasi tre anni).
Non può ancora passarsi sotto silenzio come la requisitoria del procuratore della Repubblica di Roma, dottor Gallucci, in data 29 maggio 1982 e la successiva sentenza istruttoria del dottor Cudillo in data 17 marzo 1983 tendono a rappresentare la Loggia P2 come un fenomeno associativo di scarsa pericolosità, attribuendo al solo Gelli e a pochi altri i reati più gravi, scolorendo il loro significato politico complessivo e svalutando la genuinità della documentazione proveniente dalla perquisizione del 17 marzo 1981. Questa conclusione degli organi inquirenti romani si è posta, come ha rilevato il Commissario Trabacchi, in palese contraddittorietà con la richiesta di avocazione del procedimento, motivata dal procuratore della Repubblica di Roma con la definizione della Loggia P2 quale «nucleo ad altissimo potenziale criminogeno, versatilmente impegnato nella consumazione di eteroformi attività delittuose».
Come è noto, la sentenza istruttoria è stata impugnata dal Procuratore generale presso la corte di appello di Roma; e si attende la decisione della sezione istruttoria della Corte. Si ha anche l'impressione che i magistrati che hanno adottato le decisioni suindicate non abbiano completamente e tempestivamente preso visione di una serie di atti che, almeno indirettamente, avrebbero potuto contribuire a fornire ulteriormente elementi ai fini di una valutazione del fenomeno P2 e della condotta degli imputati.
Così documenti relativi alle indagini su Gelli svolte nel 1974 dalla Guardia di Finanza, al loro rinvenimento presso l'archivio di Gelli e alle vicende connesse a tali indagini, inviati dalla procura della Repubblica di Milano a quella di Roma, per lungo tempo non sono stati reperibili presso gli uffici romani.
Tra l'altro numerosi degli iscritti alla Loggia P2 — anche personaggi di rilievo — non risultano mai interrogati: si è omesso anche di procedere contro due capigruppo della Loggia P2 e cioè De Santis Luigi e Niro Domenico. Infine — per ciò che vale — non può tacersi che già nel gennaio 1982 Gelli in una telefonata all'avvocato Federico Federici si diceva convinto dell'esito più che favorevole dell'istruttoria in corso a suo carico presso gli uffici giudiziari romani. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Il “Piano di rinascita democratica” e quei sedici magistrati muratori. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 23 ottobre 2023
Risultano presenti negli elenchi della Loggia P2 sedici magistrati in servizio più tre collocati a riposo. I detti magistrati sono stati sottoposti a procedimento disciplinare dal Consiglio Superiore della magistratura, che con sentenza emessa in data 9 febbraio 1983 ha deciso di assolvere quattro degli affiliati, pronunciando per gli altri sentenze varie di condanna, ivi compresa la rimozione
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Risultano presenti negli elenchi della Loggia P2 sedici magistrati in servizio più tre collocati a riposo. I detti magistrati sono stati sottoposti a procedimento disciplinare dal Consiglio Superiore della magistratura, che con sentenza emessa in data 9 febbraio 1983 ha deciso di assolvere quattro degli affiliati, pronunciando per gli altri sentenze varie di condanna, ivi compresa la rimozione.
Con riferimento alla questione dei rapporti tra la Loggia P2 e la magistratura (intesa nella sua interezza, come ordine giudiziario), gli accenni più significativi si rinvengono nel piano di rinascita democratica in cui si delinea il ruolo della magistratura nel complessivo disegno politico descritto nel documento e si evidenzia la necessità — a tal fine — di stabilire un raccordo «morale e programmatico» con la corrente di Magistratura Indipendente dell'ANM «che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su posizioni moderate per poter contare su un prezioso strumento già operativo nell'interno del corpo, anche ai fini di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della società e non già di eversione».
Lo stesso documento indica poi quali debbano essere, nel quadro della riforma dello Stato delineata, le modifiche da apportarsi al vigente ordinamento giudiziario, sia nel breve che nel lungo periodo. Le indicazioni sono le seguenti: a breve termine in tema di ordinamento giudiziario:
- responsabilità civile (per colpa) del magistrato;
- divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari; - la normativa per l'accesso in carriera (esami psicoattitudinali preliminari);
- la modifica delle norme in tema di facoltà di libertà provvisoria in presenza di reati di eversione — anche tentata — nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull'ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale.
A medio e lungo termine:
- unità del Pubblico Ministero (a norma della Costituzione - articoli 107 e 112 ove il Pubblico Ministero è distinto dai giudici);
- responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull'operato del Pubblico Ministero (modifica costituzionale);
- istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi d'istruzione;
- riforma del Consiglio Superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costituzionale);
- riforma dell'ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile;
- esperimento di elezione di magistrati (Cost. art. 106) fra avvocati con 25 anni di funzioni in possesso di particolari requisiti morali.
La richiamata sentenza disciplinare del Consiglio Superiore ha rilevato in proposito che, per lo meno con riferimento alla magistratura, il piano ha superato lo stadio di mera elaborazione programmatica per diventare effettivamente operativo mediante iniziative di finanziamento della stampa del gruppo di Magistratura Indipendente e di versamento di somme in favore del segretario generale dello stesso.
Anche in tema di magistratura è dato constatare che il piano si pone in linea di continuità con altri documenti nei quali si era constatata e lamentata l'influenza sulla magistratura dell'azione dei politici, «i quali cercano di strumentalizzarla conculcandone la libertà dispositiva», nonché la perdita delle prerogative dell'autonomia e dell'indipendenza conseguente all'espandersi, nel suo ambito, «delle varie intendenze e fazioni politiche che compromettono e sfaldano la compattezza dell'Istituto».
L'interesse che la Loggia P2 riservava alla magistratura e la completezza e vastità delle informazioni di cui disponeva al riguardo, emergono poi dall'elenco di magistrati, anch'esso sequestrato a Maria Grazia Gelli e contenente una vera e propria schedatura degli stessi, con la indicazione della corrente dell'ANM di rispettiva appartenenza e con la ulteriore specificazione della loro qualità di «opportunisti» o «attivisti»: occorre pertanto rilevare che del documento medesimo sono ignoti sia l'autore che il destinatario.
Inoltre il collegamento esistente con la magistratura, e segnatamente con la corrente di Magistratura Indipendente di cui si è sopra detto, si sarebbe manifestato anche con la corresponsione di somme di denaro: il condizionale è d'obbligo perché del documento che riferisce di un finanziamento di lire 26 milioni a favore di magistrati dirigenti di quel gruppo per le elezioni del Consiglio dell'Anm, non sono sfate accertate né l'autenticità, né la provenienza, né la destinazione.
Al riguardo si ricorda, per inciso, che la lettera in oggetto risulta inserita nel fascicolo intestato al magistrato Antonio Buono di cui innanzi si è scritto, fascicolo che contiene altri documenti comprovanti la frequenza ed intensità di rapporti tra il medesimo e Gelli, rapporti che avevano per oggetto anche segnalazioni o raccomandazioni richieste a Buono a favore di persone coinvolte in procedimenti giurisdizionali.
Con riferimento a tal documento è il caso di ricordare — per completezza espositiva — che il Consiglio Superiore della magistratura, con provvedimento del 5 aprile 1984, ha deciso l'archiviazione dell'indagine iniziata nei confronti dei magistrati nominati dalla suddetta lettera, proprio per l'assenza di riscontri probatori in ordine ai fatti riportati.
A proposito di finanziamenti alla corrente associativa di Magistratura Indipendente, la sentenza disciplinare del Consiglio Superiore ha accertato che in favore del magistrato dottor Pone, e per la stampa della rivista di corrente denominata Critica giudiziaria, l'editore Rizzoli si assunse un consistente onere economico, per decisione del direttore generale Tassan Din, «certamente richiesto di intervenire dal Gelli».
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’affaire Sindona. Il banchiere siciliano fra massoni e poteri occulti. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 24 ottobre 2023
«Intorno alla mobilitazione in difesa di Sindona accade qualcosa di più di una semplice accanita gestione di interessi da proteggere magari con l'omertà e l'uso della forza: si rafforza e si espande il potere del sistema P2 che collega ed unifica tanti personaggi operanti in diverse collocazioni»
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Un primo approccio per una disamina dei collegamenti e della influenza della P2 nel mondo degli affari va effettuato tenendo presente, al momento del ritrovamento delle «liste», la elevata consistenza numerica, sessantasette, degli iscritti appartenenti al Ministero del tesoro, a banche e ad ambienti finanziari in senso stretto. In particolare, per quanto riguarda il Ministero del tesoro (dodici iscritti) l'esame delle funzioni espletate dalle persone che compaiono negli elenchi rinvenuti a Castiglion Fibocchi permette di identificare la natura e l'importanza dei collegamenti instaurati, finalizzati ad assicurare contatti con dirigenti situati in punti chiave della amministrazione, sì da far conseguire al gruppo stabili agganci con ambienti di rilevante influenza sia nell'ambito nazionale sia, soprattutto, in quello internazionale. Sotto quest'ultimo profilo, in effetti, assume estrema rilevanza l'inclusione nelle liste di alti dirigenti del Ministero del tesoro e di altri personaggi situati in delicati istituti come la SACE (organismo che dà sostanzialmente sostegno finanziario nell'assicurazione degli interventi commerciali) e come la Banca d'Italia, aventi funzioni decisive in tema di rapporti finanziari con l'estero.
A completare il quadro concorrevano, inoltre, i contatti emergenti con esponenti di numerose banche pubbliche e private per alcune delle quali le presenze erano particolarmente significative per qualità e rappresentatività, come per la Banca nazionale del lavoro (quattro membri del Consiglio di amministrazione, il direttore generale, tre direttori centrali di cui uno segretario del Consiglio), il Monte dei Paschi di Siena (il Provveditore), la Banca Toscana (il direttore centrale), l'Istituto centrale delle casse rurali ed artigiane (il presidente ed il direttore generale), l'Interbanca (il presidente e due membri del Consiglio), il Banco di Roma (due amministratori delegati e due membri del Consiglio di amministrazione) ed il Banco Ambrosiano (il presidente ed un consigliere di amministrazione).
Le indagini effettuate solo da alcuni degli istituti citati si sono in genere limitate al mero riscontro dell'appartenenza o meno alla Loggia massonica P2 e non hanno consentito di acquisire elementi di rilievo in ordine all'attività svolta da ciascuno dei cennati esponenti ed al segno di interferenza che la loro appartenenza alla loggia può aver rappresentato nella ordinata gestione degli affari. Solo il Collegio sindacale del Monte dei Paschi di Siena risulta aver condotto una inchiesta attenta e dettagliata per valutare gli effetti dei collegamenti piduisti sull'operatività aziendale. L'inchiesta si è conclusa ponendo in evidenza « casi di possibile trattamento di favore, casi di perdite avute o temute dall'Istituto (frequenti i casi di trasferimento di posizioni a contenzioso con perdite già previste e/o definite)».
L'attività della Commissione — appena si è delineato il quadro operativo della Loggia P2 — si è quindi concentrata sull'esame del disegno complessivo e sull'azione svolta da alcuni gruppi non solo finanziari fin dagli inizi degli anni settanta, collegandosi con le risultanze della Commissione d'inchiesta sul caso Sindona che ha messo chiaramente in evidenza come gli interventi operati a favore del banchiere siciliano si erano sviluppati nell'ambito di solidarietà ed accordi, che esistevano nel mondo finanziario e bancario tra alcuni esponenti di primo piano e che contribuivano ad agevolare l'attuazione di operazioni speculative, finalizzate ad estendere il potere di determinati gruppi economici.
Quali fossero la matrice, il metodo, l'obiettivo di tali gruppi non appare sempre con chiarezza, ma indubbiamente la loro azione non può essere ristretta ad un fenomeno di mera criminalità economica o ad accordi diretti ad accrescere la ricchezza dei singoli. In effetti «intorno alla mobilitazione in difesa di Sindona accade qualcosa di più di una semplice accanita gestione di interessi da proteggere magari con l'omertà e l'uso della forza: si rafforza e si espande il potere del sistema P2 che collega ed unifica tanti personaggi operanti in diverse collocazioni».
Il momento più significativo a livello documentale di tali azioni è collegato alla presentazione di affidavit a favore di Sindona (rilasciati negli ultimi mesi del 1976), quando Gelli ed altri personaggi (Francesco Bellantonio, Carmelo Spagnuolo, Edgardo Sogno, Flavio Orlandi, John Me Caffery, Stefano Gullo, Philip Guarino, Anna Bonomi) si espongono in modo chiaro e scoperto per effettuare uno sforzo ritenuto decisivo per il salvataggio di Michele Sindona.
Alcuni dei firmatari, oltre al Bellantonio, sono in termini di intrinseca dimestichezza con Licio Gelli; ciò vale sia per Carmelo Spagnuolo sia per Philip Guarino, che, secondo una corrispondenza in possesso della Commissione, ha con Gelli un rapporto di mutua ed operante amicizia.
Appare dagli atti il ruolo centrale assunto da Licio Gelli che è il regista attivo di questa operazione, segno concreto di un non effimero legame tra i due personaggi, che prosegue sino al sequestro di Castiglion Fibocchi nel quale Michele Sindona, come abbiamo visto nel capitolo secondo, gioca un ruolo non secondario.
I contatti ed i legami tra questi ambienti si intrecciano in un contesto che assume, a motivazione delle malversazioni e delle attività economiche fraudolente poste in essere, finalità politiche di ordine più elevato. Così ad esempio le dichiarazioni di John Me Caffery senior (già capo del controspionaggio inglese in Italia e membro del Consiglio di amministrazione della Banca privata italiana) quando dichiara che esisteva un più nobile collegamento tra i gruppi che «condividevano le sane idee occidentali nel tentativo di opporsi alla diffusione del comunismo in Europa» e di conseguenza erano orientati a favorire l'ascesa di personaggi aventi la medesima ideologia, da situare nei punti chiave dei settori economici per influenzare, per questa via, l'andamento politico generale.
Quando si pensi ai corposi collegamenti tra tali settori ed ambienti di malavita comune a livello internazionale, non si può non rilevare che l'identificazione delle « sane idee occidentali » con questi ambienti risulta quanto meno problematica e che il sistema capitalista occidentale, quando fisiologicamente funzionante, dispone di ben altri strumenti per garantire la propria autonomia.
È comunque avendo riguardo a questi ambienti che deve essere vista e spiegata l'ascesa di Sindona e l'azione da questi esplicata per acquisire sia la finanziaria « La Centrale » sia, unitamente al generale Sory Smith, già capo del gruppo consultivo di assistenza militare USA in Italia, la proprietà del Rome Daily American.
Nella stessa prospettiva va quindi collocato il mutamento operativo che si determinò allorquando il fallimento dell'offerta pubblica di acquisto per il controllo della « Bastogi » (13.9.1971/8.11.1971) fece emergere una resistenza a queste operazioni di infiltrazione più estesa di quanto fosse stato possibile immaginare e rese necessaria una loro più accurata preparazione. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano, l’alta finanza del Venerabile Maestro. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 25 ottobre 2023
Non vanno peraltro trascurati anche altri interventi con identici fini, anche se di portata minore, che la Loggia P2 pone in essere sia tramite il Banco Ambrosiano sia tramite altre banche ove alcuni operatori (Genghini, Fabbri, Berlusconi, ecc.), trovano appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Quando Sindona in conseguenza di tali eventi trasferisce la sua attività nei paesi al di là dell'Atlantico, in Italia cresce e si afferma Roberto Calvi, nominato direttore generale del Banco Ambrosiano nel 1971, che ne acquisice l'eredità oltre che la tutela condizionante di Gelli e Ortolani. La nuova strategia prende il via con il trasferimento (1972) della quota di controllo de «La Centrale» alla «Compendium SA. Holding» finanziaria del Banco Ambrosiano che nel 1976 muterà nome in «Banco Ambrosiano Holding — Lussemburgo».
Si viene così a realizzare tra Calvi e Sindona un modulo operativo che, all'estero, era gestito unitamente a Sindona e che in Italia era articolato in diversi comparti (bancari, assicurativi, finanziari) sempre più complessi ed intrecciati man mano che si accresceva la fiducia in Calvi dei più importanti gruppi economici. Per quest'ultimo aspetto un ruolo di rilevante importanza è stato svolto da Umberto Ortolani il cui ingresso nella Loggia P2 rappresentò l'acquisizione all'organizzazione di un elemento dotato di una vasta rete di relazioni personali di grande prestigio, sia nel mondo politico che negli ambienti della curia vaticana, e di quella competenza nel campo finanziario che si rivelerà necessaria nella seconda fase di sviluppo delle attività gelliane e della Loggia Propaganda.
In effetti proprio mentre Sindona viene estromesso definitivamente dall'Italia, e poi arrestato, si estende e si rafforza la rete P2 nel settore degli affari e Calvi diventa il principale braccio operativo nel settore finanziario per tutte le necessità previste dai programmi della loggia. Il «gruppo Ambrosiano» assume così una struttura particolarmente funzionale per far da tramite ad ogni tipo di transazione, articolandosi in Italia ed all'estero in una serie di società bancarie e finanziarie i cui principali affari erano ordinati e seguiti da un univoco centro ma parcellizzati in diversi segmenti operativi in modo da impedire spesso agli stessi esecutori materiali la percezione del quadro complessivo.
Non è ancora disponibile (e forse non lo sarà mai) una visione completa delle operazioni poste in essere da tale struttura ma possono comunque essere identificate due grandi linee direttrici di intervento che attengono, da un lato, alla necessità di conservare saldamente il controllo dello strumento così predisposto e, dall'altro, all'utilizzo, per ben precisi fini, dello strumento stesso.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il dissesto del Banco Ambrosiano ha messo chiaramente in evidenza le coperture, gli accordi, gli interventi effettuati per mantenere e rafforzare le posizioni di comando in questa banca. La rilevante quantità di azioni « Ambrosiano » risultate in Italia ed all'estero di pertinenza del Banco stesso, è la testimonianza di un'attenta acquisizione che consentiva di spostare dall'Italia all'estero, e viceversa, ingenti disponibilità mascherando tali movimenti come operazioni di compravendita di titoli per le quali ignoti intermediari fruivano di consistenti provvigioni.
L'azione così sviluppata permetteva anche di conseguire l'effetto non secondario di coinvolgere in traffici illeciti numerosi operatori che, una volta intervenuti a fare da schermo a tali irregolari transazioni, si ponevano nelle condizioni idonee per essere ricattati ed utilizzati. L'esempio tipico di intrecci di transazioni improntate a tali finalità è costituito dagli interventi effettuati per l'acquisizione della maggioranza delle azioni del Credito Varesino, un istituto di credito che il «gruppo Bonomi» aveva ceduto parte in Italia a «La Centrale» e parte all'estero alla CIMAFIN (società appartenente al gruppo Sindona) che a sua volta le avrebbe poi cedute a finanziarie gestite dalla Banca del Gottardo, controllata dall'Ambrosiano.
Tutte queste operazioni vengono seguite da vicino dalla Loggia P2, poiché presso Gelli viene poi rinvenuta copia dell'accordo stipulato all'estero tra il «gruppo Bonomi» e la CIMAFIN con la descrizione di tutti i passaggi effettuati tramite apposite società-strumento (Zitropo e la Pacchetti), nonché dei collegamenti esistenti fra Calvi e Sindona e dei movimenti finanziari verificatisi nella circostanza.
In questo contesto i massimi esponenti della loggia, come si evince dalla documentazione rinvenuta a Castiglion Fibocchi, potevano svolgere un ruolo di mediazione tra i diversi interessi e di composizione degli eventuali contrasti (esemplari appaiono i documenti concernenti i patti stipulati tra Calvi, il «gruppo Bonomi» ed il «gruppo Pesenti») indirizzando nel contempo gli interventi finanziari degli operatori che dovevano fornire i mezzi per «permettere ad uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie» per il controllo delle formazioni politiche in cui ognuno militava.
L'azione di Gelli ed Ortolani, quindi, di pari passo con il potenziamento della struttura strumentale rappresentata dal «gruppo Ambrosiano», acquista connotazioni più precise e, all'estero, favorisce l'espansione di istituzioni finanziarie collegate alla loggia nei paesi del Sudamerica caratterizzati da regimi a spiccato orientamento conservatore, mentre in Italia viene pilotato, con Gelli in posizione centrale, il tentativo di salvataggio di Sindona, evitando peraltro il coinvolgimento in questa operazione della struttura Ambrosiano. Scelta questa che costituisce il segno più evidente di come gli ambienti che gravitano intorno alla loggia, già collegati con il finanziere siciliano, ritenessero la struttura costituita intorno all'Ambrosiano destinata ad altre finalità.
In effetti era in pieno sviluppo l'operazione più importante, sia per valenza politica sia per coinvolgimento di vari gruppi, che la Loggia P2 avesse posto in essere: l'acquisizione e la gestione del «gruppo Rizzoli», di cui viene effettuata un'analisi a parte. Il ruolo di Calvi, in tale vicenda, appare infatti fondamentale poiché, a fronte del deteriorarsi della situazione generale e del progressivo ridimensionamento del sostegno creditizio fornito a quel gruppo da altre banche, il gruppo Ambrosiano risulta infine assumere il ruolo di unico ed insostituibile appoggio.
Non vanno peraltro trascurati anche altri interventi con identici fini, anche se di portata minore, che la Loggia P2 pone in essere sia tramite il Banco Ambrosiano sia tramite altre banche ove alcuni operatori (Genghini, Fabbri, Berlusconi, ecc.), trovano appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio.
Molti degli istituti bancari, ai cui vertici risultavano essere personaggi inclusi nelle liste P2, non hanno effettuato in merito opportune indagini, ma l'esistenza di una vasta rete di sostegno creditizio per le operazioni interessanti la loggia risulta provata dalla già citata inchiesta portata a termine dal Collegio sindacale del Monte dei Paschi di Siena.
Ovviamente i cointeressati a questa rete di collegamenti e complicità al momento opportuno dovranno offrire adeguato aiuto, come risulta evidente dai movimenti finanziari che l'ENI (dove alcuni iscritti avevano posizioni di assoluto dominio operativo) effettua a partire dal 1978 tramite la sua struttura estera (Tradinvest, Hidrocarbons, ecc.), per evitare che gli accertamenti ispettivi presso il Banco Ambrosiano rivelassero gli oscuri e significativi travasi di fondi avvenuti dall'Italia verso l'estero.
Sono dello stesso segno, del resto, i misteriosi passaggi concernenti una parte dei titoli «Credito Varesino», a cui abbiamo già accennato, per evidenziare accordi che hanno visto una partecipazione corale di alcuni protagonisti P2. Si fa qui riferimento all'intervento della Bafisud Corporation S. A. di Panama (finanziaria legata al Banco Financeiro Sudamericano di Montevideo facente capo alla famiglia Ortolani), che acquista con un finanziamento dell'Ambrosiano Group Commercial n. 4.500.000 azioni del Credito Varesino di proprietà de «La Centrale» consentendole di realizzare 26,6 miliardi di lire ed un utile di oltre 10 miliardi rispetto all'esborso a suo tempo sostenuto per l'acquisto.
Tutta l'operazione viene effettuata tramite il Banco Ambrosiano in Italia, dove i titoli rimangono in deposito e quando gli stessi verranno rivenduti (1982) procureranno a misteriosi beneficiari utili all'estero per circa 45 miliardi. La sostanziale strumentalità del gruppo Ambrosiano risulta infine evidente allorquando Gelli ed Ortolani sono costretti ad abbandonare le scene della finanza italiana: Calvi, eccessivamente compromesso, viene abbandonato dai suoi protettori ed il gruppo è avviato al tracollo.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Il “Gruppo Rizzoli”, gli affari internazionali e il controllo della stampa. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 26 ottobre 2023
Vengono effettuati interventi di sostegno o di acquisizione di numerose testate a carattere locale (Il Mattino, Sport Sud, Il Piccolo, L'Eco di Padova, Il Giornale dì Sicilia, Alto Adige, L'Adige, Il Lavoro) nell'ambito di un processo di collegamento con il Corriere della Sera, teso a costituire un compatto mezzo di pressione destinato a raggiungere il maggior numero di lettori ed influenzare così, in senso moderato e centrista, l'opinione pubblica
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Nel contesto della nuova tattica adottata dalla Loggia P2 a partire dalla seconda metà degli anni settanta, un posto di rilievo occupa l'operazione di infiltrazione e di controllo del gruppo Rizzoli, emblematica delle modalità operative della loggia. In presenza di una impresa che il presidente della Montedison, Eugenio Cefis, aveva coinvolto nell'acquisizione della società editoriale del Corriere della Sera — nel quadro delle lotte di potere sviluppatesi in quegli anni tra diversi gruppi politici ed economici — la Loggia P2 intravede la possibilità di mettere in atto una operazione che la nuova situazione politica rendeva opportuna e che s'inquadra nelle previsioni del piano di rinascita democratica a proposito della stampa.
È infatti disponibile una struttura da utilizzare per il «coordinamento di tutta la stampa provinciale e locale» ... «in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese»; e le condizioni sono ideali in quanto il gruppo Rizzoli: a) è gestito come azienda a carattere familiare, con esponenti non sempre all'altezza del loro ruolo imprenditoriale; b) risulta proprietario di un quotidiano di grandi tradizioni ma appesantito da una difficile situazione finanziaria; e) si trova sotto la morsa dei finanziamenti — tra i quali, di particolare rilievo alcuni concessi dalla Banca Commerciale Italiana alla cui guida era Gaetano Stammati (iscritto alla Loggia P2) —- che erano stati necessari per l'acquisto dell'editoriale del Corriere della Sera; acquisto che risultava per certi versi ancora, solo formale in quanto erano saldamente nelle mani dei finanziatori i pacchetti di controllo delle società figuranti proprietarie della testata.
La Loggia P2, quindi, verso la fine del 1975 si serve di Calvi per coinvolgere il «gruppo Rizzoli» anche in operazioni di sostegno dell'assetto proprietario del Banco Ambrosiano e da quel momento utilizza per le proprie finalità il gruppo editoriale indirizzandone le scelte operative e le iniziative imprenditoriali mediante una manovra di condizionamento finanziario destinata a diventare sempre più soffocante e senza uscita in relazione al crescere dei debiti e dei costi. Si sviluppano così le operazioni «Savoia», «Globo Assicurazioni», «Rizzoli Finanziaria», «Banca Mercantile», «Finrex» e molte transazioni finanziarie dai risvolti oscuri in merito alle quali sono in corso indagini a cura dell'autorità giudiziaria per accertare i definitivi beneficiari di «premi» e «tangenti» distribuiti, attraverso il «gruppo Rizzoli», sotto la regia Gelli ed Ortolani.
Nello stesso tempo vengono effettuati interventi di sostegno o di acquisizione di numerose testate a carattere locale (Il Mattino, Sport Sud, Il Piccolo, L'Eco di Padova, Il Giornale dì Sicilia, Alto Adige, L'Adige, Il Lavoro) nell'ambito di un processo di collegamento con il Corriere della Sera, teso a costituire un compatto mezzo di pressione destinato a raggiungere il maggior numero di lettori ed influenzare così, in senso moderato e centrista, l'opinione pubblica.
Nel progetto della loggia le imprese Rizzoli assolvono quindi una duplice funzione: da un lato sono utilizzate quali strumenti operativi per fare da sponda ad operazioni finanziarie condotte nell'interesse di affiliati unitamente ad esborsi corruttivi; dall'altro rappresentano il polo aggregativo di un sempre maggior numero di testate che, facendo perno sul Corriere della Sera, si sviluppa con interventi partecipativi in imprese editrici di quotidiani a carattere locale.
I mezzi finanziari per entrambi tali funzioni non mancano, in quanto la rilevante presenza nel mondo delle banche consente di non lesinare gli appoggi per superare ogni problema contingente e per consolidare la posizione di comando all'interno del «gruppo Rizzoli».
Un passaggio significativo a tale riguardo è costituito dall'intervento operato nel 1977 per far fronte all'impegno assunto nei confronti del «gruppo Agnelli» all'atto dell'acquisto del Corriere della Sera, nonché per rimborsare alla Montedison e alla Banca Commerciale Italiana (alla cui guida non erano più rispettivamente Eugenio Cefis e Gaetano Stammati) gran parte dei fondi che a suo tempo erano stati messi a disposizione per la stessa finalità.
La Commissione ha in proposito effettuato una approfondita operazione di polizia giudiziaria, condotta con la collaborazione del nucleo operativo della Guardia di finanza di Milano, volta ad accertare la reale situazione proprietaria della Rizzoli e la natura della presenza in essa della Loggia P2. È stata così accertata una convergenza di interventi che, sotto la regia di Gelli e di Ortolani, coinvolgono il banchiere Calvi, le banche del «gruppo Pesenti» ed altre istituzioni, per la realizzazione di un meccanismo teso a stabilizzare il completo controllo del gruppo mantenendo fermo lo schermo costituito dagli esponenti della famiglia Rizzoli.
La struttura estera del Banco Ambrosiano fornisce infatti gli ingenti capitali ($ 11,8 milioni) necessari per rimborsare un a parte dei finanziamenti concessi dalla Banca Commerciale Italiana, mentre in Italia si realizza quel collegamento Banco Ambrosiano-IOR destinato a fornire alla Rizzoli Editore i fondi per completare l'operazione Corriere della Sera. Le banche del gruppo Ambrosiano concedono infatti un finanziamento per 22,5 miliardi di lire alla Rizzoli Editore che utilizza i fondi ricevuti per estinguere il predetto debito nei confronti del « gruppo Agnelli ». Le banche finanziatrici, a fronte del loro intervento, acquisiscono in pegno sia il 51 per cento del capitale della « Rizzoli » sia l'intero pacchetto azionario della società (Viburnum S.p.A.) proprietaria di un terzo della «Editoriale del Corriere della Sera S.a.s.».
Nello stesso tempo si realizza l'aumento di capitale della «Rizzoli Editore S.p.A.» con il quale vengono resi disponibili fondi per 20,4 miliardi di lire utilizzati per rimborsare in gran part e i finanziamenti erogati dal gruppo Ambrosiano. Giusta la ricostruzione effettuata a seguito degli accertamenti posti in atto dalla Commissione, tutta l'operazione di aumento di capitale si concretizza: a) con fondi provenienti dall'Istituto Opere di Religione che utilizza a tal fine disponibilità esistenti a suo nome presso diverse banche; b) con l'intestazione meramente formale ad Andrea Rizzoli di tali nuove azioni nel libro soci della «Rizzoli Editore S.p.A.»; in realtà le azioni stesse erano state già girate a favore dello IOR ed al momento della seconda operazione di ricapitalizzazione della «Rizzoli» (1981) una delle condizioni previste sarà proprio la lacerazione dei titoli che riportavano le tracce di questo passaggio di proprietà; e) con il deposito di tali azioni presso una commissionaria di borsa («Giammei & C. S.p.A» di Roma) avente palesemente funzioni fiduciarie; d) con un impegno — formalmente assunto da una banca («Credito Commerciale S.p.A») appartenente all'epoca al «gruppo Pesenti» — di trasferire ad appartenenti alla famiglia Rizzoli le dette azioni al realizzarsi di determinate condizioni. Tra queste le più significative risultavano essere l'impossibilità di procedere a tale trasferimento prima del 1° luglio 1980 e la variabilità del prezzo da corrispondere per il riscatto.
Dalla disamina della complessa articolazione degli accordi viene così in evidenza la funzione meramente di facciata della famiglia Rizzoli che, da un punto di vista regolamentare, viene sancita con la previsione, per ogni decisione assunta nell'ambito del Consiglio di amministrazione della «Rizzoli», di un diritto di veto a favore dei consiglieri entrati dopo l'attuazione dell'aumento di capitale.
Utilizzando Calvi come supporto bancario e sfruttando bene l'influenza esercitata su Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, Gelli ed Ortolani (quest'ultimo entra nel 1978 nel consiglio di amministrazione della «Rizzoli») cominciano quindi dal 1977 a gestire il gruppo editoriale.
COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
E alla fine Licio Gelli va alla conquista del “Corriere della Sera”. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 27 ottobre 2023
Per quanto riguarda più specificamente il Corriere della Sera, diventa più stretto il controllo con la nomina a direttore del dottor Di Bella, voluta esplicitamente da Gelli ed Ortolani in sostituzione del dimissionario Ottone. Si sviluppa da questo momento un sottile e continuo condizionamento della linea seguita dal quotidiano...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Per quanto riguarda più specificamente il Corriere della Sera, diventa più stretto il controllo con la nomina a direttore del dottor Di Bella, voluta esplicitamente da Gelli ed Ortolani in sostituzione del dimissionario Ottone.
Si sviluppa da questo momento un sottile e continuo condizionamento della linea seguita dal quotidiano come posto in evidenza dal Comitato di redazione e di fabbrica che, attraverso una disamina degli articoli pubblicati in quegli anni, ha sottolineato come possa essere difficilmente contestabile un'influenza esplicata con l'emarginazione di giornalisti scomodi, con servizi agiografici ben mirati e con l'attribuzione di scelti incarichi a persone appartenenti alla loggia.
L'ampia analisi effettuata in proposito dal comitato evidenzia una linea di tendenza che si sviluppa con una pressione continua la quale, pur contrastata sempre dalla professionalità dei giornalisti, riesce spesso ad orientare alcuni servizi per dare spazio a persone di «area» o per lanciare oscuri messaggi o per evitare inchieste approfondite su alcune vicende, come risulterà evidente per i servizi concernenti i paesi sudamericani.
In America Latina, del resto, con il sostegno finanziario di Calvi e con l'intervento di Ortolani e di Gelli (quest'ultimo formalmente rappresentante del «gruppo Rizzoli» presso le autorità governative dei paesi esteri) la Loggia P2 stava estendendo la propria rete d'influenza acquisendo dal gruppo editoriale «Avril», e con l'appoggio dei generali in carica in Argentina, una catena di giornali a larga diffusione.
Per quanto riguarda più specificatamente la linea seguita dal gruppo in ordine alle vicende politiche italiane l'attenzione va riportata con particolare rilievo al 1979 allorquando uomini della loggia tentano di utilizzare le tangenti connesse con il contratto di fornitura di petrolio tra l'Eni e la Petromin per acquisire adeguati mezzi finanziari destinati a colmare il deficit della gestione del «gruppo Rizzoli».
In ordine alla cennata vicenda sono ancora in corso le indagini a cura di una apposita Commissione parlamentare ma è indubbio che Gelli ed Ortolani erano perfettamente a conoscenza di tutti i risvolti della transazione. A Castiglion Fibocchi è stata infatti rinvenuta copia del contratto stipulato tra l'AGIP e la Petromin, la richiesta avanzata dall'AGIP al Ministero del commercio estero per ottenere l'autorizzazione a pagare la tangente alla Sophilau, il diario predisposto dal ministro Stammati per puntualizzare fino al 21 agosto 1979 gli sviluppi della vicenda nonché un appunto su tutte le circostanze rilevate, predisposto sotto forma di un articolo da pubblicare.
Ortolani, del resto, il 14 luglio 1979 aveva prospettato al segretario amministrativo del PSI, senatore Formica — il quale denunciò il fatto ai ministri competenti — la possibilità di erogazione di fondi, in connessione degli acquisti di petrolio da parte dell'Eni, per interventi nel settore dei mass-media. Segno evidente dell'interessamento della loggia alla vicenda fu poi l'attacco a fondo condotto contro il ministro per le partecipazioni statali, Siro Lombardini, per il quale il Corriere della Sera arrivò a chiedere le dimissioni, con un fondo in prima pagina che si distingueva per la violenza dei toni oltre che per la richiesta in sé, certo non usuale rispetto alla misurata prudenza propria della testata milanese.
L'insuccesso del tentativo, anche per la ferma opposizione di alcuni esponenti socialisti, determina la ricerca di nuove soluzioni mentre lo schermo «Rizzoli» viene utilizzato per patti con altri gruppi (accordo Rizzoli-Caracciolo) o per tentativi di acquisizione di altre testate (giornali del «gruppo Monti») con l'intervento di Francesco Cosentino.
Questa situazione induce ad un tentativo impostato alla finalità di allentare la dipendenza del gruppo editoriale da una sola banca che non può fronteggiare, senza pericolosi contraccolpi, oneri così elevati ed evidenti.
Sin dai primi mesi del 1980 Gelli, Ortolani e Tassan Din cominciano quindi a studiare le varie possibilità per reperire nuovi fondi sotto forma di partecipazione al capitale, senza comunque far perdere alla loggia il controllo del gruppo.
I vari progetti che vengono via via studiati ruotano sempre, come ampiamente rilevabile dalla documentazione rinvenuta presso Gelli, intorno a questi princìpi fondamentali e si concretizzano nel giugno del 1980 per essere formalmente esposti in una «convenzione» firmata da Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din, Roberto Calvi, Umberto Ortolani e Licio Gelli.
È questo il documento più rappresentativo dell'intera vicenda che consente la identificazione delle finalità del progetto e dei diversi ruoli svolti da ciascuno dei protagonisti. Il documento ritrovato tra le carte di Castiglion Fibocchi consta di otto cartelle, ognuna siglata dai protagonisti dell'operazione. La Commissione, attesa l'importanza, ha verificato tramite apposita perizia, che ha dato esito positivo, l'autenticità delle sigle, riconosciute peraltro anche da Rizzoli e Tassan Din.
Alla base di tutta la costruzione finanziaria viene innanzitutto posta la necessità che solo il più vulnerabile dei rappresentanti di facciata (i componenti della famiglia Rizzoli) partecipi alla fase operativa.
Ad Angelo Rizzoli è quindi fatto carico, con adeguato compenso, di concentrare a suo nome tutti i diritti concernenti la parte di azioni dell'azienda capo-gruppo (20 per cento del capitale) che, pur soggetta a vincoli e condizionamenti attuati tramite l'interposizione fittizia di banche estere, figurava ancora di pertinenza della famiglia Rizzoli.
Il successivo passaggio prevede poi la suddivisione del capitale azionario in quattro pacchetti di cui due assorbenti ciascuno il 40 per cento del totale mentre il residuo capitale era ripartito in altre due quote diseguali (10,2 per cento e 9,8 per cento).
Per ognuna delle suddette parti erano stabilite diverse modalità di gestione con l'intervento di Angelo Rizzoli per una di esse (40 per cento) e con l'interposizione di società-schermo per le altre tre. A questa fase avrebbe forse dovuto far seguito, almeno secondo quanto si può evincere dalla qualifica di intermediarie attribuita alle società-schermo, un ulteriore passaggio di azioni incentrato sulla successiva cessione di una parte del capitale (49,8 per cento), mentre la quota di maggioranza (50,2 per cento) rimaneva di pertinenza di una struttura che legava tra loro stabilmente (almeno per dieci anni) sia la quota intestata ad Angelo Rizzoli che il pacchetto di azioni pari al 10,2 per cento del capitale: in questa struttura pertanto la quota del 10,2 per cento veniva ad assumere valore determinante ai fini del controllo della società.
La schematica rappresentazione degli accordi stilati tra gli esponenti della loggia relativamente all'assetto della proprietà del «gruppo Rizzoli » — articolato su interventi finanziari comportanti in Italia ed all'estero complesse trasformazioni di ragioni creditorie in proprietà azionarie e che prevedevano la erogazione di una « tangente » (in contanti e/o in azioni) pari a lire 180 miliardi — consente comunque di far risaltare la funzione della loggia, che si pone come elemento centrale e determinante per ogni singolo passaggio della operazione.
Non risulta infatti tanto rilevante l'azione svolta dai vari protagonisti ma si afferma ed emerge piuttosto in tutto il suo ruolo l'Istituzione, così indicata nel doctimento, in rappresentanza della quale alcuni dei partecipanti firmano il «pattone». È l'Istituzione la sola arbitra dell'attuazione delle varie fasi operative «tenuto conto delle alte finalità del progetto», è l'Istituzione che sceglie le società intermediarie, è l'Istituzione che, con la interposizione fittizia di apposita società, acquisisce la proprietà della quota cardine, pari al 10,2 per cento del capitale, che domina anche la parte (40 per cento) figurante a nome di Angelo Rizzoli. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
L’intervista di Costanzo al fratello muratore, la P2 si presenta all’Italia. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2 su Il Domani il 28 ottobre 2023
Questa vicenda segna forse il punto più alto toccato dalla loggia che ritiene opportuna una adeguata pubblicizzazione del ruolo assunto e dell'importanza raggiunta: ed in questa ottica possono essere valutati i proclami, le valutazioni, gli avvertimenti che Gelli esprime nella intervista rilascia il 5 ottobre 1980 al Corriere della Sera («Il fascino discreto del potere nascosto»)
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi
Questa vicenda segna forse il punto più alto toccato dalla loggia che ritiene opportuna una adeguata pubblicizzazione del ruolo assunto e dell'importanza raggiunta: ed in questa ottica possono essere valutati i proclami, le valutazioni, gli avvertimenti che Gelli esprime nella intervista rilascia il 5 ottobre 1980 al Corriere della Sera («Il fascino discreto del potere nascosto») che viene adeguatamente divulgata a cura dei «fratelli» operanti nel settore della carta stampata suscitando nuove adesioni e qualche preoccupazione.
Da un punto di vista operativo il progetto delineato procede con l'intervento di Calvi, che dalla struttura estera del Banco Ambrosiano attinge gli strumenti finanziari necessari per la realizzazione di una prima parte degli accordi.
La conclusione viene per altro affrettata a seguito del sequestro di Castiglion Fibocchi: risulta infatti incompiuta l'opera di consolidamento al nome di Angelo Rizzoli di tutta quella parte del capitale (20 per cento) su cui altri membri della famiglia vantavano ancora qualche diritto.
In buona sostanza, però, la esiguità (3,5 per cento) dei titoli non ancora sotto il pieno ed incontrollato dominio della loggia convince i protagonisti a passare alla fase successiva, che vede l'affidamento in Italia ad una società del gruppo Ambrosiano («La Centrale Finanziaria S.p.A.»), del ruolo di intestataria di un pacchetto azionario pari al 40 per cento del capitale azionario mentre ad un'altra società appositamente creata («Fincoriz S.a.s.» di Bruno Tassan Din) risultano destinate le azioni di spettanza dell'Istituzione (10,2 per cento).
Gli accordi formali resi pubblici nella circostanza prevedevano un onere a carico de «La Centrale», correlato alla quantità di fondi necessari per portare a termine il complesso dell'intera operazione, per la parte di azioni circolanti in Italia (aumento di capitale, rimborso di precedenti prestiti, spese, ecc.). Alla fine, infatti, «La Centrale» si troverà ad aver erogato per l'intera operazione di aumento di capitale la somma di L. 177 miliardi che per L. 35 miliardi perverranno all'Istituto Opere di Religione a fronte dell'80 per cento del capitale a suo tempo ceduto (al netto di un fondo spese di L. 4 miliardi) e per la parte residua saranno versati alla Rizzoli, venendo a coprire le quote di pertinenza de «La Centrale» stessa (L. 61,2 miliardi per il 40 per cento), di Angelo Rizzoli (L. 61,2 miliardi per il 40 per cento) e della Fincoriz (L. 15,2 miliardi per il 10,2 per cento). Agli oneri sostenuti in Italia dal gruppo Ambrosiano tramite «La Centrale» vanno peraltro aggiunti quelli accollati alle banche estere del gruppo le quali, al momento del dissesto, risulteranno aver erogato sia in relazione a ristrutturazione di crediti precedenti sia per esborsi a favore di Gelli, Ortolani e Tassan Din fondi per $ 184 milioni in connessione alle complessive operazioni di aumento di capitale.
Quest'ultimo credito — che risulterà poi formalmente di pertinenza del Banco Ambrosiano Andino nei confronti di una società («Bellatrix S.a.») assistita da una «lettera di patronage» rilasciata dall'IOR — apparirà garantito da una parte (3,5 per cento) delle azioni «Rizzoli Editore» circolanti all'estero.
Il delicato meccanismo così messo in piedi riceve comunque duri colpi con l'arresto di Calvi e con l'opposizione del ministro del tesoro Andreatta, che ostacola la realizzazione dell'intervento de «La Centrale» e ne condiziona l'operato impedendo la conclusione della terza fase (ingresso di nuovi soci) ed avviando così tutta la struttura all'inevitabile, successivo dissesto.
L'intreccio di ambienti finanziari (e non) e lo sviluppo di operazioni che abbiamo delineato sollecitano riflessioni di più generale portata in ordine ai meccanismi sui quali si innestano operazioni finanziarie sui capitali di tipo prettamente speculativo e sul loro collegamento a centri di potere non solo economico.
Sono problemi questi la cui analisi approfondita trascende l'ambito di interessi del presente lavoro; quello peraltro che appare certo è che sarebbe ipocrita chiedersi quali collegamenti e di quale natura esistano tra situazioni quali la Loggia P2 e vicende finanziarie come quelle studiate, ignorando o fingendo di ignorare che il legame tra le due tipologie non può restringersi a contatti accidentali ed interessati tra ambienti al margine della legalità, ma nasce sotto il segno della intrinseca e reciproca necessità.
La seconda osservazione che emerge dalla precedente narrativa è quella che è a metà degli anni settanta che sembra verificarsi la saldatura concreta ed in termini operativi del gruppo Gelli-Calvi-Ortolani.
Gelli che si è battuto per aiutare Sindona, il cui tramonto è ormai inarrestabile, eredita nella sua orbita di influenza il Calvi con una scelta ed una scansione di tempi e di avvenimenti che lascia pensare più ad una successione programmata che ad una semplice coincidenza. Che tutto questo avvenga contemporaneamente alla formulazione del piano di rinascita democratica è argomento di riflessione che verrà sviluppato diffusamente nel capitolo quarto relativo al progetto politico della Loggia P2, ma che è quanto mai opportuno sottolineare già in questa sede.
L'esame delle vicende finanziarie e lo studio della loro articolazione ci mostrano inoltre la convergenza attraverso la Loggia P2, di gruppi ed ambienti disparati, portatori di interessi anche non omogenei.
L'eterogeneità di tali situazioni è del resto ben rappresentata dalla composita articolazione del personale iscritto alla loggia, della quale le liste di Castiglion Fibocchi sono evidente esempio. È dato infatti rilevare come la Loggia P2 annoveri tra i suoi iscritti persone di varia provenienza, spesso anche collocate su versanti apparentemente opposti; sono così contemporaneamente nella loggia, come ha notato il Commissario Covatta, coppie di nemici celebri, come il generale Miceli e il generale Maletti e, per restare nel campo degli affari, Mazzanti e Di Donna, notoriamente avversari nell'ultimo periodo di presenza all'Eni.
Soccorre a questo proposito il rilievo contenuto nel piano di rinascita democratica sulla eterogeneità dei componenti della loggia prevista come elemento connotativo dell'organizzazione.
Un dato questo che ci mostra la funzione strumentale della loggia presso chi dell'operazione aveva il controllo generale, e cioè il suo Venerabile Maestro, che appunto dalla eterogeneità dei componenti traeva uno dei non secondari motivi del suo potere, in quella logica di contatti verticali tra la base ed il vertice che, come abbiamo visto, è caratteristica strutturale della Loggia P2.
La loggia stessa in questa prospettiva ci appare come una sorta di camera di compensazione, della quale sono testimonianza eloquente gli accordi finanziari di vario tipo trovati tra le carte di Castiglion Fibocchi; si comprende allora il valore che poteva assumere nel mondo finanziario un centro di mediazione di interessi diversi così costituito e così protetto e risalta appieno il ruolo che in tale contesto veniva assegnato al Venerabile Maestro della loggia.
Emblematica in tale senso è la gestione del «gruppo Rizzoli» nella quale non solo questo articolato stato di cose trova significativa ed esemplare applicazione, ma che altresì ci consente di pervenire ad alcune importanti conclusioni in ordine al rilievo politico assunto dalla loggia ed all'ampiezza di respiro dei suoi progetti e delle sue ambizioni.
L'analisi dell'assetto proprietario del Corriere della Sera ci conduce a risultati conoscitivi che fugano ogni dubbio residuo sulla proponibilità di tesi di taglio riduttivo, quando si voglia comprendere e valutare nel suo significato reale un fenomeno quale quello costituito dalla Loggia P2 e dalle attività che in essa e tramite essa venivano progettate e gestite da gruppi e forze anche disparate, ma unificate dalla convergenza di interessi su situazioni determinate.
Il dato dell'acquisizione del Corriere della Sera nell'orbita di influenza della Loggia Propaganda denuncia una inequivocabile connotazione di rilevanza politica e letto in parallelo al dato precedentemente enucleato sull'ambiguo rapporto che lega Gelli agli ambienti dei Servizi segreti lascia intravvedere le linee generali di un allarmante disegno generale di penetrazione e condizionamento della vita nazionale.
Se le ombre e le zone di ambiguità sono ancora molte, e solo in parte sarà possibile farvi luce, quello che emerge con nitida chiarezza all'attenzione dell'osservatore è che un siffatto fenomeno assurge a questione di rilievo politico primario, come altrimenti non potrebbe non essere, per il coinvolgimento di attività e funzioni non solo pubbliche in senso stretto, ma altresì rilevanti per l'interesse della collettività, secondo la precisazione contenuta nell'articolo 1 della legge istitutiva di questa Commissione. COMMISSIONE PARLAMENTARE P2
Estratto dell’articolo di Roberto Galullo per 24plus.ilsole24ore.com mercoledì 13 settembre 2023.
Maurizio – figlio del faccendiere e Maestro Venerabile della loggia deviata P2 – in pieno agosto ha calato il poker: ambasciatore del Nicaragua in quattro Paesi. Dopo la Spagna sono arrivati nell'ordine Andorra (27 giugno), Grecia (23 agosto) e, infine la Repubblica Slovacca (30 agosto).
Come se non bastasse, il giorno stesso in cui il 64enne Maurizio Carlo Alberto Gelli, già ambasciatore del Paese sandinista in Uruguay e Canada ha ottenuto il ruolo di ambasciatore plenipotenziario in Grecia, gli è arrivata anche la nomina di rappresentante permanente del Nicaragua presso l’Organizzazione mondiale del turismo, che ha sede a Madrid dal 1975.Una concentrazione di potere che non si esaurisce qui.
Il figlio di Maurizio, Licio Gelli jr, dopo esserne stato il vice, da meno di un anno è ambasciatore del Nicaragua in Uruguay. Un passaggio del testimone con il padre e un filo riannodato con il nonno, il piduista morto il 15 dicembre 2015 ad Arezzo, che proprio in questo Paese vantava possedimenti e potere enormi.
Maurizio Gelli è stato naturalizzato nicaraguense nel 2009 – anche se non ha mai abbandonato la cittadinanza italiana – e da allora il presidente Daniel Ortega Saavadra lo ha nominato a vari incarichi diplomatici […] non si hanno prove che Ortega sia massone, anche se la sua carriera politica è stata fulminata sulla via di Niquinohomo, dove il 18 maggio 1895 nacque Augusto “Cesar” Sandino, capo della resistenza rivoluzionaria nicaraguense contro la presenza militare degli Usa nel Paese latinoamericano.Sandino era un massone di 18° grado e coltivò la sua vita spirituale in Messico. […]
Restano da capire i motivi per i quali la famiglia Gelli è così considerata da Ortega […] e dalla vicepresidente, la moglie Rosario Murillo, figlia di Zoilamerica Zambrana Sandino, una delle nipoti del generale rivoluzionario ucciso nella capitale Managua il 21 febbraio 1934. […]
«Gelli latitante protetto dai Servizi». Il legale racconta la fuga dell’uomo nero. Marc Bonnant è l’avvocato svizzero che ha difeso l’ex venerabile della P2. «Ufficialmente era uno degli uomini più ricercati della storia repubblicana, ma lui era in via Veneto, ossequiato da decine di persone. Ottenuta la libertà provvisoria era scortato dalla polizia». Sabrina Psu da Ginevra su L’Espresso il 7 Aprile 2023
Nella Svizzera che gli ha fatto da «scudo» restano custoditi alcuni dei segreti che Licio Gelli - il finanziatore della strage neofascista di Bologna, secondo i giudici della Corte d’Assise - ha portato con sé, quando è morto il 15 dicembre 2015, a 96 anni, nella sua residenza di Arezzo, Villa Wanda. L’Espresso ha incontrato a Ginevra Marc Bonnant, l’avvocato penalista svizzero che ha difeso l’ex venerabile della loggia massonica P2.
Strage di Bologna, i giudici sono certi: coinvolti la P2 e i servizi segreti. Stefano Baudino su L'Indipendente l’8 aprile 2023.
Alla terribile strage di Bologna del 2 agosto del 1980, in cui rimasero uccise 85 persone, contribuirono i servizi segreti di Federico Umberto D’Amato e la P2 di Licio Gelli. È questa la convinzione dei giudici della Corte d’Assise di Bologna, messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo a carico di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale, ritenuto esecutore materiale del massacro assieme agli estremisti neri Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini.
La Corte parte dalla “constatazione della prova granitica della presenza di Bellini il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna”, il quale “fu ripreso in alcuni fotogrammi di un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer, che si riferiscono ad un momento di pochi minuti successivo alla deflagrazione”. Tale conclusione è autorizzata dall'”avvenuto riconoscimento dell’imputato in termini di certezza da parte di Maurizia Bonini (ex moglie di Bellini, che ha identificato nell’ex coniuge l’uomo ripreso a camminare nell’area del binario 1 della stazione nel filmato registrato pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, Ndr) all’udienza del 21 luglio 2021″.
Da Bellini, però, il discorso si sposta su piani superiori. “Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo – dicono i giudici – che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna‘, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato (ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, iscritto alla P2, Ndr) la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”. Il “Documento Bologna“, ritrovato tra le carte di Gelli nel 1982 e analizzato nel processo ai mandanti della strage di Bologna nel 2021, riporta movimenti finanziari e destinatari per un totale di 15 milioni di dollari, veicolati da Gelli su conti off-shore e poi distribuiti in contanti pochi giorni prima dell’attentato.
I giudici evidenziano che “anche un terrorista della nuova generazione come Fioravanti, nella sua smania di protagonismo, si avvicinò progressivamente ad elementi di spicco del neocostituito gruppo ‘Costruiamo l’Azione‘ come Paolo Signorelli e Fabio De Felice, i quali a loro volta erano strettamente legati ai servizi segreti e a Licio Gelli”. La Corte asserisce che “la prossimità di Fioravanti ai soggetti sopra menzionati, così come i suoi accertati rapporti diretti con Licio Gelli, inducono a ritenere che l’idea di colpire Bologna nacque in quello stesso contesto e fu coordinata da un livello superiore, avvalendosi anche dell’opera dei servizi deviati“. In quella fase, Fioravanti “era considerato sul piano operativo il soggetto più determinato ed incontenibile e, dunque, di fronte all’invito a partecipare ad un’impresa così eclatante, si poteva prevedere che non si sarebbe tirato indietro”. Altri esecutori materiali “furono scelti, probabilmente da figure di vertice dell’eversione nera o forse da esponenti dei servizi, tra personaggi che offrivano garanzie assolute di riserbo, per la loro appartenenza politica o per la loro condizione di latitanza”. A muoversi “dietro a tale macchinazione”, in base a “consistenti indizi”, c’era proprio “Licio Gelli”.
La Corte si sofferma sulle ragioni sottese all’organizzazione dell’attentato, che sono da ricondurre a un chiaro disegno politico. Riprendendo la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha individuato nella strage di Bologna la realizzazione della strategia della tensione ufficialmente aperta con la strage di Portella della Ginestra, i giudici sostengono che tale analogia sia “importante perché consente di cogliere, come e ormai pacifico per quel lontano evento del 1947, un filo nero, che giunge a Bologna, di azioni coordinate e connesse per interferire sui libero e autonomo sviluppo della politica nazionale da parte di forze esterne, generalmente legate agli esiti del secondo conflitto mondiale”. La “causale plurima” della strage trova infatti le sue radici “nella situazione politico-internazionale del paese e nei rapporti tra estremisti neri e centrali operative della strategia della tensione sui finire degli anni Settanta”.
In questa cornice agirono, dunque, “Gelli, la P2, i servizi segreti e quel centro occulto di potere coagulatosi intorno all’ex capo dell’Ufficio affari riservati”. La strage di Bologna, secondo la Corte, ha infatti visto il ruolo di mandanti “nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.
Per i giudici, “anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”. Tra gli obiettivi, vi erano infatti la “necessità di impedire ogni prospettiva di accesso della sinistra al potere in Italia” e “l’attuazione del Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli “attraverso l’impiego misurato della strategia delle bombe”, in un quadro “di guerra psicologica, di provocazione e di preparazione dell’opinione pubblica al taglio delle ali estreme del sistema politico”. [di Stefano Baudino]
Strage alla stazione di Bologna, i giudici: "Prove eclatanti del contributo di Licio Gelli". Ilaria Venturi su La Repubblica il 5 aprile 2023.
Licio Gelli, capo della Loggia P2, morto il 15 dicembre del 2015
Le motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo per Paolo Bellini per la strage del 2 agosto 1980
Il coinvolgimento "eclatante" di Licio Gelli, capo della Loggia P2, nella strage alla stazione di Bologna dove morirono, il 2 agosto 1980, 85 persone e oltre 200 furono i feriti. La prova "granitica" della presenza quel giorno e sui quei binari di Paolo Bellini, ex terrorista di Avanguardia Nazionale. Con un solo obiettivo, esecutori e mandanti: "Ambire a uno Stato autoritario".
Estratto dell'articolo di Maria Elena Gottarelli per “la Repubblica” il 6 aprile 2023.
La «prova eclatante» del contributo di Licio Gelli nell’attuazione della strage di Bologna.
Quella «granitica» della presenza di Bellini in stazione il 2 agosto del 1980. E poi un filo che lega la bomba del 2 agosto a molte altre pagine nere della storia italiana, dall’Italicus a Piazza Fontana, intessendo una trama che ora sembra un po’ meno oscura e un po’ più intelligibile.
Sono tra i punti salienti delle 1.742 pagine con cui la Corte d’Assise di Bologna presieduta da Francesco Caruso motiva la sentenza del processo all’ex terrorista di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado perché identificato come il quinto uomo: colui che insieme a Cavallini, Fioravanti, Mambro e Ciavardini fu esecutore materiale della strage che costò la vita a 85 persone, ferendone 216.
[…]
Innanzitutto si accerta la responsabilità di Licio Gelli […] Poi si definisce il suo ruolo: «Possiamo ritenere fondata l’idea, e la figura di Bellini ne è al contempo conferma ed elemento costitutivo, che all’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel documento Bologna, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in D’Amato Ia figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo ».
Ad emergere è poi l’obiettivo di Gelli e dei servizi segreti deviati dietro al 2 agosto: «L’instaurazione di uno Stato autoritario — si legge — nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse».
Ampio spazio viene poi dato a Bellini. Inchiodato «al binario 1 della stazione subito dopo l’esplosione». A dimostrarlo per la Corte sono un filmato amatoriale girato dal turista Harald Polzer e le dichiarazioni della ex moglie di Bellini, che lo riconosce in quei fotogrammi e afferma che l’ex marito a Rimini non arrivò affatto alle 9 di mattina, come sostenuto, ma verso ora di pranzo. […]
Strage di Bologna, ecco perché Licio Gelli finanziò l’eccidio neofascista. Le carte segrete svelate da L’Espresso
Le motivazioni della condanna del killer nero Paolo Bellini poi reclutato dalla ‘ndrangheta. I giudici confermano i pagamenti del capo della P2: cinque milioni di dollari per la bomba in stazione del 2 agosto 1980. Nuove prove anche sui Nar Giusva Fioravanti e Francesca Mambo e le coperture dei servizi. Paolo Biondani su L’Espresso il 6 Aprile 2023
Licio Gelli organizzò i depistaggi delle indagini sulla strage di Bologna (85 morti, 202 feriti) perché ne era stato il «mandante e finanziatore»: un'accusa che oggi va considerata «un punto fermo». Lo scrivono i giudici della Corte d'Assise nelle oltre 1700 pagine di motivazioni della sentenza che ha condannato in primo grado il quinto presunto esecutore materiale dell'eccidio del 2 agosto 1980, il neofascista Paolo Bellini, poi diventato killer della 'ndrangheta.
Il capo della loggia massonica P2, morto nel 2015, era stato condannato in via definitiva, già nei primi processi, come organizzatore della lunga catena di false operazioni, orchestrate dai vertici piduisti del servizio segreto militare (Sismi) per ostacolare le indagini sui terroristi di destra accreditando fantomatiche piste estere. Depistaggi culminati, nel gennaio 1981, nel clamoroso sequestro di armi ed esplosivi su un treno per Bologna, in realtà collocati dagli stessi ufficiali del Sismi, poi condannati insieme a Gelli. A partire dal 2018 la nuova inchiesta della Procura generale ha ricostruito una serie di finanziamenti collegati alla strage, per almeno cinque milioni di dollari: soldi sottratti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (il banchiere ucciso nel 1982 a Londra) e distribuiti segretamente da Gelli nei giorni cruciali dell'attentato.
Il capo stesso della P2 aveva trascritto il conteggio di quei versamenti in un prospetto contabile, che portava con sé quando fu arrestato nel 1983 in una banca svizzera come principale beneficiario della bancarotta miliardaria dell'Ambrosiano: il cosiddetto «documento Bologna», che i giudici ora definiscono una «precisa ed eclatante prova» che Licio Gelli era «il vertice di una sorta di servizio segreto occulto», che organizzò l'attentato e i successivi depistaggi.
Secondo l'accusa ne faceva parte anche la super-spia Federico Umberto D'Amato, per anni numero uno dell'Ufficio affari riservati, che risulta aver ricevuto almeno 850 mila dollari da Gelli su un conto segreto in Svizzera. Anche D'Amato è morto prima che si scoprissero quei bonifici, tenuti nascosti per quarant'anni, come il documento Bologna.
La condanna all'ergastolo di Paolo Bellini si fonda in particolare sulla «prova granitica della sua presenza alla stazione di Bologna», che l'ex killer neofascista ha sempre negato. A documentarla è un filmato, girato da un turista tedesco, che ritrae un uomo identico a Bellini «mentre cammina sul binario 1, subito dopo l'esplosione». Identificato dalle perizie della polizia scientifica, l'imputato è stato anche «riconosciuto in termini di certezza» dall'ex moglie, che al processo ha testimoniato di aver mentito ai magistrati dell'epoca, affermando falsamente che al momento della strage Bellini fosse con lei a Rimini: ora lei stessa ha «demolito quell'alibi», come osserva la corte.
Bellini è un ex pentito, già condannato per una serie di omicidi di 'ndrangheta, che ha confessato anche di aver ucciso, negli anni Settanta, uno studente emiliano di sinistra. Ha avuto anche rapporti diretti con boss stragisti di Cosa Nostra. Per la bomba alla stazione di Bologna si è sempre proclamato innocente.
La sentenza della corte d'assise di Bologna riconferma anche la colpevolezza dei terroristi dei Nar, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva come esecutori della strage. I giudici evidenziano come le indagini degli ultimi anni hanno fatto emergere nuove prove a loro carico, anche sui rapporti con il capo della P2, che riguardano anche Gilberto Cavallini, armiere, tesoriere e killer della stessa organizzazione neofascista, condannato in primo grado e ora in attesa del processo d'appello.
La sentenza depositata ieri solleva invece gravi dubbi sull'assoluzione di Sergio Picciafuoco, che fu ferito dalla bomba in stazione e si curò sotto falso nome. Alla luce delle nuove prove, spiegano i giudici, quel verdetto «merita di essere rivisto», anche se solo sul piano della verità storica. Picciafuoco infatti è morto nel 2022, dopo un’ultima serie di tempestose deposizioni, e comunque non avrebbe potuto essere processato una seconda volta per la stessa accusa da cui era ormai stato assolto in via definitiva.
Il nuovo verdetto sulla strage di Bologna riconferma anche la genesi ignobile della falsa pista palestinese-tedesca, propagandata anche in questi anni da legioni di disinformatori: all'origine c'è una serie di tangenti pagate da Gelli, dal 1979 al 1980, a un ex senatore del Msi, Mario Tedeschi, anche lui piduista, direttore di una rivista di destra che dopo ogni bonifico pubblicava notizie false su ipotetici attentatori stranieri. Tedeschi non è mai stato indagato: anche lui è morto molto prima che si scoprisse il «documento Bologna» con il suo nome.
Tra i condannati, per reati minori come la falsa testimonianza, c'è anche Domenico Catracchia, l'immobiliarista che secondo l'accusa gestiva una serie di residenze a Roma per il servizio segreto civile (Sisde). Le nuove indagini della procura generale hanno fatto emergere un incredibile intreccio tra apparati statali e terroristi, sia di destra che di sinistra: ora la sentenza conferma che un appartamento in via Gradoli 96, preso in affitto sotto falso nome dal capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti (e usato da altri brigatisti perfino durante il sequestro di Aldo Moro), fu poi diviso in due locali, uno dei quali, dopo la strage di Bologna, diventò il covo dei terroristi dei Nar, ormai ricercati, che lo usarono tra l’altro per preparare l'omicidio di due poliziotti che indagavano sui neofascisti.
Con la bomba alla stazione di Bologna Licio Gelli voleva dominare la nazione. PAOLO MORANDO su Il Domani il 06 aprile 2023 Nella sentenza depositata martedì 5 aprile ci sono nuovi dettagli sulla strage di Bologna: «Si deve essere portati a ritenere plausibile che Fioravanti e gli altri soggetti che parteciparono alla strage siano stati finanziati e coordinati da un livello strategico superiore, nel quale operavano esponenti della loggia massonica P2 e soggetti appartenenti ai servizi segreti».
A giudizio della corte, la chiave della partecipazione dei Nar alla strage sta nei soldi. Provenienti da una oscura movimentazione di milioni di dollari su propri conti correnti da parte di Licio Gelli nelle settimane immediatamente precedenti la strage.
Le prime 400 pagine delle motivazioni, che tracciano un ampio quadro della “strategia della tensione” avviata con la strage di piazza Fontana e in cui va inscritta anche la bomba alla stazione, non va letta come una molla scatenante di un ipotetico colpo di stato.
Dagospia il 26 febbraio 2023. “COSTANZO HA CREATO DEI MOSTRI” – ALDO GRASSO NON SMETTE DI SVELENARE SUL GIORNALISTA CHE, NEL GIORNO DEL SUO 80ESIMO COMPLEANNO, A DAGOSPIA CONFESSÒ: “VORREI CHE GRASSO POSSA COMPRENDERE CHE NEL MIO LAVORO HO FATTO QUALCOSA DI BUONO”. HA CAMBIATO IDEA? ASSOLUTAMENTE NO. “IL PERSONAGGIO MI PIACEVA, NON MI PIACEVA LA PERSONA, UNO ISCRITTO ALLA P2. LO ABBIAMO RIMOSSO? LA SUA ERA UNA TV DI POTERE. ERA AMICO DELLA SINISTRA E DI BERLUSCONI, AVEVA IL PIEDE IN PIÙ SCARPE. MARIA DE FILIPPI? LA SUA PIÙ GRANDE INVENZIONE. O VICEVERSA?” QUANDO COSTANZO CONFESSÒ A GIAMPAOLO PANSA DI ESSERE STATO ISCRITTO ALLA LOGGIA: “LORO FARABUTTI, IO CRETINO…”
Estratto dell’articolo da “la Repubblica” il 26 febbraio 2023.
L’aveva definito “un grosso errore”, aggiungendo che gli errori fanno bene e fanno crescere. «Non credo a chi dice di non averne mai fatti, che fesseria… Però c’è anche chi, di grossi errori, ne fa due o tre. Io uno: e lo ammetto». La scoperta che Maurizio Costanzo facesse parte della P2, tessera numero 1819 (tre numeri dopo Berlusconi, 1816) fu un colpo durissimo per la sua immagine. […]
In principio smentì. Raccontò di essere stato iscritto “a sua insaputa”. Poi decise di confessare e lo fece con una intervista a Giampaolo Pansa su Repubblica del 5 giugno 1981. «Finora ho negato perché avevo paura di quanto si legge sui giornali», disse. Aggiungendo. «Sono entrato per ingenuità e per ambizione in un gruppo di farabutti.
Vorrei chiudere gli occhi e tornare al periodo che precedette il mio incontro con Gelli». Poi l’ammissione, relativa a una sua intervista a Gelli: «Sì, la feci perché qualcuno me lo chiese. Nei corridoi di via Solferino mi dicevano che avevo intervistato uno dei padroni del Corriere. Io non lo pensavo, ancora adesso non ci credo ».
Nel dialogo con Pansa, Costanzo ammise più volte il suo rammarico per la scelta di iscriversi alla Loggia. «Era un gruppo di farabutti, di inconsapevoli e di cretini. Sì, cretini come me. Ho fatto uno sbaglio davvero cretino». […]
Estratto dell’articolo di Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 26 febbraio 2023.
“Maurizio Costanzo ha creato dei mostri”. Dice proprio così Aldo Grasso, critico del Corriere della Sera, che nella carrellata di reazioni zuccherose postume diviene una delle poche voci fuori dal coro. […]
In un'intervista per i suoi 80 anni (concessa a Dagospia) Costanzo diceva: “Vorrei che Aldo Grasso possa un giorno comprendere che nel mio lavoro ho fatto qualcosa di buono”. A posteriori, ha cambiato idea?
«Dei morti bisogna sempre parlare bene, è la prima regola. Sicuramente ha portato in Italia un genere nuovo, ma non sono mai stato entusiasta della sua televisione. Certo, era un grandissimo professionista, ma...»
Ma?
La sua era una Tv da uomo di potere. Amico della sinistra e amico di Silvio Berlusconi, consulente di tutti gli uomini politici e anche delle principali imprese italiane, insomma aveva la capacità di tenere sempre il piede in più scarpe.
E ha creato dei personaggi sopravvissuti a più di una stagione. Esempio Sgarbi, che individua anche degli eredi, Giletti, Porro, che pensa di questa lettura?
«[…] ha creato dei personaggi che sono sopravvissuti, ma ha creato anche dei mostri, nel senso di persone esaltate, fuori di testa, e proprio a causa delle apparizioni al Costanzo Show».
La sua principale invenzione rimane sempre la moglie, Maria De Filippi? Forse la donna più potente d'Italia.
O forse il contrario? Anche questo è un caso strano. Costanzo aveva troppo di tutto, i programmi Tv, le collaborazioni giornalistiche, quattro mogli...
Filippo Facci sostiene: “È stato un giornalista utile sino alla fine degli anni '80... Il resto fu intrattenimento e divenne un banalizzatore”. Sposa questo pensiero?
Sì, direi che Facci è della mia stessa idea. Mi vanto di essere stato invitato tante volte al Maurizio Costanzo Show e di non esserci mai andato.
Per una mancata stima, suppongo.
La verità? Il personaggio mi piaceva moltissimo, ma non mi piaceva la persona. Uno iscritto alla P2, uno che ha intervistato Licio Gelli, l'abbiamo rimosso?
Estratto dell'articolo di Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2023.
Muore Costanzo e sui social si parla della sua iscrizione alla P2. Peggio, ci si indigna perché nei ritratti e nelle testimonianze dei colleghi si parla troppo poco della sua iscrizione alla P2 (di cui peraltro si era ampiamente scusato). Vorrei attirare la vostra attenzione sul meccanismo psicologico che guida questo flusso di lapidatori.
Se n’è andato un signore che ha accompagnato la vita quotidiana di tre generazioni di italiani [...] Che esistenze integerrime, le loro. Evidentemente non hanno mai sbagliato un colpo, un gesto, un’amicizia.
Un tempo la morte era il colpo di gong che interrompeva le ostilità per dare il modo di rendere omaggio anche al peggiore dei nemici. Nell’era dei social si sta invece trasformando in una ghiotta occasione per scoperchiare vecchie pentole arrugginite e regolare conti lasciati in sospeso da decenni. Dai coccodrilli siamo passati agli avvoltoi, ma non mi sembra che si voli più alto.
Maurizio Costanzo per il “Corriere della Sera”, domenica 5 ottobre 1980
Nella galleria dei personaggi inavvicinabili è tra i più inavvicinabili: si chiama Licio Gelli, ha sessant’anni, è di Arezzo e non so cosa abbia scritto sulla carta d’identità alla voce professione: industriale? Diplomatico? Politico? In realtà il suo nome compare spesso come il capo indiscusso di una segreta e potente loggia massonica, la «P2», e rimbalza di continuo in questioni di non facile identificazione. Nel corso di questa intervista ha espresso, credo per la prima volta, opinioni, pareri, raccontato episodi. Ma non mi illudo: è solo una delle sue facce, le altre sono celate in qualche parte del mondo.
Quattro anni fa io l’avevo invitata a una puntata di «Bontà loro». Declinò l’invito. Per timidezza? Per mantenere mistero intorno alla sua persona?
Perché non ravvedevo nella mia persona requisiti tali per essere intervistato alla tv.
Come mai adesso ha accettato questo colloquio?
Per premiarla della costanza che ha avuto nell’inseguirmi per quattro anni. Così, dopo questa intervista, spero per altri quattro anni di stare tranquillo.
Cosa c’è di vero in tutto quello che si è detto e si dice su di lei e sul conto della sua Istituzione, cioè la massoneria?
Le dirò che sotto un certo aspetto la cosa è umoristica, perché solo grazie a questo tipo di stampa scandalistica ho potuto conoscere fatti ed episodi della mia vita che ignoravo completamente. D’altra parte, mi pare che in questo paese, attualmente, è consentito a chiunque di dire quello che pensa, anche se quello che dice è frutto di pura e accesa fantasia.
Ancora di recente alcuni giornali hanno parlato di questa loggia segretissima della massoneria, la «P2». Lei ne sarebbe il capo incontrastato. Cos’è la «P2»?
Siamo veramente stanchi di dover ripetere all’infinito che cosa è questo e cosa è quello. Venga una sera a farci visita e vedrà che quando uscirà si sentirà in spirito massone anche lei. Comunque confermo, per l’ennesima volta, si tratta di un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, di alto livello di cultura, di saggezza e soprattutto, di generosità, che hanno un indirizzo mentale e morale che li spinge ad operare unicamente per il bene dell’umanità con lo scopo, che può sembrare utopistico, di migliorarla.
Ma oggi, con tutto quello che si dice e si scrive della «P2», c’è ancora chi vuole entrarci?
Mai come oggi abbiamo ricevuto domande di adesione e sono sempre in aumento. Molte di queste adesioni le dobbiamo proprio alla propaganda indiretta e gratuita di certi giornali che con le loro fantasmagoriche rivelazioni ci hanno attirato stima, rispetto e simpatia.
Quanti sono attualmente gli iscritti alla «P2»?
Le rispondo che sono molti, ma non vedo la ragione per cui dovrei darle un numero definito. Vede, quando si ha a che fare con una bella donna, non mi sembra di buon gusto chiederle, per pura curiosità, quanti anni ha.
Dato il numero che, a quanto capisco, deve essere elevato, come fa a controllare e ad incontrare gli aderenti?
Un amante di classe non rivela mai i suoi metodi per incontrarsi con una donna, così come un generale non svela mai i piani di difesa. Quando abbiamo bisogno di vedere qualcuno o per uno scambio di idee oppure soltanto per prendere il caffè insieme, abbiamo i nostri sistemi per incontrarlo e le assicuro che è un sistema che non hai fallito.
Ho letto su un settimanale che lei sarebbe attualmente in cattivi rapporti con il Gran Maestro Battelli e in alleanza con Salvini e Gamberini. E qual è la sua vera posizione nella massoneria di palazzo Giustiniani?
La mia posizione è regolarissima e legittima sotto ogni riguardo. Ne chieda conferma al Gran Maestro. I miei rapporti con lui sono ottimi sotto ogni aspetto, come solo possono esistere tra due persone che si stimano reciprocamente. A proposito dell’alleanza con Salvini e Gamberini, mi rendo conto che lei non conosce affatto la nostra filosofia, altrimenti saprebbe che tra noi, una volta instaurati, è difficilissimo che i rapporti vengano interrotti, dato che la nostra Istituzione bandisce tutti quei termini che vengono anche troppo spesso usati da certi rotocalchi.
Perché, allora, su alcuni giornali un certo ingegner Siniscalchi ha avuto e continua ad avere nei suoi confronti un così palese risentimento?
Io non conosco e non tengo a conoscere l’ingegner Siniscalchi e sia ben chiaro, quindi, che quello che ha affermato e continua ad affermare non mi tocca nel modo più assoluto. So che una volta era massone e non so se tuttora lo sia. Io, al contrario, non nutro nessuna avversione per lui, anzi, quella sera che si esibì in tv dando fantasiose, deliranti ed assurde risposte, tutta la mia reazione si ridusse ad una sola frase che rivolsi a un amico: “Vedi, quella è una persona a cui credo si dovrebbe stare più vicini perché probabilmente non sta molto bene e soffre di solitudine”. In quel caso avrei dovuto esprimermi acerbamente, ma nel vedere quella figura così patetica rimasi sopraffatto da un sentimento di tenerezza e di profonda commiserazione.
Sto conducendo una serie di colloqui con i rappresentanti del potere occulto in Italia. Lei ne è a pieno diritto un esponente. È d’accordo?
A dire la verità, mi sorprende di essere in questa serie di interviste, ma il piacere di conoscerla è il motivo che mi ha fatto accettare. Io non mai ritenuto di avere un potere occulto come mi viene attribuito. D’altra parte non posso impedire che gli altri lo suppongano.
Mi sembra per altro singolare che ogni qualvolta in Italia capita qualcosa di inconsueto, si faccia subito il suo nome e quello della sua loggia.
Sapesse quante volte mi sono posto la domanda, chiedendomi quale partito, organizzazione o personaggio avrebbe potuto trarre vantaggio dall’attribuirmi o attribuirci certi avvenimenti! Sorgono una infinità di interrogativi: non sappiamo se si tratta di strategie intese a depistare qualche inchiesta, oppure di tentativi di screditarci agli occhi dell’opinione pubblica, o di voce messe in circolazione, per puro risentimento, da qualche grosso personaggio respinto dalla nostra Istituzione, oppure, in ultima ipotesi, se la gente crede che davvero siamo dotati di potere soprannaturali. Il che, in fondo in fondo, potrebbe anche essere o, per lo meno, potrebbe stato vero in altri tempi: basti ricordare che abbiamo avuto con noi un “mago” come Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, ed un trascinatore d’uomini della portata di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei Due Mondi.
È a conoscenza di un rapporto inoltrato da Emilio Santillo al Ministro degli Interni? Secondo questo rapporto lei sarebbe al vertice del potere più grosso della Repubblica.
È difficile rispondere a questa domanda, ammesso che siano vere le affermazioni pubblicate dai giornali. Io annovero moltissimi amici sia in Italia che all’estero. Ma tra l’avere amici e avere potere, ci corre e molto. Pur tuttavia c’è un fondo di vero in queste affermazioni: avendo sempre agito nell’osservanza di certi principi etici di base, sono riuscito ad accattivarmi la stima e la simpatia di molti, anche se, contemporaneamente e inevitabilmente, ho suscitato antipatie.
Come mai l’Espresso e Panorama sono così accaniti contro di lei?
Perché probabilmente hanno saputo che, un giorno ad un amico che sostava nella saletta di attesa, passai, tanto per distrarlo, una copia dell’Espresso e di Panorama ed anche un elenco telefonico, dicendogli che solo in quest’ultimo avrebbe potuto trovare qualche verità. Anzi, se lei conosce i direttori di Panorama e dell’Espresso, mi usi una cortesia: da due mesi ho un nipote che si chiama Licio. Licio Gelli, come me. Quindi il materiale per poter scrivere non mancherà.
Si dice che lei sia stato repubblichino, golpista, che però in seguito non abbia disdegnato frequentazioni di opposta tendenza. Insomma, mistero nel mistero, qual è il suo orientamento politico?
Mi è capitato spesso di non ricordarmi nemmeno il mio nome: non pretenda, perciò, che mi ricordi il mio orientamento politico. Me lo chieda un’altra volta. Forse allora potrò darle una risposta meno vaga e per quanto riguarda gli incontri che io non disdegnerei, le dico che io mi incontro con qualsiasi persona senza domandare che tessera ha in tasca.
Sbaglio o in più occasioni lei si è espresso a favore di una repubblica presidenziale?
Sì, anche in una relazione che inviai al presidente Leone. La relazione terminava portando ad esempio de Gaulle.
Facciamo un po’ di fantapolitica, se lei fosse nominato presidente della Repubblica, manterrebbe la Costituzione?
Ogni uomo deve conoscere i suoi limiti, non mi sento perciò di possedere i requisiti per fare il presidente della Repubblica. Ma quando fossi eletto, il mio primo atto sarebbe una completa revisione della Costituzione. Era un abito perfetto quando fu indossato per la prima volta dalla nuova Repubblica, ma oggi è un abito liso e sfibrato e la Repubblica deve stare molto attenta nei suoi movimenti per non rischiare di romperlo definitivamente. È il parto dell’Assemblea Costituente avvenuto in un momento del tutto particolare nella vita della nostra nazione, ma che oggi, a cose assestate, risulta inefficiente e inadeguato. E, oltre tutto, non è più coerente con lo spirito che l’ha emanata, perché porta tuttora articoli di carattere transitorio.
Ma cos’è per lei la democrazia?
Le racconterò di un incontro che ebbi con Moro quando era Ministro degli Esteri. Mi disse: “Lei non deve affrettare i tempi, la democrazia è come una pentola di fagioli: perché siano buoni, devono cuocere piano piano piano”. Lo interruppi dicendo: “Stia attento, signor ministro, che i fagioli non restino senza acqua, perché correrebbe il rischio di bruciarli”.
Siamo di nuovo alla crisi di Governo. Lei darebbe la presidenza ai socialisti?
Certamente, ma con la presidenza della Repubblica ad un democristiano e le aggiungo anche che questo, secondo me, dovrebbe avvenire al più presto se vogliamo evitare la caduta del paese nel baratro.
Tra le tante cose che si dicono di lei si sussurra anche sia in grado di di condizionare molti autorevoli banchieri. Ammesso che sia vero questo condizionamento, è in favore di un miglioramento della situazione economica italiana o piuttosto di un tornaconto personale o dei suoi amici?
Noi non abbiamo mai condizionato nessuno sia perché non possediamo strumenti di condizionamento sia perché non abbiamo nessun interesse né personale né per conto di nostri amici. Posso dirle che quando ci viene richiesto, e se è possibile, cerchiamo di facilitare l’aiuto richiesto.
Legano il suo nome a quello di Michele Sindona. È un pettegolezzo?
No, non è pettegolezzo. Ed io sono andato a fare la nota deposizione negli Stati Uniti a suo favore. Perché quando un amico è in disgrazia per infami reati, dobbiamo essergli più vicini di quando si trova in auge. Comunque il mio nome è legato non solo a quello di Sindona, ma a tanti altri personaggi. Anche a quello del presidente della Liberia, Tobler, che iniziai alla massoneria nel palazzo presidenziale di Monrovia, e che venne ucciso recentemente in un golpe. Grazie a Dio per questo golpe non ci hanno coinvolto.
Se Andreotti e Fanfani le chiedono un favore, a chi lo fa più volentieri o a chi non lo fa per nulla?
Purtroppo non le posso rispondere perché fino ad oggi nessuno dei due mi ha mai chiesto un favore.
Voterebbe per Carter o per Reagan?
Per Reagan. Secondo certe previsioni credo che sarà lui il presidente degli Stati Uniti.
Mi risulta che lei fu invitato all’insediamento alla Casa Bianca del presidente Carter. Perché?
Forse per simpatia.
A proposito di previsioni mi hanno riferito che lei, giorni orsono, aveva pronosticato la caduta del governo Cossiga entro settembre. È anche veggente?
È vero che ho fatto questa previsione, mi pare l’8 settembre. Ma non perché sono un veggente, solo perché vivo secondo una certa logica. D’altra parte, sapevo benissimo che, ormai, il Governo Cossiga era clinicamente morto anche se una certa cerchia di politici aveva interesse a tenerlo in vita apparente, almeno fino a tutto dicembre. È chiaro che si tratta di una pia illusione perché, se uno avesse analizzato i contrasti che giornalmente avvenivano tra i componenti della compagine governativa, sarebbe giunto facilmente alle mie conclusioni.
E a questo punto, secondo il mio giudizio, si dovrebbe muovere un serio appunto a questi politici i quali, per mire partitiche, non si sono minimamente preoccupati degli interessi del paese, protesi unicamente a ricercare formule di sopravvivenza di un organismo moribondo. Distraendo, così, gran parte delle loro energie alla ricerca di soluzioni valide per i gravi problemi della nazione ai quali avrebbero dovuto dedicarsi completamente. Questo è il nostro dramma: e fino a quando non lo avremo risolto, il paese non potrà mai beneficiare di un benessere veramente solido e non evanescente come quello attuale.
Mi lasci indovinare, da quel che sta via via rispondendo, non credo ami molto il sindacato, vero?
La normativa e l’applicazione del cosiddetto Statuto dei Lavoratori non ha bisogno di commenti. Mi sembra che l’Italia sia l’unica nazione in tutto il mondo ad avere una legge di questo tipo, ma i risultati dal 1970 ad oggi sono, purtroppo, più che evidenti. Certe conquiste ci ricordano che anche Pirro vantò la sua vittoria.
Cosa pensa dell’attuale Sommo Pontefice? Lei e la sua Organizzazione avete rapporti anche con lui?
Il Sommo Pontefice è sempre il capo della Cristianità ed io, e parlo per me e non per altri, ho sempre avuto per lui il rispetto che gli è dovuto. La mia Organizzazione ha rapporti con tutti. Le posso assicurare che la nostra è l’unica Associazione che ammette soltanto i credenti.
Dimenticavo. sembra che della «P2» facciano parte alti esponenti dei servizi segreti. Lei adesso lo negherà, ma non lo sembra che in Italia i servizi segreti abbiano spesso sofferto di deviazioni ed omissioni?
A prescindere dal fatto che non ricordo chi fa parte dell’Istituzione, per quanto riguarda l’efficienza dei servizi segreti non sta a me giudicarla. Posso solo dirle che ogni paese ne ha un paio e noi ne abbiamo otto e nonostante il gran numero, i risultati sono evidenti.
Suppongo che lei non abbia in alta considerazione i nostri politici. Proviamo a elencare i loro difetti?
Cosa devo dirle? Credo che i partiti scelgano i migliori elementi che hanno a disposizione per destinarli ai posti guida, ma come avrà notato, nonostante l’alternarsi di questi “geni”, le cose vanno di male in peggio. Ci sorge quindi spontanea la domanda: questi “geni” lavorano esclusivamente nell’interesse del paese oppure solo nell’interesse del loro partito?
Penso che in questa ultima ipotesi non riusciranno mai, nonostante la loro bravura, a riunire in un unico crogiuolo i vari componenti necessari per fondere una lega che dovrebbe proteggere gli interessi del popolo. L’unica alternativa a questo concetto è che poi non sono così bravi come si vorrebbe far credere e quindi nella loro meschina mediocrità non riescono a comprendere le esigenze del popolo o non riescono a sentire le loro responsabilità. In casi come questi, è più che accettabile l’affermazione del ministro Giannini: “Se fossi stato giovane, me ne sarei andato dall’Italia”.
La caduta del Governo Cossiga ha procurato immediati nuovi problemi all’economia italiana. Dato che lei, con grande distacco e con apparente modestia, sembra fornire indicazioni su ogni problema, cosa pensa, appunto, dell’economia italiana?
Lo stato della medesima è disastroso, tuttavia potrebbe risolversi, ma solo a patto che qualcuno avesse il coraggio di far presente, in modo esplicito, in quale stato versa la nostra economia e in quali condizioni si verrà a trovare nel prossimo futuro se non si prenderanno energici provvedimenti.
È chiaro però che nessun uomo politico avrà la forza morale di prendere provvedimenti del genere che, almeno inizialmente, sarebbero impopolari e gli allontanerebbero, di conseguenza, molti suffragi elettorali. Perciò preferisce fare quello che fa: lo struzzo quando ha paura. Quello che ci dispiace è che questa mancanza di decisione e di controllo si ripercuota su di noi.
Mi spiego meglio: se il Ministero dell’Industria e del Commercio, che concede ad occhi chiusi la possibilità di importare forti contingenti di prodotti tipicamente italiani, la cui introduzione sul mercato interno provoca automaticamente disagi economici e stasi o riduzione occupazionale per molte nostre aziende, si rendesse pienamente conto delle deleterie conseguenze delle sue concessioni, dovrebbe indubbiamente prendere provvedimenti adeguati per ovviare a questo stato di cose.
Se l’organo preposto stabilisse una statistica dei prodotti finiti che importiamo e li traducesse in tempi lavorativi tenendo conto di quanti lavoratori di ogni specifico settore sono a regime di cassa integrazione o, peggio, disoccupati per mancanza di lavoro, potrebbe fare in modo di ridurre il plafond delle importazioni fino a raggiungere il completo riassorbimento di questo personale inutilizzato.
Mi scusi, non è possibile che tutto vada male e così male. Ad esempio, non potrà negare gli ormai indiscutibili vantaggi dati dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Economica Europea.
Allora, la prego di scusarmi lei: ma ho l’impressione che di economia non sia molto aggiornato. Provi a chiederlo a sua moglie. Adenauer, lei lo saprà, gestiva la politica facendosi informare dalla moglie sull’andamento del mercato. Vede, i vantaggi per l’Italia sono quelli di pagare molto di più i prodotti di largo consumo. Perché, se non fossimo legati alla CEE o se la Costituzione dell’Europa Unita fosse meno sfacciatamente favorevole ai paesi più ricchi di prodotti di base, il popolo italiano si troverebbe assai meglio. Così come stanno le cose, i vantaggi della Comunità vanno a senso unico e questo senso non è certo a favore dell’Italia.
Si spieghi meglio, dato che io, come quasi tutti gli italiani non so niente o poco di economia.
Bene, mi spiego con un esempio: in Italia la carne costa mediamente tredici dollari al chilo, estrogeni compresi; se invece che dai paesi esportatori della Comunità ci fosse consentito di approvvigionarci dai paesi dell’America Centro-Meridionale avremmo della carne, priva di estrogeni purtroppo, ad un prezzo di circa cinque dollari al chilo. Va da sé che, in questo caso, la nostra popolazione avrebbe ottima carne ad un costo notevolmente inferiore.
Ancora una domanda sull’economia. Qual è la sua opinione sui grandi operatori economici italiani e sulla Confindustria?
A proposito degli operatori economici pochi di essi si salvano: la maggior parte non è un granché. Molto probabilmente difettano di idee, di iniziative, di decisioni e non sanno difendere il sistema industriale. Oppure, più semplicemente, non sono stati all’altezza di seguire l’evoluzione dei tempi. Mentre la Confindustria penso che abbia solo un ruolo puramente rappresentativo. Potrebbe far meglio se riuscisse a sganciarsi dai carri politici.
Mi lasci indovinare: è a favore della pena di morte?
Se lei facesse un sondaggio nei paesi in cui vige ancora la pena capitale, vedrebbe che non vi accade quello che sta succedendo nei paesi che l’hanno abolita. Non più tardi dello scorso anno un giornale ha pubblicato che nell’Unione Sovietica una persona è stata condannata a morte e giustiziata per aver ferito, ripeto ferito, un agente di polizia. Mi risulta che in quello stato siano rarissimi i furti, le rapine a mano armata, lo spaccio di stupefacenti e che siano del tutto inesistenti i sequestri di persona e gli atti di terrorismo. E dirò di più, nella democraticissima Francia è ancora in vigore la pena di morte.
In questo piano di evidente moralizzazione che lei propone, sarebbe favorevole, invece, alla liberalizzazione delle droghe leggere?
Mi meraviglio che mi rivolga questa domanda, perché penso che anche lei abbia dei figli e quindi sa o dovrebbe sapere, che le disgrazie di una nazione e delle famiglie che la costituiscono sono dovute principalmente, anzi esclusivamente alla droga, i cui effetti non si esauriscono nell’individuo, ma riaffiorano anche nelle generazioni future. L’argomento mi disgusta: parliamo d’altro, se ancora mi deve chiedere qualcosa.
Quale consiglio darebbe al prossimo Primo Ministro?
Di fare meno programmi e più fatti. O meglio, i programmi enunciati non dovrebbero restare allo stadio di programmi, come è avvenuto fino ad oggi. Perché promettere e non mantenere è la cosa che più infastidisce la popolazione.
Alla domanda: cosa vuoi fare da grande? cosa rispondeva?
Il burattinaio.
"Colpevoli", in un libro I crimini più velenosi. Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.
Il volume, edito da “Chiarelettere”, porta le firme di Sandra Bonsanti e Stefania Limiti. Come l’orrenda Loggia massonica deviata P2 ( ancora attivissima) ha infestato le nostre vite e quella del Corriere.
Ho i brividi ancor prima di cominciare a scrivere. Quella sera di quarant’anni fa è una profonda ferita che non guarirà mai. Rientravo da un servizio all’estero per il Corriere della Sera e avevo in programma un pokerino notturno con gli amici della Cronaca. Il grido di un fattorino brucia ancora nella mente e nel cuore. “L’elenco della P2! Le telescriventi danno tutti i nomi e i cognomi”. Dal poker mancato a una notte da incubo: politici, generali, militari semplici, giornalisti tra cui numerosi del Corriere. L’elenco è stato dato alle agenzie dal capo del governo Arnaldo Forlani. Indiscutibile. E’ ancora oggi la voce del terrore che non dimenticherò mai. Come quando il caro collega Walter Tobagi mi confidò in una pizzeria, invece di rientrare subito a casa, chi gli aveva proposto di fare il direttore del “Mattino” di Napoli. Il prezzo? Andarsi a inginocchiare davanti a quel criminale di Licio Gelli. Meno di due mesi dopo Walter, un cattolico-socialista di grande rigore e dignità, fu ucciso dai terroristi. La mia ricchezza non sono i soldi, che ho sempre disprezzato, ma gli incontri e le emozioni. Nessuno potrà sottrarmeli. Una cara amica, che mi conosce molto bene e apprezza la mia passione per il giornalismo e la verità, mi ha regalato per Natale un libro, che-appena uscito-mi aveva incuriosito ma non l’avevo letto tutto. Sono riuscito ora, finalmente, a divorare “Colpevoli, Gelli, Andreotti e la P2”, scritto da Sandra Bonsanri, grande giornalista e senatrice, e dalla cara collega e amica da sempre Stefania Limiti (Edizioni C, chiarelettere). Un coltello piantato nel cuore del potere. Ricordo ancora quanto scrisse Norberto Bobbio: “Vi è sempre stato, e purtroppo penso che non se ne possa fare a meno, un potere invisibile dentro lo Stato….che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro…che si avvale del segreto per aggirare o addirittura violare impunemente le leggi”. Verissimo, terribile e amaro ma, come diceva Bobbio, “non bisogna mai arrendersi”. Il cancro che uccide è composto dal silenzio, dalla P2 (loggia massonica deviata ancora in piena attività), e dalle porcherie di sottoboschi governativi e istituzioni, ma anche di privati che cercano soltanto di riempire le proprie tasche. Ho vissuto abbastanza per conoscere gran parte di questi miserabili centri dove tutto è permesso. Il libro è spietato ma trasmette una cruda verità. Nella politica nazionale e in quella internazionale, volendo, troviamo proprio tutto. Ho frequentato a tavola, a Davos e a Gerusalemme, senza barriere formali, sette presidenti degli Stati Uniti, tre presidenti francesi, tre leader iraniani, e poi quattro Papi. Ho imparato, anche a mie spese-con qualche errore- dove possono spingersi le manovre del potere e della repressione. Il libro “Colpevoli” non fa solo riflettere, ma moltiplica la forza di lottare perché “La memoria è sacra. E non rispettarla sarebbe un insulto per le vittime e la storia, spesso dimenticata, del nostro Paese”. Vi parla, cari amici che mi seguite, uno che è Cavaliere al Merito della Repubblica italiana, Commendatore, ma che si è sempre rifiutato di esibire le insegne. Sono Ambrogino d’oro, ma il riconoscimento che amo di più mi è stato donato pochi mesi fa in Sicilia. Il premio alla memoria del mio,caro amico ed eroe, ammazzato dalla mafia, Paolo Borsellino. La motivazione mi riempie di orgoglio: “Aver tenuto la schiena dritta per tutta la vita”
La Loggia Ungheria.
La cronologia dei fatti.
Davigo.
Contrafatto.
Giuseppe Cascini.
Amara.
Caos procure, Racanelli in aula «Pignatone disse: chi porterà avanti l’esposto si farà male». La dichiarazione è stata resa nell’ambito del processo contro il giudice Stefano Rocco Fava accusato anche di accesso abusivo a sistema informatico e abuso d'ufficio. Simona Musco Il Dubbio il 5 ottobre 2023
«Chi porterà avanti questo esposto si farà male, molto male». A pronunciare queste parole, secondo quanto raccontato ieri in aula a Perugia dal procuratore aggiunto di Roma Angelantonio Racanelli, sarebbe stato Giuseppe Pignatone, all’epoca dei fatti procuratore nella Capitale. Al centro della conversazione l’esposto al Csm presentata da Stefano Rocco Fava, all’epoca pm a Roma, oggi giudice civile a Latina, accusato, assieme all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, di aver rivelato notizie d'ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete», e in particolare «che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto».
Nel procedimento, che vede il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo parte civile, Fava è accusato anche di accesso abusivo a sistema informatico e abuso d'ufficio. L’obiettivo, secondo l'atto di accusa «era di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone», con l’aiuto di Palamara «a cui consegnava tutto l'incartamento indebitamente acquisito». Tale campagna si sarebbe realizzata anche con un esposto con il quale il magistrato segnalava il comportamento tenuto da Pignatone nei procedimenti a carico dell’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, e dell’imprenditore Ezio Bigotti: il capo della procura aveva infatti negato che sussistessero ragioni per astenersi dalle indagini, nonostante i rapporti professionali di entrambi con il fratello Roberto.
L’esposto di Fava, difeso dall’avvocato Luigi Antonio Paolo Panella, arrivò alla prima commissione il 27 marzo, ma il comitato di presidenza decise di condurre una sorta di istruttoria preliminare, chiedendo informazioni all’allora procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Giovanni Salvi, che a sua volta chiese chiarimenti a Pignatone. In quella corrispondenza erano contenute tutte le fibrillazioni registrate in procura, comprese quelle durante le due riunioni infuocate di cui poi i giornali diedero notizia.
Dopo tali accertamenti, l’esposto tornò a Palazzo dei Marescialli il 7 maggio 2019, ovvero due giorni prima del pensionamento di Pignatone. Da lì sarebbero dovute partire le prime audizioni, fissate a giugno, ma tutto si interruppe per via di una nota della procura di Perugia, che informava Palazzo dei Marescialli di un decreto di perquisizione che conteneva l’ipotesi di un tentativo di condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Roma attraverso quello stesso esposto. E pochi giorni dopo, il Fatto e La Verità raccontarono della guerra in procura, fuga di notizie per la quale ora Fava e Palamara sono a processo. Appresa la notizia di un esposto nei confronti del procuratore capo, ha spiegato Racanelli, «sono andato da Pignatone per dirglielo e ho avuto l'impressione che lui già lo sapesse».
Successivamente, «sono andato nel suo ufficio, mi ha raccontato dell'errore in cui secondo lui era incorso Fava su suo fratello, e a un certo punto ha usato un'espressione che mi ha lasciato di stucco, una frase come “chi porterà avanti questo esposto si farà male, molto male”. Non era una frase, credo, rivolta a me, ma io all'epoca avevo un incarico associativo come segretario di Magistratura Indipendente e avevo rapporti con gli esponenti di MI al Consiglio. Pignatone era molto seccato ma convinto di essersi comportato correttamente».
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” venerdì 22 settembre 2023.
La loggia Ungheria non è mai esistita, ma qualche spintarella, come vedremo, a magistrati di alto rango, l’ex avvocato (è stato radiato dall’albo) Piero Amara ha provato a darla, non senza successo. Purtroppo per lui, dopo anni di bugie e mezze verità, è comunque arrivato il conto. Ieri, in occasione dell’udienza preliminare del procedimento milanese a carico suo e del suo sodale Giuseppe Calafiore nei corridoi del Palazzo di giustizia si sono accalcate decine di avvocati in rappresentanza delle parti civili.
I due sono accusati di calunnia e autocalunnia nei confronti di sé stessi e di 65 persone, quasi tutti alti rappresentanti delle istituzioni (della politica, delle Forze armate e della magistratura), per averne denunciato l’affiliazione alla fantomatica associazione segreta.
Le persone offese che hanno chiesto di costituirsi sarebbero 36, tra cui l'ex ministro Paola Severino, l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, l’ex presidente della Cassazione Giovanni Canzio (insieme con diversi suoi colleghi), l’ex comandante generale della Gdf e ora presidente dell’Eni Giuseppe Zafarana e l’ex comandante dei Carabinieri e attuale capo di gabinetto del ministro della Difesa Tullio Del Sette.
Avrebbero, invece, rinunciato i familiari di Silvio Berlusconi, il cardinale Piero Parolin, l'ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini, il giudice della Corte costituzionale Filippo Patroni Griffi e l'ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro.
Il gup Guido Salvini ha rinviato al prossimo 7 ottobre l’udienza per decidere sulle parti civili. Tra le presunte vittime di calunnia anche l’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto di Catania. Il suo avvocato Fabio Repici, nella memoria presentata a Salvini, ha evidenziato i rapporti tra il difensore di Amara, Salvino Mondello, e il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo (sono stati reciproci testimoni di nozze), che ha gestito il «pentimento» di Amara nella Capitale.
A rinforzare l’accusa nei confronti dei due imputati è arrivato in zona Cesarini il decreto di archiviazione della gip di Perugia Angela Avila su Ungheria, un atto in cui viene sancito che la loggia segreta non sarebbe mai esistita […] In compenso, tra un pranzo e una cena, qualche toga avrebbe cercato un «aiutino» per la propria carriera. […] I magistrati rimasti nella rete della Procura del capoluogo umbro, seppur senza specifiche contestazioni penali, non sono molti, ma autorevoli.
Secondo la Avila, in modo del tutto autonomo dalla massoneria, Amara possedeva «una rete di relazioni e rapporti di altissimo livello con persone operanti nelle istituzioni pubbliche», «aveva rapporti con magistrati» ed «era considerato capace di intervenire nelle nomine per i vertici degli uffici giudiziari tant’è vero che veniva contattato dagli stessi magistrati interessati a ricoprire incarichi direttivi».
E qui la gip fa tre nomi su tutti: Lucia Lotti, Carlo Maria Capristo e Francesco Saluzzo. Capristo è stato procuratore di Trani e Taranto, è stato arrestato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari e il procedimento che lo riguarda è in corso a Potenza. La Lotti è procuratore aggiunto a Roma e per lei la Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione dalla medesima accusa. Francesco Saluzzo è, invece, procuratore generale di Torino e si è occupato anche della vicenda dell’anarco-insurrezionalista Alfredo Cospito.
A proposito del rapporto tra questo terzetto di toghe e il faccendiere siracusano, la Avila scrive: «Non solo in Sicilia, in Puglia e a Roma, ma anche a Torino, già nel 2016, potevano essere giunte notizie circa le capacità e possibilità di Piero Amara di poter “intercedere” presso il Csm per poter sponsorizzare le candidature di magistrati a nomine di incarichi direttivi. E infatti sono almeno tre i magistrati che hanno tentato di procurarsi un incontro con Amara per poter aumentare le chance di vittoria».
Ma più che le dichiarazioni dell’ex professionista siciliano a chiarire il quadro sono state le indagini della Procura di Perugia, che si è concentrata in particolare su undici episodi. Tra questi, «l’intervento a favore» dei magistrati sopracitati. La Avila evidenzia come un testimone, l’avvocato Angelo Mangione, legale in rapporti con la Lotti, abbia «ammesso di aver presentato la donna ad Amara e in particolare ha ricordato che era stato il magistrato prima della nomina a procuratore a chiedergli di incontrare Amara senza spiegargliene le ragioni». L’auspicato incontro sarebbe avvenuto in un bar vicino a Montecitorio.
L’ex deputato (Udc, Pdl e Ala) e ministro Francesco Saverio Romano, davanti ai magistrati, ha confermato tutto: «Un giorno Amara mi chiama chiedendomi se potessi incontrare Lucia Lotti che aspirava a diventare procuratore di Gela e che aveva saputo che un componente del Csm (Ugo Bergamo, ndr), ex senatore di Udc, aveva manifestato perplessità alla sua nomina». Romano si mise a disposizione e accolse la pm e il suo sponsor nel suo ufficio in Parlamento.
Il testimone ha fornito agli inquirenti tutti i dettagli del soccorso «politico» alla toga progressista: «Mi incontrai con Amara e la Lotti, lei mi raccontò del suo curriculum e mi disse che aveva sentito che Ugo Bergamo aveva manifestato delle perplessità sulla sua nomina. lo le dissi che potevo benissimo parlare con Ugo Bergamo che conoscevo bene e che gli avrei fatto sapere».
Come andò è lo stesso ex braccio destro di Denis Verdini a svelarlo: «Parlai con Ugo Bergamo, in quel momento componente del Csm e lui negò di aver manifestato perplessità sulla nomina della Lotti. Io trasferii l’informazione ad Amara e la vicenda si chiuse così». Le indagini non avrebbero individuato successivi favori professionali della Lotti ad Amara, in quel momento avvocato dell’Eni. Per questo la Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione per la toga dall’accusa di corruzione in atti giudiziari.
Per quanto riguarda Francesco Saluzzo la principale conferma alle dichiarazioni di Amara (che aveva raccontato di un incontro conviviale con il pg) è arrivata dall’ex amministratore delegato di Pagine Gialle ed ex presidente di Centostazioni Paolo Torresani, vecchio amico del pg. Il manager, infatti, a un inquirente che lo sollecitava, ha confermato il banchetto e i partecipanti: «Effettivamente adesso che me lo ricorda a questo pranzo insieme ad Amara, Serrao (Antonio, ex direttore del Consiglio di Stato e indagato e poi archiviato come membro della loggia Ungheria, ndr) e me era presente anche il dottor Saluzzo. Questo pranzo è avvenuto circa cinque/sei anni fa, ma non ricordo precisamente la data».
Torresani, dopo aver ammesso di essere diventato «amico» di Saluzzo a partire dal 1992 («Sua moglie Donatella è stata mia assistente per circa sei o sette anni» ha spiegato) ha ricordato di che cosa si parlò al tavolo: «Del più e del meno, ma ricordo che Saluzzo disse che teneva molto a essere nominato procuratore generale di Torino e in buona sostanza disse che chi tra di noi presenti a quel tavolo poteva spendere una parola buona la doveva spendere. lo dissi che attraverso il mio vicino di casa, Sergio D'Antoni, noto sindacalista, lui poteva avere accesso alla dottoressa Paola Balducci (ex consigliere del Csm in quota Sinistra ecologia e libertà, ndr). D’Antoni mi disse che con la Balducci andavano insieme a vedere le partite della Roma allo stadio».
A questo punto gli inquirenti chiedono se anche Amara avesse offerto il suo sostegno, ottenendo questa risposta: «Sì, disse che aveva delle conoscenze all'interno della magistratura e che poteva aiutarlo». Torresani ha concluso spiegando di non sapere se Saluzzo e la Balducci si siano mai incontrati. Serrao ai magistrati ha riferito di essere stato lui ad «aver portato con sé Piero Amara, il quale, in quell’occasione aveva conosciuto Torresani (il padrone di casa) e Saluzzo, tra di loro legati da stabili rapporti di frequentazione».
Precedentemente il faccendiere aveva registrato di nascosto Serrao e secondo la gip dall’ascolto del file audio emergeva «non solo che il pranzo a casa Torresani c’era stato, ma anche che la partecipazione di Amara al pranzo era funzionale alla sponsorizzazione di Saluzzo, circostanza che Serrao mostrava di sapere», ma che doveva rimanere «riservata». Nell’occasione Serrao avrebbe accolto «senza replica l’invito di Amara che lo esortava a non dire nulla laddove fosse stato sentito dagli inquirenti».
Saluzzo ha denunciato Amara per calunnia. Nella sua querela il pg ammette l’amicizia con Torresani e le chiacchiere conviviali, ma non la ricerca di sponsor: «Con lui si è parlato più volte del mio lavoro (non dell'attività giudiziaria, ovviamente), e di quegli stessi aspetti, legati alle mie domande per ottenere l’assegnazione di incarichi direttivi o altro. Si trattava, però, e sempre, di discorsi che rimanevano in superficie e che certamente non erano finalizzati al procacciamento di sostegni».
Sui favori fatti a Capristo sono stati trovati numerosi riscontri, negli appunti di Amara, nelle chat di quest’ultimo con Denis Verdini e grazie ad alcune testimonianze. L’ex legale portava il procuratore in giro per ristoranti (per esempio lo presentò a Luca Lotti in un’osteria romana) e case alla ricerca di aiuti per fargli ottenere questo o quell’incarico.
Ma nel decreto di archiviazione e nell’istanza della Procura manca quanto raccontato da Amara il 3 novembre 2021: «Ricordo che io avevo ricevuto da Carlo Capristo la richiesta di incontrare il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Io comunicai a Roberto Pignatone (il fratello, consulente di Amara, ndr) tale richiesta di Capristo. Roberto Pignatone, quindi, su mia richiesta, organizzò una riunione tra il fratello ed il dottor Capristo. A tale incontro, che sarà sicuramente confermato, credo che partecipò oltre al procuratore Pignatone e Capristo, anche l’avvocato Mangione. L’oggetto dell’incontro era quello di valutare la candidatura di Capristo quale procuratore della Repubblica di Perugia». Un appuntamento che non sappiamo se sia stato accertato dalle indagini.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” mercoledì 20 settembre 2023.
Non una «loggia massonica coperta», ma un reticolo di rapporti opachi di potere tra politici, magistrati, grand commis nella Roma del patto del Nazareno. Questo è il succo del decreto di archiviazione della giudice perugina Angela Avila che mette la parola fine al vaudeville della Loggia Ungheria. La loggia, per come fu rappresentata dall'ineffabile avvocato Piero Amara alla fine del 2019, non esiste. Né lui né i suoi sodali siciliani hanno mai fornito la fantomatica lista degli affiliati […] una sfilza di nomi […] seguiti da fumettistici soprannomi: Escobar, Nano, Zorro, Babbaleo, Lepre, Uccello, Camaleonte.
Prima hanno promesso la consegna della lista. Poi hanno indicato altri detentori, ma le perquisizioni hanno fatto buca. Infine hanno raccontato che la preziosa cartuccella sarebbe custodita a Dubai da tal Patrick, agente segreto iraniano. Troppo poco, anzi nulla, per un'associazione segreta.
«Manca una ricostruzione della struttura organizzativa», nota la giudice. Manca la sede delle riunioni: nella basilica di San Giovanni in Laterano o nell'omonima piazza pariolina? Quanto ai riti – dal saluto con l'indice premuto tre volte sul polso alla domanda «Sei mai stato in Ungheria?» come codice di riconoscimento – nessuna conferma.
Ma soprattutto […] sono i riscontri a specifici episodi narrati da Amara a smentire la fola di una «nuova P2». Perché, argomenta la giudice aderendo all'impostazione della Procura, i dimostrati «singoli rapporti di colleganza» sono logicamente incompatibili con «un'azione organizzata, programmata e pianificata da parte di un gruppo di persone segretamente associate, diretta a interferire sulle istituzioni».
Amara […] resta enigmatico e inaffidabile […] ma dei suoi torrenziali verbali […] qualcosa resta. Alcuni episodi che ha raccontato sono veri. E lo collocano al centro di «una serie di iniziative dirette a influenzare l'esercizio delle funzioni pubbliche, con illecite pressioni e avvalendosi di una significativa rete di relazioni». Tutto si svolge, come racconta Denis Verdini, all'ombra del patto del Nazareno.
Amara ha rapporti con lui, all'epoca architrave del governo Renzi, e, indirettamente, con Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi. Lotti viene appellato da Amara & C. in diversi modi: LL, Capo, Luca. Interrogato, Lotti ridimensiona i rapporti e nega di aver comunicato su chat criptate col soprannome «Siffredi2». «Il sistema Amara», come l'ha definito il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, operava in Sicilia, Puglia, Lazio e Piemonte, «per soddisfare interessi personali funzionali al consolidamento di posizioni di potere».
L'inchiesta ha ricostruito almeno tre casi di alti magistrati che, in corsa per una nomina a procuratore, si sono rivolti a lui per una spintarella al Csm. E il magistrato della Corte dei Conti Raffaele De Dominicis, che aveva nelle mani un fascicolo sul premier Renzi, chiedeva ad Amara di procurargli un appuntamento con Lotti a Palazzo Chigi. Così come ha trovato un parziale riscontro il fatto che Amara perorò un incarico professionale dalla società Acqua Marcia per il futuro premier Giuseppe Conte.
Le chat estrapolate dal suo cellulare e un appunto sequestrato a Firenze in tempi non sospetti smentiscono la prima versione minimalista di Verdini sui rapporti con Amara. Risulta infatti che Verdini si rivolgesse a lui per farsi indicare nomi da suggerire a Lotti per le nomine governative al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti. «Mi serve urgente curriculum!», «Mi devi dare un altro nome!», scriveva quando saltava una nomina. I due interloquivano a tutto campo.
Dal parastato siciliano all'Eni, dal Csm (per cui viene citato Cosimo Ferri) all'Ilva, su cui Amara chiedeva di far capire a Lotti «di non rompere le palle». In un appunto compare il nome dell'attuale ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi. Che si sarebbe rivolto ad Amara per un'intercessione con il mondo renziano, nel 2016. «Attualmente vicecapo della polizia, punterebbe a diventare capo della polizia oppure direttore dell'Aisi», il servizio segreto.
Verdini conferma: «Effettivamente Amara me ne parlò. Era in disgrazia nel ministero». Prima smentisce l'incontro. Ma i pm trovano un suo documento, e Verdini ammette: «Non ricordavo, ma se l'ho scritto è vero. Piantedosi non era valorizzato e voleva un'occasione per parlare con il ministro». Piantedosi ha dato mandato ai suoi legali per tutelare la sua reputazione in ogni sede giudiziaria.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” martedì 5 settembre 2023.
Soldi, massoneria, politica, raccomandazioni e molto altro. Nelle dichiarazioni rese da Denis Verdini […] alla Procura di Perugia, ma anche nelle sue chat e nei suoi appunti […], c'è tutto questo. Documentazione che offre diverse retroscena dell'epoca d'oro del governo Renzi e racconta come l'ex numero due di Forza Italia abbia garantito con il suo partitino, Ala (Alleanza liberalpopolare-autonomie), […] la permanenza del fu Rottamatore a Palazzo Chigi per i famosi mille giorni.
Il procuratore Raffaele Cantone il 28 ottobre 2021 ha domandato a Verdini se avesse mai fatto parte della loggia deviata Ungheria (la cui esistenza è stata denunciata dal faccendiere Piero Amara), un sospetto per cui Denis era stato iscritto sul registro degli indagati per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete (ma, nel 2022, la Procura ha chiesto l'archiviazione).
E lui ha risposto: «Lo escludo categoricamente. Amara non me ne ha mai parlato. La voce della mia appartenenza alla massoneria venne messa in giro durante la campagna elettorale del Mugello del senatore Antonio Di Pietro (nel 1996, ndr). Fu addirittura il Presidente Cossiga (Francesco, ndr), forse per scherzo, a fare una dichiarazione in tal senso. Io, tuttavia, sono lontano per cultura da qualsiasi loggia massonica».
Leggere le parole di Verdini, i suoi promemoria, i suoi messaggi, è un po' come aprire la scatola nera del Renzismo allo zenith. Un governo, quello del senatore di Riad, nel cui sottoscala si muovevano a proprio agio faccendieri dello spessore di Amara, che avevano rapporti con uomini vicinissimi al premier, come Luca Lotti o Andrea Bacci, ma anche, en-passant, con Tiziano Renzi. Un'allegra brigata che frequentava la Capitale per fare politica, ma anche per organizzare affari, decidere nomine e intessere rapporti.
Nel suo verbale Verdini riassume con i magistrati la breve parabola di quella stagione: «La conoscenza con l'avvocato Amara inizia nel 2014. Per comprendere l'origine di tale rapporto devo fare una premessa relativa alla mia storia politica ea quella della costituzione del movimento Ala.
Nell'anno 2013, a distanza di quindici giorni dall'espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato, l'8 dicembre, venne nominato segretario del Pd Matteo Renzi. Dopo poco venne stipulato il cosiddetto Patto del Nazareno. Con tale accordo nasce di fatto il governo presieduto da Renzi. La gestione di tale fase venne affidata per il centrodestra a Berlusconi, Letta e io, mentre per il centrosinistra vi erano Renzi, Guerini (Lorenzo, ndr) e Lotti. L'accordo e le trattative riguardavano le riforme da portare a termine nell'interesse del Paese».
Il «macellaio», come lo ha soprannominato qualcuno, con i pm, specifica: «Dopo il venir meno del Patto del Nazareno, io, che ritenevo quello un grave errore di Berlusconi, creai il gruppo politico di Ala». E aggiunge: «Io non frequentavo Palazzo Chigi, io frequentavo il Nazareno».
[…] Il resoconto di Verdini tocca anche la delicata questione delle poltrone delle partecipate: «Dopo la costituzione del governo vennero effettuate delle trattative per la nomina dei vertici delle grandi società di Stato. Le nomine che occorreva rinnovare erano state fatte in passato dal governo Berlusconi. Io partecipai a varie riunioni per mediare […]. Dopo gli incontri tra le varie forze, io mi recavo al mio partito, essendo all'epoca coordinatore di Forza Italia, e riferivo quale era l'orientamento che era emerso.
All'Eni, Berlusconi voleva che venisse riconfermato Paolo Scaroni, mentre Renzi puntava su Claudio Descalzi, che venne effettivamente nominato. Saverio Romano […] mi disse che doveva presentarmi un professionista che aveva un peso nel mondo Eni».
Ed ecco che spunta l'avvocato Amara, con tutte le conseguenze del caso. L'ex legale (è stato radiato dall'ordine), quando iniziano i suoi problemi giudiziari, per dimostrare l'esistenza della loggia e il proprio potere di influenza cerca di convincere Verdini a reggergli il gioco nelle sue accuse contro i vertici dell'Eni , in particolare contro Descalzi e Claudio Granata, che a Milano la Procura ha ritenuto vittime di calunnia.
[…] Verdini, a Perugia, ha riferito di aver incontrato due volte Amara dopo che costui aveva iniziato a rendere dichiarazioni ai pubblici ministeri di Roma, Milano e Messina: «[…] Amara disse che poteva ritrattare le sue dichiarazioni, ma io, in cambio, avrei dovuto dichiarare che lui era intervenuto per la nomina di Descalzi e che aveva fatto da tramite tra me e Granata. Io rifiutai di rendere tali false dichiarazioni. Faccio presente che nel primo incontro lui non aveva indicato tali condizioni per ritrattare. Aveva semplicemente ipotizzato che venissi sentito nell'ambito di investigazioni difensive.
A questo punto secondo me nasce l'avversione nei miei confronti di Amara. A mio avviso, tale rifiuto ha indotto Amara ad indicarmi come uno dei vertici della loggia segreta».
[…] Anche nelle sue annotazioni Verdini prova a immaginare perché Amara abbia «buttato lì» il suo nome come appartenente all'Ungheria, dandosi, tra le altre, anche questa risposta: «Che era credibile per la mia “notorietà negativa”». […]
[…] Con i magistrati l'ex fondatore di Ala ha specificato: «Prima della nomina di Descalzi nessuno aveva avuto modo di interloquire su tali nomine […]. Come ho già detto è falso completamente quanto riferisce Amara in merito ad un suo intervento per la nomina di Descalzi. […]
Mi fece intendere che secondo i vertici dell'Eni ero stato io a favorire la nomina in oggetto. Io gli dissi che tale circostanza non rispondeva al vero e che Descalzi era stato scelto non per merito mio».
Il 3 giugno 2020, sentito come testimone a Milano, Verdini aveva già detto: «lo risposi loro che non avevo fatto assolutamente nulla in quanto nei tavoli […] ascoltavo […] e non avevo potere decisionale , anche perché il Nazareno era un tavolo di trattativa sulle riforme e non sulle nomine».
Sui fogli intestati del quotidiano Il Tempo Verdini riflette anche su che cosa potrebbe aver causato il fraintendimento ei conseguenti salamelecchi. E arriva a questa conclusione: avrebbe fatto l'errore di comunicare a Romano la possibilità di far incontrare Descalzi a Londra con Renzi e questa informazione, forse, potrebbe essere stata utilizzata da Amara & C. per farsi belli.
A un certo punto, assediato dalle bugie del faccendiere siracusano, Verdini è sbottato davanti ai magistrati: «Se leggete le mie chat, troverete la soluzione di tutto. Vi autorizzo a leggerle e ad utilizzarle».
Queste coprono un periodo che va dall'ottobre 2014 al dicembre 2016, dati della caduta del governo Renzi. Il fantomatico intervento per la nomina di Descalzi sembra trasformarsi nell'occasione per mettere in piedi un business esotico che coinvolgeva pezzi della maggioranza di governo e nella fattispecie Verdini e Romano: «Amara mi propone di importare dell'olio di palma».
Prodotto che avrebbe dovuto «sostituire il petrolio nelle centrali di Gela e Venezia», raffinerie dell'Eni. «Ricordo che in vista dell'organizzazione […], ci recammo a Dubai io, Amara, Saverio Romano, mio figlio ed il figlio di Romano. In tale località verificammo la possibilità di portare a termine l'affare, consistente nell'acquisto di olio di palma da una compagnia (indonesiana, ndr) che aveva il monopolio mondiale di tale prodotto. Tuttavia, l'affare non andò in porto. Non aprimmo alcun conto a Dubai».
Infatti, Denis, per non «invischiare» il figlio, e pregiudicare la propria posizione giudiziaria, si sarebbe opposto al progetto, «sebbene tutto fosse regolare». […]
«Dopo la vicenda di Dubai, Amara venne da me e mi disse che aveva costituito una società in Slovenia e che la stessa funzionava. Non escludo che poi effettivamente qualche operazione sia stata fatta. Un certo punto. affermò che io e Romano eravamo per lui dei soci, almeno dal punto di vista ideale. Ricordo che consegnò delle somme di denaro ai dipendenti di Ala e giustificò tali erogazioni in due modi. Affermò che tali impiegati lo aiutavano nel fornirgli la rassegna stampa e che la somma che lui aveva erogato proveniva dai suoi guadagni con la società slovena».
[…] Negli appunti sono riportati anche delle cifre: «Portò per alcune volte dei soldi, non ricordo gli importi, ma stimo 50/70». Alla domanda «e Saverio?» di Verdini, Amara avrebbe replicato: «A lui ci penso io». […]
Verdini, quindi, descrive Amara come un uomo alla continua e spasmodica ricerca di appoggi per interventi in nomine e in procedimenti giudiziari e che menava vanto di tali attività. L'ex senatore ha raccontato che Amara gli parlava con insistenza dell'attuale ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e che, in un'occasione lo avrebbe incontrato a cena a casa di Amara.
Nel memoriale aveva scritto: «Mi ha invitato decine di volte agli incontri a casa sua e in altri luoghi. Io sono andato una volta a casa, dove ho incontrato Piantedosi». Però, l'indagato, con i magistrati aveva inizialmente negato quella faccia a faccia: «Amara mi fece il nome di Piantedosi e mi propone di parlarci. lo, nonostante le insistenze, non lo incontrai, sebbene Amara volesse che io lo vedessi. Piantedosi all'epoca era in disgrazia nell'ambito del ministero. Probabilmente Amara aveva dei rapporti con Piantedosi, ma io non so di che natura».
A quel punto gli inquirenti gli avevano contestato che nelle sue note aveva ammesso l'incontro e allora Verdini è tornato sui propri passi: «Sì, effettivamente sugli appunti che mi sono stati sequestrati è scritto che ho incontrato Piantedosi. Al momento non lo ricordavo, ma se l'ho scritto è vero. Piantedosi, come ho detto, non era valorizzato e, per quello che ricordo, voleva un'occasione per parlare con il ministro (all'epoca il capo del Viminale era Angelino Alfano, ndr)».
Qualche settimana prima il pm Mario Formisano ad Amara aveva chiesto: «Si è interessato alla carriera professionale del prefetto Piantedosi?». E il faccendiere aveva replicato: «Certo! Lui aveva due aspirazioni, una è fare il capo dei Servizi, ebbe un incontro insieme a me, Denis Verdini, […] proprio a casa mia. Poi voleva diventare capo della Polizia».
Il politico toscano ha fatto riferimento anche a uno dei fratelli dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone: «Amara mi propone nel frattempo di partecipare a numerosi incontri e pranzi. Io gli dissi che non doveva coinvolgermi in operazioni poco chiare […]. Mentre lui si adoperava per trovarmi una fideiussione, […] mi contattò e mi invitò a salire in uno studio. Salii in questo studio, che si trova vicino l'ambasciata americana, e vi trovai un uomo che mi fu presentato come il fratello del dottor Pignatone. Dopo aver parlato con tale professionista, Amara mi disse: "Vedi con chi ho contatti? Sono una persona seria, che lavora con gente rispettabile." Amara mi disse che Roberto Pignatone era un suo consulente. Parlammo circa cinque minuti. Fu solo una presentazione».
L'incontro trova conferma nelle annotazioni di Verdini […]: «Una volta in ufficio mi ha presentato il fratello di Pignatone dicendomi che lavorava con lui e per lui. Questo perché gli dicevo che non volevo pasticci». E il fratello di Pignatone doveva fungere da garanzia. I magistrati hanno chiesto a Verdini se Amara avesse fatto delle donazioni ad Ala e la risposta è stata affermativa: «[…] probabilmente […] ha fatto donazioni di importo modesto. Mi presentò diversi politici e imprenditori […]. Questi ultimi facevano offerte di denaro per sostenere il movimento, ma io le ho sempre rifiutate». In sostanza nella storia di Ungheria, la fantomatica loggia che sembra non sia mai esistita, c'era un po' di tutto, meno che i grembiulini ei compassi.
Loggia Ungheria: la cronologia dei fatti. GIULIA MERLO su Il Domani il 08 luglio 2022
Per seguire meglio il caso loggia Ungheria, è necessario ricostruire la cronologia dei fatti. Dai verbali di Amara resi a Milano nel dicembre 2019 fino alla richiesta di archiviazione della procura di Perugia
Dicembre 2019: l’ex legale esterno di Eni, Piero Amara, viene sentito dai magistrati milanesi Ilaria Pedio e Paolo Storari nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Eni, in particolare quello chiamato “Falso complotto Eni”.
Amara viene sentito il 6, 14, 15 e 16 dicembre e l’11 gennaio 2020 e rende una serie di verbali, nei quali racconta dell’esistenza di quella che lui chiama la loggia Ungheria, una associazione segreta composta da magistrati, politici, funzionari delle forze dell’ordine e uomini di potere, che operava per influenzare gli esiti dei processi e altre attività occulte.
Aprile 2020: Storari, preoccupato per l’inerzia della sua procura e contrario all’immobilità secondo lui imposta dal procuratore capo, Francesco Greco, si consulta con il consigliere del Csm, Piercamillo Davigo. Dei verbali non si è ancora fatto nulla, non procedendo all’inscrizione nel registro delle notizie di reato per cominciare le indagini.
Davigo assicura di poter ricevere i verbali perchè a lui, in quanto consigliere del Csm, non è opponibile il segreto istruttorio. Storari glieli consegna, in formato word e su una chiavetta Usb, e Davigo promette di attivarsi presso il Csm.
4 maggio 2020: Davigo comunica all’ufficio di presidenza del Csm, composto dal vicepresidente David Ermini e dai due membri di diritto della Cassazione, e anche ad altri consiglieri il contenuto dei verbali di Amara, spiegando le sue preoccupazioni per l’inerzia di Milano davanti a quella che potrebbe essere una nuova loggia P2.
Ne parla anche con il pg di Cassazione, Giovanni Salvi, membro dell’ufficio di presidenza del Csm e titolare dell’azione disciplinare oltre che vertice dei procuratori italiani, per chiedergli di intervenire sul procuratore di Milano, Francesco Greco.
Davigo consegna anche copia dei verbali a Ermini, il quale parla del loro contenuto al presidente della repubblica, Sergio Mattarella. Ascoltato come testimone nei giorni scorsi, Ermini ha confermato questi fatti, dicendo di non aver letto i verbali ma di averli distrutti.
9 maggio 2020 la procura di Milano iscrive nel registro delle notizie di reato lo stesso Piero Amara, il suo collaboratore Alessandro Ferraro e l’avvocato Giuseppe Calafiore, con l’ipotesi di reato di associazione segreta.
Giugno 2020: A questo punto c’è un primo fatto su cui ci sono diverse versioni: Salvi sostiene di aver telefonato a Greco e di avergli ingiunto di procedere sui verbali della Loggia Ungheria. «Greco mi informò per grandi linee della situazione e delle iniziative assunte. Si convenne sulla opportunità di coordinamento con le Procure di Roma e Perugia. Il coordinamento fu avviato immediatamente e risultò proficuo», ha spiegato Salvi, indicando dunque che un fascicolo sarebbe stato infine aperto sul contenuto dei verbali di Amara.
Greco dice di non aver ricevuto alcuna pressione esterna, che per la delicatezza delle indagini bisognava procedere con cautela e di averlo fatto secondo i tempi che lui riteneva idonei, appunto nel maggio 2020.
Ottobre 2020: il Csm, in una tesissima seduta, vota per l’esclusione di Davigo dal plenum, in quanto pensionato.
Dicembre 2020: i verbali della loggia Ungheria, lasciati da Davigo nel suo studio, vengono trafugati e inviati in plichi anonimi a due giornali, il Fatto Quotidiano e Repubblica, che però non li utilizzano e vanno a denunciarli alle procure di Roma e Milano.
Gennaio 2021: dopo un interrogatorio congiunto ad Amara tra le procure di Milano e Perugia, la procura di Milano trasmette l’intero procedimento per competenza alla procura di Perugia. L’ipotesi accusatoria è di associazione segreta e gli indagati dovrebbero essere dei magistrati romani di cui ancora non si conoscono i nomi.
27 aprile 2021: il nostro quotidiano pubblica un articolo sugli affari del leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, in cui vengono citati anche i verbali di Amara.
28 aprile 2021: durante il plenum del Csm, il togato Nino Di Matteo rende pubblica l’esistenza dei verbali e della presunta loggia Ungheria, dicendo di aver ricevuto i verbali in un plico anonimo e di ritenerli calunniosi nei confronti in particolare del collega del Csm, Sebastiano Ardita.
Aprile 2021: sono aperti altri due procedimenti penali: uno a Roma per calunnia a carico di Marcella Contraffatto, ex segretaria di Davigo e considerata la mittente dei plichi anonimi e uno a Brescia, con l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio a carico di Storari.
Settembre 2021: Greco va in pensione da procuratore capo di Milano, in una intervista difende il suo operato e attacca sia Storari che Davigo per l’utilizzo dei verbali.
Ottobre 2021: Greco viene indagato dalla procura di Brescia e rinviato a giudizio con l’accusa di omissione d’atti d’ufficio per la gestione del processo Eni-Nigeria, in cui si tentò di utilizzare anche le dichiarazioni di Amara e che è all’origine dello scontro interno alla procura di Milano.
Dello stesso reato sono imputati anche Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, titolari del fascicolo.
Febbraio 2022: il procedimento contro Greco viene archiviato dal tribunale di Brescia.
Marzo 2022: il tribunale di Brescia assolve Storari con un procedimento con rito abbreviato per rivelazione di segreto d’ufficio. Rimane in corso un procedimento con la stessa imputazione a carico di Davigo, che ha scelto il rito ordinario.
Aprile 2022: inizia a Brescia il processo a Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio, nel quale verranno sentiti tutti i vertici coinvolti.
Luglio 2022: la procura di Perugia chiede l’archiviazione dell’inchiesta per associazione segreta sulla presunta loggia Ungheria, ritenendo che le dichiarazioni di Amara non abbiano sufficienti riscontri. Stralcia però alcune delle sue dichiarazioni e le invia per competenza ad altre procure perchè si continui ad indagare.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Piercamillo Davigo, se la gogna in televisione fa male perfino a lui. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 06 ottobre 2023
C’è una sorta di nemesi biblica che dovrebbe insufflare, nella raffinatissima mente giuridica di Piercamillo Davigo, il germe del dubbio. Perché andare in tv a farsi del male? Dubbio che dovrebbe assalire il magistrato ogni volta – e le volte sono tante - in cui si presenta nei talk show a fornire il proprio contributo su riforma della giustizia, terzietà dei pm e processi sulla cresta dell’onda, tipo quello sulla Loggia Ungheria. Ovvero il processo in cui egli stesso risulta condannato in primo grado, colpevole secondo il tribunale di aver addirittura «smarrito la postura istituzionale»: per un servitore dello Stato la peggiore delle infamie.
Ecco: noi siamo contenti - ora che il condannato è lui - che il magistrato fieramente giustizialista, l’uomo per cui non esistevano «innocenti ma colpevoli ancora da scoprire», oggi appaia convertito a un’idea garantista del mondo.
Siamo felici che Davigo, come ha fatto a La7, prima a Otto e mezzo, poi a Piazzapulita, poi a DiMartedì, invochi ora l’articolo 27 della Costituzione. La presunzione di non colpevolezza, un tempo da lui ritenuta una sorta di eczema della giustizia. Certo, è vero che la condanna della toga a un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio è soggetta a ricorso e che l’ordinamento per condannare definitivamente richiede tre gradi di giudizio. Ed è una grande conquista per noi garantisti, il fatto che proprio Davigo la rimarchi.
Però esiste anche una dimensione televisiva. Che oramai spinge ogni interlocutore di Davigo ospite nei talk a opporgli sempre quella prima condanna che è la lettera scarlatta. Il peccato originale. Funziona così. Davigo comincia a prodursi nei suoi monologhi da toga arcigna che – sbem! - gli arriva subito la palata nei denti: «Dottor Davigo, lei è un condannato: per i suoi parametri non dovrebbe parlare...». E si capisce che, da quel momento, ogni tentativo del magistrato, di risalire la china dialettica finisca per schiantarsi contro la realtà. Poi metteteci anche altre perle. Tipo Davigo che, sempre da Floris aveva affermato che il collega Francesco Greco avesse violato la legge (e invece è stato archiviato). Tra l’altro, nello spettatore la timida asprezza di Davigo televisivamente viene presa per arroganza. Le frequenti sortite di Davigo in tv non ispirano propriamente le notti nel rimorso dell’Innominato. Consiglio non richiesto è che il dottore si autobandisca dal video, almeno fino alla sentenza definitiva....
L'ultima di Davigo: querela "alla cieca". Il magistrato cita Mieli, ma non ha visto il video "incriminato". I giudici: "Sorprendente". Luca Fazzo il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.
Proprio così: «sorprendente». Il comportamento di Piercamillo Davigo, già pm di punta del pool Mani Pulite ed ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, viene definito in questi termini in una interessante sentenza depositata a Milano, a conclusione dello scontro frontale che ha opposto l'ex magistrato a una delle firme più importanti del giornalismo italiano. Davigo aveva querelato per diffamazione aggravata Paolo Mieli, già direttore del Corriere della sera e tutt'ora grande firma del quotidiano milanese, per un articolo sul caso Palamara. In quell'articolo Mieli citava e riassumeva le dichiarazioni di Luca Palamara in una trasmissione televisiva. Davigo aveva querelato Mieli accusandolo di avere forzato, distorto le frasi di Palamara andate in onda. Ebbene: ora si scopre che Davigo manco sapeva cosa avesse detto davvero Palamara, per il semplice motivo che la trasmissione non l'aveva vista. Mai, neanche in differita. Eppure aveva querelato Mieli.
Lo scorso 28 giugno il giudice milanese Luigi Varanelli aveva assolto Mieli «perchè il fatto non costituisce reato». Ora arrivano le motivazioni della assoluzione. Che, per ben due volte, danno conto dello stupore del giudice davanti al comportamento dell'illustre ex collega.
Tutto, ricorda la sentenza, nasce da una frase dell'articolo scritto da Mieli pochi giorni dopo la apparizione tv in cui Palamara parlava delle nomine di importanti procuratori della Repubblica avvenute con il suo intervento: «Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente». Non l'avesse mai scritto: Davigo si indigna, «queste porcherie non le ho mai fatte», e corre dall'avvocato a denunciare Mieli.
Chiamato a giudicare il giornalista, il giudice Varanelli si rende conto subito che Mieli non ha esposto idee sue, ma ha riferito quanto detto da Palamara: quindi il succo del processo è verificare se lo abbia riferito correttamente. Nell'aula viene così proiettato il video della trasmissione di Massimo Giletti su La7. Scrive ora Varanelli nelle motivazioni: «Il tribunale ha invitato il querelante a specificare quale fosse stato il passaggio ritenuto diffamatorio. Senonchè, continuando a ribadire di essere stato sempre con le parole e con i fatti assolutamente estraneo e fiero avversario di ogni sorta di deriva correntizia, il Davigo ha sorprendentemente risposto di non avere mai visto prima di allora - ossia della visione in aula - la trasmissione del Giletti (...) il teste ha ripetuto a specifica domanda che l'imputato Mieli avesse frainteso in malafede le parole dell'intervistato, perchè egli era notoriamente estraneo a ogni logica spartitoria. Il tribunale lo ha ripetutamente invitato a specificare quale passaggio dell'articolo lo avesse leso in particolare. Del tutto sorprendentemente il Davigo ha risposto di non avere mai visto prima la trasmissione e di essersi basato su quanto riferitogli dall'avvocato».
Cioè: Davigo accusa un giornalista di avere commesso un delitto accusandolo di avere travisato dichiarazioni rese in una trasmissione che però Davigo non ha sentito. C'è da sperare che quando faceva il pubblico ministero non usasse lo stesso sistema di valutazione delle prove.
(Comunque Davigo è in buona compagnia. Anche il magistrato della Procura di Milano che ricevette la sua querela decise di mandare Mieli sotto processo senza neanche guardare il video)
Querele facili perché senza conseguenze. Davigo querela per sfizio, l’ammissione del pm (condannato) che scarica tutto sul suo avvocato: Paolo Mieli assolto. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 26 Settembre 2023
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ex presidente di sezione penale in Cassazione, ex fondatore nel 2016 della corrente Autonomia&Indipendenza (ora scomparsa, ndr), ex consigliere del Csm, attualmente editorialista di punta del Fatto Quotidiano, querelerebbe a “scatola chiusa”. La quanto mai singolare circostanza è stata riportata domenica scorsa dal Giornale dando la notizia del deposito delle motivazioni dell’assoluzione, lo scorso giugno, di Paolo Mieli.
All’indomani dello scoppio del Palamaragate, l’ex direttore del Corriere della Sera aveva scritto – il 6 giugno del 2020 – un lungo articolo sulle colonne del quotidiano di via Solferino a proposito delle correnti delle toghe nel quale, fra l’altro, riportava una sintesi delle dichiarazioni rilasciate sul punto dallo stesso Luca Palamara durante la trasmissione televisiva In Onda su La7 di qualche giorno prima.
Intervistato da Massimo Giletti, Palamara aveva spiegato infatti come funzionava il sistema delle nomine dei magistrati al Csm, citando, scrisse poi Mieli, “il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d’accordo con l’uomo di maggiore rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente”. Immediata, come da copione, la reazione di Davigo che aveva presentato una querela per diffamazione aggravata a mezzo stampa (“non faccio queste porcherie”, disse Davigo, ndr) nei confronti del solo Mieli e non, stranamente, di Palamara a cui venivano attribuite tali dichiarazioni.
Dopo il rinvio a giudizio, il processo era stato assegnato al giudice Luigi Varanelli il quale – durante una delle udienza – aveva deciso di mostrare in aula il video della trasmissione incriminata, chiedendo quindi a Davigo quale fosse il passaggio “diffamatorio” poi riportato nella sintesi giornalistica di Mieli. Alla domanda del giudice Varanelli, Davigo era stato costretto ad ammettere di non aver mai visto prima di allora la trasmissione e di essersi basato, per presentare la querela nei confronti di Mieli, su quanto gli avrebbe riportato il proprio avvocato. Inevitabile, a quel punto, la richiesta di assoluzione del giornalista non solo da parte del difensore, l’avvocato Caterina Malavenda, ma anche da parte del pubblico ministero Paolo Filippini.
“All’ultima udienza l’avvocato di Davigo mi ha proposto un accordo, ho apprezzato il gesto ma l’ho rifiutato. Ho preferito rischiare la condanna che fare pari e patta, e per un motivo semplice. La denuncia di Davigo non era contro l’articolo che ho scritto ma contro di me, contro il mio ruolo di direttore del Corriere della Sera e contro le cose che ho scritto in questi anni sulla giustizia italiana”, aveva dichiarato soddisfatto Mieli, a cui l’ex pm di Mani pulite aveva chiesto 15mila euro, al termine del processo.
La querela di Davigo comunque si inserisce nel solco di quelle presentate in questi anni da decine di magistrati che, chiamati in ballo da Palamara, hanno deciso di fare terra bruciata nei confronti dei giornalisti che avevano osato riportare quanto dichiarato dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. L’elenco è sterminato. Fra le denunce al momento archiviate merita di essere segnalata quella di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e toga di punta della corrente progressista Area, e quella di Luigi De Ficchy, ex procuratore di Perugia. Il primo aveva denunciato i giornali che avevano pubblicato le sue chat con Palamara, accusando i giornalisti di aver ordito una manipolazione o falsificazione, ovviamente non vera, delle stesse. Il secondo invece si era scagliato direttamente contro questo giornale che si era limitato a riportare fedelmente quanto affermato durante un interrogatorio dal faccendiere Piero Amara nei suoi confronti davanti ai pm di Milano a proposito della loggia Ungheria, e quanto dichiarato da Palamara alla Commissione parlamentare antimafia nel 2021. Archiviando la denuncia di De Ficchy, il giudice Valentina Giovanniello del Tribunale di Napoli aveva sottolineato che il contenuto eventualmente diffamatorio va attribuito ai dichiaranti e non ai giornalisti, in quanto ciò da quest’ultimi riportato trova fondamento non solo “nella verità del fatto oggetto della dichiarazione ma anche dalla verità del fatto della dichiarazione stessa che è di per sé di interesse pubblico, indipendente dalla verità del fatto dichiarato, perché resa da soggetto qualificato”.
Quello che non stupisce è l’estrema facilità con la quale si presentano querele, ben sapendo di non subire alcuna conseguenza in caso si dimostri la loro infondatezza. I magistrati, come riportato poi in una recente ricerca edita da Giure da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, sono la categoria professionale che denuncia in assoluto più di tutte le altre. Paolo Pandolfini
Caso verbali, Davigo fa appello: «Al Csm nessuno parlò di segreti». L’ex pm di Mani pulite impugna la condanna a Brescia per rivelazione. I legali: «Tutti sapevano». Il Dubbio il 20 luglio 2023
«Tutti gli altri soggetti che ai tempi vennero informati dal dottor Davigo dell'esistenza di quei verbali secretati» non hanno «mai» avuto «a obiettare alcunché nel momento in cui venne fatto oggetto dell'asserita “rivelazione segreta”, e neppure successivamente, quando emerse l'anno dopo pubblicamente la circostanza». Lo scrivono i legali di Piercamillo Davigo, gli avvocati Francesco Borasi e Davide Steccanella, nel ricorso depositato alla Corte di appello di Brescia contro la sentenza di condanna a un anno e 3 mesi (pena sospesa) e 20mila euro di risarcimento per Sebastiano Ardita nei confronti dell'ex membro del Csm, per aver rivelato il contenuto dei verbali della “Loggia Ungheria” resi dall'ex legale esterno Eni Piero Amara alla procura di Milano e a lui consegnati ad aprile 2020 dal pm Paolo Storari, lamentando inerzie investigative da parte dei suoi vertici e il “muro di gomma” rispetto alle necessità di svolgere indagini rapide sulla presunta loggia massonica.
«Anche costoro - si legge nel ricorso di Davigo con riferimento a una dozzina di persone informate dell'esistenza dei verbali a Roma fra maggio e settembre 2020 - seppure a diverso titolo (avvocati, magistrati) sono uomini di legge, e ricoprenti le più alte cariche istituzionali in campo giudiziario, compreso il procuratore generale presso la Corte di Cassazione (all'epoca Giovanni Salvi, ndr), il quale, ben guardandosi dall'eccepire al dottor Davigo la commissione del reato di rivelazione di segreto, ritenne di immediatamente rivolgersi al procuratore della Repubblica di Milano ( all'epoca Francesco Greco, ndr) per sollecitare la ritardata iscrizione' sul registro degli indagati.
«Ho letto la sentenza di condanna e l'ho trovata profondamente sbagliata e per questo meritevole di essere impugnata nella convinzione che la Corte di appello assolverà Davigo perché a mio parere non ha commesso nessun reato», ha spiegato all’Adnkronos l’avvocato Steccanella.
Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Perché Repubblica censura le motivazioni della condanna di Davigo: meglio non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 5 Luglio 2023
La notizia non c’è. Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Nulla.
In 40 pagine di giornale, ieri, Repubblica non ha trovato lo spazio per dare la notizia del deposito delle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha condannato il mese scorso ad un anno e tre mesi di prigione per rivelazione del segreto d’ufficio Piercamillo Davigo.
Repubblica è lo stesso giornale che ultimamente, un giorno sì e l’altro pure, intervista magistrati di ogni ordine e grado, in servizio ed in pensione, per criticare la riforma della giustizia voluta da Carlo Nordio. Ed è anche il giornale che, a maggio del 2019, fece lo ‘scoop’ pubblicando, con le intercettazioni in atto, quelle dell’hotel Champagne, determinando poi, come hanno riportato nella sentenza i giudici bresciani, i contrasti fra lo stesso Davigo ed i componenti del suo gruppo, Autonomia&indipendenza, ad iniziare da Sebastiano Ardita, poi risarcito con 20mila euro.
Strano modo di concepire il giornalismo dalle parti di largo Fochetti: si pubblicano atti coperti dal segreto e non si pubblicano le sentenze emesse nel popolo italiano.
A parziale giustificazione, va ricordato che Davigo è stato spesso intervistato da Repubblica. Meglio, allora, non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini
La sentenza Davigo e i giornalisti d’inchiesta: una storia ridicola. Dimenticanze, documenti nascosti, secretati, desecretati, esposti, prestati, spariti... cellulari inumiditi. Dichiarazioni da commedia. Malafede o ignoranza? Iuri Maria Prado su L'Unità il 5 Luglio 2023
Anche chi non sia del mestiere può leggere senza problemi le centoundici pagine della sentenza del tribunale di Brescia che motivano la condanna inflitta, per rivelazione di segreto d’ufficio, al dottor Piercamillo Davigo. È una lettura di interesse non tanto per il ragionamento che ha portato il collegio giudicante a ritenere il dottor Davigo responsabile di aver commesso quel delitto, ma per la rassegna di strepitose circostanze che contornavano il ciclone degli accadimenti. Viene in mente quella pagina delle Memorie di Adriano: “…baci furtivi sulle scale, sciarpe fluttuanti sui seni, commiati all’alba, e serti di fiori lasciati sulle soglie”.
Solo che qui si stava sulle scale, anzi “nella tromba delle scale”, e a rendere memorabili i giudiziosi accoppiamenti non c’erano gli ardori dell’amante “che stordivano come una melodia frigia”, ma gli occhioni celesti e il profilo post-vaffanculo del presidente della Commissione antimafia, senatore Nicola Morra, il quale riceveva le illecite confidenze del dottor Davigo per poi sentirsi dire in sentenza (era testimone) che “non ha brillato per capacità comunicativa”, povera stella, coi giudici impietosamente incattiviti sulla “sospetta insipienza” dimostrata dal teste nel non rispondere in modo chiaro alla domanda ovvia, e cioè se il conciliabolo con il dottor Davigo fosse avvenuto in via amicale o istituzionale. Ed evidentemente lo sventurato, rispondendo in quel modo, cioè non rispondendo, dimenticava ciò che aveva dichiarato in precedenza (“In quel momento non parlavo con lui – vale a dire con Davigo, n.d.r. – nella mia veste di Presidente della Commissione Nazionale Antimafia e il colloquio aveva carattere privato”).
Altro che sciarpe fluttuanti, qui frusciavano le veline dei verbali prima inguattate e poi disseminate in favore dei confidenti, quelle che si potevano rammostrare al Csm perché non c’era il segreto – questa la tesi della difesa – e quelle che invece si potevano ostentare al suddetto Morra perché, lui sì, era… “tenuto al segreto”. E qui in effetti il lettore comune perde il filo, perché non capisce più come funzioni questa storia del segreto: che non c’è quando si tratta di divulgarlo ad alcuni, ma che ricompare per trasferimento in tromba di scale per vincolare non già chi lo divulga, bensì chi lo riceve, vale a dire Morra: che però dice di sé stesso di non essere lì come presidente dell’Antimafia, cioè il soggetto pretesamente tenuto al segreto, ma in veste di non si sa cosa. E dice pure, Morra, che Davigo non gli aveva riferito che i verbali erano secretati. Doveva essere sottinteso, boh, vai a capire.
E sugli usci, poi, non serti di fiori, ma ancora quelle veline, finite in impreveduto svolazzo alle porte delle redazioni e delle residenze private del giornalismo d’inchiesta – scelto a caso, come vedremo tra poco – il quale però, per per una volta, non le pubblicava immediatamente (prima era meglio chiedere consiglio). C’è per esempio questo Antonio Massari, del Fatto Quotidiano, anche lui testimone. Il presidente del tribunale gli domanda se “i giornalisti avevano legami con personaggi che gravitavano intorno al Consiglio Superiore”, e quello risponde che “ha dei contatti, come è giusto che sia, però le fonti sono sempre state riservate”. Peccato non sapere se ci sono giornalisti che lavorano sulla scorta di contatti con personaggi gravitanti intorno al Csm. Mica è necessariamente illecito, figurarsi, ma il lettore (abbiamo il “dovere” di informarlo, giusto?) potrebbe essere interessato a sapere se il Consiglio Superiore della Magistratura è il centro di un sistema satellitare che organizza lo smistamento dei “plichi anonimi” di cui parla la sentenza. Macché.
Poi c’è quest’altra, Liana Milella, di Repubblica, testimone a sua volta e anch’ella destinataria di quei plichi, il cui invio era stato preannunziato da una telefonata anch’essa anonima: una voce di donna con accento settentrionale (impagabili le pagine della sentenza che indugiano sulle abilità della giornalista di “distinguere una voce del nord da una voce del centro e una voce del sud”). Milella riceve l’incartamento, cioè il pacco di veline, accompagnato da una lettera che sparla del procuratore della Repubblica di Milano e del procuratore generale della Cassazione: e che fa? Dice che si sente “prigioniera di un segreto”: e allora porta il plico alla Procura di Roma, conservando tuttavia “una copia degli atti”.
Poi evidentemente qualcosa o qualcuno sprigiona la giornalista dal segreto che ne raggelava gli intendimenti, e lei decide allora di passare le veline (così almeno dice la sentenza, pag. 53, riga 8 e seguenti) a uno notoriamente abituatissimo al riserbo assoluto e totalmente estraneo anche al sospetto di qualche eccentricità nell’interpretazione delle funzioni consiliari: tale Luca Palamara. E qui il solito lettore un po’ tardo capisce che il segreto che ti sconsiglia di pubblicare la notizia è lo stesso che ti induce a passarla a quello che i giornali, tra i quali il tuo, definiscono come il protagonista del più grande scandalo giudiziario della storia repubblicana.
Poi la sentenza si intrattiene sui fatti mirabili di cui già scrivemmo qui: le chat irrecuperabili perché il cellulare ha preso umidità e il dottor Davigo se lo fa cambiare dal concessionario Apple che esegue il backup di tutto, ma non di quei messaggi (porca vacca!); i file nelle chiavette Usb, che però “si perdono sempre”, ma attenzione: i documenti non ci sono nemmeno se le chiavette non si perdono, perché vengono cancellati “per fare spazio”; le email introvabili perché gli account vengono soppressi nella cessazione dei ruoli giudiziari e istituzionali dell’imputato.
È lo “sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica” di cui parla la sentenza, la strana “morìa dei possibili elementi di riscontro” che il tribunale ritiene “ragionevolmente prossima” alla perquisizione subita dalla collaboratrice del dottor Davigo. Una vicenda, quest’ultima, che i giudici bresciani hanno ritenuto di non rimettere all’attenzione di “altre Autorità Giudiziarie” per gli accertamenti di ragione. E per noi bene così. Ma chissà per il giornalismo d’inchiesta.
Iuri Maria Prado 5 Luglio 2023
(ANSA lunedì 3 luglio 2023) - "Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari, (verbali formato Word, tramite chiavetta Usb, consegna nell'abitazione privata dell'imputato), e le precauzioni adottate in occasione delle disvelamento ai consiglieri - avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici - appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale".
Lo si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna a 15 mesi di reclusione nei confronti dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, decisa lo scorso 20 giugno dal Tribunale di Brescia.
(ANSA lunedì 3 luglio 2023) - "Alla luce di quanto emerso nel processo viene da ritenere che tra il dottor Storari e il dottor Davigo si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante".
Lo si legge nella sentenza di condanna del Tribunale di Brescia, che ha inflitto un anno e 3 mesi, con la sospensione condizionale e la non menzione, all'ex componente del Csm Pier Camillo Davigo, in un passaggio che riguarda i suoi rapporti con il pm di Milano Storari, assolto definitivamente dalla vicenda con al centro i verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria.
Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che "nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all'epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un'iniziativa 'self made' o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra".
"Iniziò a fargli terra bruciata al Csm". Davigo condannato: nessuna intenzione di salvare la magistratura, la missione era screditare il “massone” Ardita. Le motivazioni della condanna a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 4 Luglio 2023
Nessuna missione “salvifica” nei confronti della magistratura italiana, in quel momento sotto attacco per le rivelazioni ‘shock’ dell’avvocato Piero Amara, quanto piuttosto «polarizzare chirurgicamente l’attenzione» nei confronti dell’allora collega del Csm Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina. È quanto si legge nelle oltre cento pagine di motivazioni della sentenza, depositata ieri, con cui i giudici della prima sezione del tribunale di Brescia, presidente Roberto Spanò, hanno fatto a pezzi la linea difensiva di Piercamillo Davigo.
Il mese scorso l’ex pm di Mani pulite ed idolo di tutti i manettari del Paese era stato condannato ad una pena di un anno e tre mesi di prigione per rivelazione e utilizzazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria, resi da Amara, all’epoca legale esterno di Eni, alla Procura di Milano verso la fine del 2019. Per i giudici bresciani, in particolare, Davigo era convinto che Ardita, con il quale aveva fondato la corrente Autonomia&indipendenza e aveva scritto dei libri per Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano di cui erano entrambi editorialisti di punta, fosse un “massone”, proprio come affermava Amara.
Una accusa terribile al punto, proseguono i giudici, che Davigo «iniziò a fargli terra bruciata al Csm». Ardita, da parte sua, aveva scoperto che qualcosa non andava ed infatti si era confidato con David Ermini, vice presidente del Csm, del fatto che diversi consiglieri gli avevano «tolto il saluto e lo schivavano». Alcuni componenti del Csm, come il togato Giuseppe Marra, anch’egli appartenente ad A&i, a seguito delle rivelazioni di Davigo erano addirittura arrivati a pensare che Ardita fosse «un uomo pericoloso».
Davigo, per questo motivo, è stato anche condannato a risarcire Ardita con 20 mila euro. L’ex pm di Mani pulite, invece, si era difeso dicendo di aver agito correttamente, rispondendo alla richiesta di ‘aiuto’ del pm milanese Paolo Storari che, dopo aver interrogato Amara, avrebbe voluto fare indagini per verificarne la veridicità del contenuto delle sue dichiarazioni. Paolo Pandolfini
Pm Milano: “Tra Davigo e Storari un cortocircuito fuorviante”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2023
È quanto si legge nelle 111 pagine di motivazioni con cui il tribunale di Brescia ha condannato l'ex componente del Csm a 1 anno e 3 mesi per rivelazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria resi dall'ex legale esterno di Eni, Piero Amara. ALL'INTERNO LA SENTENZA INTEGRALE
Tredici giorni dopo la condanna inflittagli in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio sono uscite le motivazioni sulla sentenza che ha sancito un anno e tre mesi di reclusione (con pena sospesa e non menzione nel casellario) a Piercamillo Davigo per il caso dei verbali della presunta Loggia Ungheria – resi dall’ex legale esterno di Eni, Piero Amara – che il magistrato aveva ricevuto dal pm di Milano Paolo Storari. “Le motivazioni offerte dal dottor Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegati ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali”, scrive il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Brescia, Roberto Spanò, nelle 111 pagine.
“Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari, (verbali formato Word, tramite chiavetta Usb, consegna nell’abitazione privata dell’imputato), e le precauzioni adottate in occasione delle disvelamento ai consiglieri – avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici – appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale“.
“Alla luce di quanto emerso nel processo viene da ritenere che tra il dottor Storari e il dottor Davigo si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante”. Lo si legge nella sentenza di condanna del Tribunale di Brescia, che ha inflitto un anno e 3 mesi, con la sospensione condizionale e la non menzione, all’ex componente del Csm Davigo, in un passaggio che riguarda i suoi rapporti con il pm di Milano Paolo Storari, assolto definitivamente dalla vicenda con al centro i verbali di Piero Amara su una presunta “loggia Ungheria“.
Nel corso del processo in cui era imputati Davigo si era difeso dichiarando di non aver seguito le vie formali perché tra i presunti appartenenti alla loggia erano citati anche due consiglieri del Csm. Secondo i giudici della Prima sezione penale, però, “non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm” dei verbali “in assenza dell’iscrizione nel registro degli indagati di nominativi di magistrati”. Inoltre, scrivono, “il dottor Storari si era rivolto a Davigo per rimuovere l’impaccio all’indagine e non per denunciare i colleghi menzionati da Amara“.
Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che “nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra”.
“Numerosi indizi – e non ‘una ricostruzione obiettivamente paranoica’ – suggeriscono che Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte di Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020“. Nella vicenda, infatti, “si è assistito ad un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici , pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti. Al riguardo, appare lecito pensare che la morìa dei possibili elementi di riscontro sia avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla Contrafatto“.
Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che “nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra“. Redazione CdG 1947
Sulla condanna di Davigo spunta l'ombra di Boccassini. Luca Fazzo il 4 Luglio 2023 su Il Giornale.
Nelle motivazioni della sentenza di Brescia il ruolo di "Ilda la rossa" dietro le mosse del pm Storari
Forse alla fine la verità è quella che Piercamillo Davigo ha messo a verbale durante uno dei suoi interrogatori: «Il tempo passa e io invecchio». Come escludere che anche lo scorrere inesorabile e scortese degli anni abbia inciso, nell'aiutare il leggendario Dottor Sottile del pool Mani Pulite, ad infilarsi nel guaio che lo ha trasformato da inquisitore a inquisito, e poi da giudice a condannato? Implacabile il giudizio dei giudici: «Modalità carbonare (di Davigo ndr.), che appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionali».
Di certo c'è che le motivazioni depositate ieri della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha inflitto a Davigo quindici mesi di carcere per rivelazioni di segreto d'ufficio lasciano aperte almeno due piste per spiegare come sia stato possibile che i verbali esplosivi del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria siano finite prima nelle mani di Davigo, poi in quelle di una sfilza di magistrati e politici romani e infine sui giornali. Nella prima pista, quella che i giudici ritengono provata, Davigo è l'unico colpevole. Nella seconda, più inquietante, lo scenario cambia, affiorano ipotesi più complicate: forse Paolo Storari, il pm che consegnò materialmente i verbali a Davigo come gesto di ribellione contro l'insabbiamento delle indagini sulla loggia, non è l'unico ad avere parlato troppo, e forse Davigo sapeva tutto già prima. Forse, si legge nella sentenza, bisogna chiedersi «se quella del sostituto sia stata davvero un'iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Chi è il «mentore ispiratore» di Storari? Tra i colleghi che avevano consigliato a Davigo di fidarsi del più giovane collega, la sentenza fa un nome pesante: lo stesso imputato ha detto che Storari aveva «delle credenziali che venivano da Ilda Boccassini, magistrato di straordinaria sagacia investigativa che lo aveva avuto nel suo dipartimento (...) aveva una fiducia illimitata in Storari, questo me l'aveva detto».
Per i giudici di Brescia, era comunque una fiducia malriposta. Perché la furia di Storari (che nel frattempo è stato assolto) contro l'insabbiamento dell'indagine sulla loggia, dei verbali in cui comparivano magistrati, politici, generali, viene considerata dai giudici di Brescia del tutto immotivata e insensata: la cautela con cui i capi di Storari, ovvero il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, gestivano in quei mesi le rivelazioni di un soggetto ambiguo come Amara sono segno secondo il giudice Roberto Spanò delle «difficoltà incontrate dagli inquirenti nella gestione di un materiale limaccioso, cosparso da una patina scivolosa su cui era arduo far presa (...) la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo, onde evitare ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali».
Sta di fatto che Storari, di sua iniziativa o spinto da un «mentore occulto», sclera e porta le carte a Davigo. E su quello che accade dopo la sentenza non ha dubbi: Davigo commette una lunga serie di reati, consegnando o raccontando i verbali a gente che non aveva nessun diritto di conoscerli. E lo fa con un movente preciso: in quelle carte viene indicato come massone e aderente alla loggia un altro membro del Csm, Sebastiano Ardita, ex amico di Davigo divenuto suo nemico giurato. «Le risultanze processuali dimostrano che l'imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura (...) abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l'attenzione sul dott. Ardita rendendo precaria anche in seno allo stesso Csm la posizione di un componente che egli considerava ormai fuori da gruppo». Cortesie tra colleghi.
I giudici: «Smarrimento della postura istituzionale». Forse sapeva della Loggia prima di aprile 2020. Simona Musco su Il Dubbio il 3 luglio 2023
«Incontinenza divulgativa», «selezione» dei confidenti, «modalità quasi “carbonare”» di circolazione di notizie segrete: sono tutti comportamenti attribuiti dal Tribunale di Brescia all’ex pm Piercamillo Davigo, le cui scelte, secondo il collegio che lo ha condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio, «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». Sono motivazioni dure quelle con le quali i giudici hanno motivato la sentenza di condanna del processo nato dalla consegna, da parte del pm Paolo Storari, dei verbali di Piero Amara a Davigo, che ha poi scelto di non seguire i canali legittimi - pur conoscendo a menadito le regole - provocando un danno non solo all’ex amico Sebastiano Ardita, indicato falsamente quale membro della presunta “Loggia Ungheria”, ma soprattutto alle indagini, di fatto ammazzate dalla scelta compiuta dai due magistrati. «Con il suo comportamento - scrivono i giudici - l’imputato ha disseminato tossine denigratorie nella stretta cerchia di frequentazioni dell’ex amico, con ripercussioni anche sul corretto funzionamento del Csm». Ma soprattutto, «se l’elusione dei binari formali aveva lo scopo di impedire la divulgazione di una notizia da mantenere segreta, il risultato ottenuto è stato quello di averla diffusa in modo incontrollato».
Le scelte della procura di Milano, afferma il collegio presieduto da Roberto Spanò, furono d'altronde corrette: non solo era necessario evitare «ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto a notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali», ma c’erano anche problemi di competenza territoriale da affrontare. Inoltre, «anche laddove si fosse inteso procedere nei modi indicati dall’imputato sulla base delle “dichiarazioni autoincriminanti" del legale - iscrivendo, quindi, almeno lo stesso Amara che si autoaccusava, ndr -, non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm in assenza dell’iscrizione dei nominativi di magistrati, neppure in previsione di rilievi di natura disciplinare, inscindibilmente legati, nel caso di specie, a quelli penali». Di fronte al «muro di gomma» da lui denunciato, dunque, Storari avrebbe dovuto rivolgersi alla procura generale di Milano, l’unica «preposta al controllo delle disposizioni in materia di iscrizione delle notizie di reato e alla vigilanza sugli eventuali contrasti all'interno dell’Ufficio di procura».
L’incontro Davigo/Storari
Sono diversi i punti oscuri, stando alla sentenza. Tanto da non poter escludere nemmeno il dubbio che Davigo fosse a conoscenza dei verbali ben prima di aprile 2020 - data indicata come momento della consegna dei verbali - e che ci fosse una sorta di un «mentore ispiratore», come «pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Quel che è certo, secondo i giudici, è che tra Storari e Davigo «si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante». A partire dalla situazione descritta da Storari, «distonica rispetto a quella reale», facendo intendere a Davigo, «contrariamente al vero, che vi fossero resistenze rispetto all’indagine che intendeva sviluppare». All’ex pm, nonostante la grande esperienza da magistrato, era bastato poco per fidarsi: la «risonanza emotiva con cui questi aveva accompagnato il racconto» e il parere che l’ex collega Ilda Boccassini aveva di Storari. E anziché limitarsi ad ascoltare ed eventualmente consigliare il magistrato milanese, Davigo «ha cavalcato l’inquietudine interiore dell’interlocutore», convincendolo che il segreto non fosse opponibile ai consiglieri del Csm, nonostante «la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di “fare un plico riservato”».
L’opponibilità del segreto
Ma il segreto era davvero non opponibile ai membri del Csm? Secondo i giudici no: se è vero che «per permettere al Csm di funzionare è necessario che i singoli consiglieri siano adeguatamente informati su ciò che devono decidere, tuttavia la materia è disciplinata da norme di rango secondario che fissano ben precisi paletti rispetto ai casi, ai modi e ai tempi in cui gli Uffici di procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al Consiglio atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività». Non c’è, dunque, un diritto ad un accesso incondizionato, perché spetta alla procura decidere se omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - «la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi». Proprio per tale motivo «la migrazione di atti coperti da segreto deve avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia». Nessuna prova, nel corso del processo, ha giustificato la scelta di Davigo, prima fra tutti quella di far circolare «atti riservati in assenza di passaggi formali». E anzi l’ex pm ha «allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione», senza acquietarsi nemmeno dopo aver raggiunto lo scopo di «instradare il procedimento “Ungheria” nei binari della legalità» con le prime iscrizioni del 12 maggio 2020. Il tutto giustificando le proprie azioni con la necessità di spiegare il suo allontanamento di Ardita. Ma per il collegio «non vi era nessuna necessità» di giustificare «la presa di distanza dai collega Ardita»: sarebbe stato sufficiente riferire genericamente, come fatto con altri interlocutori, di «ragioni di contrasto molto gravi di cui tuttavia “non poteva parlare”». Proprio per tale motivo, secondo i giudici, le rivelazioni, «lungi da essere legittime e necessitate, sono state in definitiva finalizzate a gestire rapporti e situazioni private all’interno del Csm».
Il movente
Secondo la sentenza, Davigo ha certamente «utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno al dottor Ardita», tuttavia non è possibile provare con certezza «che abbia strumentalmente ottenuto prima - e divulgato poi - i verbali di Amara con animus nocendi, ossia animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico». E «lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco “violentissimo... all'Ordine Giudiziario nel suo complesso”» ha «piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dott.or Ardita, poiché, come egli ha candidamente spiegato nel giustificare la gemmazione delle rivelazioni versate ai soggetti menzionati nell’imputazione, vi era “dentro al gruppo consiliare una persona che, ove fosse stata esercitata l'azione disciplinare, avrebbe avuto problemi serissimi, persino di permanenza al Consiglio». E ciò perché se gli atti fossero arrivati al Csm per vie legali il plico contenente i verbali di “Ungheria” sarebbe necessariamente approdato in Prima Commissione, all’epoca presieduta proprio da Ardita. Da qui la «scorciatoia (...) funzionale ad occultare la paternità di un’iniziativa che avrebbe inevitabilmente provocato sconquasso in seno al Consiglio, nonché pesanti ricadute sul piano penale».
«Tu mi nascondi qualcosa»
La frase «sibillina» pronunciata da Davigo ad Ardita nel corso di una riunione del gruppo “Autonomia&Indipendenza” il 3 marzo 2020 per decidere quale posizione assumere in merito alla nomina del procuratore di Roma «potrebbe far supporre che questi già all’epoca fosse a conoscenza delle dichiarazioni dell’avvocato Amara». E sembra poco verosimile, secondo i giudici, che Storari, prima di rivolgersi all’allora per lui sconosciuto Davigo non si sia consultato con qualche collega milanese, come affermato in aula. Elementi di cui non si hanno prove e che potrebbero «spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo». Numerosi indizi, scrivono i giudici, «suggeriscono che il dottor Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dottor Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020». Ma sul punto il collegio ha preferito non dilungarsi oltre. Ma nella vicenda, sottolineano, «si è assistito ad un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti», una moria di possibili elementi di riscontro presumibilmente «avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla dottoressa Contrafatto», ex segretaria di Davigo.
Magistratura. "Davigo come Falcone", l'oltraggio del "Fatto" per salvare il pm che ha profanato la sua toga. Felice Manti il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.
Padellaro scivola su un paragone ardito: la storia dei due pm è antitetica
Noli miscere sacra prophanis, non si mescola il sacro col profano. Nel commovente tentativo del Fatto quotidiano di salvare il soldato Piercamillo Davigo dall'onta di una condanna, l'ex direttore Antonio Padellaro l'altro giorno ha infranto l'ennesimo tabù antimafia, paragonando le tristi vicende giudiziarie dell'ex magistrato simbolo di Mani Pulite a quelle di Giovanni Falcone. Una bestemmia anche per i più accaniti fan di Davigo, se si pensa che a Falcone un Csm condizionato dalla sinistra sbarrò prima la strada della Procura di Palermo poi quella Antimafia. Anzi, fu proprio una toga rossa come Alessandro Pizzorusso che sull'Unità giudicò unfit il magistrato morto a Capaci, incapace di guidare una creatura figlia della sua intuizione perché «come principale collaboratore del ministro della Giustizia Claudio Martelli non dà più garanzie di indipendenza».
Tra loro c'è una differenza gigantesca: Falcone è stato vittima dell'odio politico della sinistra, Davigo - che della stessa cultura si è abbeverato in questi anni - si è beccato una condanna per violazione del segreto. Al Csm Falcone non fu votato perché controcorrente, Davigo non potè correre perché pensionato. Una bella differenza. E il fatto che oggi a Palazzo de' Marescialli in quota Pd ci sia il delfino di Pizzorusso - al secolo Roberto Romboli, sulla cui eleggibilità si è discusso non poco - ne è la più straziante conferma.
L'idea che Davigo fosse un magistrato scomodo è un cliché sbagliato. Nessuno ne ha ostacolato i disegni, nessuno ha tentato di minare il suo percorso, la sua carriera è rimasta immacolata fino al pasticciaccio Eni-Amara-Storari. Le sue affermazioni («Non esistono innocenti, ma colpevoli che l'hanno fatta franca», «i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi», «Non vanno aspettate le sentenze») sono antitetiche ai dogmi di Falcone, che ha sempre criticato il khomeinismo, l'anticamera del sospetto come religione giudiziaria, il teorizzare matrici politiche e disegni scomodi come alibi per dimostrare l'infondatezza delle proprie tesi. Falcone non avrebbe mai ricevuto brevi manu dossier su altri colleghi come fece Davigo, mascariando il povero Sebastiano Ardita con cui fino a qualche mese prima aveva diviso il pane.
Quando Sergio Mattarella dice «la toga non è un abito di scena, va indossata per manifestare appieno la garanzia di imparzialità» parlava alla stampa perché Davigo e i pm protagonisti più sui giornali che in tribunale intendessero. Pensare a un Davigo bersagliato da vivo in un talk show, come avvenne per Falcone, è puro esercizio di fantasia, vista la pletora di cortigiani che ancora oggi ne magnifica le gesta nonostante tutto. «Le toghe celebrano i caduti ma non sempre fanno autocritica», disse Davigo. Ma Falcone non avrebbe mai inscenato una «obiezione di coscienza» a favore di telecamere come fece il pool di fronte a una legge del Parlamento nel 1994, lamentando per contro «un'aggressione mediatica senza precedenti», come se sfidare il potere legislativo fosse una forma di «resistenza».
L'azzardo su Davigo, salvato sacrificando l'icona Falcone, è segno dei tempi. D'altronde, i guai del Pd calabrese a braccetto coi boss (Nicola Gratteri dixit) interessano poco i giornalisti ciclostile delle Procure, accucciati e scodinzolanti di fronte alle carte che svolazzano dalle Procure, sia che riguardino fantomatiche trattative, sia foto fantasma che ritrarrebbero Silvio Berlusconi con i fratelli Graviano, giallo su cui è stato interrogato l'altro giorno a Firenze l'editore del Corriere Urbano Cairo. Inseguire i fantasmi evocati dal sedicente pentito Salvatore Baiardo anziché cercare la verità dentro la magistratura è il peggior segnale da dare alla mafia, a un pugno di giorni dall'anniversario della morte di Paolo Borsellino in via D'Amelio, il cui destino grida vendetta. Segno che la vera Antimafia è morta in quella torrida estate del 1992.
«Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». La cupa profezia di Craxi. Ora che persino Davigo è stato condannato in primo grado, quelle parole tornano alla mente. Paola Sacchi su Il Dubbio il 22 giugno 2023
«Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Ora che Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, è stato condannato in primo grado per rivelazione d’atti di ufficio, e il garantismo deve valere per tutti, quindi anche per lui dalle posizioni estreme sui politici, non può non risuonare in testa quella tagliente profezia di Bettino Craxi, nei giorni di Hammamet. Lo statista socialista, che aveva fatto esposti contro Davigo, per il quale usò parole durissime difendendosi da quelle altrettanto trancianti che l’esponente del pool di Mani pulite aveva usato per lui, quella cupa profezia la ripeteva spesso fin dal 1994, quando iniziò il suo esilio.
Quelle parole le diceva ai pochi ormai che lo andavano a trovare e gli stavano vicini, oltre alla sua famiglia, come l’ex capo dei giovani socialisti, Luca Josi, e pochi altri del suo stesso Psi. Giustificava solo Gianni De Michelis per non averlo lì con lui. Disse alla cronista: «Povero Gianni, lo capisco, lo hanno messo in croce sul piano giudiziario, però lui come può mi chiama sempre da una cabina telefonica».
Erano gli anni in cui lui diceva, preoccupandosi quasi più degli altri: «Attenzione, chi tocca i fili muore». E questo persino per riguardo dei pochi giornalisti, come la sottoscritta, che pur scrivendo allora per un giornale avversario, l’Unità, durante i periodi di ferie lo andava a trovare in forma privata per un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, I conti con Craxi (MaleEdizioni con prefazione di Stefania Craxi). Erano i giorni in cui già stavano emergendo le prime crepe nel pool milanese, Craxi aveva denunciato in uno dei suoi libretti clandestini, diffusi da Critica social”, dal titolo Giallo, grigio, turchino, la violazione allo stato di diritto che era stata fatta per la sua persona, il suo partito e la sua famiglia. E sperava che qualche verità emergesse dal processo di Brescia contro Di Pietro. Craxi non piangeva, lo fece platealmente in un’intervista a Carlotta Tagliarini, per la tv tedesca, solo per il suicidio di Sergio Moroni. Ma, quando lo incontravamo sul terrazzo dello Sheraton hotel si vedeva che i suoi occhi trattenevano dignitosamente e con fierezza le lacrime dell’amarezza per la sua fine. Per il fatto di essere stato trattato «peggio dei peggiori criminali, mentre io ho sempre servito solo il mio Paese e spero di averlo fatto bene». «Ma, non mi hanno neppure lasciato fare il pensionato», è scritto in uno degli appunti notturni di Hammamet, raccolti dallo storico Andrea Spiri, nel libro L’ultimo Craxi- Diari di Hammamet, per Baldini e Castoldi. Sempre Spiri nel libro
Io parlo e continuerò a parlare (Fondazione Craxi per Mondadori) ricorda le denunce ai colpi dati allo stato di diritto: «Giustizieri, protagonisti, forcaioli mostreranno tutta la corda della loro falsità». Craxi fu il primo a denunciare il perverso circuito mediatico- giudiziario. Lo stigmatizzò più esattamente così: «Clan politici, mediatici, giudiziari». Ma guardava lontano, non si fermava al suo personale calvario giudiziario, tragedia politica per un intero Paese, guardava al futuro dell’assetto tra i poteri, denunciava il colpo inferto al primato della politica da quell’uso politico della giustizia sotto il quale cadde un’intera, storica classe dirigente che aveva ricostruito il Paese nel dopoguerra, fatto importanti riforme e raggiunto successi, come i suoi, dalla scala mobile al nuovo Concordato, all’Italia nel G7. Il terremoto di quella che definì «la falsa rivoluzione» salvò solo gli ex Pci poi Pds e Ds e la sinistra della Dc. Dall’archivio della Fondazione Craxi, in suo schema autografo, riportato da Spiri in Nell’ultimo Craxi, emergono in modo spietatamente chirurgico tutti i nodi di quella stagione, alcuni dei quali ancora oggi irrisolti: «L’uso violento del potere giudiziario. Gli arresti illegali ( le modalità ingiustificate agli arresti), per esempio l’uso illegale delle manette. Gli incredibili Tribunali della Libertà. Il ruolo del Gip. Le detenzioni illegali. I trucchi adottati per allungare le detenzioni. Le discriminazioni negli arresti. La orologeria politica rispetto alle scadenze politiche. Il rapporto con il potere legislativo, con l’istituzione parlamentare. Esibizionismo logorroico. Politicismo nelle valutazioni e nella condotta».
Infine, uno dei punti più dolenti, ancora oggi alla ribalta: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Conclusione: «Violazioni sui diritti dell’uomo». Forse, Craxi aveva ben intuito con la sua profezia che un sistema politico, schiacciato e che aveva in parte avallato «la falsa rivoluzione», gioco forza, per contraccolpo, avrebbe prima o poi generato spinte e controspinte tra aree in lotta in quella stessa parte di magistratura allora dominante. «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Craxi azzeccò anche la profezia su di sé: «Io parlo e continuerò a parlare» .
Estratto dal “Foglio” il 28 giugno 2023.
L'ex pm di Mani pulite ed ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato ascoltato ieri dalla commissione Giustizia della Camera sulle proposte di legge che mirano a modificare la disciplina della prescrizione.
“In quasi tutti i paesi occidentali […] la prescrizione non decorre dopo l'inizio del processo”, ha affermato per l'ennesima volta Davigo, ovviamente senza ricordare le statistiche che pongono la giustizia penale italiana in coda a tutte le classifiche internazionali per la sua lentezza (se non si facesse decorrere la prescrizione, i processi sarebbero eterni).
[…] A un certo punto il davigismo è però andato in tilt. “Nel nostro paese c'è una percentuale di impugnazioni sconosciute negli altri paesi. In Francia solo il 50 per cento delle sentenze di condanna viene appellato, in Italia pressoché tutte”, ha detto Davigo con la solita foga scandalizzata.
Peccato che proprio una settimana fa Davigo, dopo essere stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia per la vicenda dei verbali secretati da Amara, abbia subito annunciato che impugnerà la sentenza di condanna, senza neanche leggere prima le motivazioni. Insomma, se nel nostro paese si impugnano troppe sentenze, è lo stesso Davigo a contribuire a questo problema in prima persona.
L'ennesimo paradosso in cui Davigo è caduto a causa della vicenda Storari-Amara. Anche in questo caso, l'ex pm di Mani pulite si è dimenticato di ricordare il contesto: con magistrati abituati a addestrare teoremi senza alcun briciolo di prova, […] l'impugnazione delle sentenze è un diritto fondamentale e inderogabile. Da difendere, anche a vantaggio di Davigo.
I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati per l'ex pm di Mani Pulite. Piercamillo il condannato in audizione alla Camera: Davigo spiega il suo verbo su prescrizione e legge Bonafede. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 28 Giugno 2023
I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati. A dirlo è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed idolo dei giustizialisti in servizio permanente effettivo. Davigo, fresco di condanna ad un anno e tre mesi di prigione per aver rivelato i verbali degli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria, è intervenuto ieri in audizione alla Camera sulla riforma della prescrizione. La sua audizione era stata sollecitata dal M5s, per nulla in imbarazzo della condanna riportata da Davigo questo mese dal tribunale di Brescia. “Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a un incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico ad una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo ha accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e non comune rigore nelle argomentazioni”, ha replicato al Dubbio, mostrando un inaspettato garantismo, Valentina d’Orso, capogruppo pentastellata in Commissione giustizia a Montecitorio.
Alla Camera, prima ancora che Carlo Nordio presentasse all’inizio del mese la sua riforma della giustizia, sono incardinate tre diverse proposte di legge, a firma Enrico Costa (Azione), Pietro Pittalis (FI) e Ciro Maschio (FdI), che puntano a modificare le attuali norme sulla prescrizione, tornando al meccanismo antecedente a quello voluto dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede e successivamente modificato da Marta Cartabia. L’ex presidente della Consulta, nella scorsa legislatura, aveva introdotto l’improcedibilità, uno strumento di tipo processuale che trascorsi due anni senza la pronuncia dell’appello determina la fine del procedimento.
Il problema della prescrizione, per Davigo, sarebbe dovuto al numero, a suo dire eccessivo, degli avvocati italiani che avrebbero tutto l’interesse a tirare in lungo le cause. “Gli avvocati in Italia abilitati al patrocinio in Cassazione sono 52mila”, ha ricordato l’ex pm. Essendo ’tanti’, per Davigo, presenterebbero appelli anche se non ci sono presupposti, in tal modo dilatando i tempi di definizione dei processi per raggiungere la tanta agognata prescrizione.
La ricostruzione di Davigo è stata immediatamente smontata da Costa, responsabile giustizia di Azione. Costa, infatti, tabelle ministeriali alla mano, ha evidenziato come la maggior parte delle prescrizioni avvenga oggi durante la fase delle indagini preliminari, quando l’avvocato non “tocca palla” essendo il pm dominus assoluto ed il procedimento coperto dal segreto. Quando il procedimento supera questa fase ha già consumato molto tempo.
Nessuna riforma, va ricordato, è riuscita ad intervenire in maniera efficace sui tempi delle indagini preliminari, prevedendo, ad esempio, sanzioni per i pm che per inerzia o altro lasciano i fascicoli in ‘sonno’. Il problema è molto serio come è stato ricordato dagli avvocati penalisti. La prescrizione, infatti, è una norma di diritto sostanziale e trova il suo fondamento nella Costituzione. Se la pena ha una funzione “riabilitativa”, che senso può avere farla espiare a distanza di tanti anni dal fatto commesso? Non è più riabilitazione ma ‘afflizione’. L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che era stata introdotta da Bonafede aveva creato la figura processuale dell’imputato a vita, in balia delle decisioni dei magistrati e senza alcuna possibilità di incidere sulle stesse.
La riforma Cartabia ha, come detto, introdotto l’improcedibilità ma gli effetti, soprattutto per gli effetti civili non sono ancora valutabili. Il processo deve ricominciare davanti al giudice civile e nessuno è oggi in grado di fare previsioni sulla sua conclusione. Molto meglio, dunque, tornare, come evidenziato dai proponenti, ai tempi di prescrizione legati alla gravità del reato commesso.
Premesso che i reati gravi, quelli per fatti di sangue o con l’aggravante di mafia e terrorismo, sono già oggi imprescrittibili, anche i tanti contro la Pa hanno tempi molto lunghi di prescrizione. Guardando il catalogo dei reati di medio allarme sociale, nessuno, già con le modifiche introdotte da Andrea Orlando, si prescrive prima di 15 anni, un tempo assolutamente idoneo per celebrare i tre gradi di giudizio e in linea con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
La soluzione, allora, sarebbe depenalizzare e non mettere continui paletti al diritto di difesa. Sempre con le statistiche alla mano, in appello sono modificate circa il 40 per cento delle sentenze di condanna di primo grado. Altro che ‘colpa’ degli avvocati come dice Davigo. Paolo Pandolfini
Estratto dell’articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 29 giugno 2023.
Nessun reato ai danni dell'ex pm Piercamillo Davigo. Il giornalista Paolo Mieli ha semplicemente esercitato il suo diritto di critica. Così è stato assolto l'ex direttore del Corriere della Sera, querelato per diffamazione dal magistrato di Mani Pulite per una frase comparsa nell'editoriale del 5 giugno 2020.
Lo ha deciso il giudice monocratico della terza sezione penale del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta della procura, «perché il fatto non costituisce reato». Un articolo, quello portato sul tavolo delle toghe milanesi, dal titolo «Le correnti dei magistrati e la giustizia rimossa», nato dallo scandalo esploso in seguito all'intervista rilasciata da Luca Palamara alla trasmissione di La7 "Non è l'Arena" il 31 maggio dello stesso anno.
Nel passaggio dell'editoriale che non è andato giù a Davigo, Mieli scriveva che Palamara, nel programma di Massimo Giletti, «ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno proseguiva il direttore con qualcuno della sua corrente».
Sono queste le parole che l'ex consigliere del Csm ha ritenuto lesive della sua reputazione e che lo hanno portato a decidere di querelare il giornalista. Il giudice Luigi Vanarelli, però, ha accolto le richieste di assoluzione avanzate dall'avvocato di Mieli, Caterina Malavenda, e dal pm Paolo Filippini, in quanto il direttore del Corriere «non ha fatto altro che proporre» una lettura «di secondo livello, introducendo una critica che è l'essenza del fare il giornalista» ed è un «diritto». […]
“Criticò Davigo ma non lo diffamò”. Assolto il giornalista Paolo Mieli. Massimo Balsamo il 28 Giugno 2023 su Il Giornale.
“Il fatto non costituisce reato” secondo il giudice monocratico del Tribunale di Milano Luigi Varanelli.
Paolo Mieli è stato assolto a Milano dall’accusa di aver diffamato l’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Fu una critica, non diffamazione il parere del giudice monocratico della terza sezione penale del tribunale, Luigi Varanelli, accogliendo le richieste del pm Paolo Filippini e dell'avvocata Caterina Malavenda, legale del giornalista. La vicenda risale al 5 giugno 2020, al centro della discussione l’editoriale scritto dal giornalista per il Corriere della Sera in cui commentava un’intervista rilasciata a “Non è l’arena” – su La7 – dall’ex membro del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara.
"Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione", le parole di Mieli sul Corriere della Sera: "Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente". Ritenendo questo passaggio lesivo della sua reputazione, Davigo aveva sporto querela evidenziando di non aver mai avuto niente a che fare con il “sistema Palamara”. Poi il sostituto procuratore Francesco Ciardi – senza acquisire il video di “Non è l’arena” aveva messo in deposito gli atti e il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva disposto la citazione diretta a giudizio dell’ex direttore del Corriere.
Mieli e Davigo durante il dibattimento erano stati ascoltati nei mesi scorsi dal giudice Varanelli. Come riportato dal Corriere, quest’ultimo aveva più volte chiesto all’ex pm di Mani pulite se l’oggetto delle sue doglianze fosse proprio il passo in cui il giornalista esprimeva la sua opinione su quello che aveva ascoltato i televisione. Mercoledì mattina il giudice ha invitato l’avvocato di Davigo, il legale Francesco Borasi, a valutare se rimettere la querela. Mieli, dal canto suo, ha spiegato che avrebbe accettato la remissione solo se fosse arrivata prima, rimarcando che la causa “è stata una esperienza molto dolorosa”.
“Questo processo nasce da un equivoco”, ha rimarcato in requisitoria il pm Paolo Filippini prima di chiedere l’assoluzione: “Dall’errore sia della parte offesa di denunciare il gioriustizianalista, sia della Procura di mandare a giudizio il giornalista, senza prima avere acquisito la fonte, ossia il video della trasmissione in cui Palamara, su forte pungolo e strategia giornalistica di Giletti, che gli chiedeva se davvero Davigo potesse atteggiarsi a “vergine”, rispondeva in modo sibillino”. Mieli nel suo articolo “non ha fatto altro che richiamare quel passaggio della trasmissione e introdurvi una lettura di secondo livello che rientra assolutamente nell’esercizio della critica giornalistica" senza volontà di diffamare Davigo.
Toh, il condannato Davigo dà lezioni alla Camera: ora valga per tutti. L’ex pm sarà audito sulla prescrizione, su input del M5S. Che dice: non è un aspirante sindaco...Valentina Stella, Errico Novi su Il Dubbio il 26 giugno 2023
Oggi pomeriggio alle 14:30 la commissione Giustizia della Camera avvierà un ciclo di audizioni informali, in videoconferenza, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Tra gli esperti che verranno sentiti, compaiono i professori Gianluigi Gatta e Mitja Gialuz, chiamati dal Pd, il segretario dell’Unione Camere penali Eriberto Rosso, indicato da Enrico Costa, i vertici dell’Anm Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro voluti dal Movimento 5 Stelle, il quale ha richiesto anche la presenza di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo, condannato pochi giorni fa, in primo grado, a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Nulla quaestio sulla sua audizione: una persona è innocente fino a sentenza definitiva, e anche qualora la sua condanna passasse in giudicato chi lo dice che non potrebbe essere audito come ex magistrato? Sono sempre suonati stucchevoli i discorsi sulle “questioni di opportunità” riguardanti incarichi per politici anche solo indagati, suonerebbero altrettanto fuori luogo per Davigo. Certo colpisce che a volere alla Camera l’ex pm del “pool” siano i pentastellati, i quali sembrano abbandonare così quella presunzione di colpevolezza da cui sono stati sempre sedotti: come “uno valeva uno”, fino a qualche tempo fa, persino un avviso di garanzia valeva, ad esempio, dimissioni subito da qualsiasi carica. Adesso, e ne siamo lieti, il paradigma sembra cambiato. Ma perché da parte dei 5S su Davigo non esiste imbarazzo laddove, per esempio, il Movimento difende ancora la legge Severino, che sancisce la sospensione per gli amministratori locali in caso di condanna di primo grado?
Valentina d’Orso, capogruppo 5S in commissione Giustizia, risponde che «la richiesta di audizione del dott. Davigo è precedente alla notizia della sua condanna» ma che «in ogni caso è stata da noi confermata in quanto non c’è alcun imbarazzo, nemmeno dopo la condanna in primo grado. Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico a una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e un non comune rigore nelle argomentazioni».
Del resto, conclude D’Orso, «non è nostra abitudine andare a controllare la fedina penale delle tante persone audite in commissione su richiesta di tutte le forze politiche. Piuttosto, è paradossale e fa francamente sorridere che l’obiezione giunga dal sedicente fronte politico garantista: evidentemente sono loro a usare due pesi e due misure, ricorrendo a un garantismo di comodo con gli amici e a un giustizialismo d’occasione contro quelli che ritengono avversari».
In realtà nessuna polemica è stata sollevata da un presunto fronte garantista: a porci la domanda siamo stati semplicemente noi. E dalle parole della deputata possiamo dedurre due considerazioni. La prima: finalmente i 5 Stelle non legano la credibilità di una persona alla mera assenza di scocciature con la giustizia. La seconda: è discutibile tuttavia il loro ragionamento nella parte in cui di fatto sancisce che una persona indagata, o imputata o addirittura condannata in primo grado e comunque presunta innocente possa essere ritenuta attendibile come esperta da audire in commissione ma non possa essere ritenuta degna di una candidatura o di restare in carica come amministratore locale.
Ci chiediamo, o meglio chiediamo loro: la presunzione d’innocenza non dovrebbe essere un principio assoluto, di civiltà liberale, che non si misura col lumicino?
È il solito Davigo: «Giustizia lumaca? Colpa degli avvocati». In commissione giustizia alla Camera parte il ciclo di audizioni sui disegni di legge finalizzati alla riforma della prescrizione. L’ex pm: «In Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 giugno 2023
La commissione Giustizia della Camera ha avviato un ciclo di audizioni informali nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Le proposte Costa e Maschio propongono di tornare alla riforma Orlando, mentre quella Pittalis all’assetto di disciplina precedente alla riforma Orlando.
Tra i primi ad essere auditi Gianluigi Gatta, consigliere dell’ex ministra Cartabia e ordinario di diritto penale all’Università di Milano che ha dapprima evidenziato come una ennesima modifica stresserebbe il sistema e gli operatori: «I tre disegni di legge si propongono di riaprire per l’ennesima volta il cantiere della prescrizione del reato, un istituto che negli ultimi diciotto anni – dalla legge ex Cirielli del 2005 ad oggi – è stato riformato già quattro volte. È comprensibile il mal di testa di interpreti e magistrati, chiamati a confrontarsi con complesse questioni di diritto intertemporale dipendenti dai quattro diversi regimi della prescrizione succedutisi a stretto giro di tempo».
In merito al ritorno alla legge Orlando ha aggiunto: «Un sistema ben congegnato in una stagione in cui l’obiettivo del sistema era di ridurre le prescrizioni nei giudizi di impugnazione – specie in appello – ma che è oggi del tutto disfunzionale rispetto all’obiettivo del Pnrr di ridurre i tempi del giudizio penale del 25% entro il 2026. Introdurre ora, in piena fase di attuazione del Pnrr, meccanismi sospensivi del corso della prescrizione, legati alle fasi del giudizio, allungherebbe i tempi medi del processo penale proprio mentre lo sforzo del sistema giudiziario è massimamente teso a ridurli». Sempre sulle proposte Costa e Maschio: «Correrebbero nei giudizi di secondo e terzo grado due diversi termini: quello di prescrizione del reato e quello di improcedibilità dell’azione penale. Sarebbero cioè operativi due diversi timer: l’uno, avviato con la commissione del reato; l’altro, avviato con l’inizio del giudizio di impugnazione. È una soluzione certo molto favorevole per le difese degli imputati ma per nulla per le vittime e per le parti civili e, ancor prima e soprattutto, per la funzione naturale del processo, che è deputato all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità». Infine, come previsto da Pittalis, «abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del Pnrr, sarebbe un suicidio».
Mitja Gialuz, professore di diritto processuale penale presso l’Università di Genova, ha iniziato criticando la proposta Pittalis che ritornerebbe alla ex Cirielli: «Sarebbe un ritorno al passato che ha determinato un aumento delle prescrizioni in appello, che sono – passatemi il termine – “cattive prescrizioni”. Lo Stato ha investito per arrivare ad una sentenza di primo grado e poi tutto verrebbe perso in appello, deludendo le aspettative delle vittime e della società per una decisione di merito». Per entrambi i giuristi, chiamati dal Pd, la soluzione è quella di andare avanti con l’improcedibilità, come «conquista di civiltà».
Enrico Costa ha replicato: «Improcedibilità e prescrizione sostanziale sono complementari ma manifesto comunque una apertura sul mantenimento o meno della prescrizione processuale. Nel caso sarei favorevole a una delle due proposte previste da Lattanzi». Fabio Varone, avvocato e dottore di ricerca in diritto e processo penale presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, si è detto favorevole alla riforma Pittalis. È intervenuto anche Eriberto Rosso, segretario nazionale dell'Unione Camere penali che si è detto d’accordo con tutte le tre proposte nella parte in cui abrogano l’articolo 161 bis cp (il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado). Ha aggiunto: «Occorrerà fare una sintesi delle tre proposte, avendo come obiettivo il ripristino della prescrizione sostanziale ante 2019. Sulla convivenza tra prescrizione sostanziale e processuale riteniamo che quest’ultima non debba prevalere mai sulla prima».
È arrivato poi il momento di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo che ha attaccato, come già scritto sulle pagine del Fatto, le cosiddette presunte tecniche dilatorie degli avvocati favorite a suo dire dalla prescrizione: «Se ad una persona viene rubato un libretto degli assegni e questi vengono usati in varie province gli avvocati non consentono di acquisire la denuncia del derubato, costringendolo a testimoniare in ogni sede». Ha poi ricordato che in «Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte, per non parlare dei ricorsi in Cassazione. In Francia 1000 l’anno, in Italia 90000, considerato anche l’alto numero di avvocati cassazionisti nel nostro Paese». A replicare Costa, che ha ricordato che «la maggioranza delle prescrizioni arriva durante la fase delle indagini preliminari» e inoltre «se non erro circa il 50% delle sentenze di primo grado impugnate vengono riformate del tutto o in parte in appello». Ci chiediamo: Davigo appellerà la sua recente condanna?
Presenti in Commissione anche Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro, rispettivamente presidente e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo il primo, «cumulare i due meccanismi, della prescrizione e della improcedibilità, a nostro giudizio crea un’incoerenza sistematica. L’improcedibilità è stata la risposta ad una scelta del legislatore del 2019 di interrompere la prescrizione con la sentenza di condanna. I due istituti rispondono a finalità diverse. La compresenza dei due istituti a nostro giudizio è asistematica: o l’una o l’altra».
Processo a Davigo, le chat sparite “riappaiono” in aula per mano della difesa. Depositati messaggi teoricamente irrecuperabili: l’ex pm aveva rivenduto il cellulare senza fare un backup delle chat, comprese quelle con Storari, che gli consegnò i verbali di Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 24 giugno 2023
Il backup non c’è, anzi sì. Al processo a carico di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, non sono di certo mancati i colpi di scena. E gli ultimi sono arrivati nel giorno della sentenza, nel corso della discussione della difesa e della replica della parte civile, durante le quali l’attenzione è tornata sul cellulare di Davigo, non più disponibile perché “rivenduto” ad un centro di telefonia, causa «umidità». Il contenuto del cellulare, aveva detto l’ex pm in aula, non è più disponibile: l’ex consigliere del Csm non ha salvato i dati, comprese le chat. Con il rammarico della parte civile, che voleva dimostrare che Davigo conosceva le dichiarazioni di Amara ben prima di aprile 2020, data in cui il pm Paolo Storari gli avrebbe consegnato i verbali per autotutelarsi di fronte alla presunta inerzia della procura di Milano.
Ma a tirare fuori delle chat, il 20 giugno scorso, ci ha pensato proprio la stessa difesa di Davigo. «Abbiamo depositato della documentazione, delle chat, che dimostrano che ad un certo punto, quando sa qualche cosa, Davigo non parla più con Santoro», ha detto l’avvocato Francesco Borasi. Perché depositare quelle conversazioni? La questione è semplice: la difesa di Sebastiano Ardita, ex consigliere del Csm, parte civile nel processo (sarà risarcito con 20mila euro), aveva evidenziato che nonostante anche il nome dell’ex giudice del Consiglio di Stato Sergio Santoro fosse tra quelli indicati da Amara tra i componenti di “Ungheria” Davigo non ne avrebbe preso le distanze come fatto, invece, con lui. Anzi, aveva detto in aula l’avvocato Fabio Repici, l’ex pm avrebbe incontrato a cena Santoro almeno due volte, una a fine 2019 e una tra il 9 e il 10 settembre 2020, quando l’ex consigliere del Csm era in possesso da almeno cinque mesi dei verbali di Amara. Tale circostanza fu smentita da Davigo in aula, che retrodatò quelle cene, nelle quali si sarebbe discusso dell’innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati alla presenza anche di un altro magistrato di Palazzo Spada, Giuseppe Severini, allora presidente della V Sezione del Consiglio di Stato, la stessa davanti alla quale Davigo aveva impugnato la sentenza del Tar che stabiliva il difetto di giurisdizione circa il ricorso relativo alla sua esclusione dal Csm.
Per smentire la versione della parte civile, la difesa di Davigo ha dunque depositato stralci di chat che testimonierebbero l’interruzione dei rapporti con Santoro ben prima della consegna dei verbali. Nulla di eccezionale, verrebbe da dire, se non fosse che lo stesso ex pm, intervenendo in aula a maggio scorso, aveva dichiarato di non aver fatto alcun backup delle chat, comprese quelle nelle quali si metteva d’accordo con Storari per un incontro. Davigo avrebbe conservato «solo le cose importanti», aveva detto, cose tra le quali, evidentemente, non rientravano i messaggi scambiati con chi gli aveva annunciato una nuova possibile catastrofe all’interno della magistratura, notizia che, a suo dire, lo aveva sconvolto.
Ma non è l’unica cosa che manca: oltre al cellulare non c’è più traccia né della chiavetta usb sulla quale erano contenuti i verbali né tantomeno dell’indirizzo mail dal quale Davigo si spedì gli atti per poterli stampare al Csm. Un fatto curioso, considerato che anche l’ex procuratore generale Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco hanno dichiarato di aver smarrito i telefoni. «Non c'è un modo per avere un documento che fissi la data» di consegna dei verbali, aveva fatto notare dunque Repici, secondo cui Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni molto prima di aprile 2020. «C'è stato uno smarrimento di prove per sua legittima volontà», aveva dunque contestato. Un concetto che il legale ha ribadito anche il 20 giugno, giorno in cui poi è arrivata la condanna dell’ex pm. Davigo, ha detto Repici, «ha volontariamente disperso tutto ciò che poteva fissare una data. Noi abbiamo la prova che la cena con Santoro è stata il 9 o il 10 settembre - ha sottolineato -. Ma la cosa sconcertante è che siamo davanti a un imputato che ci ha detto di aver rivenduto il telefono, di non avere chat e mail, di non avere niente. Dopodiché», però, «produce brandelli minimi di una chat di WhatsApp con tale dottoressa Ciafrone e con tale dottor Santoro» per certificare di non aver avuto interlocuzioni con quest’ultimo dopo esser entrato in possesso dei verbali. «Ma scusi presidente - ha chiesto Repici -, si ricorda che l'ha chiesto lei all'imputato: “ma non l'ha fatto il backup?”. “No, solo delle cose importanti, Storari no”», aveva risposto. Invece «le hanno prodotte loro quelle chat di WhatsApp, le hanno prodotte nell'anno 2023», ha sottolineato Repici, che ha parlato di «menzogna» e di «spregiudicata impostura». La verità, ha aggiunto, «è che vi ha sottratto, come è diritto dell'imputato, com’è facoltà dell'imputato, dati di conoscenza. Se la procura della Repubblica, tanto astiosa, come è stata ritenuta dalla difesa, gli avesse sequestrato il cellulare, il problema sarebbe stato risolto in partenza».
E che la data corretta non sia aprile 2020 Repici lo deduce anche dall’interrogatorio di Davigo a Perugia del 19 ottobre 2020: alla richiesta del procuratore Raffaele Cantone sul perché Ardita fosse preoccupato, Davigo ha opposto il segreto d’ufficio, sostenendo che «la parte coperta da segreto d'ufficio su cui non posso rispondere è la ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo 2020». E qual era il segreto? A rispondere è stato lo stesso Davigo: i verbali sulla Loggia Ungheria. Marzo 2020, dunque, non aprile. Mentre a tradire le intenzioni delle numerose comunicazioni fatte circa quei verbali è anche un’altra data, settembre 2020: è in quel momento che informa l’allora neo primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. L’indagine si era però ormai sbloccata e quindi si era realizzato l’intento dichiarato da Davigo: non far arenare l’inchiesta su Ungheria. Ma «qual è la cosa che deve fare il presidente Curzio? - si è chiesto Repici - Prendere le distanze da Ardita. Le parole del dottor Davigo valgono - ha concluso -. È lui che confessa».
Le accuse. La condanna di Davigo apre una faida tra toghe: “Vendetta del gup Marino”. L’ex pm in pensione aveva volantinato i verbali di Amara a mezzo mondo. Anche il Colle sapeva. Ma sono finiti indagati solo in due per non aver denunciato. Tiziana Maiolo su L'Unità il 23 Giugno 2023
Ormai sono tutti contro tutti, e la condanna all’ex magistrato Piercamillo Davigo ha scoperchiato un verminaio di scontri feroci tra toghe, come se non fosse stato sufficiente quello che aveva denunciato con i suoi libri Luca Palamara, che era stato uno di loro. Al centro sempre quel luogo di potere e soprusi della Procura di Milano, quella che fu. Quella che fu fortino di Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra del sindacato. Quella degli eroi intoccabili di Mani Pulite.
Quella dove regnava il rito ambrosiano, troppo spesso disinvolto su regole e procedure. Ma è un romano, Giuseppe Marra, a buttare oggi il sasso in piccionaia con un’intervista a La Verità in cui accusa un suo collega della capitale, il giudice Nicolò Marino, di aver agito per ritorsione nei suoi confronti. Il fatto preoccupante è che l’accusa (aspettiamo sviluppi), fatta da un magistrato nei confronti di un altro nella sua veste di gup, pare un fatto normale. Come se non stessimo parlando di amministrazione della giustizia, ma di una faida politica o peggio ancora di uno scontro tra persone di malaffare.
In che modo c’entra Davigo? C’entra, così come c’entrano il processo a Brescia che lo ha condannato, e anche un bel gruppo di toghe tra Roma a Milano. Il giudice chiamato in causa da Marra è il gup di Roma che ha assolto l’ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto, dall’accusa di calunnia. Ma non si è limitato a questo, il magistrato. Il gup con quel provvedimento ha anche inviato alla Procura due nominativi, quelli di Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini, perché fossero sottoposti a indagine. Ambedue a loro volta magistrati, il primo attualmente collocato al Massimario della Cassazione, il secondo procuratore aggiunto a Roma (infatti la sua posizione sarà trasferita a Perugia).
I reati per i quali sono indagati sono omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e, solo per il primo di loro, distruzione di corpo di reato. Si torna sempre lì, a Milano, alla maledizione (per la procura) dei processi Eni e alla famosa deposizione del faccendiere Piero Amara. Il quale era considerato da tutto l’ufficio, a partire dal suo capo Francesco Greco e dal rappresentante dell’accusa nel processo contro il colosso petrolifero, Fabio De Pasquale, un testimone di platino, intangibile. La sentenza di assoluzione dei vertici di Eni sarà una botta che farà scricchiolare per sempre quella gestione della procura e la reputazione dello stesso Francesco Greco. Il quale andrà in pensione un po’ ammaccato, se pur subito consolato con un ruolo di tutore della legalità al Comune di Roma.
Il processo Eni e l’assoluzione dei suoi vertici esploderà come una bomba e disvelerà un’intera storia e certi metodi del sistema ambrosiano non proprio trasparenti. La possiamo sintetizzare così. Un sostituto procuratore, Paolo Storari, ha nelle mani una deposizione dell’avvocato Amara il cui si parla di una potente loggia massonica di nome “Ungheria”, composta di magistrati, alti ufficiali e altri uomini di potere, dedita a condizionare la vita economica e politica d’Italia. Tra questi ci sarebbero anche due membri del Csm, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti. Storari vuole aprire un fascicolo, Greco tergiversa.
Si capirà solo in seguito che il testimone è troppo prezioso per il processo Eni e che è meglio non agitare le acque con una testimonianza che può farlo incriminare per calunnia e autocalunnia. Il caso Davigo nasce di lì, in uno scontro con l’ex collega del pool Mani Pulite, che nel frattempo è diventato capo dell’ufficio, mentre “Piercavillo” è membro del Csm. L’arroganza dell’ex pm, che lo porterà fino a essere condannato per rivelazione di atti d’ufficio, è nata dal suo approdo all’organo di autogoverno della magistratura o non è invece solo una coda, una prosecuzione dell’intoccabilità consentita agli uomini dell’ex pool? Fatto sta che Davigo si mette a volantinare quella deposizione, che è un atto riservato e segreto, a mezzo Csm e al vicepresidente David Ermini, pregandolo di riferirne anche al Capo dello Stato.
Coinvolti anche il procuratore generale Giovanni Salvi e il presidente della commissione antimafia Nicola Morra. Con metodi da barbe finte, telefonini silenziati e appuntamenti nel vano delle scale, anche. Mezzo mondo, insomma. E tutti tacciono, pur avendo tra le mani una potenziale bomba. Qualcuno, come Ermini e Marra, dice di aver buttato via i fogli. Ma non se ne saprà niente finché non sarà un altro componente del Csm, Nino Di Matteo, a denunciare il fatto nel plenum del Consiglio. E tutti, nel processo di Brescia, si presentano come testimoni.
Ma due di loro, Marra e Cascini, scoprono di essere indagati, uno a Roma e l’altro a Perugia, su iniziativa del gup Marino. Perché solo loro due, visto che mezzo mondo, togato e non, ha toccato la bomba Amara? E visto che la notizia di quelle carte scottanti era arrivata fino al Quirinale? Non dimentichiamo che stiamo parlando di pubblici ufficiali, obbligati per legge. La spiegazione di Marra nell’intervista alla Verità è sconcertante: siamo stati scelti solo noi due perché avevamo impedito al collega Marino di diventare procuratore aggiunto a Caltanissetta. Quindi: vendetta tremenda vendetta!
Dobbiamo dedurre che esistono magistrati i quali prendono decisioni sulla base di proprie antipatie personali? O peggio ancora mettono in campo, mentre indossano la toga e amministrano la giustizia in nome del popolo, ritorsioni e vendette? Immaginiamo che questa vicenda avrà ancora uno o più seguiti. Ma, se non è stato bello vedere Davigo che inseguiva l’ex amico Ardita e ora Marra che se la prende con Marino, preoccupa anche il fatto che questa vicenda finisca anche con il lambire il ruolo dello stesso presidente Mattarella. Che era stato informato di questa situazione di illegalità, come ha confermato lo stesso ex vice del Csm, Davd Ermini, e che si era limitato ad ascoltare. Tiziana Maiolo 23 Giugno 2023
Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 giugno 2023.
All'inizio del millennio, al Foglio, dove allora lavoravo, avevamo oltrepassato il centinaio di querele ricevuto dal Pool di Mani pulite. Poi assolti in blocco ma mica male come intimidazione […].
In una di esse […] Piercamillo Davigo aveva individuato una prova di dileggio in un banale refuso – mi uscì un "Pircamillo" – e lì si si consolidò il sospetto che il Dottor Sottile si stesse lasciando un po' prendere la mano, quanto a sottigliezze.
Ma ieri, dopo la condanna in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, sono stato contento di […] leggere anzi qualche articolo nel quale si osservava che l'onestà di Davigo rimane fuori discussione.
Infatti non ho mai pensato che l'onestà delle persone sia misurabile coi codici e le sentenze […]. Altrimenti non avrebbe nessun senso i Miserabili, il capolavoro di Victor Hugo nel quale Jean Valjean è un pregiudicato latitante eppure sta moralmente tre spanne sopra a Javert, il poliziotto da cui è braccato, l'incorruttibile che pretende da sé il rigore preteso dagli altri poiché crede nella perfetta coincidenza fra legge e morale, ed è questa la sua condanna.
Tra l'altro Javert nel romanzo non ha nome, soltanto il cognome, come se fosse soltanto un ruolo, una maschera: Javert. E a distanza di tanti anni confermo il refuso: se avessi voluto irriderlo, non avrei scritto "Pircamillo", avrei scritto semplicemente Davigo.
Condanna all'ex Mani Pulite. Davigo come Palamara, la solita logica del capro espiatorio. La condanna di Davigo potrebbe servire a seppellire per sempre la questione della Loggia Ungheria sulla quale, alla fine, non si è mai indagato...Frank Cimini su L'Unità il 22 Giugno 2023
La logica del capro espiatorio. Dopo Palamara, Davigo. La condanna del magistrato in pensione Piercamillo Davigo a 1 anno e 3 mesi per violazione del segreto d’ufficio decisa a Brescia rischia di avere la stessa funzione che ebbe la radiazione dall’ordine giudiziario di Luca Palamara passato in poco tempo da “ras delle nomine” a uno dal quale prendere le distanze da parte degli stessi ex colleghi che lo affliggevano di telefonate per chiedere favori, promozioni e prebende.
Il rischio, davvero fortissimo, è che sapremo mai nulla di che cosa fu e che cosa non fu la loggia Ungheria di cui aveva parlato a verbale a cavallo tra il 2019 e il 2020 davanti ai pm di Milano l’avvocato Piero Amara ex consulente dell’Eni. È datata luglio 2022 la richiesta di archiviazione della procura di Perugia sulla benedetta o maledetta loggia di cui avrebbero fatto parte magistrati, imprenditori, avvocati, ufficiali dei carabinieri funzionari pubblici, che potrebbe aver fatto il bello e il cattivo tempo tra le toghe e non solo.
E’ passato quasi un anno e sulla richiesta di archiviazione non è stata presa ancora una decisione. L’ennesimo inquietante interrogativo che bisogna porsi in questa vicenda. Era una richiesta di archiviazione poco convincente. Il capo dei pm di Perugia faceva riferimento alle mancate immediate iscrizioni nel registro degli indagati a Milano come aveva sollecitato il pm Paolo Storari, colui il quale poi pensò di trovare la soluzione consegnando i verbali di Amara a Davigo. Cantone dava la colpa alla fuga di notizie che avrà contribuito, ma non può certamente spiegare tutto.
Alla fine della fiera sulla loggia Ungheria non si è indagato a Milano e nemmeno a Perugia. Non sarebbe stato possibile riscontrare le parole di Piero Amara, che potrebbe aver raccontato un sacco di balle anche se Cantone poi affermerà che alcune dichiarazioni del legale non erano del tutto inattendibili. Uno dei pochi atti di indagine fu la perquisizione a Giuseppe Calafiore uno di quelli che si erano autoaccusasti far parte della loggia e che avrebbe avuto la disponibilità degli elenchi. La perquisizione fuori tempo massimo non ebbe esito.
Ma in questa intricata vicenda pesa anche l’inerzia del Consiglio Superiore della Magistratura che avrebbe dovuto intervenire immediatamente. Basti pensare alle parole di fuoco, agli insulti volati negli uffici della procura di Milano, soprattutto quelli tra Paolo Storari e Fabio De Pasquale, il pm del processo per corruzione internazionale ai vertici dell’Eni, preoccupato dal fatto che le indagini approfondite su Amara avrebbero leso l’attendibilità e la credibilità di un importante testimone di accusa. I protagonisti di quei litigi sono ancora tutti lì nella stessa procura, tranne il capo Francesco Greco andato in pensione.
L’alibi del Csm punta sul fatto che erano e sono in corso procedimenti penali. Storari è stato assolto in via definitiva, De Pasquale è imputato a Brescia per aver sottratto al deposito nel processo Eni atti utili alle difese e proprio oggi ci sarà l’udienza per l’ammissione delle prove. Insomma tempi lunghi. E va aggiunto che se il Csm intervenisse adesso, dopo non averlo fatto nell’immediato, rischierebbe anche di passare in un certo senso dalla parte del torto. La questione andava chiarita subito. Era ed è una guerra di potere dentro la magistratura dove in troppi hanno agito non certo per amministrare la giustizia, ma per ragioni personali anche di rancore. Frank Cimini 22 Giugno 2023
Caso Minenna, Palamara: “Grillini vittima del loro giustizialismo”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Giugno 2023
“Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto”. Così l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara commenta l’arresto dell’ex direttore dell’Agenzia delle Dogane in merito all’inchiesta sui dispositivi anti Covid.
Possiamo dire che il caso Minenna apre il mascherina gate?
Come in tutte le vicende giudiziarie, penso che sia doveroso attendere la lettura di tutte le carte. E ciò al fine di meglio comprendere quelli che potranno essere gli sviluppi di questa inchiesta.
La verità sui soldi spesi durante la pandemia è venuta tutta a galla?
Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto. Penso che ora tante altre verità potranno venire a galla.
Fare chiarezza interessa soprattutto ai cittadini…
Certamente! Mi riferisco a quelle persone, che hanno vissuto quel periodo nella totale incertezza di ciò che improvvisamente stava avvenendo. Non dimentichiamo mai che uno dei momenti più oscuri fu proprio quello legato al prezzo delle mascherine, inizialmente schizzato alle stelle e poi improvvisamente ribassato.
Minenna sembra essere amico di Grillo. Non è che quel giustizialismo che hanno sempre difeso i pentastellati, adesso, gli si ritorce contro?
Distinguerei le due vicende. Quella di Minenna attiene al piano giudiziario e come tale deve essere affrontata, nel rispetto di tutte le garanzie difensive. Quella del giustizialismo attiene, invece, ai rapporti tra politica e magistratura e per una sorta di nemesi si sta ora ritorcendo contro coloro i quali dopo le elezioni politiche del marzo 2018 ritenevano essere in qualche modo “immuni” da ogni iniziativa giudiziaria. Il mondo della magistratura è un mondo complesso e l’idea di una parte politica, in questo caso quella dei 5 Stelle, di poter maggiormente “flirtare” con la corrente della magistratura capeggiata da Piercamillo Davigo, come ha plasticamente evidenziato la vicenda dei verbali della Loggia Hungaria, si è rivelata alla fine un boomerang.
Perché?
Non dimentichiamo che molte delle riforme di Bonafede traevano ispirazione proprio da questo connubio e che alla fine anche l’iniziale battaglia dello stesso ministro e dei cinquestelle contro il correntismo e le logiche del sistema si è rivelata di corto respiro. Basti considerare che, oggi, secondo le logiche del sistema, Bonafede compone il consiglio di giustizia tributaria e due ex magistrati, Cafiero de Raho e Scarpinato, siedono al Senato tra le loro fila. Insomma, come dice Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “tutto cambia affinché nulla cambi”.
Esiste una guerra all’interno della magistratura sul Coronavirus. Il tribunale dei ministri, intanto, ha assolto l’ex premier Conte. Le sembra strano?
Non parlerei assolutamente di guerra, ma dicevo prima che la magistratura è un mondo complesso e l’autonomia, l’indipendenza che la contraddistingue comporta che ci siano tanti magistrati che in qualche modo non vogliono essere allineati a un unico pensiero. Tutto questo comporta che ci possano essere iniziative e decisioni divergenti tra di loro. Aspetterei ulteriori sviluppi per comprendere come potrà evolversi la vicenda.
Le disavventure. Davigo, Claise, Travaglio, storie e storielle di epuratori che camminano con le mani a terra ed i piedi in aria. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 22 Giugno 2023
La cronaca di questi giorni ci offre a man bassa materiale per ragionare sugli “epuratori“, cioè quella categoria di persone che – per le ragioni più varie, ma comunque sempre arbitrarie – si è autoassegnata il compito di evangelizzarci sul bene e sul male, sui buoni (loro) ed i cattivi (gli altri).
Prima storia. Circa un anno fa il Giudice Istruttore belga Michel Claise, forte della scoperta di un borsone con 750mila euro in contanti, parte all’assalto del Parlamento Europeo, ricettacolo -egli ipotizza- di corruzioni indicibili. Arresta a destra e a manca, trattiene in carcere senza derogare nemmanco di fronte alle elementari esigenze affettive di una bimba di due anni, come si addice agli epuratori tutti d`un pezzo. Dopo un anno di fiammeggiante inchiesta e di dichiarazioni inflessibili (ma niente prove) sulla corruzione universale, si scoprono tuttavia i segni di una certa indulgenza verso una delle persone che pure la Procura aveva approfonditamente segnalato tra i protagonisti della (oscura) vicenda.
Come mai – ci si chiede – non l’ha mai nemmeno interrogata, costei? Si viene ora a sapere che il figlio di costei è socio in affari del figlio di costui (dell’epuratore, intendo), e qualche avvocato impudente (maledetti avvocati!) formalmente chiede: non sarà mica per questo? Lui al momento si chiude in uno sdegnato silenzio, ma prudentemente lascia l’inchiesta. Se fossimo lui, lo avremmo già arrestato. Invece diciamo, noi queruli e salottieri liberali e garantisti: semplici insinuazioni, si vedrà. Intanto, al momento il nostro epuratore ha dovuto rinfoderare la sua incandescente sciabola.
Seconda storia: Piercamillo Davigo. Un galantuomo, strepita Travaglio. Io, infatti, non ho il benché minimo dubbio che lo sia. Mai avuto. Ma il processo aveva ed ha ad oggetto non se il dott. Davigo sia un galantuomo, bensì se egli potesse consegnare a terzi atti di indagine coperti da segreto, oppure no. Anche in questo caso, ben s`intende, egli rivendica di averlo fatto per denunciare il male, in nome del bene. Secondo questi primi giudici, tuttavia, commettendo un reato. Si vedrà. Ora lui giustamente appella, ritenendo -immagino- che questo suo sacrosanto atto difensivo sia in qualche modo (quale?) diverso da tutte quelle altre impugnazioni che egli ha sempre denunziato come il male assoluto della giustizia penale. Un altro classico del mondo degli epuratori.
Piccola storiella in coda. Il Direttore Travaglio tuona, indignato, che questo è il mondo alla rovescia. Davigo condannato e il sindaco Uggetti – e qui quasi si strozza – assolto, vergogna. Questo, cari lettori, è il mondo semplificato nel quale si baloccano gli epuratori: io buono, tu cattivo, com’è che non tornano i conti? “È il mondo alla rovescia!”, strepitano, mentre camminano, impettiti, con le mani a terra ed i piedi in aria. Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 giugno 2023.
Piercamillo Davigo è stato condannato per aver divulgato atti coperti da segreto d'ufficio (i verbali del faccendiere Piero Amara sulla loggia Ungheria) nelle stanze del Csm. Atti che sarebbero stati condivisi con modalità un po' carbonare con i consiglieri Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe (togati), David Ermini, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna (laici) oltre che con l'ex presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra.
Ma può essere condannato solo uno dei pubblici ufficiali che erano venuti a conoscenza delle carte segrete sulla loggia Ungheria e non tutti gli altri che non avevano denunciato di aver visionato atti sicuramente sensibili? È quello che, a gennaio, si è chiesto il giudice dell'udienza preliminare Nicolò Marino, il quale, dopo aver assolto (..dall'accusa di calunnia l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ha chiesto alla Procura di iscrivere sul registro degli indagati due ex consiglieri del Csm, Giuseppe Cascini, (rappresentante del cartello progressista di Area) e Giuseppe Marra (ex esponente della corrente fondata da Davigo Autonomia & indipendenza), per omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e distruzione del corpo del reato.
Cascini era stato accusato di non essersi «scandalizzato» e di non aver respinto «la richiesta di consulenza fatta dal dottor Davigo circa la credibilità di Amara»; ma anche di non aver sentito «il dovere di interrompere la catena di divulgazione dei verbali di Amara, addirittura interloquendo sugli stessi alla presenza non solo del dottor Davigo, ma anche dei consiglieri Pepe e/o Marra».
Quest'ultimo aveva ammesso: «Davigo mi disse: “Ti ho lasciato i verbali sulla scrivania”, senza aggiungere altro. Quando tornai in ufficio, trovai una cartellina contenente i verbali di Amara. […] Dopo qualche settimana li ho strappati». La stessa cosa che ha confessato di aver fatto l'ex vicepresidente del Csm David Ermini. Che ha anche raccontato che Davigo gli aveva chiesto di conferire «riservatamente», «lasciando i telefoni in strofa proprio perché la domanda era molto delicata».
Poi a Brescia ha confermato quanto rivelato da Piercavillo e cioé di essere salito al Quirinale per riferire al presidente Sergio Mattarella: «Io penso e ritengo che lui (Davigo, ndr) volesse che io avvisassi […] il Capo dello Stato della presenza di queste persone a questa ipotetica loggia […] lui mi disse: “Sarebbe opportuno che tu lo riferissi al Presidente” […] Io risposi di sì, gli dissi: “Va bene” […] poi quando andai dal Presidente io dovevo parlare anche di tante altre cose, ma, insomma, gli riferii le cose che mi aveva detto il consigliere Davigo».
Ermini ammise anche di aver distrutto i verbali e aveva spiegato il motivo: «Non erano utilizzabili, erano arrivati in modo non ufficiale, l'autorità giudiziaria ne era a conoscenza perché così Davigo mi disse […] quindi io che ne facevo di questi verbali ? Mica potrebbe diventare il megafono di Amara!». Una giustificazione che per Marino ha fatto la differenza tra Ermini e Marra, il quale, invece, aveva distrutto il «corpo di reato […] senza neanche aver tentato di spiegarne il perché alla autorità giudiziaria di Brescia, come invece aveva fatto il vicepresidente del CSM».
Ieri abbiamo contattato Marra per chiedergli conferma dell'indagine nei suoi confronti e il magistrato non si è trincerato dietro al classico «no comment». Anzi.
Cinquantaquattro anni, romano, per anni fuori ruolo al ministero della Giustizia, risponde tranquillo.
«Sì, sono iscritto nel registro degli indagati. Io e il collega Cascini per omessa denuncia, io da solo per soppressione del corpo del reato».
Perché siete solo voi due?
«Le dico la mia opinione: perché il dottor Marino con un atto ritorsivo ha denunciato (si tratta di una denuncia qualificata provenendo da un giudice) alla Procura solo noi due perché non lo abbiamo votato per due volte per un incarico semidirettivo di procuratore aggiunto ( di Caltanissetta, ndr) a cui lui aspirava. E, poi, il dottor Cascini è stato componente della sezione disciplinare che lo ha condannato, ragione per la quale non lo avevamo votato per l'incarico semidirettivo».
Dove siete indagati?
«Cascini a Perugia, perché è procuratore aggiunto a Roma, io invece nella Capitale perché lavoro al Massimario della Cassazione, un ufficio con competenza nazionale e per questo incardinato a Roma».
I comportamenti di cui siete accusati sono stati tenuti anche da altri…
«Il motivo glielo ho detto. Per me il giudice non aveva titolo per valutare la nostra posizione che non incideva o era utile nella valutazione della decisione sul Contrafatto, che rispondeva davanti a lui del reato di calunnia… una vicenda del tutto autonoma rispetto alla diffusione dei verbali da parte di Davigo nel Consiglio, che al massimo poteva rappresentare una premessa…».
Ma Ermini, Pepe, Morra non potevano essere considerati pubblici ufficiali come voi?
«Certo, eravamo tutti consiglieri e quindi pubblici ufficiali, Morra sotto un'altra veste…».
Davigo si fece seguire nella tromba delle scale… qualche sospetto poteva venire anche a lui…
«Assolutamente sì. Ma Marino ha scelto noi due per le ragioni che le ho detto. Io ero commissario della quinta e Cascini è intervenuto in plenum per dire che non poteva avere l'incarico… Gigliotti che ha votato a favore del conferimento non è stato denunciato».
Eppure ha visto anche lui le carte…
«Eeeeeeeeeh…»
L'omessa denuncia poteva essere contestata a tutti, anche al presidente della Repubblica o mi sbaglio?
«Io non dico nulla sugli altri. Io ricevetti queste comunicazioni da Davigo un mese dopo gli altri perché rientrai dal lockdown il 9 giugno e non ai primi di maggio. E quindi a chi avrei dovuto denunciare se non al mio superiore che in quel momento era il vicepresidente Ermini, se non volevamo considerare il presidente della Repubblica? Quando Davigo mi dice “ho consegnato le carte a Ermini, so che Ermini è andato dal Capo dello Stato”, a chi dovevo denunciare la cosa, al maresciallo dei carabinieri della stazione sotto casa mia?
Potevo denunciare, certo, ma a chi? Il vertice dell'autorità giudiziaria è il procuratore generale e per quanto mi risulta anche lui (all'epoca Giovanni Salvi, ndr) era stato informato, il vertice del Csm è il vicepresidente… mi dica, io, che ho saputo queste cose un mese dopo Ermini, Salvi, che cosa avrei dovuto fare».
Era informato anche il presidente della Repubblica…
«È una notizia che ha confermato Ermini».
Lei, a febbraio, si è presentato in aula a Brescia con l'avvocato.
«Sapevo di essere indagato e volevo rispondere. Anche se la mia posizione era già stata valutata dalla Procura di Brescia».
E in Lombardia non è mai stato iscritto?
«Certo, perché ovviamente se indagavano me, avrebbero dovuto indagare anche tutti quanti gli altri, visto che la questione dell'omessa denuncia è uguale per tutti. Per quanto riguarda la distruzione, anche Ermini ha detto di averlo fatto».
Lei con chi ha parlato di questi documenti?
«Con le persone che Davigo mi aveva detto che erano state informate prima di me: Cascini, Gigliotti, Pepe…»
Ed Ermini?
«Con lui ho ritenuto di non parlarne… il 9 giugno, giorno del mio rientro, Davigo mi dice che mi deve parlare con urgenza e mi racconta sinteticamente la storia e cioè che il pm Paolo Storari non riusciva a convincere il procuratore (Francesco Greco, ndr) a iscrivere l'avvocato Amara e che gli aveva lasciato queste carte... che non erano copie di verbali perché non c'erano timbri, firme, non avevano valore giuridico , anche se si capiva che erano file che provenivano da un procedimento giudiziario... mi parla e mi fa vedere i documenti per non più di dieci minuti, poi, visto che erano entrate altre persone, mi disse che avremmo continuato dopo e, in effetti, ne riparlammo a pranzo in un bar vicino al Consiglio, quando mi fece vedere la parte che interessava i due consiglieri che erano stati “attinti” da queste dichiarazioni, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti.
Dopo di che mi disse la cosa che per me era fondamentale, altrimenti mi sarei posto anche io il problema: “Ho informato il vicepresidente, ho informato Salvi e so che il vicepresidente è andato poi al Quirinale a riferire”».
Più di così che cosa si poteva fare?
«Appunto, se lo dice pure lei... sono finito in un pasticcio senza colpa, tutti quelli a cui ho raccontato i dettagli mi dicono che per colpa di colpa di una persona che fa male il suo lavoro sono finito denunciato alla Procura di Roma».
La colpa può essere anche di chi non ha iscritto tutti e approfondito i fatti… (Marra pensa che ci riferiamo ai magistrati di Milano a proposito di Amara)
«Certo. Ma perché il dottor Greco non vuole iscrivere uno che ha confessato di far parte di un'associazione segreta? Lo poteva fare per calunnia e autocalunnia se non voleva per violazione della legge Anselmi... questo ci rendeva dubbiosi senza sospettare che Greco volessero coprire una loggia massonica... Davigo, né nessuno di noi, lo ha mai pensato... il motivo per cui Greco faceva resistenza lo abbiamo capito dopo».
E qual era?
«Che non volevano screditare Amara perché era testimone del processo Eni Nigeria.
Ma questa è una mia valutazione, non un dato oggettivo».
Ma se erano tutti i pubblici ufficiali, compreso il presidente della Repubblica, perché doveva essere lei fare la denuncia?
«Se lei legge la sentenza (di Marino, ndr) probabilmente si metterà a ridere. La posizione di Ermini sarebbe diversa dalla mia perché lui ha spiegato il motivo per cui ha distrutto le carte, anche se io non ero ancora stato sentito in Tribunale. Ma quella che ha dato secondo lei è una spiegazione? Ermini ha detto di averli buttati via perché erano atti irricevibili. Ma se erano tali non li dovevamo ricevere. Ma anche se volessimo lasciare perdere questa contraddizione, per la sua giustificazione Ermini non è stato denunciato e io sì».
Ma anche il presidente Mattarella poteva denunciare o no?
«Che cosa le devo dire? Non so in che termini sia stato informato. Lo preciso per essere attento ai ruoli istituzionali. Su questo Davigo non mi ha detto nulla di specifico, ma Ermini ha confermato di aver ricevuto le carte e ha detto di averle distrutte. Però prima di farlo Davigo gliele avrà chiamato altrimenti come faceva a giudicarle irricevibili?».
Lei come ha saputo di essere indagato?
«Ho letto sulla Verità che eravamo stati denunciati. Quindi prima di andare a Brescia a testimoniare ea dire che forse ero indagato ho fatto richiesta alla procura di Roma e ho avuto la conferma di essere iscritto».
Caso verbali, ecco perché gli altri consiglieri del Csm non sono stati indagati. Il processo a Davigo continua a generare polemiche tra le toghe: scoppia il caso della presunta intervista a Marra. Simona Musco su Il Dubbio il 22 giugno 2023
Il caso Piercamillo Davigo e dei verbali segreti fatti circolare al Csm fa discutere ancora. Dopo la difesa d’ufficio del Fatto Quotidiano, che si è chiesto come mai non fossero stati aperti dei fascicoli per omessa denuncia a carico dei consiglieri informati dell’esistenza della “Loggia Ungheria” (in realtà ce ne sono due, uno a Roma e uno a Perugia), a dare manforte è La Verità che in una lunga (presunta) intervista a Giuseppe Marra - ex consigliere del Csm e indagato a Roma per violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia (l’altro indagato è Giuseppe Cascini) - si pone la stessa domanda, cercando di dare però anche una risposta.
E scriviamo presunta perché a smentirla è lo stesso “intervistato”: «Non ho rilasciato alcuna intervista, non sono stato avvisato che la conversazione informale sarebbe stata divulgata come intervista su un quotidiano - ha dichiarato l’ex consigliere al Dubbio -. In tutti i casi in cui ho rilasciato interviste i vari giornalisti mi hanno sempre fatto rileggere le dichiarazioni che avevo espresso. Ho presentato una diffida al quotidiano, ma valuterò un esposto all’ordine dei giornalisti e al Garante della privacy: trovo scorretto quanto accaduto e non mi è mai capitata una cosa del genere. Le cose che dovevo e potevo dire le ho dette davanti al Tribunale di Brescia».
Le dichiarazioni trascritte dal quotidiano si potrebbero riassumere così: nella magistratura ci sarebbe una lotta intestina, dove ad ogni azione corrisponde una reazione. E così il motivo per cui solo Marra e Cascini sono stati iscritti sul registro degli indagati sarebbe una sorta di ritorsione - stando a quanto scritto da La Verità -, poiché gli stessi, per due volte, hanno votato contro il conferimento di un incarico semidirettivo a Nicolò Marino, il magistrato che ha assolto l’ex segretaria di Davigo e contemporaneamente trasmesso alla procura gli atti sulle due toghe, inguaiandole. Roba da far rischiare una querela a Marra, che forse mai si sarebbe lanciato in tali affermazioni se avesse saputo di essere intervistato.
Il ragionamento de La Verità è chiaro: anche gli altri, presidente della Repubblica compreso (informato dal vicepresidente del Csm David Ermini, anche se non si sa bene in che termini), andavano denunciati. Perché, dunque, sono Marra e Cascini gli unici indagati? La ragione sta nel fatto che entrambi sono entrati materialmente in possesso delle copie dei verbali di Amara, secondo quanto ammesso dagli stessi a Brescia. Così come Ermini, che poi li distrusse, rischiando di incappare nello stesso reato contestato a Marra. Ma a salvarlo è stato lo stesso Davigo, che a Brescia ha dichiarato di non aver detto a Ermini che si trattava di atti riservati. Se l’ex pm avesse comunicato tale particolare al numero due di Palazzo dei Marescialli, come chiarito in quella occasione dal presidente del collegio Roberto Spanò, l’udienza sarebbe stata interrotta e gli atti trasmessi alla procura.
Fuori per un soffio, dunque. Tutti gli altri pubblici ufficiali coinvolti da Davigo nell’affaire verbali, invece, non hanno mai ricevuto copia degli stessi, per questo scampando il pericolo di finire sotto indagine. Avrebbero di certo potuto denunciare, come fatto (anche se tardi e su suggerimento di Ardita e Di Matteo) da Nicola Morra, all’epoca presidente della Commissione Antimafia, ma non andò così. E a impedire che un nuovo scandalo si consumasse nel silenzio fu soltanto l’invio di quelle carte a Nino Di Matteo, che svelò tutto in plenum e al procuratore di Perugia, dove andò a denunciare il tutto. Insomma, un bel pasticciaccio. L’ennesimo.
Caso Amara, l’ex pm di Mani pulite Davigo condannato a un anno e tre mesi. Redazione su L'Identità il 20 Giugno 2023
Un anno e tre mesi di reclusione è la condanna per l’ex magistrato Piercamillo Davigo, imputato per la rivelazione di segreto d’ufficio sui verbali secretati resi alla procura di Milano dall’avvocato Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria. Lo ha deciso il Tribunale di Brescia. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna dell’ex pm di Mani pulite per aver ricevuto dal pm milanese Paolo Storari – assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato – i verbali segreti di Amara, in cui l’ex avvocato esterno di Eni aveva parlato dell’esistenza della presunta associazione massonica.
Davigo dovrà inoltre risarcire con 20 mila euro Sebastiano Ardita, l’unica parte civile nel processo. A Davigo la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche, le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni. “Faremo appello”, ha detto Davigo commentando al telefono con l’avvocato Francesco Borasi.
Come è noto, le dichiarazioni presenti in quei famosi verbali furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020, nell’inchiesta sul cosiddetto “falso complotto Eni”, di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. La consegna avvenne a Milano nell’aprile del 2020, per stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo, a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese – in particolare dall’allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall’aggiunto Pedio – sull’ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte vertici delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento.
Caso Amara, il magistrato Piercamillo Davigo condannato a 15 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2023
"Più grave" per l’accusa, è la rivelazione di Davigo all' ex senatore grillino Nicola Morra: "È esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". ALL'INTERNO LA SENTENZA DEL TRIBUNALE
Il magistrato ex componente del CSM Piercamillo Davigo, ora in pensione, è stato condannato a 1 anno e tre mesi oltre a 20mila euro di risarcimento. Lo ha deciso il Tribunale di Brescia nel processo per rivelazione e utilizzazione di segreto sui verbali della cosiddetta “Loggia Ungheria” resi alla Procura di Milano dall’ex legale esterno di Eni, Piero Amara, nei confronti del pm considerato uno dei simboli di “Mani Pulite“. Il dispositivo della sentenza è stato letto nell’aula della Corte d’Assise dal presidente della prima sezione penale, Roberto Spanò, al termine di un processo iniziato il 24 maggio 2022.
La vicenda era venuta alla luce nella primavera 2021 dopo che il consigliere Nino Di Matteo aveva reso noto in un’udienza pubblica del plenum del Csm di essere stato destinatario di verbali anonimi di Amara, e successivamente era emerso che analoghi verbali anonimi fossero già stati inviati nell’ottobre 2020 al giornalista Antonio Massari de «Il Fatto Quotidiano» che aveva informato i pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari, e successivamente alcuni mesi dopo, nel febbraio 2021 alla giornalista Liliana Milella del quotidiano “La Repubblica” che a sua volta aveva avvisato il procuratore perugino Cantone).
Nelle dieci udienze sono stati chiamati sul banco dei testimoni tutti i principali vertici della magistratura e del Csm della stagione 2018-2022. La Procura di Brescia aveva chiesto la condanna a 1 anno e 4 mesi con pena sospesa con l’accusa a Davigo, ex componente del Csm, di aver concorso con il pm Paolo Storari, che gli consegnò a Milano i verbali di Amara in formato word su una pen drive, nel “disvelare atti coperti dal segreto investigativo” e per averli a sua volta consegnati o mostrati a diverse persone a Roma, sia dentro che al di fuori del Consiglio superiore della magistratura.
Storari, che sarà processato disciplinarmente dal Csm dopo l’estate, nel processo penale è stato invece già assolto in rito abbreviato in primo e in secondo grado in via definitiva per difetto dell’elemento soggettivo del reato di rivelazione di segreto, e cioè per aver fatto affidamento nella “liberatoria” assicuratagli da Davigo che si basava sulla “non opponibilità” del segreto di indagine ai membri del Csm.
La tesi dei pubblici ministeri di Brescia
La tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco della procura di Brescia è che la scelta di Davigo ha fatto sì che tutto “sia rimasto nel chiacchiericcio e nell’uso privato di informazioni pubbliche” e che “Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere” questa alcune delle parole proferite dall’ accusa nella propria requisitoria.
Davigo nel cortile del Csm informò diversi colleghi peraltro in assenza di una ragione ufficiale, del contenuto per metterli in allarme dal “frequentare i consiglieri Ardita e Mancinetti“, mostrando e facendo leggere quei documenti su cui la Procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm in carica all’epoca dei fatti On. Avv. David Ermini, “ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute”, distrusse immediatamente la copia dei verbali che Davigo gli aveva consegnato, pur parlando della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Ancora “più grave” per l’accusa, è la rivelazione di Davigo all’ ex senatore grillino Nicola Morra: “È esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite“. Contestata anche la rivelazione del documento E poi le successive rivelazioni di segreto ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, e persino alle sue ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: “Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo“. E così il magistrato che per una vita si è autodefinito integerrimo sostenendo di operare in nome della legalità è stato anch’egli condannato per la prima volta.
Contestata a Davigo dai pm proprio all’ultima udienza è stata anche la sua rivelazione all’allora presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, di cui i pm hanno rimarcato la data di settembre 2020, non coerente con la dichiarata volontà di Davigo di sbloccare l’inchiesta milanese considerando che bene o male essa era stata già sbloccata il 12 maggio 2020 con le prime iscrizioni degli indagati: cronologicamente successive di pochi giorni a una telefonata dell’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (“sollecitato” da Davigo) al capo della procura di Milano Greco, ma per Greco e Pedio (entrambi archiviati l’anno scorso a Brescia rispetto all’accusa di “omissione d’atti d’ufficio”) decise già e indipendentemente prima dalla telefonata di Salvi a Greco.
Il tribunale di Brescia ha concesso a Davigo le attenuanti generiche e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali e a risarcire l’ex collega al Csm Sebastiano Ardita – accusato da Amara di essere aderente alla Loggia Ungheria – con 20mila euro più 5mila di spese legali. Il collegio ha fissato in 30 giorni il termine per il deposito della motivazioni della sentenza. In aula era presente anche il procuratore capo di Brescia Francesco Prete.
“Soltanto in questo Paese potevamo pensare che un reo confesso potesse essere assolto”, è stato invece il commento dell’avvocato Fabio Repici, costituitosi parte civile per conto dell’ex collega ed ex amico di Davigo, Sebastiano Ardita, a cui il collegio presieduto da Roberto Spanò ha riconosciuto un risarcimento danni di ventimila euro.
Davigo presa conoscenza della sentenza di condanna ha pronunciato poche parole al suo avvocato Francesco Borasi che lo ha informato della condanna subita, solo per annunciare: “Faremo appello“.
Redazione CdG 1947
Loggia Ungheria, Davigo condannato a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. GIULIA MERLO su Il Domani il 20 giugno 2023
L’ex consigliere del Csm e pm di Mani pulite era imputato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per aver rivelato ad altri membri del Csm e ad un parlamentare il contenuto dei verbali di Piero Amara, in cui rivelava l’esistenza della presunta loggia Ungheria. «Farò appello», ha annunciato
L’ex consigliere del Csm e toga di Mani Pulite, Piercamillo Davigo è stato condannato a un anno e tre mesi dal tribunale di Brescia per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito del caso sui verbali di Amara e la presunta loggia Ungheria. Risarcimento di 20mila euro, invece, a Sebastiano Ardita che si era costituito parte civile. La procura aveva chiesto un anno e quattro mesi, la difesa l’assoluzione con formula piena.
«Farò appello», ha già annunciato l’ex toga. Il processo di primo grado si è svolto con rito ordinario, mentre il pm di Milano Paolo Storari – che materialmente ha consegnato a Davigo i verbali di Amara – aveva scelto il rito abbreviato ed è stato assolto per «ignoranza di norma extrapenale».
Davigo ha scelto il rito ordinario proprio per dare massima diffusione ai fatti e, attraverso il dibattimento, ricostruire nel modo più completo i fatti. Davanti ai giudici di Brescia, infatti, hanno sfilato i vertici del Csm, della procura di Milano e della Cassazione, per tentare di ricostruire il clima di veleni sia al palazzo di giustizia meneghino che a palazzo dei Marescialli.
IL CASO
I fatti oggetto del processo risalgono al 2019, 2020, quando Davigo ha rivelato ad alcuni membri del Csm suoi colleghi e anche al deputato del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra, il contenuto dei cosiddetti verbali di Amara, che contenevano le dichiarazioni dell’ex legale esterno di Eni sull’esistenza di una logga segreta chiamata Ungheria.
I verbali erano stati consegnati a Davigo da Storari, magistrato milanese e titolare di un fascicolo d’indagine su Eni, parallelo a quello detto Eni-Nigeria sulla presunta tangente internazionale del colosso petrolifero.
Storari, preoccupato dall’inerzia dei vertici della procura nel dar seguito all’acquisizione dei vernali, si era confidato con il consigliere Davigo, il quale lo aveva rassicurato del fatto che il segreto d’ufficio non fosse opponibile ai membri del Csm.
Storari aveva consegnato i verbali a Davigo, il quale li aveva poi portati a Roma, e ne aveva parlato con i vertici del Csm, sia per verificare le ragioni della presunta inerzia milanese, sia per valutare il da farsi. Davigo, tuttavia, non aveva ritenuto di aprire alcuna pratica ufficiale.
Al momento del pensionamento di Davigo e la votazione per escluderlo dal Csm, i verbali sarebbero stati trafugati dal suo studio e mandati a Repubblica, al Fatto Quotidiano e al consigliere Nino Di Matteo, il quale ne ha svelato l’esistenza durante un plenum del Csm, facendo scoppiare il caso Ungheria.
IL PROCESSO
A processo, la difesa di Davigo ha chiesto l’assoluzione con formula piena, perchè «Sul piano obiettivo nessuna violazione dell'articolo 326, l'inesistente pericolo concreto per lo svolgimento indagine della Procura milanese e l'insussistente ingiusto danno per Ardita e Mancinetti».
Secondo la difesa, «l'ipotesi che Davigo abbia voluto dare a Storari rassicurazioni false o che la datazione del contatto fra Davigo e Storari sarebbe stata falsamente posticipata è fuori dal mondo e ancora una volta paranoico», anche perchè «Mai nessuno ha messo in dubbio che la richiesta d'incontro è stata fatta da Storari ed era motivata da problemi reali nell'indagine della Procura milanese sulla 'Loggia Ungheria' per la diversità di vedute degli inquirenti e valutazioni sul da farsi».
I pm di Brescia Francesco Milanesi e Donato Greco, coordinati dal Procuratore Francesco Prete, hanno chiesto la condanna a un anno e 4 mesi con pena sospesa per aver indotto il pm di Milano Paolo Storari a consegnargli i verbali di sintesi di Amara e per 11 episodi di rivelazione di segreto avvenuto a Roma fra maggio e settembre 2020.
La parte civile - l’ex consigliere Csm Sebastiano Ardita, parte offesa di calunnia per le dichiarazioni di Amara contenute nei verbali e riconosciute false - ha chiesto un risarcimento per aver visto infangato il proprio nome con l'obiettivo, secondo il suo legale Fabio Repici, di orientare il voto per la Procura di Roma nel 2020 dopo l'addio di Giuseppe Pignatone e sul quale i due erano in disaccordo.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Piercamillo Davigo condannato, clamoroso in tribunale: 1 anno e 3 mesi. Libero Quotidiano il 20 giugno 2023
Il tribunale di Brescia ha condannato a un anno e tre mesi (pena sospesa) Piercamillo Davigo, ex componente del Csm ed ex magistrato simbolo del pool di Mani Pulite per rivelazione di segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna per aver preso dalle mani del pm milanese Paolo Storari - assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato - i verbali segreti di Piero Amara, in cui l'ex avvocato esterno di Eni ha svelato l'esistenza della presunta associazione massonica. All'imputato la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche, le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni.
Le dichiarazioni furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, nell'inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni', di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. Una consegna avvenuta a Milano nell'aprile del 2020, da stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese - in particolare dall'allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall'aggiunto Pedio - sull'ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento.
La corte presieduta dal giudice Roberto Spanò ha condannato Davigo, ma ha concesso all'imputato "il beneficio della sospensione della pena e la non menzione della condanna nel casellario giudiziario". Davigo, oltre al pagamento delle spese legali, dovrà risarcire la parte civile, l'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita "nella misura di 20mila euro". Si chiude così con una condanna in primo grado la vicenda giudiziaria che ha segnato e spaccato la procura di Milano.
Storari consegnò quei verbali segreti, non firmati e in formato word, rassicurato dall'inopponibilità al segreto rivendicata dal consigliere del Consiglio superiore della magistratura, ma Davigo agì - per la pubblica accusa - fuori dalla procedura formale descritta in due circolari e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti. La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell'uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. "Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere" le parole usate nella requisitoria. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm David Ermini, "ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute", immediatamente distrusse copia dei verbali. La "più grave", per l'accusa, è la rivelazione a Nicola Morra: "è esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". Contestata anche la rivelazione alle ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: "Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo". E così il magistrato che per una vita si è battuto in nome della legalità è stato condannato per la prima volta.
Davigo condannato, "sventato un golpe nel Csm": l'accusa dell'avvocato di Ardita. Libero Quotidiano il 20 giugno 2023
"Era l'unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente". Lo afferma l'avvocato Fabio Repici, che ha tutelato gli interessi dell'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita parte civile nel processo bresciano che ha visto la condanna a un anno e tre mesi dell'ex magistrato Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto d'ufficio rispetto ai verbali conegnatigli dal pm di Milano Paolo Storari in cui Piero Amara ha svelato i nomi dei presunti appartenenti alla fantomatica loggia Ungheria.
Per il legale di Ardita "c'è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli" contro cui scagliarsi. "Oggi bisognerebbe ringraziare Ardita per aver mantenuto la dignità dell'Organo di autogoverno della magistratura, senza un ruolo nel quadriennio e senza l'impegno di pochi altri di tutela delle istituzioni, oggi probabilmente se quella operazione fosse riuscita ci troveremmo davanti a una giustizia più sbandata" conclude Repici.
Il Tribunale di Brescia ha condannato Davigo anche a pagare 20mila euro ad Ardita come risarcimento. Secondo i pm dell'accusa, Storari consegnò quei verbali segreti a Davigo rassicurato dall'inopponibilità al segreto rivendicata dal consigliere del Consiglio superiore della magistratura. Davigo però agì - per la pubblica accusa - fuori dalla procedura formale descritta in due circolari e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti. La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell'uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. "Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere" le parole usate nella requisitoria. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo.
Diffuse verbali segreti: condanna per l’ex pm Davigo. L’ex consigliere Csm condannato ad un anno e tre mesi: dovrà risarcire con 20mila euro Ardita, vittima delle bufale di Amara. Il suo legale: «Unica sentenza giusta, sventato un tentato golpe». Simona Musco su Il Dubbio il 20 giugno 2023
Un anno e tre mesi: è la condanna inflitta dal Tribunale di Brescia a Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm del pool di Mani Pulite, accusato di rivelazione ed utilizzazione di segreto d’ufficio. E l’utilizzo di tale segreto sarebbe stato quello di mettere mezzo Csm contro l’ex amico Sebastiano Ardita, indicato falsamente dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara tra gli appartenenti della presunta - ma smentita - “Loggia Ungheria”. La decisione è arrivata ieri, dopo dieci udienze del processo nato dalla consegna dei verbali di Amara a Davigo da parte del pm milanese Paolo Storari, che ad aprile 2020 si è rivolto a lui come forma di autotutela, denunciando il presunto lassismo della procura di Milano nelle indagini sulla loggia. Così bussò alla porta di Davigo, al quale - dopo essere stato rassicurato sulla inopponibilità del segreto ai consiglieri del Csm - consegnò su una chiavetta usb (di cui si sono perse le tracce) dei verbali non firmati, che contenevano i nomi di decine di persone che avrebbero fatto parte della «nuova P2», pezzi dello Stato tra i quali anche molti magistrati. E tra questi ci sarebbe stato Ardita, cofondatore con Davigo della corrente Autonomia&Indipendenza, passato dall’essere un suo intimo amico a nemico giurato, dopo un acceso diverbio sulla scelta da fare per il successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Davigo, una volta riaperti i confini durante il primo lockdown, stampò quei verbali nel suo ufficio del Csm mostrandoli a diversi consiglieri, tra i quali il vicepresidente David Ermini, al quale consegnò una copia che poi finì nel tritacarta, e al senatore Nicola Morra. A tutti suggerì cautela nei suoi rapporti con Ardita, presunto massone al pari di un altro consigliere, Marco Mancinetti, sul quale, però, non si soffermò molto.
È proprio da tale consegna che è partita una delle più clamorose fughe di notizie della storia della magistratura: quei verbali segretissimi, potenzialmente capaci di stravolgere l’ordine istituzionale, una volta arrivati a Palazzo dei Marescialli vennero spediti alla stampa e all’allora consigliere del Csm Nino Di Matteo, che decise di denunciare tutto in plenum, svelando quello che definì un complotto contro Ardita. Da lì partì un’indagine della procura di Roma sulla “manina” che aveva spedito i plichi e che portò ad individuare come presunta responsabile l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, assolta però in primo grado a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, contro il quale il mittente inveiva in un bigliettino anonimo. Un capro espiatorio, probabilmente, mentre il “corvo”, ad oggi non ha ancora un nome.
Sono undici gli episodi contestati all’ex magistrato oggi in pensione, il più grave dei quali è proprio quello relativo a Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia. Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità ai membri del Csm del segreto istruttorio, dietro il quale Davigo si è trincerato citando ad ogni udienza la circolare che lo avrebbe autorizzato a conoscere atti blindatissimi, niente motiverebbe l’aver rivelato anche ad un esterno al Consiglio come Morra il contenuto di quei documenti. Sicché il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, così come sostenuto dallo stesso in aula, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato, secondo la difesa di Ardita proprio per danneggiare il suo ex amico. Quella dell’ex pm sarebbe dunque «un'interpretazione arbitraria» delle circolari, alle quali si è appigliato sin dall’inizio, con lo scopo, secondo l’accusa, di ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, avevano detto i pm in aula (che avevano chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi), «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita». Quei verbali erano infatti arrivati a Palazzo dei Marescialli in una forma irricevibile, come confermato da più testimonianze, tanto da essere utili solo a generare un nuovo clima di veleni. Circostanza che non poteva non essere nota a Davigo, all’epoca anche componente della Commissione per il regolamento interno del Consiglio. Secondo l’ex pm, invece, era stato proprio il suo intervento presso l’allora procuratore generale Giovanni Salvi a sbloccare le indagini e a «ripristinare la legalità», cosa smentita dall’allora procuratore Francesco Greco e ora anche dal Tribunale.
Laconico il commento dell’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo: «La condanna è un errore giuridico e un errore di fatto, presenteremo appello», ha dichiarato dopo la lettura della sentenza, che ha previsto la sospensione condizionale della pena e anche un risarcimento di 20mila euro per Ardita - difeso da Fabio Repici -, parte civile al processo. Prima che il collegio presieduto da Roberto Spanò si riunisse in camera di consiglio, Borasi e Domenico Pulitanò, altro legale di Davigo, ne hanno chiesto l’assoluzione con la «formula liberatoria più ampia possibile»: secondo la difesa, infatti, l'incontro tra Storari e Davigo «ha a che fare con le funzioni di entrambi», una questione di «elementare cortesia e colleganza», in una situazione, per il pm milanese, «di serio disagio professionale». «Il senso delle parole di Davigo è che Storari poteva parlargli liberamente anche entrando su cose che in via di principio sono coperte da segreto. Le circolari presuppongono che le competenze riguardano anche attività coperte da segreto», ha detto Pulitanò. Ma per la procura Davigo avrebbe indotto in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso - ha affermato il pubblico ministero -. Se gli avesse detto la verità, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato». Per Repici, «c'è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli» alla realizzazione. «Era l'unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente», ha concluso. Per l’Unione Camere penali italiane, «Davigo sarà ora finalmente in condizione di comprende fino in fondo - ad occhio e croce per la prima volta nella sua vita - la funzione fondamentale, inderogabile ed incoercibile del diritto di impugnazione delle sentenze di condanna, diritto che egli ha invece sempre fieramente considerato e propagandato come del tutto eccezionale e residuale, giacché altrimenti causa della paralisi della nostra giustizia». A voler citare l’ex pm di Mani Pulite toccherebbe dire che non l’ha fatta franca, parafrasando la sua massima forse più famosa, quella secondo cui «un innocente a volte è un colpevole che l’ha fatta franca». Ma le regole dello Stato di diritto valgono anche per il grande inquisitore: Davigo è un presunto innocente. Fino alla Cassazione.
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 21 giugno 2023.
«Se mi sono pentito? No, rifarei tutto quello che ho fatto, e nel modo in cui l’ho fatto. Perché era l’unica cosa giusta da fare in quella situazione». Piercamillo Davigo lo rivendicava alla vigilia della sentenza, e dunque, adesso che la condanna è arrivata per davvero, c’è da giurare che, quasi più dei 15 mesi inflittigli, all’ex pm di Mani pulite bruci l’offrire il destro al ghigno ribaldo di chi, sfottendolo nel rimarcare quanto «resti innocente fino al terzo grado di giudizio», da tre decenni non aspettava altro che potergli rinfacciare tutto il copione delle sue gag da talk show.
Quelle false attribuitegli («rivolteremo l’Italia come un calzino»), quelle mezze false perché brutalizzate nella caricatura fuori contesto («non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti»), quelle da copione consunto («se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per pedofilia, io per omaggio alla presunzione di innocenza gli affido mia figlia di 6 anni da portare a scuola?»), e quelle più vere ma guarda caso meno ascoltate («la politica dovrebbe riformarsi prima delle sentenze per non far dipendere la propria legittimazione dai magistrati»).
Astronomo mancato […] nonno segretario comunale, padre rappresentante di commercio, mamma impiegata nella società dei telefoni dell’epoca (la Stipel), dal servizio militare come ufficiale passa in Confindustria a curare le relazioni sindacali, cioè a fare (per dirla come lui) «il sindacalista dei padroni».
[…] l’accusa di «toga rossa» […] appariva […] spericolata, […] Davigo […] non ha mai fatto mistero di essere «essenzialmente un uomo d’ordine», convinto che sia «difficile fare il magistrato se non si crede nel binomio che nel mondo occidentale è lo slogan della destra, legge e ordine».
Inizia a farlo nel 1978 […] resta fulminato da Francesco Saverio Borrelli e cementa con il suo futuro procuratore un’intesa duratura quando l’allora giudice Borrelli, in mezzo a colleghi che si buttano in malattia per schivare i processi ai brigatisti, rientra in servizio pur con la gamba fratturata per celebrare il processo al br Corrado Alunni.
All’opinione pubblica diventa familiare nel 1992-’94 nella formazione titolare del pool Mani pulite […] Esauritosi lo tsunami di Mani pulite, la seconda vita di magistrato lo vede passare da pm a giudice (prima consigliere in Cassazione e poi presidente di sezione), e darsi all’impegno associativo (sino a presiedere per un anno l’Anm) in una nuova corrente che fonda uscendo da Magistratura Indipendente per dare vita a Autonomia & Indipendenza assieme a Sebastiano Ardita: cioè proprio al collega ed ex amico che ora dovrà risarcire dei danni stimati dal Tribunale bresciano nelle divulgazioni in seno al Csm dei verbali di Amara, talvolta accompagnate da ammiccamenti alla possibilità di cautelarsi dal fatto che davvero Ardita potesse essere tra gli affiliati alla «loggia Ungheria» indicati da Amara. […]
Estratto dell’articolo di ilsussidiario.net il 21 giugno 2023.
Da grande accusatore a condannato. Finito sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio l’ex componente del Csm, ed ex magistrato di Mani pulite, Piercamillo Davigo ha visto emettere dal Tribunale di Brescia una sentenza nei suoi confronti con una condanna a un anno e tre mesi in merito alla vicenda dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria, una presunta associazione segreta che avrebbe condizionato nomine giudiziarie e politiche. Si tratta dei verbali che il pm Storari gli aveva consegnato per una sorta di autotutela riguardo a un’indagine che a suo dire era stata frenata e che Davigo aveva fatto circolare all’interno del Consiglio superiore della magistratura.
Davigo si è difeso parlando di non opponibilità del segreto a un membro del Csm. In altri procedimenti relativi alla stessa vicenda lo stesso Storari è stato assolto, così come la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contraffatto. Al termine del dibattimento il legale di Sebastiano Ardita, parte civile nel processo, aveva sostenuto che l’unico fine di Davigo, facendo circolare i verbali, sarebbe stato di “abbattere Ardita”, con il quale aveva rotto i rapporti. Ardita era stato inserito nella lista della cosiddetta loggia Ungheria alla quale ha dichiarato la propria assoluta estraneità.
L’episodio che riguarda Davigo e la sua condanna, spiega Frank Cimini, storico cronista di giudiziaria, già al Manifesto, Mattino, Apcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it, sono solo una parte di una vicenda più grande che coinvolge altri magistrati e che non sarebbe stata chiarita.
Come possiamo interpretare questa condanna?
La mia sensazione è che Davigo sia stato condannato perché non conta più niente. Tra l’altro dallo stesso giudice, il presidente Roberto Spanò, che è uno di coloro che anni fa aveva prosciolto Di Pietro con motivazioni risibili. La condanna ci può anche stare, anche se secondo me Davigo ha ancora una speranza in appello e in Cassazione.
C’è un problema tecnico: viene condannato perché ha indotto Storari a violare il segreto, ma Storari è stato assolto con sentenza ormai definitiva. Potrebbe succedere che in uno dei gradi successivi i giudici dicano che l’imputazione debba essere cambiata, con restituzione delle carte alla Procura, procedendo per aver ingannato Storari. Il problema è che Davigo è in pensione, non ha più un ruolo.
In quale contesto si sviluppa questa vicenda?
Il contesto generale è inquietante: è vero che la Procura di Milano, con Francesco Greco, non aveva ancora fatto le iscrizioni nel registro degli indagati (che erano un atto dovuto) riguardo alla loggia Ungheria. Di questa vicenda si sono perse le tracce perché è stata archiviata, ma non si è capito bene quello che è successo.
Cantone, il procuratore di Perugia che l’aveva archiviata, aveva detto che per alcune delle dichiarazioni rese Piero Amara era da considerare attendibile. Era una patata bollente che non voleva nessuno. In Italia si sono fatte indagini per molto meno. Personalmente posso anche essere convinto anche Amara abbia raccontato frottole, ma il problema è che la cosa andava verificata. Per la magistratura, al di là del personaggio Davigo, è una brutta storia questa. […]
[…] La domanda che bisogna farsi è se uno dei grandi accusatori di Mani pulite ha usato per ragioni private un fatto pubblico per “vendicarsi” di un collega, Sebastiano Ardita, suo ex sodale, della sua stessa corrente, con il quale aveva rotto i rapporti.
La difesa di Davigo, secondo la quale non si poteva opporre il segreto a un membro del Csm, ha fondamento?
Credo di no. Una cosa è il Csm, una cosa le persone che ne fanno parte. Storari avrebbe dovuto seguire le vie formali, gerarchiche, per denunciare che a Milano non avevano fatto l’iscrizione nel registro degli indagati. Doveva rivolgersi formalmente al Consiglio superiore della magistratura, non incontrare Davigo nel salotto di casa sua. Poi è stato assolto per mancanza di dolo. Ne prendiamo atto, ma che un magistrato ignorasse certe cose fa pensare.
Anche altre persone sono state assolte, come la segretaria del Csm di Davigo. Lui è l’unico condannato. C’è un motivo?
La mia sensazione è che sia stata “insabbiata” l’inchiesta sulla loggia Ungheria e siano stati “insabbiati” anche i litigi fra magistrati. Finora chi paga è l’unico che non ha più potere. […] il problema sono i litigi tra i magistrati.
Piercamillo Davigo? "Erto a paladino della giustizia, ma a violarla è stato lui". Libero Quotidiano il 21 giugno 2023
Piercamillo Davigo, ex componente del Csm ed ex magistrato del pool di Mani Pulite, è stato condannato a un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio nell’inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna per aver preso dalle mani del pm milanese Paolo Storari - assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato - i verbali segreti di Piero Amara, in cui l’ex avvocato esterno di Eni ha svelato l’esistenza della presunta associazione massonica.
All’imputato la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche e le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni. Ma Davigo annuncia che “farà ricorso”. “È senza dubbio un errore giudiziario”, commenta con La Stampa l’avvocato Francesco Borasi che lo assiste con il professore Domenico Pulitanò: “Aspettiamo di leggere le motivazioni”.
Le dichiarazioni furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020, nell’inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni' di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. Una consegna avvenuta a Milano nell’aprile del 2020, da stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese - in particolare dall’allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall’aggiunto Pedio - sull’ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento. Storari consegnò quei verbali segreti, non firmati e in formato word, rassicurato dalla "inopponibilità al segreto" rivendicata da Davigo, il quale agì fuori dalla procedura formale e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti.
La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell’uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm David Ermini, "ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute", immediatamente distrusse copia dei verbali. La "più grave", per l’accusa, è la rivelazione a Nicola Morra: "Esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". Contestata anche la rivelazione alle ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: "Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo".
Insomma, Davigo ha detto di aver agito “per dare una scossa a una situazione che riteneva ‘inaccettabile’: il denunciato ritardo nell’apertura di un fascicolo d’inchiesta a Milano sulla presunta loggia Ungheria”, si legge ancora su La Stampa, “proprio in nome di quelle indagini necessarie che con il suo comportamento, per l’accusa della procura diretta da Francesco Prete, avrebbe ‘danneggiato’”. Per i pm Donato Greco e Francesco Milanesi “Davigo si è erto a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire era stata violata. Ma l’unica legalità violata è quella nel salotto di casa sua, dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po’ di tempo sono finiti sui giornali”.
I penalisti: “Ora Davigo scopre il diritto a fare appello”. La replica: “Cattivo gusto”. Per il magistrato Andrea Reale, la nota dell’Ucpi dopo la condanna dell’ex pm è “un gesto che non fa onore alla categoria professionale”. su Il Dubbio il 21 giugno 2023
Pubblichiamo di seguito la nota dell’Unione Camere penali sulla condanna dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, e la replica di Andrea Reale, magistrato dell’Anm.
La condanna del dott. Piercamillo Davigo non scalfisce minimamente, per noi garantisti e liberali, la presunzione di non colpevolezza che, per fortuna sua e di tutti noi, continua ad assistere l’ex PM di Mani Pulite.
Contro questa sentenza, l’ex magistrato ha infatti preannunziato appello, ritenendola errata in fatto ed in diritto. Il dott. Davigo sarà ora finalmente in condizione di comprendere fino in fondo -ad occhio e croce per la prima volta nella sua vita - la funzione fondamentale, inderogabile ed incoercibile del diritto di impugnazione delle sentenze di condanna, diritto che egli ha invece sempre fieramente considerato e propagandato come del tutto eccezionale e residuale, giacché altrimenti causa della paralisi della nostra giustizia.
Infine, un augurio da noi penalisti italiani, sincero, non sarcastico ed autenticamente rispettoso della persona: di incontrare giudici di appello ed eventualmente di Cassazione che abbiano una idea della ammissibilità dei ricorsi radicalmente diversa da quella notoriamente praticata dal dott. Davigo nei lunghi anni della sua esperienza di giudice di appello prima e di Cassazione poi.
La Giunta Ucpi
Con il comunicato che segue la Giunta dell'Unione delle Camere penali Italiane commenta la sentenza di condanna in primo grado di P. Davigo. Al di là del merito della vicenda (personalmente ho sempre detto ciò che pensavo del comportamento del Consigliere Davigo nella vicenda Amara e non credo di averlo mai difeso), mi pare un comunicato "di pancia", tutt'altro che sarcastico, bensì livoroso e di pessimo gusto.
Come detto da un Avvocato che stimo, esso è l'antitesi di ciò che i penalisti dicono di volere combattere, ossia il pubblico ludibrio, la strumentalizzazione politica di fatti di cronaca giudiziaria, l'attacco personale tramite decisioni giudiziarie. Un gesto che non fa onore alla categoria professionale che più di tutte dovrebbe garantire il diritto di difesa in questo Paese, oltre che la presunzione di non colpevolezza fino ad una sentenza irrevocabile.
Speriamo che siano in tanti a prendere le distanze e a dissociarsi da questo modo di rappresentare l'avvocatura penale. Andrea Reale, componente del Comitato direttivo centrale Anm
LE DUE SENTENZE. Quelle amnesie del Fatto sull’amico Davigo e il nemico Uggetti. Non sono le aule a stabilire chi è innocente, ma la stampa. Basta omettere alcuni fatti...Simona Musco su Il Dubbio il 21 giugno 2023
«Per una mirabile congiunzione astrale», scriveva questa mattina Marco Travaglio, mentre il Tribunale di Brescia condannava «uno degli italiani e dei magistrati più onesti e corretti mai visti», ovvero Piercamillo Davigo, la Corte d’appello di Milano assolveva l’ex sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti, «non perché fosse innocente (l’aveva già escluso la Cassazione), ma perché la sua turbativa d’asta era “tenue” (ha solo truccato una gara pubblica per dare l’appalto a chi pareva a lui)». Un editoriale, quello del direttore del Fatto, che contiene più di una inesattezza. A partire dalla considerazione - sbagliata in linea di principio - che la Cassazione sia entrata nel merito, escludendo l'innocenza di Uggetti. E insistendo sulla ovvia innocenza di Davigo - che verrà eventualmente accertata in appello -, certificata, secondo Travaglio, dal fatto che nessuna delle persone alle quali l’ex pm ha spifferato fatti segreti abbia denunciato. Una circostanza da far rabbrividire - questo il pensiero espresso dal direttore -, che certificherebbe un dato storico: l’Italia è un Paese che funziona al contrario e dove uno che «ha commesso il reato» come Uggetti viene assolto, mentre uno che non ha «mai smesso di ricordare a chi ricopre cariche pubbliche il dovere costituzionale di esercitarle “con disciplina e onore”» come Davigo viene condannato. «Dove sono i processi per omessa denuncia?», si chiede Travaglio, come se l’eventuale reato di qualcun altro annullasse quello che secondo il Tribunale di Brescia è il reato commesso da Davigo.
Ma andiamo con ordine. L’ex pm di Mani Pulite, come noto, è stato condannato ad un anno e tre mesi perché una volta ricevuti in maniera indebita dal collega milanese Paolo Storari i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta e inesistente Loggia Ungheria, anziché invitare il magistrato a seguire le vie formali, ha diffuso le informazioni contenute in quei verbali, invitando anche altri colleghi a prendere le distanze dall’ex amico Sebastiano Ardita (ma non da Marco Mancinetti, altro presunto affiliato alla loggia). Un invito inutile rispetto al fine dichiarato, ovvero sbloccare le indagini che, secondo Storari, i vertici della procura volevano affossare. Tant’è che esclusi i membri del Comitato di Presidenza, nessuno avrebbe potuto fare nulla, se non invitare Davigo a seguire le regole. L’ex pm, per giustificare le sue azioni, si è sempre appigliato a una circolare del Csm, interpretata, secondo procura e giudici, in maniera sbagliata. Circolare che, ovviamente, nulla dice sul Presidente della Commissione Antimafia - altro soggetto informato da Davigo - che può sì conoscere atti coperti da segreto, ma chiedendoli all’autorità giudiziaria, che può anche ritardare la trasmissione degli atti per motivi di natura istruttoria. E l'ex presidente Nicola Morra, in realtà, non ha chiesto nulla, avendo potuto leggere il nome di Ardita nella tromba delle scale del Csm, dove è stato l’ex pm a condurlo. Ma c’è di più: Morra si è rivolto all’autorità giudiziaria, forse tardi, ma lo ha fatto, segnalando di aver visto documenti segreti che di certo avrebbe preferito non vedere. E che circolassero documenti segreti, parlando addirittura di complotto, è stato anche Nino Di Matteo a svelarlo, prendendo la parola al plenum del Csm e rompendo il silenzio su una vicenda a dir poco assurda. Ci si potrebbe fermare anche qui, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, che chiariranno a tutti, Travaglio compreso, quali prove abbiano smentito la tesi di Davigo.
Ma c’è anche un altro fatto: il gup di Roma, nell’assolvere l’ex segretaria di Davigo, accusata di aver calunniato l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, ha trasmesso gli atti alla procura per valutare due ulteriori ipotesi di reato compiute nell’affaire verbali. Si tratta dell’omessa denuncia contestata all’ex consigliere del Csm Giuseppe Cascini, e delle ipotesi di violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia, contestate all’ex consigliere Giuseppe Marra. Reati, quelli ipotizzati dal gup, commessi nella gestione di quei verbali, consegnati ai due magistrati proprio da Davigo, e sui quali è ancora pendente un’inchiesta a Perugia. Il gup di Roma era andato anche un po’ oltre, descrivendo «un'immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato - in questa o in altre vicende - non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall'Organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica - si consenta - della “congiura di Palazzo”». E un passaggio era dedicato anche a Davigo, spintosi, secondo il giudice, «ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato» del Csm. Insomma, al momento sono quattro - uno a Roma e tre a Brescia - i giudici secondo cui l’ex pm di Mani Pulite avrebbe sbagliato. E pensare che tutti se la prendano con lui perché unico “grillo parlante” in Paese di mangiafuoco forse è un po’ riduttivo.
C’è poi il caso Uggetti. Che secondo Travaglio era già stato chiarito dalla Cassazione, allorquando annullò con rinvio l’assoluzione piena ottenuta nel primo appello. Ma cosa diceva la sentenza della Suprema Corte? Non c’era scritto da nessuna parte che Uggetti non fosse innocente - e gli Ermellini, d’altronde, non avrebbero potuto farlo -, bensì che fosse necessaria una motivazione rafforzata, per giustificare il ribaltamento della sentenza in appello, dopo la condanna a 10 mesi rimediata in primo grado. Ma qui il fatto si fa ancora più simpatico: anche la sentenza di primo grado, quella che condannava Uggetti, aveva certificato che l’ex sindaco si era mosso nell’interesse pubblico. Un fatto scritto nero su bianco, pur considerando l’azione del politico un atto fuori dalle regole. I giudici d’appello avevano invece considerato completamente innocente l’ex sindaco, sottolineando che non si può «punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali» che, invece, «debbono essere idonee a ledere i beni giuridici protetti dalla norma», in questo caso la libera concorrenza. Nel valutare i fatti, le giudici avevano verificato, «da un punto di vista oggettivo», se vi fosse o meno un’alterazione del bando nei termini di una «indebita influenza», attraverso la quale, secondo l’accusa, l’interesse pubblico sarebbe stato piegato agli scopi di parte. E la risposta era negativa: «Non risulta essersi verificato alcun sviamento di potere, nemmeno nell’esplicazione di quel margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge per l’esercizio di poteri di indirizzo». Ma alla Cassazione non era bastato, contestando un errore nell’inquadramento giuridico del reato e chiedendo a nuovi giudici d’appello di rispondere a cinque questioni non sufficientemente chiarite dalle motivazioni. Dove fosse scritto che Uggetti non era sicuramente innocente non è dato saperlo, dal momento che la Cassazione si è limitata a criticare l’approccio metodologico della Corte d’Appello di Milano. Ma anche questo rientra nello strabismo di chi le sentenze - e chi le scrive - le apprezza solo quando fanno comodo.
Il dubbio sta al garantista come la certezza dell’ideologia sta al giustizialista. Davigo il ‘puro’ condannato, il Riformista non esulta: vicini a Travaglio in questo momento difficile. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 21 Giugno 2023
Uno strano scherzo del destino ha voluto che proprio ieri, mentre l’aula del Senato commemorava Silvio Berlusconi, in un’altra aula, di tribunale, Piercamillo Davigo venisse condannato a quindici mesi di reclusione, con sospensione della pena, per rivelazione del segreto di ufficio e a 20.000 euro di risarcimento nei confronti di Sebastiano Ardita, ex componente del Csm, come racconta nel dettaglio su questo giornale Paolo Pandolfini.
Fuori da ogni ipocrisia: la tentazione di esultare per questa condanna, siamo umani, verrebbe forse anche a noi. Il garantismo però è in fondo anche e soprattutto sancire il primato della ragionevolezza sulla reazione di pancia. Per cui le esultanze le lasciamo ai cultori del populismo giudiziario, di cui Piercamillo Davigo è stato ed è autorevole esponente, come sanno tutti quelli che hanno letto il libro scritto- ironia del destino vuole- a quattro mani con Ardita, dal titolo “Giustizialisti”. Noi ci teniamo la ragionevolezza dello Stato di diritto.
Questo non vuole dire però non ricordare dei passaggi salienti delle esternazioni di Davigo. Perché essere garantisti non significa censurare, non riportare le notizie, ma farlo assumendo a faro guida il sacro dubbio. Il dubbio sta al garantista come la certezza dell’ideologia sta al giustizialista. E allora, non può non venire in mente la celebre frase sugli innocenti che sarebbero solo dei colpevoli che l’hanno fatta franca. E a questo ribattere che invece no, per noi Piercamillo Davigo è semplicemente presunto innocente fino a sentenza passata in giudicato.
Quello che ci auguriamo è che oggi, nell’apprendere di essere stato condannato, l’ex Pm colga l’importanza della presunzione di innocenza. Che abbandoni il furore manettaro e che recuperi quell’umanità che gli è mancata quando, durante la stagione di Mani Pulite, in seguito al suicidio del parlamentare socialista Sergio Moroni, dichiarò che “È un episodio che sul piano umano non può che colpire, ci mancherebbe altro che qualcuno fosse contento di quello che è accaduto. Ma non vedo perché dovrebbe cambiare il metodo dell’indagine… Le conseguenze dei reati ricadono su chi li ha commessi” e 32 anni dopo, ha detto di non aver cambiato idea.
Che la smetta di ergersi a moralizzatore dalle colonne del quotidiano di Travaglio (gli siamo vicini in questo difficile momento) e dai salotti di La7. Perché, come diceva Nenni, a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. È la sorte dei populisti, da sempre. Fin dai tempi della rivoluzione francese, quando la stessa ghigliottina usata dai Giacobini, fu usata sul loro leader, Maximilien de Robespierre. Valeria Cereleoni
A dispetto dalla linea dell'editorialista del Fatto, i legali presenteranno appello. Condannato Davigo, la caduta del pm manettaro da sempre contro gli errori giudiziari: “Colpevoli che l’hanno fatta franca”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 21 Giugno 2023
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed editorialista di punta del Fatto Quotidiano, il giornale dei manettari in servizio permanente effettivo, è stato condannato ieri ad un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio, oltre a risarcire con 20mila euro il collega Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina.
Si tratta di una condanna più pesante di quella inflitta nei mesi scorsi a Luca Palamara, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex capo del ‘Sistema’ che condiziona le nomina e gli incarichi delle toghe. Dopo oltre un anno di udienze, i giudici di Brescia hanno dunque stabilito che Davigo non aveva alcuna ‘immunità’ particolare e non poteva rivelare a terzi il contenuto dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.
La vicenda inizia alla fine del 2019, una volta terminati gli interrogatori in Procura a Milano di Amara da parte dell’aggiunta Laura Pedio e del pm Paolo Storari che indagano sul colosso petrolifero di San Donato. Amara, durante uno di questi interrogatori, raccontò dell’esistenza di una organizzazione segreta denominata Ungheria, nata come continuazione della loggia P2.
Ungheria sarebbe una super loggia coperta in grado di interferire sulle funzioni di organi di rango costituzionale e di condizionarne l’operato, asservendolo agli interessi dell’organizzazione e dei suoi appartenenti occulti. Amara fece ben 64 nomi di appartenenti allo loggia: magistrati, alti ufficiali delle forze di polizia, prelati, imprenditori.
Storari voleva procedere subito alle iscrizioni nel registro degli indagati ma percependo inerzia investigativa da parte dei capi, tramite la collega Alessandra Dolci, compagna di vita di Davigo, in quel momento potente membro del Consiglio superiore della magistratura, decise di rivolgersi a quest’ultimo per un consulto. Davigo non perse tempo e si fece consegnare i verbali incriminati, dicendo a Storari che il segreto investigativo non era opponibile a se stesso.
Una volta entrato in possesso delle carte, Davigo avvisò del contenuto ben 11 persone dentro e fuori il Csm, fra cui l’ex vice presidente David Ermini, i capi della Cassazione, l’ex primo presidente Pietro Curzio e ex pg Giovanni Salvi, i consiglieri di Palazzo dei Marescialli Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Alessandro Pepe, Giuseppe Cascini, Fulvio Gigliotti, Stefano Cavanna, l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s). Lo scopo di Davigo non sarebbe stato quello di superare l’impasse investigativo milanese bensì screditare Ardita, inserito da Amara fra i componenti di Ungheria.
Con tale azione Davigo avrebbe così cercato di condizionare il voto per la Procura di Roma nel 2020 dopo l’addio di Giuseppe Pignatone e sul quale era in disaccordo, nonostante fosse della stessa corrente e co-autore di libri, proprio con Ardita. La difesa di Davigo ha sempre negato tale circostanza, giustificandone la non osservanza delle circolari del Csm del 1994-1995 che disciplinano la trasmissione formale degli atti d’indagine, per evitare fughe di notizie come già avvenuto per il Palamaragate.
Mai chiarite le tempistiche della vicenda, anche a causa del fatto che l’imputato e alcuni dei principali testimoni, Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, hanno affermato di aver perso o venduto il telefono prima delle indagini, in alcuni casi poche ore prima delle perquisizioni. Manca, infatti, il giorno preciso in cui Storari si è recato sotto lockdown a casa di Davigo e gli consegna una pen drive con i verbali. I due hanno collocato la data nei primi dieci giorni di aprile del 2020. Davigo riferisce di esserseli mandati via mail il 7 aprile per poi stamparli a Roma il 4 maggio (temendo un furto sul treno se se li fosse portati), giorno in cui comincia a parlarne ad altre persone.
I pm Francesco Milanesi e Donato Greco, e sopratutto la parte civile Ardita, hanno fatto aleggiare in più occasioni il sospetto che l’ex pm sapesse di Amara almeno due mesi prima, portando come indizi alcuni atteggiamenti tenuti nei confronti di Ardita come la frase “tu mi nascondi qualcosa”, pronunciata poche ore prima del plenum del Csm del 3 marzo. “Penso che per il dottor Davigo essere assolto o essere condannato sarebbe stata la stessa cosa: come ha sempre sostenuto, chi viene assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. Non esistendo, a suo dire, errori giudiziari da parte degli ex colleghi, credo proprio che non proporrà appello”, ha dichiarato Antonio Leone ex presidente della Sezione disciplinare del Csm. Paolo Pandolfini
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 14 giugno 2023.
Ovunque si trovi in questo momento Silvio Berlusconi, ieri deve essergli scappato un sorriso. Infatti davanti al Tribunale di Brescia la pubblica accusa ha chiesto una condanna a 16 mesi di reclusione (con sospensione della pena) per rivelazione di segreto d’ufficio nei confronti di Piercamillo Davigo, colui che considerava il Cavaliere un incidente del destino, una iattura per l’Italia intera. Ma ora altri magistrati stanno cercando di tirarlo giù dal piedistallo e di ottenere la prima condanna per il Robespierre delle toghe.
I sostituti procuratori Donato Greco e Francesco Carlo Milanesi contestano a Piercavillo di aver distribuito atti riservati per regolare i suoi conti personali all’interno della corrente che guidava, Autonomia & indipendenza, e di aver cercato di condizionare con la vicenda della cosiddetta e inesistente loggia Ungheria le decisioni del Consiglio superiore della magistratura.
Infatti nella primavera del 2020 diffuse in modo carbonaro all’interno di Palazzo dei marescialli il contenuto dei verbali del faccendiere Piero Amara, carte che si sarebbe fatto consegnare dal collega milanese Paolo Storari.
La Procura bresciana […] ritiene che la divulgazione più grave sia stata quella all’allora senatore M5s Nicola Morra per la quale ha chiesto una condanna a 6 mesi di reclusione, a cui ha aggiunto, riconoscendo la continuazione, un mese per tutti gli altri episodi (una decina) contestati nel capo d’imputazione.
Ieri per Davigo […] si è aggiunta una nuova contestazione di rivelazione a favore dell’ex primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, ultimo testimone del processo.
L’integrazione del capo di imputazione è stata fatta dopo l’audizione dell’ex ermellino, il quale ha raccontato che nel settembre del 2022 Davigo lo aveva aspettato nel parcheggio del Csm per spifferagli la notizia coperta da segreto: «Volle preannunciarmi che un Csm che già aveva passato vicissitudini molto impegnative sarebbe stato ancora sottoposto a un ulteriore trauma». La presunta «violazione dell’obbligo di segretezza» si estende così temporalmente, essendo adesso l’ipotetico reato «commesso da aprile a settembre 2020».
«Si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l’unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po’ di tempo vanno a finire sui giornali pregiudicando una delicatissima indagine» ha detto Greco nella sua requisitoria, ricordando che nell’appartamento di Davigo c’è stato il passaggio della chiavetta Usb con i verbali.
«Non è vero che il segreto era inopponibile a lui. Lo ha ammesso lo stesso Davigo nel suo esame. Davigo ha detto a Storari il falso. Se Davigo gli avesse detto il vero, Storari non avrebbe commesso il reato. Non c’è nulla di potenzialmente legittimo nella loro comunicazione».
Per Greco le notizie al Csm «devono passare da un canale ufficiale, non nel corso di un colloquio con un singolo consigliere», lo stesso Davigo, il quale ha «allargato la platea dei destinatari di quella rivelazione», ricorrendo a una «giustificazione bizzarra»: «Il Csm non sa tenere i segreti». Una scusa che Greco ha liquidato così: «Se anche fosse non è che si può violare una norma ed è gravissimo che un’affermazione del genere arrivi proprio da Davigo».
Il collega di Greco, Milanesi, ha rincarato la dose sostenendo che Davigo avrebbe una «concezione privata di prerogative e funzioni» del parlamentino dei giudici. Una posa da Marchese del Grillo: «Siccome io sono membro del Csm, posso sempre e comunque esercitare le prerogative dell’organo di cui faccio parte». Per il pm «sarebbe consolante affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti», ma «purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa».
Non è finita. Se il problema era «riportare quel procedimento sui binari della legalità», come sostenuto da Davigo, «che necessità c’era di dare delle trascrizioni e delle registrazioni?» ha chiesto Milanesi. Che si è dato questa risposta: «Si è scelta una via privata a un problema pubblico», anche «per la sfiducia personale» di Davigo nei confronti del magistrato della Procura generale di Milano a cui avrebbe dovuto rivolgersi.
[…] il pubblico ministero […]ha accusato Davigo di aver commesso il reato «per esigenze private di gestione e influenze di rapporti e dinamiche all’interno del Csm». Il comportamento dell’ex campione di Mani pulite non avrebbe «evitato alcun danno», ma solo consentito di selezionare «chi e quando doveva sapere» con un «chiacchiericcio» incontrollato.
«L’unico fine di Davigo non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita» ha attaccato l’avvocato Fabio Repici, legale dello stesso Ardita, parte civile nel processo e in passato amico e coautore di libri con Davigo prima che i due si dividessero nel marzo del 2020 sul voto al Csm per il successore di Giuseppe Pignatone alla guida della Procura di Roma. Davigo inizialmente, come Ardita, perorava la discontinuità, poi, dopo l’esplosione del caso Palamara, si era accodato al cartello dei magistrati progressisti di Area.
Per la parte civile il «movente» di Davigo appare plasticamente nelle chat della sua segretaria, Marcella Contrafatto, laddove, il 24 settembre 2019, commenta con una collega il comportamento dei consiglieri di A&i: «Vabbé salverei Marra (Giuseppe, ndr), solo lui lo ascolta. Ardita va per conto suo, è un ribelle, proprio un talebano».
Alla vigilia del voto per la Procura di Roma, il 4 marzo 2020, la donna scrive a Marra: «Il presidente ha litigato di brutto con Ardita. Ieri. Urla dalla stanza. […]. Ha detto che non ci vuole più parlare. È nero. Molto serio. Non lo ho mai visto così. C’è completa rottura. Lui dice che Ardita ha qualche scheletro nell’armadio». Come se già a marzo sapesse delle dichiarazioni di Amara. Alla fine il presidente della prima sezione penale di Brescia, Roberto Spanò, ha rinviato a martedì prossimo, 20 giugno, le arringhe dei difensori di Davigo e le eventuali repliche. Dopo ci sarà la camera di consiglio prima della decisione. L’ex presidente dell’Anm ha annunciato che non sarà in aula, dopo aver presenziato a tutte le udienze del processo, per impegni già programmati. Un «legittimo impedimento» che potrebbe risparmiargli l’onta di assistere in diretta alla sua prima condanna.
Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corrirere.it il 13 giugno 2023.
Ancor più della richiesta finale di condanna a 1 anno e 4 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio (nella primavera 2020 dentro e fuori al Consiglio Superiore della Magistratura) dei verbali milanesi dell’avvocato esterno Eni Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria», consegnati al membro Csm Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari che lamentava l’impasse dei suoi capi nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, nella requisitoria di martedì dei pm bresciani suona sanguinoso per Davigo un sottotesto: l’accusa di «aver scelto una via privata alla soluzione di problemi pubblici, per sfiducia personale nelle procedure istituzionalmente preposte a eventualmente trattarle.
Ce lo ha detto Davigo qui in aula - riassume il pm bresciano Donato Greco -: in quel momento per lui il procuratore milanese Francesco Greco era un superficiale, l’allora procuratore generale vicario milanese era un incapace, il procuratore generale di Cassazione Salvi non avrebbe mai ricevuto Storari, il Csm non era capace di tutelare i segreti, e così guarda caso l’unica strada che Davigo percorre è proprio quella illecita» del propalare a consiglieri del Csm notizie sui verbali di Amara, cioè la via «del chiacchiericcio e dell’utilizzo (stavolta privato) di atti della pubblica autorità».
Ma «dire (come fa Davigo) che, siccome il Csm non sarebbe in grado di tutelare il segreto, allora non andrebbe seguita la legge, lo fa somigliare all’evasore fiscale che dice di non pagare le tasse perché non si fida di quelli che poi spenderanno le sue tasse», affonda il colpo il pm Francesco Milanesi.
«La verità è che i verbali di Amara sono stati usati da Davigo mai in vista dell’esercizio eventuale di prerogative istituzionali del Csm, ma sempre e solo per mettere in guardia altri componenti del Csm dell’esistenza di un potenziale massone»: cioè «per tentare di abbattere Sebastiano Ardita», come sostiene l’avvocato Fabio Repici parte civile per Ardita, uno dei due membri Csm evocati calunniosamente da Amara nei verbali, grande amico e compagno di corrente di Davigo prima di una brusca rottura.
[…]
«Il nostro ufficio - ammette infine il pm bresciano Greco - non ha approfondito tutte le questioni e si è accontentato delle dichiarazioni di Davigo e Storari, ritenendole già di per sé confessorie», ed è tema lamentato più energicamente dall’avvocato Repici, che per conto di Ardita addita la stranezza della permuta del telefonino in un centro di assistenza Apple a seguito della quale Davigo ha riferito di non avere più i messaggi e le mail dell’epoca, utili a collocare con certezza la data dell’incontro tra Davigo e Storari.
Repici […] soprattutto addebita a Davigo di aver «indotto il vicepresidente Csm David Ermini ad andare al Quirinale sull’onda delle balle di Amara», nel tentativo di «fare scoppiare la trappola» e «trasformare il Grande Imbroglio in Grande Ricatto» ai danni di Ardita e di un Csm condizionabile. Martedì prossimo 20 giugno le arringhe dei difensori Francesco Borasi e Domenico Pulitanó, e la sentenza.
CASO VERBALI. «Davigo si erge a paladino della legalità, ma fu lui a violarla...» Chiesta la condanna ad un anno e quattro mesi per l’ex pm di Mani Pulite imputato a Brescia. Il legale di parte civile: «Suo obiettivo abbattere Ardita». Simona Musco su Il Dubbio il 13 giugno 2023
Piercamillo Davigo fece «un uso privato» dei verbali segreti di Piero Amara, ex legale esterno di Eni e autore della bufala sulla loggia Ungheria. Obiettivo: colpire il suo ex amico Sebastiano Ardita, svelando agli altri consiglieri del Csm la sua presunta appartenenza a quella che lui stesso ha definito la nuova P2.
È questa la convinzione della procura di Brescia, che ha chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi - pena sospesa - per l’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione e utilizzazione di segreto. Sua colpa quella di aver fatto circolare i verbali di Amara, consegnatigli dal pm milanese Paolo Storari per “sbloccare” le indagini, a suo dire, tenute ferme strumentalmente dai vertici della procura meneghina. Un’arringa pesante, quella pronunciata dai magistrati di Brescia nei confronti dell’ex magistrato. Che, ha affermato il pm Donato Greco, «si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l'unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po' di tempo vanno a finire sui giornali».
Sarebbe stato lui, secondo la procura, ad indurre in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso», ha affermato il pubblico ministero rivolgendosi ai giudici della prima sezione penale, presieduta da Roberto Spanò: «Se gli avesse detto la verità - ha continuato il pm -, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato», dal quale comunque è stato assolto in abbreviato. Tant’è che è stato lo stesso imputato, nel corso del suo esame, ad ammettere tale circostanza, ha spiegato il pm, secondo cui «non c'è nulla di potenzialmente legittimo» nella tra Davigo e Storari.
L’ex consigliere del Csm avrebbe dunque agito sulla base di una «concezione privata di prerogative e funzioni dell'organo» consiliare di Piazza Indipendenza, ostentando la convinzione che «“siccome io sono membro del Csm, posso sempre e comunque esercitare le prerogative dell'organo di cui faccio parte”», ha spiegato il pm Francesco Milanesi. «Sarebbe consolante - ha aggiunto - affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti. Purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa».
La procura ha chiesto di ritenere Davigo colpevole per tutti gli episodi di rivelazione uniti dal vincolo della continuazione, dando però parere favorevole alle attenuanti generiche per «l'irreprensibile comportamento processuale». Che non toglie, secondo la procura, la responsabilità per un reato grave per un magistrato d’esperienza con lui, ritenendo il fatto più grave quello di aver rivelato il contenuto dei verbali all'ex parlamentare del Movimento 5 Stelle Nicola Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità del segreto agli altri membri del Csm, ai quali Davigo ha svelato la presunta appartenenza di Ardita - parte civile nel processo - alla fantomatica loggia, niente motiverebbe l’aver rivelato anche a Morra, amico di entrambi, tale circostanza. Il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato. «Un'interpretazione arbitraria» delle circolari dietro le quali si è trincerato sin dall’inizio per ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita».
Nel caso di Davigo, lo scopo non era l’esercizio di poteri pubblici, ma quello di assecondare «esigenze private di gestione e influenze di rapporti e dinamiche all'interno del Csm», mettendo in guardia i colleghi «da un potenziale massone», ovvero Ardita. Concetto ribadito dal difensore di quest’ultimo, Fabio Repici, secondo cui l'unico fine dell’imputato «non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita - ha detto il legale -. Per Davigo si vuole evitare che Ardita apprenda dei verbali di Amara. Lo hanno saputo tutti tranne lui e il suo “gemello diverso” Nino Di Matteo. La verità è più semplice del gioco di luci stroboscopiche tentato dall'imputato. O la legge è uguale per tutti - ha concluso - oppure quello che vi si chiede dall'imputato è l'assoluzione del reo confesso. Non fate fare questo salto degenere alla giurisdizione. Non ho mai creduto ai giudici che sostengono che gli “imputati assolti sono colpevoli che l'hanno sfangata”, però almeno i reo confessi, seppur con una toga addosso, si deve avere il coraggio di condannarli».
Prima della requisitoria, è stato ascoltato l’ex primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, che ha raccontato di aver saputo anche lui della Loggia - ma non dei verbali - da Davigo, tanto da far valere all’imputato un nuovo capo di imputazione. Agli inizi di settembre 2020, ha raccontato, Davigo «mi aspettò nel parcheggio all'interno del Csm e mi parlò della vicenda Amara spiegandomi che stava collaborando con la giustizia, di questa cosiddetta Loggia Ungheria e che venivano indicate una serie di persone tra le quali due componenti del Csm: Mancinetti e Ardita - ha raccontato -. Mancinetti si dimise poco dopo mentre verso Ardita tenni un atteggiamento di prudenza, di considerazione attenta verso le sue scelte, ascoltare con attenzione quello che diceva e nei rapporti personali con lui per un po' di tempo fui più trattenuto mentre con altri ero più sciolto».
Davigo, nell’ottica di Curzio, all’epoca appena insediato nel ruolo di primo presidente, «volle preannunciarmi che probabilmente il Csm sarebbe stato ancora sottoposto a un ulteriore trauma. Interpretai questa cosa come un gesto di attenzione nei miei confronti qualora avessi dovuto affrontare la questione». Nonostante fosse componente del Comitato di presidenza, Curzio mantenne il silenzio su quei fatti, «per evitare di compromettere le indagini». Tant’è che Davigo «non mi sollecitò a formalizzare in alcun modo la situazione, questo me lo spiego con il fatto che formalizzandola avrebbe voluto dire passare la questione a una serie di persone, tutte serie e sottoposto a riserbo investigativo, ma tante e in una fase così iniziale di verifica della credibilità» delle rivelazioni di Amara, «formalizzarla avrebbe creato grossi problemi a quello che a mio parere era l'interesse base: l'efficacia delle indagini». Efficacia compromessa proprio da quel chiacchiericcio incontrollato provocato dalle rivelazioni di Davigo.
Non mentiva, ricordava male...Davigo e il caso Loggia Ungheria, chissà cosa penserebbe il Piercamillo pm del Davigo imputato. Iuri Maria Prado su L'Unità il 26 Maggio 2023
Siamo sicuri che il dottor Piercamillo Davigo, nel processo che lo vede imputato per rivelazione di segreti intorno al pasticcio della c.d. Loggia Ungheria, non sta esercitando la facoltà riconosciuta a quelli che si trovano nella sua condizione: e cioè la facoltà di dire bugie.
Dunque non mentiva tempo fa, ma semplicemente ricordava male, quando diceva di aver maneggiato i file relativi ai presunti verbali segreti, a lui consegnati dal Pm Storari, all’inizio di aprile del 2020: e non mentiva poi, ma semplicemente si affidava a un ricordo diverso, quando, l’altro giorno, diceva di averne fatto uso il 3 o il 4 maggio, inviando a sé stesso una email contenente quei documenti, che avrebbe stampato per portarli al Csm. Lì, come sappiamo, ha discusso della faccenda con una pluralità di persone, compreso l’ex presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, col quale si sarebbe intrattenuto – così dice Morra medesimo – “nella tromba delle scale” (naturalmente il dottor Davigo non è responsabile delle eventuali inesattezze né dell’italiano perturbato di quel parlamentare).
Dice: ma che importa se quei file li aveva un mese prima o un mese dopo? Beh, importa perché l’ipotetico reato si sarebbe consumato dal momento della consegna dei file: e sapere quando e tramite quale mezzo un reato si è consumato forse ha qualche importanza. Ma poi importa per la somma di cose strane che rendono impossibile accertarlo.
E infatti. Non si può accertare, lo abbiamo visto, affidandosi ai ricordi dell’imputato Davigo: che sono divergenti. Non si può accertare esaminando la chiavetta Usb su cui erano caricati quei file, perché il dottor Davigo dice: a) che non sa dove sia finita, “siccome le pen drive si perdono sempre”; b) che comunque potrebbe averla riutilizzata e, riutilizzandola, avrebbe cancellato i file, ”per fare spazio”. Non si può accertare esaminando le email che Davigo avrebbe mandato a sé stesso, con dentro quei file, perché aveva usato l’account a disposizione dei magistrati (@giustizia.it), che nel frattempo è stato chiuso, lui essendo andato in pensione. Non si può accertare esaminando i messaggi WhatsApp scambiati con il suo interlocutore, perché, spiega Davigo: a) il telefono si è rotto; b) lo ha “rivenduto” a un concessionario Apple, che gliene ha dato un altro a buon prezzo; c) il concessionario gli ha fatto bensì un backup dei dati, ma solo di quelli “importanti” (tra i quali, dunque, non i messaggi riguardanti i verbali segreti, che erano cose evidentemente irrilevanti). Che poi il backup delle chat di WhatsApp non c’entri nulla e sia autonomo rispetto al backup del dispositivo è un dettaglio tecnico che conosciamo solo noi adolescenti, e non si può pretendere che se ne abbia conto in un processo penale.
Ora: noi siamo assolutamente certi, lo ripetiamo, che il dottor Davigo dica la verità e che, dunque, non menta come pure la legge gli consentirebbe di fare. Siamo persino dalla sua parte, perché per noi l’imputato è per definizione parte debole. Ci domandiamo solo che cosa penserebbe il pubblico ministero Piercamillo Davigo di un imputato che dicesse le verità dell’imputato Piercamillo Davigo. Iuri Maria Prado
Loggia Ungheria, parla Pedio: consegnare i verbali al Csm ha distrutto l’indagine. GIULIA MERLO su Il Domani il 12 maggio 2023
Nel processo per rivelazione d’atti d’ufficio a carico di Davigo, l’aggiunta milanese Laura Pedio ha dato la sua versione dei fatti sul caso dei verbali consegnati da Storari al Csm: «Mandare quei verbali al Consiglio superiore che, nell'ipotesi di Amara, era l'organo che la Loggia segreta voleva condizionare, avrebbe significato distruggere l'indagine»
Prosegue a Brescia il processo contro l’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, imputato di rivelazione di segreto d’ufficio in merito ai verbali di Piero Amara sull’esistenza della presunta Loggia Ungheria.
Il processo, per cui Davigo ha scelto il rito ordinario con l’esatta intenzione di rende pubblico il dibattimento, sta facendo emergere il quadro delle posizioni interne alla magistratura in una vicenda ramificata e complessa.
Da una parte Davigo e il pm milanese Paolo Storari, che gli ha consegnato i verbali per sollecitare un’accelerazione dell’inchiesta; dall’altra la procura di Milano con gli aggiunti Fabio de Pasquale e Laura Pedio che invece ritenevano di procedere in altro modo.
Fino ad oggi è emersa soprattutto la posizione di Storari e quella dei consiglieri del Csm, che hanno raccontato la loro versione dei fatti e il passaggio di mano dei verbali. Ora però, durante il processo, ha preso la parola come testimone l’aggiunta Laura Pedio, raccontando come la vicenda è stata vissuta dall’interno della procura meneghina.
LA VERSIONE DI PEDIO
Pedio ha parlato per circa un'ora e mezza nell'aula di Assise del tribunale di Brescia, presieduta dal giudice Roberto Spanò e ha raccontato il clima di quei mesi a cavallo tra il 2019 e il 2020.
Pedio ha spiegato perchè nell’ufficio non era emersa alcuna intenzione di trasmettere i verbali al Csm, cosa che Storari invece ha fatto di sua iniziativa perchè, secondo lui, l’inchiesta era ferma e si ritardavano le iscrizioni nel registro degli indagati.
«Perché mai avremmo dovuto trasmettere i verbali al Csm? Non c'era alcun motivo. Mandare quei verbali al Consiglio superiore che, nell'ipotesi di Amara, era l'organo che la Loggia segreta voleva condizionare, avrebbe significato distruggere l'indagine», è stata la versione di Pedio. Amara, infatti, aveva indicato alcuni componenti del Csm come possibili membri della loggia, oltre che numerosi magistrati. «Nessun collega era stato iscritto - ha spiegato Pedio con riferimento alla prassi che vuole il Csm a conoscenza dei giudici finiti sotto indagine - e nessuno è stato mai iscritto neppure dalla Procura di Perugia», infatti «c'erano 47 magistrati indicati come appartenenti alla Loggia eppure Perugia non ha iscritto nessuno, esattamente come non ha mai trasmesso durante la fase di indagine i verbali al Csm». E «anche quando quel Consiglio li ha chiesti, il procuratore Cantone ha opposto il segreto istruttorio».
L’ipotesi di Storari era che si ritardasse la partenza dell’indagine sui verbali per tutelare Amara, che era teste chiave nel processo Eni-Nigeria e una sua eventuale iscrizione nel registro degli indagati per calunnia ne avrebbe minato la credibilità.
Pedio, però, ha negato qualsiasi timore: «Erano dichiarazioni delicate in cui si faceva riferimento a più di cento persone delle più alte cariche dello Stato, civili e militari. Non ho una storia di timore nell'affrontare le indagini, quello che più mi preoccupava era che si trattava di dichiarazioni un po' vaghe e quindi di capire se avessero contenuti per procedere alle iscrizioni. La natura delle dichiarazioni induceva a una prudenza tecnica».
I VERBALI TRAFUGATI
Quanto al momento in cui il giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari arriva in procura a consegnare la copia senza timbri dei verbali di Amara, che aveva ricevuto in plico anonimo, Pedio ha raccontato di essersi «molto spaventata e ho pensato che ci fosse stato un accesso abusivo al sistema informatico, l'ho chiesto a Storari, eravamo assieme, lui pensava che non ci fosse stato ma che fossero i verbali in pdf che erano stati modificati. Mi disse di non preoccuparmi, era convinto che quella circolazione fosse imputabile ad Amara o ad Armanna che in qualche modo se ne fossero appropriati».
Invece, come si scoprirà in seguito, i verbali erano gli stessi che Storari stesso aveva consegnato a Davigo e che poi vennero inviati anonimamente a due quotidiani e al togato del Csm, Nino Di Matteo. «Non ho mai sospettato di Storari all'epoca - ha detto Pedio - Abbiamo cominciato a chiederci chi li aveva, se nella stampante magari era rimasto qualcosa in memoria e se c'era stato un accesso abusivo».
IL MURO DI GOMMA
Pedio ha anche risposto in proposito del “muro di gomma” che Storari aveva detto di aver trovato dentro la procura di Milano, quando aveva sollecitato di agire rispetto alle notizie contenute nei verbali di Amara. «Tutto il disappunto, il contrasto insanabile, il “muro di gomma” che Storari ha riferito sono venuti fuori dopo il 9 aprile 2021, quando è emerso che era stato lui ad aver consegnato i verbali e ha raccontato queste storie», con «spiegazioni date dopo che è partita l'indagine sulla consegna dei verbali».
Nella ricostruzione temporale, Pedio ha detto che la mail che Storari le ha mandato in cui predisponeva le iscrizioni sul registro degli indagati è «successiva alla consegna dei verbali a Davigo. E’ il primo, se vogliamo, riscontro documentabile che poteva esserci un contrasto». Tradotto: Storari si sarebbe mosso per manifestare l’intenzione di accelerare le indagini solo dopo aver dato i verbali a Davigo e non prima. «E' possibile che, avendo consegnato i verbali, si sia sentito di dover fare pressioni maggiormente sulle iscrizioni nel registro degli indagati».
GIULIA MERLO
Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Giallo Davigo, nel processo qualcuno non la racconta giusta: le testimonianze diverse dei pm. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 10 Maggio 2023
Qualcuno non la racconta giusta alla Procura di Milano a proposito dell’indagine sulla loggia Ungheria che poi terremotò il Consiglio superiore della magistratura facendo finire sul banco degli imputati Piercamillo Davigo con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio. Durante il processo in corso a Brescia nei confronti dell’ex pm di Mani pulite, la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio, nel 2019 titolare del fascicolo sulla loggia insieme al pm Paolo Storari, sentita ieri come testimone ha smentito le ricostruzioni che in questi mesi erano circolate circa una ‘inerzia’ dei vertici dell’ufficio milanese ad effettuare accertamenti dopo le rivelazioni dall’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.
Fino a ieri, infatti, la tesi era che Storari si sarebbe rivolto a Davigo per cercare aiuto in quanto ‘impedito’ a svolgere le indagini. A tal proposito, Storari aveva deciso di consegnare i verbali degli interrogatori di Amara dove si facevano i nomi di alte personalità dello Stato e di un quarantina di magistrati, tutti legati al sodalizio paramassonico finalizzato ad aggiustare i processi e pilotare le nomine dei vertici delle procure e dei tribunali. “Per me scoprire tutto è stata una sorpresa incredibile, non c’era un clima di contrasto, mai avrei potuto pensare che il collega di cui mi fidavo potesse fare una cosa di questo tipo”, ha detto invece Pedio.
E alla domanda sul perché avesse agito, la risposta è stata: “Non lo so dire, mi sono interrogata tante volte”. Di questi presunti contrasti, poi, “non si è trovato traccia neppure negli atti, il fascicolo è stato tutto condiviso, tutti gli atti sono a doppia firma”. Pedio ha anche sottolineato che alla sua richiesta di aggiungere un pm per affrontare un’inchiesta delicata, Storari “non volle, lui si trovava molto bene a lavorare con me e voleva proseguire con me. lo avevo dei segnali che andava tutto bene”. Il processo riprenderà il prossimo 23 maggio con l’interrogatorio di Davigo. Forse si capirà qualcosa in più su questo che è ormai un vero giallo.
Paolo Pandolfini
La clamorosa rivelazione nel processo di Brescia. “Forze oscure imposero Prestipino capo a Roma”, la rivelazione di Ardita nel processo contro Davigo. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Marzo 2023
Nella nomina del procuratore di Roma sarebbero intervenute delle non meglio precisate “forze oscure”. Potrebbe trattarsi, ma sono ovviamente solo supposizioni giornalistiche in attesa di riscontri ufficiali, di soggetti legati ad ambienti massonici o dei servizi deviati.
A fare la clamorosa rivelazione, ignorata da tutti i media, è stato il pm antimafia Sebastiano Ardita, ex togato ‘davighiano’ del Consiglio superiore della magistratura.
Ardita è stato sentito come teste all’ultima udienza il mese scorso nel processo che si sta celebrando davanti al tribunale di Brescia a carico di Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio in relazione alla divulgazione dei verbali resi dall’avvocato siracusano Piero Amara sulla loggia massonica denominata Ungheria. Ardita ha ripercorso le ragioni di contrasto con l’ex pm di Mani pulite, a partire dai noti fatti dell’hotel Champagne del maggio 2019 a seguito dei quali Davigo intendeva allearsi con la sinistra giudiziaria della corrente di Area. Una scelta che lo stesso Ardita e gli altri consiglieri davighiani, il pm Nino Di Matteo ed i giudici Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, non condividevano, intendendo mantenere una posizione distante da Area, per decidere di volta in volta la linea da sostenere.
Tale condotta venne mantenuta fino a febbraio del 2020 quando si dovette votare, prima in Commissione per gli incarichi direttivi e poi in Plenum, per la nomina del procuratore di Roma. Rispetto a tale nomina i davighiani di Autonomia&Indipendenza decisero all’unanimità di votare per Giuseppe Creazzo, allora procuratore di Firenze, che aveva molti più titoli del concorrente Michele Prestipino, procuratore aggiunto a Roma. Davigo, però, componente della quinta commissione, disattendendo la posizione assunta dal gruppo, anziché votare per Creazzo votò per Prestipino.
Continuando la testimonianza, Ardita ha sottolineato che subito dopo dovette registrare che anche i colleghi Marra e Pepe avevano mutato opinione, comunicandogli che avrebbero votato in plenum per Prestipino. A quel punto, decise di chiedere spiegazioni alla collega Pepe con la quale era in maggiore confidenza. “Cominciò a dire – racconta Ardita – che c’erano in quel momento delle forze che si contrapponevano alle questioni di giustizia, parlò anche di forze oscure, non mi guardava in faccia, guardava dritto da un’altra parte del tavolo, sulla sua sinistra, la guardavo sbalordito perché fino al giorno prima aveva detto che non avrebbe votato per Prestipino”. Quali fossero queste “forze” che si contrapponevano alle “questioni di giustizia” all’interno del Csm e che hanno poi determinato la nomina di Prestipino quale procuratore della Repubblica di Roma non è stato però esplicitato da Ardita e il pur loquace presidente del collegio Roberto Spanò non ha fatto, in proposito, alcuna domanda.
La consigliere Pepe, del resto, quando era stata sentita come testimone nel medesimo procedimento il 13 ottobre scorso, nulla aveva riferito circa le “forze oscure” che avevano imposto la nomina di Prestipino. Sarebbe, allora, quanto mai opportuno che Spanò la riconvocasse per chiarire cosa accadeva in quel periodo all’interno del Csm. E ciò, soprattutto, dopo la recente sentenza del gup del tribunale di Roma Nicolò Marino il quale, assolvendo l’ex segreteria di Davigo Marcella Contrafatto, ha esplicitamente parlato di “congiure di palazzo”, e della deposizione, sempre a Brescia, di Di Matteo che ha fatto dichiarazioni in linea con quanto riferito da Ardita a proposito del mutamento di indirizzo in favore di Prestipino da parte di Pepe e Marra. Paolo Comi
Ardita contro Davigo in aula: «Sapeva che Amara mentiva». L’ex consigliere del Csm testimone al processo a Brescia che vede imputato l’x pm di Mani Pulite per rivelazione: «Contro di me una vendetta per le mie indagini». Simona Musco su I Dubbio il 23 febbraio 2023.
«Davigo ha capito perfettamente che le dichiarazioni nei verbali erano false. In tre anni, dal 2017 al 2019, ho operato sull'arresto dell'avvocato Amara, quelli consegnati a Davigo erano verbali con affermazioni sgangherate in cui non combaciava nulla». Sebastiano Ardita, ex membro del Csm, è durissimo nel corso della sua testimonianza al processo a Brescia a Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia massonica Ungheria.
Parole, le sue, pronunciate in una giornata dal clima surreale, da resa dei conti, che ha visto oggi nello stesso palazzo di Giustizia due ex amici camminarsi vicino senza mai rivolgersi uno sguardo. E nella stessa stanza, devastata da due anni di gogna, c’era anche Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, indicata come «il corvo del Csm» e assolta a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato, sui verbali spediti anonimamente alla stampa e all’ex consigliere del Csm Nino Di Matteo, di voler insabbiare le indagini sulla loggia. Contrafatto ha scelto di non rispondere alle domande, dato il procedimento pendente a Roma per rivelazione d’ufficio e favoreggiamento, indagine per la quale la procura ha chiesto una proroga. E appena messo piede in aula è impallidita alla vista delle telecamere, che per mesi l’hanno inseguita per tormentarla. «Avevano trovato il capro espiatorio - ha sussurrato poco prima dell’inizio dell’udienza -. Chi me li ridà questi anni?».
L’attesa, però, era tutta per Ardita. Che ha di fatto attribuito all’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara - che lo ha falsamente indicato tra gli appartenenti alla presunta loggia Ungheria - un tentativo di vendetta nei suoi confronti, per le indagini e le attività investigative condotte su di lui «in tre anni e in tre funzioni diverse». Ovvero come aggiunto a Messina e Catania e anche al Csm, dove avrebbe voluto far audire il pm di Roma, Stefano Fava, che si era rivolto a lui proprio per problemi e ostacoli nel condurre indagini su Amara, al punto da voler presentare un esposto contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone. Ma non solo: secondo Ardita, Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle affermazioni di Amara ben prima di quando il pm Paolo Storari gli ha consegnato i verbali, ad aprile del 2020.
Dopo la grande amicizia che li aveva legati, i rapporti tra i due - fondatori di Autonomia & Indipendenza, frutto della scissione da Magistratura Indipendente - cambiarono drasticamente. Il contesto era quello dello scandalo dell’Hotel Champagne, a seguito del quale Davigo «assunse un atteggiamento non coerente con la nostra linea iniziale», decidendo di «non far toccare palla» alle correnti che avevano partecipato alle trame del Palamaragate. «Un’affermazione fuori dal mondo», perché la ratio del gruppo era quella di rimanere indipendenti. Ed escludere a priori qualcuno significava adeguarsi alle scelte degli altri, facendosi così «risucchiare» dal sistema che volevano combattere. «La divergenza era politica, ma divenne più dura quando iniziò a prendere le distanze da Stefano Fava», che Ardita avrebbe voluto coinvolgere nelle attività di A&I. «Davigo lo considerava un pezzo dello Champagne, cosa che non era», ha dichiarato. E ciò in virtù di quell’esposto che avrebbe colpito anche l’aggiunto Paolo Ielo, amico di Davigo e chiamato in causa da Fava per i rapporti professionali del fratello con Amara. Ardita avrebbe voluto sentire Fava in Commissione, scelta non gradita a Davigo, che dietro vi vedeva un complotto contro Ielo, considerato colpevole dei guai di Palamara.
Uno dei punti di non ritorno, per la fine della loro amicizia, fu la scelta del procuratore di Roma, da rifare dopo lo scandalo del Palamaragate. E Davigo tentò di imporre una scelta al gruppo: aderire alla linea di Area. «Io scelsi la linea dell’indipendenza», ha spiegato Ardita. Scelta condivisa, inizialmente, anche dagli altri membri del gruppo, Di Matteo - che «Davigo non stimava» -, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra, salvo poi essere rinnegata da questi ultimi. Inizialmente d’accordo con l’idea di votare l’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo per il dopo Pignatone, per poi virare su Michele Prestipino, così come voluto da Davigo. Alla riunione di febbraio 2020, che precedette il voto in plenum, Davigo parlò dunque «di forze oscure. Non mi guardava in faccia - ha spiegato Ardita -. Disse che il gruppo doveva rimanere unito e votare Prestipino. Mi affrontò e perse le staffe, chiedendomi perché non volessi farlo. Le mie erano ragioni tecniche. Così cominciò ad urlare e mi disse “mi nascondi qualcosa”».
In questo contesto fu Pepe a ricordare «quelli dello Champagne», che a suo dire «stavano continuando a fare cose». Un’affermazione preoccupante, secondo Ardita, che faceva intendere che sapessero qualcosa a lui non noto. «Davigo mi disse: se voti Creazzo stai con quelli dello Champagne. Che però avevano svolto attività contro Creazzo. E mi disse che sarei stato fuori dal gruppo, come se l’avesse creato lui. Quelli dello Champagne mi definivano un talebano da tenere sotto controllo. Come poteva credere a queste cose contrarie alla realtà, conoscendomi perfettamente?». Ardita non scoprì mai cosa volesse dire Davigo, nonostante l’invito a dirlo davanti a tutti. «Si limitò a rimproverarmi il fatto che Antonio Lepre (uno dei consiglieri presenti all’Hotel Champagne e dimissionario dopo lo scandalo, ndr) venne a trovarmi. Venne da me per dirmi che avevano sbagliato e lo fece quando ancora non sapevamo nemmeno della sua partecipazione alla riunione. Dopo lo scandalo dello Champagne non lo vidi più». Ed è stato in questo momento che il presidente Spanò ha citato Davigo, che in aula aveva affermato che tale incontro sarebbe avvenuto dopo che la vicenda era ormai diventata di dominio pubblico. «Sarebbe molto grave se l'avesse detto», ha dunque replicato Ardita. Suscitando la reazione di Davigo: «Ci sono i testimoni», che il pm catanese ha invitato a portare in aula. «Quella di Davigo fu una chiara minaccia. Era fuori di sé - ha raccontato l’ex consigliere del Csm -, tremava, urlava, era rosso. E le cose che diceva erano incomprensibili per me». Secondo Ardita - che è parte civile al processo - fu proprio quell’atteggiamento a condizionare il Csm. «Mi trovai isolato. Diverse persone mi parlavano a stento». A sapere della loggia, infatti, erano tutti i consiglieri con i quali Ardita aveva rapporti di stima. «Mi ha provocato molti danni - ha aggiunto -. Non avrei voluto che circolassero cose che non definirei nemmeno calunnie, ma pattumiere. Era una cosa per me incomprensibile». Nonostante questo, Ardita votò a favore della permanenza di Davigo al Csm, quando si discusse del suo pensionamento. «Da mesi non mi salutava e mi stava anche infamando davanti alla procura di Perugia. Ma a me hanno insegnato che è onestà morale non fare nulla per interesse proprio. Io ho agito per onestà intellettuale. E non ho cambiato idea. Davigo ha altri canoni di ragionamento: evidentemente vede le cose in base ai rapporti che ha con le persone».
Ardita ha infine smentito l’affermazione di Davigo secondo cui è normale che il Csm conosca atti coperti da segreto. Consapevolezza che deriva anche dal suo ruolo di ex presidente della prima Commissione, che si occupa dei procedimenti disciplinari. «Gli atti coperti da segreto non vengono mai a conoscenza del Csm. Il Consiglio - ha evidenziato - viene a conoscenza quando ci sono le iscrizioni. Ma ancora più spesso, quando le indagini sono delicate, solo alla fine delle indagini, con la proroga o con la chiusura. E comunque questo atto spetta alla procura generale. Se fossero arrivati dei verbali il comitato avrebbe dovuto chiudere il plico e rispedirlo indietro».
A parlare oggi in aula anche Giuseppe Marra, compagno di corrente di Davigo e Ardita e indagato per omessa denuncia e distruzione di corpo di reato a seguito della trasmissione degli atti da parte del gup di Roma che ha assolto Contrafatto. «Ho appreso la notizia dai giornali», ha puntualizzato l’ex consigliere del Csm, accompagnato dal difensore, Roberto Borgogno. Marra ha spiegato di aver saputo dei verbali l’8 giugno: una volta al Csm, l’ex pm di Mani Pulite - che si premurò di far spegnere i telefoni - gli mostrò una cartellina contenente dei fogli, senza timbro né sottoscrizioni, nei quali si parlava anche di Ardita. Un incontro breve, quello, che poi riprese a pranzo, dove Davigo raccontò della visita di Storari e dello stallo nelle indagini a Milano. «Capii che era un procedimento penale in fase di indagini. Era impossibile non capirlo», ha sottolineato. Ma Marra non pose il tema della segretezza al collega. E ciò perché «il Csm riceve quotidianamente atti di indagine coperti da segreto», in quanto «deve essere informato immediatamente se una procura sta indagando o abbia una notizia di reato su un magistrato». Ma mai, ha puntualizzato, era avvenuto tramite queste modalità, rese necessarie, a suo dire, dalla presenza di Ardita in prima Commissione. Marra chiese comunque a Davigo se la modalità seguita da Storari fosse corretta, dal momento che la circolare prevede l’invio di un plico riservato al Comitato di Presidenza. «Mi disse che comunque il segreto investigativo non è opponibile al Csm in base alle circolari e quindi nemmeno al singolo consigliere - ha sottolineato -. Inoltre aveva informato il procuratore generale e il vicepresidente, che a sua volta aveva informato il Capo dello Stato».
Ma perché Davigo informò proprio Marra? In virtù dei rapporti confidenziali con Ardita e proprio per tale motivo gli consigliò cautela. «Mi disse: fa attenzione alle comunicazioni con Ardita, perché non sappiamo se quello che c’è scritto è vero», ha raccontato. Sulla veridicità del racconto di Amara c’erano dubbi, ma Davigo «mi disse che sembrava inverosimile che una persona per nulla sprovveduta, com’era sulla carta Amara, si inventasse tutto rischiando di commettere una calunnia clamorosa nei confronti di persone importanti all’interno delle istituzioni. Impressione che io condivisi dal punto di vista logico». Nonostante la convinzione che la procedura seguita da Davigo fosse corretta, i verbali di Amara non finirono mai in prima commissione. Se non dopo l’inoltro della procura di Perugia, che nel frattempo stava indagando per corruzione Mancinetti. Inoltre, Ardita non sponsorizzò in alcun modo un altro dei nomi indicati da Amara - quello di Alessandro Centonze -, candidato a diventare membro della Scuola superiore della magistratura. «Dissi a Davigo che mi sembrava strano che se entrambi facevano parte di questa loggia massonica Ardita non si fosse mai avvicinato a me per sponsorizzarlo», ha evidenziato Marra. Che in ogni caso seguì il consiglio di Davigo, allontanandosi da Ardita, col quale ebbe anche motivi di scontro per questioni legate alla corrente. Prima di andare via dal Csm, Davigo portò la cartellina coi verbali di Amara nell’ufficio di Marra, comunicandoglielo a pranzo. «Non mi disse perché - ha spiegato Marra -, ma so che Davigo ha dichiarato che in precedenza mi aveva detto che qualora lui fosse stato dichiarato decaduto me le avrebbe lasciati qualora qualcuno del Comitato di presidenza ne avesse voluto copia. Ma questa frase non me la ricordo». Una circostanza strana, dal momento che era stato lo stesso Davigo a consegnare i verbali ad Ermini. Marra, in ogni caso, distrusse quei documenti poche settimane dopo. «Erano cose che preferivo non avere. Nessuno me le chiese e non ne potevo parlare con nessuno - ha evidenziato -. Erano documenti che scottavano. Ho cercato di starne fuori».
Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 Gennaio 2023.
Nella sentenza di assoluzione dell’ex collaboratrice di Piercamillo Davigo, la signora Maria Marcella Contrafatto, emerge una storia che, per la sua violenza, è difficile immaginare possa essere accaduta nei corridoi del Csm, che tutti immaginano frequentati da giuristi dai modi felpati. E invece no.
Davigo a un certo punto del 2020 avrebbe allontanato da sé, con rabbia scespiriana, l’ex pupillo Sebastiano Ardita, colpevole non si sa ancora oggi bene di quale peccato. Ufficialmente la rottura tra i due sarebbe da collegare al fatto che l’ex campione di Mani pulite avrebbe trovato il nome del pm catanese nei verbali del faccendiere Piero Amara, in veste di affiliato alla fantomatica loggia Ungheria.
Da quel momento l’anziano consigliere avrebbe iniziato a girare di stanza in stanza per mostrare le carte che inchiodavano l’ex amico. Accuse che poi, alla prova dei fatti, si sono rivelate del tutto falso e hanno portato Amara a essere indagato per calunnia. Oggi Davigo è imputato a Brescia per rivelazione di segreto e Ardita è parte civile nel processo.
Ma per il gup di Roma Nicolò Marino la condotta di Davigo a Roma poteva far ipotizzare anche un’altra fattispecie di reato ovvero l’abuso di ufficio «già ricompresa, anche se non nella sua interezza, nelle imputazioni mosse al dottor Davigo». A Brescia, infatti, non è specificato che il più grave reato di rivelazione sarebbe stato finalizzato a recare danno ad Ardita, obiettivo a giudizio di Marino pacifico.
Per il giudice le contestazioni mosse alla presunta vittima di essere un massone «anche se assonnato» erano «affermazioni gravissime» a cui erano seguiti «accertamenti sulla credibilità» di Amara che non spettano ai consiglieri del Csm e avevano avuto «la conseguenza (voluta o non voluta, non spetta a questo decidente valutarlo) di avere arrecato al predetto consigliere Ardita un danno ingiusto, consistito nell’isolamento di questi all’interno del Csm». Al punto che sarebbe stato sconsigliato al presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra di «portare avanti una proposta di collaborazione istituzionale» con lo stesso Ardita.
Il gup, nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, riassume anche le dichiarazioni rese a Brescia dal consigliere Nino Di Matteo, che si era focalizzato «sui rapporti, prima ottimi, e poi di rottura» tra Davigo e Ardita, una frattura che, apparentemente, sarebbe stata causata dalla decisione del secondo di «non voler appoggiare la candidatura del dottor Prestipino quale Procuratore di Roma al Plenum del Csm del 4 marzo 2020».
Di Matteo ha ricordato che «ci fu un acceso diverbio .... più che un diverbio una aggressione verbale vera e propria» di Davigo, il quale sarebbe esploso: «Se tu non voti Prestipino automaticamente sei fuori dal gruppo ... se tu non voti Prestipino stai con quelli dell’Hotel Champagne ... tu mi nascondi qualcosa!».
Una frase che per il giudice «fa chiaramente presumere come il dottor Davigo fosse già a conoscenza del contenuto dei verbali di Amara a febbraio del 2020, circa 2 mesi prima di quanto ricostruito sino a oggi. Del resto, ricorda sempre il gup, il 17 febbraio un sodale del faccendiere aveva sventolato una pagina di un verbale di Amara davanti ai magistrati durante un interrogatorio. Insomma le dichiarazioni sulla loggia circolavano e non per colpa della Contrafatto.
Rimane senza risposta il motivo per cui Davigo avrebbe dovuto postdatarne la conoscenza. Il giudice cita anche il riferimento fatto da Di Matteo alla «all’evidente “manovra sporca”, che mirava a coinvolgere lo stesso dottor Di Matteo, passando per le accuse, ictu oculi, calunniose di Amara in danno del dottor Ardita», sospettato di essere il braccio destro del presunto capo della loggia Ungheria, il defunto ex capo del Dipartimento degli affari penitenziari Gianni Tinebra.
Di Matteo ha anche ricordato come già nel 2004 Ardita si fosse opposto al progetto di Tinebra e dei vertici del servizi segreti interni, un piano «tristemente noto» come «Protocollo Farfalla» che «avrebbe consentito al personale del Sisde di fare ingresso nelle carceri ed effettuare colloqui investigativi con detenuti di mafia aggirando le prescritte autorizzazioni che per legge dovevano essere concesse dai magistrati competenti».
La Contrafatto ha ricordato che «il consigliere Davigo le aveva intimato di non fare avvicinare il consigliere Ardita alla sua stanza»; e ha confermato di «essere a conoscenza di come il rapporto fra i due si fosse incrinato sin dal febbraio 2020, in occasione della nomina del Procuratore Capo di Roma»; quindi ha aggiunto «che, dopo il lockdown, la situazione era precipitata e che il dottor Ardita, forse perché aveva compreso qualcosa, aveva cercato di parlare per ben due volte con il consigliere Davigo avvicinandosi alla sua stanza, ma questi gli aveva chiuso la porta in faccia».
Quale sia il vero motivo di tanto astio non è dato sapere. Ma è difficile che derivi solamente dall’aver letto il nome di Ardita nei verbali di Amara. Infatti quest’ultimo nelle sue dichiarazioni dell’11 gennaio 2020 aveva inserito, tra gli associati della loggia anche l’ex presidente aggiunto (sino all’aprile del 2021) del Consiglio di Stato Sergio Santoro.
Eppure tra maggio e settembre 2020, ossia quando era già venuto a conoscenza del contenuto dei verbali e nell’imminenza del periodo in cui il Csm (esattamente il 20 ottobre 2020) si sarebbe dovuto pronunciare sulla sua decadenza dal parlamentino dei giudici, Davigo si sarebbe recato a cena proprio a casa di Santoro.
In un’intervista alla Stampa l’ex presidente aggiunto di Palazzo Spada ha spiegato che la questione dell’età pensionabile dei magistrati e la possibile esclusione di Davigo da Palazzo dei marescialli era stato «il tema principale» di discussione di quella serata: «Sì il tema era spinoso e noi lo studiavamo dal punto di vista giuridico. Lui era sicuro che anche da pensionato sarebbe rimasto al Csm». Ma si sbagliava. Di certo quelle chiacchiere avvennero nell’abitazione di un presunto appartenente alla loggia Ungheria. Ma in quel caso Davigo non deve aver ritenuto sconveniente condividere il desco con un presunto massone.
Il gup sul caso dei verbali di Amara. Nel Csm “congiura di palazzo”, Cascini finisce sotto accusa. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Gennaio 2023
L’assoluzione dell’ex funzionaria del Consiglio superiore della magistratura Maria Marcella Contraffatto, addetta negli ultimi anni del suo servizio alla segreteria di Piercamillo Davigo e licenziata in tronco proprio a causa di questo procedimento, dall’accusa di aver provato a denigrare l’allora procuratore di Milano Francesco Greco, è destinata a riservare delle sorprese dirompenti.
Con riferimento alla oramai nota vicenda della diffusione dei verbali della loggia Ungheria consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo, il giudice Nicolò Marino scrive nelle motivazioni rese note questa settimana, che “il racconto offerto” a Brescia il 15 novembre scorso dove si sta svolgendo il processo nei confronti dell’ex pm di Mani pulite “dal consigliere Cascini nel corso dell’esame e del controesame cui è stato sottoposto ci consegna un’immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato -in questa o in altre vicende -non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall’organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica -si consenta-della “congiura di Palazzo”. Inoltre, Cascini viene sostanzialmente ‘accusato’ di non essersi “scandalizzato” e di non aver respinto “la richiesta di consulenza fatta dal dottor Davigo circa la credibilità di Amara (Piero), come se fosse possibile accettare uno sdoppiamento di ruolo del dottor Cascini, quale componente di un organo collegiale di alta amministrazione e di magistrato della Procura di Roma”.
E come se non bastasse, di non aver sentito “il dovere di interrompere la catena di divulgazione dei verbali di Amara, addirittura interloquendo sugli stessi alla presenza non solo del dottor Davigo, ma anche dei consiglieri Pepe (Ilaria, ndr) e Marra (Giuseppe)”. Cascini, in altre parole, non ha “denunciato alla competente autorità giudiziaria quegli accadimenti, come sarebbe stato logico pretendere da un pubblico ufficiale che avesse avuto la disponibilità di verbali costituenti corpo di reato e la piena consapevolezza (e dallo stesso la si poteva pretendere) della possibile consumazione, da parte del dottor Storari e del dottor Davigo, del reato” di rivelazione di segreto. Questa gravissima affermazione ha portato il giudice Marino a disporre la trasmissione degli atti alla Procura di Roma nei confronti di Cascini per omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale.
Ora il procuratore di Roma Francesco Lo Voi si troverà costretto suo malgrado ad iscrivere nel registro degli indagati Cascini proprio nel momento in cui era oramai prossimo ed imminente il suo ritorno alla Procura della Capitale avendo cessato il suo mandato consiliare. Ma anche il nuovo Csm sarà chiamato a dipanare la matassa: come disporre il rientro in ruolo di Cascini proprio in quello stesso ufficio dove risulterà essere indagato? A prescindere dai clamorosi sviluppi che la vicenda in questione potrà riservare, è indubbio che dopo la frenetica e vendicativa rimozione di Luca Palamara all’interno della magistratura si sia scatenato uno tsnunami. Come racconta un magistrato è scattata l’idea di una categoria nella quale finirà che ognuno si mangerà un altro.
Ha iniziato Piercamillo Davigo, ora tocca a Cascini e Marra, tralasciando le vicende che hanno coinvolto nei mesi scorsi i pm milanesi, ad iniziare dall’ex procuratore Francesco Greco.
I ben informati delle vicende consiliari raccontano che la corrente di sinistra Area non ha mai perdonato a Davigo il voto espresso il 23 maggio del 2019 a favore di Marcello Viola per la Procura di Roma considerato all’epoca il candidato di Palamara e Cosimo Ferri. Paolo Comi
(ANSA il 19 gennaio 2023) "A ben vedere all'interno del Csm vi erano stati imbarazzanti silenzi ed inescusabili omissioni, che non possono trovare giustificazione alcuna per chi ha avuto in mano quei verbali, li ha letti e poi distrutti quando scoppierà il caso Contraffatto o per chi, dopo averli letti, si è finanche spinto a fornire al dott. Davigo valutazioni sulla credibilità di Amara, sicuramente al di fuori dei compiti e dei doveri istituzionali che l'alto incarico di componente del Csm ricoperto imponeva". E' quanto scrive il gup di Roma, Nicolò Marino, nelle motivazione del proscioglimento di Marcella Contrafatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo.
La donna era accusata di calunnia. La vicenda giudiziaria è legata alla diffusione dei verbali degli interrogatori resi da Piero Amara ai magistrati milanesi in cui l'avvocato siciliano faceva riferimento alla Loggia Ungheria. Verbali poi arrivati al Csm e ad alcuni giornali. Per il giudice "ad esclusione del dott. Di Matteo (e del dott. Ardita, che rimetteva ogni valutazione sul contenuto dei verbali alle competenti Autorità, avanti alle quali si presentava), ci si è trovati di fronte a potenziali fattispecie di omessa denuncia di cui alcuni consiglieri del CSM si sarebbero resi responsabili".
Nell'atto il gup afferma che "non può non rilevarsi che gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini si presentavano ab initio del tutto insufficienti, e comunque contraddittori, a sostenere in giudizio l'assunto accusatorio per il delitto di calunnia.
Questo decidente ha reputato tale situazione "emendabile" acquisendo ulteriori elementi di prova e/o ulteriori riscontri a sostegno dell'assunto accusatorio e/o di quello difensivo. Tali ultimi accertamenti hanno finito per escludere del tutto la sussistenza di elementi tali da imporre la verifica dibattimentale, né il giudice del dibattimento potrebbe acquisirne altri per la completezza delle preliminari investigazioni dopo gli accertamenti compiuti".
(ANSA il 19 gennaio 2023) Nel documento con cui il gup di Roma ha motivato il proscioglimento di Marcella Contrafatto, ex segretaria di Piercamillo Davigo, finita sotto inchiesta per calunnia, ha "rimesso gli atti" alla Procura di Roma "in sede per ogni opportuna valutazione sulla configurabilità, nei confronti del consigliere Giuseppe Cascini, dell'ipotesi di reato di cui all'art. 361 c.p (omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale ndr) e del consigliere Giuseppe Marra, delle ipotesi di reato di cui agli artt. 351 (violazione della pubblica custodia di cose ndr) e 361 c.p, con riferimento a fatti accaduti in Roma, rispettivamente, nell'aprile-maggio 2020 per il primo, e tra il giugno e l'ottobre 2020 e in data successiva e prossima al 21 ottobre 2020 per il secondo".
Nel provvedimento si afferma, inoltre che "anche senza gli esiti della perizia grafologica - che escludono che l'odierna imputata abbia manoscritto le parole 'altri verb. C'è anche lui' - il procedimento doveva essere definito nella presente fase processuale, non potendo il dibattimento condurre all'acquisizione di nuovi elementi sull'esistenza del dolo di calunnia".
J'accuse del gup contro i giudici Marra e Cascini. Prosciolta la segretaria di Davigo ma rilievi alle toghe: "Dovevano denunciare". Luca Fazzo il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Ne andavano incriminati in diversi, all'interno del Consiglio superiore della magistratura, per la incredibile storia dei verbali segreti del caso Eni sulla loggia Ungheria insabbiati a Milano. Per avere divulgato quei verbali, l'ex pm Piercamillo Davigo è sotto processo a Brescia. Ma quei verbali circolavano anche in altre mani. «All'interno del Csm vi erano state inescusabili omissioni che non possono trovare giustificazione alcuna per chi ha avuto in mano quei verbali, li ha letti e poi distrutti» o ne ha addirittura discusso con Davigo «aldifuori dei doveri istituzionali che l'alto incarico di componente del Csm imponeva». Sono dirompenti le motivazioni con cui il giudice Nicolò Marino del tribunale di Roma ha prosciolto dall'accusa di calunnia Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm. Secondo la Procura di Roma, la Contrafatto era la mittente dei plichi mandati a Repubblica e al Fatto Quotidiano con i verbali del pentito Piero Amara, e ancora prima di quello spedito al consigliere del Csm Antonino Di Matteo. Nei verbali era sottolineato il nome di Francesco Greco, allora capo della Procura di Milano, con due frasi a stampatello: «Altri verb. C'è anche lui». Quella grafia, sosteneva la Procura, era della Contrafatto. Ora la donna viene assolta, sulla base di una nuova perizia grafica, e della testimonianza della giornalista di Repubblica che - nonostante i ripetuti contatti telefonici - nega di averla mai vista né sentita. Ma il proscioglimento della Contrafatto non sgonfia il caso, anzi lo allarga a dismisura. Il giudice trasmette gli atti alla Procura perché valuti l'incriminazione di due big delle correnti organizzate: Giuseppe Cascini, di Area, che sta per rientrare in servizio come pm a Roma; e Giuseppe Marra, della stessa corrente di Davigo, Autonomia e Indipendenza, in procinto di tornare a Torino. Ma il cerchio degli indagabili è ben più ampio. E a venire investito dall'accusa è l'intero Csm, teatro secondo la sentenza di una «congiura di palazzo» con innumerevoli congiurati. Chiunque avesse avuto in mano quei verbali, a partire dal vicepresidente del Csm David Ermini, aveva un solo dovere: «ovvero la denuncia alla competente autorità giudiziaria». E ancora: «È stato possibile introdurre e divulgare all'interno del Csm verbali dal contenuto potenzialmente devastante per le istituzioni senza scandalizzarsi e senza denunciare». Davigo resta il primo colpevole, ma non l'unico: «Il consigliere Davigo, nonostante la sua straordinaria esperienza, ha purtroppo imboccato la strada sbagliata, e con lui altri». I giudizi più pesanti il giudice li riserva al davighiano Marra, che andrebbe incriminato per soppressione di corpo di reato e omessa denuncia: «È veramente allarmante che un magistrato togato, componente del Csm, prima di distruggere i verbali si sia confrontato con il dottor Davigo raggiungendolo a Milano». A venire indagata, sempre secondo il giudice, avrebbe dovuto essere anche l'altra segretaria di Davigo, Giulia Befera, ammalata di «preoccupante protagonismo» nella sua infatuazione per Davigo che il Csm stava per mandare in pensione («si liberano dell'ultimo baluardo della legalità»). Anche la Befera, rimarca il giudice, poteva avere accesso ai verbali di Amara, custoditi nell'ufficio di Davigo. La verità, conclude il giudice, è che vi furono «almeno due diverse tranche di divulgazione dei verbali di Amara, una che passa da Milano e l'altra da Roma». Chissà se l'inchiesta-bis arriverà a capirci qualcosa.
Lo schiaffo del gup al Csm e a Davigo: «Una congiura di Palazzo». Nessun elemento a sostegno di un rinvio a giudizio dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto. Il giudice manda gli atti in procura e accusa Marra e Cascini: «Avrebbero dovuto denunciare» Simona Musco su Il Dubbio il 19 gennaio, 2023.
La vicenda della diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara consegna «un'immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato - in questa o in altre vicende - non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall'Organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica - si consenta - della “congiura di Palazzo”». Sono parole durissime quelle con le quali il gup del Tribunale di Roma Nicolò Marino motiva il proscioglimento dell’ex segretaria di Piercamillo Davigo, Marcella Contrafatto (difesa dall’avvocato Alessia Angelini), dall’accusa di calunnia ai danni dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco. Parole che aprono, inoltre, un nuovo filone di indagine, con la rimessione degli atti alla procura per valutare due ipotesi di reato: quella di omessa denuncia nei confronti del consigliere del Csm Giuseppe Cascini, e quelle di violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia nei confronti del consigliere Giuseppe Marra. Reati, quelli ipotizzati dal gup, commessi nella gestione di quei verbali, consegnati ai due consiglieri proprio da Davigo.
Nelle 42 pagine con le quali spiega l’assenza di elementi tali da consentire di rinviare a giudizio Contrafatto - investita, insieme alla sua famiglia, «da un clamore mediatico andato ben oltre la sopportazione» -, il gup bacchetta pesantemente buona parte dei membri del Csm e un loro ex membro, Davigo, «spintosi (...) ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato» del Csm.
La vicenda ruota intorno alla consegna dei verbali di Amara a Davigo da parte del pm milanese Paolo Storari, che si era rivolto a lui per denunciare il presunto immobilismo della procura meneghina nella gestione delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni, che aveva descritto l’esistenza di una presunta loggia (poi rivelatasi inesistente) della quale avrebbero fatto parte uomini delle istituzioni e anche due consiglieri del Csm: Sebastiano Ardita, diventato la vittima principale della diffusione dei verbali e totalmente estraneo ai fatti, e Marco Mancinetti, nel frattempo dimessosi da Palazzo dei Marescialli. Una forma di “autotutela”, quella di Storari, rivelatasi, però, totalmente fuori dalle regole e fondata sulla rassicurazione di Davigo al pm sull’impossibilità di opporre il segreto investigativo ai membri del Csm. Una verità che Davigo avrebbe ricavato dalle circolari del Csm, interpretate, però, in maniera errata, secondo la procura di Brescia che ha chiesto e ottenuto il suo rinvio a giudizio. Quei verbali, stando al racconto dei due protagonisti, sarebbero stati consegnati all’ex pm di Mani Pulite ad aprile del 2020. Ma secondo il gup Marino, l’ostilità di Davigo nei confronti di Ardita già a febbraio 2020, quando il primo disse al secondo "Tu mi nascondi qualcosa", «fa chiaramente presumere come il dottor Davigo fosse già a conoscenza del contenuto dei verbali di Amara».
Silenzi ed omissioni
Secondo il gup, «all’interno del Csm vi erano stati imbarazzanti silenzi ed inescusabili omissioni, che non possono trovare giustificazione alcuna per chi ha avuto in mano quei verbali, li ha letti e poi distrutti quando scoppierà il caso Contrafatto (ovvero il consigliere Marra, ndr) o per chi, dopo averli letti, si è finanche spinto a fornire al dottor Davigo valutazioni sulla credibilità di Amara (cioè Cascini, ndr), sicuramente al di fuori dei compiti e dei doveri istituzionali che l'alto incarico di componente del Csm ricopre impone». Gli unici a comportarsi in maniera corretta, secondo Marino, sarebbero stati Ardita e il consigliere Nino Di Matteo (destinatario di uno dei plichi con i verbali spediti, secondo la procura, da Contrafatto), che si sono rimessi all’autorità giudiziaria. «Traspare a chiare lettere come fosse in atto una vera e propria strategia di portare all'esterno il contenuto delle dichiarazioni di Amara», scrive il giudice, una diffusione «allarmante» di documenti, «sine titulo stampati dallo stesso dottor Davigo e consegnati ad alcuni consiglieri del Csm e/o portati comunque a conoscenza di svariate figure istituzionali, anche al di fuori dell'organo di autogoverno della magistratura, come nel caso del senatore Morra», documenti «coperti da segreto investigativo» e che «in quanto segretati costituivano corpo di reato».
Nelle indagini su Contrafatto, secondo il gup, sarebbe mancata l’analisi dei comportamenti che hanno preceduto la consegna dei verbali ai giornali e la presunta calunnia: non è stato infatti considerato che a rendere noto il contenuto dei verbali e il presunto lassismo del procuratore di Milano, per primo, fosse stato proprio Davigo, «impropriamente, se non illecitamente (ma questo lo stabilirà il Tribunale di Brescia)». Che il procuratore Greco tenesse i verbali nel cassetto, secondo quanto scritto sul biglietto anonimo consegnato a Di Matteo e che è costato a Contrafatto l’accusa di calunnia, era ormai «una diffusa presunzione per bocca dello stesso dottor Davigo, che ne aveva parlato con Ermini, Cascini, Marra, Pepe, Cavanna, Gigliotti, Morra».
Un danno ingiusto ad Ardita
Davigo, raccontando dei verbali al vicepresidente del Csm David Ermini, aveva sottolineato la circostanza che Ardita «potesse appartenere alla massoneria e come il massone dovesse essere considerato tale anche se assonnato». Affermazioni «gravissime», commenta Marino, unitamente alle esternazioni sul contenuto dei verbali di Amara, spacciato per vero «addirittura svolgendo accertamenti sulla credibilità del dichiarante tramite il consigliere Cascini, in palese violazione delle norme di legge che regolamentano le attribuzioni meramente amministrative e collegiali di componente del Csm, con la conseguenza (voluta o non voluta, non spetta a questo decidente valutarlo) di avere arrecato al predetto consigliere Ardita un danno ingiusto, consistito nell'isolamento di questi all'interno del Csm, per di più sconsigliando il senatore Morra dal portare avanti una proposta di collaborazione istituzionale dello stesso dottor Ardita con la Commissione parlamentare nazionale antimafia (secondo il racconto di Morra)». Una condotta, secondo il gup, che potrebbe integrare la fattispecie di abuso d’ufficio.
La gestione impropria di quei verbali ha consentito dunque di far circolare all’interno del Csm documenti «dal contenuto potenzialmente devastante per le Istituzioni», senza attendere o verificare che esistesse una formale comunicazione del procuratore di Milano al Csm essendovi coinvolti magistrati, senza consigliare a Storari di seguire la procedura formale; «senza scandalizzarsi (Cascini, ndr) e respingere la richiesta di consulenza fatta dal dottor Davigo circa la credibilità di Amara, come se fosse possibile accettare uno sdoppiamento di ruolo del dottor Cascini, quale componente di un organo collegiale di alta amministrazione e di magistrato della procura di Roma; senza sentire il dovere di interrompere la catena di divulgazione dei verbali di Amara» e, soprattutto, «senza denunciare alla competente autorità giudiziaria quegli accadimenti, come sarebbe stato logico pretendere da un pubblico ufficiale che avesse avuto la disponibilità di verbali costituenti corpo di reato e la piena consapevolezza». Sarebbe bastato infatti poco «per non creare, in maniera scomposta, l'ennesimo allarme istituzionale all’interno della magistratura: seguire le regole, ovvero declinare la consegna dei file word, invitare Storari a rivolgersi al suo procuratore generale e mantenere il riserbo. Ma il consigliere Davigo, nonostante la sua straordinaria esperienza, ha, purtroppo, imboccato la strada sbagliata, e con lui altri».
Non migliore, secondo il gup, il comportamento di Marra, che aveva anche avuto in consegna, proprio da Davigo, quei verbali «costituenti corpo di reato», poi distrutti una volta venuto a conoscenza della perquisizione a casa Contrafatto. «È veramente allarmante che un magistrato togato, componente del Csm - scrive il giudice -, prima di distruggere i verbali, si sia confrontato con il dottor Davigo, raggiungendolo a Milano, per verificare se gli stessi fossero stati portati sul suo tavolo direttamente da lui o tramite la Contrafatto; evidentemente aveva ben chiaro come la disponibilità di quei verbali apparisse, oltre che ingiustificata, anche imbarazzante».
Una «strategia destabilizzante»
Insomma, i verbali di Amara circolavano da febbraio 2020 e anche se segretati «pare non fossero un segreto per nessuno» e anzi venivano diffusi. Circostanza che al gup pare «una vera strategia destabilizzante, condotta in due tranche temporali, nel 2020 e nel 2021, da una o più mani, che porta ad escludere una possibile regia e un protagonismo di Marcella Contrafatto». L’unico indizio che lega l’ex segretaria di Davigo alla consegna dei verbali sono le quattro chiamate effettuate dal cellulare del Csm in uso alla stessa alla giornalista di Repubblica Liana Milella, tra i destinatari dei plichi anonimi, «indizio tuttavia indebolito dalle dichiarazioni della giornalista che fa riferimento, a proposito della sua interlocutrice anonima, ad una giovane donna con accento del nord, con voce non contraffatta». Mentre la perizia grafologica ha escluso tassativamente che a scrivere i biglietti anonimi possa essere stata la donna.
Insomma, gli elementi di prova sono risultati sin dall’inizio «del tutto insufficienti, e comunque contraddittori». E non sono poche le critiche del gup alla procura, rea di non aver acquisito gli atti del processo a carico di Davigo e di non aver indagato anche sull’altra segretaria di Davigo, Giulia Befera, sentita invece «quale fonte di accusa testimoniale», ma considerata dal gup «"fuori le righe", per usare la medesima terminologia del dottor Davigo e della Befera» a proposito di Contrafatto. A ciò si associa l’esclusione dell’elemento soggettivo del reato di calunnia: Contrafatto, infatti, «disponeva di elementi concreti tali da poter legittimamente essere convinta delle responsabilità del procuratore di Milano e ciò in ragione della fonte da cui la notizia proveniva - il dottor Davigo, nei cui confronti nutriva incondizionata stima professionale e fiducia - e per la diffusione della stessa all'interno dell'Organo di autogoverno della magistratura che, ancor di più, avvalorava la serietà delle informazioni comunicate dal presidente Davigo».
Giacomo Amadori per “La Verità” il 19 gennaio 2023.
I verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria continuano, a distanza di oltre tre anni a mietere «vittime», dopo che nella primavera del 2020 questi erano stati diffusi dal pm di Milano Paolo Storari e dal consigliere Piercamillo Davigo.
Questa volta a finire nei guai sono due illustri consiglieri in uscita dal Csm: Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra, accusati di aver ricevuto quegli atti coperti da segreto e di non aver denunciato l'illecita diffusione. Il nuovo filone emerge dalle motivazioni della sentenza depositata ieri, 18 gennaio 2022, con la quale il gup di Roma, Nicolò Marino, ha assolto l'ex funzionaria del Csm Maria Marcella Contrafatto, addetta - negli ultimi anni del suo servizio - alla segreteria di Davigo e licenziata in tronco dal Csm per questo procedimento. Innanzitutto il gup ha accertato che non vi fossero elementi sufficienti per rinviare a giudizio l'imputata per il reato di calunnia che le veniva contestato dalla Procura di Roma.
La donna era accusata di aver provato a denigrare l'allora procuratore di Milano, Francesco Greco, inviando i verbali di Amara al consigliere del Csm, Nino Di Matteo, con una lettera d'accompagnamento in cui si facevano insinuazioni sulla lentezza dell'operato del procuratore in merito alle dichiarazioni di Amara, soprattutto perché nella nota anonima si leggeva anche la seguente chiosa scritta a penna: «Altri verb. c'è anche lui».
Per il giudice, l'accusa era priva del cosiddetto elemento soggettivo e cioè alla donna mancava la consapevolezza dell'innocenza dell'ex procuratore, dal momento che tutti intorno a lei nutrivano seri dubbi sulla condotta di Greco, a partire da Davigo «nei cui confronti nutriva incondizionata stima professionale e fiducia».
Il gup Marino ha in proposito fatto ampio utilizzo delle dichiarazioni rese dai consiglieri uscenti del Csm al Tribunale di Brescia nel procedimento che vede proprio Davigo imputato di rivelazione di segreto di ufficio. Il 15 novembre Cascini ha dichiarato che rimase «stupito dal fatto che alcune cose che andavano fatte non fossero state fatte fino a quel momento».
Per il magistrato della corrente progressista di Area era «dovere della Procura di Milano fare un'indagine approfondita» e questa, evidentemente, a suo giudizio non era stata fatta, visto che davanti al giudice ricorda che di fronte a «una cosa di enorme gravità», l'indagine sembrava in una «situazione di stallo». Per il testimone erano sì stati fatti «quattro cinque interrogatori, ma non erano stati fatti né iscrizioni, né atti di indagine», a partire dalle perquisizioni, che lui, invece, avrebbe fatto seduta stante. E questo era «un elemento di preoccupazione [] un aspetto della discussione».
Non si comprende pertanto come la Procura di Roma abbia potuto ritenere la Contrafatto colpevole di avere e diffondere un'opinione che, negli stessi termini, è stata coltivata e propalata anche da magistrati di primo piano. A tale argomento il gup Marino aggiunge, per motivare l'assoluzione, anche l'esito della perizia grafologica - comunque non decisiva in un processo - che ha scagionato la Contrafatto e anche le dichiarazioni della giornalista Liana Milella che ha riferito che la voce della donna che intendeva trasmetterle i verbali aveva una inflessione del Nord Italia ed era giovane.
Caratteristiche che escludono quindi la Contrafatto che è romana e già all'epoca delle telefonate sulla soglia della pensione. Ma la sentenza riserva comunque ben altre sorprese poiché il gup, proprio con riferimento alla condotta tenuta da Cascini, ha, senza mezzi termini, affermato che «il racconto offerto» a Brescia «dal consigliere nel corso dell'esame e del controesame cui è stato sottoposto ci consegna un'immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato - in questa o in altre vicende -non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall'organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica - si consenta - della "congiura di Palazzo"».
Non è specificato a che cosa si riferisca il giudice. Ma nel capo di imputazione di Davigo si legge che la rivelazione di segreto avrebbe avuto l'effetto di screditare il collega Sebastiano Ardita, finito al centro di pettegolezzi feroci per la presunta appartenenza (rivelatasi del tutto falsa) alla fantomatica loggia.
Il prosieguo di Marino è persino più severo: «Cosi è stato possibile introdurre e divulgare all'interno del Csm verbali dal contenuto potenzialmente devastante per le istituzioni (e in termini di calunnia in danno di uomini delle istituzioni e perché ancora non oggetto di verifica), coperti da segreto investigativo e costituenti corpo di reato, senza attendere o verificare che esistesse una formale comunicazione del Procuratore di Milano al Csm essendovi coinvolti magistrati».
Non basta: il consigliere è accusato di non essersi «scandalizzato» e di non aver respinto «la richiesta di consulenza fatta dal dottor Davigo circa la credibilità di Amara, come se fosse possibile accettare uno sdoppiamento di ruolo del dottor Cascini, quale componente di un organo collegiale di alta amministrazione e di magistrato della Procura di Roma»; ma anche di non aver sentito «il dovere di interrompere la catena di divulgazione dei verbali di Amara, addirittura interloquendo sugli stessi alla presenza non solo del dottor Davigo, ma anche dei consiglieri Pepe (Ilaria, ndr) e/o Marra»; inoltre, sarebbe colpevole di non aver «denunciato alla competente autorità giudiziaria quegli accadimenti, come sarebbe stato logico pretendere da un pubblico ufficiale che avesse avuto la disponibilità di verbali costituenti corpo di reato e la piena consapevolezza (e dallo stesso la si poteva pretendere) della possibile consumazione, da parte del dottor Storari e del dottor Davigo, del reato» di rivelazione di segreto.
Questa gravissima affermazione ha portato il giudice Marino a disporre la trasmissione degli atti alla Procura di Roma nei confronti di Cascini per omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale. Ma non finisce qui perché la toga ha ritenuto censurabile pure la condotta del consigliere Giuseppe Marra.
Infatti dall'istruttoria sarebbe emerso «come il consigliere non solo fosse stato portato a conoscenza di gran parte delle dichiarazioni rese da Amara, ma avesse anche avuto la disponibilità esclusiva dei verbali, coperti da segreto investigativo (circostanza allo stesso nota per come dichiarato), e quindi costituenti corpo di reato, da lui distrutti senza neanche aver tentato di spiegarne il perché alla autorità giudiziaria di Brescia, come invece aveva fatto il vice presidente David Ermini».
Per Marino si sarebbe, dunque, reso responsabile oltre che di omessa denuncia, anche della distruzione del «corpo di reato». La Procura di Roma, che quindi era partita per processare la Contrafatto, si trova ora a dover indagare su Cascini e Marra che i predetti illeciti avrebbero commesso quando erano fuori ruolo a Palazzo dei Marescialli. Il paradosso è che negli stessi uffici giudiziari chiamati ad indagare su di lui Cascini dovrebbe rientrare quale procuratore aggiunto tra pochi giorni. Sarà quindi il nuovo Csm a decidere se il magistrato sia compatibile con tale incarico.
La Contrafatto, assistita dalla pugnace avvocatessa Alessia Angelini, invece, andrà a rendere dichiarazioni a Brescia nel processo contro Davigo il prossimo 23 febbraio. L'ex consigliere del Csm in aula non ha speso parole esattamente generose nei confronti della sua vecchia collaboratrice e questa probabilmente non gli farà sconti. Già nelle sue dichiarazioni spontanee depositate a Roma aveva scritto: «Ci tengo a dire che ho mantenuto con lui dei buoni rapporti anche dopo che ha lasciato il Csm, nonostante fossi "sopra le righe" (si tratta di una citazione dell'ex campione di Mani pulite, ndr).
Mi sono occupata di restituire le chiavi di casa del suo appartamento di Roma al proprietario ed ho proceduto io alla verifica dello stato dei luoghi. Fino a quando ho lavorato al Csm, sapendo di fargli cosa gradita, ho sempre inviato ogni mattina la rassegna stampa». La donna resta ancora indagata nella Capitale per un procedimento parallelo a quello in cui è stata assolta.
È accusata di rivelazione di segreto e favoreggiamento (dei personaggi citati nei verbali di Amara), ma lei ha sempre negato di essere la «postina» di quelle dichiarazioni. La donna, come detto, respinge la contestazione di essere stata lei a inviare alcuni verbali alla giornalista Milella nonostante le chiamate ricevute dalla stessa da un scheda intestata alla Contrafatto. Ma sul punto l'indagata ha sostenuto che quel telefono di servizio spesso nei week end rimaneva accantonato nel cassetto dell'ufficio, anche nella disponibilità di eventuali malintenzionati.
Per la Procura, che ha trovato i verbali a casa dell'ex funzionaria, la donna potrebbe averli fotocopiati «da quelli riposti dal consigliere Davigo nella sua stanza» e non ricevuti via posta in forma anonima, una versione che non convincerebbe gli inquirenti anche perché la signora non avrebbe conservato la busta. «Come, si badi», puntualizza, però, Marino, «aveva fatto lo stesso giornalista del Fatto quotidiano» che li aveva poi consegnati alla Procura di Milano. Infine il giudice muove pesanti critiche anche in ordine all'operato della Procura di Roma sia per aver sentito una collega della Contrafatto come testimone a carico anziché come indagata, sia per non aver acquisito e depositato gli atti del procedimento bresciano, che sono stati, invece, consegnati dall'avvocato Angelini e che costituiscono l'architrave dell'assoluzione.
Sotto i riflettori della procura di Perugia arriva un altro Pm da giudicare: Giuseppe Cascini. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Marzo 2023.
Sono venute a galla delle situazioni che metteranno in forte imbarazzo il procuratore capo di piazzale Clodio, Francesco Lo Voi, che pongono delle legittime domande sull’opportunità della permanenza di Giuseppe Cascini nella procura romana
Il plenum del nuovo Consiglio superiore della magistratura ha deliberato ieri all’ unanimità il rientro in servizio nei precedenti incarichi di tutti magistrati presenti nel precedente organo di governo della magistratura. Tra questi compare anche il procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini, esponente di spicco di Area, la corrente “”sinistrorsa” estremamente politicizzata delle toghe, che aveva indagato su l teorema processuale di “Mafia Capitale”, anche se il Tribunale di Roma ha stabilito che la mafia non c’era. Adesso conclusi i quattro anni da membro togato trascorsi a Palazzo dei Marescialli, Cascini rientrerà alla procura di Roma con il suo precedente incarico di procuratore aggiunto.
Solo che nel frattempo sono venute a galla delle situazioni che metteranno in forte imbarazzo il procuratore capo di piazzale Clodio, Francesco Lo Voi, che pongono delle legittime domande sull’opportunità della permanenza di Cascini nella procura romana (considerato che suo fratello, Francesco Cascini è un sostituto procuratore ) con un ruolo di rilievo come quelle di procuratore aggiunto. Infatti proprio la procura di Roma sta valutando se indagare lo stesso procuratore aggiunto Giuseppe Cascini per l’ipotesi di reato di omessa denuncia, in relazione alla vicenda dei verbali di Amara. Legittimo chiedersi se potrà essere obbiettiva ed indipendente sulle valutazioni dell’operato di un collega.
Il gup di Roma Nicolò Marino, nella sentenza con cui nel dicembre 2022 è stata prosciolta dall’accusa di calunnia l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto a chiedere alla Procura di Roma di valutare la condotta di Giuseppe Cascini. La vicenda è sempre quella della circolazione dei verbali “secretati” di Piero Amara sulla fantomatica inesistente “loggia Ungheria”, che vennero consegnati dal pm di Milano Paolo Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, il quale poi ne rivelò il contenuto a vari colleghi consiglieri ed anche al senatore del M5S, Nicola Morra. Tra i consiglieri del precedente plenum del Csm ai quali Davigo informò sul contenuto dei verbali compare proprio Cascini, il quale da procuratore aggiunto a Roma si era occupato in varie vicende dell’ avv. Amara, in particolare nell’indagine sulle sentenze “pilotate” al Consiglio di stato.
L’ex magistrato ora in pensione Piercamillo Davigo attualmente a processo dinnanzi al Tribunale di Brescia per rispondere dell’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, si rivolse proprio a Giuseppe Cascini chiedendogli un giudizio sull’attendibilità o meno di Amara. Cascini senza porsi alcun problema soddisfò la richiesta di Davigo , rispondendo su Amara che “Probabilmente tutto quello che ha detto è vero”. Cascini anziché segnalare all’autorità giudiziaria la possibile violazione del segreto d’ufficio, nonostante la contrapposizione correntizia al Csm, assunse le vesti di influente consigliere di Davigo, ed è stato proprio per questi comportamenti che il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Roma Nicolò Marino aveva chiesto ai pm di Roma, nella sua ordinanza, di valutare se indagare ed avviare un procedimento penale nei confronti di Giuseppe Cascini per “omessa denuncia“.
Sicuramente il fascicolo su di lui sarà trasferito alla Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, competente sull’operato ed ipotesi di reato eventualmente commesse dai magistrati in servizio negli uffici giudiziari della Capitale. Il rientro di Giuseppe Cascini a piazzale Clodio creerà una situazione fortemente imbarazzante, anche perchè il trasferimento degli atti a suo carico a Perugia, non appianerà tutti i possibili conflitti giudiziari. Infatti la Procura di Roma ha aperto anche un altro procedimento (sempre in relazione ai famigerati verbali di Amara) nei confronti della segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto per rivelazione di segreto.
Ci sono poi da valutare anche gli aspetti della vicenda giudiziaria che ha travolto l’ex magistrato e presidente dell’ ANM Luca Palamara, che cojnvolge anche Giuseppe Cascini in quanto i due magistrati hanno notoriamente sempre avuto uno stretto rapporto confidenziale e di amicizia, a seguito anche della reciproca esperienza dal 2008 al 2012 ai vertici dell’Associazione nazionale magistrati, Palamara come presidente e Cascini come segretario . Resta quindi poco credibile l’ipotesi che un magistrato dell’esperienza di Giuseppe Cascini in tutti quegli anni non si sia accorto di nulla sulla “lottizzazione” spesso “politicizzata” delle nomine tra le correnti, emersa dalla valanga di messaggi acquisiti dal Gico della Guardia di Finanza di Roma, l’interno dello smartphone di Palamara.
Come questo giornale ha pubblicato e documentato ( insieme ai colleghi del quotidiano La Verità), Giuseppe Cascini nell’ottobre 2018, inviò un messaggio a Luca Palamara chiedendogli se era possibile ottenere un biglietto gratis per il figlio per assistere a una partita della Roma allo stadio Olimpico. Mentre Cascini, in qualità di componente del Csm, aveva diritto a un posto gratis nella tribuna autorità del Coni, il figlio sicuramente non poteva vantare alcun diritto del genere. Ma Cascini invece di comprare correttamente un biglietto per il figlio come fanno tutte le persone normali, si rivolse a Palamara, chiedendogli anche un contatto utile a cui rivolersi successivamente per richiedere ulteriori biglietti “omaggio”. E nei giorni scorsi, il comitato direttivo centrale dell’Anm proprio per questa vicenda, dopo l’istruttoria dei probiviri, ha deliberato di sanzionare con la “censura” Giuseppe Cascini.
Giuseppe Cascini inoltre ritroverà alla procura di Roma suo fratello minore, Francesco (molto apprezzato dall’avvocatura romana della Capitale per la propria estrema riservatezza) , che riveste il ruolo di sostituto procuratore a piazzale Clodio. Sempre nelle chat dell’inchiesta della Procura di Perugia sono venuti alla luce i numerosi messaggi scambiati nel 2017 da Francesco Cascini con Luca Palamara per autopromuovere la propria nomina a sostituto procuratore, e anche l’impegno dell’allora consigliere del Csm Giuseppe Cascini per favorire la nomina di suo fratello. Su quella nomina, Palamara informò via chat lo stesso Cascini senior: “Ora in terza Commissione a difendere tuo fratello”. E subito dopo: “Francesco ok”. E Giuseppe Cascini gli rispose “Grazie Luca”. Se umanamente tutto ciò è comprensibile resta da chiedersi dove fosse finita in quell’occasione l’etica e la “verginità” professionale di cui i componenti della corrente di Area si autoreferenziano da sin troppo tempo. Come i fatti comprovano, inutilmente !
Incredibilmente nonostante tutte queste vicende, per il “nuovo” plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, dove le correnti interne continuano a prosperare nonostante il tentativo di riforma dell’ ex Guardasigilli Cartabia, il magistrato Giuseppe Cascini può tornare a rivestire tranquillamente un ruolo così importante come quello di procuratore aggiunto di Roma, mentre Luca Palamara è stato espulso dalla magistratura. Si può chiamare “giustizia” quella che giudica su vicende pressochè analoghe e collegate applicando due pesi e due misure ? Ai politici che rappresentano nei due rami parlamentari il popolo italiano, ed ai nostri lettori, lasciamo ogni giudizio e valutazione. Noi ricordando un vecchio consiglio di Indro Montanelli ci tappiamo il naso.
Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” martedì 5 dicembre 2023.
Quattro anni di peripezie giudiziarie, e a momenti quasi ci si ritrova al punto di partenza su «Loggia Ungheria». Perché il giudice dell’udienza preliminare milanese Guido Salvini rinvia sì a giudizio per calunnia, come atteso, l’ex avvocato esterno dei processi ambientali Eni, Piero Amara, imputandogli di aver falsamente dichiarato alla Procura di Milano nel dicembre 2019-gennaio 2020 che 66 importanti politici, alti magistrati, generali, boiardi di Stato e persino cardinali aderissero a una associazione segreta interferente con la Pubblica Amministrazione (denominata «loggia Ungheria») […].
Ma, a sorpresa, […] appone una inusuale postilla al verbale dell’udienza di ieri, con la quale trasmette alla Procura copia degli atti come per sollecitare indagini ulteriori a suo avviso sinora incomplete «con particolare ma non esclusivo riferimento a quanto riferito da Amara in merito a» i magistrati «Lucia Lotti, Luigi De Ficchy e Francesco Saluzzo; e con riserva di valutazione, anche nel caso di eventuale acquisizione dell’elenco degli aderenti che si troverebbe a Dubai, se il contesto descritto sia continuazione della disciolta associazione P2 o espressione\estensione del cosiddetto sistema Palamara oggetto di procedimenti a Roma e a Perugia».
Insomma, ad avviso di Salvini ancora non si sarebbe chiarito […] se esistesse e cosa fosse davvero l’entità evocata da Amara. Come parti civili al processo dal 2 febbraio 2024 potranno chiedergli i danni ad esempio l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, due ex comandanti della GdF (Giorgio Toschi e l’ora presidente di Eni Giuseppe Zafarana), l’ex presidente della Cassazione, Gianni Canzio, e del Csm, Michele Vietti. Giuseppe Calafiore è stato invece assolto «per non aver commesso» autocalunnia […].
Piero Amara rinviato a giudizio per calunnia sulla fantomatica Loggia Ungheria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Dicembre 2023
La settimana scorsa Amara è stato già rinviato a giudizio in un’altra vicenda connessa ai suoi interrogatori un merito alla loggia Ungheria ed al complotto Eni: a seguito della richiesta dei pm Stefano Civardi e Monia Di Marco la Gip Angela Minerva del Tribunale di Milano lo ha mandato a processo, per rispondere dell’accusa di avere prima del 17 febbraio 2020 filmato in Procura con una microcamera nascosta il 25 gennaio 2020, consegnandone dopo almeno una pagina dei propri allora segretissimi verbali su "loggia Ungheria" e "Eni" al suo sodale Vincenzo Armanna.
Il giudice delle udienze preliminari Guido Salvini del Tribunale di Milano, ha rinviato a giudizio l’avvocato Piero Amara, ex consulente esterno dei processi ambientali Eni, ritenendolo responsabile del reatro di calunnia , chiamandolo a rispondere di aver dichiarato falsamente nel 2019-2020 alla Procura di Milano che 66 importanti politici, alti magistrati, gerarchie militari, funzionari pubblici di vertice e persino cardinali, avrebbero aderito a una associazione segreta (denominata “loggia Ungheria“) che andava ritenuta interferente con la pubblica amministrazione , fra quelle vietate dal 1982 dopo lo scandalo della loggia massonica P2 dalla legge Anselmi.
Al processo contro Amara, potranno partecipare fra le parti offese come parti civili e chiedergli un risarcimento danni, l’ex presidente e l’ex procuratore generale della Cassazione, Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo, l’ex presidente del Consiglio superiore della magistratura Michele Vietti, parecchi ex consiglieri Csm, l’avvocato ex ministro della Giustizia Paola Severino, l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, due ex comandanti generali della Guardia di Finanza Giorgio Toschi e Giuseppe Zafarana attualmente presidente dell’ Eni ), l’ex presidente di Autostrade per l’Italia spa Giancarlo Elia Valori, il procuratore generale uscente di Torino Francesco Saluzzo, il procuratore di Bologna Giuseppe Amato, il procuratore aggiunto di Roma Lucia Lotti, e circa trentina di rappresentanti delle istituzioni.
L’ingresso agli uffici della Procura di Milano
Vi sono anche delle parti offese che sinora hanno scelto invece di non intervenire nel giudizio come gli eredi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il cardinale Pietro Parolin segretario di Stato del Vaticano, l’ex ministro della Giustizia Nitto Palma, l’ex presidente del Csm Giovanni Legnini, il giudice costituzionale Filippo Patroni Griffi, l’ex presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, l’ex comandante dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, l’ex procuratore capo di Perugia Luigi De Ficchy e l’ ex giornalista, ora intermediario in grandi affari Luigi Bisignani.
Un stralcio del fascicolo per calunnia è stato trasferito per competenza sulle toghe in servizio a Milano, come il magistrato parte offesa Claudio Galoppi, alla Procura di Brescia che due settimane fa ha deciso di di archiviare Amara, sostenendo che l’aver Amara fatto soltanto il nome del magistrato come facente parte dell’associazione segreta, senza attribuirgli ulteriori dettagli o condotte, di per sé non bastasse a integrare il reato di calunnia. Il magistrato Galoppi (ex Csm ed ex consigliere giuridico del ministro casellati, quando era presidente del Senato) ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione, che a questo punto verrà valutata da un Gup.
Il Gup Guido Salvini del Tribunale di Milano
Dal verbale dell’udienza emerge che il giudice Salvini ha deciso di trasmettere alla Procura copia degli atti sollecitando ulteriori indagini che a suo avviso sono al momento incomplete “con particolare ma non esclusivo riferimento a quanto riferito da Amara in merito ai magistrati Lucia Lotti, Luigi De Ficchy e Francesco Saluzzi; e con riserva di valutazione, anche nel caso di eventuale acquisizione dell’elenco degli aderenti che si troverebbe a Dubai, se il contesto descritto sia continuazione della disciolta associazione P2 o espressione\estensione del cosiddetto sistema Palamara, oggetto di procedimenti a Roma e a Perugia”. Secondo il Gup Salvini non si sarebbe ancora chiarito (nonostante le archiviazioni di Perugia e le indagini di Milano) se e cosa fosse davvero l’associazione evocata da Amara.
Gli altri processi di Amara per le sue calunnie
E’prossima a conclusione davanti al gip Christian Mariani del Tribunale di Milano l’altra udienza preliminare sul cosiddetto “complotto Eni”, che vede Piero Amara come principale tra gli imputati di “associazione a delinquere” finalizzata a deviare il corso dei procedimenti milanesi, calunniando l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il suo braccio destro Claudio Granata, contro i quali Amara aveva fabbricato delle chat false, che il pm Paolo Storari aveva scoperto nel 2020 ed indicato inutilmente a lungo ai propri vertici della procura milanese.
La settimana scorsa Amara è stato già rinviato a giudizio in un’altra vicenda connessa ai suoi interrogatori un merito alla loggia Ungheria ed al complotto Eni: a seguito della richiesta dei pm Stefano Civardi e Monia Di Marco la Gip Angela Minerva del Tribunale di Milano lo ha mandato a processo, per rispondere dell’accusa di avere prima del 17 febbraio 2020 filmato in Procura con una microcamera nascosta il 25 gennaio 2020, consegnandone dopo almeno una pagina dei propri allora segretissimi verbali su “loggia Ungheria” e “Eni” al suo sodale Vincenzo Armanna. Tutto ciò avveniva almeno due mesi prima della consegna dal pm Paolo Storari all’ ormai ex consigliere Csm Piercamillo Davigo avvenuta nell’aprile 2020 dei verbali in formato “Word” e privi di firme, 8-12 mesi prima dell’invio anonimo dei verbali ai giornalisti de La Repubblica e del Fatto Quotidiano .
Vincenzo Armanna
Mentre Amara è accusato di rivelazione di segreto, Armanna, che il 17 febbraio 2020 aveva poi sventolato quella pagina ai pm Pedio e Storari, è stato rinviato a giudizio per aver calunniato (indicandolo falsamente come chi gliela avesse passata) il funzionario di polizia Filippo Paradiso, in passato distaccato presso la segreteria dell’ex capo di gabinetto Matteo Piantedosi (quando ministro dell’Interno Matteo Salvini), ora Milinistro dell’ Interno, ed offrendosi come collaboratore gratuito dell’ex presidente del Senato Elisabetta Casellati che dopo un paio di mesi lo rispedì a casa.
Gli organigrammi inventati a tavolino da Amara della fantomatica Loggia Ungheria, vennero fatti trovare in un ispezione della sua cella, mentre si trovava detenuto in carcere dalla Procura di Potenza alla quale l’avvocato-faccendiere siciliano aveva incredibilmente rifiutato gli arresti domiciliari, cercando di utilizzare la procura lucana per acquisire degli atti di altre procure. Redazione CdG 1947
(ANSA mercoledì 15 novembre 2023) - Per la procura di Milano devono essere mandati a processo Piero Amara e il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore imputati per calunnia e autocalunnia il primo e solo per autocalunnia il secondo per la vicenda della cosiddetta fantomatica loggia Ungheria. A ribadire la richiesta di rinvio a giudizio sono stati oggi i pm di Milano Stefano Civardi e Roberta Amadeo nel corso dell'udienza preliminare che si sta celebrando davanti al gup Guido Salvini, nella quale delle 65 parti offese una quarantina si sono costituite parti civili.
Prima della discussione dei pubblici ministeri, Amara ha reso dichiarazioni spontanee riproponendo la sua tesi difensiva e attaccando il pm Paolo Storari già finito nel mirino in alcune sue interviste. L'avvocato siciliano ha spiegato in aula che, è la sintesi, le dichiarazioni da lui rese agli inquirenti milanesi non erano insinuazioni ma spunti che erano ritenuti credibili.
E che le indagini sono poi "abortite" dopo che il caso è finito sulla stampa in seguito alla consegna dei verbali da parte di Storari all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Una volta rese pubbliche le sue affermazioni, ha detto in sostanza Amara, e trasmessi gli atti a Perugia (il gip ha poi archiviato, ndr) non era più possibile indagare perché tutti sapevano tutto. L'ex avvocato esterno di Eni, dopo che hanno parlato una serie di legali delle parti civili, ha annunciato che renderà altre dichiarazioni il 21 novembre, giorno in cui proseguirà l'udienza.
Amara nei suoi verbali aveva parlato di una presunta associazione segreta di cui avrebbero fatto parte esponenti del mondo della politica, della magistratura, delle forze dell'ordine e dell'imprenditoria (ora tutti calunniati), tra cui l'ex ministro Paola Severino, l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti l'allora generale della Gdf e ora presidente di Eni Giuseppe Zafarana e il generale di corpo d'armata e attualmente capo di gabinetto del ministro della Difesa Tullio Del Sette.
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” mercoledì 15 novembre 2023.
Loggia Ungheria double face. Sì, è calunnia (per la Procura di Milano). No, non è calunnia (per la Procura di Brescia). Il problema è identico: già il solo aver tacciato Tizio di appartenere alla «loggia Ungheria», pur senza dettagliare il ruolo dell’aderente o attribuirgli specifici illeciti, fa sì che l’ex avvocato esterno Eni Piero Amara abbia commesso reato di calunnia ai danni di Tizio?
Sì, ritiene da mesi la Procura di Milano, dove […] i pm […] anche ieri su questa base chiedono al giudice Guido Salvini di rinviare a giudizio Amara appunto per calunnia nei 5 verbali al procuratore aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari nel 2019-2020: e cioè per aver falsamente indicato 66 ministri, comandanti di GdF e Carabinieri, alti magistrati o cardinali quali «soggetti disponibili a dare un contributo alla realizzazione dello scopo dell’associazione segreta Ungheria», vietata dalla legge Anselmi.
No, risponde invece ora la Procura di Brescia, che a sorpresa chiede l’archiviazione della calunnia contestata ad Amara nei confronti del magistrato Claudio Galoppi: l’ex componente del Consiglio superiore della magistratura, uno dei leader della corrente Magistratura Indipendente, già consigliere della presidente del Senato Elisabetta Casellati, è da poco ritornato in servizio in Corte d’Appello a Milano, ed ecco perché è Brescia a occuparsene come parte offesa della possibile calunnia.
Amara […] aveva infatti dichiarato di aver visto il nome di Galoppi nella mitologica (e mai consegnata) lista […], ma — argomenta ora a Brescia il pm Donato Greco con il procuratore Francesco Prete — non aveva fornito altri dettagli, aggiungendo anzi di non averlo mai conosciuto: e a non consentire di ravvisare in Amara la calunnia di Galoppi sarebbe […] proprio questa estrema genericità. Che però caratterizza anche le chiamate in causa di non pochi fra i 66 indicati come aderenti all’associazione segreta da Amara. […]
La parabola dell'ex avvocato dell'Eni. Rivelazione di segreto d’ufficio, Amara da gola profonda a plurimputato seriale. L’ex avvocato esterno dell’Eni il prossimo 30 gennaio comparirà davanti al Tribunale di Milano con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 29 Novembre 2023
Da ‘gola profonda‘ delle procure di mezza Italia a plurimputato seriale. È l’incredibile parabola dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara che il prossimo 30 gennaio comparirà davanti alla decima sezione penale del Tribunale di Milano con l’accusa, questa volta, di rivelazione di segreto d’ufficio. L’episodio riguarda alcuni dei verbali con le sue dichiarazioni, tra la fine del 2019 e inizio 2020, alla procuratrice aggiunta Laura Pedio e al pm Paolo Statori, in cui parlò per la prima volta della esistenza della loggia Ungheria. A rinviarlo a giudizio dopo la richiesta del pm Stefano Civardi è stata ieri la giudice dell’udienza preliminare Laura Minerva. Secondo l’accusa l’avvocato siciliano, che si è sempre proclamato innocente, durante la rilettura dei verbali li avrebbe fotografati, pur sapendo che erano atti coperti dal segreto istruttorio, per poi consegnarli a Vincenzo Armanna, ex manager di Eni, poi licenziato dalla società. Quest’ultimo “al fine di garantire l’impunità” ad Amara, difeso dal suo storico legale, l’avvocato Salvino Mondello, per la divulgazione di questi verbali avrebbe accusato falsamente un appartenente alla Polizia di Stato negli interrogatori fatti sia con i magistrati milanesi e poi con quelli di Perugia. Anche per Armanna la giudice ha disposto il rinvio a giudizio.
Le fotografie dei verbali erano poi entrate nella disponibilità del Fatto quotidiano che nel settembre del 2021 ne aveva pubblicato a puntate ampi stralci, tutt’ora consultabili sul sito del giornale. La pubblicazione di questi verbali aveva determinato un terremoto politico senza precedenti. Amara aveva riempito pagine e pagine di verbali dove, da un lato accusava l’amministratore dell’Eni Claudio De Scalzi ed il predecessore Paolo Scaroni di aver pagato tangenti al governo nigeriano per la concessione di un importante giacimento petrolifero, e dall’altro aveva svelato l’esistenza di questa fantomatica loggia super segreta chiamata Ungheria il cui scopo sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei magistrati al Consiglio superiore della magistratura ed aggiustare i processi nei confronti degli ‘amici’. Il sodalizio di tipo paramassonico, non riconosciuto dal Grande Oriente d’Italia e poi rivelatosi un tarocco, secondo Amara era composto da alti magistrati, generali, comandanti dell’Arma dei carabinieri e della guardia di finanza, stimati professionisti.
Storari, verbalizzati i nomi di circa 65 ipotetici appartenenti, era pronto ad iscriverli nel registro degli indagati per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete, ed era intenzionato ad effettuare i dovuti riscontri, anche mediante intercettazioni telefoniche. Il desiderio di fare le indagini da parte di Storari si era però subito scontrato con l’inerzia dei suoi capi, ad iniziare dall’allora procuratore Francesco Greco. Amara all’epoca, come detto, era il principale teste d’accusa contro i vertici dell’Eni, poi tutti assolti con formula piena, e non poteva rischiare l’accusa di “calunnia”. Storari, allora, cercò una sponda con Piercamillo Davigo, in quel momento componente del Csm. Rassicurato da quest’ultimo che non sarebbe andato incontro ad alcuna conseguenza, Storari gli consegnò così i verbali.
I due magistrati verranno a loro volta indagati per rivelazione del segreto d’ufficio. Assolto Storari, Davigo sarà invece condannato ad oltre un anno di prigione. Ed a proposito della loggia Ungheria, sempre ieri a Milano davanti al gup Guido Salvini era attesa l’esito dell’udienza preliminare in cui Amara e il co-imputato Giuseppe Calafiore sono accusati, a vario titolo, di calunnia e autocalunnia nei confronti delle 65 persone che avrebbero fatto parte della loggia Ungheria. La decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio dei pm Civardi e della collega Roberta Amadeo dovrebbe arrivare il prossimo lunedì. “È una questione di principio che sta prima e più in alto di ogni aspettativa risarcitoria”. – ha dichiarato il professor Pieremilio Sammarco, difensore dell’ex comandante generale della guardia di finanza Giorgio Toschi, uno dei soggetti tirati in ballo da Amaro come appartenente alla loggia Ungheria. “L’onore e la reputazione di chi ha ricoperto i più alti vertici dello stato sono beni che appartengono non solo al singolo, ma anche alle istituzioni. La nostra costituzione nel processo è diretta ad ottenere una condanna da parte dell’autorità giudiziaria nei confronti di chi discredita inventando falsità verso chi ha servito con onore e per una vita intera lo Stato”, ha aggiunto Sammarco. Paolo Pandolfini
La resa dei conti per l’ex avvocato esterno dell’Eni. La parabola di Amara, da pentito a calunniatore contro alte personalità dello Stato. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 29 Ottobre 2023
Da pentito ritenuto super affidabile a calunniatore inattendibile.
È l’incredibile parabola dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, secondo la Procura di Milano. Di cui è stato principale teste nel processo contro i vertici del colosso petrolifero, accusati di corruzione internazionale e poi tutti assolti in primo grado. Amara è ora davanti al gip milanese Guido Salvini, che dovrà decidere il mese prossimo se rinviarlo a giudizio o meno per il reato di calunnia nei confronti di una quarantina di alte personalità dello Stato, politici, magistrati, generali dei carabinieri e della guardia di finanza.
Ieri Salvini ha respinto il tentativo estremo di Amara di spostare il processo da Milano a Brescia essendo fra le parti un magistrato in servizio nel capoluogo lombardo e la cui posizione è stata già stralciata per competenza territoriale.
L’ex avvocato dell’Eni, originario di Siracusa, davanti ai pm di Milano aveva riempito pagine e pagine di verbali dove, da un lato accusava l’amministratore dell’Eni Claudio De Scalzi ed il predecessore Paolo Scaroni di aver pagato tangenti al governo nigeriano, e dall’altro svelava l’esistenza di una loggia super segreta chiamata Ungheria per pilotare le nomine dei magistrati al Consiglio superiore della magistratura ed aggiustare i processi.
Le verità di Amara furono prese per ‘oro colato’ dai magistrati che imbastirono la maxi inchiesta contro l’Eni ipotizzando il pagamento della tangente più grande mai pagata di una azienda italiana: oltre un miliardo di euro.
Che fosse un falso pentito era, però, storia nota.
Nel 2015, Amara aveva presentato alla procura di Trani degli esposti nei confronti di Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e preside della Luiss, Roberto De Sanctis, un imprenditore vicino a Massimo D’Alema.
Secondo Amara, i tre avevano commesso negli anni una serie indefinita di reati, fra cui anche il traffico illecito internazionale di rifiuti.
Le accuse, rivelatesi infondate, erano costate ad Amara, poi reo confesso, una imputazione per calunnia e corruzione in atti giudiziari.
Reati che l’ex avvocato esterno dell’Eni avrebbe voluto patteggiare anche con il consenso della procura di Potenza, dove nel frattempo era stato incardinato il procedimento.
Sulla strada del patteggiamento Amara aveva però trovato la gip lucana Teresa Reggio la quale, nel rigettare l’istanza, aveva usato parole di fuoco contro di lui.
“Per Amara il crimine rappresenta un valido ed alternativo sistema di vita”, aveva scritto nell’ordinanza di rigetto la Gip, sottolineandone la “personalità negativa, desumibile anche dalla modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza”.
Quello di Potenza sarebbe stato l’ennesimo patteggiamento per Amara dopo quelli di Catania, Roma e Messina.
Amara ha patteggiato complessivamente ben 42 reati con poco meno di cinque anni di reclusione. Un dato più unico che raro.
Solamente a Roma, con sentenza del febbraio 2019, aveva patteggiato 2 anni e 6 mesi per 20 reati che spaziavano dalla corruzione in atti giudiziari, all’emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti.
A Messina, a febbraio del 2020, aveva patteggiato 19 reati, fra cui associazione per delinquere, falso ideologico, minaccia a pubblico ufficiale, induzione indebita a dare utilità, oltre alla solita corruzione in atti giudiziari, con una pena di un anno e 2 mesi. Il successivo mese di novembre, in Corte di Assise di Roma, aveva poi patteggiato un mese di reclusione per favoreggiamento personale.
In questi anni nei confronti del ‘pentito’ Amara le Procure interessate (Roma, Messina, Perugia e Milano) non hanno però mai proceduto al sequestro del suo patrimonio frutto di condotte illecite. In questo senso il solo sacrificio richiesto ad Amara è stato il versamento volontario di poche migliaia di euro in occasione di questi numerosi patteggiamenti e che non hanno certo inciso sul suo ingente e milionario patrimonio che le indagini avevano fatto emergere.
Che fossero collaborazioni tarocche lo affermò egli stesso quando venne interrogato a giugno 2021 a Potenza. Parlando di un suo coimputato, Giuseppe Calafiore, Amara disse che “quando fu sentito, un po’ come me, raccontò della favola di Pinocchio”.
La resa dei conti per Amara è arrivata. Paolo Pandolfini
Una vicenda che potrebbe scatenare un classico cortocircuito giudiziario. Talpe nell’Anac? Un’inquietante circostanza emersa durante l’interrogatorio di Piero Amara. A novembre del 2021, davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, Amara viene interrogato. In quel momento, emerge il dettaglio contenuto nei verbali dell’interrogatorio depositato nelle scorse settimane entro il processo milanese relativo alla Loggia Ungheria, fissato dal giudice Guido Salvini per il prossimo 21 settembre. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Settembre 2023
L’avvocato Piero Amara avrebbe avuto delle ‘talpe’ all’interno dell’Anac, l’Authority anticorruzione.
L’inquietante circostanza è emersa durante il suo interrogatorio, a novembre del 2021 davanti al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, e depositato nelle scorse settimane nel processo milanese della Loggia Ungheria fissato dal giudice Guido Salvini per il prossimo 21 settembre.
Amara, già testimone chiave nel processo Eni-Nigeria dove erano accusati di corruzione internazionale i vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe, ad iniziare dall’ad Claudio De Scalzi, poi tutti assolti, era stato interrogato personalmente da Cantone interessato ad approfondire i contorni di questa Loggia paramassonica. Per tale procedimento il procuratore di Perugia, a luglio dello scorso anno, ha chiesto l’archiviazione, ad oggi però ancora al vaglio del gip Angela Avila.
Nella lunghissima deposizione di Amara emergono particolari relativi alle precedenti funzioni svolte dallo stesso Cantone in qualità di presidente dell’Anac e che, laddove fosse accertata come vera, imporrebbe di certo un nuovo processo per rivelazione di segreto. Amara, infatti, ha riferito a Cantone di avere intrapreso, in occasione del contenzioso contro la multinazionale francese di servizi energetici Siram Veolia, che ha visto lungamente impegnato l’amico e cliente Ezio Bigotti, imprenditore torinese nel settore del Facility management, una iniziativa che ha riguardato “anche il suo ufficio”, riferito cioè al precedente incarico di Cantone a capo dall’Anac.
Davigo condannato: nessuna intenzione di salvare la magistratura, la missione era screditare il “massone” Ardita
Il contenzioso si era risolto con una sentenza del Consiglio di Stato che aveva consentito alla Exitone di Bigotti di portare via alla Siram l’appalto Consip per la fornitura di energia elettrica destinata ai palazzi della Pubblica amministrazione della Lombardia. Un ruolo da protagonista lo avrebbe avuto il giudice amministrativo Riccardo Virgilio, indagato dai pm di Roma, per aver ottenuto da Amara una maxi tangente da 750 mila euro (denaro finito su un conto corrente svizzero). Stando ai documenti, infatti, sull’appalto ottenuto dalla Siram, Exitone faceva ricorso al Tar. La decisione era favorevole a Siram, così come anche i pareri dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e di Anac. Al Consiglio di Stato, però, tutto cambiò in quanto Virgilio emise la sentenza con cui decise di togliere alla Siram l’appalto per la gestione del servizio integrato energia per la Pubblica amministrazione in Lombardia.
In un passaggio del lungo interrogatorio Cantone, forse incautamente, chiede ad Amara: “Su Bigotti, ad un certo punto ci ha accennato di questo rapporto che ha avuto questa società francese con cui sono entrati …eh, che è successo?”. Ed Amara da par suo, risponde sibillino: “Questo riguarda anche il suo ufficio … però non ne vorrei parlare, perché là c’è stata una guerra a sua insaputa … non ne voglio parlare … dunque, eh … tra Siram e Bigotti …. va beh chiaro che lei ricorderà, nel suo ufficio si discuteva … eh, però vi posso dire a onor di tutti, che non è un caso che io vi sto parlando che era certo che non si poteva parlare con lei, … ma io non sto … ma le aggiungo io, perché guardi … ha tirato fuori il discorso … noi comunque un’interlocuzione l’avevamo da dentro”. Sicché Cantone, preso in contropiede, chiede: “E chi era?” E Amara risponde: “E’ un suo caro amico … e lui gliene parlo perché non era … va beh! Ha capito chi era. Okay? Bene”. Cantone a questo punto anticipa Amara ed esclama: “Michele Corradino”. E Amara conferma: “Michele Corradino (giudice del Consiglio di Stato).
Amara poi descrive sommariamente le tappe della vicenda, sottolineando che Corradino è comunque una persona per bene. “Però a ottenere più contatti possibili all’interno dell’ufficio in cui lei aveva un ruolo istituzionale … però il canale era … vede come funziona il canale?”. Amara, dopo di ciò, sembra voler lanciare un ulteriore messaggio perché dichiara: “Quando volevano ricattare Ielo (Paolo, procuratore aggiunto a Roma che aveva fatto l’indagine ndr), Ielo perché lo volevano ricattare? … Tu Ielo stai indagando contro Bigotti su denuncia della Siram e peraltro noi avevamo evidenza di un rapporto economico che c’era stato tra il fratello di Ielo e la Siram, quindi era una bomba… no, io voglio essere chiaro, io a Michele Corradino nessuno ha dato mai soldi né altro, proprio nel modo più assoluto!”. Amara conclude con il botto: “Naturalmente dall’interno, non so se è vero, non so se … ogni qualvolta c’era una riunione all’interno del vostro ufficio, ci davano delle notizie, delle informazioni ….”.
In altri termini, dal colloquio a due Amara-Cantone traspare la consapevolezza di quest’ultimo di avere avuto, quando era presidente dell’Anac un vice che avrebbe fornito notizie delle riunioni interne, sia all’avvocato siciliano che ai suoi sodali per poi, verosimilmente, studiare le ‘contromosse’. Con l’augurio che Corradino smentisca quanto prima, l’accaduto potrebbe determinare l’apertura di una indagine fatta da Cantone procuratore della Repubblica di Perugia sull’Anac presieduta da egli stesso e dal suo vice Corradino. Un classico cortocircuito giudiziario. Paolo Pandolfini
Loggia Ungheria, archiviazione attesa da oltre un anno. La richiesta di archiviazione da parte di Cantone risale ad oltre un anno fa, per la precisione al 5 luglio del 2022. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 13 agosto 2023
Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, in attesa della decisione della gup Angela Avila, ha “autorizzato” il deposito degli atti contenuti nel fascicolo sulla loggia Ungheria. Era stato il procuratore di Milano Marcello Viola, lo scorso 5 maggio, a chiedere al collega se fosse possibile il loro deposito nel procedimento per calunnia a carico dell'ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara. L'udienza preliminare è già stata fissata davanti al gup milanese Guido Salvini per il mese prossimo. La richiesta di archiviazione da parte di Cantone per la loggia Ungheria, invece, risale ad oltre un anno fa, per la precisione al 5 luglio del 2022. Con un provvedimento di quasi 200 pagine, l'ex capo dell'Anac aveva stabilito che la loggia non fosse mai esistita, anche se c'erano stati tentativi per condizionare le nomine da parte del Consiglio superiore della magistratura e quelle dei vertici di enti, istituzioni e società pubbliche. Si era trattato, però, di azioni, alcune andate a buon fine, «ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati». Nulla, quindi, che potesse essere in qualche modo legato all’attività di una loggia segreta e paramassonica.
L'avvocato siciliano, ritenuto fino a quel momento attendibile dai magistrati, aveva spiegato ai pm di Milano alla fine del 2019 le modalità di affiliazione alla loggia, facendo i nomi di alcune decine di suoi componenti. Le indagini avevano poi subito una battuta d'arresto e il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo, aveva chiesto “aiuto” a Piercamillo Davigo, allora componente del Csm. I due magistrati erano infatti convinti della bontà del racconto di Amara. Dopo varie traversie, il fascicolo era quindi arrivato a Perugia anche se la Procura del capoluogo umbro non avrebbe potuto essere competente in quanto il predecessore di Cantone, Luigi De Ficchy, figurava negli elenchi di Amara. La sua posizione era stata stralciata ed inviata a Firenze. Il racconto di Amara non presentava «inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante», ma «l'esistenza dell’associazione non è adeguatamente riscontrata. Gli episodi raccontati di Amara - puntualizzò dunque Cantone - non sono indicativi dell'esistenza di un'associazione segreta: interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della magistratura, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine dei vertici di enti, istituzioni e società pubbliche, che pure possono ritenersi avvenute, sono risultati ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una “loggia”».
Amara, poi, avrebbe ritrattato in maniera inspiegabile alcune delle sue affermazioni iniziali, «sminuendo il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2», arrivando anche ad ipotizzare la creazione di una organizzazione parallela. Cantone aveva fatto infine lo stralcio di alcune posizioni, trasmettendo i nomi dei magistrati coinvolti nella ormai ex loggia Ungheria al procuratore generale della Cassazione per verificare eventuali profili disciplinari nelle loro condotte. A questo punto non resta che attendere la decisione della gup Avila. Il grande tempo decorso lascia prefigurare che si tratterà di un provvedimento molto ben motivato.
La ricostruzione. Loggia Ungheria, perché Perugia non archivia su Amara? Paolo Pandolfini su Il Riformista il 2 Agosto 2023
A distanza di un anno dalla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Perugia del procedimento sulla ‘Loggia Ungheria’, la giudice del capoluogo umbro Angela Avila non ha ancora espresso le proprie determinazioni.
La tempistica non può non sollevare più di un interrogativo vista la decisione, la scorsa settimana, della Procura di Milano di chiedere invece il rinvio a giudizio per l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara ritenendo false e calunniose le sue dichiarazioni a proposito di questa fantomatica loggia paramassonica.
Secondo l’avvocato siciliano, sentito dai pm milanesi che indagavano sull’Eni alla fine del 2019, della loggia avrebbero fatto parte circa 90 persone tra politici, ex ministri, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, imprenditori e liberi professionisti. La Procura di Perugia, ricevuti i verbali di Amara dai colleghi di Milano, aveva quindi proceduto soltanto nei confronti di coloro che si era ‘autoaccusati’ di farvi parte, come lo stesso Amara ed il suo socio Giuseppe Calafiore.
Ciò comportò anzitutto l’impossibilità di fare indagini nei confronti dei non iscritti (perquisizioni, tabulati, intercettazioni) ponendosi così nella impossibilità di ottenere risultati di rilievo e dunque di dimostrare anche soltanto la reciproca conoscenza di coloro che venivano indicati come appartenenti a questa loggia.
Dalle oltre 160 pagine della richiesta emerge infatti che il solo atto di indagine effettuato dalla Procura di Perugia è consistito nella perquisizione, con esito negativo, di Calafiore effettuata dopo che costui si era rifiutato di rispondere all’interrogatorio del 6 maggio 2021. Un atto a distanza di anni dalle dichiarazioni di Amara.
Il fascicolo era stato delegato al Gico della guardia di finanza di Roma (che viene citato ben 19 volte), il reparto che aveva fatto le indagini nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara e che – come si è scoperto in dibattimento – aveva avuto rapporti con lo stesso Amara al quale consegnava le informative che lo riguardavano prima ancora che fossero depositate in Procura, finanche avvisandolo in anticipo delle perquisizioni che dovevano essere effettuate.
Il nome di Palamara, cosa alquanto singolare, nella richiesta di archiviazione ricorre per 111 volte. Quasi in ogni pagina. Eppure, Amara e Calafiore avevano sempre escluso che Palamara facesse parte della Loggia Ungheria. Ciononostante, le indagini furono indirizzate ancora una volta nei confronti dell’ex consigliere del Csm all’evidente scopo di attribuire, seppur ad intermittenza, credibilità ad Amara che all’epoca era il suo principale teste di accusa nell’inchiesta per corruzione, poi conclusasi con un patteggiamento per il reato di traffico d’influenze, che terremotò Palazzo dei Marescialli.
E veniamo, dunque, a Milano. I pubblici ministeri perugini avevano concluso la loro richiesta di archiviazione disponendo, appunto, la trasmissione degli atti “alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano perché valuti se siano o meno configurabili i delitti di cui agli artt. 368 e 369 cp”. L’articolo 369 codice penale incrimina l’autocalunnia. Ciò significa che i pm non credevano ad Amara quando accusava sé stesso e però gli credevano quando accusava Palamara.
Amara – la circostanza merita di essere ricordata – era stato esaminato in dibattimento al processo di Perugia nei confronti di Palamara e dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava per rivelazione del segreto, tutt’ora in corso, il 7 ottobre 2022.
Nonostante ripetute richieste la Procura di Perugia non ha rilasciato ai loro difensori copia della richiesta di archiviazione del procedimento sulla Loggia Ungheria. I legali di Palamara e Fava non hanno quindi potuto utilizzare questo atto nel controesaminare Amara pur essendo in possesso di quasi tutti i giornalisti dal precedente mese di luglio e pur in presenza di una indagine nei confronti di un cancelliere della Procura di Perugia che lo avrebbe illecitamente divulgato.
Potranno essere questi i motivi, allora, perché la giudice Avila si sta prendendo tutto questo tempo prima di decidere se archiviare o meno il fascicolo? Paolo Pandolfini
(ANSA sabato 29 luglio 2023) Con l'accusa di aver calunniato 65 persone, tra cui esponenti del mondo della politica, della magistratura, delle forze dell'ordine e dell'imprenditoria, sostenendo fossero affiliati a una presunta loggia segreta chiamata Ungheria, la Procura di Milano ha chiesto il processo per l'ex avvocato esterno di Eni Piero Amara e per il suo collaboratore Giuseppe Calafiore.
La richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pm Stefano Civardi e dal procuratore Marcello Viola è finita sul tavolo del gup Guido Salvini che ha fissato l'udienza preliminare per il prossimo 21 settembre. Amara nei 5 interrogatori resi ai pm milanesi nell'ambito dell'indagine sul cosiddetto falso complotto Eni aveva accusato "falsamente" se stesso e una serie di alti funzionari dello Stato fino a porporati, di far parte dell'associazione segreta "che si proponeva quale continuazione della sciolta" P2, che dagli accertamenti è risultata essere inesistente.
Tra le parti offese, oltre a Silvio Berlusconi, morto il 12 giugno scorso, ci sono l'ex ministro Paola Severino, l'allora generale della Gdf e ora presidente di Eni Giuseppe Zafarana, gli ex vice presidenti del Csm Michele Vietti e Giovanni Legnini, gli ex magistrati Livia Pomodoro e Giovanni Canzio, e pure il cardinale Piero Parolin. Il promotore dell'associazione sarebbe stato il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra deceduto nel maggio 2017. La vicenda della loggia Ungheria e dei verbali di Amara due anni fa sono stati al centro di uno scontro tra magistrati che ha investito non solo le 'toghe' di Milano ma anche quelle di tutta Italia.
Caso Amara, il giudice sconfessa i pm siciliani. La sentenza del gip di Reggio: un errore la prescrizione che ha salvato l'ex legale Eni. Felice Manti il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.
La prescrizione à la carte per l'ex legale di Eni Pietro Amara è un errore da matita blu che mette in imbarazzo la magistratura siciliana e quella calabrese, con un pizzino anche per la Procura di Milano. Lo scrive in una sentenza il gip di Reggio Calabria Giovanna Sergi. Si riapre dunque il vaso di Pandora sull'avvocato siciliano che, con le sue dichiarazioni giudicate inattendibili sulla sedicente loggia Ungheria, ha devastato la residua credibilità della Procura milanese, ha inguaiato Piercamillo Davigo per la rivelazione dei suoi verbali secretati e ha innescato un redde rationem dentro la magistratura.
Se Amara è stato considerato credibile è perché il Tribunale di Messina ne ha involontariamente ripulito l'immagine grazie a una strana «doppia prescrizione» decisa (in buona fede, secondo la Sergi) da un pm e di un gip siciliano per due imputati di uno stesso reato «in concorso»: uno è stato stralciato e prescritto (Amara), l'altro è stato rinviato a giudizio, prosciolto ma rischia di dover risarcire in sede civile l'attuale consigliere Csm Marco Bisogni, al tempo pm a Siracusa, con 100mila euro.
Vittima di questa vicenda kafkiana è l'ex procuratore aggiunto di Catania Giuseppe Toscano. Secondo la versione di Amara ai pm messinesi nell'aprile 2018 fu lui a convincere l'allora procuratore di Siracusa Ugo Rossi (che ha sempre negato qualsiasi pressione) a scippare a Bisogni nel giugno 2012 una delicatissima inchiesta proprio contro l'ex legale Eni per darla a Giancarlo Longo, ex pm oggi fuori dalla magistratura dopo la condanna a cinque anni (già scontati) per aver manipolato alcuni processi in cambio di denaro.
Messina non solo crede alla versione di Amara, lo «grazia» con una prescrizione anticipata a ottobre 2018 anziché a gennaio 2020 e chiede il rinvio a giudizio solo di Toscano. Grazie a questa archiviazione per avvenuta prescrizione la credibilità di Amara è rimasta intatta, tanto che altre quattro Procure diverse si sono bevute le sue mezze verità, compresa Milano.
Sulla vicenda la Procura di Reggio Calabria, competente su Messina, dovrebbe aprire delle indagini esplorative. Questo è quello che chiede al procuratore capo Giovanni Bombardieri l'avvocato di Toscano, Santa Monteforte. «Il pm e il gip hanno sbagliato ma senza intenzionalità», scrive infatti la Sergi. Buona fede o meno, la violazione dell'articolo 161 del codice penale c'è, e andrebbe contestata. L'errore su Amara ha «premiato» l'ex legale Eni, sarà casuale ma l'ha avvantaggiato, mentre è costato caro a Toscano. Eppure il gip reggino non vede reati, neanche l'abuso d'ufficio, e chiede l'archiviazione.
Al Giornale l'ormai ex procuratore Toscano sottolinea, non senza amarezza: «Perché sul sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro deve essere disposta l'imputazione coatta e la stessa cosa non vale per un pm e un gip?». Chissà che il ministro della Giustizia Carlo Nordio non decida di mandare gli ispettori sulle rive dello Stretto per capirci qualcosa in più.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” il 16 giugno 2023.
È arrivato il primo conto (salato) per il faccendiere Piero Amara. Il 14 giugno l’avvocato siracusano è stato condannato a pagare circa 400.000 euro: 280.000 euro di danni morali e reputazionali («non patrimoniali») all’Eni, 22.500 euro di spese processuali (valori aumentati del 20% «in considerazione della delicatezza delle questioni trattate») e intorno ai 100.000 euro (questa la previsione del giudice) per la pubblicazione della sentenza su sei giornali a tiratura nazionale. La cifra di 280.000 euro rappresenta quasi il massimo delle sanzioni previste dall’Osservatorio della giustizia civile di Milano per le condotte diffamatorie e calunniose.
È la prima volta che un Tribunale, in questo caso quello di Terni, certifica e quantifica il danno causato dal legale siciliano all’Eni (rappresentata dagli avvocati Sara Biglieri e Luca De Benedetto dello studio Dentons). Per multinazionale del Cane a sei zampe, però, è solo una prima piccola soddisfazione. Infatti l’azienda aveva chiesto 30 milioni di euro di risarcimento per le oscure manovre ai propri danni messe in campo dall’ex consulente.
Il giudice ha riconosciuto un ristoro molto inferiore perché ha ammesso solo una modesta parte del materiale depositato dai difensori dell’Eni e cioè quello consegnato all’inizio del procedimento. Restano fuori dal giudizio tutte le questioni emerse a partire dal luglio 2019, a partire dalle chat e dalle vicende denunciate per esempio dal pm Paolo Storari a proposito dell’inchiesta Ungheria.
Adesso la compagnia petrolifera citerà nuovamente l’ex consulente utilizzando le carte che non sono state prese in considerazione a Terni per ottenere un risarcimento milionario. Di certo la giustizia civile è stata più rapida di quella penale, anche se resta da capire se non sia comunque arrivata troppo tardi. Infatti a partire dal 2018, quando Amara è stato arrestato la prima volta, nessuno ha mai sequestrato le sostanze dello spregiudicato professionista che ha patteggiato diversi anni di reclusione per plurimi reati e che, nel frattempo, avrebbe trasferito i suoi averi a Dubai. Quindi al momento la vittoria è più formale che sostanziale, ma conferma che l’Eni è stata danneggiata da Amara e non sua complice, sebbene in un episodio risalente a quasi due lustri fa.
Il giudice Tommaso Bellei lo ha condannato per «aver redatto ovvero fatto redigere e depositare, nell’anno 2015, una serie di esposti anonimi alla Procura della Repubblica di Trani e, poi, una denuncia alla Procura della Repubblica di Siracusa - al cui interno poteva contare sulla complicità del pm dottor Giancarlo Longo - nei quali veniva denunciato un preteso “complotto”», di cui avrebbero fatto parte due membri del cda (Luigi Zingales e Karina Litvack) e un alto manager dell’Eni (Umberto Vergine), ma anche «avvocati d’affari, giornalisti e servizi di sicurezza stranieri».
Un «complotto» «asseritamente finalizzato a destabilizzare i vertici di Eni, ma, per stessa successiva ammissione dell’Amara, in realta inesistente». Il giudice ha sottolineato come il pluripregiudicato siciliano abbia «pacificamente ammesso di aver redatto gli esposti e la denuncia», riuscendo a patteggiare a Messina e cercando di farlo ripetutamente a Potenza.
Per difendersi dall’azione civile Amara, inventore dell’ormai tristemente famosa loggia Ungheria che ha messo nei guai anche l’ex campione di Mani pulite Piercamillo Davigo, non ha saputo fare altro che sostenere che gli esposti presentati a Trani e a Siracusa in realtà li aveva fatti su mandato e nell’interesse del dirigente di Eni Claudio Granata e dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, che era imputato a Milano per corruzione internazionale nel procedimento Opl 245. Coerentemente a detta tesi Amara ha chiesto al giudice di far pagare ai due manager l’eventuale risarcimento in sua vece.
Bellei non ha accolto l’istanza sostenendo che il presunto «mandato» è rimasto indimostrato e che comunque anche «se provata, tale circostanza avrebbe solo l’effetto di una chiamata in correità di tali soggetti nelle condotte delittuose in questione, senza che ciò possa comportare un’esclusione della responsabilità di Amara».
Nel corso del giudizio di Terni l’Eni ha dimostrato, anche con la produzione di due video del 28 luglio e del 18 dicembre 2014 registrati all’interno degli uffici dell’imprenditore Ezio Bigotti molto legato ad Amara, che l’avvocato siracusano, con la presentazione delle false denunce, perseguiva non tanto un accreditamento presso i vertici dell’Eni, ma un proprio interesse personale che la Procura di Milano, indagando sul caso, ha dimostrato consistere nell’obiettivo realizzato di acquisire uno stabilimento petrolchimico in Iran.
In conclusione il giudice ha ritenuto che «le calunnie e le diffamazioni poste in essere da Amara» e «la loro diffusione a mezzo stampa costituiscono un danno ingiusto», dal momento che tra le denunce dell’avvocato e «la lesione dell’onore della reputazione dell’Eni e, quindi, la considerazione esterna che la collettività le riconosce, sussiste un evidente nesso di causalità».
Infatti gli esposti hanno fatto «apparire, all’esterno, l’esistenza di una lotta “intestina” tra i soggetti di vertice (dell’Eni, ndr) bramosi di ottenere il controllo – gestionale – della societa stessa» e hanno consegnato «alla collettività un quadro desolante e un’immagine estremamente negativa di una delle maggiori società commerciali italiane».
Un danno aggravato dal «risalto mediatico» dato al cosiddetto «complotto» attraverso le agenzie di stampa e dall’«aurea di veridicità» attribuito ai «fatti riportati negli esposti» ottenuti grazie all’«utilizzo dell’autorità giudiziaria». […]
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 24 maggio 2023.
La Procura Generale di Cassazione chiede alla sezione disciplinare del Csm di rinviare a giudizio […] il pm milanese Paolo Storari, nel penale assolto in via definitiva per la consegna nell’aprile 2020 al membro Csm Piercamillo Davigo dei verbali di Amara su «loggia Ungheria», a suo avviso non trattati con adeguata urgenza dai capi per separare vero dal falso.
Oltre all’aver «leso la riservatezza dei soggetti indicati da Amara come appartenenti alla loggia» con la consegna di atti segreti «a un terzo non autorizzato», e oltre all’aver «violato le norme di trasmissione al Csm», i pg Cuomo e Perelli […] contestano a Storari la «grave scorrettezza verso il procuratore Francesco Greco e la vice Laura Pedio» di averli «accusati con Davigo di inerzia nelle indagini, pur avendo omesso» prima «qualsiasi formalizzazione di dissenso»; e così di aver «chiesto a Davigo di condizionare l’attività del suo ufficio», poi «continuando a lavorare con Pedio come se nulla fosse».
Il quarto addebito è, allorché un giornalista del Fatto Quotidiano nell’ottobre 2020 portò in Procura i verbali ricevuti anonimi, «non essersi astenuto» dalle indagini «pur avendo un conflitto di interesse per esser colui che quei verbali aveva consegnato a Davigo».
I rilievi ricalcano il quadro di 2 anni fa […], quando le risposte del pm indussero il Csm a respingerne il trasferimento d’urgenza chiesto dall’allora pg di Cassazione Giovanni Salvi.
Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 24 maggio 2023.
L’ex avvocato esterno Eni Piero Amara ha commesso calunnia, nei 5 interrogatori segreti resi ai pm di Milano dal 6 dicembre 2019 all’11 gennaio 2020, già solo con l’indicare falsamente 66 persone quali «soggetti disponibili a dare un contributo alla realizzazione dello scopo dell’associazione segreta denominata Ungheria», anche se poi a quelle persone in molti casi non aggiunse e non attribuì specifiche condotte illecite: la scelta processuale della Procura di Milano è infatti di ritenere che già così li abbia tacciati del reato previsto dalla legge Anselmi 17/1982, prospettando la loro (falsa) adesione a un gruppo che a suo dire «condivideva gli ideali dello Stato liberale garantista contro uno Stato giustizialista» ma «si proponeva quale continuazione della sciolta P2» e infine «si risolveva in un sostanziale scambio di favori» per «collocare persone di fiducia in posti-chiave decisi in luoghi diversi da quelli istituzionali».
[…] i pm […] contestano ad Amara la calunnia di 66 persone: nomi per la prima volta desecretati totalmente dai pm nei verbali di Amara, che il pm Paolo Storari consegnò nell’aprile 2020 al consigliere Csm Piercamillo Davigo per smuovere l’asserita stasi dei suoi capi nel discernere tra eventuali verità e possibili falsità. Tutti questi 66 saranno «parti offese» della calunnia imputata ad Amara.
Alla loggia Ungheria, che Amara «indicava promossa dal deceduto procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra, dall’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, dall’avvocato messinese Enrico Caratozzolo e dall’imprenditore Giancarlo Elia Valori», per i pm sono stati altrettanto calunniosamente da lui additati come partecipi ad esempio un presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi); un segretario di Stato del Vaticano, sorta di primo ministro del Papa (il cardinale Piero Parolin); due giudici costituzionali (l’ex presidente della Consulta Annibale Marini e l’ex presidente del Consiglio di Stato e attuale giudice costituzionale Filippo Patroni Griffi);
in Cassazione tre presidenti della Corte (Gianni Canzio, e gli scomparsi Giorgio Santacroce e Vincenzo Carbone) e un procuratore generale (Pasquale Ciccolo); due già ministri della Giustizia (il magistrato e poi politico Nitto Palma e l’avvocato Paola Severino); due comandanti generali dei carabinieri (Tullio Del Sette e Emanuele Saltalamacchia);
due comandanti generali della Guardia di Finanza (Giorgio Toschi e Giuseppe Zafarana neopresidente di Eni); due presidenti del Csm (Vietti e Giovanni Legnini) con altri nove ex consiglieri (Ardita, Balducci, Ferri, Leone, Mancinetti, Pontecorvo, Racanelli, Virga, più Galoppi che essendo intanto tornato di ruolo a Milano è stato stralciato a Brescia); due ex presidenti di Tribunali (Livia Pomodoro a Milano e Vincenzo Cardaci a Catania); due procuratori generali (Francesco Saluzzo a Torino e Franco Cassata a Messina);
sette procuratori della Repubblica (Luigi De Ficchy a Perugia, Giuseppe Amato a Bologna, Francesco Paolo Giordano e Dolcino Favi a Siracusa, Vincenzo D’Agata a Catania, Lucia Lotti a Gela, più Tinebra); il mediatore Luigi Bisignani; un ex parlamentare (Denis Verdini); un ex presidente di Confindustria Sicilia (Antonello Montante).
Per i pm, inoltre, Vietti è calunniato anche perché Amara gli ha attribuito abuso d’ufficio e corruzione adombrando una sua richiesta di una somma di denaro «in favore dell’avvocato Alberto Goffi e di altri avvocati a lui vicini quali Giuseppe Conte (ex presidente del Consiglio) e Guido Alpa» in relazione a un procedimento disciplinare al Csm; e una sua richiesta all’imprenditore Fabrizio Centofanti di far «nominare Conte-Alpa-Caratozzolo avvocati della società Acqua Marcia come condizione per ottenere l’omologa del concordato».
Chiusa l’inchiesta per calunnia sui nomi della presunta Loggia Ungheria. Al momento delle iscrizione dei fascicoli da parte dei pm di Milano Stefano Civardi e Monia Di Marco le parti offese erano 64. Il Dubbio il 23 maggio 2023
La procura di Milano ha chiuso le indagini nei confronti di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e autore dei verbali sulla presunta “Loggia Ungheria”, e del suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore per calunnia continuata e in concorso sulla presunta lista di appartenenti della fantomatica loggia massonica di cui avrebbero fatto parte alcune decine di esponenti di rilievo delle istituzioni, della magistratura e delle forze dell'ordine.
Al momento della iscrizione dei fascicoli da parte dei pm di Milano Stefano Civardi e Monia Di Marco le parti offese erano 64, con la chiusura alcune posizioni sono state stralciate per diffamazione, altre sono state trasmesse per competenza territoriale ad altre procure. Tra i venti fascicoli (alcuni iscritti sulla base di denunce, altri d'ufficio) risultano, ad esempio, come vittima di calunnia, l'ex ministro della Giustizia e avvocato Paola Severino, l'ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, l'allora comandante generale della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana, l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, l'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita e il procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo.
(ANSA il 23 maggio 2023) Con l'accusa di calunnia e autocalunnia la Procura di Milano ha chiuso le indagini nel confronti di Piero Amara e del suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore per il lungo elenco di nomi di persone, tra cui parecchi esponenti del mondo delle istituzioni, economia e forze dell'ordine, che a loro dire avrebbero fatto parte della fantomatica Loggia Ungheria. Da quanto si è saputo, oggi ai due indagati è stato notificato l'avviso di conclusione dell'inchiesta in vista della richiesta di processo.
I pm milanesi Stefano Civardi e Monia Di Marco, con l'aggiunto Maurizio Romanelli, inizialmente avevano iscritto Amara e Calafiore anche per diffamazione, capitolo questo ora stralciato. Originariamente le parti offese erano 64 e ora sono diminuite, in quanto alcune sarebbero state solo diffamate e quindi separate dal fascicolo principale, e altre sono state trasmesse per competenza ad altre Procure.
Tra i calunniati ci sono, per esempio, l'ex Guardasigilli Paola Severino, l'ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, l'ex vice presidente del Csm Michele Vietti, l'ex consigliere sempre del Csm Sebastiano Ardita, l'ex primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, l'ex comandante generale della Guarda di Finanza Giuseppe Zafarana, il Procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo e Antonello Racanelli, magistrato in servizio a Roma.
A inizio luglio dello scorso anno, la Procura di Perugia aveva chiesto l'archiviazione del procedimento sulla fantomatica "Loggia Ungheria", scaturito proprio dagli ormai noti verbali resi nel capoluogo lombardo dall'avvocato Piero Amara nell'ambito dell'inchiesta sul cosiddetto "falso complotto Eni". Indagine e verbali finiti al centro pure del noto scontro tra le toghe milanesi, con inchieste e processi scaturiti a Brescia.
La Procura di Perugia, poi, ha trasmesso tutti gli atti ai colleghi milanesi che hanno indagato appunto sulle ipotesi di "calunnia e autocalunnia" che si sarebbero verificate nel capoluogo lombardo, dove l'ex legale esterno di Eni aveva reso quelle dichiarazioni. Si era già saputo in passato che erano almeno una ventina i fascicoli aperti a Milano sulle presunte calunnie.
Fascicoli, poi, in gran parte riuniti in un unico procedimento chiuso oggi in vista della richiesta di processo per Amara e Calafiore. Amara e Calafiore, tra l'altro, sono già a giudizio a Milano per una presunta calunnia nei confronti dell'ex componente del Csm Marco Mancinetti. E ad ottobre sempre per Amara, Calafiore, per l'ex manager dell'Eni, poi licenziato, Vincenzo Armanna e altri si aprirà l'udienza preliminare sul presunto "falso complotto". Amara è imputato pure in un'altra udienza preliminare in corso per una presunta rivelazione dei suoi verbali già nel febbraio 2020.
Verbali di Amara, lo strano caso dei tre telefoni “spariti”... A non avere più il cellulare non solo Greco e Salvi, ma anche Davigo: «L’ho rivenduto». Simona Musco su Il Dubbio il 24 maggio 2023
C’è un fatto che accomuna l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, l’ex procuratore generale Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco. Un fatto che sicuramente è solo una coincidenza, ma che non può passare inosservato tanto è curioso. E il fatto è che tutti e tre, a vario titolo coinvolti nella vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta (e inesistente) loggia Ungheria, hanno avuto problemi con i rispettivi telefoni. Quegli stessi telefoni che potevano fornire dettagli sulle comunicazioni che hanno caratterizzato l’ennesimo terremoto interno alla magistratura italiana.
Facciamo un passo indietro: lo scorso anno, quando Brescia ha sentito Salvi e Greco come persone informate sui fatti nel procedimento a carico di Davigo - ora a processo a Brescia per rivelazione di segreto - i pm chiedono di controllare i loro cellulari per appurare il contenuto delle comunicazioni sul caso Amara. Ma prima Greco e poi Salvi hanno dichiarato di aver perso il telefonino. Sul punto, sentiti come testi in aula, i due ex magistrati hanno puntato il dito contro la stampa, che li avrebbe trattati come furbetti: «Ci hanno definito (me e Salvi, ndr) due malavitosi che hanno fatto sparire i telefoni…», aveva dichiarato Greco, mentre l’ex pg della Cassazione ha espresso indignazione per il fatto che «sia stata messa in dubbio la mia onestà e la mia sia stata presentata come una perdita dolosa».
Il caso era già singolare così, ma martedì, nel corso della sua lunga deposizione, anche Davigo ha dichiarato di non essere più in possesso del cellulare sul quale c’erano i messaggi scambiati con Paolo Storari, che gli consegnò i fogli word con le dichiarazioni di Amara. «Il telefono si è rotto ed io l’ho cambiato», in quanto avrebbe «preso umidità», ha dichiarato l’ex pm di Mani Pulite, tanto da far sorridere Fabio Repici, avvocato dell’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita, parte civile al processo. «Quindi è capitato pure a lei?», ha chiesto il legale, domanda alla quale Davigo ha risposto con tranquillità: «Sì, però non c’erano messaggi che non si potessero ostentare». Oggi no, certamente, dato che il telefono non esiste più. «Se l'avessi saputo (dell’indagine, ndr) lo avrei conservato gelosamente», ha aggiunto l’ex magistrato, che invece lo avrebbe «rivenduto» ad un centro.
«Ha rivenduto il telefono ai cinesi?», ha chiesto dunque sbigottito il presidente del collegio Roberto Spanò. «È un concessionario di Apple - ha spiegato Davigo -, l'ho fatto riparare, ma mi hanno detto “guardi, se lei ne compra uno nuovo facciamo questo sconto e le compriamo quello vecchio”». Una permuta, insomma. Ma Davigo non ha chiesto di fare alcun backup dei messaggi. «Uno come lei…», si è chiesto Spanò. Il backup in realtà c’è, «ma solo delle cose importanti», dunque non dei messaggi scambiati con chi gli aveva annunciato una nuova possibile catastrofe all’interno della magistratura, notizia che, a suo dire, lo aveva sconvolto tanto era grave. E non esiste più - o meglio, non esiste più il contenuto - nemmeno la pen drive sulla quale Storari gli consegnò quei fogli word, che «probabilmente è stata riutilizzata».
Ma non solo. A non essere più attiva, con ogni probabilità, è anche la mail dalla quale inviò al suo indirizzo di posta del ministero della Giustizia - «che non ho più, ovviamente» - i file con le dichiarazioni di Amara. «Quindi non c'è un modo per avere un documento che fissi la data» di consegna dei verbali, ha fatto notare Repici, secondo cui Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni molto prima di aprile 2020. «C'è stato uno smarrimento di prove per sua legittima volontà», ha contestato l’avvocato.
La "doppia" prescrizione inguaia il pm e salva Amara. Un magistrato contro la Procura di Messina che ha risparmiato l'ex legale Eni: "Ha leso i miei diritti". Felice Manti il 9 gennaio 2023 su Il Giornale.
A questa disastrata giustizia mancava solo la prescrizione a la carte. Gli strascichi del caso Amara arrivano sulle sponde dello Stretto e finiscono sulla scrivania del gip Giovanna Sergi, a Reggio Calabria. Sede competente per stabilire come è stato possibile che due imputati per uno stesso reato «in concorso» a Messina abbiano avuto due trattamenti diversi: uno stralciato e prescritto, l'altro rinviato a giudizio e infine prosciolto.
A finire nel tritacarne Amara è l'ex procuratore aggiunto di Catania Giuseppe Toscano. Tra il 23 e il 24 aprile del 2018 l'ex legale Eni racconta ai pm di Messina che nel giugno 2012 il magistrato avrebbe convinto l'allora procuratore di Siracusa Ugo Rossi (che ha sempre negato qualsiasi pressione) a coassegnare al pm Giancarlo Longo un procedimento per alcuni reati finanziari commessi da Amara su cui già indagava il pm siracusano Marco Bisogni, oggi eletto al Csm nelle fila di Unicost. Il metodo di Longo, in realtà, era quello dei fascicoli «a specchio» che il magistrato si auto-assegnava per monitorare le indagini dei colleghi, legittimando così la richiesta di copia di atti altrui, come denunciarono otto pm di Siracusa nel 2016. Ma per i pm messinesi guidati allora da Maurizio De Lucia (oggi a Palermo), che da tempo ingaggiava con Siracusa una velenosa battaglia di carte bollate, Amara e Toscano avrebbero agito in concorso per condizionare un'indagine. Prove del condizionamento di Rossi non ce ne sarebbero, ma Bisogni si costituisce parte civile e reclama 100mila euro di danni a Toscano, prendendo per buone le rivelazioni di Amara. Il pm Longo, nel frattempo, viene arrestato, ammette di aver ricevuto soldi per manipolare alcuni processi, patteggia cinque anni già tutti scontati e lascia la toga.
Dopo la richiesta di rinvio a giudizio di aprile, a ottobre ecco la repentina strambata: in pochi giorni i magistrati messinesi chiedono il rinvio a giudizio di Toscano e per Amara l'archiviazione per avvenuta prescrizione, una manna di cui l'ex avvocato dirà di non sapere nulla ma che ne ha salvaguardato la credibilità. Perché dopo aver frequentato la terra di mezzo tra Procure, studi legali e presunte logge massoniche, nel frattempo Amara aveva deciso di vuotare il sacco in altre quattro Procure diverse. Raccontando insieme balle, verità e mezze verità. Lo ammette lui stesso, autodefinendosi un «Pinocchio» davanti ai magistrati di Potenza. Qualcuno l'aveva capito prima, qualcun altro gli ha creduto fin troppo. Vedi la Procura di Milano, che aveva puntato su Amara come testimone chiave nel maxi processo milanese Eni-Nigeria. Con l'assoluzione di tutti gli imputati Milano si è definitivamente giocata la sua reputazione, il neo procuratore Marcello Viola ha tutta l'intenzione di riguadagnarsela ma ci vorrà del tempo.
E Toscano? A lui non resta che chiedere lumi sulle troppe stranezze di cui è stato vittima, nonostante il proscioglimento. «Come fa Amara a disconoscere la prescrizione di cui ha beneficiato?», chiede al gip il magistrato a riposo. Come è stato possibile che, a parità di reato commesso nella stessa data, la prescrizione maturi in due date diverse - ottobre 2018 per Amara, giugno 2020 per Toscano - al netto di eventuali periodi sospensivi o interruttivi che agli atti non risulterebbero? Secondo Toscano (che ha già fatto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo) il mancato deposito degli atti sulla arbitraria prescrizione di Amara ha privato la sua difesa di una prova decisiva relativa alla sua protestata estraneità ai fatti, proprio perché l'accusatore era stato premiato con un provvedimento che non gli spettava. Al gip di Reggio l'ardua sentenza, al Guardasigilli Carlo Nordio le necessarie verifiche.
Con lui reati prescritti prima del previsto. Il caso Amara, l’avvocato super pentito che fa impazzire i pm con le “favole di Pinocchio”. Paolo Comi su Il Riformista il 1 Gennaio 2023
Quando c’è di mezzo l’avvocato Piero Amara, il super pentito per almeno cinque Procure italiane, anche il calendario va in tilt ed i reati si prescrivono prima del previsto. A denunciare uno dei tanti trattamenti di ‘favore’ nei confronti di Amara da parte dei magistrati è stato Giuseppe Toscano, ex procuratore aggiunto di Catania. L’udienza per decidere se archiviare o meno l’esposto dell’ex toga siciliana è in programma davanti al gip di Reggio Calabria, competente per territorio, il prossimo 9 gennaio.
Tutto inizia ad aprile del 2018 quando Amara viene interrogato dai pubblici ministeri di Messina, alla presenza anche dell’aggiunto di Roma Paolo Ielo e di Laura Pedio, all’epoca vice del procuratore di Milano Francesco Greco. Amara, in particolare, racconta che a giugno del 2012, grazie proprio all’intercessione di Toscano, si riuscì a convincere Ugo Rossi, all’epoca procuratore di Siracusa, a coassegnare al pm Giancarlo Longo un procedimento nei suoi confronti per reati finanziari, fino a quel momento trattato dal solo pm siracusano Marco Bisogni. La Procura di Messina, il successivo mese di luglio, chiuse allora le indagini nei confronti di Amara e Toscano, ritenuti responsabili del reato di abuso d’ufficio.
Qualche mese più tardi, ad ottobre, ecco però arrivare due decisioni opposte: per Amara i magistrati messinesi chiedevano l’archiviazione per estinzione del reato a seguito di intervenuta prescrizione, con due anni d’anticipo, mentre per Toscano il rinvio a giudizio. Bisogni si costitutiva quindi parte civile, reclamando 100mila euro di danni a Toscano per aver ‘patito’ la coassegnazione con Longo, e, interrogato, riferiva che Amara sul punto era stato credibile. Longo, nel frattempo, veniva arrestato e si dimetteva dalla magistratura a seguito di un patteggiamento a cinque anni, dopo aver ammesso di aver ricevuto soldi da Amara per aggiustare i processi d’interesse. Rossi, invece, nel suo interrogatorio smentiva categoricamente di essere mai stato avvicinato dal suo aggiunto.
Eletto al Csm alle ultime elezioni nelle fila di Unicost, la corrente di centro, Bisogni si è poi costituito parte civile anche a Perugia nei confronti questa volta di Luca Palamara, accusato di aver pilotato quando era Palazzo dei Marescialli un disciplinare contro di lui per fare un favore al solito Amara. Il bello, però, arriva ad aprile dello scorso anno quando, sempre a Siracusa, in altro processo a suo carico, interrogato sull’anomala prescrizione conseguita a Messina, Amara l’ha prontamente disconosciuta, affermando di non saperne nulla.
E due mesi più tardi, a giugno del 2021, questa volta davanti ai magistrati di Potenza nell’ennesimo processo a suo carico, affermando di avere raccontato le “favole di Pinocchio” ai pm di Milano ed anche a quelli di Messina. Non c’è che dire per colui che è stato il testimone chiave nel maxi processo milanese Eni-Nigeria nei confronti dei vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe, poi tutti assolti, e che continua ad essere portato in palmo di mano dai pm che non hanno mai pensato in tutti questi anni di sequestrargli un solo euro del suo immenso patrimonio illecitamente accumulato. Paolo Comi
Le Logge Occulte.
Le Palesi.
I Santi sociali.
La Gladio.
Mafia e logge occulte.
In Lotta fra loro.
Bilderberg.
Alleanza Universale Massonica.
Massoneria, nella faida della Gran loggia d’Italia il tribunale di Roma dà ragione alla fazione perdente. In piena festività del solstizio d’estate il verdetto dà ragione al gruppo radiato e torto agli attuali dirigenti accusati di irregolarità. I vincitori adesso vogliono rientrare e la seconda obbedienza d’Italia rischia di piombare nel caos. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 23 Giugno 2023
Il solstizio d’estate è, di norma, un momento festivo per le obbedienze massoniche. Non per la Gran loggia d’Italia degli Alam (antichi liberi accettati muratori) di palazzo Vitelleschi a Roma, ex palazzo del Gesù. Il 17 giugno il tribunale civile di Roma ha sentenziato per mano di Stefano Iannaccone la sconfitta dell’attuale gruppo dirigente nella sua contesa con un gruppo di fuoriusciti guidati da Stefano Ciannella, già Gran Priore dunque la carica numero tre nella gerarchia della seconda obbedienza italiana per numero di iscritti dopo il Grande oriente d’Italia (Goi).
Gli inizi della lunga vicenda risalgono al 2016 fa. Dopo una serie di tensioni sulla gestione delle risorse dell’ordine, l’allora Sovrano Gran Commendatore degli Alam Antonio Binni aveva finito per radiare il gruppo di oppositori guidato da Ciannella che, a sua volta, aveva radiato Binni e contestato duramente l’attuale vertice dell’ordine, oggi guidato dal delfino di Binni, il commercialista romano Luciano Romoli rieletto a dicembre del 2022.
La sentenza di giugno del tribunale ribadisce un altro verdetto emesso sempre dal giudice Iannaccone alla metà di febbraio che riconosceva l’illegittimità della radiazione del gruppo Ciannella e respingeva l’impugnazione di Romoli del provvedimento di Ciannella. L’avvocato napoletano, in questi anni di battaglie legali, ha organizzato una sua obbedienza che ha fatto centinaia di proseliti. Ma da parte sua non c’è alcuna intenzione di mollare la presa su un contenzioso che potrebbe riaprirgli le porte degli Alam e del prestigioso Supremo consiglio del 33° e ultimo grado del Rsaa (rito scozzese antico e accettato).
«Di fatto», dice Ciannella all’Espresso, «queste due sentenze decapitano l’attuale vertice. Qualora l’attuale Gran Maestro Romoli non intendesse farsi da parte e adeguarsi alle decisioni del Tribunale, continuando ad amministrare e a spendere in nome dell’associazione senza averne titolo, saremmo costretti a chiedere un intervento della magistratura».
È abbastanza evidente che il risultato di questa lunga, e piuttosto tipica per l’ambiente, faida tra fratelli può avere un effetto destabilizzante per l’obbedienza in crisi di vocazioni benché gli Alam possano vantare iniziati come Gabriele D’Annunzio, Hugo Pratt, Totò, Aldo Fabrizi e il principe Giovanni Alliata di Montereale, uno dei protagonisti della guerra fredda e della strategia della tensione in Italia nel secondo dopoguerra.
I circa seimila Alam, che hanno perso almeno un migliaio di iscritti a causa dello scontro con il gruppo Ciannella, sono da tempo in difficoltà nei confronti dei fratelli-rivali del Goi guidato dal giornalista senese Stefano Bisi nonostante l’apertura della Gran Loggia d’Italia alle donne che, a tutt’oggi, il Goi non ammette se non sotto la dicitura Stelle d’Oriente riservata a mogli, sorelle e figlie dei liberi muratori di pieno diritto.
Ma il gruppo dirigente è compatto e non arretrerà facilmente, forte di un consenso elettorale schiacciante. La battaglia fra grembiuli non sembra vicina alla fine, anche perché il patrimonio degli Alam è tutt’altro che trascurabile.
Dalla Gruber a Gentiloni: ecco chi va al Bilderberg, il meeting dell'élite globale. Focus su Intelligenza artificiale e geopolitica: tra i partecipanti al meeting annuale del Bilderberg anche Lilli Gruber e il commissario Ue Paolo Gentiloni. Roberto Vivaldelli il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I partecipanti al meeting
Intelligenza artificiale al centro del dibattito
Intelligenza artificiale, transizione energetica, conflitto russo-ucraino, contenimento della Cina e leadership statunitense: sono alcuni dei temi all'ordine del giorno del 69esimo meeting a porte chiuse del Club Bilderberg che si tiene in queste ore e fino al 21 maggio a Lisbona, in Portogallo. Vi partecipa una buona nutrita rappresentanza dell'élite globale: circa 130 personalità provenienti dal mondo della politica, della finanza, del commercio internazionale, dell'industria, da 23 Paesi al mondo. Gli incontri si svolgono, come di consueto, seguendo la Chatham House Rule: i partecipanti sono dunque liberi di utilizzare le informazioni ricevute, ma non è possibile rivelare né l'identità né indicare la fonte di tali informazioni. Per questo motivo la riunione del Bilderberg ha assunto, negli anni, un'aura di "mistero" che ha alimentato varie teorie del complotto su cuò che viene discusso in occasione del meeting organizzato dall'ominimo think-tank transnazionale. La parola chiave, dunque, è discrezione: gli invitati vi prendono parte come individui, piuttosto che a titolo ufficiale, e non viene divulgato alcun ordine del giorno dettagliato ufficiale né le discussioni sono riferibili.
I partecipanti al meeting
Se su ciò che viene detto al meeting poco o nulla è dato sapere, la lista dei partecipanti all'evento dell'influente think-tank Usa è altresì tranquillamente visionabile sul sito web. Tra gli italiani presenti troviamo Giuliano da Empoli, scrittore, presidente del think tank Volta e docente di politica comparata a Sciences Po a Parigi, l'immancabile giornalista e conduttrice di La7, Lilli Gruber, ospite fisso al meeting che quest'anno si svolge nella capitale portoghese, oltre a Marco Alverà, ex Ad di Snam, e il commissario Ue ed ex presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni. Presenti all'appuntamento, fra gli altri, anche il vicepresidente della Commissione europea Josep Borrell, lo storico Niall Ferguson, l'ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger, il primo ministro finlandese Sanna Marin e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Al di là delle varie teorie "cospirazioniste", una domanda sorge spontanea: è normale che dei rappresentanti dell'Unione europea - in questo caso della commissione - partecipino a questo tipo di incontri senza che poi dicano nulla di ciò che è stato detto? A che titolo vi partecipano?
Giunto alla sua 69a edizione, il Bilderberg Meeting è stato istituito nel 1954 per “promuovere il dialogo” tra Europa e Nord America. Circa due terzi dei partecipanti provengono dall’Europa e il resto dal Nord America. L’evento è organizzato dalla Foundation Bilderberg Meeting, che a sua volta è "governato" da un comitato direttivo. Non è prevista alcuna quota di partecipazione all’evento e gli invitati sono tenuti a farsi carico delle proprie spese di viaggio e alloggio.
Intelligenza artificiale al centro del dibattito
Alcuni dei più grandi nomi del mondo dell'intelligenza artificiale (Ai) partecipano all'evento in corso a Lisbona, tra cui diversi leader e dirigenti di aziende tecnologiche come il Ceo di OpenAI Sam Altman, quello di Microsoft Satya Nadella, il capo di Google DeepMind Demis Hassabis e l'ex Ceo di Google Eric Schmidt.
Altman ha testimoniato all'inizio di questa settimana davanti a una commissione del Senato Usa e ha invitato a regolamentare l'intelligenza artificiale, affermando che "l'intervento normativo da parte dei governi sarà fondamentale per mitigare i rischi di modelli sempre più potenti". Preoccupazioni simili espresse anche da Schmidt e che saranno affrontate dai rappresentanti dell'élite globale riunitasi in queste ore a Lisbona.
MEETING BILDERBERG 2023. Lisbona 18 - 21 Maggio 2023. Da bilderbergmeetings.org
Abrams, Stacey (USA), CEO, Sage Works Production
Achleitner, Paul M. (DEU), Chair, Global Advisory Board, Deutsche Bank AG
Agrawal, Ajay (CAN), Professor of Economics, University of Toronto
Albares, José Manuel (ESP), Minister of Foreign Affairs
Altman, Sam (USA), CEO, OpenAI
Alverà, Marco (ITA), Co-Founder, zhero.net; CEO TES
Andersson, Magdalena (SWE), Leader, Social Democratic Party
Applebaum, Anne (USA), Staff Writer, The Atlantic
Arnaut, José Luís (PRT), Managing Partner, CMS Rui Pena & Arnaut
Attal, Gabriel (FRA), Minister for Public Accounts
MANUEL BARROSO 4
Balsemão, Francisco Pinto (PRT), Chair, Impresa Group
Barbizet, Patricia (FRA), Chair and CEO, Temaris & Associés SAS
Barroso, José Manuel (PRT), Chair, International Advisors, Goldman Sachs
Baudson, Valérie (FRA), CEO, Amundi SA
Beaune, Clément (FRA), Minister for Transport
Benson, Sally (USA), Professor of Energy Science and Engineering, Stanford University
Beurden, Ben van (NLD), Special Advisor to the Board, Shell plc
Borg, Anna (SWE), President and CEO, Vattenfall AB
LUIGI DI MAIO JOSEP BORRELL
Borrell, Josep (INT), Vice President, European Commission
Botín, Ana P. (ESP), Group Executive Chair, Banco Santander SA
Bourla, Albert (USA), Chair and CEO, Pfizer Inc.
Braathen, Kjerstin (NOR), CEO, DNB ASA
Brende, Børge (NOR), President, World Economic Forum
Brink, Dolf van den (NLD), CEO, Heineken NV
Brudermüller, Martin (DEU), CEO, BASF SE
Buberl, Thomas (FRA), CEO, AXA SA
Byrne, Thomas (IRL), Minister for Sport and Physical Education
Carney, Mark (CAN), Chair, Brookfield Asset Management
Cassis, Ignazio (CHE), Federal Councillor, Federal Department of Foreign Affairs
Castries, Henri de (FRA), President, Institut Montaigne
Cavoli, Christopher (INT), Supreme Allied Commander Europe
Ceylan, Mehmet Fatih (TUR), President, Ankara Policy Center
Chhabra, Tarun (USA), Senior Director for Technology and National Security, National Security Council
Creuheras, José (ESP), Chair, Grupo Planeta and Atresmedia
Debackere, Koenraad (BEL), Chair, KBC Group NV
Deese, Brian (USA), Former Director, National Economic Council
Donohoe, Paschal (INT), President, Eurogroup
Döpfner, Mathias (DEU), Chair and CEO, Axel Springer SE
Easterly, Jen (USA), Director, Cybersecurity and Infrastructure Security Agency
Economy, Elizabeth (USA), Senior Advisor for China, Department of Commerce
Ehrnrooth, Henrik (FIN), Chair, Otava Group
Émié, Bernard (FRA), Director General for External Security, Ministry of the Armed Forces
Empoli, Giuliano da (ITA), Political Scientist and Writer, Sciences Po
Entrecanales, José M. (ESP), Chair and CEO, Acciona SA
Eriksen, Øyvind (NOR), President and CEO, Aker ASA
Ferguson, Niall (USA), Milbank Family Senior Fellow, Stanford University
Fleming, Jeremy (GBR), Former Director, GCHQ
Frederiksen, Mette (DNK), Prime Minister
Freeland, Chrystia (CAN), Deputy Prime Minister
Garijo, Bélen (DEU), Chair and CEO, Merck KGaA
Gentiloni, Paolo (INT), Commissioner for Economy, European Commission
Gonzáles Pons, Esteban (ESP), Vice Chair, European People's Party
Gosset-Grainville, Antoine (FRA), Chair, AXA
Goulimis, Nicky (GRC), Board Member and Co-Founder, Nova Credit Inc.
Griffin, Kenneth (USA), Founder and CEO, Citadel LLC
Gruber, Lilli (ITA), Anchor, La7 TV
Gürkaynak, Refet (TUR), Professor of Economics, Bilkent University
Haines, Avril D. (USA), Director of National Intelligence
Halberstadt, Victor (NLD), Professor of Economics, Leiden University
Hassabis, Demis (GBR), CEO, DeepMind
Hedegaard, Connie (DNK), Chair, KR Foundation
Hofreiter, Anton (DEU), MP; Chair Committee on European Affairs
Holzen, Madeleine von (CHE), Editor-in-Chief, Le Temps
Jensen, Kristian (DNK), CEO, Green Power Denmark
Joshi, Shashank (GBR), Defence Editor, The Economist
Kaag, Sigrid (NLD), Minister of Finance; Deputy Prime Minister
Karp, Alex (USA), CEO, Palantir Technologies Inc.
Kasparov, Garry (USA), Chair, Renew Democracy Initiative
Kieli, Kasia (POL), President and Managing Director, Warner Bros. Discovery Poland
Kissinger, Henry A. (USA), Chairman, Kissinger Associates Inc.
Koç, Ömer (TUR), Chair, Koç Holding AS
Kolesnikov, Andrei (INT), Senior Fellow, Carnegie Endowment for International Peace
Kostrzewa, Wojciech (POL), President, Polish Business Roundtable
Kotkin, Stephen (USA), Senior Fellow, Hoover Institution, Stanford University
Kravis, Henry R. (USA), Co-Chairman, KKR & Co. Inc.
Kravis, Marie-Josée (USA), Chair, The Museum of Modern Art
Kudelski, André (CHE), Chair and CEO, Kudelski Group SA
Kuleba, Dmytro (UKR), Minister of Foreign Affairs
Lammy, David (GBR), Shadow Secretary of State for Foreign Affairs, House of Commons
Leysen, Thomas (BEL), Chair, Umicore and Mediahuis; Chair DSM-Firmenich AG
Liikanen, Erkki (FIN), Chair, IFRS Foundation Trustees
Looney, Bernard (GBR), CEO, BP plc
Marin, Sanna (FIN), Prime Minister
Metsola, Roberta (INT), President, European Parliament
Micklethwait, John (USA), Editor-in-Chief, Bloomberg LP
Minton Beddoes, Zanny (GBR), Editor-in-Chief, The Economist
Moreira, Duarte (PRT), Co-Founder and Managing Partner, Zeno Partners
Moyo, Dambisa (GBR), Global Economist; Member, House of Lords
Mundie, Craig J. (USA), President, Mundie & Associates LLC
Nadella, Satya (USA), CEO, Microsoft Corporation
O'Leary, Michael (IRL), Group CEO, Ryanair Group
Orida, Deborah (CAN), President and CEO, PSP Investments
Özel, Soli (TUR), Professor, Kadir Has University
Papalexopoulos, Dimitri (GRC), Chair, TITAN Cement Group; Treasurer Bilderberg Meetings
Philippe, Édouard (FRA), Mayor, Le Havre
Pottinger, Matthew (USA), Distinguished Visiting Fellow, Hoover Institution
Pouyanné, Patrick (FRA), Chair and CEO, TotalEnergies SE
Rachman, Gideon (GBR), Chief Foreign Affairs Commentator, The Financial Times
Rappard, Rolly van (NLD), Co-Founder and Co-Chair, CVC Capital Partners
Reynders, Didier (INT), European Commissioner for Justice
Röttgen, Norbert (DEU), MP, German Bundestag
Rutte, Mark (NLD), Prime Minister
Salomon, Martina (AUT), Editor-in-Chief, Kurier
Sawers, John (GBR), Executive Chair, Newbridge Advisory Ltd.
Schadlow, Nadia (USA), Senior Fellow, Hudson Institute
Schallenberg, Alexander (AUT), Minister for European and International Affairs
Schmidt, Eric E. (USA), Former CEO and Chair, Google LLC
JENS STOLTENBERG A KIEV
Schmidt, Wolfgang (DEU), Head of the Chancellery, Federal Minister for Special Tasks
Sebastião, Nuno (PRT), Chair and CEO, Feedzai
Sikorski, Radoslaw (POL), MEP, European Parliament
Silva, Filipe (PRT), CEO, Galp
Stilwell de Andrade, Miguel (PRT), CEO, EDP
Stoltenberg, Jens (INT), Secretary General, NATO
Subramanian, Arvind (INT), Senior Fellow in International and Public Affairs, Brown University
Tellis, Ashley J. (USA), Tata Chair for Strategic Affairs, Carnegie Endowment
Thiel, Peter (USA), President, Thiel Capital LLC
Tsu, Jing (USA), Professor of East Asian Languages and Literatures, Yale University
Tugendhat, Tom (GBR), Minister of State for Security
Vadera, Shriti (GBR), Chair, Prudential plc
Vassilakis, Eftichios (GRC), Chair, Aegean Group
Waldron, John (USA), President and COO, The Goldman Sachs Group, Inc.
Wallenberg, Marcus (SWE), Chair, Skandinaviska Enskilda Banken AB
Wennink, Peter (NLD), President and CEO, ASML Holding NV
Wright, Thomas (USA), Senior Director for Strategic Planning, National Security Council
Yang, Yuan (GBR), Europe-China Correspondent, Financial Times
Yergin, Daniel (USA), Vice Chair, S&P Global
Yinanç, Barçin (TUR), Journalist, T24 News Website
DAGONEWS il 19 maggio 2023.
Il CEO di OpenAI Sam Altman unirà le forze con Microsoft e Google durante l’incontro segreto dell’élite politica e degli affari, questa settimana a Lisbona.
All’annuale Bilderberg Meeting, l’intelligenza artificiale sarà in cima all’agenda con il capo di ChatGPT che incontrerà il CEO di Microsoft Satya Nadella, il capo di DeepMind, Demis Hassabis e l’ex CEO di Google, Eric Schmidt
Ai titani della tecnologia si uniranno i pesi massimi della politica, tra cui l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg e il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba per una serie di incontri che spaziano dalle relazioni internazionali, al commercio, all’energia e alla finanza.
Complessivamente, circa 130 partecipanti provenienti da 23 paesi parteciperanno all’incontro: tra i presenti il ceo di Pfizer Albert Bourla, Bernard Looney, ceo di Bp, Patrick Pouyanne, ceo di Total.
L’evento di tre giorni, che va da giovedì a domenica, è avvolto nel mistero e, come sempre, ci saranno una serie di colloqui a porte chiusi che, secondo le regole del Chatham House, non potranno essere rivelati né potrà essere rivelata l’identità dei presenti.
Ciò ha scatenato una serie di teorie del complotto, simili a quelle lanciate contro riunioni di alto livello come il World Economic Forum di Davos, in Svizzera , da coloro che affermano che i partecipanti stanno cercando di stabilire un “nuovo ordine mondiale”. Tuttavia, gli organizzatori dell’evento affermano che la natura discreta è quella di consentire una maggiore libertà di discussione.
Cosa c’è in programma nel 2023?
Gli argomenti chiave in discussione durante l’incontro di quest’anno sono stati pubblicati dagli organizzatori, fornendo una panoramica di quelle che ritiene le questioni più urgenti:
· AI
· Sistema bancario
· Cina
· Transizione energetica
· Europa
· Sfide fiscali
· India
· Politica industriale e commercio
· NATO
· Russia
· Minacce transnazionali
· Ucraina
· leadership statunitense
Cos’è il Bilderberg?
Giunto alla sua 69a edizione, il Bilderberg Meeting è stato istituito nel 1954 per “promuovere il dialogo” tra Europa e Nord America. Oggi, circa due terzi dei partecipanti provengono dall’Europa e il resto dal Nord America, con circa un quarto di politici e il resto proveniente da altri campi.
E, come sempre, la discrezione è la parola chiave. I partecipanti prendono parte come individui singoli, piuttosto che a titolo ufficiale, e non viene divulgato alcun ordine del giorno dettagliato ufficiale né le discussioni sono riferibili.
Dago-traduzione dell’articolo di Charlie Skelton per theguardian.com il 22 maggio 2023.
Il sole portoghese ha fatto del suo meglio per far sembrare caldo e accogliente l'incontro del Bilderberg di quest'anno, ma nulla ha potuto rimuovere il freddo mortale dall'ordine del giorno ufficiale della festa segreta con le persone più potenti del mondo.
L'Ucraina, la Russia e la Nato hanno pesato molto sul programma, mentre le "Sfide fiscali" e le "Minacce transnazionali" sono sembrate un leggero sollievo. "Oggi", ha detto il capo della Nato, Jens Stoltenberg, arrivando a Lisbona per partecipare ai colloqui, "lo scenario è più pericoloso di quanto non lo sia stato dai tempi della guerra fredda".
Questa conferenza annuale di tre giorni è molte cose - un evento di networking d'élite, un vertice diplomatico, un'opportunità di lobbying per gli interessi finanziari transnazionali, un'intensa concentrazione di pettegolezzi sulla teoria del complotto - ma soprattutto, la 69a conferenza Bilderberg, presso il glorioso Palazzo Pestana, è apparsa come un consiglio di guerra.
Il ministro degli Esteri ucraino non è venuto a Lisbona perché ama l'allegro ticchettio dei tram, e il comandante supremo alleato dell'Europa non era qui per le torte alla crema. Un vero peccato, perché sono eccellenti. Immagino che non possano rischiare di spolverarle con la cannella in presenza di Henry Kissinger, perché uno starnuto potrebbe essere sufficiente a portarlo via dalla sua ricompensa.
Alla vigilia del centenario di Kissinger, l'ex Segretario di Stato americano e perno del Bilderberg da lungo tempo sarà felice di vedere così tanti funzionari dell'intelligence statunitense all'incontro di quest'anno. Sono il tipo di persone che piacciono a Kissinger.
Biden ha inviato il suo direttore dell'intelligence nazionale, Avril Haines, e il suo direttore senior per la pianificazione strategica presso il Consiglio di sicurezza nazionale, Thomas Wright, oltre a un gruppo oscuro di strateghi e spie della Casa Bianca.
Tra questi, Jen Easterly, direttore dell'Agenzia per la sicurezza informatica e delle infrastrutture, che ha recentemente affermato che il mondo occidentale si trova ad affrontare due "minacce e sfide epocali": l'intelligenza artificiale e la Cina, entrambe presenti nell'agenda di quest'anno.
A parte l'Ucraina, sono state queste le questioni che hanno dominato le riflessioni a Lisbona.
L'obiettivo generale della Cina è "riorganizzare l'ordine mondiale", ha dichiarato Elizabeth Economy, che partecipa al suo secondo Bilderberg in qualità di consigliere senior di Biden per la Cina presso il Dipartimento del Commercio.
L'ascesa di quello che ha definito "un ordine Cina-centrico con le sue norme e i suoi valori" è un guanto di sfida lanciato al Bilderberg, il forum delle élite che ha contribuito a definire e promuovere l'ordine mondiale occidentale per quasi sette decenni. A loro non interessa un nuovo ordine mondiale, ma vogliono che sia prodotto al Bilderberg, non in Cina.
Le minacce gemelle della Cina e della tecnologia si intrecciano nel pensiero di Eric Schmidt, membro del consiglio del Bilderberg. Solo pochi giorni fa l'ex capo di Google ha dichiarato a un'audizione del Congresso che l'intelligenza artificiale "è molto al centro" della competizione tra Cina e Stati Uniti. E che "la Cina sta dedicando enormi risorse per superare gli Stati Uniti nelle tecnologie, in particolare nell'IA".
Schmidt riconosce i rischi esistenziali dell'IA, avvertendo persino che "le cose potrebbero essere peggiori di quanto si dice", ma respinge l'appello di alcuni esperti di IA, tra cui Elon Musk, per una pausa di sei mesi nello sviluppo dell'IA, perché qualsiasi ritardo "avvantaggerebbe semplicemente la Cina". Sembrava esserci una logica oscuramente ironica in gioco: dobbiamo portare avanti lo sviluppo di qualcosa che potrebbe distruggerci prima che la Cina lo sviluppi in qualcosa che potrebbe distruggerci.
Un altro degli invitati d’onore della Silicon Valley presenti a Lisbona è stato Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI.
All'inizio di questa settimana, Altman ha condiviso le sue preoccupazioni sull'IA in un'audizione al Senato degli Stati Uniti e ha messo in guardia dalla crescente capacità dell'IA di ingannare il pubblico votante con falsificazioni verosimili - una preoccupazione particolare per Altman "dato che l'anno prossimo ci troveremo di fronte a un'elezione e questi modelli stanno migliorando".
È interessante notare che la questione della "leadership degli Stati Uniti" è all'ordine del giorno della conferenza Bilderberg, anche se con l'imminente rilascio della nuova generazione di ChatGPT-5 di OpenAI, i dibattiti presidenziali del 2024 potrebbero essere vinti da un chatbot spiritoso e carismatico.
Altman è a favore di un "intervento normativo da parte dei governi" che, a suo dire, "sarà fondamentale per mitigare i rischi di modelli sempre più potenti". Ma non tutti sono d'accordo al Bilderberg.
Schmidt afferma che l'IA ha bisogno di "guardrail appropriati", ma la scorsa settimana ha suscitato scalpore per aver suggerito, in modo piuttosto snob, che le aziende di IA dovrebbero autoregolarsi, perché "non c'è modo che un non addetto ai lavori possa capire cosa è possibile fare".
Le oltre due dozzine di politici presenti al Bilderberg di quest'anno potrebbero avere da ridire su questa argomentazione. Ma non lo sapremo mai, perché l'intera conferenza si svolge a porte chiuse, senza la supervisione della stampa. Nulla trapela da dietro le lussureggianti bouganville del Pestana Palace. Incredibilmente, Kissinger ha partecipato alle conferenze del Bilderberg a intervalli regolari dal 1957. La sua "preoccupazione per la segretezza e la diplomazia personale", come si legge in un profilo del 1975 del controverso statista, si adatta perfettamente al feroce desiderio del Bilderberg di mantenere privati i colloqui annuali.
Ma è un desiderio che a volte sconfina nella paranoia. Giovedì il Guardian ha incontrato il capo europeo del Bilderberg, Victor Halberstadt, che usciva da una farmacia di Lisbona, stringendo una confezione di crema barriera per la pelle. Halberstadt non si è limitato a ignorare il cortese approccio dei media, ma ha negato categoricamente di essere Victor Halberstadt e poi è salito su una Mercedes che lo ha portato via attraverso il cordone di sicurezza.
Questo tipo di cappa e spada da guerra fredda sembra stranamente anacronistico per una conferenza che ospita una conversazione all'avanguardia sull'intelligenza artificiale con i CEO di DeepMind e Microsoft. Detto questo, tutti questi spostamenti sembrano funzionare, se il fine ultimo è la disattenzione della stampa.
Considerando il numero e l'anzianità delle figure pubbliche e dei politici che partecipano al Bilderberg, la stampa mondiale non ne parla in modo adeguato. Quest'anno la lista recita: tre primi ministri, due vice premier, il presidente del Parlamento europeo, il presidente dell'Eurogruppo, il vicepresidente della Commissione europea, due commissari dell'UE, un europarlamentare, un numero qualsiasi di ministri europei e un membro della Camera dei Lord, Dambisa Moyo, che, oltre a essere una baronessa, fa parte del consiglio di amministrazione della gigantesca compagnia petrolifera Chevron.
Come sempre, “big oil” è stato una presenza potente al Bilderberg, con i capi di Total, BP e Galp che hanno ottenuto un posto al tavolo. Le grandi aziende farmaceutiche hanno avuto una buona presenza, con i capi di Merck e Pfizer e un direttore di AstraZeneca nella lista. L'industria chimica internazionale è rappresentata dal CEO di BASF e da un membro del consiglio di amministrazione di Coca-Cola.
Naturalmente, l'interesse primario di questi presidenti, direttori e amministratori delegati è il profitto, per cui sono sempre pronti a garantire che le normative del settore siano piegate a loro favore. Fortunatamente, molti di loro sono membri anziani di federazioni di categoria e gruppi di pressione commerciali.
Un buon esempio è l'International Institute of Finance, una delle principali forze della governance finanziaria globale. È presieduto dalla direttrice del Banco Santander e membro del comitato direttivo del Bilderberg, Ana Botín. Anche John Waldron, presidente di Goldman Sachs, fa parte del consiglio di amministrazione. Si tratta di due dei più potenti lobbisti finanziari del mondo, eppure hanno a disposizione tre lussuosi giorni per masticare il grasso con i politici.
Questo è il cuore oscuro del problema di responsabilità del Bilderberg. Il fatto che la conferenza si svolga in privato non significa che i colloqui si svolgano in una sorta di orbita santificata, in cui le preoccupazioni commerciali di un boss lussemburghese di hedge fund come Rolly van Rappard, co-presidente di CVC Capital Partners, siano in qualche modo temporaneamente sospese.
Quando il ministro degli Esteri spagnolo discute di Ucraina con il capo della NATO, lo fa a portata d'orecchio di alcuni degli investitori più rapaci del mondo, come Henry Kravis o il boss degli hedge fund Kenneth Griffin, il 21° uomo più ricco d'America.
Si tratta di persone i cui miliardi dipendono dall'avere un vantaggio informativo sui loro concorrenti, ed è difficile capire cosa ci facciano i Griffin e i Van Rappard, se non raccogliere informazioni geostrategiche per fare soldi facili.
Eppure questo non sembra suscitare alcun allarme etico in nessuno dei politici che partecipano ai colloqui. Sono ben felici di parlare di tacchino dietro le bouganville con un gruppo di miliardari e profittatori.
Ma il cielo non voglia che alla fine ci sia una conferenza stampa.
Bilderberg: come ogni anno le élite globali si sono incontrate a porte chiuse. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 22 maggio 2023.
Si è svolta anche quest’anno la consueta riunione – rigorosamente a porte chiuse – del gruppo Bilderberg, la potente organizzazione che riunisce ogni anno capi di Stato, politici, esperti di finanza, d’industria e del settore della comunicazione per affrontare i temi principali destinati a modellare il futuro degli eventi politici globali. Il 69° incontro si è svolto dal 18 al 21 maggio 2023 a Lisbona, presso il Pestana Palace: anche quest’anno sono numerosi i potenti della terra invitati a partecipare, tra cui il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, il presidente olandese, Marke Rutte, il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, lo statista quasi centenario, Henry Kissinger e, tra gli italiani, Paolo Gentiloni, commissario per gli Affari economici Ue, Roberta Metsola, Presidente del Parlamento europeo e l’immancabile giornalista Lilli Gruber. I temi più importanti sul tavolo di questa edizione, elencati sul sito dell’organizzazione, sono stati l’Intelligenza artificiale (IA), il sistema bancario internazionale, Cina, Russia e India, la transizione energetica, la NATO, la guerra in Ucraina e la leadership statunitense.
Fondata nel 1954 da Henry Kissinger e David Rockefeller – il primo, stratega della politica estera americana e segretario di Stato durante la presidenza di Nixon; il secondo uno dei più potenti magnati industriali e petroliferi americani – l’obiettivo non dichiarato dell’organizzazione è quello di influenzare la politica mondiale esercitando pressioni sui governi attraverso la costruzione di una fitta rete composta da rappresentanti politici, esponenti dei media e influenti oligarchi. È questa, del resto, la missione che caratterizza l’essenza dei “think tank”, nati in America all’inizio del Novecento come gruppi di studio formati da tecnici per “affiancare” la politica. «Il Gruppo è una sorta di NATO economica: lo possiamo considerare come il CDA delle oligarchie mondialiste che incarna lo spirito più sfrenato del neoliberismo e della globalizzazione»: così nel 1977 il Times definiva il Gruppo Bilderberg. Una definizione che aiuta a comprendere il legame tra il Gruppo, l’Alleanza atlantica, le logiche neoliberiste e la volontà di unificare le sorti del mondo attraverso quella che il WEF ha definito “governance globale” o “governance 4.0”, un governo sempre più centralizzato in mano ai grandi finanzieri e alle organizzazioni sovranazionali. Lo stesso David Rockefeller, del resto, nelle sue Memorie, ha affermato esplicitamente che «Per più di un secolo, gli estremisti ideologici alle due estremità dello spettro politico hanno sfruttato incidenti ben pubblicizzati per attaccare la famiglia Rockefeller dall’influenza eccessiva che sostengono esercitiamo sulle istituzioni politiche ed economiche americane. Alcuni credono addirittura che facciamo parte di una cabala segreta che lavora contro i migliori interessi degli Stati Uniti, caratterizzando me e la mia famiglia come “internazionalisti” e cospirando con altri in tutto il mondo per costruire una struttura politica ed economica globale più integrata – un mondo se vuoi. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole e ne vado fiero».
Il nome del Gruppo deriva dal nome del luogo dove si tenne il primo incontro della storia del “club”: l’Hotel De Bilderberg di Oosterbeek, nei Paesi Bassi. I partecipanti e gli estimatori dell’organizzazione, per screditare quelle che vengono definite “teorie del complotto”, sottolineano due aspetti che metterebbero le riunioni al riparo da sospetti circa potenziali ingerenze nei processi democratici: il primo è che i convegni sarebbero discussioni informali su questioni importanti e il secondo riguarda il fatto che gli incontri si svolgono secondo la Chatham House Rule, che stabilisce che i partecipanti sono liberi di utilizzare le informazioni ricevute, senza però rivelare né l’identità né l’affiliazione degli oratori né di altri partecipanti. Sebbene gli incontri non si concludano con dichiarazioni formali e non abbiano il potere di prendere alcuna decisione, è pur sempre vero che i partecipanti al convegno hanno spesso l’autorità e ricoprono cariche istituzionali tali da poter influenzare le decisioni istituzionali. In secondo luogo, ben pochi partecipanti hanno facilmente fatto trapelare non tanto i temi – che sono pubblici – bensì i contenuti degli incontri anche in condizioni di anonimato.
Anche quest’anno l’incontro ha visto la partecipazione di una nutrita schiera dell’élite internazionale con circa 130 personalità provenienti dalla politica, dalla finanza, dal commercio e dall’industria di 23 diverse nazioni. Messi in fila, gli argomenti affrontati quest’anno potrebbero concernere il futuro della leadership statunitense alla luce dei recenti sconvolgimenti geopolitici: la guerra in Ucraina, il tramonto della globalizzazione a guida statunitense e la de-dollarizzazione, infatti, hanno accelerato la costruzione di nuovi equilibri internazionali che si apprestano ad erodere l’egemonia della potenza a stelle e strisce insieme all’ascesa delle potenze asiatiche, tra cui Russia, Cina e India. Quest’ultime – soprattutto Russia e Cina – oggetto di discussione delle riunioni del Bilderberg e della NATO, in quanto potenziali minacce alla struttura di potere occidentale e, di conseguenza, alla leadership globale. [di Giorgia Audiello]
“Alleanza Universale Massonica”, raduno ad Avetrana: “Noi, lottiamo per la libertà”. REDATTORE il 29 aprile 2023 su rtmweb.it.
Per la prima volta ad Avetrana si è tenuto un evento culturale dell’ “Alleanza Universale Massonica”
La suggestiva location del Castello Fortilizio “Torrione” ha ospitato una riunione delle Logge Pugliesi della Unione Logge Sovrane del Mediterraneo presieduta dall’Avv. Fernando Rucci Sovrano Gran Commendatore che è anche presidente dell’A.U.M. “Alleanza Universale Massonica” che annovera attualmente 75 comunioni Est
Far conoscere le finalità della massoneria spesso indiscriminatamente screditata non considerando le differenze e le distinzioni tra le varie comunità massoniche: questo lo scopo della nostra intervista esclusiva al Sovrano Gran Commendatore.
(ANSA mercoledì 15 novembre 2023) "L'iscrizione alla massoneria da parte di un fedele è proibita a causa dell'inconciliabilità tra dottrina cattolica e massoneria". Lo ribadisce il Dicastero per la Dottrina della Fede in risposta ad un vescovo delle Filippine. La risposta del Prefetto Victor Fernandez è controfirmata, come di consueto, da Papa Francesco. La misura riguarda anche "gli eventuali ecclesiastici iscritti alla massoneria", si precisa nel documento. Al vescovo filippino, che aveva sollevato la questione, si suggerisce "una catechesi popolare in tutte le parrocchie riguardo alle ragioni dell'inconciliabilità tra fede cattolica e massoneria".
Papa Francesco: «Tanti santi sociali nella Torino massonica e mangiapreti dell'800. Fenomeno da studiare». Redazione online su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023.
Il discorso del pontefice durante l'incontro in Vaticano con la congregazione di San Giuseppe
Come mai tanti santi sociali nel Piemonte massonico dell'Ottocento? Se lo chiede papa Francesco che oggi, 17 marzo, ha incontrato i membri della congregazione di San Giuseppe fondata il 19 marzo 1873 da San Leonardo Murialdo «per la cura e la formazione soprattutto dei giovani operai».
«E mi fa pensare questo tempo - ha detto il pontefice -, lì nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte, tanti santi». Un fenomeno da «studiare», secondo il Papa, perché «tanti santi al centro della massoneria e dei mangiapreti».
Il Papa ha poi invitato la congregazione di San Giuseppe a non basarsi solo sulle «regole», sulle «disposizioni». «Quando vuoi regolare tutto ingabbi lo Spirito Santo», «per favore lasciare libertà, lasciare creatività».
Chiesa e massoneria restano incompatibili? La storia e il ruolo dei gesuiti. Nico Spuntoni il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.
Sul rapporto tra le due realtà, Francesco ha rotto recentemente il silenzio elogiando i santi piemontesi. Una scelta precisa, che si conforma alla consolidata dottrina cattolica. Ma il rapporto, negli anni, ha subito diverse evoluzioni
Lo scorso marzo, incontrando i membri della congregazione di San Giuseppe, Francesco ha elogiato la figura di san Leonardo Murialdo e dei non pochi santi originari del Piemonte. Il Papa, a braccio, ha detto: "A me fa pensare tanto questo tempo, lì, nel 'fuoco', diciamo così, nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte, tanti santi, tanti! E dobbiamo studiare perché, perché in quel momento. E proprio nel centro della massoneria e dei mangiapreti i santi, e tanti, non uno, tanti".
In effetti, proprio nella regione settentrionale ebbe luogo la ricostituzione della massoneria quando, a seguito della Restaurazione post-napoleonica, le logge massoniche erano state bandite in tutti gli Stati preunitari.
Nell'udienza ai murialdini, Bergoglio dimostrò una buona conoscenza della storia d'Italia legata probabilmente alle sue stesse origini familiari. Prima di arrivare in Argentina, infatti, i nonni e il padre del Papa erano cresciuti nella provincia astigiana. Ma le parole del Papa hanno contribuito a riportare sotto i riflettori un argomento di cui si parla poco ma che suscita sempre grande interesse: il rapporto tra Chiesa e massoneria.
Scomunica o no?
Nel codice di diritto canonico del 1983, promulgato da san Giovanni Paolo II, per la prima volta non si parlava di scomunica per i massoni. Questa novità fu all'origine di una serie di speculazioni e venne interpretata da più di qualcuno come un via libera all'appartenenza dei fedeli alle logge.
In realtà, proprio per mettere a tacere quelle voci, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, intervenne con una dichiarazione il 26 novembre del 1983 approvata da Wojtyla nella quale sosteneva che "rimane (...) immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l'iscrizione a esse rimane proibita". Il testo non parlò di scomunica ma aggiunse che i fedeli iscritti alle logge "sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione".
I Papi e la massoneria
Quello scritto da Ratzinger e approvato da Karol Wojtyla è solo l'ultimo pronunciamento della Chiesa sulla massoneria. Nel corso dei secoli ce ne sono stati circa seicento. Il primo è successivo di soli pochi anni alla fondazione della massoneria moderna, che avviene in Inghilterra nel 1717. Nel 1738, papa Clemente XII pubblicò la prima condanna esplicita della massoneria prevedendo la scomunica per chi ne avesse fatto parte, con la bolla In eminenti. Nonostante ciò, e nonostante il conseguente intervento dell'Inquisizione, la diffusione delle logge massoniche non si arrestò e nella penisola italiana riguardò soprattutto la Toscana, Napoli e il Piemonte.
La scelta del predecessore di non intervenire in modo netto contro lo sviluppo della massoneria costò a Benedetto XIV l'accusa di essere lui stesso un massone. Per reazione, papa Lambertini rinnovò la scomunica con la bolla Providas Romanorum il 18 marzo 1751. Quest'ultimo è un caso simile a quanto accaduto più recentemente con l'introduzione del nuovo codice di diritto canonico. All'epoca sorsero voci, infatti, sul fatto che la scomunica era decaduta perché Benedetto XIV non aveva confermato la bolla del predecessore. Queste voci portarono nel caso di Lambertini così come nel caso della dichiarazione di Ratzinger a ribadire la posizione della Chiesa.
Sui documenti papali relativi alla posizione della Chiesa sulla massoneria qualche anno fa è stato pubblicato un volume che contiene una ricostruzione storica che va da Clemente XII al pontificato di Giovanni Paolo II: I papi e la massoneria di Angela Pellicciari. Di recente è uscita una nuova edizione del libro - sempre edita dalla casa editrice cattolica Ares * nella quale vengono analizzate le ragioni storiche delle encicliche anti-massoniche e più in generale dell'incompatibilità tra Chiesa e logge.
Il ruolo dei gesuiti
Nel libro, il capitolo dedicato a Clemente XIII e Clemente XIV, che sedettero sul trono di Pietro nella seconda metà del Settecento, risulta particolarmente interessante. Questo perché i due papi non presero provvedimenti sulla massoneria ma furono protagonisti - su fronti opposti - degli eventi che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù. "Non c’è dubbio che i gesuiti del Settecento e dell’Ottocento siano avversari irriducibili della libera-muratoria", scrive Pellicciari.
Secondo la versione dell'autrice, già nel corso del pontificato di Clemente XIII furono forti le pressioni dei sovrani illuminati d'Europa (con corti penetrate dai fratelli muratori). Ma il Papa, cresciuto dai gesuiti, resistette, al contrario del suo successore che optò per l'abolizione per l'ordine. A confermare l'ostilità della massoneria per la Compagnia di Gesù ci sarebbe, come spiegato nel libro di Pellicciari, il rituale di iniziazione al 33esimo grado di rito scozzese antico e accettato nel quale si invoca "luce contro la nera milizia di Ignazio da Loyola".
Perchè incompatibili?
Ma quali sono le ragioni di questo giudizio negativo della Chiesa nei confronti nella massoneria? Le motivazioni sono principalmente dottrinali, perché il massone nega la possibilità della conoscenza oggettiva della verità, relativizzandola. Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 del Novecento la Conferenza Episcopale Tedesca istituì una commissione ad hoc che alla fine del lavoro redasse le motivazioni di questa incompatibilità. Vi si legge: "Poiché il libero massone rifiuta ogni fede nei dogmi, egli non ammette alcun dogma anche nella sua Loggia. Un tale concetto di verità non è compatibile con il concetto cattolico di verità, né dal punto di vista della teologia naturale, né da quello della teologia della rivelazione".
Questa posizione non è cambiata. Padre Zbigniew Suchecki, docente nella Pontificia Facoltà di S. Bonaventura–Seraphicum ed esperto dell'argomento, ha spiegato a La Nuova Bussola Quotidiana che nel programma Tesi per l’anno 2000 pubblicato ad inizio del nuovo millennio, la Libera Muratoria continua a negare "il valore della verità rivelata, e con questo indifferentismo viene esclusa fin dall’inizio una religione rivelata".
Scambio di attenzioni
Due episodi recenti segnalano come ci sia un cambio di clima, soprattutto da parte di alcune personalità. Nel 2019 l'allora arcivescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro monsignor Riccardo Fontana si recò a un convegno per i 150 anni della loggia Benedetto Cairoli organizzato dal Grande Oriente d'Italia e parlò di "valori condivisi", beccandosi il rimprovero della Cei, che lasciò trapelare "stupore e sconcerto".
Lo scorso ottobre, invece, il vescovo di Terni monsignor Francesco Antonio Soddu ha presenziato all'inaugurazione della casa massonica cittadina. Queste iniziative di singoli presuli non hanno cambiato l'atteggiamento della stessa Conferenza episcopale italiana. Nel 2018, l'allora segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino - attuale presidente dell'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica - e che è stato a lungo considerato il volto del nuovo corso bergogliano nell'episcopato italiano, ha affermato che "preti e vescovi se massoni sono già fuori dalla Chiesa" ribadendo che "nei confronti della massoneria la Chiesa ha tenuto, da sempre e con chiarezza, lo stesso atteggiamento: tutto ciò che da singoli o gruppi attenta al bene comune a vantaggio di pochi non può essere accettato".
Papa Francesco: "Tanti santi nel Piemonte massone e mangiapreti". Nico Spuntoni il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.
Bergoglio esalta san Leonardo Murialdo ricordando come il contesto in cui fondò la sua Congregazione era dominato dalle logge
Il 19 marzo 1873 san Leonardo Murialdo fondava la Congregazione di san Giuseppe, con la collaborazione di don Eugenio Reffo. In prossimità del 150esimo anniversario, Francesco ha ricevuto in Vaticano una delegazione di padri giuseppini. L'occasione è servita per ricordare la figura del fondatore nato in una facoltosa famiglia torinese dell'Ottocento e per lodare il carisma a cui si è ispirata la Congregazione.
Piemonte, terra di famiglia
La famiglia di Jorge Mario Bergoglio è originaria del Piemonte. Il padre, infatti, era emigrato alla fine degli anni '20 con i genitori Giovanni e Rosa, lasciando Portacomaro che si trova in provincia di Asti. Proprio alla luce delle sue radici familiari, è interessante ciò che ha detto oggi il Papa nell'udienza concessa a Palazzo Apostolico alla delegazione di giuseppini. Elogiando l'iniziativa pionieristica del Murialdo di 150 anni fa, Bergoglio ha voluto sottolineare come questa abbia avuto luogo nel “fuoco – diciamo così –, nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte" e come in quest'area, nonostante ciò, ci siano "tanti santi, tanti" proprio nell'Ottocento. Francesco ha detto:
"E proprio nel centro della massoneria e dei mangiapreti, i santi, e tanti, non uno, tanti. Dunque ha fondato a Torino, in questo contesto duro, segnato da tanta povertà morale, culturale ed economica, di fronte alla quale non è rimasto indifferente: ha raccolto la sfida e si è messo al lavoro, in mezzo alla massoneria".
Le parole utilizzate per rimarcare il consistente numero di santi impegnati nella questione sociale in una zona caratterizzata - in base a quanto sostenuto dal Papa - da una forte penetrazione della massoneria nel XIX secolo sono state aggiunte a braccio dal Pontefice. Nel discorso inizialmente previsto, infatti, mancava questo specifico passaggio. Il Pontefice ha detto che questa circostanza va studiata.
Anticipatore
Francesco, inoltre, ha voluto presentare san Leonardo Murialdo come un anticipatore. In particolare per ciò che riguarda la sua concezione del ruolo dei laici nella Chiesa. Parlando del santo torinese, il Papa ha detto che "nella seconda metà dell’ottocento, un secolo prima del Concilio Vaticano II, diceva (che) 'il laico, di qualsiasi ceto sociale, può essere […] un apostolo non meno del prete e, per alcuni ambienti, più del prete'".
Bergoglio, poi, ha rispolverato alcuni ricordi di quando in Argentina era maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel e qui aveva alcuni studenti giuseppini. Scherzando, il Papa ha detto che gli studenti da lui conosciuti avevano un superiore giuseppino che era "un furbone" e per questo era stato ribattezzato anche da lui "il premio Nobel” della furbizia".
I precedenti
Quasi sei anni fa, secondo un'indiscrezione riportata da Il Messaggero, Francesco rifiutò le lettere credenziali presentate dal nuovo ambasciatore libanese presso la Santa Sede proprio per la sua presunta vicinanza alla massoneria francese.
Bisogna ricordare, infatti, che il Codice di Diritto Canonico del 1917 prevede che coloro i quali si iscrivono alla massoneria o ad altre associazioni dello stesso genere incorrono ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica. Una linea ribadita più recentemente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all'epoca guidata dal cardinale Joseph Ratzinger - futuro Benedetto XVI - che in una dichiarazione del 1983 poi spiegata ulteriormente in un documenti di riflessioni spiegava che la decisione di intervenire di nuovo si doveva ad evitare "la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l'errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia massonica era lecita" ritenendo di dover confermare il "pensiero autentico della Chiesa in proposito" mettendo in guardia i fedeli "nei confronti di un'appartenenza incompatibile con la fede cattolica".
Quel documento segreto sulla Gladio parallela. Ecco cosa rivela. La storica ed esperta di servizi segreti Maria Gabriella Pasqualini dice la sua sul documento del Sismi che certificherebbe la "seconda vita" dell'organizzazione Gladio. Gianluca Zanella il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.
“Si ritiene che un’organizzazione similare consentirebbe al Servizio di avere un braccio operativo in grado di condurre TUTTE QUELLE OPERAZIONI CHE NON POSSONO ESSERE EFFETTUATE DA PERSONALE EFFETTIVO IN QUANTO COMPORTANTI, IN CASO DI SVILUPPI NEGATIVI, IL COINVOLGIMENTO DELLA NAZIONE” [maiuscolo nell’originale, ndr]
È questo uno dei passaggi più interessanti del documento datato 13 luglio 1990 in cui un direttore di divisione in sede vacante [il cui nome è oscurato, ndr] suggerisce la creazione, in seno alla VII Divisione del Sismi, di una struttura segreta, composta da agenti “considerati, all’occorrenza, a perdere”.
Il documento, proveniente dagli archivi del Sismi recentemente desecretati e pubblicato nel marzo scorso da TPI, sembrerebbe rivelare una seconda vita di Gladio, la costola italiana di quella più ampia operazione Stay Behind americana figlia della Guerra fredda. Seconda vita perché è proprio nel 1990, a ottobre, che Giulio Andreotti ne rivela l’esistenza e, contestualmente, lo scioglimento.
Superato il clamore iniziale (che – ci teniamo sempre a sottolinearlo – è più che giustificato), abbiamo iniziato a farci qualche domanda: cosa ci racconta davvero questo documento? È credibile che un direttore di divisione di un servizio segreto lasci nero su bianco la richiesta di formare una struttura con uomini pronti a condurre operazioni sporche? E se il documento fosse un falso, a che pro sarebbe stato confezionato?
ilGiornale.it ha dunque cominciato a interessare della questione diverse persone che, a vario titolo, possono essere considerate esperte della materia. Dopo aver ascoltato il parere di Aldo Giannuli (“se quel documento è autentico, io sono Roberto Bolle”) e di Francesco Pazienza (“non mi stupirei se fosse autentico”), ci siamo rivolti alla professoressa Maria Gabriella Pasqualini, storica militare, docente universitaria e, soprattutto, grande esperta di servizi segreti e di documentazione che li riguarda.
Lontana dai riflettori, con alle spalle anni di studio sulle carte, la professoressa Pasqualini ha dato alle stampe sei volumi sulla storia istituzionale dei servizi segreti italiani. L’ultimo libro, edito da Rubbettino, è “Storia politica della legislazione italiana sull’intelligence (1970-2021)”. Abbiamo chiesto a lei un parere riguardo la natura di questo interessante documento non solo in quanto esperta di servizi segreti in generale, ma nello specifico della struttura Gladio: “Una rivista belga ha chiesto a vari esperti di varie nazioni di illustrare Stay Behind nelle sue varie declinazioni nazionali. Io mi sono occupata della declinazione italiana. Con atti parlamentari e con tutto quello che potevo, ho spiegato ai belgi cos’era questa struttura”.
Dal 2002 – anno in cui le venne chiesto di fissare su carta la storia dei nostri apparati d’intelligence con un criterio storico – Maria Gabriella Pasqualini ha maneggiato decine di migliaia di documenti, viaggiando anche all’estero per scovare quei documenti che in Italia non erano ancora stati resi disponibili: “Sono stata a Washington, a Parigi, a Londra, a Madrid. E lì ho trovato una montagna di documentazione”.
Ecco allora che si capisce il motivo per cui ci siamo rivolti a lei, cui abbiamo fatto una domanda molto semplice. Cosa pensa di questo documento? “Prima di tutto – ci ha risposto - se non ho in mano fisicamente il documento non posso dire molto. Ho visto decine di migliaia di documenti, quindi prendendolo in mano potrei capire di più. Detto questo, la firma è di un direttore di divisione in sede vacante che il 13 luglio del 1990, quando era già scoppiato quasi tutto, fa una richiesta del genere. Quanto meno è strano”.
Le date, in effetti, sono molto importanti e rendono l’interpretazione di questo documento ancora più complessa. È proprio nel luglio del 1990, infatti, che il bubbone Gladio comincia a scoppiare. Se lo scioglimento dell’organizzazione avviene a ottobre di quell’anno, è in piena estate che inizia il terremoto. In Friuli viene rinvenuto un Nasco [un deposito di armi clandestino riferibile alla struttura, ndr] e il magistrato veneziano Felice Casson, proprio nel luglio 1990, ottiene dall’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, il permesso per poter accedere all’archivio del Sismi a Forte Braschi, lo stesso archivio da cui proviene questo documento.
Sempre a luglio, il generale Ambrogio Viviani, in passato responsabile dell’Ufficio D del Sismi [il controspionaggio, ndr], piduista, nella veste di deputato tra le fila del Partito Radicale rilascia un’intervista a La Repubblica, dove accenna all’esistenza di una struttura segreta di ambito Nato. Insomma, avanzare la richiesta di formare una struttura riservata in seno alla VII Divisione proprio nella data del 13 luglio può risultare quanto meno poco avveduto.
“Delle due l’una – commenta la professoressa Pasqualini – o questo documento è falso, oppure, come sono portata a credere, è vero, ma chi l’ha scritto era un cretino che probabilmente aveva bisogno di mettersi in mostra e dimostrare quanto fosse brillante”.
Dunque nessuna certezza sulla sua autenticità o meno: “Ripeto, non sono in grado di dirlo con certezza. Dovrei vedere un documento coevo per capire, per esempio, quale macchina da scrivere è stata utilizzata. Sono caratteri, quelli di questo documento, che non ritrovo in altri documenti. Però non vuol dire nulla”. Una cosa però è certa, nel corso della sua lunga carriera, la professoressa Pasqualini non ha mai incrociato un documento dai contenuti simili. Si tratta quindi di un unicum, a meno che dagli archivi recentemente desecretati non emerga qualcosa di simile.
In conclusione, Maria Gabriella Pasqualini fa una considerazione interessante: “Prima di fare grande casino mediatico su un documento, bisognerebbe studiarci sopra. Ma al di là di questo, ho una perplessità di fondo: mi sembra difficile immaginare la necessità di una struttura segreta nel 1990. La storia era cambiata, era crollato il muro di Berlino. Ci vogliamo rendere conto del perché esisteva veramente Stay Behind? Perché noi eravamo alla soglia di Gorizia. Qualsiasi esercito che si ritira dopo l’occupazione, e gli americani non fanno eccezione, lascia uno Stay Behind. Ma nel 1990 non c’era più ragione di mantenere in piedi una struttura simile. Tanto meno in un momento in cui stava montando l’attenzione mediatica e quella parlamentare. Dunque ribadisco una cosa: se fosse vero, chi ha scritto questo documento non era una persona seria”.
La Gladio parallela e quei soldati con licenza di uccidere. In un documento scovato dal giornalista Andrea Palladino si parla della creazione di un'unità di soldati con licenza di uccidere in seno alla VII Divisione del Sismi. Ancora una volta si torna a parlare di Gladio e di un passato che non passa. Gianluca Zanella l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.
Non ci illudiamo. Il 2023 non sarà l’anno che riscriverà la storia d’Italia. La desecretazione dei documenti relativi alla struttura Gladio, scovati e pubblicati da Andrea Palladino, fanno rumore, certo. Ma non riscriveranno nulla, perché riscrivere implicherebbe il mettere in discussione le fondamenta del nostro Paese. Quello che al massimo accadrà, quello che già da un anno sta accadendo con il contagocce, è acquisire briciole di consapevolezza che ci consentono di decifrare tanto il passato quanto il presente. Ma solo quel tanto da permettere che “tutto cambi affinché nulla cambi”, se ci è concessa una licenza letteraria.
Il fatto che pezzi deviati dello Stato abbiano remato contro i pezzi sani è cosa nota. Il fatto che forze centrifughe abbiano agito per destabilizzare la democrazia anche. Quello che non si capisce ancora – e che forse mai si capirà – è a chi rispondessero queste forze, questi pezzi deviati. Qualcuno evoca una sorta di “grande vecchio”, qualcuno parla di ingerenze di Stati esteri e di frange – a loro volta deviate – di servizi d’intelligence d’oltreoceano. Altri ancora ritengono che le deviazioni siano maturate su iniziativa di singoli o di gruppi molto ristretti di persone. Schegge impazzite che, all’interno di un contesto para-istituzionale come poteva essere la struttura Gladio, hanno stretto alleanze indicibili e hanno perseguito strategie finalizzate all’ottenimento di tornaconti personali, ricevendo poi copertura istituzionale perché a conoscenza di segreti talmente imbarazzanti da dover imporre un pietoso segreto di Stato.
Certo, nel momento in cui leggiamo che la VII Divisione del Sismi sarebbe stata investita del ruolo di una sorta di “agenzia” per operazioni non solo segrete ma anche sporche, le domande da porsi sono tante. Intanto viene da chiedersi se lo scioglimento di questa Divisione, avvenuto il 1° agosto 1993, a distanza di quattro giorni dalla strage di via Palestro, sia solo un caso. Altra domanda da porsi è per quale motivo, a distanza di tanti anni e con tanti sospetti che adesso cominciano a diventare certezza, gli ex appartenenti a questa VII Divisione – quasi tutti in buona salute – non siano stati ascoltati in merito alle loro attività da qualche organo inquirente.
Indifferenza? Paura a scavare nel torbido? Il criminologo Federico Carbone, consulente della famiglia di Marco Mandolini, il super-soldato massacrato a Livorno da mani rimaste ignote nel 1995, ricorda come intorno a Gladio vi sia sempre stato uno spesso velo di omertà: “Già nel 1990 furono condotte delle indagini negli archivi del Sismi. Gli inquirenti scoprirono che quegli archivi erano gestiti dai gladiatori stessi. Le perizie che furono eseguite a quel tempo sui documenti, accertarono che erano quasi tutti documenti fasulli, che quei 622 nomi finite nella lista degli appartenenti a Gladio erano sostanzialmente una sciocchezza. Insomma, già all’epoca, chi ha indagato su Gladio ha sempre percepito un doppiofondo nascosto”.
Liste incomplete e documenti contraffatti. E poi questi “agenti a perdere” di cui si parla nel documento inedito pubblicato da Palladino. Che in Italia abbiano agito uomini super addestrati per compiere operazioni sporche non è ipotesi poi tanto assurda. Federico Carbone, in questo senso, ci parla del ruolo che potrebbe aver avuto il Centro Skorpione, la base Gladio di Trapani che per un certo periodo è stata guidata da Vincenzo Li Causi:
“Il centro trapanese, sulla base dei documenti che ho visionato, sembra avesse il compito di monitorare gli spostamenti del giudice Paolo Borsellino già dal 1991. Ci si chiede come mai l’operazione Gladio prevedesse questo genere di attività. Come ci si chiede perché venissero autorizzate esercitazioni militari proprio durante i giorni in cui Giovanni Falcone soggiornava all’Addaura. Quindi, non è peregrino ipotizzare che la VII Divisione fosse una sorta di Gladio parallela, un’unità – come scritto nel documento pubblicato da Palladino – composta da militari super addestrati e tutti quanti abili nell’uso di esplosivo. Questo era il vero cuore di Gladio in Italia. E si aprono degli scenari inquietanti. Si rafforza ancora di più l’ipotesi che queste unità siano state operative per operazioni di guerra non ortodossa o addirittura in piani e disegni sovversivi dell’ordine democratico”.
Prendendo per buone le ipotesi investigative di Federico Carbone e prendendo per buono il documento pubblicato da TPI, un gruppo di soldati, il cui numero ad oggi non è dato sapersi, avrebbe imperversato in Italia facendo il bello e il cattivo tempo non si sa bene per quale finalità. Se questo fosse vero, apparirebbero sotto una luce diversa le morti di Vincenzo Li Causi e di Marco Mandolini. La loro eliminazione potrebbe essere la spia di un contrasto sorto all’interno della VII Divisione, come se in questa “Gladio parallela” fossero convissute anime pure assieme ad anime nere.
“Quando la VII Divisione venne sciolta – ci spiega Federico Carbone - alcuni uomini, compreso Vincenzo Li Causi, vennero inviati in Somalia, nello stesso periodo in cui lì c’era Marco Mandolini [che non apparteneva alla VII Divisione, ndr]. Li Causi e Mandolini già si conoscevano da tempo, Mandolini era stato un addestratore Gladio attivo a Capo Marrargiu, in Sardegna, e fu lì, anni prima, che i due si conobbero, quando Li Causi si occupava di radio-trasmissioni. Che vi fosse un’importante amicizia tra i due è la stessa famiglia Mandolini ad affermarlo, poiché dopo la morte di Li Causi, Marco Mandolini dichiarò a sua sorella, Ivana, che avrebbe indagato sulla morte dell’amico perché le circostanze che avevano portato alla sua scomparsa, secondo lui, non erano chiare. La cosa inquietante – chiosa Carbone – è che altri uomini della VII Divisione fossero presenti sul mezzo quando Li Causi morì”.
Chissà se la desecretazione di questa mole di documenti da cui è emerso anche quello di cui abbiamo parlato risponderà a tanti misteri accumulatisi nel corso degli anni. “È tutto vero” ci dice una nostra fonte riservata “ma non si arriverà a nulla. Come per il caso Moro”. Lo Stato non processa se stesso.
Antonio Giangrande: Scomparse letali. Genitori disattenti e ricerche infruttuose.
Le ricerche fallimentari degli scomparsi: dispiegamento oneroso ed inutile di uomini e mezzi, con elicotteri e cani molecolari.
Si potevano salvare! Yara, Ciccio e Tore, Gioele, Nicola...Errori madornali e ritrovamenti casuali.
Antonio Giangrande: Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Liberale=amante della libertà propria e rispetto di quella altrui. Secondo diritto naturale, non economico. Per esempio: i poveri non si sostengono economicamente, per farli rimanere tali, ma si aiutano a diventare ricchi, eliminando ogni ostacolo posto sulla loro strada da caste e lobbies.
In parole povere. Spiegazione con intercalare efficace: Fare i cazzi propri, senza rompere il cazzo agli altri.
Attenzione, pero, a nominare il termine “liberale” invano, perché i liberali non esistono.
Si spacciano come tali quelli come Berlusconi, ma sono solo lobbisti capitalisti. E molto hanno in comune con i comunisti, leghisti e fascisti e gli inconsistenti 5 stelle. Tutti fanno solo i cazzi loro, rompendo il cazzo agli altri.
Qual è la differenza tra equità e uguaglianza?
L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere, ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo.
Equità significa che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no, pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo, dovrebbe biasimare solo sè stesso, perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità.
Antonio Giangrande: Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato.
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Antonio Giangrande: Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.
La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.
L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.
La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.
“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.
Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?
Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.
"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.
Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»
Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Antonio Giangrande: La saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per debellare questa forza, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremisti e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della chiesa cattolica.
La sinistra nel mondo favorisce l’invasione, incitando il diritto ad emigrare.
“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.
Come ‘Ndrangheta, massoneria e elementi dello Stato governano Reggio Calabria, oggi. Stefano Baudino su L'Indipendente il 6 Agosto 2023
Un inscindibile connubio criminale tra ‘ndrangheta, massoneria deviata e politica collusa ha governato per decenni sulla città di Reggio Calabria. È questa, in definitiva, la principale risultanza delle inchieste “Mammasantissima”, “Reghion”, “Fata Morgana”, “Alchemia” e “Sistema Reggio”, riunite nel processo “Gotha“, sfociato in primo grado in una sentenza storica di cui sono appena uscite le motivazioni. Il verdetto, emesso due anni fa nell’aula bunker di Reggio Calabria, aveva partorito 15 condanne e 15 assoluzioni. Tra i personaggi più importanti raggiunti dalle pene, ci sono l’ex avvocato, consigliere comunale dell’MSI e poi parlamentare del PSDI Paolo Romeo (25 anni di reclusione), considerato “l’esempio dello sviluppo moderno del ruolo ’ndranghetistico”, e l’ex sottosegretario regionale di centro-destra Alberto Sarra (13 anni), inquadrato come l'”infiltrato” della ‘ndrangheta nelle istituzioni.
I giudici non hanno dubbi: Paolo Romeo, già condannato per concorso esterno e con una lunga storia giovanile a contatto con la destra extraparlamentare – molto vicino al principe Junio Valerio Borghese, mente del tentato golpe del 1970 – è “componente della massoneria segreta o componente riservata della ‘ndrangheta unitaria quale esponente della consorteria De Stefano”, cuore del sistema ‘ndranghetistico di Reggio Calabria. Un personaggio dalla spiccata intelligenza criminale che “ha attraversato pressoché indenne almeno tre lustri”, in cui “ha esercitato il ruolo di soggetto al vertice della struttura criminale”. Nelle motivazioni il Tribunale ha attestato come “i metodi praticati erano resi possibili da una fitta rete di relazioni intessute nel tempo con soggetti con ruoli istituzionali e allo stesso tempo con la mafia tradizionale, in posizione di raccordo tra il vecchio ed il nuovo”, al fine di “assicurare all’ente criminale di preservare la propria esistenza ed accrescere la propria potenza accedendo alle stanze del potere amministrativo“.
I giudici hanno confermato la ricostruzione di molti “pentiti”, i quali “hanno espressamente riferito di un interesse del gruppo De Stefano ad una certa svolta politica sino a nutrire una palese speranza verso un eventuale golpe; non si tratta di fantapolitica, come più volte eccepito dalla difesa, ma di semplici indicazioni afferenti una realtà ormai innegabile”. In atto vi era, insomma, un “nefasto legame esistente tra politica e mafia in uno scambio utilitaristico di dare ed avere”, sostanziatosi in una vera e propria “convergenza di soggetti con ruoli istituzionali in un ente partecipato anche da soggetti appartenenti alle consorterie criminali”.
Al fine di accaparrarsi risorse pubbliche e manovrare le istituzioni, scrivono i giudici, “Paolo Romeo si avvaleva di politici spregiudicati come Alberto Sarra per il procacciamento di voti in favore di politici accomodanti o controllabili”. Inoltre, “anche gli imprenditori mafiosi venivano mobilitati nel condizionamento del consenso elettorale, con l’impegno a riconoscergli le percezioni di importanti risorse finanziarie pubbliche”. Il Tribunale si è dunque soffermato sulla figura di Alberto Sarra, simbolo della destra calabrese ed ex consigliere, assessore e sottosegretario regionale tra gli anni Novanta e i Duemila. Lo spaccato emerso dalle motivazioni è impietoso: secondo la ricostruzione dei giudici, Sarra sarebbe stato “espressione soggettiva della ‘ndrangheta, collaudato collettore di voti per sé e per gli altri candidati, transponder tra la classe politica e la criminalità organizzata dei tre mandamenti”, cui avrebbe offerto “costantemente disponibilità a raccordare gli interessi privati della criminalità con l’azione degli enti pubblici, per il perseguimento di interessi particolari delle famiglie criminali, e conseguente condizionamento dell’attività amministrativa”. Negli anni Novanta, infatti, Sarra fu “individuato da Paolo Romeo e da Giuseppe Valentino (sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia nei governi Berlusconi II e Berlusconi III, ndr) come il politico più spregiudicato a causa della sua capacità di interloquire con le famiglie criminali per la raccolta del consenso elettorale».
La carriera politica di Sarra è stata lunga e costellata da grandi successi elettorali, ovviamente “pompati” dal sostegno della criminalità organizzata calabrese. “Nel ’92 e nel ’98 – ricostruiscono i giudici – si ritiene che la candidatura di Sarra abbia beneficiato dei voti garantitigli da Audino Mario Salvatore, capo della locale di San Giovannello“, mentre nel 2000 “ha fruito per sé dell’appoggio degli esponenti della cosca Pesce e della cosca Condello“; nel 2001 ha poi “chiesto e ottenuto” il sostegno di Francesco Chirico e Antonio Fiume, “entrambi esponenti della cosca dei De Stefano“. Sarra vincerà anche alle elezioni del 2002 e a quelle del 2005, poi nel 2010 diventerà sottosegretario regionale alle riforme e alla semplificazione amministrativa.
I giudici lanciano il loro sguardo anche sulla fase storica “corrispondente a quella della stagione stragista”, da cui emerge “un connubio tra criminalità organizzata e movimenti terroristici”. In quel periodo, “accanto a soggetti di estrazione tipicamente criminale, ed allo sviluppo delle strutture organizzative superiori, acclarate in una determinata fase storica nella Provincia articolata nei tre mandamenti, destinata ad applicare le regole tradizionali, si sviluppava l’esistenza di una struttura collaterale, riservata a pochi soggetti di identità occulta alla base“, con la quale “necessariamente la ‘ndrangheta tradizionale nelle sue strutture apicali doveva interloquire, nell’assicurare il governo della ‘ndrangheta militare, costituente comunque il bacino della forza operativa”. Una struttura di “invisibili” che, attraverso l’inabissamento della propria azione criminale, ha potuto tenere le fila dell’economia e delle movimentazioni politiche a Reggio Calabria, contribuendo il larga scala al depauperamento del territorio.
[di Stefano Baudino]
Estratto dell'articolo di Lucio Musolino per ilfattoquotidiano.it venerdì 4 agosto 2023.
Leggendo le 7683 pagine della sentenza “Gotha”, la sensazione è che per 15 anni Reggio Calabria abbia vissuto una stagione diversa da quella che il centrodestra ancora oggi rivendica con nostalgia. […]
Secondo il Tribunale di Reggio Calabria, che ha sposato l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia, la storia è completamente diversa ed è quella di un puparo, Paolo Romeo (l’avvocato ed ex parlamentare del Psdi cresciuto nelle file di Avanguardia nazionale, condannato in primo grado a 25 anni di carcere), e di tanti pupi come Scopelliti (non imputato) e l’ex consigliere e assessore regionale Alberto Sarra a cui il giudice Silvia Capone ha inflitto 13 anni di carcere su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, degli aggiunti Giuseppe Lombardo e Stefano Musolino e dei pm Walter Ignazitto, Sara Amerio, Roberto Di Palma e Giulia Pantano.
È stato assolto, invece, l’ex senatore Antonio Caridi per il quale, secondo il Tribunale, “non vi sono elementi, tratti dalle intercettazioni, per poter affermare che prendesse parte alla struttura riservata della ‘ndrangheta” che aveva il compito di “definire le strategie di massimo livello dell’organizzazione, col fine di estendere il programma criminoso verso gli ambiti di maggior interesse, con particolare riferimento a quelli informativi e imprenditoriali, economici, finanziari, bancari, amministrativi, politico-istituzionali ed interferendo in quest’ultimo caso anche con enti locali ed organi politici di rilievo costituzionale”.
[…] In un’intercettazione del 2002, inoltre, “Paolo Romeo prima e Giuseppe Valentino (l’ex sottosegretario alla Giustizia, ndr) dopo, – riassume il Tribunale – estendevano a Caridi il disegno di costituzione degli uomini a disposizione della ‘ndrangheta all’interno delle istituzioni”. Analizzando quella conversazione, i giudici arrivano alla conclusione che “sino al 2002 Caridi era stato un ‘battitore libero, estraneo ai disegni di Paolo Romeo”.
Disegni in cui rientrava, invece, l’ex consigliere e assessore regionale Alberto Sarra che è stato condannato perché considerato “uno strumento nelle mani di Paolo Romeo e Giorgio De Stefano (per il quale la Cassazione ha annullato la condanna in secondo grado disponendo un nuovo processo d’appello, ndr) per garantire alla ‘ndrangheta di infiltrare gli enti pubblici locali e per ciò stesso realizzare la possibilità di interferirne sul regolare funzionamento”.
Il profilo di Sarra tracciato dal Tribunale è impietoso quando descrive il politico reggino “espressione soggettiva della ‘ndrangheta, collaudato collettore di voti per sé e per gli altri candidati, trasponder tra la classe politica e la criminalità organizzata dei tre mandamenti” […]
Se Paolo Romeo era il burattinaio, nel suo disegno criminale c’era anche Giuseppe Scopelliti che viene eletto sindaco di Reggio Calabria nel 2002 e confermato nel 2007, dopo essere stato già assessore alla Regione e il più giovane presidente del consiglio regionale.
Sempre da non imputato, il suo nome fa capolino in ben 962 pagine della sentenza di primo grado dove i giudici spiegano che “Romeo non mancava di interpretare il suo ruolo di grande stratega politico, facendo apparire Scopelliti come una sorta di pedina, che in tal caso doveva assecondare l’intesa Forza Italia-An ed Udc, ridimensionando il suo ruolo personale al punto da dichiarare che qualora non avesse governato assicurando il coinvolgimento di tutte le forze politiche che lo avrebbero sostenuto sarebbe stato sfiduciato, e si sarebbe tornato a votare”.
“Un cane da mandria” insomma. Il copyright non è del Tribunale ma di Paolo Romeo che, conversando nel 2002 col senatore Antonio Caridi, all’epoca assessore comunale, spiegava a quest’ultimo che la scelta sul vicesindaco non era una valutazione di Scopelliti “ma di altri soggetti e cioè lui, Umberto Pirilli e Giuseppe Valentino”, rispettivamente ex parlamentare europeo ed ex sottosegretario alla Giustizia.
[…]
Già condannato in via definitiva nel processo “Olimpia” per concorso esterno, dopo la sua scarcerazione, Paolo Romeo “era ritornato a costituire una presenza importante del panorama politico reggino, quello sommerso fatto di intrighi e strategie collaterali che coinvolgevano la criminalità organizzata”. Ritenuto una delle due teste pensanti della ‘ndrangheta, senza dubbio è l’imputato chiave del processo “Gotha” nato dalla riunione delle inchieste “Mamma Santissima”, “Reghion”, “Fata Morgana”, “Alchimia” e “Sistema Reggio”.
La sentenza è di primo grado, ovviamente non definitiva, ma bolla Paolo Romeo come “componente della massoneria segreta o componente riservata della ‘ndrangheta unitaria quale esponente della consorteria De Stefano”.
Il Tribunale, inoltre, ricorda che l’ex parlamentare del Psdi “ha attraversato, pressocché indenne, almeno tre lustri in cui, salvo il periodo della carcerazione, ha esercitato il ruolo di soggetto al vertice della struttura criminale. Per l’accaparramento di risorse pubbliche, ed il controllo delle istituzioni, Paolo Romeo si avvaleva di politici spregiudicati come Alberto Sarra per il procacciamento di voti in favore di politici accomodanti o controllabili. Anche gli imprenditori mafiosi venivano mobilitati nel condizionamento del consenso elettorale, con l’impegno a riconoscergli le percezioni di importanti risorse finanziarie pubbliche”. [...]
L'occhio della piramide: la versione dei fratelli Occhionero. In una memoria inviata al magistrati di Perugia e nel corso di cinque interviste rilasciate ad un'emittente privata, Giulio e Francesca Maria Occhionero tracciano i contorni di quello che - secondo loro - è stato il vero scopo dell'inchiesta Eye Pyramid. Gianluca Zanella e Manuele Avilloni l'8 Agosto 2023 su Il Giornale.
Vicende come quella che ha visto protagonisti Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati il 9 gennaio 2017 perché accusati di essere gli ideatori – o quanto meno i terminali finali – di una gigantesca operazione di cyberspionaggio ai danni di infrastrutture critiche per il sistema Paese e di personaggi più o meno noti, e oggi in attesa del processo di Appello, si prestano inevitabilmente a possibili strumentalizzazioni.
Nel corso di questa inchiesta, IlGiornale.it ha cercato di fornire ai lettori il succo di una storia complicata, sia scavando nel passato, sia cercando di interpretare il presente. Se ci siamo riusciti saranno lettori e lettrici a giudicarlo, nel frattempo una cosa possiamo anticiparla: nuovi filoni si sono aperti. E dunque non ci fermeremo qui. Per ora, a conclusione di questo primo ciclo di approfondimento, abbiamo deciso di dedicare spazio a loro: Giulio e Francesca Maria Occhionero, cercando di sintetizzare il loro articolato punto di vista riguardo una storia che ha inevitabilmente stravolto le loro esistenze.
Avremmo voluto farlo intervistando Giulio Occhionero, ma i nostri tentativi di contattarlo sono – per ora – caduti nel vuoto. Per dare spazio alla sua versione e a quella di sua sorella, allora, ci siamo affidati a due fonti: una memoria del 10 aprile 2018 scritta e inviata da Giulio Occhionero alla pm di Perugia Gemma Miliani e il ciclo di interviste rilasciate ad Aracne.tv.
Ne emerge un quadro complesso, che impone una serie di approfondimenti già in cantiere. Per ora, cercheremo di fornirvi la versione dei fratelli Occhionero nei suoi punti che, a nostro avviso, sono di maggior interesse.
La memoria sulla vicenda Eye Pyramid
Già dal carcere di Regina Coeli, Giulio Occhionero aveva cominciato a battersi per dimostrare la propria innocenza e svelare un presunto complotto ai suoi danni e a quelli della sorella. Il frutto di lunghi mesi di lavoro e di confronto con i propri legali lo porta – dopo la scarcerazione – a scrivere una lunga e dettagliata memoria dove l’ingegnere nucleare racconta la storia che l’ha visto protagonista. Come già detto, è una memoria rivolta ai magistrati di Perugia, dove un fascicolo era stato aperto a carico del magistrato romano Eugenio Albamonte e degli investigatori che avevano condotto le indagini sul malware Eye Pyramid.
Merita di essere letta attentamente. Gli spunti sono tanti. Ma bisogna fare attenzione e tenere sempre a mente una cosa: questa è la versione di Giulio Occhionero. Perché sottolinearlo? Perché questa memoria delinea uno scenario che, se fosse vero, sconvolgerebbe l’impianto della democrazia italiana. Dobbiamo dunque andarci con i piedi di piombo. Cominciamo.
Un complotto internazionale
Che quella degli Occhionero sia una vicenda degna di un romanzo di John Le Carré lo dice la stessa Francesca Maria, ma a spiegare il perché ci pensa Giulio. Sin dalle prima pagine della sua memoria, senza mezze misure parla di “una chiara fabbricazione della notizia di reato”, ovvero quella mail con un allegato malevolo arrivata ad Enav – e più precisamente a Francesco Di Maio, addetto alla sicurezza dell’Ente nazionale per il volo – che ha innescato la vicenda culminata con l’arresto dei fratelli Occhionero.
Secondo Giulio Occhionero, l’inchiesta a carico suo e di sua sorella sarebbe “prefabbricata”. Il tutto nella piena consapevolezza degli investigatori e di “esponenti di primo piano della magistratura”. La domanda viene spontanea: per quale motivo sarebbe stata prefabbricata un’inchiesta a danno di due all’epoca perfetti signor nessuno? La risposta lascia perplessi: i fratelli Occhionero sarebbero finiti al centro di un complotto teso a incastrare nientemeno che l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump. In pratica, Giulio e Francesca Maria sarebbero finiti al centro del filone italiano del Russiagate. E su questo, l’ingegnere non ha dubbi.
I motivi sarebbero da ricercare nella vicinanza degli Occhionero [ricordiamo che Francesca Maria è anche cittadina americana, ndr] ad ambienti repubblicani d’oltreoceano. “Le date del nostro procedimento, incluse le date di accesso ai server su territorio americano” afferma Giulio Occhionero in un’intervista ad Aracne.tv, “combaciano perfettamente con la sequenza degli eventi dell’inchiesta Russia Gate negli Stati Uniti”.
“L’attacco era a Trump” aggiunge nella stessa sede Francesca Maria, “e in Italia c’era qualcuno che faceva da sponda in ambasciata”.
Giulio rincara la dose: “C’è un chiarissimo coinvolgimento dell’intelligence italiana in questa vicenda... e [...] la cosa [...] più grave, [...] è il fatto che Giulio e Francesca Occhionero sono chiaramente stati scelti anche in funzione delle loro amicizie negli Stati Uniti, delle loro amicizie nel partito repubblicano, basta andare su internet per vedere le foto con il precedente ambasciatore repubblicano a Roma, e quindi era certamente un’indagine che aveva una connotazione politica. Ci ha lasciato molto perplessi il fatto che il Gip non abbia notato questo sin dall’inizio. [...]”.
A causa di questi rapporti, i due sarebbero finiti nel mirino della macchina del fango democratica e a questo gioco perverso si sarebbero prestati membri dell’ambasciata americana a Roma, un agente dell’Fbi, due giornalisti americani di area democratica e, ovviamente, gli inquirenti italiani. La ragione di tutto? Non solo incastrare Trump, ma anche – se non soprattutto - creare una situazione di emergenza e gettare le basi per una seria discussione, in Italia, sull’opportunità di creare un’agenzia nazionale sulla cybersecurity e, conseguentemente, spartirsi ricche poltrone. Oggi, in effetti, abbiamo l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Chissà che Giulio Occhionero non rivendichi da Abu Dhabi il merito per questa nuova creatura istituzionale.
Le prove della pre-fabbricazione
Quali sarebbero le prove che Giulio Occhionero ha raccolto per dimostrare quello che sostiene? Per spiegarlo bisognerebbe entrare nel tecnico, con il rischio di non permettere una corretta comprensione. Cerchiamo allora di sintetizzare, rimandando ad altra sede una trattazione più approfondita: secondo l’ingegner Occhionero, il tecnico della Mentat Solutions S.r.l, quel Federico Ramondino che collaborava con Enav ed Eni e che ha individuato per primo il malware Eye Pyramid, avrebbe costruito preventivamente le prove che poi avrebbero portato i fratelli Occhionero in carcere. A dimostrarlo, non solo una precedente memoria dello stesso Giulio Occhionero, ma anche la consulenza tecnica del dott. Mattia Epifani.
IlGiornale.it ha letto la consulenza. L’analisi è stata svolta sulla relazione tecnica svolta dalla Mentat e su due DVD consegnati alla Procura di Roma, dove sono presenti dei file le cui date di creazione certificherebbero la contraffazione della notizia di reato. Peccato che, nelle conclusioni della relazione tecnica di Epifani, sia riportato – con grande onestà intellettuale – che “senza un’analisi del computer utilizzato per masterizzare i Dvd non è possibile determinare con certezza l’origine della data di modifica”. Quelle di Giulio Occhionero, in sostanza, restano delle ipotesi. E in effetti, Federico Ramondino, oggi a processo a Perugia, tra i diversi capi d’imputazione da cui deve difendersi non ha quello di aver falsificato proprio un bel nulla.
Federico Ramondino: metà dilettante, metà fenomeno
Con il tecnico della Mentat tanto Giulio quanto Francesca Maria Occhionero hanno il cosiddetto dente avvelenato. Ed è comprensibile. I sospetti che entrambi nutrono nei suoi confronti li esprimono chiaramente: da un lato, Ramondino viene dileggiato nel corso di due interviste ad Aracne.tv tanto dai due fratelli, quanto dal conduttore del programma, in quanto in possesso di un diploma di maturità classica. Davvero assurdo che un diplomato al liceo classico possa essere uno dei migliori hacker in circolazione. Certamente se si fosse limitato a tradurre Tacito o Senofonte non solo non avrebbe ingenerato sospetti, ma si sarebbe evitato enormi grane.
D’altro canto, stando a quanto espresso da Giulio Occhionero nella sua memoria, nonostante sia un incompetente, Ramondino deve avere enormi doti affabulatorie, altrimenti come spiegare i prestigiosi incarichi da parte di enti e strutture altamente sensibili per il sistema Paese come Eni ed Enav? Cosa nasconde il tecnico della Mentat? Come mai viene “addirittura” nominato ausiliario di Polizia Giudiziaria? La risposta che dà Giulio Occhionero è chiara: “L’individuo [Ramondino, ndr] che ancora oggi viene celebrato sui molti articoli apologetici da una stampa perfettamente orientata rivela [...] quale sia il termometro della cybersecurity Italiana”.
Una giudice incompetente
Tanto nella memoria rivolta ai magistrati perugini, quanto nel corso delle interviste rilasciate ad Aracne.tv, Giulio Occhionero – che lamenta di essere stato diffamato dai media che si sono prestati al complotto – riserva alla giudice che ha mandato in carcere lui e sua sorella parole che, a ben guardare, sono al limite della diffamazione o quanto meno, come per Ramondino, del dileggio. Parliamo della dott.ssa Antonella Bencivinni. Giudicata troppo giovane per gestire un caso del genere, la giudice viene sospettata di essere, nella migliore delle ipotesi, un’incompetente.
Di più: “La totale assenza di domande sulla fabbricazione e sugli illeciti degli inquirenti da parte della Dott.ssa Bencivinni farà poi scuola nei manuali di giurisprudenza quale contro-esempio di buona attività istruttoria”. Di nuovo viene dato dell’incompetente alla giudice che ha anche il demerito di aver ricevuto questo caso – per lei troppo complicato – subito dopo il trasferimento dal Tribunale di Pisa.
Sembra quasi che Giulio Occhionero adombri il sospetto che la scelta sia ricaduta sulla dott.ssa Bencivinni proprio perché giovane, inesperta e dunque manipolabile. Lo si evince quando, di fronte ai microfoni di Aracne.tv, dice che - nell’udienza finale – “il dott. Albamonte, per meglio esercitare una pressione d’immagine sulla giudice, si è portato un membro del Csm il giorno della sentenza, cioè il dottor [Giuseppe] Cascini”, per poi aggiungere, “il dottor Cascini veniva a dare manforte al dott. Albamonte in quella circostanza. E la giudice... [...] secondo me aveva capito benissimo che la notizia di reato era fabbricata, è molto anomalo il caso della dottoressa Bencivinni, venuta apposta a Roma per fare questo procedimento, estremamente giovane, non lo so...”.
La carriera di Albamonte
Anche per il dott. Eugenio Albamonte non ci sono sconti. Anzi, Albamonte dovrebbe ringraziare di essere incappato in questa vicenda. Il perché lo spiega Giulio Occhionero nella sua memoria: “Assolutamente palesi, poi, sono i chiari benefici di carriera che tale inchiesta ha portato allo stesso Dott. Albamonte, la cui elezione a Presidente dell’ANM, avvenuta per un solo voto di differenza, è certamente da collegarsi alla spinta emotiva nel mondo giudiziario causata dalla diffusione di notizie riguardanti una eclatante inchiesta sulla sicurezza dello Stato”.
Cnaipic: centrale di spionaggio
Il Cnaipic? Una banda di incompetenti e di veri e propri pirati informatici che, al soldo dello Stato, agiscono in maniera sconsiderata, rischiando di creare incidenti diplomatici e facendo perdere al Paese importanti occasioni d’investimento con le proprie attività al limite del criminale. Parola di Giulio Occhionero. L’ingegnere sostiene infatti che “in diversi casi del passato era già stato mostrato come questa entità dello Stato avesse sviluppato profondi [sic] interessi industriali che l’avevano addirittura condotta ad essere indicata come fonte di attacchi informatici”. Praticamente la struttura che dovrebbe tutelare le nostre infrastrutture critiche sarebbe in realtà la centrale da cui partono attacchi informatici. Dove abbia tratto queste informazioni Giulio Occhionero – così sicuro nelle sue affermazioni – è un mistero. E ci chiediamo se abbia le prove di ciò che dice. Se così fosse, saremmo i primi a dargli manforte per far valere le sue ragioni.
Ma l’ingegnere ce l’ha con il Cnaipic anche per l’interessamento mostrato verso la tentata operazione con il Porto di Taranto quando, supportato da partner americani di alto livello diplomatico, dal 2004, fino al 2007, aveva cercato di ottenere un appalto molto importante per il rinnovamento delle infrastrutture del porto. Un’operazione, questa, che ha giustamente destato l’interesse dei nostri investigatori informatici. Giulio Occhionero lamenta che l’operazione di Taranto nulla ha a che vedere con l’inchiesta che l’ha portato in carcere. Non del tutto vero: tra le vittime di Eye Pyramid, infatti, ci sono anche alcuni dipendenti del Porto di Taranto.
Dulcis in fundo: secondo Giulio Occhionero – sempre ben informato – le attività del Cnaipic sarebbero anche dietro il deterioramento dei rapporti – e della mancata sottoscrizione di importanti commesse industriali – tra Eni e Finmeccanica con, rispettivamente, la società russa Gazprom e il governo indiano. Insomma, saremmo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio e in mala fede.
I vertici dello Stato complici del complotto
E i vertici dello Stato? Come si sono comportati di fronte a una vicenda così abnorme? Zitti e conniventi. Neanche a dirlo. L’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, sebbene incalzato da un’interpellanza parlamentare dell’allora vice presidente della Camera Roberto Giachetti [“sulla durata della custodia cautelare del sottoscritto”, Giulio Occhionero dixit], non ha mai risposto. IlGiornale.it, nonostante approfondite ricerche, non ha trovato alcuna traccia di questa interpellanza.
L’allora capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, non solo non ha fatto nulla per porre un freno ai “diversi comportamenti illeciti e le anomalie investigative [...] emerse all’epoca”, ma dopo l’iscrizione a Perugia sul registro degli indagati di Eugenio Albamonte, ha confermato quest’ultimo alla guida dell’accusa nel processo agli Occhionero.
Gli allora ministri dell’Interno, Marco Minniti, e della Difesa, Roberta Pinotti [stiamo parlando del governo Renzi, ndr], nonostante abbiano ricevuto due informative da parte dell’avvocato degli Occhionero e nonostante avessero “l’obbligo” di una “contro-azione, e di informazione parlamentare su ciò che era accaduto” non hanno fatto nulla. Anzi, Minniti in effetti qualcosa ha fatto. Insieme al capo della Polizia Franco Gabrielli ha defenestrato l’allora capo della Polizia postale Roberto Di Legami.
Sette in condotta, invece, per la Pinotti, che – visti i tentativi degli agenti del Cnaipic di accedere ai server degli Occhionero allocati negli Stati Uniti – avrebbe avuto “un obbligo di segnalazione di tale incidente al Segretario Generale della Nato”, dando così origine a un’inchiesta che “si sarebbe dovuta svolgere sotto la vigilanza di una commissione della stessa Alleanza Atlantica; fatta prevalentemente di membri non italiani”.
Il ruolo di Renzi
Che ruolo ha avuto l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi? A chiederlo è Antonello Nicosia nel corso di una delle interviste fatte ai due fratelli. La risposta di Giulio Occhionero è interessante: “[...] [...] Renzi [...] aveva appena ceduto la presidenza del Consiglio a Gentiloni, nonostante le sue dichiarazioni di quei giorni, che lui non era a conoscenza di nulla, io non le ritengo credibili perché il Dis riferisce al primo ministro, quindi a meno che il Dis abbia lavorato in totale assenza di conoscenza da parte del presidente del Consiglio, sarebbe un fatto gravissimo, non è ipotizzabile. Il direttore della polizia postale [Roberto Di Legami, ndr] venne rimosso proprio in quei giorni e questo testimonia che succedeva qualcosa tra forze di polizia e di intelligence che non andava in quella direzione. [...] La stessa intervista dell’amico di Renzi, Marco Carrai, che aspirava alla direzione della cybersecurity, la mattina dopo il nostro arresto non può essere stata fatta in una notte... erano tutti pronti all’uscita di questa notizia, qualcuno stava costruendo un caso che doveva deflagare, secondo noi, fino a Whashington, ma gli è andata male". Come già detto, questa è la versione di Giulio Occhionero. IlGiornale.it al momento non ha elementi per smentire, nè per confermare.
L’Fbi infedele e l’anomalo comportamento dell’Ambasciata americana
Alla lista dei cattivi Giulio Occhionero aggiunge l’agente speciale Kieran Ramsey, Legal Attaché presso l’Ambasciata americana a Roma. Ramsey, già a capo dell’FBI di Boston quando avvenne l’attentato alla maratona [evento su cui l’ingegnere si concentra per addensare su Ramsey la nube di atroci sospetti, ndr], notoriamente vicino ad ambienti democratici, non solo ha attivamente supportato le autorità italiane nelle indagini, ma addirittura è stato lui, dopo il tentato attacco ad Enav, a certificare al Cnaipic che la licenza di una componente del malware Eye Pyramid era stata acquistata da Giulio Occhionero. Dopotutto, “il suo arrivo a Roma si pone all’incirca in linea con l’avvio dell’inchiesta Eye Pyramid”. Tutto torna.
C’è poi l’inspiegabile, anomalo, inqualificabile comportamento dei funzionari dell’ambasciata americana che non solo hanno minimizzato la situazione, senza fornire alcun supporto concreto a una propria concittadina – Francesca Maria Occhionero - in carcere, ma che difficilmente potevano non essere a conoscenza di quanto il Cnaipic stava cercando di fare con il supporto di Ramsey [ovvero violare lo spazio cybernetico americano, ndr]. E se pur sapendolo non hanno fatto niente, per questi funzionari si prospetterebbe un accusa per “alto tradimento”. Nientemeno.
“io credo – afferma Giulio Occhionero ai microfoni di Aracne.tv - che qualcuno nell’ambasciata americana a Roma abbia agito in maniera molto sbagliata e purtroppo sono gli stessi nomi di quelli che figurano nell’inchiesta sul presidente Trump”.
Le interviste di Antonello Nicosia
Veniamo ora al sodalizio con Aracne.tv. Per il programma “Mezz’ora d’aria”, i fratelli Occhionero rilasciano tra luglio e settembre 2019 ben cinque interviste. I contenuti spaziano dalle teorie del complotto – tutte ben argomentate e già presenti nella memoria inviata a Perugia da Giulio – alle rispettive esperienze in carcere. Dopotutto, il focus del programma è proprio quello di denunciare gli abusi che avvengono dietro le sbarre. A condurlo è Antonello Nicosia, che nel 2022 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a 15 anni di carcere per associazione mafiosa. Come assistente parlamentare dell’ex deputata di LeU e poi Italia Viva Giuseppina Occhionero [si tratta di un caso di omonimia, non c’è parentela tra lei e i due fratelli, ndr], Nicosia avrebbe fatto da “messaggero” tra alcuni mafiosi carcerati e l’esterno. Ma al di là delle vicende giudiziarie del conduttore del programma, quello che è interessante è ascoltare Giulio Occhionero che argomenta ed espone in modo lucido e implacabile quanto già scritto un anno prima nella memoria inviata a Perugia. Sorvolando sugli aspetti già presi in esame, restano due dettagli che hanno attirato la nostra attenzione.
Le interrogazioni parlamentari
Di fronte a un conduttore eccessivamente sbilanciato a favore di chi sta intervistando, Giulio Occhionero parla di come i media italiani – asserviti a uno Stato che in realtà è, secondo una sua interpretazione, un Deep State – tacciano sull’epopea sua e di sua sorella, mentre i media internazionali prestino grande attenzione alla vicenda, mostrando grande vicinanza ai due fratelli, che hanno avuto il merito – dice Francesca Maria – di aver “sventato un complotto”. Il confronto tra l’Italia e l’estero è sempre impietoso. In una delle interviste, Francesca Maria Occhionero lamenta che “[...] una serie di interrogazioni [parlamentari] sono state fatte e non c’è mai stata risposta”.
Tolto il fatto che di fronte alla telecamera non venga detto chi abbia fatto questa “serie” di interrogazioni, come per l’interrogazione di Giachetti all’allora ministro della Giustizia, ci siamo messi alla ricerca di questa “serie” di interrogazioni. Risultato? Nulla. L’unica interrogazione cui forse Francesca Occhionero può aver fatto riferimento – ma dove la vicenda Eye Pyramid non viene menzionata – è quella presentata dai parlamentari PD Andrea Romano, Alessia Morani e Anna Ascani il 2 maggio 2019 e riguarda il Russiagate, precisamente la scomparsa del professore Joseph Mifsud e il ruolo dell’Università Link Campus di Roma in questa storia.
Se qualcosa dovesse esserci sfuggito, siamo pronti a dare conto del nostro errore.
La resa dei conti
Arriviamo infine all’ultimo aspetto. Che già emergeva nella memoria, ma che viene ribadito con più forza nel corso delle interviste rilasciate a Nicosia. Secondo i due fratelli, c’è qualcuno – non meglio specificato – che per loro conto si sta attivando per cercare la verità. Immaginiamo siano gli avvocati difensori, ma forse non solo: “[...] nessun governo ha ancora fatto niente”, lamenta Giulio Occhionero, “[...] io ho informato le commissioni d’intelligence della camera e del senato degli Stati Uniti, ho scritto in copia all’FBI, ho scritto all’agenzia della difesa informatica del Pentagono e lì loro sono partiti con queste indagini”.
Sarà vero? Al momento non abbiamo riscontri. Certo, sono passati quattro anni da questa intervista. Se effettivamente gli organi d’intelligence del Pentagono stavano lavorando, qualcosa dev’essere andato storto. O forse, tutto era frutto della fantasia dell’ingegner Occhionero.
Questa – in estrema sintesi – è la versione dei fratelli Occhionero. Come detto, gli spunti da approfondire sono molti. Ci stiamo lavorando. Ma soprattutto, siamo pronti – a distanza di diversi anni dalla loro ultima esposizione mediatica – a dare ancora spazio, qualora volessero rettificare o aggiungere qualcosa, a Giulio e Francesca Maria Occhionero. Stessa cosa per tutte le altre persone da loro tirate in ballo in quello che, se confermato, sarebbe il più grande complotto della storia occidentale. O il più grande specchietto per le allodole. Vedremo.
Quell'ombra della massoneria dietro la rete di spionaggio più grande d'Italia. Roberto Di Legami, fino al 2017 ai vertici della Polizia postale, dice la sua sulle indagini che hanno portato all'arresto dei fratelli Occhionero e dice: "Ci siamo fermati troppo presto". Manuele Avilloni e Gianluca Zanella l'1 Agosto 2023 su Il Giornale.
Accade spesso che nei grandi casi di cronaca avvengano ai margini del palcoscenico principale degli scontri, delle lotte intestine più o meno manifeste tra gli organi inquirenti o, in generale, tra gli appartenenti alle istituzioni. La vicenda che coinvolge i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero non fa eccezione.
Se è vero che si tratta ad oggi di una storia pressoché dimenticata, è altrettanto vero che scavando tra le sue pieghe si trovano cose interessanti. E ora che a Perugia si sta svolgendo il processo contro l’uomo che ha disinnescato la minaccia cyber che per un decennio ha spiato le infrastrutture critiche del nostro Paese, esfiltrando una mole di dati difficilmente quantificabile – quell’Eye Pyramid che rimanda a una simbologia ben specifica -, queste cose interessanti tornano ad essere attuali e, nel silenzio assordante, reclamano attenzione.
Il 15 settembre 2022, presso il Tribunale di Perugia, si è tenuta la deposizione di Roberto Di Legami, che nel 2016 – anno in cui i fratelli Occhionero da perfetti signor nessuno diventano soggetti degni dell’attenzione dei nostri inquirenti – era direttore del servizio di Polizia postale e telecomunicazioni di Roma.
La sua è una deposizione importante sia per il ruolo ricoperto all’epoca e svolto nella vicenda, sia per quanto riferito e ricostruito a distanza di cinque anni dai fatti. E appare singolare che nessuno, fin ora, se ne sia accorto.
Una regìa dietro i cyber attacchi
Era il 2016 quando Di Legami – con alle spalle una lunga esperienza di lotta alla mafia in Sicilia e, in generale, alla grande criminalità organizzata - venne informato da Ivano Gabrielli, allora direttore del Cnaipic, del caso Occhionero: un malware aveva colpito un’infrastruttura critica italiana, l’Enav. È infatti proprio l’Enav ad aver informato il centro anticrimine per la tutela delle infrastrutture vicine allo Stato in virtù di una convenzione in atto. Ad accompagnare la denuncia sporta da Enav c’è una prima relazione di malware analysis dove si inizia a comporre un piccolo puzzle: l’attacco subito dall’Ente nazionale per l’assistenza al volo è molto simile a quello subito da Eni solamente due anni prima. Insomma, dietro questi attacchi potrebbe esserci una regìa comune.
Di Legami, al vertice di una struttura complessa e in quel periodo in fase di profonda rinnovazione, viene interpellato e tenuto al corrente delle fasi più delicate delle indagini, che procedono senza il suo diretto coinvolgimento. C’è però un momento in cui – per usare le sue stesse parole – entra “a gambe tese nella vicenda”: “È nel momento in cui fui informato che l’Occhionero [Giulio, ndr] aveva fatto parte anche con cariche importanti della massoneria”.
Il livello superiore
Il perché Di Legami fosse tanto sensibile al tema lo spiega subito dopo di fronte alla giudice Sonia Grassi e alla pm Gemma Miliani e nelle sue parole emerge uno spaccato che caratterizza la storia d’Italia almeno da sessant’anni: “Io purtroppo nel corso della mia attività lavorativa ho avuto la sfortuna di imbattermi in indagini di questo tipo, che ho portato a casa anche con discreto successo, ma ricordo che non è una cosa piacevole per l’investigatore, perché lei può immaginare in questo Paese [...] quale vespaio si solleva”.
Roberto Di Legami ricorda in aula quello che disse a Ivano Gabrielli una volta venuto a conoscenza del possibile coinvolgimento della massoneria: “[...] Glielo ribadii davanti a testimoni decine di volte [...] a me non interessa se sono solo i fratelli Occhionero, quanti dati hanno esfiltrato [...]. Una cosa io tengo, che essendo questo soggetto massone mi raccomando che l’indagine finirà quando noi abbiamo raggiunto il più alto livello, non parlo della massoneria, parlo in generale dei soggetti che stanno sopra questi due fratelli, perché senza nulla volere togliere alla competenza tecnica, giuridica anche e anche, devo dire, un certo livello di cultura dei soggetti, non credo che questa attività sia fatta in proprio”.
Frasi che – dette da un investigatore esperto – suonano inquietanti. E sempre riferendo le sue parole all’epoca, Di Legami condivide con il collega i suoi timori che, come vedremo, si riveleranno fondati: “Dobbiamo raggiungere il tetto, perché una cosa non sopporterei, che mi si venisse a dire, essendoci massoni nel mezzo, che ci siamo fermati [...] o che siamo stati così idioti da non riuscire a capire per chi lavorano [...]”.
Servizi segreti e massoneria
Quel per chi lavorano era – ed è – in effetti uno dei leit-motive di questa storia. Ancora oggi sono in molti a non credere che l’attività messa in piedi - secondo l'accusa - da Giulio e Francesca Maria Occhionero fosse inserita in un contesto a conduzione familiare. Troppe tracce portano fuori dall’Italia, negli Stati Uniti, troppi rapporti trasversali di altissimo livello, insomma, un contesto troppo ampio per due singole persone. Negli anni si è parlato di un coinvolgimento dietro le loro attività della Cia – anche se una nostra fonte sostiene con forza che sia palese lo zampino nell’Nsa -, adesso, con le parole di Roberto Di Legami, lo spettro si allarga ulteriormente e lambisce la massoneria.
Un'accelerazione improvvisa
Ad ogni modo, come appunto temuto dall’investigatore, le cose non vanno come previsto e il tutto – almeno fin ora [i fratelli Occhionero sono in attesa del processo d’Appello, ndr] - viene limitato alla loro attività. Nonostante Di Legami si sia messo personalmente in contatto con l’Fbi, attraverso l’agente di stanza a Roma Kieran Ramsey (i server degli Occhionero erano infatti dislocati in territorio americano, ndr), accade qualcosa di inaspettato: nonostante i suoi consigli di non fermarsi all’individuazione dei fratelli Occhionero, ma di risalire a chi fosse nascosto dietro la loro attività massiva di dossieraggio, tra il 2 e il 4 gennaio 2017 “c’è un’accelerazione improvvisa, proprio nei due giorni in cui vado in ferie [...]. Il 4 [gennaio, ndr] vengo informato che il magistrato [Eugenio Albamonte, ndr] ha emesso l’ordinanza di custodia [...] sono rimasto un po’ spiazzato, perché non mi aspettavo questa cosa”.
Dopodiché, con velocità record dettata dall’esigenza di fermare Giulio Occhionero che, nel frattempo e con un tempismo incredibile, aveva iniziato a cancellare materiale compromettente dai propri computer, quasi fosse a conoscenza di quanto stava per avvenire, il 9 mattina scattano gli arresti. Il 10 gennaio la storia diventa pubblica. Ma Di Legami non ha tempo di rammaricarsi per un’operazione andata diversamente da come immaginava:
“Il 9 mattina eseguiamo queste due ordinanze, il 10 il fatto viene pubblicizzato, il 10 sera il all’epoca capo della polizia Gabrielli [Franco, ndr], senza ritenere di dovermelo dire a quattr’occhi, mi rimuove dall’incarico perché ufficialmente non avrei avvisato la scala gerarchica che questo fatto [l’arresto dei fratelli Occhionero, ndr] andava a compimento [...]. Forse non ero l’uomo giusto in quel particolare momento, in quella determinata struttura”.
Scontro tra inquirenti
Una ferita ancora aperta per Roberto Di Legami, una situazione che, sempre per usare le sue parole, “ha diversi tratti di opacità”. Una storia che può essere interpretata sotto un duplice aspetto: uno scontro tutto interno alle istituzioni, in questo caso alla Polizia, o una storia determinata dalla natura delle indagini, dalla pervicacia dell’investigatore nel voler andare a fondo, nel voler arrivare “al tetto”.
Ancora oggi l’ex direttore della Polizia postale non ha dubbi: “Nessuno riuscirà a convincermi che dietro di loro (gli Occhionero, ndr) non c’è nessuno. E siccome in Italia le cose sono [...] così oscenamente semplici [...] nel 2022 è offensivo pensare che non si riesca a capire”.
Sulla defenestrazione di Di Legami ci sarebbe molto da dire. Lui stesso, nel corso dell’udienza, rispondendo alle domande dell’avvocato dei fratelli Occhionero, Stefano Parretta, ha sottolineato l’incoerenza delle ragioni che hanno portato al suo trasferimento “[...] è strano – ha affermato – [...] che la magistratura non si sia accorta che lì si chiedeva apertamente di violare il segreto istruttorio. Purtroppo in base a chi dice le cose in questo Paese si reagisce oppure no”.
Ipotesi da brivido
In conclusione, una cosa sola è certa: il bandolo della matassa di questa storia è ben lungi dall’essere sbrogliato. È vero, i tasselli ci sono. Sono tanti, ma non tutti. L’ombra degli Usa è ingombrante, ma rischia di distogliere l’attenzione. Quella della massoneria anche. E come una nostra fonte ci ha fatto notare: “Credete davvero che i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di un’operazione di così vasta portata?”.
Giusta osservazione, che impone due riflessioni: se i nostri servizi segreti non fossero a conoscenza di quanto da circa dieci anni avveniva dietro gli schermi di migliaia di computer infettati dal malware Eye Pyramid, allora ci dovremmo preoccupare. Se i nostri servizi segreti ne fossero a conoscenza, allora ci dovremmo preoccupare.
Lo strano caso della mente della Piramide: perché non si presenta al processo? Mentre a Perugia si svolge un singolare processo a carico del tecnico Federico Ramondino, che per primo ha messo gli inquirenti sulle tracce dei fratelli Occhionero, il protagonista di questa vicenda, Giulio Occhionero, parte civile e motore dell'inchiesta perugina, non si presenta in aula per tre volte e resta ad Abu Dhabi. Manuele Avilloni e Gianluca Zanella il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.
Ci sono storie che si prestano a diversi piani di lettura. Storie che alimentano teorie complottistiche a causa dei soggetti coinvolti. Storie che per un certo lasso di tempo sembrano imporsi all’attenzione pubblica per poi scomparire dai radar, quasi non fossero mai esistite. La vicenda che ha visto protagonisti Giulio e Francesca Maria Occhionero è una di queste.
Quando nel 2017 il loro nome venne alla ribalta, sembrò aprirsi uno scenario degno di un romanzo noir. Lui ingegnere nucleare, lei laureata in chimica e con doppia cittadinanza, italiana e statunitense. Improvvisamente finirono al centro di un intrigo internazionale. Un’inchiesta condotta dalla magistratura romana, infatti, ricondusse a Giulio Occhionero la paternità di un malware denominato Eye Pyramid che, nell’arco di un decennio, aveva infettato un numero gigantesco di computer esfiltrando una mole di dati difficilmente quantificabile. Tra i soggetti hackerati, molti professionisti di diversi settori – dall’imprenditoria edile, all’avvocatura, passando per alti prelati e docenti universitari – ma, soprattutto, uomini e donne inseriti in contesti altamente a rischio per il Sistema Paese: dipendenti ministeriali, dipendenti di Eni, Enav, del Porto di Taranto, di Allianz Bank, di Finmeccanica.
Ma se l’inchiesta – sfociata in due condanne di primo grado da cinque anni per Giulio e quattro anni per Francesca Maria – ha certificato la paternità del virus informatico e la portata dell’operazione di hacking, lambendo il vasto panorama di aziende riconducibili ai due fratelli, una domanda, la principale, è rimasta inevasa: che fine hanno fatto tutti i dati esfiltrati?
Giova ricordare che i server degli Occhionero si trovavano negli Stati Uniti e furono sequestrati dall’Fbi, che per un certo periodo ha collaborato all’inchiesta della Procura di Roma. Ma da quel momento, di questo enorme patrimonio informativo non si è più saputo nulla. Allo stesso modo, quella che possiamo indicare come la più grande e longeva operazione di cyberspionaggio conosciuta in Italia, è scivolata ai margini delle cronache, fino a scomparire del tutto. Almeno fino ad oggi.
Un processo in sordina
ilGiornale.it torna ad occuparsi della vicenda e lo fa affidandosi alle carte e alle testimonianze dei protagonisti, con uno sguardo inevitabilmente più allargato di quanto non potessero avere i colleghi nel 2017, anno in cui la vicenda ha avuto ampia ma brevissima eco.
Nello specifico, quello che stiamo facendo è seguire il processo iniziato nel 2022 che si sta svolgendo a Perugia nella sostanziale indifferenza mediatica. Un processo che presenta alcune peculiarità che meritano di essere analizzate. Intanto, perché Perugia? E chi siede sul banco degli imputati se i fratelli Occhionero stanno aspettando il processo di Appello a Roma? Lo spin-off di questa storia comincia nel 2018.
Giulio e Francesca Maria Occhionero, una volta usciti dal carcere, iniziano a professare la propria innocenza ovunque venga loro dato spazio. Interviste su giornali, alcune televisioni, post sui social network. Passa il messaggio – accolto a volte tiepidamente, altre volte con più entusiasmo a seconda del giornalista di turno – che i due siano rimasti incastrati in un ingranaggio diabolico, un complotto internazionale che si lega al cosiddetto Russiagate, lo scandalo che proprio in quel periodo investiva il neo-presidente degli Usa Donald Trump, sospettato di essere legato all’intelligence russa.
Vicini ad ambienti repubblicani d’oltreoceano, i fratelli Occhionero lamentarono una presunta persecuzione ai loro danni e denunciarono di alcuni abusi il magistrato che stava indagando su di loro – Eugenio Albamonte -, l’allora direttore del Cnaipic Ivano Gabrielli, e il tecnico di una società di cybersecurity cui la procura e il Cnaipic si erano rivolti per fare luce sulla natura del malware Eye Pyramid, Federico Ramondino, direttore della Mentat Solutions Srl.
Essendo dunque coinvolto un magistrato della Procura di Roma, per competenza la palla è passata ai magistrati della Procura di Perugia. A partire dal settembre 2022, di fronte al giudice Sonia Grassi e all’accusa, rappresentata dalla pm Gemma Miliani (nome divenuto poi noto a seguito della vicenda che ha visto coinvolto Luca Palamara, ndr), con i fratelli Occhionero in veste di parte civile, sono sfilati coloro che hanno avuto il merito di neutralizzare il malware Eye Pyramid.
La solitudine dell'hacker
Peccato che sin da subito – e qui sta la prima peculiarità di questo processo – l’unico a doversi difendere sia rimasto il soggetto più “debole” di questa vicenda: Federico Ramondino. Il tecnico Mentat è rimasto a sua volta incastrato in un ingranaggio più grande di lui. Nonostante gli incarichi ufficiali e riscontrabili conferiti negli anni da enti come Eni ed Enav, nonché da parte della Procura di Roma e del Cnaipic, Ramondino deve oggi difendersi da una serie di accuse molto pesanti, che passano da accesso abusivo a sistema informatico, alla detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici. Insomma, nonostante le molte – e illustri – testimonianze in suo favore, l’impressione che abbiamo tratto dal seguire questo processo è che Ramondino sia stato sostanzialmente scaricato e, tra le altre cose, non si capisce bene il motivo per cui – nonostante le richieste del suo legale di spostare il processo a Roma, visto che il dottor Albamonte è stato prosciolto in udienza preliminare perché il fatto non sussiste – tutto stia ancora avvenendo a Perugia.
A destare ancora più confusione è anche il dietrofront dell’agente dell’Fbi Kieran Ramsey, agente speciale di stanza a Roma che ha collaborato alle indagini del Cnaipic. Scartando una possibile testimonianza in aula, l’Fbi ha infatti lasciato che il caso venisse discusso senza il loro contributo.
Il grande assente
Ma le peculiarità di questo processo non terminano certo qui. L’aspetto senz’altro più curioso il comportamento di Giulio Occhionero. A differenza di sua sorella, che l’11 novembre 2022 si è presentata a testimoniare e ha risposto alle domande del giudice e della pm, Giulio Occhionero non si è mai presentato in aula, nonostante sia, insieme alla sorella, parte civile e nonostante tutta la vicenda abbia preso avvio da una sua denuncia.
Le occasioni perse – con l’udienza del 19 luglio 2023 – sono ormai tre. E con buona probabilità diventeranno quattro con l’udienza fissata il 22 novembre 2023.
Ma per quale motivo Giulio Occhionero non si presenta a Perugia? Secondo un’istanza presentata dai suoi legali – Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari – l’ingegner Occhionero sarebbe impedito da questioni lavorative. Per questo, hanno chiesto per il loro assistito la possibilità di essere audito da remoto, come consente la riforma Cartabia.
Dopo la scarcerazione, infatti, Giulio Occhionero ha deciso di rifarsi una vita nella calda Abu Dhabi, dove ricopre il ruolo di analista per una banca araba. Scopriremo nella prossima puntata di questa inchiesta che il suo attuale luogo di residenza rientra in una curiosa coincidenza che riteniamo degna di approfondimento. Ma torniamo all’udienza del 19 luglio scorso.
In questa occasione, il giudice Sonia Grassi ha cassato l’istanza degli avvocati di parte civile sostenendo che i motivi di lavoro non legittimano l’assenza dell’ingegner Occhionero, aggiungendo che esistono mezzi di trasporto adeguati per rientrare in Italia e presentarsi in aula a Perugia. A questo, il giudice ha anche evidenziato la difficoltà oggettiva dell’audire in un contesto adeguato – che garantisca la genuinità della testimonianza – Giulio Occhionero, in quanto si tratta di una questione che lei stessa ha definito “delicata”.
Il regalo di Natale
Non dello stesso avviso sembra essere la pm Miliani, la quale si è definita “in astratto favorevole” all’audizione a distanza della parte civile. Ad ogni modo, l’audizione – stando alla decisione del giudice Grassi, che ha condiviso in pieno le osservazioni della difesa di Ramondino – deve avvenire in presenza e questo dovrebbe accadere non il 22 novembre, quando sarà ascoltato il consulente tecnico d’ufficio, ingegner Giovanni Nazzaro, ma il 20 dicembre quando – come auspicato dal giudice – Giulio Occhionero rientrerà in Italia per le feste comandante.
“Ci fanno il regalo di Natale”, ha commentato con una punta di ironia il legale di Federico Ramondino, l'avvocato Mario Bernardo. Ma ironia a parte, ci ricolleghiamo alle considerazioni del giudice Grassi e, a nostra volta, ci domandiamo per quale motivo Giulio Occhionero sia così apparentemente poco interessato a un processo che ha contribuito in modo determinante a far iniziare.
Non è lui, infatti, quello che più di tutti vuole fare luce su questa vicenda, come fortemente sostenuto di fronte ai microfoni di Antonello Nicosia, conduttore del programma Mezz’ora d’aria in onda su Aracne tv, oggi condannato in primo grado a 15 anni di carcere per associazione mafiosa?
Cercheremo di chiederlo direttamente a lui, altrimenti attenderemo il 20 dicembre, sperando che stavolta Giulio Occhionero si presenti.
Petrolio e fiumi di denaro: i tentacoli dell'Occhio della Piramide. Cosa collega la loggia P2 allo scandalo Mafia Capitale e all'operazione di acquisizione del pozzo petrolifero OPL 245? Perché il computer di Luigi Bisignani viene infettato dal malware Eye Pyramid? Scenari inquietanti fanno da sfondo alla vicenda che vede protagonisti i fratelli Occhionero. Gianluca Zanella e Manuele Avilloni il 4 Agosto 2023 su Il Giornale.
Quante volte in Italia, nelle vicende più oscure e intricate, si è parlato del coinvolgimento della massoneria? La risposta non esiste. Sarebbe come chiedere a un astronomo quante sono le stelle nel cielo.
Nostro malgrado, dobbiamo aggiungere a questa lista infinita anche la vicenda che vede protagonisti i fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero, che nel 2017 finiscono al centro di una bufera che li porta a una condanna di primo grado per aver messo in piedi – secondo l’accusa - la più grande operazione di cyberspionaggio mai conosciuta in Italia.
IlGiornale.it torna ad occuparsi di questa vicenda. Nonostante i due fratelli si dichiarino al centro di un complotto internazionale, in attesa del processo di Appello e in occasione dello svolgimento, a Perugia, del processo contro l’hacker che ha individuato il malware Eye Pyramid, ricondotto poi dalla polizia postale alla paternità di Giulio Occhionero, la lettura delle carte offre diversi spunti di approfondimento e una pista che porta fino alla P2.
La P2 è stata la più potente e capillare organizzazione massonica esistita nel nostro Paese, capace di raggiungere le più alte sfere del potere e al centro degli intrighi più oscuri: dalla morte del banchiere Roberto Calvi alla strage di Bologna; dalla stagione dei sequestri all’omicidio di Roberto Rosone. E l’elenco potrebbe essere molto più lungo.
Parlando di P2 non si può prescindere dal suo dominus, il maestro venerabile Licio Gelli. Burattinaio con un passato fascista, legato ai servizi segreti italiani e statunitensi, per molti anni – fino alla sua morte avvenuta nel 2015 – si è dilettato negli intrighi di potere. Cosa c’entra il venerabile con i fratelli Occhionero? Ci arriviamo.
Il potere delle informazioni
Intanto, senza entrare nelle specifiche tecniche, dobbiamo descrivere quello che era il funzionamento del malware Eye Pyramid che, per come era strutturato, rispondeva a un preciso mandato, lo stesso – se vogliamo fare un parallelo – che aveva la P2: acquisire informazioni a tutti i livelli e, contestualmente, potere.
Il malware, la cui paternità è attribuita dall'accusa a Giulio Occhionero - che ricordiamo essere un esponente della massoneria, membro della loggia "Paolo Ungari-Nicola Ricciotti Pensiero e Azione" di Roma, di cui ha ricoperto il ruolo di maestro venerabile - non spiava solamente infrastrutture critiche e personaggi di alto profilo, ma anche gli stessi confratelli. Sul suo computer, infatti, è stata ritrovata in una drop zone - lo spazio di memoria dove vengono archiviati i dati sottratti da un malware - una cartella denominata "BROS", diminutivo di brothers/fratelli, in cui erano raccolti 524 account di posta elettronica riferibili a 338 membri della massoneria.
Come suggerisce il nome ed esattamente come la P2 (viene in mente la definizione di Tina Anselmi quando parlava di una struttura fatta da due piramidi rovesciate, ndr), Eye Pyramid era composto da una struttura piramidale con snodi per la differenziazione delle informazioni che, una volta esfiltrate, venivano filtrate e, se degne di attenzione (solitamente perché contenenti parole chiave che il malware era in grado di riconoscere, ndr), raggiungevano gli snodi più elevati.
Un modus operandi che, anche se più tecnologico, non è poi così nuovo, esattamente come affermato nel corso di un'udienza al processo di Perugia da Roberto Di Legami, che fino al 2017 è stato direttore del servizio di Polizia Postale e Telecomunicazioni di Roma. In fin dei conti, si tratta sempre di raccogliere informazioni e aumentare il proprio potere d’influenza.
Dalla P2 a Mafia Capitale
E ora arriviamo al collegamento – labile ma suggestivo – con la P2 di Licio Gelli. A finire sotto l’attenzione mediatica allo scoppio dello scandalo sono state anche le società degli Occhionero, cui più volte abbiamo accennato nei precedenti articoli. Una di queste è la Rogest Srl.
La società, collocata nel settore edile, viene fondata l’11 maggio 2004 a Frosinone, in via Brighindi 44, un indirizzo che per molti può non dire assolutamente nulla, ma che dal 1961 al 1967 è stato la residenza di Licio Gelli. Un caso? Una sorta di omaggio? Un messaggio preciso rivolto a qualcuno di altrettanto preciso? Difficile dirlo.
Sorvoliamo poi sui collegamenti tra la Rogest Srl e lo scandalo “Mafia Capitale” (nel 2008, dopo il trasferimento della sede a Roma, amministratore unico della società diventa Carlo Maria Guarany, arrestato il 2 dicembre 2014 in quanto ritenuto braccio destro di Salvatore Buzzi, ndr).
Anche Luigi Bisignani vittima di Eye Pyramid
Se fino a qui la storia sembra ripetersi, sappiate che non è finita qui. Tornando alla massoneria, la giustizia italiana riaccende i riflettori su questi schemi di potere con l’inchiesta giudiziaria del 2011 relativa alla cosiddetta P4, inchiesta poi sgonfiatasi, ma nella quale fu oggetto delle indagini preliminari l’ex giornalista e uomo d’affari – spesso chiamato spregiativamente il faccendiere - Luigi Bisignani. Se è vero che l’uomo che viene definito anche come il manager del potere nascosto ha sempre negato ogni sua appartenenza a qualsivoglia loggia massonica, il suo nome comparve nel 1981 nelle famose liste della P2 rinvenute a Castiglion Fibocchi.
E se vi dicessimo che lo stesso Bisignani era è stato una vittima di Eye Piramid? Certo, vista la mole e la caratura dei personaggi rimasti vittime inconsapevoli dell’operazione di dossieraggio messa in atto dal malware ricondotto alla paternità di Giulio Occhionero, il caso specifico potrebbe essere riferito a una mera casualità. Ma Bisignani non è persona che si incrocia per caso. Soprattutto, non nel periodo in cui il virus informatico si insinua nel suo computer.
Petrolio e fiumi di denaro
Gli anni in cui questo accade – diversi articoli di giornale ne danno notizia nel 2011, ma l’infezione potrebbe essersi verificata in anni precedenti – sono quelli in cui Bisignani fa da intermediario tra l’Eni e il governo della Nigeria per l’acquisizione del pozzo petrolifero Opl 245, vicenda che darà vita a una poderosa inchiesta della procura di Milano che si è conclusa il 19 luglio 2022, quando la procura generale ha rinunciato all’impugnazione della sentenza che il 17 marzo 2021 aveva assolto i manager Eni e lo stesso Bisignani, rendendo di fatto le assoluzioni definitive.
Due indizi non fanno una prova, certo, ma il fatto che il malware Eye Pyramid abbia incontrato almeno una volta – nel 2014 – l’Eni e che precedentemente si fosse insinuato nel computer di Bisignani, forse va letto con il tentativo di carpire informazioni preziose proprio in merito ai retroscena dell’accordo per l’acquisizione del pozzo nigeriano. Un affare dove non solo si sono mosse montagne di denaro, ma che ha stuzzicato gli interessi geopolitici non solo dei due paesi direttamente coinvolti nell’affare.
Se l’infezione ai dispositivi di Bisignani fosse finalizzata alla sola esfiltrazione di informazioni o se il suo computer sia servito da testa di ponte per infettare a sua volta altri dispositivi, al momento non è dato saperlo. Quello che sappiamo è che – all’epoca in cui il faccendiere viene infettato – Eye Pyramid ancora non era stato scoperto. Per questa ragione, Bisignani fu sospettato di essere l’autore di un’operazione di cyberspionaggio. Oggi sappiamo che, al contrario, anche lui era una vittima.
Un gioco di specchi
A distanza di oltre sei anni da quel 9 gennaio 2017 in cui le vite di Giulio e Francesca Maria Occhionero vennero stravolte dall’arresto, le zone d’ombra sono ancora molte, ma alcuni collegamenti cominciano a essere più chiari. La storia dell’occhio della piramide è un gioco di specchi, o meglio, un rebus. E in quanto tale, per quanto complessa, esiste la soluzione. IlGiornale.it continuerà a cercarla.
SANGUE E MISTERI. Mafia e logge occulte, l’indagine della Commissione parlamentare antimafia. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 13 marzo 2023
Si sa tutto e si sa niente su quei poteri che s'incontrano fra delitti eccellenti e stragi. Cosa nostra, 'ndrangheta, massoneria segreta, uomini d'onore, terroristi neri e “liberi muratori”. Folclore e mistero, il grottesco che si mischia con il sangue.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Si sa tutto e si sa niente su quei poteri che s'incontrano fra delitti eccellenti e stragi. Cosa Nostra, 'Ndrangheta, massoneria segreta, uomini d'onore, terroristi neri e “liberi muratori”. Folclore e mistero, il grottesco che si mischia con il sangue. C'è una trama che attraversa la storia repubblicana da Portella della Ginestra e passa da piazza Fontana con gli indiziati del massacro che trovano riparo giù a Catanzaro grazie all'aiuto dei boss calabresi.
Depistaggi e tanto denaro, riti e affari, cappucci e iniziazioni.
Il pentito Francesco Marino Mannoia raccontò che il suo capo Stefano Bontate era anche massone. Voleva entrare lì dentro per stringere accordi e governare Palermo insieme ad altri amici che non fossero solo i suoi. E poi la vicenda di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano legato a Giulio Andreotti, alla P2 di Licio Gelli e - naturalmente - all'aristocrazia mafiosa siciliana.
Su questi intrecci poche sono le indagini e ancora meno le sentenze. Per provare a capire e a scoprire ci sono state le inchieste di alcune commissioni parlamentari. Le analisi e le riflessioni sul tema: «Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa Nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi». E poi: «Nelle logge la presenza di esponenti di Cosa Nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica». E ancora: «Le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per la conclusione di grandi affari, sia per ‘l’aggiustamento’ dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia».
Una grande questione criminale, tante realtà tutte diverse e tutte uguali con luoghi speciali come Castelvetrano, la patria di Matteo Messina Denaro, latitante per trentanni fino al 16 gennaio scorso. Un paese con ben sei logge sulle diciannove attive nella provincia trapanese, fra i "fratelli" moltissimi uomini politici.
Da oggi sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi. Un documento molto prezioso.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
MASSONERIA. Castelvetrano, una grande capitale di boss e di “liberi muratori”. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA su Il Domani il 13 marzo 2023
Il tema del rapporto tra mafia e massoneria affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti, sia in connessione con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Il tema del rapporto tra mafia e massoneria affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti, sia in connessione con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione.
In tale prospettiva, la Commissione ha considerato un punto centrale della propria attività l’analisi del cambiamento delle mafie, e del loro nuovo modo di agire prevalentemente attraverso modalità collusive e corruttive, meno violente ma inclusive di una pluralità di soggetti all’interno della gestione degli affari, attraverso accordi di cui si fa garante con il consenso e le relazioni di cui gode e a cui conferisce forza per il tramite della propria “riserva di capitale” violento.
Di tali accordi corruttivi in cui sono presenti esponenti mafiosi si rinviene traccia ormai in tutte le indagini sui nuovi affari criminali, in cui confluiscono soggetti dell’impresa, della politica, dell’amministrazione e delle organizzazioni mafiose.
Sulla pericolosità del fenomeno la Commissione ha un interesse ad indagare che va ben oltre la mera ricerca degli elementi che qualificano la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., che compete alla magistratura e che afferisce evidentemente alle condotte dei singoli e alla loro qualificazione giuridica. La Commissione indaga infatti su un piano diverso, politico, fondato sull’interesse pubblico della materia in base a un mandato della legge istitutiva, la quale stabilisce altresì che i compiti e i poteri di inchiesta sono attribuiti alla Commissione medesima con riferimento a tutte le forme e ai raggruppamenti criminali di questo tipo, non solo cioè quelli che abbiano le caratteristiche di cui all'articolo 416-bis del codice penale in senso tecnico, ma anche quelli “che siano comunque di estremo pericolo per il sistema sociale, economico e istituzionale”.
Su tale base, dal punto di vista privilegiato del proprio osservatorio istituzionale, la Commissione si è occupata dell’argomento delle infiltrazioni mafiose nella massoneria interloquendo con tutti i soggetti istituzionali coinvolti nella raccolta di utili elementi di conoscenza, soprattutto nel corso delle missioni territoriali in Sicilia e Calabria. Pur essendo già affiorato in precedenza, l’argomento è emerso con particolare rilevanza in occasione della missione effettuata a Palermo e a Trapani, il 18, 19 e il 20 luglio 2016.
In quell’occasione, nell’ambito delle attività istruttorie effettuate mediante interlocuzione con il prefetto, i rappresentanti provinciali delle forze di polizia, la magistratura distrettuale e circondariale, è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia, anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp), luogo di origine del noto capomafia latitante Matteo Messina Denaro.
LE VICENDE DI CASTELVETRANO
Nonostante la mafia trapanese sia un’espressione tradizionale di Cosa nostra, già tendente di per sé al controllo economico e istituzionale di un territorio, essa - come accertato non solo nelle sedi giudiziarie ma anche nell'ambito dei lavori della Commissione antimafia da diverse legislature - ha caratteristiche proprie che assumono rilievo sia sulla sua particolare capacità di infiltrazione nella res pubblica sia sulla centralità, in siffatti affari, della cittadina di Castelvetrano.
In particolare, l’attuale capo della mafia della provincia di Trapani, il latitante Matteo Messina Denaro, da almeno un ventennio gestisce l’associazione mafiosa e il suo rapportarsi con il territorio secondo regole solidaristiche volte all’acquisizione del consenso degli associati e della società civile.
L’imprenditoria, ad esempio, non è vessata dall’imposizione del pizzo ma riceve l’aiuto economico e il sostegno mafioso offrendo in cambio, sinallagmaticamente, la titolarità di quote delle imprese. Pertanto, già la sola contrattazione della pubblica amministrazione con le società private, di fatto, finisce talvolta per avvantaggiare e rafforzare l’associazione mafiosa.
Significativi sono, al riguardo, sia i numerosi procedimenti penali sui condizionamenti degli appalti dove si evince, ancora una volta, l’assoggettamento dei pubblici interessi a quelli di cosa nostra e del suo leader Matteo Messina Denaro, sia, soprattutto, i diversi scioglimenti delle amministrazioni del trapanese (sette enti dal 1992 al 2012) e i molteplici provvedimenti di accesso ispettivo adottati negli anni, sebbene non conclusi con la misura sanzionatoria, fino a giungere, come si dirà, al giugno 2017 con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose dello stesso comune di origine del latitante.
In tale contesto, la cittadina di Castelvetrano è al centro delle dinamiche mafiose della provincia di Trapani non solo quale luogo natale dei Messina Denaro, ma soprattutto perché questi da sempre amministra cosa nostra trapanese attraverso una cerchia di stretti parenti e di fidati amici lì residenti che gli consentono, dunque a tutela della sua latitanza, di evitare una continua permanenza in quel territorio e di mantenere comunicazioni diradate con gli associati.
Per comprendere quanto sia forte e determinante la presenza occulta di Messina Denaro a Castelvetrano basti richiamare le recenti vicende del defunto Lorenzo Cimarosa, cugino acquisito del capomafia e unico soggetto di quell’ambito familiare che ha reso dichiarazioni collaborative con la giustizia così minando, per la prima volta, l’intangibilità di una famiglia di sangue che è, al contempo, una famiglia mafiosa.
Ebbene, non solo egli e i suoi figli hanno subito l’isolamento da parte di taluni concittadini, ma dopo la sua improvvisa morte, avvenuta nel gennaio del 2017 a causa di una grave malattia, nel successivo mese di maggio la sua tomba è stata profanata.
Del resto, basti pensare alle agghiaccianti dichiarazioni rese sul punto proprio da uno dei candidati sindaco di Castelvetrano nell’ultima tornata elettorale (che poi non ha avuto luogo per l’intervenuto provvedimento ex art. 143 Tuel). In una registrazione diffusa tramite i social, egli, negando l’esistenza della mafia, inveiva contro il figlio del collaboratore invitandolo a prendere le distanze dalla scelta del padre, accusava la magistratura e, di converso, elogiava la criminalità organizzata della quale condivideva pubblicamente le ragioni della devianza.
È in tale peculiare contesto ambientale, dunque, che si verificavano una serie di accadimenti che, nell’estate del 2016, portavano la Commissione parlamentare antimafia a svolgere una missione a Trapani.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA
Tutti gli incappucciati nella patria di Matteo Messina Denaro. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA su Il Domani il 14 marzo 2023
Nel pur piccolo comune di Castelvetrano, patria e sede criminale dei Messina Denaro, insistono diverse logge massoniche (sei sulle diciannove operanti nell’intera provincia di Trapani) e che nell’amministrazione comunale castelvetranese, vi era un’elevata presenza di iscritti alla massoneria tra gli assessori (4 su 5), tra i consiglieri (7 su 30), tra i dirigenti e i dipendenti comunali
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
In particolare, era accaduto che, nel novembre 2014, uno dei consiglieri comunali di Castelvetrano, era stato tratto in arresto per delitti di mafia. Nell’ambito della relativa inchiesta, tra l’altro, era stata registrata una conversazione di costui che, a un altro consigliere comunale, raccontava del suo legame con la famiglia dei Messina Denaro, delle visite e degli incontri sia con Francesco Messina Denaro (padre di Matteo) quando questi era latitante, sia con lo stesso Matteo, anch’egli latitante, enfatizzando la commozione che tali contatti gli procuravano e la sua devozione verso quei personaggi.
Il consigliere, pertanto, veniva sospeso dalla carica ma poi reintegrato in seguito alla sua assoluzione in primo grado del dicembre 2015. Il suo rientro, però, nel marzo 2016, determinava, proprio in relazione al contenuto di quelle intercettazioni, le dimissioni di ventotto consiglieri comunali (su trenta) e, dunque, il commissariamento del consiglio comunale di Castelvetrano con la nomina, il 24 marzo 2016, da parte della Regione siciliana, di un magistrato in pensione. In base alla normativa regionale, invece, il sindaco e la giunta rimanevano in carica.
Qualche mese dopo, appunto nell’estate del 2016, a trent’anni dalla scoperta a Trapani della loggia segreta “ Iside 2” , nata sotto l’insegna del circolo culturale “Scontrino” , e in cui, accanto a personaggi delle istituzioni, sedevano i boss mafiosi di maggiore rilievo, si ritornava a parlare di massoneria quale possibile luogo chiave, secondo alcune inchieste della Procura di Trapani e di Palermo, per la composizione di interessi mafiosi, politici e imprenditoriali, compresi quelli riconducibili a Messina Denaro.
Al di là degli esiti di tali indagini, peraltro ancora in corso, le Forze dell’ordine e la Prefettura evidenziavano sin da subito che nel pur piccolo comune di Castelvetrano, patria e sede criminale dei Messina Denaro, insistono diverse logge massoniche (sei sulle diciannove operanti nell’intera provincia di Trapani) e che nell’amministrazione comunale castelvetranese, già storicamente oggetto degli interessi mafiosi ma anche, come detto, dimora di qualche sostenitore del latitante, vi era un’elevata presenza di iscritti alla massoneria tra gli assessori (4 su 5), tra i consiglieri (7 su 30), tra i dirigenti e i dipendenti comunali.
Anzi, la stessa prefettura di Trapani segnalava che gli elenchi ufficiali degli iscritti nel trapanese apparivano incompleti per difetto e, pertanto, non era possibile ottenere una descrizione d'insieme del fenomeno.
La Commissione, quindi, procedeva, nel corso della missione, ad una serie di audizioni, in buona parte segretate, delle autorità locali, di consiglieri comunali che si erano apertamente schierati contro Messina Denaro e, per questo, divenuti bersaglio di attentati e minacce, della magistratura trapanese (il procuratore di Trapani e i giudici che avevano trattato il caso dell’omicidio Rostagno) sulle indagini in corso e sugli aspetti particolarmente inquietanti di una serie di gravi delitti consumati in quella provincia.
Poco più tardi, giungeva la definitiva ed eclatante conferma alle preoccupazioni della Commissione. Risultava evidente e documentato, infatti, che quello stesso Comune di Castelvetrano, popolato anche da numerosi appartenenti alle diverse logge massoniche, aveva subito l’infiltrazione mafiosa e veniva sciolto ai sensi dell’art. 143 Tuel.
A Trapani, del resto, nel mese di giugno 2017, nel pieno della campagna elettorale, è stato raggiunto da provvedimento cautelare Girolamo Fazio, già sindaco e candidato alle elezioni amministrative; le elezioni sono state invalidate per il mancato raggiungimento del quorum dei votanti e al posto del sindaco si è insediato un commissario.
Nel solo 2017 altre importanti inchieste si sono susseguite a ritmi serrati: per motivi di mafia il tribunale di Trapani ha disposto importanti misure di natura personale e patrimoniale nei confronti di politici come Giuseppe Giammarinaro, ex parlamentare regionale; a novembre è stato sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale Gianfranco Becchina, noto mercante d’arte, ritenuto vicino a Matteo Messina Denaro, e suo finanziatore; sono stati disposti sequestri e confische per molti milioni di euro.
Ancora, in provincia di Trapani per la prima volta è stata disposta l’amministrazione giudiziaria ex art. 34 d.lgs. n. 159/2011 di un istituto di credito, la Banca di Credito Cooperativo Sen. Pietro Grammatico, con sede legale in Paceco.
Attualmente, nel trapanese, è censita inoltre la presenza di circa 200 soggetti, già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti, che, scontata la pena, sono ora in stato di libertà.
All’esito, dunque, della missione di Trapani, delle dichiarazioni rese della Presidente e dei membri della Commissione nella conclusiva conferenza stampa, delle successive reazioni giornalistiche degli assessori massoni che si sentivano criminalizzati dall’attenzione delle Istituzioni sulla vicenda di Castelvetrano, dunque, Stefano Bisi, gran maestro dell’associazione massonica denominata “Grande Oriente d’Italia” (Goi) chiedeva, con lettera del 28 luglio 2016, di essere audito per esporre la posizione della sua obbedienza rispetto alla possibile permeabilità mafiosa.
La Commissione antimafia accoglieva con vivo interesse quella richiesta e, pochissimi giorni dopo, il 3 agosto 2016, Stefano Bisi veniva audito in plenaria a Palazzo San Macuto.
L’atteggiamento assunto dal gran maestro, però, lungi dall’apparire trasparente e collaborativo nel perseguimento dell’obbiettivo, che si riteneva dovesse essere comune, di impedire l’inquinamento mafioso di lecite e storiche associazioni private, si rivelava di netta chiusura e di diffidenza verso l’Istituzione.
Da qui, dunque, trae origine la necessità da parte della Commissione di avviare gli opportuni approfondimenti anche attraverso l’esercizio dei poteri d’inchiesta parlamentare.
Si evidenziavano così recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzavano gravi fatti similari del passato, lasciando supporre sia l’esistenza e la reiterazione nel tempo di infiltrazioni da parte di cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria, sia che, parallelamente alla metamorfosi delle mafie, sempre meno violente e più collusive, la composizione degli interessi illeciti potesse avvenire, talvolta, proprio tramite logge massoniche a cui aderiscono, tra l’altro, esponenti della classe dirigente e dell’imprenditoria del paese.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA
Le infiltrazioni mafiose e il “negazionismo” dei Venerabili Maestri. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA su Il Domani il 15 marzo 2023 • 19:00
Dopo le perquisizioni del 1° marzo 2017 che consentivano di ottenere un cospicuo materiale documentale e informatico, che insieme al già importante compendio probatorio, permetteva pur in assenza della collaborazione dei gran maestri, di osservare dall’interno dei sistemi massonici taluni meccanismi di facilitazione dell’ingresso delle mafie
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Si evidenziavano così recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzavano gravi fatti similari del passato, lasciando supporre sia l’esistenza e la reiterazione nel tempo di infiltrazioni da parte di cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria, sia che, parallelamente alla metamorfosi delle mafie, sempre meno violente e più collusive, la composizione degli interessi illeciti potesse avvenire, talvolta, proprio tramite logge massoniche a cui aderiscono, tra l’altro, esponenti della classe dirigente e dell’imprenditoria del Paese.
La Commissione, pertanto, nell’adempimento dei propri doveri previsti dall’art. 82 della Costituzione e dall’art. 1 della legge istitutiva del 19 giugno 2013, n. 87, avviava un’inchiesta sulla mafia e sui suoi rapporti con la massoneria, finalizzata, soprattutto, ad “accertare la congruità della normativa vigente” al fine di formulare “ le proposte di carattere normativo e amministrativo ritenute opportune per rendere più coordinata e incisiva l'iniziativa dello Stato” (...).
Si procedeva, quindi, allo svolgimento di una serie di attività conoscitive,8 tra le quali assumevano rilievo centrale le audizioni dei gran maestri di quattro obbedienze individuate a campione, tra cui il suddetto GOI, trattandosi di una delle associazioni numericamente più rilevanti e poiché, del resto, era stato proprio il suo gran maestro a chiedere spontaneamente di essere sentito per offrire il suo contributo agli accertamenti della Commissione.
L’accennato esito della prima audizione di Stefano Bisi, però, imponeva, dal punto di vista del metodo, di procedere all’ascolto dei gran maestri nella forma della testimonianza sulla base delle prerogative riconosciute dall’art. 4 della legge istitutiva n. 87 del 19 luglio 2013 [...], così parificando l’audizione a testimonianza all’esame testimoniale reso innanzi al giudice (e non già alle sommarie informazioni rese in fase di indagine al pubblico ministero, sanzionate, per i casi di falsità o reticenza, dalla diversa fattispecie di reato di cui all’art. 371-bis c.p.).
La Commissione procede infatti non solo attraverso le forme parlamentari, libere, ma anche quelle giudiziarie. Queste sono modellate anzitutto su quelle della magistratura giudicante, attraverso le disposizioni del codice penale e del codice di procedura penale a cui fa rinvio la legge istitutiva, che fa costantemente riferimento ai poteri e alle attività processuali che dinanzi al giudice si svolgono.
Inoltre, la Commissione procede alle indagini anche con i poteri propri della magistratura requirente, attraverso i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova disciplinati dal codice di procedura penale, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 82 della Costituzione.
Nel merito, l’esame era diretto ad acquisire elementi conoscitivi sul comportamento e sulle prassi delle obbedienze al fine di verificare se, ad una parte significativa della massoneria ufficiale o considerata “regolare” risultasse, più da vicino, l’eventuale interesse della mafia nei suoi confronti, e, in caso positivo, quali fossero i rimedi da loro adottati e quelli adottabili in sede legislativa e, comunque, quale fosse il suo eventuale vulnus strutturale che potesse consentire o facilitare l’infiltrazione mafiosa.
Al pari di quanto accaduto con la prima audizione di Bisi, ciò che emergeva da tali audizioni, era, in sostanza e con varie sfumature, una posizione negazionista delle obbedienze nei confronti del fenomeno a cui veniva, al contrario, opposta l’esistenza di regole e prassi massoniche tali da sventare ogni pericolo.
Si ricavava anche, come si dirà meglio, l’unanime rifiuto, più o meno netto, ma sempre apparso pretestuoso, di consegnare alla Commissione gli elenchi degli iscritti alle rispettive obbedienze, invocando, a sostegno della propria posizione, le più disparate ragioni e, comunque, da parte di tutti, la legge sulla privacy che, a loro dire, li avrebbe obbligati a mantenere riservati i nominativi degli accoliti, pena la violazione di norme dello Stato.
Tuttavia, per la proficua prosecuzione dell’inchiesta parlamentare, la Commissione riteneva indispensabile acquisire quegli elenchi per procedere all’analisi sia circa l’incidenza tra gli iscritti di soggetti con precedenti penali per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. o per i delitti aggravati dall’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991; sia circa la particolare ricorrenza di determinate categorie professionali tra gli iscritti che potesse rivelarsi sintomatica di strumentalizzazioni mafiose; sia, di conseguenza, con riguardo all’adeguatezza della legislazione vigente ad evitare la creazione di zone grigie, facilitate dalla riservatezza e dai vincoli di obbedienza che caratterizzano
talune associazioni massoniche, in cui sia agevole la penetrazione delle mafie e, soprattutto, l’interferenza di queste ultime, attraverso i fratelli, nello svolgimento di pubbliche funzioni o nel controllo delle attività economiche.
Pertanto, oltre alle sollecitazioni di consegna rivolte in forma collaborativa ai quattro gran maestri nel corso delle rispettive audizioni, rivelatesi ben presto vane, si procedeva anche a reiterare la richiesta per iscritto attraverso formali missive, fermo restando che la Commissione aveva già deliberato di assoggettare i documenti richiesti al regime di segretezza che ne avrebbe impedito la divulgazione, [...].
L’ennesimo rifiuto opposto con motivazioni manifestamente infondate - rapportato, peraltro, a quelle audizioni insoddisfacenti e ad una serie di altri elementi di allarme desunte da indagini penali in corso e dalle altre audizioni nel frattempo svolte (comprese quelle di ex appartenenti a logge massoniche, i quali avevano assolutamente segnalato la situazione di pericolo) – costituiva motivo ulteriore che, ancor di più, faceva ritenere necessaria l'acquisizione di quegli elenchi, tanto più alla luce del tempo trascorso.
La Commissione parlamentare antimafia, dunque, in data 1° marzo 2017 deliberava, all’unanimità, di acquisire gli atti di interesse presso le sedi centrali delle quattro obbedienze, attraverso gli strumenti della perquisizione e del sequestro disciplinati dagli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale.
Sebbene non mancassero spunti per svolgere l'inchiesta sulle infiltrazioni delle mafie nella massonerie in tutte le regioni italiane, in quanto le articolazioni delle mafie su tutto il territorio nazionale sono ben evidenti, la Commissione riteneva opportuno circoscrivere l’ambito immediato di azione, almeno prioritariamente, agli elenchi degli iscritti a logge della Sicilia e della Calabria.
Ciò in ragione di un interesse ancor più concreto e attuale, trattandosi di regioni ad alta densità mafiosa, teatro delle indagini penali in corso svolte dalle Procure di Palermo, di Trapani e di Reggio Calabria, e in cui si registrava un elevato numero di appartenenti alla massoneria, a partire dall’anno 1990 (periodo questo in cui erano iniziate le più pregnanti segnalazioni, anche da parte di taluni massoni, circa infiltrazioni mafiose nella massoneria) fino ad oggi, nonché, essendo emerso l’abbattimento di logge calabresi e siciliane, talvolta, anche “per possibile inquinamento malavitoso”, alla documentazione relativa alle articolazioni territoriali calabresi e siciliane che erano state oggetto di decreti massonici di scioglimento.
Le perquisizioni venivano eseguite nella medesima data del 1° marzo 2017 e consentivano di ottenere un cospicuo materiale documentale e informatico, di cui si tratterà più avanti, che, insieme al già importante compendio probatorio, permetteva, pur in assenza della collaborazione dei gran maestri, di osservare dall’interno dei sistemi massonici taluni meccanismi di facilitazione dell’ingresso delle mafie.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA
L’Antimafia e quelle quattro “obbedienze” oggetto d’indagine. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA su Il Domani il 16 marzo 2023
L’indagine svolta dalla Commissione, così come più volte ribadito dai membri dell’organo parlamentare nel corso delle varie audizioni dei gran maestri delle quattro obbedienze, non riguarda la massoneria come fenomeno associativo in sé, quanto piuttosto la mafia e le sue infiltrazioni nelle associazioni di tipo massonico in Sicilia e Calabria
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Prima di addentrarsi nell’analisi delle risultanze dell’inchiesta parlamentare occorre preliminarmente evidenziarne i suoi obiettivi e, dunque, i suoi correlati limiti intrinseci ed estrinseci.
Preliminarmente, e a chiarimento di ogni possibile equivoco, va ancora una volta sottolineato che l’indagine svolta dalla Commissione, così come più volte ribadito dai membri dell’organo parlamentare nel corso delle varie audizioni dei gran maestri delle quattro obbedienze, non riguarda la massoneria come fenomeno associativo in sé, quanto piuttosto la mafia e le sue infiltrazioni nelle associazioni di tipo massonico in Sicilia e Calabria.
Il tema dell’indagine, del resto, è in linea con quello di altre inchieste svolte dalla Commissione, incentrate sull’aspetto relazionale delle mafie con tutti i soggetti del mondo politico, imprenditoriale e sociale, sotto i profili del livello di infiltrazione e condizionamento, di consapevolezza dei conseguenti rischi, del valore generale di quanto rilevato nell’ottica di una più mirata produzione legislativa.
Tale approccio, in coerenza con il mandato e con le finalità della Commissione d’inchiesta, è stato sempre tenuto ben presente in tutte le fasi dell’indagine ed ha inciso sulle modalità di accertamento e sul perimetro della medesima.
Già con riferimento alla mafia, protagonista di questa investigazione, l’inchiesta è stata delimitata da due diverse considerazioni.
La prima. Poiché, già da tempo immemorabile, la questione dell’infiltrazione della mafia nella massoneria ha costituito oggetto di procedimenti penali e di relazioni di precedenti Commissioni parlamentari, non si è inteso inutilmente “scoprire” quanto già può ritenersi conosciuto e notorio alla collettività, bensì si è voluto comprendere, attualizzando quei rapporti, quali fossero i meccanismi che consentono o facilitano l’infiltrazione mafiosa nella massoneria e ciò, in ultima analisi, per indicare i possibili rimedi, anche di natura legislativa, idonei ad impedire, o quanto meno arginare, il fenomeno.
La seconda. Non potendo ragionevolmente svolgersi verifiche su tutte le mafie operanti sul territorio nazionale, e dunque, sulle relative associazioni massoniche di eventuale riferimento, l’analisi delle infiltrazioni è stata delimitata alle associazioni mafiose operanti in Calabria e in Sicilia, regioni queste che, di recente, sono state interessate, come detto, da diverse inchieste giudiziarie sull’argomento.
Con riguardo alla massoneria, che in questa inchiesta è il termine di riferimento della mafia, si è ritenuto di individuare, a campione, quattro obbedienze - il Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani (Goi), la Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Ggli) e la Serenissima Gran Loggia d’Italia - Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Sgli o “ Serenissima” ) - tramite le quali potere acquisire quelle necessarie basi informative sul funzionamento delle associazioni massoniche, utili per comprendere gli eventuali elementi di fragilità di queste ultime strumentalizzate dalla mafia.
Di conseguenza, essendosi osservate solo quattro obbedienze rispetto all’ampia galassia di associazioni massoniche di varia natura presenti nelle due regioni, si è ottenuta una prospettiva parziale del loro atteggiarsi che, per quanto di rilievo, non può ritenersi rappresentativa di tutta la massoneria italiana.
Pertanto, va precisato sin d’ora, che il termine massoneria, che sarà necessariamente utilizzato in modo generico nelle pagine successive, non vuole né può riferirsi alla massoneria complessivamente intesa ma solo a quelle associazioni di tipo massonico che presentino talune peculiari caratteristiche che, insieme considerate, possano risolversi nell’agevolazione dell’accesso mafioso.
Ancora, tale prospettiva è altresì parziale rispetto alle stesse quattro obbedienze posto che, avendo privilegiato solo gli accadimenti relativi ai territori calabresi e siciliani, non si sono considerati quelli riguardanti altre regioni. Anzi, nella scrupolosa osservanza dei decreti di sequestro del 1° marzo 2017 - riguardanti solo gli iscritti alle logge calabresi e siciliane delle quattro obbedienze, una certa tipologia di atti, e un determinato arco temporale - il materiale acquisito è stato attentamente selezionato assicurando il contraddittorio tra le parti, nonché tempestivamente restituito agli aventi diritto, per trattenere agli atti della Commissione indicato nei citati provvedimenti.
LIMITI DELL’INDAGINE PARLAMENTARE
Inoltre, trattandosi di un’indagine sulla mafia, la Commissione, nell’approfondire la composizione degli appartenenti alle quattro citate obbedienze, effettuato verifiche a tal fine mirate, grazie alla collaborazione con la Dna e alla consultazione del suo sistema informativo. Sono state pertanto rilevate esclusivamente le ricorrenze giudiziarie relative ai reati di cui all’art. 51, comma 3- bis c.p.p. e, in particolare, i delitti di cui all’art. 416-bis del c.p. e quelli aggravati dall’art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, tralasciando le altre fattispecie di reato, seppure altrettanto gravi o, addirittura, possibilmente indicative di rapporti mafiosi.
Sempre per le medesime ragioni, la Commissione non ravvisa la sussistenza di un interesse pubblico alla rivelazione dell’identità dei singoli iscritti alla massoneria in quanto tali, dei quali, pertanto, va rispettata la privacy mantenendo, anche sotto tale profilo, il regime di segretezza già imposto alle liste degli appartenenti nel corso dell’inchiesta.
Eventuali nominativi che saranno indicati nel corso della relazione riguardano soltanto quelli di soggetti che pubblicamente hanno dichiarato la loro iscrizione alla massoneria o le cui vicende, collegate alla loro appartenenza massonica, possono ritenersi notorie.
Non verranno nemmeno rivelate le generalità di coloro per i quali potrebbero trarsi elementi di responsabilità giuridica posto che le funzioni della Commissione parlamentare di inchiesta, espressione ope costitutionis del potere legislativo, non possono che essere finalizzate ad acquisire elementi di conoscenza propedeutici all’esercizio della legislazione e, pertanto, non consentono di accertare e perseguire condotte individuali, compito questo rimesso alla magistratura.
Tuttavia, nello spirito di collaborazione istituzionale, la Commissione corrisponderà alle richieste dell'Autorità giudiziaria pervenute in ordine alla propria attività istruttoria, anche con riferimento al sequestro degli elenchi. Del resto, l’esistenza del conseguente segreto investigativo ne impedirà, parimenti, la loro divulgazione.
È, infine, opportuno evidenziare che, accanto al suindicato perimetro degli accertamenti, il compendio informatico e cartaceo sequestrato è caratterizzato da altri limiti probatori dei quali non si può non tenere conto nella valutazione delle risultanze.
Procedendosi nei confronti della mafia e non della massoneria, le perquisizioni sono state eseguite esclusivamente presso le sedi ufficiali delle quattro obbedienze ed in epoca successiva alle diverse e pubbliche sollecitazioni ai gran maestri di consegnare gli elenchi. Non può pertanto escludersi a priori né che altra documentazione potesse essere conservata altrove né che parte di quella custodita nelle sedi ufficiali sia stata spostata prima dell’esecuzione dei suddetti decreti.
Va ancora segnalato che il materiale informatico in sequestro consiste, nella sostanza, in milioni di file la cui completa analisi richiederebbe l’impiego di un rilevante arco di tempo, incompatibile con la durata della legislatura. Pertanto i risultati che saranno illustrati, se possono ritenersi singolarmente verificati e approfonditi, devono però considerarsi parziali nel senso che non rispecchiano l’intero compendio in sequestro.
L’insieme delle risultanze oggetto della presente relazione, dunque, non ha potuto che essere coerente sia con gli obiettivi perseguiti sia con i limiti suddetti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA
Mafia e massoneria deviata, eversione nera e strategia della tensione. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 17 marzo 2023
La massoneria, intorno agli anni 1977-79, aveva chiesto alla commissione di Cosa nostra di consentire l’affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose. In secondo luogo era emerso che, nell'ambito di alcuni episodi che avevano segnato la cd. “strategia della tensione”, alcuni esponenti della massoneria aveva chiesto la collaborazione della mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
I rapporti fra massoneria e mafia sono stati oggetto di interesse e approfondimento dei lavori di precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta, nonché di procedimenti penali, anche recenti, condotti da uffici requirenti in diverse regioni del territorio nazionale.
Ancorché, a oggi, le indagini giudiziarie non siano mai giunte a far stato di cosa giudicata circa una relazione stabile e continuativa tra associazioni massoniche e consorterie mafiose, il quadro complessivo che se ne ricava attesta, in ogni caso, una pericolosa e preoccupante contiguità in presenza di determinate contingenze storiche o con riferimento alla conclusione di singoli affari di particolare rilevanza economica.
Non va, peraltro, dimenticato che il limite dell’accertamento giudiziario, diretto a verificare e punire fatti integranti fattispecie di reato (per di più nel caso di specie, nell’ottica dell’art. 416-bis c.p.), non si presti sempre ad essere uno strumento idoneo per rilevare tali connessioni, lì ove l’appartenenza alla massoneria in sé – fuori dai casi in cui non ci si imbatta in singoli comportamenti delinquenziali di sostegno o fiancheggiamento alle organizzazione mafiose, o nell’adesione alle associazioni segrete vietate dalla “legge Spadolini” – si presenti come pienamente lecita e legittima. Non forse a caso già negli anni ’80 del secolo scorso, in seno all’indagine sulla P2, l’allora giudice istruttore Giovanni Turone coniò l’espressione «masso-mafia».
Nel trattare dei rapporti tra mafia e massoneria, non si può prescindere dal dato che in Italia, in quanto territorio tristemente e storicamente contraddistinto dall’operare di organizzazioni mafiose, la presenza di forme di associazionismo, in sé pienamente lecite, ove strutturate sul vincolo della estrema riservatezza, possano prestare il fianco a forme di infiltrazione da parte di quelle organizzazioni criminali che intravedono in detti contesti associativi occasioni ed opportunità per perseguire i loro interessi.
Se da un lato, per i limiti e le difficoltà sopra accennate, non è del tutto comprovata sul piano giudiziario l’esistenza di forme di direzione unitaria, stabilità di rapporti, o sovrapposizioni di strutture e appartenenze tra mafie e massoneria, dall’altro, l’opacità della contemporanea presenza di determinati soggetti nell’una e nell’altra associazione e l’accertata convergenza o intersezione di interessi tra pezzi delle due strutture in alcune specifiche situazioni e momenti della vita del paese, nonché i gravi fatti che hanno coinvolto numerosi aderenti a logge massoniche, sono circostanze che richiedono comunque, nella prospettiva dell'inchiesta parlamentare, un’attenta rilettura, e fors’anche una rivisitazione, degli avvenimenti salienti della storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi.
La contiguità tra la cd. “massoneria deviata” e le cosche mafiose era già stata posta all’evidenza nella relazione sui rapporti tra mafia e politica e nella relazione conclusiva (delle quali cui fu relatore il presidente, on. Luciano Violante) approvate dalla Commissione parlamentare antimafia nel corso dell’XI legislatura (Docc. XXIII, n. 2 e n. 14).
In un passaggio chiave della relazione conclusiva veniva affermato che «il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi».
Ed ancora: «L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica... . Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. ( ...) Le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per la conclusione di grandi affari, sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l’identità dei " fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato”.
In base ai risultati dell’inchiesta, che si era avvalsa delle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, quella Commissione era pervenuta alle seguenti conclusioni.
In primo luogo, la massoneria, intorno agli anni 1977-79, aveva chiesto alla commissione di Cosa nostra di consentire l’affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose. Nonostante il fatto che non tutti i membri della commissione avessero accolto favorevolmente l’offerta, alcuni di essi unitamente ad altri “uomini d'onore” di rango ebbero convenienza ad optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra.
In secondo luogo era emerso che, nell'ambito di alcuni episodi che avevano segnato la cd. “strategia della tensione” nel nostro paese tramite i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, alcuni esponenti della massoneria aveva chiesto la collaborazione della mafia.
Infine, si rilevava che all’interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l’adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli “ uomini d'onore” .
Si ricorda, altresì, che rapporti fra Cosa nostra e massoneria erano già emersi anche nell'ambito dei lavori delle Commissioni parlamentari d'inchiesta, sia sul caso Sindona, sia sulla loggia massonica P2, che avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979.
Dal termine dei lavori della citata Commissione antimafia della IX Legislatura in poi, non sono mancate le indagini e i procedimenti penali che, direttamente o incidentalmente, hanno verso sull’interesse coltivato dalla mafia nei confronti della massoneria.
A tal riguardo, con l’obiettivo di acquisire contezza di tali accertamenti, questa Commissione ha richiesto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo di trasmettere una raccolta di atti sull’argomento, anche antecedenti ai lavori della citata Commissione antimafia della XI legislatura.
Si tratta di una mole di documenti (sentenze, decreti di archiviazione, dichiarazioni di collaboratori) che sarebbe arduo, ma anche superfluo, riportare qui in maniera sistematica. Bastino, pertanto, solo alcune citazioni delle evidenze più emblematiche e significative.
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COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Comitati d’affari segretissimi e misteriose affiliazioni. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 18 marzo 2023
A riprova dell’interesse della mafia ad infiltrare il mondo massonico quale mezzo per accedere ad altri circuiti di potere, giova ricordare le parole di uno dei primi collaboratori a parlare dell’argomento, ovvero Leonardo Messina: «È nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Sul fronte di Cosa nostra, già nel gennaio del 1986 la magistratura palermitana aveva disposto una perquisizione presso la sede del Centro sociologico italiano.
In quell’occasione erano stati sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – obbedienza di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figuravano, tra gli altri, i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e di Giacomo Vitale, quest’ultimo cognato di Stefano Bontate (noto come Bontade).
I riscontri, allora effettuati sui nominativi dei presenti negli elenchi, avevano inoltre messo in luce che «molti dei soggetti presi in esame risultano avere precedenti penali per reati di mafia».
È sempre di quegli anni la nota vicenda, curata dalla magistratura trapanese, del Centro studi Scontrino presieduto da Giovanni Grimaudo, in cui grazie alle risultanze degli atti sequestrati si era accertato che nello stesso luogo avevano sede anche sei logge massoniche (Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram), nonché un’ulteriore loggia, quest’ultima segreta, il cui elenco degli iscritti veniva rinvenuto nell’agenda sequestrata al Grimaudo, tutti annotati sotto la dicitura "loggia C".
Nell’elenco di questa loggia coperta, accanto ai nomi di imprenditori, banchieri e liberi professionisti del luogo, figuravano quelli dei maggiori esponenti della mafia trapanese, della politica e della pubblica amministrazione locale.
La sentenza pronunciata dal Tribunale di Trapani il 5 giugno 1993 è comunque emblematica perché diede atto sul piano fattuale che le affiliazioni massoniche erano strumentali all’unica finalità di raccogliere attorno alla figura di Giovanni Grimaudo uno straordinario e pericolosissimo comitato d’affari, composto da personaggi di varia estrazione, appartenenti a mondi separati i quali, sfruttando la possibilità di incontro nel cono d’ombra delle logge spurie, avevano la possibilità di stringere rapporti e di collaborare per la realizzazione di interessi nei più disparati ambiti, dall’aggiudicazione degli appalti al traffico di stupefacenti.
Inoltre, non si deve dimenticare che il primo procedimento organico sulla massoneria deviata e sui rapporti con la ndrangheta è stato condotto dalla procura della Repubblica di Palmi nei primi anni novanta; successivamente è stato archiviato dalla procura della Repubblica di Roma, dove il procedimento era stato trasmesso per competenza.
L’indagine fu avviata sulla base di dichiarazioni di sedici pentiti, tra i quali il notaio Pietro Marrapodi, imputato di avere redatto numerosi atti di trasferimento per sottrarre al rischio di sequestro il patrimonio immobiliare della cosca De Stefano. Il notaio illustrò l’attività della
massoneria c.d. “deviata”, i metodi per occultare gli adepti tra i quali l’iscrizione in logge situate in luoghi diversi da quelli di residenza, spesso lontanissimi, o l’iscrizione “mediata” di prossimi congiunti.
Contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani erano, altresì, emersi nel processo celebrato a Palermo nel 1995 contro Giuseppe Mandalari - “gran maestro dell'ordine e gran sovrano del Rito scozzese antico e accettato" nonché ritenuto il commercialista di Salvatore Riina - che avevano confermato che sarebbe stato proprio costui a conferire il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Giovanni Grimaudo e, soprattutto, che vi era stata un’interazione tra Cosa nostra e massoneria per condizionare l’esito di un processo.
La sentenza emanata, in tempi più recenti rispetto ai fatti, a carico di Mandalari ha accertato la pesante influenza esercitata da taluni "fratelli" sui giudici popolari della Corte d'assise chiamata a giudicare l'avvocato Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno destinata ad uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti.
L’interesse di Cosa nostra, come di altre organizzazioni mafiose, a rapportarsi con ambienti della massoneria per avere l’opportunità di interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie a loro carico nonché per far ottenere particolare benefici a favore dei detenuti, costituisce un tema invero piuttosto ricorrente in diverse indagini.
D’altronde, già nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Gaspare Mutolo, agli esordi della sua collaborazione con la giustizia, ebbe ad affermare che alcuni uomini d’onore potevano essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per “avere strade aperte ad un certo livello”, per ottenere informazioni preziose provenienti da determinati circuiti e non solo. Il collaboratore riferiva, infatti, che taluni iscritti alla massoneria erano stati persino utilizzati per “aggiustare” processi attraverso contatti con giudici massoni.
A riprova dell’interesse della mafia ad infiltrare il mondo massonico quale mezzo per accedere ad altri circuiti di potere, giova ricordare le plastiche parole di uno dei primi collaboratori a parlare dell’argomento, ovvero Leonardo Messina: «È nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».
Tale dichiarazione sembra dunque confermare che da un certo momento in poi cosa nostra avesse superato ormai l’atavico canone in base al quale un uomo d’onore poteva essere legato, fino alla morte, al solo vincolo di appartenenza alla mafia, così escludendo la contemporanea adesione alla massoneria.
Nonostante lo stesso Giovanni Brusca, divenuto collaboratore di giustizia, ancora nell’anno 1998, avesse dichiarato che, per quanto a sua conoscenza, sotto il dominio dei corleonesi non era consentita l’iscrizione degli uomini d’onore alla massoneria, (apparendo la dichiarazione riscontrabile dalla circostanza che il numero delle logge nella provincia di Palermo risultava assai più ridotto rispetto a quello delle altre province della Sicilia ed in particolare rispetto al numero elevato di quelle esistenti nella provincia di Trapani) le dichiarazioni rese, poi, da Angelo Siino, collaboratore di giustizia e massone, fanno piena chiarezza sul punto. Il divieto per gli aderenti a cosa nostra di fare parte della massoneria continuava ad essere valido, ma solo sul piano formale.
“Le regole erano un po’ elastiche” – aveva spiegato Siino – “come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali”. I primi a coltivare queste relazioni, fuori dal vincolo mafioso, erano stati il già citato Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, che intuirono ben presto l’utilità di un’adesione a logge massoniche.
La “Santa”, la setta occulta della ‘Ndrangheta. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, 2023 su Il Domani il 19 marzo 2023
Ed è proprio attraverso la Santa che la ’ndrangheta è entrata in rapporto con la massoneria. Già la Commissione parlamentare antimafia nel corso della XIII Legislatura così si esprimeva al riguardo: “Una struttura nuova, elitaria, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Le più recenti motivazioni della sentenza sull’omicidio Rostagno, pronunciata dalla Corte di Assise del Tribunale di Trapani nel 2015 e ancorché riferibile a fatti risalenti agli anni Ottanta del secolo scorso, descrivono uno scenario inquietante dei rapporti tra mafia e massoneria, sia regolare che deviata.
Esse lasciano intravedere la possibile attualità di collegamenti alle più recenti vicende sui rapporti tra imprenditoria, centri di potere, amministrazioni locali e criminalità, anche verificatisi in altri territori del Paese, quasi in assenza di soluzione di continuità tra passato e presente. Una commistione di rapporti e di interessi convergenti che avrebbe visto seduti, attorno allo stesso tavolo per la spartizione dei più disparati affari, uomini provenienti da mondi diversi che avrebbe agevolato “la penetrazione di Cosa nostra nell’imprenditoria, nelle banche e negli apparati dello Stato, favorita con tutta probabilità dal crescente ruolo delle fratellanze massoniche”.
Sintomatica sotto il profilo della contaminazione di interessi tra logge massoniche e mafia, è la vicenda descritta nella sentenza della Corte d’Appello di Catania n. 1010/2013 del 18 aprile 2013, in cui viene riferito un episodio di pressioni esercitate dagli appartenenti di grado elevato ad una obbedienza massonica, indicata come quella di Piazza del Gesù di Catania, su un loro “fratello” osteggiandone la sua candidatura a sindaco nella competizione elettorale per il comune di San Giovanni La Punta (CT), comune per ben due volte sciolto per infiltrazione mafiosa. A dire del diretto interessato, per la competizione elettorale gli sarebbe stato preferito altro candidato poiché sostenuto dalla famiglia mafiosa egemone in quel territorio. A fronte del suo rifiuto a farsi da parte e ad abbandonare la competizione elettorale, era stato posto “ in sonno” dalla sua obbedienza e dall’anno 2001, data cui si riferiscono i fatti, non vi era più rientrato. La decisione di convincerlo ad abbandonare la competizione elettorale sarebbe, peraltro, avvenuta su richiesta di un suo superiore massonico, responsabile della obbedienza in Calabria.
LA “SANTA” CALABRESE
Più complessi e apparentemente più strutturati appaiono i rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria. La stessa struttura originaria della mafia calabrese, per quanto è dato oggi conoscere dalle sentenze passate in giudicato, aveva subìto negli anni Settanta una rilevante mutazione ed evoluzione, laddove era stata prevista la creazione di un livello superiore alla “società dello sgarro” , denominato la società maggiore o la “Santa” , cui affidare il riservatissimo ruolo, sconosciuto anche alla più parte degli appartenenti alle ‘ndrine, di entrare in contatto con una vasta area di potere locale di diversa natura, e di creare un collegamento stabile tra l’associazione mafiosa e i vari centri di poteri presenti nella massoneria. Ed è proprio attraverso la Santa che la ’ndrangheta è entrata in rapporto con la massoneria. Già la Commissione parlamentare antimafia nel corso della XIII Legislatura così si esprimeva al riguardo: “Una struttura nuova, elitaria (... ) estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i limiti della vecchia onorata società e della sua subcultura, e soprattutto senza i tradizionali divieti, fissati dal codice della ’ndrangheta, di avere contatti di alcun genere con i cosiddetti “contrasti”, cioè con tutti gli estranei alla vecchia onorata società. Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, le quali non scomparivano del tutto, ma che restavano in vigore solo per la base della ’ndrangheta, mentre nasceva un nuovo livello organizzativo, appannaggio dei personaggi di vertice che acquisivano la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi”. In sintesi, “una struttura mirante all’obiettivo di ampliare affari e potere dell’organizzazione”.
Ancora, sempre da atti piuttosto recenti in relazione ad indagini svolte intorno agli anni 2009-2011, diversi personaggi hanno dichiarato di essere stati contemporaneamente appartenenti ad obbedienze massoniche e alla ‘ ndrangheta, tanto da affermare enfaticamente che la massoneria aveva ormai soppiantato l’organizzazione criminale calabrese.
Singolari appaiono, al riguardo, le dichiarazioni di altro collaboratore, Cosimo Virgiglio, che sembra ribaltare il rapporto tra i due sistemi. Non sarebbe, a suo avviso, la ‘ ndrangheta ad infiltrare la massoneria, bensì questa a servirsi della prima.
Oltre alle dichiarazioni dei collaboratori, sono gli stessi atti giudiziari che riportano il dato fattuale sulla contiguità di rapporti e di frequentazioni tra i due sistemi. Da ultimo, si ricordano gli esiti delle più recenti indagini della DDA di Reggio Calabria dove non mancano riferimenti, più o meno espliciti, circa l’esistenza di sinergie fra ‘ ndrangheta e massoneria, sempre nell’ambito della citata struttura riservata denominata “ la Santa” , che sarebbero finalizzate al perseguimento di una mirata strategia di lungo termine: la progressiva infiltrazione negli ambienti politici, imprenditoriali ed istituzionali. Tale progetto, si afferma in dette inchieste della magistratura calabrese, avrebbe preso corpo fin dalla prima guerra di mafia verificatasi nella provincia di Reggio Calabria negli anni Settanta del secolo scorso e, verosimilmente, avrebbe una portata ancora più vasta ed obiettivi ancor più ambiziosi e trasversali, sino a costituire momento e progetto di coesione tra tutte le varie associazioni criminali di tipo mafioso presenti nel Paese, come si avrà modo di accennare ulteriormente nel corso della presente relazione.
Quando massoni, faccendieri e mafiosi sono in un unico abbraccio. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA su Il Domani il 20 marzo 2023
Vi sarebbero state perfino indicazioni nel senso che Matteo Messina Denaro avrebbe perseguito il progetto, già di Bontate, di occupazione da parte della mafia di uno spazio politico, attraverso la creazione di logge ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne diviene il braccio armato
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
In sintesi, le indagini sin qui svolte dalle autorità inquirenti calabresi illustrano un quadro di allarmante pericolosità che sarebbe caratterizzato dall’esistenza di un “mondo di mezzo”, crocevia e luogo di compensazione degli interessi del mondo criminale, dell’imprenditoria e della politica, quasi a riecheggiare in proporzione il modello, pur diverso nelle forme e nei contesti, emerso nell’indagine nota come “mafia capitale”.
Gli esiti investigativi consegnano un panorama complessivo di rapporti e collaborazioni con ambienti e soggetti massonici cui non si sottrae alcuna organizzazione mafiosa tradizionalmente presente sul nostro territorio.
Esponenti di cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita o soggetti comunque riconducibili a tali sodalizi, hanno partecipato a riunioni e incontri con individui appartenenti alle più diverse obbedienze massoniche per pianificare di comune accordo interventi nei più diversificati contesti ed, elettivamente, nel settore degli appalti e nella spartizione delle risorse pubbliche.
Una “camera di compensazione di affari”, tipica di quel terzo livello, descritto nella sentenza sull’omicidio Rostagno, in cui si incontrano burocrati, imprenditori, uomini politici e mafiosi, per consentire rapide carriere, assicurare voti, aggiudicarsi appalti e, in genere, per lucrare.
IL CONTRIBUTO DEI MAGISTRATI SICILIANI E CALABRESI IN COMMISSIONE
Al fine di conoscere gli sviluppi delle indagini più recenti e in corso, la Commissione antimafia ha ritenuto opportuno procedere all’audizione dei magistrati, siciliani e calabresi, che, a vario titolo, si sono occupati del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nella massoneria.
Come detto in apertura di questa relazione, l’inchiesta ha preso avvio proprio con l’audizione della magistratura trapanese le cui dichiarazioni sono tuttavia rimaste segretate agli atti della Commissione trattandosi di argomenti inerenti delicate indagini in corso. Anche le audizioni di magistrati palermitani incontrano, in diversi passaggi, il limite della segretezza.
Rinviando ai resoconti, nelle parti libere, delle dichiarazioni loro rese a questa Commissione, può comunque affermarsi che tali rappresentanti dell’Autorità giudiziaria hanno evidenziato un’allarmante continuità tra le più note vicende del passato – quella già citata della loggia “Scontrino” – alle più attuali risultanze investigative, un filo conduttore che ipotizza come le logge coperte si annidino ancora all’ombra delle logge ufficiali; di come gli uomini, pur risultati iscritti alle logge coperte, abbiano continuato a fare carriera sia nel mondo politico, sia nel mondo degli affari, non essendovi stata mai una efficace reazione da parte delle Istituzioni per isolarli, anche dopo che i loro nomi e la loro appartenenza fosse divenuta palese; di come vi sia riscontro che già appartenenti a logge segrete ed irregolari siano poi trasmigrati in altre logge; di come sia possibile passare da una loggia regolare ad una coperta e viceversa.
La presenza di logge nel trapanese, in un numero che ora come in passato appare sproporzionato rispetto alle altre province siciliane e d’Italia, l’elevato numero di iscritti nella provincia, la qualità degli iscritti, spesso provenienti dal mondo della borghesia, rende possibile la creazione di veri e propri “comitati di affari”, dove è possibile cogliere opportunità di carriera, influenzare o determinare l’esito nelle consultazioni politiche, scambiarsi favori per il reciproco vantaggio e a detrimento dei legittimi interessi di altri.
I magistrati hanno riferito dei riscontri che sono emersi dalle investigazioni, in cui funzionari infedeli delle pubblica amministrazione, compiacenti agli interessi di referenti delle cosche, risultavano iscritti ad una loggia; faccendieri e mediatori che operavano per ritardare la celebrazione di processi, per acquisire informazioni sulle indagini in corso, erano a loro vota massoni; e massoni, addirittura gran maestri, erano alcuni personaggi che si erano spesi per presentare imprese per concorrere all’aggiudicazione di appalti pubblici, persino di opere da realizzare in uffici giudiziari; ci sono massoni tra commercialisti, medici, avvocati che condividono la fratellanza in logge ove vi è la presenta più o meno palese di mafiosi o che si mettono al loro servizio.
E, anzi, vi sarebbero state perfino indicazioni nel senso che Matteo Messina Denaro avrebbe perseguito il progetto, già di Bontate, di occupazione da parte della mafia di uno spazio politico, attraverso la creazione di logge ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne diviene il braccio armato.
Anche i magistrati impegnati in Calabria hanno offerto sul tema della connessione tra ‘ndrangheta e massoneria un rilevante contributo, già nella scorsa legislatura: “In diverse indagini abbiamo raccolto elementi che indicano una connessione tra pezzi di ’ndrangheta, la parte elevata della ’ndrangheta (i capi, per capirci), logge massoniche e altri pezzi della città.
Tali elementi, raccolti nel corso di diverse indagini, al momento ci permettono di avanzare soltanto un’ipotesi di lavoro, un’ipotesi investigativa secondo la quale, in Calabria, la massoneria sia una sorta di stanza di compensazione in cui, anche fisicamente, si possono realizzare interessi comuni, si possono incontrare persone diverse che magari non possono vedersi altrove e in tale contesto hanno l’occasione di riunirsi tutti coloro che sono accomunati da un legame particolare per coltivare determinati interessi (...).
La massoneria, quindi, funziona come un cemento che lega le persone, le mette insieme e le fa stare anche fisicamente in un’unica stanza – per questo parlo di stanza di compensazione – dove possono discutere e realizzare i loro interessi, non sempre leciti.
Questo noi lo abbiamo verificato in diversi contesti di indagine. Ovviamente sono spunti, sono elementi sui quali dobbiamo costruire ancora qualcosa di più significativo e importante”.
Del resto, l'esistenza della questione si percepisce con immediatezza attraverso le conversazioni intercettate tra noti ndranghetisti. Si tratta di un dato che ha infatti precisi riscontri giudiziari, affidati alle parole di alcuni tra i maggiorenti della ndrangheta, intercettati nel segreto dell'abitazione di Giuseppe Pelle, depositate agli atti nel processo Mandamento ionico: «... sono tutti nella massoneria quasi...». «La possono fare questa cosa qua? ... Per regola, si può f are?», è la domanda. Risposta: «per regola tante cose non si potevano fare ... E si fanno». E ancora: «Nella massoneria abbiamo ... portato “uomini” ... io me ne sono andato! (...) quando mi sono accorto che il pesce puzza dalla testa».
Successivamente, i magistrati hanno potuto riferire anche di talune indagini già oggetto di discovery.
LE ULTIME INCHIESTE CALABRESI
Le recenti acquisizioni investigative, sfociate nei procedimenti “Crimine”, Saggezza” , “Fata Morgana" e “ Mammasantissima”, ancora al vaglio del giudice dibattimentale, evidenzierebbero infatti l’esistenza di una componente riservata, le figure dei cd. “invisibili” , “soggetti che, per il ruolo che rivestono, per l’apporto che danno alla ’ndrangheta, per il versante su cui operano devono essere mantenuti coperti”.
Essi non si identificherebbero con quella componente riservata già conosciuta, di cui vi è traccia già nell’origine stessa della Santa e di cui si è fatto cenno più sopra, composta da soggetti esponenziali delle singole cosche che venivano inseriti nell'ambito della massoneria per avere occasioni di rapporto con il mondo degli affari e della politica.
Al contrario, quello che è emerso dalle più recenti indagini sopra indicate, sembrerebbe prefigurare l’esistenza di un’entità riservatissima in grado di esercitare un controllo quasi totalizzante sulle stesse organizzazioni che ha consentito la coesistenza dei due mondi, quello massonico e quello criminale.
In tal modo la stessa massoneria, così infiltrata tramite la Santa, si sarebbe piegata alle esigenze della ’ndrangheta, così creando all’interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese-professionale, all’ombra delle logge, un ulteriore livello, ancor più riservato, anzi segreto, formato da soggetti “che restano occulti alla stessa massoneria” . Si tratta di coloro “che, dovendo schermare l'organizzazione ed essendo note soltanto a determinati appartenenti all'organizzazione dei vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna altra forma evidente quale possono essere le associazioni massoniche”.
Su tale ultimo aspetto, relativo ad un "livello" superiore e diverso dalla massoneria e quindi per certi versi persino ulteriore rispetto all'oggetto della presente inchiesta, occorrerà, naturalmente, attendere gli esiti processuali per un quadro più completo e stabile delle acquisizioni conoscitive.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA XVII LEGISLATURA
Le dichiarazioni del venerabile maestro del Grande Oriente d’Italia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 21 marzo 2023
Di Bernardo ha riferito che, nel corso di un incontro avvenuto nel 1993 tra i vertici del Goi, gli era stato riferito “ con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta” e che ciò nonostante nessun provvedimento era stato adottato in merito, né sarebbe stato preso per paura di “rappresaglie”...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.
Tra le numerose dichiarazioni raccolte nel corso dell’inchiesta parlamentare, anche nelle forme dell'audizione a testimonianza di cui all'articolo 4 della legge 89 del 2013, appare significativo soffermarsi, in primo luogo, su quella resa da Giuliano Di Bernardo e poi, specularmente, su quella del collaboratore di giustizia Francesco Campanella.
È interessante, infatti, cogliere i diversi aspetti della stessa medaglia, ponendo a confronto il punto di vista e l’esperienza di due diversi appartenenti alla stessa obbedienza massonica: l’apice e la base.
Giuliano Di Bernardo - iniziato alla massoneria nel 1961, maestro venerabile nel 1972 della loggia bolognese “Zamboni de Rolandis” ove era “coperto” , eletto poi gran maestro del Goi l’11 marzo 1990 - in seguito alla cosiddetta “inchiesta Cordova” il 16 aprile 1993 si dimise dalla carica per fondare una propria autonoma obbedienza, la Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), di cui fu gran maestro dal 1993 al 2001, fino a quando nel 2002 non decise di lasciare anche l’obbedienza da lui fondata abbandonando del tutto la massoneria.
Al di là dei possibili livori maturabili in tutti gli ambiti associativi (e di cui vi è traccia anche nelle dichiarazioni di Bisi allorché parla di Di Bernardo), si ritiene, in questa sede, di dovere attribuire un particolare interesse alle dichiarazioni dell’ex gran maestro del Goi in merito alle sue conoscenze circa il funzionamento della massoneria e agli episodi da lui constatati (per i quali, appunto, lasciò il Grande Oriente d’Italia), posto che, anche in base all’ordinamento di tale obbedienza, il gran maestro è “garante della Tradizione Muratoria”, al quale tutto viene rapportato e riferito e, come spiegato, è anche colui che può conoscere l’esistenza di eventuali “ fratelli all’orecchio” all’interno dell’intera associazione.
In particolare, nell’audizione a testimonianza resa dinanzi alla Commissione il 31 gennaio 2017, Di Bernardo ha riferito che, nel corso di un incontro avvenuto nel 1993 tra i vertici del GOI, gli era stato riferito “ con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta” e che ciò nonostante nessun provvedimento era stato adottato in merito, né sarebbe stato preso per paura di “rappresaglie”.
Furono proprio queste argomentazioni ad indurlo a prendere immediatamente contatti con il Duca di Kent – referente di prestigio della massoneria ufficiale a livello internazionale – al fine di esporre la situazione in cui versava l’obbedienza, ricevendo in risposta di averne già avuto notizia da ambienti dell’Ambasciata in Italia e dei servizi di sicurezza britannici.
Di Bernardo aggiunge che, in realtà, già in precedenza - intorno agli anni ’90 - aveva avuto modo di apprendere notizie inquietanti sull’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nelle logge del GOI e, in particolare, della Sicilia dove la situazione appariva gravemente compromessa. Nel corso di una riunione a Palermo, l’allora vertice Goi delle logge siciliane gli aveva persino consigliato di non accettare l’invito del presidente del consiglio regionale, proveniente da Campobello di Mazara, in quanto mafioso o collegato con la mafia. Tutti elementi, questi, che lo avevano indotto a chiedersi se gli ispettori del Goi facessero realmente i controlli previsti.
Proprio a causa di tali “presenze”, Di Bernardo aveva abbandonato il Goi, decidendo di fondare una nuova obbedienza (Glri) dove, per evitare il rischio delle infiltrazioni mafiose, ha dichiarato di aver assunto regole più stringenti, quali la consegna annuale al ministro dell’interno dell’elenco completo degli iscritti, l’abolizione dei cappucci e delle spade in quanto ritenuti ormai anacronistici e, infine, la certificazione dei bilanci.
Tuttavia, nonostante l’adozione di tali misure, nemmeno questa volta era riuscito nel suo intento di garantire trasparenza ad una obbedienza e, pertanto, aveva preso la grave decisione di abbandonarla nel 2002 e di lasciare definitivamente il mondo composito della massoneria.
Dava poi contezza della giustizia massonica come indipendente ed autonoma da quella “profana”: “Un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no”.
Pertanto non vi è l’obbligo di denunciare neanche se si viene a conoscenza dell’appartenenza di un “fratello” ad una associazione mafiosa; dall’audizione emergeva, altresì, che il rifiuto della giustizia “profana” è nel modo di essere di un’associazione massonica.
Anche se Di Bernardo ha potuto riferire di fatti risalenti agli anni ’90 (peraltro corrispondenti alla stagione delle stragi politico-mafiose che insanguinarono l’Italia in quel terribile periodo), la portata e la gravità delle sue dichiarazioni è di tutta evidenza, emergendo uno spaccato di un’associazione che, contrariamente ai valori che professa, non si prefigge il rispetto della legalità e tollera pratiche di segretezza.
Ancor più grave la mancata reazione a fronte di una espressa denuncia di presenza mafiosa nelle sue logge. Alcune di esse verranno poi “abbattute”, ma mai è stata palesata la presenza o solo il rischio di presenze devianti, nelle motivazioni degli scioglimenti.
Il quadro riferito è inquietante, ancor più perché proveniente da colui che è stato al vertice dell’obbedienza e che, nonostante il suo grado, non è riuscito a dar vita ad un dibattito all’interno dell’associazione per estirpare il pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Il racconto di un “fratello muratore” molto vicino alla mafia di Provenzano. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il domani il 22 marzo 2023
Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria, aderendo alla loggia palermitana del GOI “ Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandalà il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
La Commissione parlamentare antimafia ha voluto ascoltare anche il racconto di due collaboratori di giustizia, uno siciliano e l’altro calabrese, per approfondire il tema, a cui avevano accennato nelle loro dichiarazioni in sede giudiziaria ma non sempre di diretto interesse della magistratura, delle “fragilità” del sistema massonico che consentono alla mafia di infiltrarsi.
Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria, aderendo alla loggia palermitana del Goi “Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandalà il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano.
Campanella, dunque, ha raccontato alla Commissione, dall’ottica di chi si collocava alla base della scala gerarchica mafiosa e massonica, dell’incrocio tra le due diverse esperienze, quella mafiosa, presa sul serio, e quella massonica, presa quasi per gioco.
La sua doppia appartenenza era nota ad entrambe le parti, al capomafia e ai vertici della loggia (rappresentati da persone con cui intercorrevano rapporti di amicizia). La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata né dall’una né dell’altra parte. Mandalà, infatti, aveva ritenuto che potesse essere “una cosa interessante e che .. sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera” .
Ben presente era, infatti, l’utilità che avrebbe potuto conseguire Cosa nostra dall’affiliazione di un suo uomo alla massoneria, in ragione dei rapporti, della conoscenza e delle frequentazioni che, in quel consesso, si rendono possibili (“c’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione).
Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facenti capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandalà, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati.
I fratelli, a loro volta, lungi dal manifestare alcun disappunto sulla mafiosità di Campanella, aderirono, anzi, ad un suo progetto, costituendo una società per la gestione dei finanziamenti pubblici regionali, potendo il giovane di Villabate garantire la giusta copertura.
A sua volta, lo stesso Campanella, sempre grazie ai fratelli massoni, venne in contatto con un avvocato che gli ritornò utile nei propri affari. Pur trattandosi di un fratello che, come egli stesso dichiara, ha fatto poca carriera nella massoneria, Campanella è, coerentemente, risultato a conoscenza di quanto un massone di quel livello può sapere, a parte qualche confidenza, come si dirà, ottenuta dal Mandalà e dai vertici della “Triquetra”.
Le sue dichiarazioni confermano, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che, come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte.
LA RISERVATEZZA DELLE LOGGE
Egli stesso, infatti, riteneva di essere ancora iscritto (in realtà, risulta messo in sonno nel 2003 e depennato nel 2005 proprio a causa delle sue traversie giudiziarie).
Confermano, altresì, l’esistenza di prassi di “riservatezza” (come i segnali convenzionali per l’accesso alla sede della loggia, la mancanza di indicazioni su citofono); un “dovere di segretezza sia sull’affiliazione che su tutto quello che si discuteva all’interno della loggia”; il fatto che “non c’è comunicazione tra livelli bassi e quelli successivi” e, quindi, non c’è conoscenza di quanto avviene nei gradi superiori.
Confermano, soprattutto, l’esistenza di vere tecniche di segretezza, tramite l’assonnamento utilizzato, secondo le sue conoscenze, per due noti politici siciliani poi coinvolti in fatti di mafia: “Fratelli in sonno quei fratelli che a un certo punto rimangono fratelli affiliati e vengono messi in sonno proprio per motivazioni che possono essere la visibilità politica. (..) C’è un piè di lista della loggia, un registro dei soggetti affiliati, dove però non vengono scritti né i fratelli coperti, semmai ce ne fossero stati, né quelli in sonno. ( ..) Nel momento in cui hanno cominciato a ricoprire cariche politiche si sono messi in sonno e hanno chiesto riservatezza, per cui sono stati cancellati dall’elenco pur continuando a farne parte. Credo che pagassero costantemente la quota annuale di affiliazione. ( Ma) è a disposizione della loggia, rimane fratello.” Ciò però è conosciuto solo dal “livello di comando della loggia” che fece a Campanella tali confidenze.
A tale ultimo riguardo, deve aggiungersi che dai controlli effettuati nel materiale sequestrato dalla Commissione, si è verificato che, in effetti, del nome di uno dei due non vi è traccia (risultano tuttavia iscritti taluni suoi discendenti), mentre del secondo ne è rimasta l’annotazione nella lista. Singolare, al riguardo, appare il fatto che, per quest’ultimo, nel corso delle indagini che ne avevano poi determinato l’arresto, erano stati rinvenuti, durante una perquisizione, segni evidenti della sua appartenenza alla massoneria che, dunque, a differenza dell’altro politico, era divenuta nota.
Attraverso le confidenze di Mandalà aveva invece appreso “che esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc.(..) Informazioni di prim’ordine. (..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”.
Francesco Campanella, pur dichiarando che non ebbe “il tempo di capire come funzionavano, per dirla con tutta franchezza”, ha riferito di uno specifico episodio di “fughe di notizie” che poté constatare personalmente: “in quel momento specifico in cui Mandalà era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandalà, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che lui cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandalà lo comunica a me: “ mi arresteranno, fai riferimento a mio padre” . Tutta questa serie di informazioni arrivavano”.
Un gioco a fare il massone (così Campanella ha definito la sua partecipazione alla “Triquetra”) ma che, tuttavia, corrispondeva all’interesse dello stesso collaboratore di giustizia, della sua famiglia mafiosa e della massoneria.
Va ricordato che è stato sentito, altresì, Cosimo Virgiglio, collaboratore calabrese, già più volte ascoltato dai magistrati di Reggio Calabria ai quali aveva reso un ampio resoconto sui meccanismi propriamente massonici. Davanti alla Commissione ha sostanzialmente confermato le sue ampie dichiarazioni, peraltro riportate in diversi giudiziarie.
Tra queste si ricorda, come nota di colore, che dopo il suo arresto, l’obbedienza lo fece raggiungere in carcere da un avvocato incaricato di dirgli di tacere il nome dei fratelli. Un segreto dunque ancor più valido anche per chi sta dietro le sbarre di un carcere. Anche lui confermava, come Campanella, che il vincolo massonico è perpetuo: si estingue solo con la morte.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Le procedure di controllo e la “trasparenza” delle Quattro Obbedienze. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 23 marzo 2023
Le dichiarazioni rese sono rimaste affermazioni di principio. Sulla base delle dichiarazioni dei venerabili maestri, infatti, si dovrebbe affermare che non vi è alcuna vicinanza tra mafia e ambienti della massoneria ufficiale e che, comunque, il pericolo di infiltrazione è scongiurato dalle procedure di selezione e controllo messe in atto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Una serie univoca, finora, di acquisizioni probatorie provenienti dalle fonti più disparate ha offerto, come visto, un quadro inquietante non solo per la pericolosità in sé del fenomeno ma anche per la sua costanza, da mettere in relazione anche con la consistenza numerica degli iscritti alle rispettive obbedienze.
Eppure le audizioni testimoniali dei quattro gran maestri, come anticipato, denotano un quadro quanto meno di sottovalutazione rispetto all’infiltrazione delle mafie nella massoneria.
In linea generale, infatti, tutti i gran maestri hanno rivendicato l’assenza di elementi di segretezza nelle rispettive obbedienze in quanto gli elenchi degli iscritti erano stati sempre consegnati alle Prefetture o alla polizia ma che, trattandosi di dati sensibili, dovevano essere tutelati per il diritto alla privacy, di cui D.lgs. 196/2003, e non potevano essere divulgati.
Tutti hanno proclamato l’assoluta fedeltà e il rigoroso rispetto delle obbedienze alla Costituzione ed alle leggi dello Stato; la trasparenza delle loro associazioni; l’assenza di logge coperte e di fratelli “all’orecchio”, quanto meno, quest’ultimi, dopo lo scandalo della P2; l’esecuzione di rigorose verifiche e di controlli nella fase di selezione dei “bussanti” anche attraverso l’acquisizione dei certificati penali e dei carichi pendenti, (in particolare per un obbedienza, dal 1° gennaio 2017, era richiesto altresì il certificato antimafia e di non fallimento); nonché di procedere all’espulsione degli iscritti ove si fossero riscontrati motivi connessi a frequentazioni o legami con consorterie criminali, ove accertata.
Come meglio si vedrà, le dichiarazioni rese sono rimaste affermazioni di principio, ed invero:
- nessuna obbedienza, prevede l’aggiornamento dei dati giudiziari e non sempre l’opera degli ispettori interni vuole essere efficace;
- sono state fornite risposte vaghe e generiche a specifiche domande, dimostrando, sotto vari profili, meglio nel prosieguo evidenziati, che, pur chiamandola riservatezza, permane un certo grado di segretezza sui rituali, sulle riunioni delle logge, sulla composizione sociale degli iscritti, con riferimento anche alla professione svolta;
- si è per lo più ribadito che non vi sono stati fratelli coinvolti in indagini giudiziarie o sospettati di avere rapporti con la mafia se non in casi del tutto isolati e, deve dedursene di conseguenza, che non si sia mai proceduto all’espulsione formale di un fratello da una loggia con dette ragioni. È stato, infatti, riferito di un solo caso, dal 1993 ad oggi, verificatosi in Calabria, in cui un appartenente all’obbedienza della Glri era stato depennato per i rapporti emersi con ambienti mafiosi. Gli accertamenti compiti dalla Commissione smentiranno le circostanze riferite;
- nessuna loggia è stata formalmente abbattuta con l’espressa motivazione che era in atto un tentativo di inquinamento delle associazione mafiose.
In conclusione, sulla base di tali dichiarazioni, si dovrebbe affermare che non vi è alcuna vicinanza tra mafia e ambienti della massoneria ufficiale e che, comunque, il pericolo di infiltrazione è scongiurato dalle procedure di selezione e controllo messe in atto.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Gli elenchi degli iscritti alle confraternite sequestrati dalla Finanza. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 24 marzo 2023
Dall’analisi sistematica delle risultanze acquisite, è stato possibile verificare, più da vicino, una serie di elementi che contribuiscono a comprovare la persistente infiltrazione, o il persistente tentativo di infiltrazione, della mafia nella massoneria
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Dall’analisi sistematica delle risultanze acquisite, è stato possibile verificare, più da vicino, una serie di elementi che contribuiscono a comprovare la persistente infiltrazione, o il persistente tentativo di infiltrazione, della mafia nella massoneria.
Dati, questi, che non solo si pongono in perfetta continuità con quanto prima d’ora accertato, ma assumono una particolare valenza essendo tratti, non tanto da dichiarazioni di terzi, ma da vicende accertate direttamente nel mondo massonico in cui la Commissione, anche attraverso le perquisizioni e i sequestri e, dunque, gli elenchi degli iscritti e i fascicoli delle logge sciolte, è riuscita ad affacciarsi.
Anzitutto, occorre un riepilogo del metodo di lavoro seguito dopo l’adozione del decreto di perquisizione e sequestro del 1° marzo 2017, eseguito da personale dello Scico della guardia di Finanza.
L’esame è stato circoscritto al materiale sequestrato presso quattro associazioni massoniche, con riguardo agli elenchi degli iscritti nelle regioni Calabria e Sicilia appartenenti al Grande Oriente d’Italia (Goi), alla Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), alla Serenissima Gran Loggia d’Italia - Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Ssgli), e alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Gli).
L’acquisizione del materiale, sia cartaceo sia soprattutto informatico, si è svolta nel più scrupoloso rispetto delle norme del codice di procedura penale, ampliando al massimo i profili di garanzia delle parti destinatarie del provvedimento, ben oltre le prassi in materia. Il 24 marzo 2017, è stata conferita una delega di indagine allo Scico nella quale sono state puntualmente indicate talune attività che sono state richieste alla polizia giudiziaria in quanto ritenute strumentali alla presente inchiesta.
La fase di duplicazione dei dati – la cosiddetta copia forense - è stata svolta prevedendo il contraddittorio con le parti e si è conclusa in data 31 marzo. Immediatamente a seguire si è provveduto alla integrale restituzione alle quattro associazioni massoniche del materiale originale in sequestro.
I dati complessivi evidenziano come nelle due regioni prese in esame, nel periodo di tempo considerato, risultino complessivamente censiti 17.067 nominativi ripartiti in 389 logge attive. La maggiore incidenza riguarda gli iscritti al Goi (n. 11.167 pari al 65,4 per cento). Seguono a distanza la Gli e la Glri rispettivamente con 3.646 (21,4 per cento) e 1.959 (11,5v per cento) soggetti censiti e, infine, con numeri molto più limitati la Sgli con soli 295 aderenti nelle due regioni (1,7 per cento).
Quanto alla ripartizione su base regionale, il numero dei soggetti censiti in logge calabresi (n. 9.248) supera di circa 1.400 unità gli iscritti alle logge siciliane (n. 7.819). Da un confronto tra le due regioni risulta infatti una complessiva prevalenza degli iscritti calabresi rispetto a quelli siciliani, ad eccezione della Glri dove il numero di massoni in Sicilia è più del doppio di quelli iscritti in Calabria nella medesima obbedienza.
In merito all’iscrizione alle varie logge, va poi fatto presente che negli elenchi estratti presso le quattro associazioni per ogni iscritto è stata rilevata, ove possibile, la sua ultima posizione all’interno dell’obbedienza, se, cioè, è un membro a pieno titolo dell’associazione alla data del sequestro (1° marzo 2017) oppure se ha cessato di farvi parte prima di tale data per vari motivi.
Va premesso, a tal riguardo, che ogni obbedienza utilizza una propria specifica tassonomia nell’indicare le diverse posizioni in cui può trovarsi un fratello all’interno dell’associazione massonica.
Per quanto rileva ai fini della presente inchiesta, può tuttavia affermarsi, in linea generale, che oltre ai membri effettivi propriamente detti, vi sono i soggetti sospesi, quelli in predicato di appartenere all’associazione massonica e quelli che, per varie ragione, vi hanno cessato.
Gli elenchi estratti, tuttavia, non offrono profili di sufficiente affidabilità circa l’effettivo aggiornamento della posizione dei singoli massoni presenti negli stessi. Non di rado, è stato riscontrato, per alcune obbedienze, che la posizione di un soggetto indicata nell’elenco estrapolato non coincidesse con quella rilevata nella documentazione cartacea sequestrata o negli atti rinvenuti nella copia forense dei relativi server.
Per una ricostruzione puntuale della carriera massonica di un soggetto e della sua ultima posizione all’interno dell’associazione (se “bussante”, “attivo”, “sospeso” o “depennato”) sarebbe stato necessario accedere anche ai singoli fascicoli di loggia o addirittura personali, misura, questa, che è stata ritenuta esulare dai fini della presente inchiesta che, si ribadisce, non è sulla massoneria in sé ma sui rapporti esistenti tra mafia e massoneria.
Per tale ragione, tale indagine più accurata è stata limitata alle sole logge sciolte e limitatamente agli atti analizzati presenti e rinvenuti nelle sedi centrali delle rispettive obbedienze.
Ne consegue, che laddove nella presente relazione si fa riferimento alla “posizione” di un determinato massone (bussante, attivo, sospeso e depennato), tale dato ha carattere meramente indicativo e deve essere valutato con ogni possibile cautela.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Le logge “abbattute” 138, ma senza poter conoscere mai le motivazioni. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 25 marzo 2023
Nell’assoluta maggioranza dei casi, la documentazione rinvenuta sulle logge abbattute è infatti apparsa carente di taluni documenti essenziali. Sebbene, infatti, il provvedimento di sequestro prevedesse l’acquisizione dell’intero fascicolo di loggia, è accaduto non di rado che la polizia giudiziaria incaricata sia riuscita a rinvenire solo documentazione incompleta o parziale...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
La Commissione si è posta, tra gli altri, l’obiettivo di approfondire il tema delle logge massoniche abbattute nelle regioni della Sicilia e della Calabria e la ragione effettiva del loro scioglimento, essendosi rilevato che, in alcuni casi, come quello relativo alla loggia del GOI “Rocco Verduci” di Gerace (RC) di cui si tratterà, le cause di cessazione erano state esternate con motivi di natura formale e non con le reali motivazioni inerenti l’accertata infiltrazione mafiosa.
Sulla base di quanto rilevato dallo SCICO della Guardia di Finanza, delegato dalla Commissione alle operazioni esecutive del sequestro, le quattro obbedienze hanno provveduto nel complesso a sciogliere 138 logge, di cui 86 in Sicilia e 52 in Calabria.
In particolare, 25 logge sono appartenenti al Grande Oriente d’Italia [di cui: 10 in Calabria (“Cinque martiri”, “Giovanni Mori”, Albert Pike”, “Vittorio Colao”, “Z ephyria”, “Lacinia”, “Silenzio e Obbedienza”, “Vincenzo De Angelis”, “Domenico Salvadori”, “Rocco Verduci”) e 15 in Sicilia (“Adelphia”, “Giosué Carducci”, “Francesco Paolo Di Blasi”, “XX Settembre”, “Giustizia e Libertà”, “Helios”, “Salvatore Spinuzza”, “Praxis”, “Bruno Stefano Guglielmi”, “L’Acacia”, “Luigi Domingo”, “La Fenice”, “Saverio Friscia”, “Mercurio”, “Il Melograno”).];
52 alla Gran Loggia d’Italia [di cui: 13 in Calabria (una “sciolta”: “Brutia”; due “demolite”: “Concordia”, “Giovanni Nicotera”; dieci “sospese”: “Skanderbeg”, “Eraclea”, “Iside”, “Eraclito”, “Febea”, “G. Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Logos”, “Polaris”, “Franco Franchi”) e 39 in Sicilia (di cui: due “sciolte”: “Calatafimi”, “Etna”; una “vuota”: “F. Crispi”; 14 “demolite”: “Abramo Lincoln”, “Armando Diaz”, “Dante Alighieri”, “Enea”, “Giuseppe Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Herea”, “Himera”, “Parthenos”, “Piraino di Mandralisca”, “Pitagora”, “Raffaele Bellantone”, “Salvatore Quasimodo”, “Tomasi di Lampedusa”; 22 “sospese”: “Ad Lucem”, “Athanor”, “Castore e Polluce”, “Eleuteria”, “Entopan”, “Ernesto Nathan”, “Federico II”, “Fiore della vita”, “Fra’ Pantaleo”, “G. Ghinazzi”, “G. Carducci”, “G. Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Memphis”, “Mozart”, “Nunzio Nasi”, “Selinon”, “Sicilia”, “Solidarietà”, “Sunshine”, “Trento e Trieste”, “Trinacria”).];
41 della Gran Loggia Regolare d’Italia [di cui: 16 in Calabria (“Brutium”, “Vittorio Colao”, “Bruno Amato”, “Arco Reale d’Italia Capitolo Gioacchino da Fiore n. 56 Cosenza”, “Keramos”, “Camelot n. 102 Soverato”, “Giovanni Andrea Serrao n. 179 Filadelfia (VV)”, “Silenzio ed Obbedienza n. 197 Scalea”, “Settimo Sigillo n. 221 Palmi (RC)”, “San Giovanni n. 228 Reggio Calabria”, “Schola Italica n. 241 Mirto”, “Federico II n. 245 Lamezia Terme”, “Amphisya n. 250 Roccella Jonica”, “Aulo Giano Parrasio n. 252 Cosenza”, “Numistro n. 259 Lamezia Terme”, “Araba Fenicie n. 98 Reggio Calabria”); e 25 in Sicilia (“Ruggiero II”, “Supremo Gran Capitolo dell’Arco Reale d’Italia Capitolo Cavalieri di Minerva n. 68 Messina”, “La Nuova Ragione n.67 Messina)”, “Rinascita e Libertà n.70 Messina”, “Mothia n. 82 Marsala”, “Athanor n. 96 Catania”, “Sirio n.97 Messina”, “L’Era d’Italia n.129 Naro”, “Giano Bifronte n.131 Catania”, “Hochma n. 182 Trapani”, “Kether n. 187 Catania”, “Giordano Bruno n. 190 Catania”, “La Concordia n. 191 Erice”, “Z ikkurat n. 192 Palermo”, “Ermete Trismegisto n. 202 Agrigento”, “Kore Kosmou n. 206 Palermo”, “Camelot n. 209 Catania”, “Haniel n. 210 Palermo”, “San Giacomo n. 219 Palermo”, “Anchise n. 222 Erice”, “Mirhyam n. 225 Palermo”, “Nicola Cusano n. 239 Acireale”, “Trinacria n. 243 Montevago”, “Pistis Sophia n. 260 Messina”, “San Giovanni di Scozia n. 38 Siracusa”.];
e 20 alla Serenissima Gran Loggia d’Italia [di cui: 13 in Calabria (“Jacques De Molay”, “Rudyard Kipling”, “Antonio De Curtis”, “Magna Grecia”, “Nuova Luce”, “Giustizia e Libertà”, ”Fata Morgana”, “Mario Placido”, “Lucifero”, “Ermete Trismegisto”, “Al.Ba.Tros.”, “Fraternità”, “Fratelli Bandiera”) e 7 in Sicilia (“Aurora”, “Melita”, “Hervelius”, “Kairos”, “Akron”, “Stupor Mundi”, “Camelot”).].
Non è facile ricostruire in concreto i motivi degli scioglimenti. Nell’assoluta maggioranza dei casi, la documentazione rinvenuta sulle logge abbattute è infatti apparsa carente di taluni documenti essenziali. Sebbene, infatti, il provvedimento di sequestro prevedesse l’acquisizione dell’intero fascicolo di loggia, è accaduto non di rado che la polizia giudiziaria incaricata sia riuscita a rinvenire solo documentazione incompleta o parziale, ove talvolta mancano gli atti di fondazione delle logge, i decreti di “ abbattimento delle colonne” o di sospensione, nonché i piedilista di loggia riportano i nominativi degli iscritti senza indicazione dei relativi dati anagrafici degli iscritti così impedendone la compiuta identificazione.
Rarissimi, infine, sono i casi in cui nei fascicoli siano stati rinvenuti gli atti relativi ad una “ispezione massonica” da cui poter dedurre le reali motivazioni che hanno condotto allo scioglimento della loggia.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
I segreti di Gerace e quei tesserati calabresi con precedenti per mafia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGLISLATURA su Il Domani il 26 marzo 2023
Su venti associati, tra membri allora attivi e bussanti, cinque risultano collegati con soggetti con precedenti per mafia e, talvolta, anche per traffico di stupefacenti, altri due, invece, pregiudizi per riciclaggio di proventi illeciti ed uno per estorsione. Altri tre annoverano precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, omicidio volontario, estorsione...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
In realtà, tra i pochi casi (su 138 logge sciolte) in cui è stata rinvenuta documentazione pressoché completa si cita la loggia “Rocco Verduci” del Grande Oriente d’Italia.
Atteso il cospicuo numero di casi rilevati di logge abbattute, per un principio di economia dei tempi d’inchiesta, si è reso pertanto necessario limitare gli approfondimenti ad un campione selezionato di logge.
In primo luogo, sono state esaminate le logge del GOI abbattute nel reggino (logge di Gerace, Locri e Brancaleone), citate dal gran maestro Bisi nel corso delle sue audizioni quali logge sciolte in Calabria durante la sua granmaestranza per ragioni, a suo dire, di natura formale e organizzativa.
Sulla loggia di Gerace, la “Verduci”, si ritornerà più volte nel corso della relazione in quanto indicativa di plurime situazioni ritenute emblematiche ai fini della presente relazione, mentre, in questa sede, ci si limiterà alla questione della sua infiltrazione mafiosa.
Peraltro, parte delle vicende di questa officina massonica sono già note anche alla stampa atteso che, come si vedrà, la notizia della sospensione della loggia per infiltrazioni malavitose aveva avuto a suo tempo ampio risalto negli organi di informazione calabrese destando l’attenzione dell’opinione pubblica calabrese sull’interesse della ‘ ndrangheta ad infiltrarsi nella massoneria.
Le tormentate vicende di tale articolazione avevano avvio il 28 dicembre 2007 quando dieci appartenenti ad altra loggia del GOI (“I Figli di Zaleuco, n. 995” di Gioiosa Jonica) sottoscrivevano l’atto per fondare la “Rocco Verduci”.
Secondo quanto si legge nella documentazione in sequestro, ad avviso di un massone protagonista di quelle vicende, tra i fondatori di fatto della nuova officina vi sarebbe stato anche un undicesimo fratello, già appartenente alla "Figli di Zaleuco” e massone del GOI sin dal 1981, non risultante dagli atti.
Si trattava di un medico incensurato, impiegato presso la ASL di Locri, ma figlio di un notissimo esponente di primo piano della ‘ndrangheta della Locride, riconosciuto come uno dei capi storici dell’organizzazione mafiosa calabrese.
Per inciso, va detto che anche un altro figlio del medesimo capomafia, dipendente regionale, secondo i dati estratti dalla Commissione, è risultato presente negli elenchi della Serenissima Gran Loggia d’Italia, con il risultato oggettivo che una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta calabrese, ha goduto di un proprio presidio, tramite familiari incensurati, in due diverse organizzazioni massoniche.
A poco più di anno dall’atto di fondazione, la loggia veniva effettivamente costituita il 18 aprile 2009 (cd. innalzamento delle colonne) con decreto del gran maestro Gustavo Raffi che disponeva, altresì, il transito nella nuova articolazione dei medesimi dieci membri fondatori e, tra questi, pertanto, non appariva quell’undicesimo fratello, cioè il figlio medico del capomafia, che, invece risulterà formalmente iscritto nella loggia solo due anni dopo, ovvero a partire dal 7 giugno 2011.
Nel luglio 2013, un massone della “Rocco Verduci”, avvocato e magistrato onorario presso un ufficio giudiziario calabrese, denunciava al vertice calabrese del GOI il fatto che alla loggia appartenessero soggetti vicini alla malavita organizzata o comunque aventi stretti rapporti di parentela con esponenti della ‘ndrangheta e che questa situazione andava via via ad essere insostenibile tenuto anche conto che nell’ultima tornata di iniziazione di sei nuovi “ profani” erano stati presentati tre candidati (cd. bussanti) dal profilo a dir poco problematico: uno, infatti, era indicato come affiliato alla ‘ ndrangheta” , l’altro noto per essere il figlio di un soggetto arrestato per mafia nell’operazione “Saggezza” e, infine, il terzo era anche lui figlio di uno ‘ndranghetista arrestato per associazione mafiosa.
Per i primi due soggetti, il magistrato massone era persino in grado di documentarne le relative vicende, ed invero, affermava di aver prodotto ai suoi superiori massoni copia di specifici atti giudiziari di cui era potuto entrare in possesso in ragione della sua funzione di magistrato onorario.
Tali circostanze furono dapprima comunicate al responsabile e agli altri vertici della loggia (il maestro venerabile pro tempore e il “ consiglio delle luci” ) ma non sortirono l’effetto sperato di allontanare tali individui, tant’è che il massone-magistrato onorario si sentì costretto ad investire della questione direttamente il vertice regionale calabrese del GOI anche al fine di interrompere la procedura di iniziazione dei nuovi bussanti e di porre un freno al dilagare della presenza ‘ndranghetista nella loggia.
In questa nuova segnalazione, venivano riferiti ulteriori gravi fatti. In primo luogo, si descrivevano con dovizia di particolari tutte le occasioni d’incontro in cui il magistrato massone aveva messo in guardia i suoi superiori di loggia sui rischi di infiltrazione ‘ndranghetista, condividendo con costoro informazioni, a suo dire, assolutamente attendibili sui nuovi bussanti in quanto acquisite da un ufficiale delle forze di polizia operanti su Locri.
Peraltro, al fine di suffragare la veridicità delle proprie affermazioni, non esitava a chiamare in causa tra i testimoni in grado di confermare l’esistenza di tali incontri e circostanze, anche un dipendente amministrativo della Procura della Repubblica di Locri, anch’egli massone del GOI ma appartenente ad altra loggia.
In secondo luogo, venivano riferiti i nomi di quattro fratelli ritenuti contigui ad ambienti malavitosi, ovvero, due tra i massimi dignitari di loggia (uno dei quali era indicato quale legale di fiducia di familiari del predetto capomafia), nonché altri due, di cui uno era il citato figlio medico del capomafia e, l’altro, il figlio di un noto usuraio della locride poi assassinato.
TENTATIVI DI CORRUZIONE PER AGGIUSTARE I PROCESSI
Da ultimo, ed è forse l’aspetto più inquietante, dagli atti ispettivi della loggia emergevano elementi che inducono a ritenere che all’interno della “Rocco Verduci” , in almeno due circostanze, si fossero verificate situazioni sintomatiche di gravi tentativi di corruzione in atti giudiziari in relazioni a vicende processuali che intersecano il mondo della ‘ndrangheta calabrese. Ma di questo si tratterà più avanti.
Tali allarmanti segnalazioni davano luogo così ad una “ispezione massonica” disposta dal gran maestro Raffi nel corso della quale gli incaricati, oltre ad approfondire le vicende denunciate, raccoglievano una plastica dichiarazione di un massone di antica data secondo il quale, in conseguenza della presenza di soggetti aderenti o contigui alla ‘ndrangheta, diversi altri massoni calabresi avevano deciso di mettersi in sonno “per non avere a che fare con soggetti legati alla malavita” e che, anzi, egli stesso, già maestro venerabile di altra loggia della Locride si era sentito moralmente costretto, sin dal dicembre del 2012, a presentare una lettera formale di assonnamento.
Al di là degli accertamenti degli ispettori sulla loggia di Gerace, va detto che quei sospetti trovano un certo riscontro nell’analisi condotta dalla Direzione Investigativa Antimafia sul conto di tutti i membri della “Rocco Verduci” , gran parte dei quali ora in sonno o espulsi, altri invece tutt’ora nei ranghi del GOI in altre logge dell’alto ionico reggino. Su venti associati, tra membri allora attivi e bussanti, cinque risultano collegati con soggetti aventi precedenti di polizia per associazione mafiosa e, talvolta, anche per traffico di stupefacenti, altri due, invece, pregiudizi per riciclaggio di proventi illeciti ed uno per estorsione. Ulteriori tre aderenti alla loggia annoverano precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, omicidio volontario, estorsione e tra questi, in tempi risalenti, vi è anche chi ha scontato la misura di pubblica sicurezza dell’obbligo di soggiorno.
Si aggiunga che, alla loggia “Rocco Verduci” aderivano medici ospedalieri della disciolta ASL n. 9 di Locri, dipendenti pubblici, avvocati e imprenditori del luogo.
Un quadro dunque desolante, in cui i professionisti o erano contigui alla mafia o, tramite quella loggia, coltivavano vincoli di fratellanza con soggetti condannati o in odore di 'ndrangheta, o inseriti nel narcotraffico o coinvolti nel riciclaggio di proventi illeciti.
Il 20 settembre 2013, il gran maestro Raffi emetteva il provvedimento cautelare di sospensione della loggia motivandolo anche per “un possibile inquinamento, addirittura di carattere malavitoso, riconducibile all’ambiente circostante, che ingenera inquietudine e disarmonia anche tra i fratelli della Circoscrizione” .
Pochi mesi dopo, il 20 giugno 2014, Stefano Bisi, divenuto il nuovo gran maestro del GOI, revocava la sospensione della loggia sostenendo che “allo stato sono venute meno le ragioni che consigliarono l’adozione del provvedimento cautelare”.
Tuttavia, la gravità di quella situazione, lo costringeva più tardi, in data 21 novembre 2014, a sciogliere loggia, senza però esplicitarne in modo chiaro le ragioni ed anzi, concedendo la possibilità a molti di quegli stessi fratelli “malavitosi” iscritti alla “Rocco Verduci” di chiedere l’affiliazione ad altra loggia della stessa circoscrizione .
Anche questo aspetto della vicenda sarà approfondito più avanti.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGLISLATURA
Quei fratelli della “Cinque Martiri” un po’ troppo vicini alla ‘Ndrangheta. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani 27 marzo 2023
Nella Loggia “I Cinque Martiri” di Locri su un totale di 75 soggetti, sono emersi 18 massoni con elementi indicativi di una loro appartenenza, riconducibilità o contiguità alla ‘ndrangheta. Nella loggia di Brancaleone, cioè la “Vincenzo De Angelis” sono stati censiti 21 iscritti, quasi la metà di essi dipendenti pubblici...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Di seguito si continuerà la disamina delle logge sciolte indicate da Bisi, nonché quelle delle altre obbedienze. Si anticipa da ora che per molti degli appartenenti a tali articolazioni sono stati riscontrati, oltre che precedenti penali, anche “elementi di polizia”, consistenti in denunce o segnalazioni nei confronti di tali soggetti nonché controlli di costoro con soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta.
Si tratta, ovviamente, di dati che da un punto di vista giudiziario non assumono alcuna rilevanza, tuttavia, ai fini della presente inchiesta, assumono valenza in quanto notizie verosimilmente note in piccoli centri che avrebbero potuto costituire un primo sintomo di pericolo ed indurre i vertici, centrali e regionali, delle varie obbedienze all’intensificazione dei controlli (che saranno oggetto, in altra parte della relazione, di alcune riflessioni).
Vero è che, in concreto, poi quelle logge con quegli appartenenti sono state oggetto di scioglimento, ma è anche vero, da un lato, che non risultano attività ispettive disposte in tal senso, e dall’altro che nei decreti di scioglimento, qualora rinvenuti, non si fa alcun cenno a possibili inquinamenti della criminalità organizzata.
Proseguendo la disamina, circa la seconda loggia indicata da Stefano Bisi come sciolta per “motivi organizzativi” vi è quella dei “I Cinque Martiri” di Locri (la loggia di Locri).
Da una verifica di polizia eseguita dalla Direzione Investigativa Antimafia sugli aderenti alla predetta loggia, per un totale di 75 soggetti, sono emersi 18 massoni con elementi indicativi di una loro appartenenza, riconducibilità o contiguità alla ‘ndrangheta.
In particolare, cinque di questi sono gravati da significativi precedenti di polizia. Ben tre di essi hanno precedenti specifici per associazione mafiosa, uno per estorsione e un terzo, dipendente pubblico, è stato sottoposto agli arresti domiciliari nel 2007 per associazione per delinquere e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Altri 13 appartenenti alla loggia sono risultati in rapporti di frequentazione con soggetti aventi pregiudizi per associazione di tipo mafioso e, in taluni casi, anche per riciclaggio ed estorsione.
Nei confronti di due membri della loggia, indagati per reati di concorso esterno in associazione mafiosa, veniva emessa una tavola di accusa poiché avevano omesso di riferire tale circostanza al maestro venerabile della loggia di appartenenza. La notizia della loro sottoposizione a indagini veniva appresa da fonti di stampa.
Il tribunale massonico circoscrizionale, il 30 novembre 2013, emetteva sentenza con cui i due soggetti venivano assolti da ogni addebito, con la motivazione che dall’istruttoria svolta non erano emersi ”elementi neppure indiziari, per poter ragionevolmente sostenere che gli incolpati potessero essere a conoscenza dell’esistenza delle indagini a loro carico” e che dunque non avevano mentito ai loro superiori.
Si noti, dunque, come la questione riguardasse, non tanto il merito (cioè che i predetti erano sottoposti ad una inchiesta di mafia) quanto il mero fatto di non aver detto nulla ai propri superiori. Dagli atti del processo nessuno infatti chiede agli accusati, magari sotto giuramento massonico, se i fatti apparsi sulla stampa fossero o meno fondati.
Peraltro, si rileva che nei confronti di uno di loro veniva riconosciuta, a sua discolpa, la circostanza di non aver avuto alcuna comunicazione formale da parte dell’A. g. e che non riteneva che la fonte di stampa si riferisse a lui. In realtà, nel processo massonico risulta addirittura che era stata acquisita agli atti dell’obbedienza l’informativa dell’Arma dei carabinieri. Ma, si affermava, che a tale informativa della p.g. non era opportuno dare rilevanza in quanto “risulta(va) notevolmente retrodatata rispetto alla contestazione dell’addebito, per cui se vi fossero stati sviluppi e/o seguiti alla predetta informativa, gli stessi sarebbero emersi nel corso dell’odierno processo muratorio”.
La loggia è stata cancellata il 21 novembre 2014 disponendo, tuttavia, che i suoi appartenenti potessero continuare l’attività massonica affiliandosi ad altra articolazione del Goi calabrese. Poiché negli atti acquisiti dalla Commissione non vi è traccia del testo del decreto di abbattimento, non è possibile conoscere le ragioni formali del provvedimento.
Nella terza loggia indicata da Bisi (la loggia di Brancaleone), cioè la “Vincenzo De Angelis” di Brancaleone (RC), sono stati censiti 21 iscritti, quasi la metà di essi dipendenti pubblici (10), di cui sei dipendenti dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria e altri due appartenenti ai ministeri della giustizia e della difesa. Tra i soggetti impiegati nel privato prevale la professione di medico (3). Per poco meno della metà degli appartenenti alla loggia di Brancaleone (8) risultano frequentazioni con numerosi soggetti aventi gravissimi pregiudizi per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti ed estorsione. Sul conto di altri due aderenti alla loggia, entrambi dipendenti pubblici, risultano, in un caso, gravami per omicidio volontario, reati contro la pubblica amministrazione e truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e, nell’altro, per associazione per delinquere, truffa e reati contro la pubblica amministrazione.
La loggia è stata cancellata il 26 febbraio 2016. Nel relativo decreto di abbattimento veniva consentito a 17 iscritti, di cui uno sospeso, di continuare a frequentare l’obbedienza affiliandosi ad altra loggia. Il provvedimento richiamava le relazioni ispettive -non rinvenute tra gli atti acquisiti dalla Commissione- e la delibera di giunta del Goi dove si faceva chiaro riferimento, oltre a carenze di ritualità e all’esistenza di polemiche interne, al fatto che erano risultati procedimenti penali a carico di fratelli e che purtuttavia erano stati eletti alle più significative cariche di loggia.
La zona grigia, quelli che stanno in mezzo tra mafia e stato. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 28 marzo 2023
La loggia “Mario Placido” di Roccella Jonica (Rc). Almeno sette dei suoi appartenenti sono, infatti, risultati collegati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese. Colpisce, in particolare, il profilo personale di un massone il quale, benché sostanzialmente incensurato, risulta essere stato in rapporto di frequentazione con ben ventuno soggetti con precedenti per mafia...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Il grado di pervasività della ‘ndrangheta della Locride in contesti massonici non sembra limitarsi, tuttavia, alle sole logge del Grande Oriente d’Italia. Dalle analisi a campione effettuate sulle logge abbattute in Calabria, emergono profili di criticità anche per la loggia, poi abbattuta, denominata “Mario Placido” di Roccella Jonica (Rc) affiliata alla Serenissima Gran Loggia d’Italia.
Almeno sette dei suoi appartenenti sono, infatti, risultati collegati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese ed un altro annovera pregiudizi per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.
Colpisce, in particolare, il profilo personale di un massone appartenente a tale loggia il quale, benché sostanzialmente incensurato, risulta essere stato, da precedenti di polizia, in rapporto di frequentazione con ben ventuno soggetti con precedenti per mafia e con altri soggetti indiziati di essere coinvolti nel traffico di stupefacenti.
A chiosa degli elementi di rischio emersi per questa loggia, va segnalato che nel relativo piè di lista compare altresì un figlio del citato capo ‘ndrangheta di Locri, fratello di altro massone presente nelle fila della loggia Goi “Rocco Verduci”.
Negli atti acquisiti nell’ambito dell’inchiesta, non è stato rinvenuto il decreto di abbattimento della loggia né le ragioni formali o di fatto che hanno condotto all’adozione di tale provvedimento da parte del gran maestro dell’obbedienza.
Sempre nel reggino è risultata, poi, attiva la loggia “Araba Fenice n. 98” di Reggio Calabria appartenente alla Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri) i cui iscritti risultano privi delle complete generalità, sia nell’elenco acquisito dalla Commissioni presso la sede centrale dell’obbedienza sia nel fascicolo cartaceo di loggia.
Tuttavia, si ha più che fondato motivo di ritenere che un iscritto alla loggia, tale “Giovanni Zumbo” (privo del luogo e della data di nascita), sia l’omonimo commercialista calabrese condannato ad 11 anni di reclusione con sentenza definitiva emessa dalla Corte di Cassazione nel 2016 in relazione all’operazione della Dda di Reggio Calabria denominata “Piccolo Carro” per concorso esterno in associazione mafiosa, in cui emerge chiaramente la sua appartenenza alla massoneria, al pari del carabiniere di cui si dirà in seguito.
La figura di Giovanni Zumbo appare emblematica sul ruolo di cerniera che la massoneria può assumere tra la ‘ndrangheta, da un lato, e gli apparati dello Stato, dall’altro.
L’AUDIZIONE DI PRESTIPINO
Nel corso di un’audizione del 2012 presso questa Commissione nell’ambito della XVI Legislatura, l’allora procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria, Michele Prestipino, in relazione alle vicende della partecipata Multiservizi del capoluogo reggino ebbe modo di illustrare diffusamente ed efficacemente la figura del commercialista. «Il signor Zumbo, che fa da prestanome [alla cosca Tegano, n.d.r.] , è soggetto particolare: se volessimo scrivere un paragrafo sul manuale della zona grigia, il signor Zumbo sarebbe una figura scolastica di componente della zona grigia perché esercita una libera professione, ha uno studio che lo mette in contatto con tutto il mondo dei liberi professionisti, ha rapporti con la magistratura perché fa l’amministratore dei beni sequestrati e confiscati, amministrava patrimoni di mafia importantissimi non solo per la rilevanza economica, ma anche dal punto di vista dei nomi degli ‘ndranghetisti cui questi patrimoni appartenevano».
«Ma soprattutto Zumbo è quel soggetto - non dimentichiamolo - che a marzo 2010 va a casa di Giuseppe Pelle, il figlio di Antonio Pelle Gambazza, e gli rivela tutte le notizie che in quel momento erano segrete e che certamente non circolavano, o non avrebbero dovuto circolare sull’indagine "Crimine". Zumbo riferisce a Pelle di essere in grado di consegnargli, anche qualche giorno prima, la lista di coloro che sarebbero stati arrestati e soprattutto gli dice, a marzo, i nomi dell’operazione, tutte le caratteristiche, le procure che collaborano e soprattutto gli riferisce che entro giugno sarebbero state arrestate 300 persone. Noi ne abbiamo arrestato 300 il 9 luglio. Questo è il personaggio».
Chiosa, dunque, l’audito delineando in sintesi il ruolo di tale professionista: «Quindi Zumbo è cerniera perché ha contatti con i mafiosi, fa il prestanome dei mafiosi e detiene un patrimonio" che "comprende una quota considerevole” della società partecipata di Multiservizi e, dall’altro lato, ha contatti anche con apparati dello stato».
L’audizione, si ricorda, risale al 5 dicembre 2012 e a quella data il magistrato calabrese si rammaricava del fatto che “nonostante tutti i nostri sforzi investigativi – e vi assicuro che ne abbiamo fatto tanti – non siamo riusciti a capire, sapere e scoprire chi avesse mandato il signor Zumbo a casa di Pelle a dare quelle notizie e proporre patti scellerati”, ma soprattutto “ chi gliele avesse fornite da offrire” .
A distanza di circa quattro anni dall’audizione, la citata sentenza della Corte ha, però, offerto una risposta al rammarico di un tempo del magistrato, dando contezza degli ambigui rapporti che intercorrevano tra lo Zumbo e alcuni appartenenti alle forze dell’ordine, tra cui un carabiniere, noto anche per aver svolto – scrive la Corte – “un ruolo determinante” nel ritrovamento dell’autovettura, carica di armi e ed esplosivo, a pochi passi dal luogo dove avrebbe dovuto passare il corteo presidenziale al seguito dell’allora Capo dello stato, Giorgio Napolitano, il 21 gennaio 2010.
Secondo le indagini, il ritrovamento era una messa in scena ordita dal boss Giovanni Ficara ai danni del cugino Giuseppe, suo rivale, al fine di far ricadere su di questi le responsabilità giudiziarie di tale azione, trama ordita con la complicità dello Zumbo.
Orbene, non appare dunque una semplice coincidenza il fatto che nel piedilista della loggia “Araba Fenice” della Glri sia stato rinvenuto, accanto al nominativo di “Giovanni Zumbo”, anche quello del carabiniere, beninteso, anche questo privo di luogo e data di nascita, e quindi anche questo “omonimo” del soggetto suindicato.
Quanto alle vicende della loggia “Araba Fenice”, da quel poco che è stato possibile ricostruire dagli scarni atti disponibili, si evince che lo scioglimento è stato disposto dal gran maestro Venzi nel giugno del 2011 per “inadempienze nella gestione della loggia” e per le “dimissioni da parte dei Fratelli a piè di lista”. Motivazioni, dunque, di stretto rito massonico, senza alcun cenno ad ipotesi di infiltrazione mafiosa. Né, d’altronde, vi è traccia, negli atti acquisiti, del fatto che le autorità centrali dell’obbedienza abbiano ritenuto necessario disporre un’ispezione interna alla loggia, iniziativa quanto mai necessaria data quella peculiare situazione ambientale.
L’esplorazione a campione è stata, infine, estesa anche ad alcune logge sciolte con sede in altre aree della regione Calabria.
Nel territorio di Crotone, è stata esaminata la loggia Goi “Lacinia” che si caratterizza, in particolare, per il fatto che nell’ambito dei soggetti che ne hanno fatto parte è stata individuata una dozzina di massoni con evidenze, risalenti al luglio 2007, attinenti al reato di cui all’art. 2 della legge 17/1982 sulle associazioni segrete, taluni dei quali peraltro in posizione di dipendenti pubblici (personale del ministero della giustizia, dell’agenzia delle entrate, dell’INPS, ecc.). Anche per questa loggia non mancano coloro per i quali gli elementi di polizia indicano rapporti di frequentazione con soggetti pregiudicati.
In un caso, un massone della loggia “Lacinia” è stato posto in relazione con tre diversi esponenti ritenuti appartenenti alla ‘ ndrangheta, due dei quali anche con pregiudizi per traffico di droga e l’altro per estorsione.
In un altro, vi è traccia di una frequentazione con un soggetto con precedenti per mafia, estorsione e usura. Per altri due membri della loggia sono emerse evidenze di polizia per il reato di estorsione e per corruzione.
La loggia risulta sciolta il 9 luglio 2010 dal gran maestro Raffi per contrasti all’interno della loggia e per altre violazioni di mero rito massonico.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Il medico palermitano della “Praxis” che aiutò i sicari di don Pino Puglisi. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 29 marzo 2023
In effetti risulta un soggetto che ha aderito al Goi nel 1991, proveniente dalla GLI dove risultava in sonno a far data 1° luglio 1989. Questi rimane nella Praxis fino al 1997, allorché viene depennato. Si tratta di un medico condannato con sentenza irrevocabile nel 1998 per associazione mafiosa, il quale aveva anche avuto il ruolo di fiancheggiatore dei killer di cosa nostra che uccisero barbaramente il sacerdote Giuseppe Puglisi...
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Quanto alle logge sciolte in Sicilia, l’analisi a campione è stata condotta sulle logge “Praxis” di Palermo e “ Giosué Carducci” di Trapani, entrambe del Goi, e su talune logge della Gli.
Nei piè di lista della “ Praxis” sono stati rinvenuti i nominativi di 17 appartenenti alla loggia, di cui 8 dipendenti pubblici (tra cui due medici Asp, un docente universitario e un dipendente delle forze armate), 7 tra liberi professionisti e impiegati nel settore privato e due pensionati.
Per due massoni della “Praxis” sono stati rilevati collegamenti con altrettanti soggetti controindicati, uno avente pregiudizi per associazione mafiosa, l’altro, per estorsione e trasferimento fraudolento di valori ex art. 12-quinquies D.L. 306/1992.
Particolarmente significative appaiono le vicende di un altro appartenente alla Praxis, peraltro presente nell’elenco dei massoni acquisito dalla Procura di Palmi nel 1993-94 ove risultava essere stato iscritto in precedenza nella loggia “Ermete Trismegisto” della Gran Loggia d’Italia - Centro Sociologico Italiano. Dagli elenchi estratti dalla Commissione, in effetti risulta un soggetto che ha aderito al Goi nel 1991, proveniente dalla Gli dove risultava in sonno a far data 1° luglio 1989. Questi rimane nella Praxis fino al 1997, allorché viene depennato.
Si tratta di un medico, ora presente come “non attivo” negli elenchi del Goi, tratto in arresto nel 1994 per concorso esterno in associazione mafiosa, scarcerato l’anno successivo e, infine, condannato con sentenza irrevocabile nel 1998 per associazione mafiosa, il quale aveva anche avuto il ruolo di fiancheggiatore dei killer di cosa nostra che uccisero barbaramente il sacerdote Giuseppe Puglisi, ed «il quale, come persona insospettabile, gli assassini avevano posto a controllo degli spostamenti del prete una volta deliberata la decisione di ucciderlo...».
Orbene, il massone in questione, il 23 giugno 1994, il giorno dopo essere stato raggiunto dall’ordinanza di custodia cautelare per i fatti sopra descritti, venne immediatamente sospeso dalla loggia con provvedimento adottato dell’allora gran maestro Gaito con la motivazione che l’emissione nei suoi confronti di una misura cautelare per concorso in associazione mafiosa e favoreggiamento denotava un “comportamento che arreca notevole nocumento all’immagine ed alla credibilità del Goi” in ossequio a quanto previsto dalle regole interne dell’obbedienza.
Non vi è però traccia, dopo tale grave fatto, di ispezioni disposte sulla Praxis volte a comprendere se si trattasse di un caso clamoroso, ma isolato, di contiguità a cosa nostra o se invece l’intera loggia fosse asservita a logiche mafiose.
Tuttavia, quasi misteriosamente, pochi mesi dopo l’arresto del medico dei Graviano, il 2 dicembre 1994 veniva emesso un decreto di scioglimento dell’intera loggia, secondo uno schema che si è visto essere ricorrente, per ragioni di carattere organizzativo: mancanza del numero minimo di fratelli e di un’azione di proselitismo. E ciò sebbene anche altri due massoni della loggia, oltre al medico, risultano aver avuto rapporti di contiguità con la mafia.
La seconda loggia sciolta in Sicilia oggetto di analisi è la “Giosuè Carducci” di Trapani. Vi risultava iscritto un soggetto arrestato nel 1996 per associazione mafiosa, poi riabilitato dal Tribunale di sorveglianza di Palermo nel 2001.
Dopo la riabilitazione, oltre a vari pregiudizi di natura penale non rilevanti ai fini della presente inchiesta, è stato colpito nel 2016 da una misura di prevenzione patrimoniale antimafia emessa dal Tribunale di Trapani. Un altro iscritto, invece, annovera un precedente, risalente al 1996, per il reato di scambio politico-mafioso.
Anche tale loggia veniva poi demolita l’8 febbraio 1997, con decreto dell’allora gran maestro Gaito, per “morosità degli iscritti”.
Anche in questo caso, come per la “Praxis” di Palermo, si riscontra la singolare coincidenza che lo scioglimento, formalmente avvenuto per motivi organizzativi, pare seguire temporalmente di poco l’arresto per mafia di uno dei suoi iscritti e il coinvolgimento di un altro in un reato tipico della contiguità mafiosa.
Sull’atteggiamento generalizzato di non esternazione di eventuali criticità di mafia esistenti all’interno delle logge sciolte, non sembrerebbe sottrarsi anche la Gran Loggia d’Italia. Ad esempio, nove logge risultano abbattute, a partire dagli anni Novanta in poi, con generici decreti di sospensione o di scioglimento tutti privi di qualsivoglia motivazione.
Le logge avevano tutte sede in luoghi ad alta densità mafiosa e risultano essere state frequentate da 14 iscritti che sono stati espulsi o messi in sonno, e solo in seguito colpiti da gravi pregiudizi penali, ivi inclusi quelli per associazione mafiosa.
A tale riguardo, non può escludersi che anche per tali logge l’obbedienza di riferimento avesse percepito all’interno delle stesse l’esistenza di particolari criticità, che hanno consigliato l’adozione di così gravi provvedimenti.
Anche in questi casi, l’eventuale infiltrazione mafiosa nelle logge, indirettamente testimoniata dai pregiudizi che hanno poi colpito i soggetti successivamente alla loro espulsione, non è mai stata esplicitata nei documenti formali di abbattimento.
A fattor comune di tutti i casi sopra accennati - dove ricorre con frequenza l’espediente di utilizzare la “morosità degli iscritti” , altri motivi bagatellari o, come riferito da Bisi, le questioni di mero rito massonico, quale ragione formale di abbattimento di una loggia “problematica” – giova qui riportare quanto detto in audizione dall’ex gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo in cui ricordava l’unico abbattimento di loggia sotto la sua granmaestranza, ovvero la loggia “Colosseum” di Roma, “costituita subito dopo la liberazione dell’Italia e dove affluivano gli agenti della Cia.
Era una loggia ad hoc e quando sono diventato gran maestro ho detto che non avrei potuto tollerare all’interno del Grande Oriente una loggia nata per queste ragioni ( ... ).
Ho trovato il problema formale che non avevano pagato le capitazioni e ho chiuso la loggia”.
Come detto, i gran maestri non hanno mai fatto chiaro riferimento a logge che siano state dichiaratamente sciolte per infiltrazione mafiosa. Se, di fronte ad avvertiti rischi di presenze mafiose vi è stata un’opera di “pulizia” tra i propri ranghi, ciò sarà accaduto nel silenzio, come si confà ad un’associazione connotata, come si dirà, da uno spiccato regime di segretezza.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Mafiosi ma anche altro, tutti i “fratelli” con precedenti penali. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA Il Domani il 30 marzo 2023
Le risultanze giudiziarie, comunque preoccupanti anche al di là dell’esito dei procedimenti, hanno indotto a svolgere un ulteriore approfondimento su 193 soggetti, al fine di verificarne quale fosse il ruolo ricoperto all’interno delle logge di appartenenza, nonché come queste ultime si fossero comportate una volta venute a conoscenza che alcuni fratelli erano stati investiti da indagini per fatti di mafia o per gravi reati...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Gli elenchi degli appartenenti alle quattro obbedienze, tratti dal materiale sequestrato, hanno evidenziato la presenza di circa 17 mila iscritti complessivi alle logge calabresi e siciliane, comprensivi dei soggetti tuttora attivi nelle varie logge, nonché di quelli ad essa appartenenti a partire dal 1990 e poi depennati o comunque usciti dalle obbedienze e, infine, dei cd. “bussanti” , cioè di coloro per i quali avendo chiesto l’iscrizione nelle logge non è stata completata la formale procedura di affiliazione nell’obbedienza (cd. “iniziazione” ).
Tale dato è stato elaborato al fine di verificare se risultassero a carico dei predetti iscritti, in senso ampio, condanne definitive e/o carichi pendenti per reati ascrivibili alle fattispecie di cui all’articolo 416-bis c.p. o aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto legge n. 152 del 13 maggio 1991.
A tal fine, come detto è stata richiesta la collaborazione alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) che, dopo un primo screening nel proprio sistema informativo, ha indicato 193 soggetti aventi evidenze giudiziarie per fatti di mafia. La loro appartenenza alle quattro obbedienze massoniche è così ripartita: GOI: 122; GLRI: 58; GLI: 9; Serenissima: 4.
Quale questione preliminare di metodo, va precisato che il dato acquisto deve essere vagliato attentamente, muovendo dalla considerazione che, in sé, non può essere esaustivo:
- la DNA ha indicato solo i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità. Ed invero, quando sono stati poi acquisiti, presso le procure competenti, i certificati penali e dei carichi pendenti dei soli 193 nominativi (non quindi dei 17 mila), sono emersi, a carico di taluni, anche precedenti e sentenze definitive per delitti “significativi” (come traffico di stupefacenti, bancarotta, falso, ecc.). Non può pertanto affatto escludersi che tra i 17 mila iscritti vi sia un ulteriore numero di soggetti con pregiudizi penali, di tipo diverso da quelli di cui all’articolo 416-bis c.p. o derivante da altri delitti aggravati dall’articolo 7 del cit. decreto legge;
- l’analisi della Dna risente dei notori ritardi nell’aggiornamento dei registri dei carichi pendenti e dei certificati penali da parte dei vari uffici periferici;
- l’analisi della Dna risente della correttezza delle generalità inserite nel sistema ai fini delle ricerche. A tal proposito, si segnala, come si dirà più analiticamente nel prosieguo, che un’alta percentuale di iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione presso le quattro associazione prese in esame, non sono compiutamente generalizzati o identificabili (circa il 17,5 per cento) e, pertanto, nei loro confronti non si sono potute acquisire notizie;
- è stato necessario avviare i necessari riscontri presso le Procure della Repubblica e i Tribunali interessati. L'operazione è stata alquanto difficoltosa, e in alcuni casi ancora in corso, anche per la difficoltà di reperire documentazione giudiziaria talvolta risalente nel tempo e non informatizzata,. Orbene, approfondendo la situazione dei 193 nominativi selezionati dalla Dnaa, e dei procedimenti giudiziari (oltre 350) complessivamente a loro carico, atteso che in molti casi i soggetti erano gravati da una pluralità di evidenze, è emerso che:
- per la gran parte dei predetti, i rispettivi procedimenti, per il delitto di cui all’articolo 416-bis c.p. o altri delitti aggravati dall’art. 7 del citato decreto legge 152/91, si sono conclusi con decreto di archiviazione per i più svariati motivi, sentenza di assoluzione o sentenza di proscioglimento per morte del reo o per prescrizione, rimanendo comunque il fatto, rilevante ai fini della presente inchiesta parlamentare, che un consistente numero di iscritti è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti;
- con riferimento alle annotazioni sul casellario giudiziario, sei soggetti hanno riportato sentenze definitive per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. (quattro con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, quando ciò era ancora consentito dal nostro ordinamento);
- altri nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale, semplice o qualificata;
- per altre quattro posizioni che vedono i soggetti imputati per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. o aggravati ex art. 7 D.L. 152/1991, è in corso il processo in grado di appello. Di questi, per uno si procede in appello dopo una condanna in primo grado a 12 anni di reclusione; per un altro si procede in appello dopo una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione;
- altri sette hanno in corso il processo di primo grado per 416-bis c.p. o delitti aggravati dall’art. 7 citato decreto legge;
- altri cinque hanno in corso, in primo grado e in appello, processi per reati gravi, diversi da quelli di mafia.
Pertanto, oltre ai sei destinatari di sentenze definitive per 416 bis c.p., vi sono ulteriori 25 posizioni per cui vi sono ancora processi pendenti.
Queste risultanze giudiziarie, comunque preoccupanti anche al di là dell’esito dei procedimenti, hanno indotto a svolgere un ulteriore approfondimento sui 193 soggetti, attraverso il materiale informatico sequestrato, al fine di verificarne quale fosse il ruolo ricoperto all’interno delle logge di appartenenza, nonché come queste ultime si fossero comportate una volta venute a conoscenza (qualora il fatto fosse divenuto notorio anche grazie alle notizie apparse sugli organi di stampa) che alcuni fratelli erano stati investiti da indagini per fatti di mafia o per gravi reati, atteso che, come sarà illustrato, tutti i gran maestri hanno affermato di esercitare rigorosi controlli interni, di richiedere, al momento della domanda di iscrizione, il certificato del casellario giudiziale ed il certificato dei carichi pendenti, alcuni anche gli aggiornamenti, e di perseguire ideali improntati ai principi di lealtà e legalità, nonché di rispettare le leggi dello Stato e la Costituzione.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Avvocati e commercialisti, medici e ingegneri, tutti insieme nella loggia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 31 marzo 2023
Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
A titolo puramente esemplificativo, si può evidenziare che, oltre ai sei soggetti con sentenze definitive per il delitto ex art. 416- bis c.p. (di cui si dirà a breve), sulle ulteriori 25 posizioni di cui sopra, dodici risulterebbero tuttora iscritti e attivi (di cui 10 presso logge del GOI, uno con domanda di regolarizzazione presentata presso loggia calabrese del GOI e membro del Consiglio Regionale della Calabria dal 2005 al 2010; uno, imprenditore agricolo, presso una loggia calabrese della GLRI).
Degli altri tredici soggetti “non attivi”, risulterebbe uno in congedo (GLI Sicilia), un altro depennato nel 1997 (GOI Sicilia), altri due espulsi (uno nel 2010 e altro nel 2013, GLI Calabria), e infine tre sospesi cautelativamente (GLI Calabria) e due in congedo (GLI).
Valutando, inoltre, i sei soggetti nei cui confronti è stata emessa sentenza irrevocabile (di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti) per il delitto ex art. 416-bis c.p., va evidenziato che cinque di loro appartengono o sono appartenuti al GOI.
Stando agli elenchi estratti, risulterebbe che due dei condannati per mafia (un pensionato e un commercialista) sarebbero tuttora iscritti e attivi nell’obbedienza massonica di appartenenza.
Altri due sembrerebbero “ bussanti” da oltre un decennio, mentre un quinto è un medico che sembrerebbe essere sospeso a tempo indeterminato. Il sesto, infine, un consulente finanziario iscritto alla Serenissima (SGLI), sarebbe stato depennato d’ufficio nel marzo del 2005.
Tale dato che, si ricorda, si riferisce ai soli nominativi compiutamente identificati, assume significativi profili di inquietudine considerato che 193 soggetti, così come segnalati dalla DNAA, hanno avuto modo di operare nell’ambito delle obbedienza massoniche e così segnalando una mancata, o quanto meno parziale, efficacia delle procedure predisposte dalle varie associazioni per la selezione preventiva dei propri membri.
Inoltre, al di là delle condanne o dei procedimenti in corso per gravi reati ed al di là dell’appartenenza alle singole obbedienze, non può sottacersi che, nell’ambito dei 193 soggetti segnalati, molti dei quali incensurati, a fronte di 35 pensionati e di 8 disoccupati, vi sono, come risulta dall’anagrafe tributaria, numerosi dipendenti pubblici.
Le categorie professionali prevalenti sono quelle dei professionisti, come avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti pure in numero rilevanti i soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori nei più diversi settori, in primis quello edile. Così pure, non mancano coloro i quali hanno rivestito cariche pubbliche (sono 9 quelli che hanno assunto la carica di sindaco, assessore o consiglio comunale). Uno spaccato professionale denotante soggetti di un livello di istruzione medio-alto e, di tutta evidenza, in grado di stringere relazioni anche nel mondo della criminalità e in quello della società civile.
Al riguardo si ribadisce tuttavia l’esigenza di valutare con cautela le indicazioni relative alla “posizione” degli iscritti (bussante, attivo, sospeso e depennato), con particolare riferimento alla correttezza e all’aggiornamento dei dati all’interno degli elenchi, così come illustrato nel par. 6.
Muovendo dalla constatazione che determinate realtà territoriali ad elevato radicamento mafioso coincidono talvolta con quelle in cui vi è una forte concentrazione di presenza massonica, la Commissione si è prefissa di verificare se in alcune vicende emerse all’esito di indagini giudiziarie e amministrative che hanno riguardato l’infiltrazione mafiose in pubbliche amministrazioni (comuni e sanità pubblica), fosse altresì rilevabile la presenza di relazioni significative con l’ambiente massonico.
Di seguito, saranno pertanto illustrati taluni casi considerati significativi; per altri enti di recente sciolti per mafia nelle due regioni di interesse, si è quasi sempre registrata una presenza di iscritti alle quattro obbedienze66 ma numericamente limitata a poche unità.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Quell’azienda sanitaria di Locri piena di massoni e amici degli amici. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani l’01 aprile 2023
La copiosa relazione redatta dalla commissione di accesso all’Asl n. 9 di Locri aveva evidenziato la presenza all’interno dell’azienda sanitaria di personale, medico e non, legato da stretti vincoli di parentela con elementi di spicco della criminalità locale, verificando non solo la presenza di un contatto tra le organizzazioni malavitose e l’azienda, bensì una vera e propria infiltrazione in quest’ultima
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Indicatori significativi appaiono rinvenibili nella vicenda che ha determinato il commissariamento della Asl n. 9 di Locri,67 disposto per accertata ingerenza della criminalità organizzata nell’amministrazione del predetto ente e per la rilevata permeabilità dell’azione amministrativa al condizionamento della ‘ndrangheta, nonché nelle risultanze dell’accesso ispettivo disposto ai sensi dell’art. 143 del D.lgs. 267 del 2000 (Tuel), presso l’azienda sanitaria provinciale (Asp) di Cosenza e nell’indagine giudiziaria condotto dalla Dda di Reggio Calabria, assurta alle cronache con il nome di “Onorata sanità”, di cui al procedimento R.G. N.R. 1272/07, che aveva delineato un sistema generale di gestione e controllo criminali degli appalti e servizi pubblici, in particolare nel settore della sanità.
La copiosa relazione redatta dalla commissione di accesso all’Asl n. 9 di Locri aveva evidenziato la presenza all’interno dell’azienda sanitaria di personale, medico e non, legato da stretti vincoli di parentela con elementi di spicco della criminalità locale o interessati da precedenti di polizia giudiziaria per reati comunque riconducibili ai consolidati interessi mafiosi, verificando non solo la presenza di un contatto tra le organizzazioni malavitose e l’azienda, bensì una vera e propria infiltrazione in quest’ultima. Sull’amministrazione sanitaria si erano concentrati gli interessi della criminalità ed era stata perpetrata una diffusa compressione dell’autonomia dell’ente stesso.
Tale compromissione era risultata altresì evidente nei settori della spesa e quindi dell’utilizzo delle risorse pubbliche; in particolare, alcune pratiche amministrative mostravano un discutibile approccio alla gestione dei fondi pubblici.
Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi sequestrati dalla procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p..
Il dato, ancorché non particolarmente consistente sul piano quantitativo, assume ulteriore rilevanza sotto il profilo qualitativo in ragione della posizione ricoperta da costoro all’interno dell’amministrazione pubblica, per il rapporto di parentela e per le frequentazioni che questi hanno avuto con soggetti inseriti all’interno della ‘ ndrangheta.
Si tratta di iscritti a logge del GOI e della GLRI, tutti segnalati per frequentazioni con personaggi che sono stati indagati, imputati o addirittura condannati per fatti di mafia. In particolare, uno dei soggetti è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina.
Sempre da una lettura della relazione d’accesso all’Asl di Locri ed incrociando i dati con le informazioni acquisite dalla Commissione, deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa.
Emblematica la vicenda che può essere ricostruita sulla base dell’ordinanza cautelare di cui al procedimento 1272/07 Rgnr. Si è scoperto, infatti, che tre soggetti, indagati per avere facilitato una procedura di rilascio per un’autorizzazione amministrativa, appartengono alla stessa obbedienza e due, anche, alla medesima loggia.
Oltre ai direttori amministrativi, dirigenti, medici, responsabili dei vari settori e dipendenti di uffici pubblici, sono risultati iscritti alla massoneria anche alcuni soci e alcuni componenti degli organi di controllo di quattro società accreditate dall’ente sanitario commissariato, peraltro proprio quelle società a cui erano state riconosciute complessivamente prestazioni di servizi per importi superiori alla soglia comunitaria, senza che fosse stata mai acquisita la prescritta documentazione antimafia (nello specifico le informative di cui all’art.10 DPR 252/98, così come è stato evidenziato nella relazione conclusiva della Commissione di accesso alla Asl n. 9 di Locri).
Quanto agli accertamenti condotti con riferimento alla Asp di Cosenza (va qui ricordato che gli esiti della commissione di accesso non hanno condotto al suo commissariamento), i dati e le analisi delle posizioni confermano, se pur con diversa valenza qualitativa, ma con maggior coinvolgimento quantitativo, quanto emerso nel caso prima riferito.
Su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva della Commissione di accesso presso l’azienda sanitaria provinciale di Cosenza del 10 giugno 2013, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche. In particolare, tra queste, 13 sono oggi censiti negli elenchi del Goi, e 7 a quelli della GLI. Dei restanti 3, già presenti negli elenchi sequestrati a suo tempo dalla Procura di Palmi, uno era iscritto al Goi e gli altri a logge non ricomprese nella presente indagine.
In entrambi i casi esaminati è dato rilevare che non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti dalla Commissione nel 2017 alcuni nominativi che risultavano presenti negli anni 1993-94, ancorché l’estrazione dei nomi sia stata disposta con riferimento agli iscritti a partire dall’anno 1990.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Castelvetrano e i suoi “fratelli muratori” eletti in consiglio comunale. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 02 aprile 2023
In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze di cui si dispongono gli elenchi. A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Le vicende connesse al comune di Castelvetrano, di cui già si è riferito, dove accanto alla presenza consistente nel consiglio comunale di soggetti iscritti alle varie massonerie era stato rilevato l’arresto per delitti di mafia di un consigliere in un territorio in cui continua ad avere centralità criminale il latitante Matteo Messina Denaro, hanno imposto la necessità di eseguire una verifica sulle compagini di alcune amministrazioni comunali sciolte per infiltrazione mafiosa o comunque inserite in territori ad alta densità mafiosa per accertare se e in che misura vi siano iscritti a logge massoniche qui di interesse, pur consapevoli che tali obbedienze, tuttavia, non esauriscono il panorama complessivo di tutte le massonerie presenti nel paese, formato da una galassia dai contorni indefiniti di numerose associazioni che si definiscono massoniche (sarebbero almeno 198 secondo un censimento citato in audizione dal gran maestro della GLI Antonio Binni).
Peraltro, così come ha riferito il gran maestro della SGLI Massimo Criscuoli Tortora vi sarebbe una diffusione generalizzata di tali associazioni nel centro-sud.
Fatte queste debite premesse, la Commissione ha ritenuto opportuno partire dalla nota vicenda di Castelvetrano, di cui vi è ampio cenno nella premessa di questa relazione, eseguendo un rilevamento sulle ultime consiliature, a partire da quella 2007-2012.
In tale consiliatura, 8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche delle obbedienze in questione (4 GOI, 4 GLRI). Nella giunta insediatasi il 28 giugno 2007 era presente un appartenente ad una loggia della GLI, verosimilmente ancora iscritto.
Peraltro nascita, già iscritto in una loggia di Castelvetrano della GLRI e depennato nel 2009.
In data 20 marzo 2009, il sindaco di Castelvetrano revoca l’incarico a tutti i componenti della giunta e il 23 marzo successivo nomina nuovi assessori. Anche in questa compagine, parzialmente variata rispetto alla precedente, è presente un’iscritta nella loggia di Ragusa della GLI.
In data 3 gennaio 2011, il sindaco revoca nuovamente l’incarico a tutti gli assessori e nomina una nuova giunta. Anche in questo caso, vi è un iscritto ad una loggia della GLRI; un omonimo di un soggetto depennato dagli elenchi di loggia sempre della medesima obbedienza; e infine un iscritto, verosimilmente ancora attivo, in una loggia GOI di Castelvetrano.
Il 1° agosto 2011, vengono avvicendati due assessori. Uno dei nuovi è presente nei piè di lista di una loggia della GLI.
Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Sei degli iscritti compaiono negli elenchi estratti nella posizione di “attivo”; due risultano come “depennati” in data antecedente o prossima all’assunzione dell’incarico pubblico; uno invece risulta aver presentato a una delle quattro obbedienze una “domanda di regolarizzazione”: si tratta cioè di un soggetto che, già iscritto ad una associazione massonica, chiede di transitare in un’altra.
Di tali 11 iscritti, quanto alle obbedienze di appartenenza, 5 consiglieri comunali sono o sono stati iscritti a logge della Gran Loggia Regolare d’Italia; 4 a quelle del GOI e 2 della Gran Loggia d’Italia.
Nella nuova giunta assessoriale nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. Tre sono o sono stati censiti negli elenchi della GLRI (due figurano come “depennati”) e due (di cui uno con domanda di regolarizzazione) in quelli del GOI.
In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze di cui si dispongono gli elenchi.
A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 - per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici.
Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Nel complesso, 6 sono presenti nell’elenco della GLRI (cui eventualmente aggiungere i 4 di cui sopra), 6 in quello del Grande Oriente d’Italia (GOI) e 5 nei piè di lista della Gran Loggia d’Italia (GLI), distribuiti in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
La banca di Paceco con presidente e dirigenti molto “obbedienti”. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 03 aprile 2023
Dalle verifiche effettuate dalla Commissione antimafia, emerge che 11 tra esponenti della dirigenza aziendale e dipendenti hanno tutti fatto parte della medesima loggia massonica del Goi denominata “Domizio Torrigiani” di Trapani; il presidente di uno dei passati consigli di amministrazione, inoltre, è risultato invece iscritto alla loggia del Goi “Giuseppe Mazzini” di Trapani
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa ha di recente registrato una significativa manifestazione all’interno del settore bancario.
Nel trapanese, infatti, è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria la Banca di credito cooperativo di Paceco 'Senatore Pietro Grammatico', dotata di cinque filiali, per effetto della misura disposta dalla sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Trapani nel novembre 2016.
La misura è stata disposta su richiesta della Dda di Palermo e fa seguito altresì a una serie di ispezioni disposte in precedenza dalla Banca d’Italia.
Negli atti giudiziari si riporta che all’interno dell'istituto c'erano 326 persone con evidenze giudiziarie, undici dei quali, dipendenti della banca, collegati con la criminalità organizzata.
La banca è stata cioè gestita da soggetti ritenuti vicini alla criminalità mafiosa; peraltro, nella misura adottata dal tribunale, si fa altresì menzione dell’appartenenza a logge massoniche di numerosi esponenti e dipendenti di istituti di credito.
Dalle verifiche effettuate dalla Commissione antimafia, emerge che 11 tra esponenti della dirigenza aziendale e dipendenti hanno tutti fatto parte della medesima loggia massonica del Goi denominata “Domizio Torrigiani” di Trapani; il presidente di uno dei passati consigli di amministrazione, inoltre, è risultato invece iscritto alla loggia del Goi “Giuseppe Mazzini” di Trapani.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Il pentito Leonardo Messina: «Nelle logge per avere coperture e più potere». COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA Il Domani il 04 aprile 2023
Lo diceva già il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: «Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
La lettura delle pagine precedenti dimostra, indubbiamente, l’esistenza di un persistente interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due diverse entità siano diventate “ una cosa sola” .
Ciò, ovviamente, non consente alcuna criminalizzazione delle obbedienze in quanto tali che, nella loro qualità di associazioni di diritto privato, rimangono, sino a prova contraria, compagini sociali lecite meritevoli di tutela giuridica.
Ma se l’analisi lascia il campo delle occasionali devianze, del resto penalmente sanzionate, per spostarsi su quello della “normalità” dell’estrinsecarsi della massoneria, intesa, dunque, come una delle tante espressioni del legittimo associazionismo, allora diventa necessario chiedersi se essa si sia dotata di un sistema di “anticorpi” volto a salvaguardare la propria stessa sopravvivenza, oltre
che il prestigio, e se abbia forgiato le proprie caratteristiche in modo da evitare che possano risolversi in elementi di agevolazione all’infiltrazione mafiosa.
IL SISTEMA DEI CONTROLLI MASSONICI
L’inchiesta parlamentare ha accertato che dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze, la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (come medici, avvocati, ingegneri e commercialisti), dell’imprenditoria, ma anche del pubblico impiego, con una certa presenza anche di forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, anche di taluni magistrati e politici.
Si è rilevato, inoltre, che diversi di tali professionisti massoni hanno svolto la propria attività presso enti pubblici “sensibili”, talvolta sciolti proprio per infiltrazioni mafiose.
Scarsa è, invece, la partecipazione alla massoneria delle categorie di soggetti riconducibili ai mestieri più umili o al novero dei disoccupati (salvo, ovviamente, una certa quota di giovani).
La massoneria rappresenta, dunque, un consesso in cui si ritrova l’élite delle professioni ed è il luogo, anche fisico, in cui è possibile incontrare alti burocrati, imprenditori, politici, e confidare, anche grazie al vincolo di fratellanza massonico, di trattare con costoro inter pares.
Lo diceva già il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.”
Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, nella sue pregresse qualità di politico, massone e mafioso.
Anche nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione, cioè a quella “riserva di violenza” accumulata in decenni di omicidi, stragi e crimini efferati.
Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria, in Sicilia e Calabria, come emerso dalle audizioni e dagli atti acquisiti e come stigmatizzato anche dagli stessi appartenenti alla massoneria.
A fronte di questa invincibile vis attractiva della massoneria nei confronti della mafia, vis che, per di più, provoca un numero crescente di adesioni, si è chiesto, durante l’indagine parlamentare, se la stessa massoneria, “preda” secolare delle depredazioni mafiose, avesse finalmente adottato sistemi di prevenzione volti alla tutela della propria identità.
La situazione rappresentata dai gran maestri, nelle loro audizioni a testimonianza, potrebbe apparire del tutto rassicurante.
E’ stato evidenziato, infatti, che il massone può essere tale solo se è, al contempo, un buon cittadino, sottoposto in primis alle leggi statali e ai connessi doveri civici. Proprio per questo, è la stessa massoneria, così come affermato all’unisono, a svolgere serrate verifiche per selezionare, prima, i nuovi adepti in maniera rigorosa e per controllare, poi, che costoro mantengano, nel corso del tempo, le originarie qualità morali, presupposto indispensabile per l’accesso e la permanenza nelle associazioni massoniche.
Per tale ragione è stato sottolineato, anche attraverso la produzione degli statuti di ciascuna obbedienza, che, per ammettere un nuovo fratello, viene puntualmente accertato che costui non sia stato colpito da procedimenti penali e da sentenze di condanna per fatti di una certo allarme sociale, mentre, qualora si scopra che uno degli iscritti, nelle more della sua appartenenza ad una loggia, si sia reso responsabile di un reato di particolare rilievo, egli viene immediatamente sottoposto al “processo massonico” che può concludersi, finanche, con il depennamento.
Si è però constatato che, in concreto, il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria, con tutte le conseguenze che da ciò essa ne farebbe derivare in termini di ammissione e di espulsione, in diversi casi si è rivelato più apparente che reale.
Va detto, innanzitutto, che la richiesta dei certificati penali e dei carichi pendenti da parte di talune obbedienze, nonostante le gravi vicende del passato che hanno segnato la massoneria italiana e che avrebbero imposto una sua maggiore prudenza, si è risolta in una mera prassi priva di significato, posto che, di solito, non è previsto l’aggiornamento della certificazione.
Poiché, il rapporto massonico, di norma, si dissolve con la morte, è dunque garantita la permanenza sine die dell’associato che, però, nel corso degli anni, può ben mutare il suo status giuridico penale.
Gli stessi massoni, peraltro, hanno raccontato alla Commissione dell’allontanamento dalle obbedienze di cospicui gruppi di fratelli sia a causa di “un ingresso massiccio e massivo di persone, senza alcun apparente ed efficiente controllo” e, spesso, destinatarie di misure cautelari e di sentenze di condanna, sia a fronte dell’oggettiva incongruenza numerica posto che, nell’arco di pochi anni, era, stranamente, triplicato, o anche quadruplicato, il numero delle adesioni.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
La giustizia massonica e i verdetti sull’onorabilità degli iscritti. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 05 aprile 2023
Assumono consistenza le parole dell’ex gran maestro Di Bernardo secondo cui «un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Del resto, si è già detto nella parte della relazione inerente ai risultati sulle pendenze giudiziarie degli iscritti, come non tutti i massoni condannati per gravi fatti di reato, siano stati effettivamente depennati dalle rispettive associazioni. Da questo punto di vista, dalle audizioni dei gran maestri emerge anche il problema del coordinamento tra quanto accade a livello centrale e quanto accade in quello locale delle organizzazioni.
La circostanza che non sempre i gravi precedenti penali acquisiscano rilevanza massonica è anche confermata dall’analisi del materiale in sequestro.
A tale ultimo proposito, basti riportare la sintomatica vicenda del fratello che, quale direttore di noti complessi alberghieri palermitani, aveva consentito ad un uomo d’onore di curare gli interessi di varie famiglie mafiose proprio all’interno della importante struttura liberty di “Villa Igiea”. Per tali condotte, il direttore, nel marzo del 1999, veniva tratto in arresto con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e, nel successivo settembre, veniva condannato con sentenza di patteggiamento (allora consentita per tali gravi reati).
Di converso, dalla documentazione in possesso della Commissione, si è registrata una condotta altalenante da parte dell’obbedienza: in prossimità dell’arresto, il direttore veniva sospeso dalle attività massoniche; tre anni dopo, nell’aprile 2002, veniva tranquillamente reintegrato; più tardi, veniva investito di rilevanti cariche regionali e nazionali in seno all’associazione massonica.
Assumono consistenza, dunque, le parole dell’ex gran maestro Di Bernardo secondo cui “un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no”.
Lo stesso sistema di controllo “apparente” è stato riscontrato per le ispezioni delle logge.
Si è appreso, nel corso dell’inchiesta, che le obbedienze dovrebbero svolgere puntuali controlli anche sulle proprie articolazioni territoriali e, qualora siano accertate connivenze con la criminalità organizzata, sono previsti provvedimenti sanzionatori fino a giungere al cd abbattimento.
A parte quanto già evidenziato in proposito allorché si è affrontata la questione dell’infiltrazione mafiosa nelle logge sciolte, si è inoltre constatato che, in diverse occasioni, da parte dei vertici massonici, invece, è stato coltivato l’interesse, del tutto opposto a quello ordinamentale, ad evitare l’accertamento e a salvaguardare la sopravvivenza di quelle articolazioni seppure ad alto rischio di connivenze con la criminalità.
Già la vicenda della citata “Rocco Verduci” appare particolarmente emblematica, fosse solo perché è stata rinvenuta una chiara prova documentale circa la volontà di tutela della loggia, sebbene irrimediabilmente inquinata. Si ricorderà, infatti, che dopo il decreto del 20 settembre 2013 con il quale Gustavo Raffi ne disponeva la sospensione a causa, anche, di “ un possibile inquinamento, addirittura di carattere malavitoso” , il nuovo gran maestro Stefano Bisi, nemmeno un mese dopo dal suo insediamento, affrontava, dunque come una priorità, la questione della revoca di quel provvedimento che, peraltro, finiva per concedere il 20 giugno 2014, con una motivazione del tutto generica (“allo stato sono venute meno le ragioni che consigliarono l’adozione del provvedimento cautelare”) ben presto smentita dagli accadimenti successivi.
Va qui rilevato, per completezza espositiva, che è proprio di quei giorni, la lettera del 27 maggio 2014, inviata dal massone del Goi, Amerigo Minnicelli, alla Commissione e allo stesso Stefano Bisi, in cui si rimproverava a quest’ultimo, che, in occasione della campagna elettorale per la sua elezione a gran maestro, aveva assunto un atteggiamento negazionista rispetto alle infiltrazioni mafiose in Calabria, forse per “captatio benevolentiae” verso “qualcuno” .
Solo dopo una serie di pressioni provenienti dalla stessa massoneria che chiedeva accoratamente, “al fine di... salvaguardare l’onorabilità” della obbedienza, un intervento del presidente del collegio circoscrizionale della Calabria, e dopo che l’ispezione, disposta da quest’ultimo con apparenti altre finalità, ribadiva la sussistenza delle medesime problematiche sottese al primo decreto di sospensione – solo, dunque, dopo tutto questo – il gran maestro Bisi disponeva, con decreto del 21 novembre 2014, lo scioglimento della loggia “Rocco Verduci”.
Il provvedimento, tuttavia, sebbene infine promulgato, non intendeva affatto penalizzare quella loggia. Intanto, veniva motivato con un mero e laconico richiamo ad atti pregressi (la relazione degli ispettori circoscrizionali della Calabria, del 29 luglio 2014, e quella del presidente del collegio della circoscrizione, del 3 settembre 2014) omettendo ogni riferimento alle criticità di natura mafiosa accertate; e, soprattutto, prevedeva la possibilità per gli iscritti alla “Rocco Verduci” di spostarsi in altre logge, così da vanificare, di fatto, l’effettività della grave misura disposta.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Gli ispettori e le finte indagini sulle “infiltrazioni” del crimine. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 06 aprile 2023
Stupisce la circostanza che alcune compagini che affondano le loro radici nella storia, non coltivino, nei limiti dei mezzi disponibili, il primario interesse alla loro impermeabilità dalla mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
L’inchiesta parlamentare ha accertato altri significativi episodi in tal senso che sarebbe ultroneo elencare partitamente.
Basti al riguardo rinviare a quanto verrà esposto a proposito del citato massone Minnicelli (da cui emerge che, insieme ad altri otto maestri venerabili, aveva sollecitato l’intervento della propria obbedienza, il Goi, a verificare quanto stesse accadendo in alcune logge calabresi a cui, peraltro, appartenevano taluni soggetti tratti in arresto per contiguità mafiose, ma che ciò non provocò alcun effetto; nonché a quanto riportato a proposito della loggia “Araba Fenice” della Glri (dove, in seguito agli accertamenti disposti dalla Digos e la condanna di uno dei suoi appartenenti per fatti di mafia, nessuna ispezione venne svolta e, anzi, si sanzionarono coloro che l’elenco degli iscritti avevano trasmesso alla forza di polizia richiedente).
Del resto, nemmeno l’allarmante vicenda di Castelvetrano, è riuscita a suscitare un particolare interesse del GOI. Si desume, infatti, da dichiarazioni rese, che il gran maestro Bisi, non solo aveva tardato ad assumere alcuna iniziativa formale o ispettiva (giustificato dalla circostanza che i fatti erano accaduti dopo il solstizio d’estate, quando cioè i lavori di loggia vengono sospesi per riprendere con l’equinozio di autunno) ma, programmando i suoi prossimi viaggi nella provincia
di Trapani si proponeva di procedere alla mera consegna di un certo materiale destinato ad opere di bene.
Ben riscontrate, allora, appaiono sul punto le dichiarazioni di uno dei soggetti ascoltati in audizione a testimonianza in ordine al fatto che gli ispettori di loggia effettuano ben poche relazioni in quanto, dopo la prima giunta Raffi, vi era stata una degenerazione, prevalendo l’interesse ad essere eletti quali ispettori con l’aiuto di chi detiene i pacchetti di voto per poi evitare o non fare le ispezioni.
In conclusione, non si vuole di certo affermare che sia demandato alla massoneria il compito di vigilanza sull’osservanza delle norme statali da parte dei singoli adepti (come è stato opposto in alcuni passaggi delle audizioni dei gran maestri), essendo le stesse tenute soltanto a non perseguire, in forma associativa, finalità illecite.
Stupisce, però, la circostanza che alcune compagini – che, peraltro, affondano le loro radici nella storia, contano un notevole numero di iscritti su tutto il territorio nazionale, compreso quello segnato dalla presenza mafiosa – non coltivino, nei limiti Interni dei mezzi disponibili, il primario interesse alla loro impermeabilità dalla mafia.
Ciò specie perché si tratta di ambiti in cui, come si vedrà, si creano vincoli di subordinazione e di solidarietà molto marcati, sì da dar luogo a un sistema che, poiché avulso dai valori generali, fisiologicamente finisce, da un lato, per essere tollerante delle illegalità e, dall’altro, per facilitare le infiltrazioni criminali.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
La segretezza rende “compatibile” la convivenza fra mafie e fratellanze. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 07 aprile 2023
Questa segretezza strutturale, già da sola, è sufficiente per creare, da un lato, un rapporto di incompatibilità con l’ordinamento giuridico, e dall’altro, un rapporto di compatibilità con le mafie, risolvendosi in un meccanismo di pacifica convivenza e di tutela reciproca
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Nonostante la propria vis attractiva, certe obbedienze, non solo non si sono dotate di un serio sistema interno di controlli, ma hanno mantenuto, e anzi rafforzato, le loro originarie caratteristiche sebbene notoriamente similari a quelle delle associazioni mafiose e che, già solo per questo, possono creare un habitat favorevole alla colonizzazione mafiosa.
Tra queste peculiarità, un posto di primo piano va riconosciuto alla segretezza che permea il mondo massonico (e anche quello mafioso) posto che le altre caratteristiche finiscono per esserne un mero corollario.
Già dal punto di vista ordinamentale della massoneria, e al di là di quanto riscontrato nella prassi (che sarà oggetto dei prossimi paragrafi), il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze.
A partire dalle formule ufficiali previste per il giuramento/promessa solenne utilizzati per l’adesione alla massoneria, emerge un impegno a “non palesare giammai i segreti della Libera Muratoria; di non far conoscere ad alcuno ciò che verrà svelato (..) durante le Tornate Rituali e di Formazione Massonica, né in relazione alle Cerimonie di Iniziazione ai Gradi della Libera Muratoria” ciò, addirittura, “sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, fatto il mio corpo cadavere in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria ed infamia eterna”.
Ancora più chiara è, in tal senso, la formula della Gran Loggia d’Italia degli Alam – Obbedienza Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi: “Il primo dovere è un silenzio assoluto su tutto ciò che vedrete e saprete in seguito, su tutto ciò c he potrete udire e scoprire tra noi”.
Per quanto possa trattarsi di “retorica drammaticità” puramente “evocativa, considerata nella sua sola valenza simbolica”, come da taluno sostenuto, molte condotte, però, sono forgiate, già dal punto di vista ordinamentale, ad un senso di riservatezza a dir poco esasperato.
Sono infatti previste, talvolta negli stessi statuti, alcune pratiche di dissimulazione, come il criptico saluto tra massoni in presenza di terzi, la mancata conoscibilità, all’esterno, delle sedi delle logge, l’accesso nel tempio con modalità di riconoscimento convenzionali che conducano a un alone di mistero.
Soprattutto si rinvengono talune barriere alla trasparenza interna ed esterna (peraltro, proprio quelle individuate dalla legge 17/1982 quali caratteristiche sostanziali delle associazioni segrete) come i divieti, in capo a ciascun fratello, di conoscere (in assoluto o previa autorizzazione) l’identità degli associati di altre logge della medesima obbedienza, di apprendere, preventivamente, ciò che avviene negli altri livelli dell’ordine, di rendere noto agli estranei il nominativo di altri massoni.
Divieti o limitazioni che, inoltre, comportano, per taluni ordinamenti massonici, ulteriori restrizioni, quali ad esempio, la colpa massonica grave dell’iscritto che partecipa ad incontri rituali con altre logge o l’interdizione al fratello di rilasciare dichiarazioni alla stampa, rimesse, invece, al solo gran maestro.
Si ricordi, a tale ultimo proposito, la singolare posizione assunta da Stefano Bisi, nel corso della sua prima audizione, a proposito dei due assessori di Castelvetrano iscritti alla sua obbedienza i quali, a suo dire, a differenza di altri politici locali, non avevano assunto una pubblica posizione contro Matteo Messina Denaro, perché spettava al gran maestro rilasciare dichiarazioni alla stampa, cosa del resto avvenuta poiché egli stesso aveva dichiarato che “avrebbe dato la sua vita” per la cattura del latitante.
Le restrizioni sono dunque tali fino a pretermettere la qualità di massone a quella di pubblico amministratore e ai suoi doveri civici.
Questa segretezza strutturale, inoltre, risulta amplificata da una serie di altri vincoli: quello gerarchico, quello di solidarietà incondizionata tra fratelli, quello dell’indissolubilità dell’appartenenza, che impongono al massone, peraltro destinato a rimanere tale per tutta la vita, a rispettare gli ordini superiori e a non tradire i fratelli.
L’effettività del coacervo di queste regole viene, infine, sugellata da una sorta di supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato, come già emerge, e non tanto timidamente, dagli stessi giuramenti in cui si chiede, innanzitutto, l’impegno assoluto “di conformarvi alle nostre Leggi”. Solo nel passaggio successivo, viene data garanzia, da parte del cerimoniere, che le leggi massoniche “non contengono nulla di contrario alle Leggi dello Stato né alle convenienze sociali” : il fratello, quindi, aderisce venendo sollevato da ogni dubbio, grazie all’assicurazione ricevuta, che il rispetto dell’ordinamento della massoneria è in linea con quello dello Stato .
Peculiare appare un altro giuramento, quello del Goi, in cui l’affiliato, tenuto a rispettare il regolamento interno, assume altresì l’onere, con riferimento allo stato, di osservare la Costituzione e le leggi che ad essa si conformino, quasi che ci si riservi un giudizio di legittimità costituzionale massonico sulle leggi che, dunque, non sono da rispettare sic et simpliciter ma solo se da loro stessi ritenute conformi al dettato costituzionale.
In sostanza, si tratta di un sistema di prevalenza ordinamentale che, come si constaterà attraverso i casi concreti, legittima il segreto agli occhi dei fratelli e ne sanziona la sua violazione. Questa segretezza strutturale, già da sola, è sufficiente per creare, da un lato, un rapporto di incompatibilità con l’ordinamento giuridico, e dall’altro, un rapporto di compatibilità con le mafie, risolvendosi in un meccanismo di pacifica convivenza e di tutela reciproca.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Negli elenchi soggetti non identificabili e “anagraficamente inesistenti”. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani l’08 aprile 2023
Più in dettaglio, 1.030 soggetti, dei circa 3 mila, sono risultati anagraficamente inesistenti (cioè nominativi con dati anagrafici cui non corrisponde all’anagrafe tributaria l’attribuzione di un codice fiscale); altri 1.883 nominativi risultano privi di generalità complete; infine, vi sono 80 soggetti indicati con le sole iniziali del nome e del cognome (spesso con l’annotazione che si tratta di soggetti cancellati)
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Una serie di altre concrete applicazioni del dovere del segreto, accertate dalla commissione, dimostrerà, nei paragrafi che seguono, il pericoloso sconfinamento dai principi di salvaguardia della propria e della altrui riservatezza fino a dar luogo a entità occulte allo stato e in conflitto con il suo ordinamento.
Sin dalla prima audizione, la Commissione aveva domandato a Stefano Bisi, il quale si era presentato spontaneamente proprio per offrire la propria collaborazione all’inchiesta parlamentare, di trasmettere gli elenchi degli iscritti, ma, già da allora, si era colta la sua ritrosia.
La medesima istanza veniva estesa a tutte le quattro obbedienze e reiterata più volte, sia durante le audizioni a testimonianza dei gran maestri che attraverso formali missive.
Nessuno, però, finiva per adempiere, mentre, al contrario, tutti adducevano ragioni ostative, più o meno articolate, ma sostanzialmente riconducibili alla legge sulla privacy: la pretesa di conoscere i nominativi degli iscritti, addirittura, si sarebbe risolta secondo alcuni in una sorta di istigazione a delinquere da parte della stessa Commissione verso coloro che, invece, erano tenuti ex lege al rispetto della riservatezza dei loro sodali.
Non sorprendeva, di certo, il tentativo di difesa innanzi ad un organo istituzionale, delle proprie ragioni, reali o solo supposte, rientrando ciò nei meccanismi del sistema democratico. Però, sorprendeva la palese pretestuosità delle argomentazioni addotte, posto che i gran maestri e i loro consiglieri, soggetti sicuramente non sprovveduti, ben avrebbero dovuto conoscere la più volte invocata legge sulla privacy anche laddove questa espressamente prevede la sua non applicabilità alle inchieste delle commissioni parlamentari (cfr. art. 8, comma 2 lett. C, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), così come ben avrebbero dovuto sapere che, in ogni caso, nel bilanciamento dei diritti di rango costituzionale, quello alla riservatezza, come ormai consolidato, è destinato a cedere di fronte all’interesse dell’accertamento giudiziario (artt. 13, 14, 15 Cost.), e delle inchieste parlamentari di pubblico interesse (art. 82 Cost.).
Il successivo sequestro probabilmente ha fatto luce su quei rifiuti sorretti da inverosimili argomentazioni giuridiche.
Si è accertato, infatti, che gli elenchi sequestrati, presso le sedi ufficiali delle quattro obbedienze, non possono definirsi tali: sebbene acquisiti attraverso lo strumento della perquisizione – strumento che avrebbe dovuto assicurarne sia il ritrovamento che una loro certa genuinità – essi hanno rivelato caratteristiche tali da indurre a ritenere o che gli elenchi completi siano stati custoditi altrove ovvero che quelli ritrovati siano stati tenuti in maniera da impedire la conoscenza, sia all’esterno che all’interno, di alcuni nominativi la cui identità rimane nota solo ad una cerchia ristretta.
Di seguito, pertanto, ci si soffermerà su tali risultanze.
Anzitutto, occorre un riepilogo del metodo di lavoro seguito dopo l’adozione del decreto di perquisizione e sequestro del 1° marzo 2017.
L’esame è stato circoscritto al materiale sequestrato presso quattro associazioni massoniche, con riguardo agli elenchi degli iscritti nelle regioni Calabria e Sicilia appartenenti al Grande Oriente d’Italia (GOI), alla Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI), alla Serenissima Gran Loggia d’Italia – Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (SGLI), e alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (GLI).
L’acquisizione del materiale, sia cartaceo sia soprattutto informatico, si è svolta nel più scrupoloso rispetto delle norme del codice di procedura penale, ampliando al massimo i profili di garanzia delle parti destinatarie dei provvedimenti, ben oltre le prassi in materia.
La fase di duplicazione dei dati – la cosiddetta copia forense - è stata svolta prevedendo il contraddittorio tra le parti e si è conclusa in data 31 marzo. Immediatamente dopo si è provveduto alla integrale restituzione alle quattro associazioni massoniche del materiale originale in sequestro.
DATI MANCANTI E PARZIALI
Si è detto che i dati complessivi evidenziano come nelle due regioni prese in esame, nel periodo considerato, risultino complessivamente censiti 17.067 nominativi ripartiti in 389 logge attive.
Tuttavia, per uno su sei nominativi presenti negli elenchi estratti dalla Commissione (circa il 17,5%) non è stato possibile procedere alla completa identificazione in quanto si trattava di soggetti non univocamente identificabili ovvero carenti di alcuni dati anagrafici essenziali.
Si tratta complessivamente di 2.993 nominativi su un totale di 17.067 massoni, di cui 1.515 della sola GLRI pari al 77,3% del totale dei soggetti risultati iscritti a tale obbedienza. Inferiore, ma comunque significativa, l’incidenza dei non identificabili presenti nelle altre obbedienze oggetto d’inchiesta: 35 della Serenissima Gran Loggia d’Italia (11,9%), 1.185 del GOI (10,6%) e 258 del GLI (7,1%).
Più in dettaglio, 1.030 soggetti, dei circa 3 mila, sono risultati anagraficamente inesistenti (cioè nominativi con dati anagrafici cui non corrisponde all’anagrafe tributaria l’attribuzione di un codice fiscale); altri 1.883 nominativi risultano privi di generalità complete; infine, vi sono 80 soggetti indicati con le sole iniziali del nome e del cognome (spesso con l’annotazione che si tratta di soggetti cancellati).
Significative si rivelano al riguardo, per meglio comprendere la portata di quanto accertato dalla Commissione, le citate dichiarazioni del collaboratore di giustizia Campanella, circa l’assonnamento di due noti politici siciliani, entrambi poi coinvolti in fatti di mafia, i cui nominativi, effettivamente, non sono stati ritrovati all’interno dei file gestionali.
Deve anche segnalarsi che taluni soggetti risultanti aliunde (ad esempio nella carte processuali o nelle dichiarazioni di alcuni gran maestri o di collaboratori di giustizia) come appartenenti alla massoneria, non risultano indicati negli elenchi.
Ad esempio, nelle parti segretate dell’audizione del gran maestro Venzi emergevano, in seguito alle domande della Commissione, due nominativi di appartenenti alla sua obbedienza con precedenti penali per fatti di mafia. Entrambi, però, risultavano anagraficamente inesistenti (anche se un soggetto con generalità, cioè soltanto con nome e cognome, corrispondenti ad uno dei due predetti fratelli, attraverso l’esame del materiale informatico sembrerebbe essere stato nominato da Venzi, il 25 febbraio 2006, quale “assistente gran direttore delle cerimonie onorario”).
Si tratta, comunque, in via generale, di casi che non hanno un significato complessivo univoco posto che non sempre si è avuta la certezza che i nominativi emersi da altri atti abbiano fatto parte delle quattro obbedienze di cui si dispone degli elenchi o di altre delle quali non si hanno i relativi dati.
Si è anche proceduto, nei limiti del possibile trattandosi di bacini in parte diversi, a un raffronto tra gli elenchi del 2017 con quelli degli anni 1993-1994 allora trasmessi alla Commissione dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Palmi (Rc).
In particolare, pur nella consapevolezza di non poter ottenere un risultato statistico in termini di valore assoluto, determinato in primo luogo dall’eterogeneità delle fonti di acquisizione dei dati, sono state elaborate comparazioni tra i nominativi degli elenchi di iscritti a sodalizi massonici – per le regioni Calabria e Sicilia – acquisite nel 1993-1994 e quelli degli elenchi sequestrati dalla Commissione nell’inchiesta del 2017.
A tal proposito appare necessario rammentare che le liste del 1993-1994, riguardavano gli elenchi degli iscritti al Grande Oriente d’Italia (Goi), Grande Oriente Italiano (Muscolo), Gran Loggia d’Italia (Centro Sociologico Italiano) e altre obbedienze minori, in possesso di quell’A.G.; mentre i nominativi degli iscritti alla massoneria acquisiti nella recente inchiesta della Commissione hanno riguardato le citate quattro obbedienze.
È necessario inoltre osservare che i nominativi sui quali è stato possibile effettuare una comparazione riguarda unicamente quelli identificati compiutamente (con almeno nome, cognome e data di nascita).
Pertanto, con riferimento alle liste del 1993-1994 sono stati utilizzati per il confronto 4.256 nominativi (2.043 per la Calabria, 2.213 per la Sicilia) a fronte dei 5.743 nominativi riportati negli elenchi della Procura della Repubblica di Palmi (2.752 per la Calabria, 2.982 per la Sicilia), ossia il 74,22 per cento.
In altri termini, anche allora, una quota significativa dei nominativi riportati negli elenchi non era precisamente identificabile.
Premesso che gli elenchi agli atti della Procura di Palmi nel 1993-1994 riguardavano un novero di obbedienze in parte diverso e più ampio rispetto a quelli oggetto di esame da parte di questa commissione, va rilevato che vi è una parziale discordanza tra di essi nella misura in cui non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti nel 2017, come noto riferiti ad un arco di tempo che va dal 1990 ad oggi, taluni nominativi di soggetti all’epoca censiti e poi coinvolti in fatti di mafia.
Vedi, ad esempio, le situazioni riferite nella parte II, §. 6.3) con riguardo all’Asl di Locri. Non possono certamente trarsi, dai dati sopra riportati, significati univoci, non potendosi escludere in maniera aprioristica fenomeni di mera superficialità nella tenuta degli elenchi.
Il numero dei non identificati e dei non identificabili è tuttavia consistente; del pari è rilevante il numero di 193 soggetti iscritti in procedimenti penali di cui all’art. 51 comma 3-bis del c.p.p.; ancora, è cospicuo il numero di soggetti che pur non essendo indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno diretti collegamenti, parentali o di altro genere, con esponenti mafiosi, sì da potere costituire, almeno in astratto, un anello di collegamento tra mafia e massoneria (così come, del resto, verificato da questa Commissione in altre inchieste, circa la formazione delle liste elettorali o degli enti pubblici infiltrati dalla mafia).
In ogni caso, rimane il dato oggettivo del rifiuto a consegnare gli elenchi, in parte inattendibili, in parte celanti l’identità di taluni iscritti, in parte contenenti affiliati con precedenti penali per mafia; dato che, nella sua scarna obiettività, non può non destare allarme.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Segreti e divieti della loggia, proibito parlare fuori di fatti interni. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 09 aprile 2023
Una serie di accertamenti evidenzia, altresì, un generalizzato dovere di segretezza che riguarda, parallelamente, anche gli accadimenti interni alla massoneria e ciò anche quando essi assumano pubblico interesse. Una prima vicenda in tal senso, è quella relativa all’Avv. Amerigo Minnicelli, massone di lungo corso e per discendenza, maestro venerabile della Loggia Luigi Minnicelli di Rossano
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Oltre alla segretezza degli elenchi, che riguarda, come visto, la non conoscibilità di un’alta percentuale di nominativi di massoni, in talune obbedienze, se ne è riscontrata un’altra forma più ampia che coinvolge, cioè, gli iscritti tout court sebbene annotati nelle liste in modo palese.
Si è già detto, infatti, di quelle regole ordinamentali che vietano la rivelazione a terzi dell’identità dei fratelli. Tale divieto, tuttavia, come si è potuto accertare, riguarda anche la pubblica autorità.
Ci si riferisce, in particolare, alla questione del dovere dei dipendenti pubblici di dichiarare, all’amministrazione di appartenenza, l’eventuale affiliazione “ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento dell'attività dell'ufficio”.
Orbene, quando, nel corso della sua prima audizione, è stato domandato al gran maestro Bisi se gli affiliati alla sua obbedienza assolvessero al dovere e se il GOI ne verificasse o ne sollecitasse l’adempimento, egli lasciava intendere che, nella sua obbedienza, non era ancora chiaro come procedere tant’è che “i nostri fratelli hanno chiesto ai loro superiori che cosa debbano fare”. La risposta era, dunque, sorprendente: i pubblici dipendenti anziché informarsi presso le proprie amministrazioni, attendevano le disposizioni dei superiori massoni prima di uniformarsi al dettato normativo.
Nella successiva audizione a testimonianza si ritornava sull’argomento e, stavolta, Bisi, dopo essersi maggiormente documentato, sosteneva che, siccome il dovere del pubblico impiegato è quello di riferire se appartenga a una associazione che interferisca con l’attività professionale, non vi è alcun obbligo di dichiarare l’adesione alla massoneria.
In sostanza, in ambito massonico, era stata recepita questa interpretazione attraverso cui, con un preventivo giudizio di non interferenza, sostitutivo di quello dell’ente pubblico, si consente ai fratelli-pubblici impiegati di mantenere la segretezza sulla propria affiliazione massonica. Viene anche da pensare che le esigenze del segreto, evidentemente ritenute prevalenti rispetto a quelle dell’ordinamento dello Stato, hanno portato una certa massoneria, che pur pretende dagli affiliati l’impegno ad “adempiere fedelmente i doveri ed i compiti relativi alla mia posizione e qualifica nella vita civile”, a confinare quell’obbligo tra il novero delle disposizioni che “non si conformino alla Costituzione”.
Un altro caso emblematico, che dimostra l’esattezza della suddetta chiave di lettura è quello della loggia “Araba fenice” della GLRI.
Accadeva, infatti, che essendovi in corso verifiche da parte della Digos, uno dei fratelli aveva consegnato a tale organo di polizia, previa richiesta scritta, gli elenchi della loggia “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria e, previa richiesta orale, quelli della loggia “Araba Fenice”.
L’ottemperanza del fratello all’ordine dell’Autorità, almeno per quanto riguarda la richiesta orale, venne considerata colpa massonica che determinò la sua sospensione in attesa della espulsione. Tale decisione venne stigmatizzata dagli iscritti alla “Araba fenice”, rimasti increduli per la circostanza che il rispetto delle autorità avesse potuto comportare l’emissione di un sì grave provvedimento e, dunque, in massa, rassegnarono le proprie dimissioni, così determinando il naturale scioglimento della loggia.
Particolarmente significativi sono gli atti inerenti a tali vicende.
Risulta infatti che, la dirigenza della Gran Loggia regolare di Italia comunicava al suddetto fratello di avere “manifestato una scorretta gestione dei dati sensibili dei membri di Loggia” e che, pertanto, veniva sospeso “con richiesta di espulsione”.
L’incolpato, a sua volta, ribatteva, “vista la gravità e contrarietà alle norme di legge che la S.V. avrebbe voluto che ponessi in atto, non esibendo un documento legittimamente richiesto dall’autorità di polizia” rassegnando le proprie dimissioni.
Dal loro canto, gli altri componenti della loggia, dimettendosi, rimarcavano “che l'aver consegnato ad un ispettore di polizia, delegato dall'autorità giudiziaria, un semplice elenco dei dati anagrafici degli aderenti alla Loggia Araba Fenice, non possa considerarsi una incauta divulgazione di dati sensibili ed anzi si configura quale condotta lecita ed ottemperante dei doveri che ciascun aderente ad ogni Organizzazione Massonica deve osservare ai sensi della legislazione vigente”.
Se non si hanno elementi di sorta per affermare che la reazione dell’obbedienza tendesse a ostacolare le indagini e a salvaguardare gli iscritti in rapporto con la mafia (che, come si è visto, appartenevano alla loggia), quantomeno un tale atteggiamento non può che leggersi nella ricorrente ottica della tutela della segretezza, anche verso le istituzioni, del nominativo degli appartenenti alla massoneria.
IL SEGRETO DEI FATTI
Una serie di accertamenti evidenzia, altresì, un generalizzato dovere di segretezza che riguarda, parallelamente, anche gli accadimenti interni alla massoneria e ciò anche quando essi assumano pubblico interesse.
Una prima vicenda in tal senso, è quella relativa all’Avv. Amerigo Minnicelli, massone di lungo corso e per discendenza, maestro venerabile della Loggia Luigi Minnicelli di Rossano.
Attraverso la sua audizione a testimonianza del 31 gennaio 2017 e le missive dallo stesso inviate o prodotte alla Commissione, è stato possibile verificare che egli, insieme ad altri otto maestri venerabili calabresi, con una lettera del 10 ottobre 2011, sollecitava i vertici del GOI a prestare maggiore attenzione nella scelta dei profani stante il concreto pericolo di infiltrazioni ‘ndranghetiste. Inoltre, quale direttore del sito web www.goiseven.it, prendendo spunto dall’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, di un fratello accusato di avere intrattenuto rapporti con la mafia, aveva pubblicato un articolo, in cui si sosteneva che si stava “seduti su un braciere ardente” posto che “nei piè di lista delle logge vicine ai territori 'ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più».
L’unico risultato prodotto da queste segnalazioni fu che, nell’ottobre 2012, il Minnicelli veniva espulso dal Grande Oriente d'Italia e, per di più, a suo dire, a differenza di altri iscritti che, sebbene colpiti da misure cautelari o coinvolti in reati gravissimi, non avevano subito alcun procedimento disciplinare massonico.
Orbene, ciò che rileva in questa vicenda, certamente caratterizzata da un clima conflittuale tra le parti, sono le ragioni sottese al provvedimento di espulsione.
Poiché non risulta che gli altri otto firmatari dell’esposto abbiano subito eguale trattamento, è allora nella denuncia pubblica, tramite il web, che va individuata la colpa del massone il quale, appunto, aveva divulgato, nonostante il dovere di segretezza, i fatti interni all’obbedienza.
Ciò emerge, per altri versi, anche dalla pretestuosità della motivazione formale del decreto Minnicelli, in sostanza, non veniva accusato della rivelazione di vicende compromettenti, bensì, attraverso un contorto ragionamento, di avere, con la pubblicazione dell’articolo su internet, accessibile ai profani, leso l’onore e la reputazione dei maestri venerabili così accusati, implicitamente, di omessa vigilanza sulle logge calabresi.
Divieto di parlare in pubblico, dunque, specie se si tratti di mafia.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
L’audizione del Venerabile sulla fratellanza infiltrata dalla ‘Ndrangheta. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 10 aprile 2023
Il gran maestro Bisi non ha nemmeno accennato, nonostante le plurime domande al riguardo, che lo scioglimento della loggia Rocco Verduci era avvenuto sì per un vizio massonico ma cagionato nella sostanza dalle possibili infiltrazioni mafiose. Egli, invece, ha preferito parlare di grembiuli e di guanti evitando di riferire il fulcro degli accadimenti
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Il dovere di tacere vale probabilmente anche nei confronti delle stesse Istituzioni, come plasticamente avvenuto proprio di fronte a questa Commissione parlamentare antimafia allorché veniva domandato a Stefano Bisi, e cioè al gran maestro di una delle obbedienze di maggiore rilievo numerico tra quelle operanti in Italia, di illustrare le ragioni dello scioglimento della citata loggia calabrese “Rocco Verduci” di Gerace.
In particolare, nella sua prima audizione, in forma libera, del 3 agosto 2016, il gran maestro così si esprimeva:
“BISI. Quando ci sono logge, non in cui ci sono infiltrazioni della malavita organizzata, ma che non si comportano ritualmente – non tengono l'anagrafe degli iscritti, non tengono i verbali come dovrebbero essere – si abbattono le colonne, come è stato fatto nel caso di tre logge, una a Locri, una a Brancaleone e l'altra a Gerace.
PRESIDENTE. Ci racconta che cosa c'era in queste logge?
BISI. Abbiamo fatto delle verifiche. Non c'era la ritualità necessaria, ragion per cui siamo intervenuti per abbattere le colonne di queste logge. Facciamo così perché abbiamo un'organizzazione interna di controlli ferrei su tutte le officine sparse dal Nord al Sud. (..)
PRESIDENTE. Cosa significa «irritualità»?
BISI. Quando si iniziano i lavori, si indossa il grembiule e si indossano i guanti. ( ..)
PRESIDENTE. Può essere sciolta una loggia perché non ci si mette il grembiule e non si indossano i guanti?
BISI. Sì .
PRESIDENTE. Perché lo considerate un sintomo di altro, spero.
BISI. Può essere un sintomo di altro”.
Nella successiva audizione, avvenuta nella forma della testimonianza, del 18 gennaio 2017, Bisi ribadiva le medesime dichiarazioni:
“BISI. Da quando, da due anni e mezzo o poco più, sono io gran maestro, mi pare siano state abbattute le colonne di tre logge o quattro, ma potrei sbagliarmi. La demolizione delle colonne può avvenire per più motivi, come è scritto sempre nel libro della costituzione e del regolamento dell'ordine. ( ..) Sì , sono state tre logge in Calabria, che abbiamo demolito,( ..) Quanto ai motivi, erano logge che non si riunivano come ci si deve riunire, non avevano una condotta regolare rispetto agli antichi doveri e rispetto ai regolamenti e alle costituzioni dell'ordine. Abbiamo, quindi, demolito queste logge. (..)
PRESIDENTE: Le logge che sono state soppresse – Locri, Gerace e Brancaleone, se non sbaglio… ( ... ) Le colonne sono state abbattute per problemi rituali, sostanzialmente?
BISI: Per problemi organizzativi, (..).
In sostanza, nonostante le sollecitazioni in tal senso, il gran maestro, in entrambe le audizioni, non faceva alcun riferimento ad eventuali rapporti con la ‘ndrangheta da parte della “Rocco Verduci” che, in base al suo racconto, era stata da egli sciolta per questioni rituali.
La documentazione cartacea in sequestro, invece, come visto, rappresentava una diversa realtà.
Dalla sequenza degli atti della loggia e dal loro contenuto, infatti appare evidente che il gran maestro sapeva quali fossero le reali problematiche di quella articolazione ciò sia perché aveva, in un primo tempo, revocato il provvedimento di Raffi, ritenendo cessato “l’inquinamento malavitoso” (che, quindi, quantomeno vi erano stato), e sia perché, richiamando, a sostegno del suo successivo
provvedimento di scioglimento, la relazione e l’ispezione della circoscrizione calabrese, evidentemente aveva dato atto, seppure implicitamente, della questione dell’infiltrazione mafiosa a cui tali note si riferivano.
Si potrebbe sostenere che le ragioni rituali ben possono coincidere con quelle sostanziali (ad esempio, l’ingresso nella massoneria di un fratello vicino alla mafia, dunque privo dei requisiti di moralità richiesti per l’adesione, è anche una questione formale) ma rimane il fatto che il gran maestro Bisi non ha nemmeno accennato, nonostante le plurime domande al riguardo, che lo scioglimento era avvenuto sì per un vizio massonico ma cagionato nella sostanza dalle possibili infiltrazioni mafiose. Egli, invece, ha preferito parlare di grembiuli e di guanti evitando di riferire il fulcro degli accadimenti.
Non è certamente questa la sede per valutare se le dichiarazioni di Stefano Bisi rese alla Commissione parlamentare antimafia possano avere penale rilevanza, tuttavia la condotta del gran maestro appare egualmente di particolare rilievo ed allarme.
Emerge, infatti, una chiara riluttanza a riferire i fatti, proveniente dal gran maestro di una delle obbedienze più importanti, e manifestata nei confronti di un organo previsto dall’art. 82 della Costituzione, evidentemente percepito come un’entità esterna, priva di qualunque titolo per conoscere le segrete vicende della massoneria.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Una loggia calabrese, i favori e le pressioni per avvicinare magistrate. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani l’11 aprile 2023
Il vincolo di solidarietà, dunque, non solo consentiva agli esponenti mafiosi di potere contare, in quanto massoni, perfino dei servigi contra legem del confratello magistrato, ma anche sul silenzio di questi e degli altri venuti a conoscenza delle vicende. Tutto doveva rimanere all’interno del circuito della massoneria e l’agire massonico si è qui atteggiato pericolosamente ad ordinamento separato dello stato
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Il silenzio di Stefano Bisi non può ritenersi un fatto isolato, essendosi riscontrati altri atteggiamenti similari, piegati al silenzio, e, per di più, anche quando i fatti nascosti abbiano assunto astratto rilievo penale.
Nel contesto dell’ispezione disposta dal gran maestro Raffi sulla “Rocco Verduci”, infatti, era emerso, come accertato dalla documentazione in sequestro, che un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato.
Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della Asl di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”.
Più tardi si verificava un similare episodio, ancor più significativo. Dai documenti ispettivi risulta infatti che, intorno al mese di aprile 2012, il predetto magistrato onorario fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione.
Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” della Dda di Reggio Calabria.
Non vi è dubbio che la sollecitazione non andò in porto o non diede i frutti sperati, atteso che, da lì a un mese, nel maggio 2012, nell’ambito dell’operazione “Falsa politica”, l’ex consigliere regionale fu tratto in arresto unitamente ad altri 13 soggetti a vario titolo accusati di essere contigui alla “locale” di ‘ndrangheta di Siderno, e poi condannato a 12 anni di reclusione per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. con sentenza non ancora definitiva.
Orbene, coerentemente con quanto evidenziato nei paragrafi precedenti, rileva l’atteggiamento della gerarchia calabrese e nazionale del Goi dinanzi alla segnalazione di tali gravi fatti. Vero è che sotto la granmaestranza di Raffi queste vicende, a differenza di quanto accaduto con l’avvento di Bisi, contribuirono alla sospensione della “Rocco Verduci” per “ inquinamento malavitoso”. Tuttavia, né gli ispettori dell’epoca, né il responsabile calabrese, né la struttura centrale del Goi ritennero opportuno, anzi doveroso, informare le autorità civili – non vi è traccia di alcuna forma di segnalazione - degli evidenti indizi di violazione delle norme penali. E nemmeno da parte del magistrato onorario risulta alcuna denuncia, nonostante la sua qualifica di pubblico ufficiale.
Il vincolo di solidarietà, dunque, non solo consentiva agli esponenti mafiosi di potere contare, in quanto massoni, perfino dei servigi contra legem del confratello magistrato, ma anche sul silenzio di questi e degli altri venuti a conoscenza delle vicende.
Tutto doveva rimanere all’interno del circuito della massoneria e l’agire massonico si è qui atteggiato pericolosamente ad ordinamento separato dello Stato.
Le circostanze accertate, peraltro solo una parte del compendio probatorio, conducono necessariamente ad una conclusione.
Quando la segretezza massonica, con i suoi corollari, finisce per sconfinare dai rituali esoterici, per atteggiarsi ad ostacolo alla conoscenza da parte dello stesso Stato, non solo si mina, in un sistema democratico, il pilastro della trasparenza intesa come anticamera del controllo sociale, ma si crea un humus particolarmente fertile all’infiltrazione mafiosa.
Se la realizzazione, o il tentativo di realizzazione, dei programmi criminosi, infatti, avviene in un contesto riservato, chiuso ad ogni interferenza statale, ciò non può che agevolare i disegni mafiosi che rimangono fisiologicamente sottotraccia e, per di più, ammantati dai valori massonici e tutelati dalla privacy riconosciuta alle associazioni di diritto privato.
Ma vi è di più. Quando la massoneria, nonostante la consapevolezza del pericolo che, nel suo seno, possano trovare composizione interessi di dubbia liceità, mantiene la propria chiusura, evitando la pubblica denuncia di chi alla massoneria attenta, conserva talune usanze, consone ai momenti storici in cui furono introdotte e invece inaccettabili con l’avvento della democrazia, che consentono la strumentalizzazione di chi nella massoneria persegue finalità diverse da quelle filantropiche; non si preoccupa di opporsi alla colonizzazione mafiosa con un sistema di controlli reali, non può che ritenersi che essa è tollerante nei confronti della mafia.
Probabilmente, un atteggiamento diverso, magari accompagnato da una modernizzazione degli ordinamenti massonici, attraverso un’apertura all’esterno e, soprattutto, un rapporto non conflittuale con le leggi dello Stato, gioverebbe già alla stessa massoneria perché si abbatterebbe quel diffuso pregiudizio nei suoi confronti e, soprattutto, ridurrebbe il rischio della formazione nel suo stesso ambito di pericolose zone grigie.
Lo stato, la P2 e quella legge del 1982 ignorata. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 12 aprile 2023
Va sottolineato che la legge è rimasta sostanzialmente disapplicata, sia per il principio dell’irretroattività (non potendo estrinsecarsi sulla vicende della loggia P2 per le quali era stata emanata); sia perché, comunque, non è stata in grado di rispecchiare le dinamiche associative che si sviluppano occultamente in ambito socio-politico tant’è che le relative indagini, negli anni, non hanno di solito prodotto alcun esito
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
La legge 25 gennaio 1982, n.17, recante “Norme di attuazione dell’art.18 Costituzionale e scioglimento dell’associazione denominata Loggia P2” (cd. legge Spadolini) rappresenta la prima riprova, seppur involontaria, del fatto che il necessario dibattito giuridico e politico sulle associazioni segrete è stato da sempre eluso.
Infatti, soltanto a distanza di ben quasi quarant’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, e soltanto in seguito al grave scandalo dovuto alla scoperta della Loggia Propaganda 2, si trovò l’occasione per iniziare a pensare all’attuazione dell’art. 18, comma 2, Cost. Inoltre, la normativa, rivolta a colpire, in quel particolare momento storico, i fenomeni di deviazione, ha finito, in realtà, per non disciplinare le associazioni segrete.
Va in primo luogo sottolineato che la legge è rimasta sostanzialmente disapplicata, essendosi risolta, di fatto, in una legge ad societatem condannata all’ineffettività sia per il principio dell’irretroattività (non potendo estrinsecarsi sulla vicende della loggia P2 per le quali era stata emanata); sia perché, comunque, non è stata in grado di rispecchiare le dinamiche associative che si sviluppano occultamente in ambito socio-politico tant’è che le relative indagini, negli anni, non hanno di solito prodotto alcun esito o, più spesso, si sono avvalse del diverso strumento dell’art. 416- bis del c.p.; sia perché l’irrisoria pena edittale prevista dall’art. 2 della legge per il delitto di partecipazione ad associazioni segrete incide, comunque, sulla concreta perseguibilità delle stesse.
L’inoperatività della suddetta legge si evidenzia anche con riferimento al suo art. 4 che, anche per la macchinosità di alcune previsioni, ha fatto da sponda ad una volontà generalizzata di disapplicazione. Così, la commissione competente a giudicare i rilievi disciplinari per i dipendenti iscritti ad associazioni segrete, dopo essere stata nominata per un primo triennio, non è stata più costituita. Allo stesso modo, le Regioni chiamate ad emanare per i dipendenti regionali, secondo lo stesso art. 4, «leggi nell'osservanza dei principi dell'ordinamento espressi nel presente articolo», nella gran parte dei casi non hanno dato attuazione all'obbligo legislativo.
Di converso, la legge 17/1982, rivelatasi improduttiva degli effetti che si proponeva, ne ha determinati altri.
Innanzitutto, ha dato luogo ad una nozione di società segreta, diversa da quella concepita in sede costituzionale, che ha consentito finora l’attività di compagini sociali che andavano diversamente regolate.
In particolare, l’art. 1, definendo le associazioni segrete, le qualifica in quelle che, sebbene operanti all’interno di associazioni palesi, presentino talune caratteristiche (analiticamente indicate e alternative tra loro) consistenti: nell’occultamento dell’esistenza dell’associazione, ovvero nel tenere segrete congiuntamente le finalità e le attività sociali, ovvero ancora nel rendere sconosciuta, in tutto o in parte, all’esterno o all’interno del sodalizio, l’identità degli associati.
Tuttavia, accanto a tale condivisibile nozione sostanziale di segretezza, conforme alla volontà dei Costituenti, il medesimo art. 1 ha inteso subordinare la rilevanza giuridica dell’associazione segreta, così come definita, all’integrazione di un ulteriore requisito: deve cioè svolgere attività diretta a interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche. In sostanza, mentre l’art. 18 Cost. proibisce, nel secondo comma, le associazioni segrete in quanto tali, al contrario la legge 17/1982 somma tale requisito a quello stabilito, in maniera del tutto indipendente, nel primo comma del medesimo art.18 (che vieta le associazioni che perseguano fini vietati ai singoli dalla legge penale).
Inoltre, il previsto legame tra la segretezza sostanziale e l’interferenza sull’esercizio delle funzioni pubbliche, oltre ad essere affetto da evidenti profili di incostituzionalità, rende comunque privo di significato il divieto di segretezza.
Infatti, se, da un lato, la suddetta interferenza spesso può tradursi nella programmazione di reati contro l'organizzazione dei pubblici poteri, sicché già tali condotte trovano sanzione penale indipendentemente dalla segretezza delle associazioni da cui provengano, di converso, tutte le associazioni per delinquere, sono segrete, con la conseguenza che il divieto di segretezza sancito in via autonoma dall'ultimo comma dell'art. 18 Cost. si rileverebbe superfluo.
Vi è altresì da osservare che, anzi, la legge 17 del 1982, accorpando i due diversi elementi, cioè il modo di essere dell’associazione e suo il fine illecito, ha di fatto aumentato il coefficiente di segretezza delle logge ufficiali che, proprio perché perseguono finalità lecite e, dunque, esulano dal divieto legislativo, hanno potuto mantenere, in concreto, le barriere invalicabili alla conoscenza esterna ed interna.
Probabilmente la formulazione dell’art. 1 della legge Spadolini risente sia dell’esigenza di determinatezza e di selettività ai fini della costruzione della fattispecie penale di cui all’art. 2 della medesima legge sia di quella, cogente, di rispondere all’emergenza costituita dalla scoperta della Loggia P2 e sulla quale le norme si sono dovute permeare.
Secondo tale impostazione, è quindi il programma di influenza, ulteriore rispetto alla segretezza ed in grado di esprimere un maggiore disvalore, che può legittimare il ricorso alla sanzione penale.
Come correttamente osservato, però, «il divieto di segretezza costituzionalmente rilevante non implica, in linea generale, la necessità che l’ordinamento debba reagire comunque, con una risposta di carattere penale. Il fatto che il programma dell’associazione sia intrinsecamente lecito, non può considerarsi irrilevante allorquando si tratti di individuare le conseguenze sanzionatorie, applicabili in caso d’inosservanza del limite di cui all’art.18/2 Cost. L’interesse alla base del divieto costituzionale potrebbe, infatti, risultare adeguatamente soddisfatto anche attraverso il mero scioglimento dell’associazione, sufficiente in quanto tale ad eliminare il disvalore insito nell’esercizio in forma occulta della libertà associativa. (..) (Mentre) la giustificazione della previsione di sanzioni penali presuppone l’incidenza su interessi ulteriori e meritevoli di più intensa proiezione rispetto a quello del metodo democratico della trasparenza che, come si è visto, deve ritenersi sotteso al divieto costituzionale».
Quando gli eccellenti giudici erano anche fratelli muratori. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 13 aprile 2023
Nessuna norma per oltre 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione aveva mai previsto, per i magistrati ordinari, il divieto di iscriversi ad associazioni segrete o, comunque, particolarmente vincolanti. Solo nel 1990, il Consiglio superiore della magistratura provò ad esprimersi sull'iscrizione e/o appartenenza dei magistrati alla massoneria...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
È pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che il vincolo associativo massonico, per la sua stessa portata, si pone in evidente contrasto con i principi costituzionali di indipendenza del potere giudiziario e dei singoli magistrati, di soggezione dei giudici soltanto alla legge, di terzietà del giudice nell'esercizio della funzione giudiziaria [...]. Del resto, come sottolineato dalla stessa Corte costituzionale, “i magistrati, per dettato costituzionale (..), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell'adempimento del loro compito”.
Nessuna norma, però, per oltre 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione aveva mai previsto, per i magistrati ordinari, il divieto di iscriversi ad associazioni segrete o, comunque, particolarmente vincolanti. L'art. 18 del R.D.Lgs. n. 511 del 1946 (Guarentigie della magistratura), invero, si era limitato a sancire la responsabilità disciplinare del magistrato che “manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario” utilizzando, dunque, una formula abbastanza generica.
Solo nel 1990, il Consiglio superiore della magistratura, con la risoluzione del 22 marzo, provò ad esprimersi sull'iscrizione e/o appartenenza dei magistrati alla massoneria e/o ad associazioni “vincolanti”, evidenziando l'incompatibilità della doppia appartenenza. Così, a partire dal 1993 il CSM, alla luce di quella risoluzione, iniziò ad applicare sanzioni disciplinari ai magistrati iscritti a logge massoniche mentre, a sua volta, la Suprema Corte confermò la rilevanza disciplinare sottolineando che l’iscrizione di un magistrato alla massoneria, anche non segreta, si traduce nella menomazione dell'immagine di organo assolutamente indipendente ed imparziale e nella conseguente perdita di prestigio del magistrato e dell'ordine giudiziario: non può, infatti, il magistrato condividere il suo impegno civile con l'adesione ad un sodalizio che indebolisce il giuramento di fedeltà allo Stato e che, essendo articolato in gradi, è indicativo di una dipendenza degli affiliati verso coloro ai quali l'associazione riconosce un livello di autorità e prestigio superiore.
Tuttavia, proprio per l’assenza di un percorso normativo chiaro, la Corte europea dei diritti dell'uomo, sia con la sentenza “NF c. Italia” del 2 agosto 2001 che con quella successiva “Maestri c. Italia” del 17 febbraio 2004, aventi ad oggetto l’applicazione di sanzione disciplinare a magistrati iscritti alla massoneria, affermò che l’Italia aveva agito in violazione della convenzione EDU. Infatti, l’ingerenza dello Stato nella vita privata altrui, e dunque nel libero diritto di associarsi, è ammissibile ma solo a) se essa sia prevista per legge e sia, comunque, prevedibile, b) se persegua finalità legittime, c) se è contenuta nei limiti delle misure strettamente necessarie ad assicurare la realizzazione delle predette superiori finalità. Nel caso di specie, invece, mancava il primo requisito della prevedibilità: l’art. 18 del R.D.Lgs. n. 511 del 1946 da un lato, e la direttiva del CSM del 1990, dall’altro, non contenevano termini sufficientemente chiari in ordine alla possibile rilevanza disciplinare dell'adesione ad una loggia massonica diversa dalla P2. Si tratta di decisioni che, evidentemente, affermano tutt’altro rispetto a quanto sostenuto dalle obbedienze.
Solo più tardi, con la riforma dell'ordinamento giudiziario, il d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, all’art. 3 ha espressamente qualificato come illecito disciplinare la partecipazione del magistrato “ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie”.
La questione, però, è lungi dall’essere stata risolta. Infatti, la locuzione “associazioni segrete” rimane ancorata alla definizione di cui all’art. 1 della legge 17/1982 con la conseguente inutilità della previsione disciplinare per il caso del magistrato che faccia parte di associazioni segrete in senso sostanziale, e dunque vietate dalla Costituzione. A sua volta, la locuzione “vincoli oggettivamente incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie” appare non di facile interpretazione non essendo esplicitato in base a quali criteri oggettivi essi si individuano. Ed ancora, non sono previsti strumenti di natura generale che, da un lato, obblighino alla verifica e, dall’altro, che consentano la effettiva verificabilità dell’appartenenza di un magistrato ad una loggia massonica specie se, questa, si atteggi come segreta.
Nessuna disposizione di legge è stata invece introdotta per la magistratura onoraria (sebbene sempre più numerosa nell’ordinaria amministrazione della giustizia) alla quale, pertanto, il CSM ha cercato di estendere il principio di incompatibilità tra esercizio delle funzioni giudiziarie e affiliazione massonica.
Anche per i giudici amministrativi e contabili, ai quali non si applica il d.lgs. del 2006 n. 109 previsto solo per la magistratura ordinaria, non esiste una previsione di legge che impedisca loro l’adesione ad associazioni segrete o “vincolanti”.
Può solo segnalarsi che, per i magistrati amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ha adottato la delibera del 13 gennaio 1994 che in termini di assoluta chiarezza ha vietato la doppia appartenenza e che lo stesso è accaduto attraverso i codici di condotta dei magistrati amministrativi.
Per i magistrati della Corte dei conti, invece, non risultano nemmeno deliberazioni dell'organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza, ma solo il codice deontologico adottato dai magistrati il 23 gennaio 2006 in cui si prevede, all'art. 7, che “il magistrato non aderisce ad associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati”.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
L’osservanza della Costituzione e le giustificazioni dei Venerabili Maestri. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 14 aprile 2023
Viene rivendicata l'osservanza “della Costituzione e delle leggi che ad essa si ispirino”, come se fosse possibile un sindacato discrezionale, del tutto individuale e diverso da quello previsto dalla Costituzione stessa, sulla legittimità delle norme di legge, tale da giustificarne l'inottemperanza, all'occorrenza, e la disapplicazione, nei casi concreti, così come del resto è avvenuto rispetto alle richieste formulate dalla Commissione
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Il tema delle infiltrazioni mafiose nella massoneria si rinviene da tempo in una pluralità di fonti, provenienti da inchieste parlamentari (P2, IX legislatura; Antimafia, XI legislatura), atti processuali, indagini giudiziarie, attività delle prefetture e delle forze di polizia.
Nel corso della propria attività durante la XVII legislatura, la Commissione parlamentare antimafia ha rilevato, in alcuni contesti siciliani e calabresi, ulteriori situazioni indicative di forme di infiltrazione e condizionamento dell’attività di logge massoniche da parte delle organizzazioni criminali di tipo mafioso, e più in generale, un profilo di particolare rischio connesso ai nuovi modi di agire delle mafie, che si muovono oggi soprattutto attraverso reti di relazioni sociali, non in forme violente, ma strumentali al perseguimento dei propri fini illeciti.
La Commissione ha pertanto convenuto di avviare un approfondimento specifico, dedicato non alla massoneria in generale, ma alla presenza di esponenti di organizzazioni criminali di tipo mafioso all’interno delle logge massoniche siciliane e calabresi, allo scopo di verificarne la natura, accertare la congruità delle misure adottate in base alla disciplina vigente e formulare le opportune proposte normative per contrastare il fenomeno.
La Commissione ha individuato in piena autonomia obiettivi e strumenti del lavoro di inchiesta. In primo luogo, vi è una finalità generale di conoscenza del fenomeno, coerente con la funzione politico-legislativa dell’inchiesta parlamentare, non concentrata dunque su singole situazioni o condotte personali; in secondo luogo, un metodo fondato sulla collaborazione istituzionale e sulla cooperazione da parte di tutti i soggetti chiamati a dare il proprio contributo e, in mancanza, sull'impiego dei poteri attribuiti alla Commissione dalla Costituzione e dalla legge istitutiva.
Tale impiego ha riguardato in particolare l’esigenza, propedeutica ad ogni possibile approfondimento, di acquisire gli elenchi degli iscritti ad alcune associazioni massoniche – individuate sotto diversi profili tra quelle maggiormente rappresentative, sebbene non esaustive, all’interno di una galassia di ben oltre un centinaio di associazioni che si dichiarano dotate di tale carattere - a fronte del reiterato rifiuto di collaborare, motivato da parte delle obbedienze con ragioni di privacy dei singoli, per legge evidentemente non opponibile alle Commissioni di inchiesta e più in generale nei confronti dell'autorità.
È stato pertanto necessario acquisire gli elenchi con forme non collaborative, mediante un sequestro, utilizzando i poteri dell'autorità giudiziaria attribuiti alla Commissione.
Una volta estrapolati dal materiale sequestrato, tuttavia, gli elenchi dei nominativi registrati si sono rivelati verosimilmente incompleti, o quanto meno sprovvisti, in molti casi (pari a circa il 17,5% del totale), di tutti i dati identificativi, propri di un’anagrafe degli appartenenti all'organizzazione.
La disamina degli iscritti - o meglio della parte di essi identificata univocamente - è stata effettuata in collaborazione con la DNAA in base a evidenze giudiziarie solo per fatti di mafia.
La disamina ha rivelato la presenza di un non trascurabile numero di iscritti alle logge (circa 190), coinvolti in vicende processuali o interessati da procedimenti di prevenzione, giudiziari o amministrativi.
Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali.
È infatti emerso come tali obbedienze massoniche, il cui status giuridico è quello delle associazioni non riconosciute, siano strutturate al loro interno secondo un principio di riservatezza estrema, caratteristica di un ordinamento che si fonda in modo ontologico su tale presupposto (adottando rituali allegorici anche molto espliciti sulle punizioni per chi trasgredisca il segreto interno) e inoltre si propone ai propri adepti e ai "profani" con caratteri di specialità, quasi di alternatività, rispetto a quello giuridico generale, comprese forme di giustizia interna che esclude il ricorso a quella esterna.
Viene rivendicata l'osservanza “della Costituzione e delle leggi che ad essa si ispirino”, come se fosse possibile un sindacato discrezionale, del tutto individuale e diverso da quello previsto dalla Costituzione stessa, sulla legittimità delle norme di legge, tale da giustificarne l'inottemperanza, all'occorrenza, e la disapplicazione, nei casi concreti, così come del resto è avvenuto rispetto alle richieste formulate dalla Commissione.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Logge “buone” e logge “deviate”, ma tutte con obbligo sempre di segretezza. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 15 aprile 2023
Le logge rappresentano un fattore di attrattività per le organizzazioni criminali che vogliano avervi ingresso per stabilire proficui rapporti, che sono agevolati dalla loro segretezza, dalla gerarchia interna e dal rifiuto di ogni ingerenza dell'autorità pubblica negli affari domestici
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
In altri termini, l'organizzazione delle obbedienze massoniche si presenta al proprio interno sostanzialmente segreta, senza che tale caratteristica possa essere attribuita esclusivamente a "logge deviate"; per converso, all'esterno esse si appalesano in modo "ufficiale" o "regolare" (pur non esistendo alcun parametro legale per definirsi tali), promuovendo, anche attraverso forme associative collaterali, l'instaurarsi di reti di relazioni ad alti livelli sociali.
Tali relazioni sociali sono frutto della presenza prevalente nelle logge di soggetti dotati di profili professionali elevati (anche solo in relazione al contesto in cui operano), derivanti dalle funzioni esercitate (dipendenti pubblici) e dalle professioni svolte (medici, avvocati, ingegneri, ecc.).
Esse rappresentano un fattore di attrattività per le organizzazioni criminali che vogliano avervi ingresso per stabilire proficui rapporti, che sono agevolati dalla loro segretezza, dalla gerarchia interna e dal rifiuto di ogni ingerenza dell'autorità pubblica negli affari domestici. Questi caratteri, complessivamente considerati, richiamano peraltro quelli propri delle organizzazioni criminali mafiose, fermo restando la diversità dei fini, leciti e nobili in un caso, illeciti e ignobili nell'altro. Questa permeabilità e la conseguente esposizione al rischio di infiltrazione è un fattore di debolezza avvertito dagli stessi massoni più avveduti.
Del resto, il problema del consenso, che è il vero cuore della lotta alle mafie, esiste in tutte le organizzazioni sociali, e la “politicità” delle organizzazioni criminali, attraverso le relazioni e il consenso che esse sono in grado di generare, si manifesta, inevitabilmente, anche, all’interno delle associazioni a carattere massonico. Il segreto dell’organizzazione lo rende quasi invisibile all’esterno, ma è sembrato che la percezione all’interno del problema sia ben esistente, sebbene sia preferibile non farla trapelare.
Ma ciò che rileva per la Commissione non è tanto la prospettiva interna dell'associazione, che si assume lecita fino a prova contraria, quanto i fattori di rischio per la collettività derivanti dall'accertata presenza di soggetti massoni che esercitano funzioni pubbliche, perché ricoprono cariche pubbliche, incarichi pubblici o perché concorrono alla gestione di risorse pubbliche. Anche inconsapevolmente, essi rischiano di essere veicolo di tentativi di infiltrazione criminale, agevolati dalle ricordate caratteristiche di segretezza, gerarchia, esclusività e perpetuità del vincolo massonico.
La Commissione ha dunque svolto i propri compiti istituzionali mediante un’analisi degli indicatori del fenomeno nel suo complesso, e non ha inteso concentrare l'attenzione sulle posizioni di singoli individui. Resta salva, naturalmente, la collaborazione in ordine all’accertamento di reati con la magistratura, che in alcuni casi ha fatto richiesta, per fini di indagine, di consultare o aver copia degli elenchi degli iscritti. A tale richiesta naturalmente si corrisponderà, e in spirito di leale collaborazione istituzionale, la quale è tanto più efficace allorquando la politica rivendica non solo l'autonomia delle proprie scelte generali, ma anche il suo legittimo esercizio in concreto, senza interferire con le prerogative di altri poteri dello Stato.
Peraltro, appare da superare la situazione che si è creata da un lato attraverso la discutibile attuazione (di fatto, inapplicazione) dell'articolo 18 della Costituzione, in ordine al divieto delle associazioni segrete, da parte della legge 25 gennaio 1982, n. 17 e in ragione del peculiare momento storico che portò all'adozione di una "legge-provvedimento", limitativa della portata generale del divieto costituzionale; dall'altra, attraverso l'introduzione della disciplina in materia di protezione dei dati personali che ha sostanzialmente rafforzato la dimensione privata dell'agire dei componenti di tali organizzazioni. E infatti la privacy è stata inopinatamente opposta persino alla Commissione parlamentare di inchiesta, al pari di chiunque altro, prefigurando responsabilità giuridiche in capo a chi può sicuramente riportare la notizia - pubblica - di una condanna per mafia, ma non può riferire al riguardo che è stata pronunciata a carico di un soggetto iscritto alla massoneria, perché questo va considerato un "dato sensibile", in base alla disciplina della privacy.
Tale rafforzamento dei profili di riservatezza si pone peraltro a fronte dell'indebolimento, se non della abolizione di doveri di trasparenza, quanto meno in determinate situazioni, come quella degli iscritti che siano al contempo dipendenti pubblici (ad esclusione dei magistrati, per i quali già esiste un divieto, introdotto all'epoca dello scandalo P2), come ad esempio militari o membri delle forze di polizia.
Tali doveri sono stati riaffermati in via giurisprudenziale dal Consiglio di Stato, ma permane l'esigenza di una disciplina compiuta della materia a livello legislativo, anche per sgomberare il campo da mistificazioni legate a pronunce giurisdizionali in sede europea, che non hanno mai legittimato tali commistioni, quanto piuttosto censurato, sotto il profilo della conoscibilità della norma, l'assenza di disposizioni di legge in materia.
Le proposte della Commissione sono pertanto di natura legislativa, e sono di seguito illustrate.
Quando capita che la massoneria vuole assomigliare alla mafia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 16 aprile 2023
La prevalenza dell’ordinamento massonico impedisce allo Stato la conoscenza perfino dei reati consumati nonché il controllo dell’applicazione delle proprie leggi sui dipendenti pubblici; consente lo spregio delle regole e dei doveri civici da parte dei massoni con l’assoluzione preventiva del cerimoniere; toglie la parola agli assessori comunali, seppure impegnati nelle terre martoriate dalla mafia, per farne muti servitori della massoneria
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
L’analisi condotta nelle pagine precedenti non consente di affermare che la mafia e la massoneria siano un unicum né che -come disse, alla fine dell’Ottocento, il deputato Felice Cavallotti- “non tutti i massoni sono delinquenti ma tutti i delinquenti sono massoni”.
Gli esiti dell’inchiesta parlamentare, tuttavia, hanno evidenziato gravi elementi di criticità e, dunque, di incompatibilità, in seno all’ordinamento giuridico, tra talune forme associative -o, meglio, tra l’estrinsecarsi di talune forme associative- e lo Stato democratico.
Per quanto concerne la prospettiva di questa Commissione, è emerso che la mafia -o, comunque, le sue più pericolose espressioni rappresentate da Cosa nostra siciliana e dalla ‘ndrangheta calabrese- da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni, nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria.
Ma se le associazioni mafiose sono quelle descritte dal comma 3 dell’art. 416-bis del c.p., e cioè le consorterie criminali dirette ad “acquisire (..) la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici” e “a impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o altri in occasione di consultazioni elettorali”, non può che ricavarsi, di conseguenza, che la mafia individua nella massoneria uno strumento che le permette di raggiungere le finalità descritte dalla norma che la definisce. E, ciò anche perché, come si è detto, rappresenta il luogo di dialogo, diretto e solidale, con l’aristocrazia delle professioni. Il luogo privilegiato dove trattare affari, ottenere incarichi, pilotare appalti e, talvolta, “aggiustare” i processi.
Ciò nonostante, dalla parte delle associazioni massoniche, si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia, né potrebbe essere diversamente data la costanza e la reiterazione nel tempo del fenomeno infiltrativo.
Ma, se la ratio dell’ingresso della mafia nella massoneria si coglie, come detto, nell’essenza stessa dei suoi scopi così come descritti nell’art. 416-bis cit., il fenomeno inverso -l’accoglienza della massoneria nei confronti della mafia- non può giustificarsi attraverso le finalità statutarie, di ben altra natura rispetto a quelle mafiose, perseguite dalle associazioni massoniche ufficiali.
È nella posizione assunta da determinati fratelli o da gruppi di fratelli, più o meno numerosi, che può essere ricercata la ragione dell’incontro con il mondo mafioso, ma ovviamente, in tal caso, potrebbero individuarsi interessi o atteggiamenti diversificati, difficili da aggregare sotto un unico comune denominatore.
Può nondimeno affermarsi che qualora il massone sia, al contempo, un mafioso, come non di rado è accaduto, si realizza una coincidenza di appartenenza e, dunque, di intenti nel senso che il programma criminale mafioso intraprende la sua realizzazione (anche) nei gangli massonici.
Si può anche registrare l’intersezione dei diversi intenti (come, ad esempio, potrebbe accadere in occasione di elezioni massoniche per cariche autorevoli, peraltro lautamente retribuite, in cui la mafia può ben assicurare un certo numero di voti) che, dunque, si traduce in una reciproca convenienza, peraltro ipotizzata dagli stessi appartenenti alla massoneria.
Sono tuttavia i casi, certamente più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza -frutto di un generalizzato negazionismo dell’infiltrazione mafiosa (magari volto a salvaguardare il prestigio internazionale dell’associazione massonica o le sue fondamentali regole di segretezza), e a sua volta, causa di carenze in termini di prevenzione- che, paradossalmente, si rivelano più preoccupanti.
Ed invero, l’ordinamento giuridico, che ben dispone di strumenti in grado di prevenire e di reprimere le deviazioni e i patti intercorsi con le mafie, -e dunque la duplice appartenenza e la convenienza- non gode di altrettanti mezzi nel caso della tolleranza, cioè in assenza di fatti penalmente rilevanti dal lato massonico e, pertanto, assiste inerme ad un fenomeno che, benché necessariamente generato dall’incontro tra due entità, consapevole una e più o meno inconsapevole l’altra, può essere impedito solo per metà.
Tale pericolosa tolleranza si realizza, in primo luogo, laddove, nonostante il continuo allarme di inquirenti, giuristi, storici e organi di stampa, non sono state ancora assunte dalla massoneria ufficiale determinazioni ferme e definitive volte a rendersi impermeabile rispetto agli interessi criminali.
Si è già evidenziato, infatti, che nonostante la consapevolezza dei rischi, il sistema dei controlli massonici si è rivelato spesso inefficace, e ciò non tanto per la carenza di strumenti, come si è pure obiettato, ma soprattutto per la mancanza di volontà in tal senso. Ed invero, quando le infiltrazioni malavitose sono state accertate a livello organizzativo la scelta dello scioglimento delle logge non ha impedito, anzi ha favorito, il transito dei membri in altre articolazioni della medesima obbedienza. Allo stesso modo, le accorate segnalazioni dei fratelli più avveduti si sono risolte nell’espulsione di costoro. Le sentenze penali di condanna per fatti di mafia, a loro volta, sono rimaste spesso ignorate dalle obbedienze massoniche che non hanno riconosciuto in esse la segnalazione di un pericolo.
Al contempo, come si è constatato in diverse occasioni, non state adottate posizioni di netta collaborazione massonica, rivelatrici di una convergenza di scopi, con le Autorità impegnate nella repressione del fenomeno. Questa Commissione è diretta testimone di tale atteggiamento, verificato tanto nel corso delle reticenti audizioni, tanto nel rifiuto di consegna degli elenchi. Ma ne sono testimoni altresì i membri della loggia “Araba Fenice” che si dimisero per protestare contro l’espulsione di un fratello reo di avere collaborato con la Digos.
La tolleranza si riscontra altresì nella miope ostinazione della massoneria a mantenere, nonostante quanto la storia italiana ci abbia insegnato, quelle caratteristiche strutturali e organizzative, del tutto similari a quelle della mafia, che, nella loro concreta attuazione, ben valicante ogni innocuo rituale, si pongono quali fonti di alimentazione per la creazione, in ambito massonico, di un humus particolarmente fertile per la coltivazione degli interessi mafiosi.
Tra queste, va segnalato soprattutto il dovere di segretezza, su cui è improntato l’associazionismo massonico, con tutti i suoi corollari dei vincoli gerarchici e di fratellanza, della legge e della giustizia massoniche intese come ordinamento separato da quello dello Stato e prevalente rispetto a quest’ultimo.
Con grande evidenza è emerso un segreto interno, già di per sé inconcepibile in uno Stato democratico, a cui fa eco, soprattutto, quello esterno, anche verso le pubbliche Autorità.
Nemmeno con il provvedimento di sequestro, per citare solo uno dei tanti esempi riportati, è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono e, comunque, quelli che ci sono non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti rimasti occulti grazie a generalità incomplete, inesistenti o nemmeno riportate.
Il vincolo di solidarietà tra fratelli, a sua volta, consente, perfino, come visto in uno dei casi di estrema gravità affrontati, il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia; dialogo che non solo legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi, ma impone il silenzio di chi quelle richieste riceve.
La prevalenza dell’ordinamento massonico, ancora, impedisce allo Stato la conoscenza perfino dei reati consumati nonché il controllo dell’applicazione delle proprie leggi sui dipendenti pubblici; consente lo spregio delle regole e dei doveri civici da parte dei massoni con l’assoluzione preventiva del cerimoniere il quale garantisce che l’osservanza delle norme interne include automaticamente quella delle altre; toglie la parola agli assessori comunali, seppure impegnati nelle terre martoriate dalla mafia, per farne muti servitori della massoneria.
I vincoli di obbedienza gerarchica, di converso, inducono al silenzio anche sulle infiltrazioni della mafia perché altrimenti, come è accaduto, si offende implicitamente la dirigenza massonica, che tutto vede e tutto fa, di non aver visto e di non aver fatto nulla.
Tuttavia è proprio il segreto, con tutte le sue appendici, che consente, peraltro “fisiologicamente”, l’incontro tra le due formazioni, una illecita e l’altra lecita, al di fuori di qualunque controllo esterno e, per di più, con la parvenza della liceità (ricavabile dalla collocazione della massoneria tra le associazioni previste dall’ art. 36 del c.c. tutelate, dunque, dall’art. 18 della Cost.), così dando luogo ad una zona grigia della quale ben poco è dato sapere.
Ma vi è di più. Se, da un lato, i singoli massoni sono menomati nella libertà di esternare la zona grigia, dall’altro lato, viene a crearsi, l’asservimento, anche rispetto a fini non massonici o addirittura mafiosi, pure da parte di coloro che, essendo chiamati a svolgere funzioni al servizio dello Stato, devono improntare le loro condotte all’assoluta trasparenza e all’incondizionata lealtà verso le Istituzioni.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Lo stato non ha mai affrontato davvero la questione delle logge segrete. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 17 aprile 2023
Non può dimenticarsi che, dall'entrata in vigore della Costituzione, è sostanzialmente mancato un dibattito culturale, tanto sotto il profilo storico-politico che sotto quello tecnico-giuridico, sia riguardo al divieto costituzionale, previsto nell’art. 18, delle associazioni segrete, sia, più in particolare, riguardo all'associazionismo massonico italiano degli ultimi decenni. Né tale dibattito può essere colto in quello scaturito dallo scandalo della cosiddetta Loggia Propaganda 2...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
La questione fin qui sintetizzata impone, pertanto, una seria riflessione, non tanto sugli aspetti macroscopicamente patologici del connubio mafia-massoneria che, comunque, trovano una certa risposta nel sistema ordinamentale, ma su quegli altri aspetti di normalità che, proprio da tali, generano e alimentano quel connubio.
Non può dimenticarsi, al riguardo, che, dall'entrata in vigore della Costituzione, è sostanzialmente mancato un dibattito culturale, tanto sotto il profilo storico-politico che sotto quello tecnico-giuridico, sia riguardo al divieto costituzionale, previsto nell’art. 18, delle associazioni segrete, sia, più in particolare, riguardo all'associazionismo massonico italiano degli ultimi decenni. Né tale dibattito può essere colto in quello scaturito dallo scandalo della cd Loggia Propaganda 2 che diede luogo alla promulgazione della legge 17/1982, poiché si riferiva all’aspetto macroscopico della devianza massonica, rientrante nelle competenze dell’Autorità giudiziaria, e non anche al funzionamento del sistema. L’insigne giurista Massimo Severo Giannini parlò pertanto di particolare “esiguità degli studi”.
Né può dimenticarsi, ancor meno, che la storia di questo Paese, unica nel panorama europeo, è stata costellata dalla prevaricazione della mafia, soprattutto nel Sud ma con sempre crescenti fenomeni di espansione, che ha rappresentato, dunque, una delle emergenze più importanti con cui ci si è dovuti confrontare e con cui, tuttora, ci si confronta. L’Italia, colpita dalle stragi di mafia e dalle migliaia di morti, compresi innumerevoli servitori delle Istituzioni, è riuscita a dotarsi di una legislazione sempre più specializzata e attenta che potesse contrastare un così devastante fenomeno; una legislazione all’avanguardia, poi mutuata da altri Paesi, che ha permesso, insieme all’impegno della magistratura e delle forze dell’ordine, di costringere la mafia sanguinaria ad operare in contesti di sommersione in cui viene privilegiato il metodo collusivo-corruttivo rispetto alle tradizionali condotte improntate a forme eclatanti di violenza. Va considerato anche, al riguardo, come ulteriore segno di allarme e di urgenza, l’elevato numero, in continuo aumento, degli iscritti alle logge massoniche calabresi e siciliane. Il dato è certamente giustificabile con il fatto che centinaia di persone, specie nel Sud, possano cercare, all’interno della massoneria, risposte alla crisi economica o, anche solo, a quella dei valori. Ma può altresì essere collegato, magari solo in parte, e soprattutto nelle zone ad alta densità mafiosa, al mutamento della strategia criminale della mafia che, ora, mira a sedersi nei tavoli degli accordi piuttosto che impugnare le armi per le strade.
In questo peculiare momento, dunque, se dovessero sfuggire al controllo istituzionale e normativo le zone grigie che anzi, proprio perché dissimulate dalla legalità, si trasformano in zone franche, si vanificherebbero gli enormi sforzi compiuti negli ultimi decenni.
La risoluzione della questione, finora rinviata o ignorata, dunque, non appare più procrastinabile. Ed è nei principi della Carta costituzionale e della Convenzione dei diritti dell’uomo riportati nelle pagine precedenti che va ricercata la stella polare che consenta il bilanciamento del diritto dell’individuo ad associarsi liberamente con l’interesse preminente dello Stato alla tutela della società dalle mafie.
Va premesso che le norme sulle associazioni segrete e su quelle comunque “vincolanti” sono finora state rimesse, come si è detto, ad una legislazione regionale, a macchia di leopardo, priva di uniformità, mentre trattandosi di temi volti a salvaguardare i principi fondamentali della Costituzione, tali valori richiederebbero una normativa statale con una portata generalizzata.
Sarebbe pertanto necessaria, innanzitutto, una previsione di legge che, per quanto già esposto nell’ultima parte di questa relazione, chiarisca definitivamente, tipizzandone le caratteristiche sostanziali già illustrate, che, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della Costituzione, le associazioni sostanzialmente segrete, anche quando perseguano fini leciti, sono vietate in quanto tali, poiché pericolose per la realizzazione dei principi della democrazia e vieppiù così rivelatesi nel concreto della realtà italiana.
Una tale norma, soprattutto, attuerebbe, finalmente, la volontà dei Costituenti finora rimasta ignorata anche dalla legge 17/1982 sebbene intitolata “Norme di attuazione dell’art. 18 della Costituzione”.
Certamente, il fatto che il programma dell’associazione sia intrinsecamente lecito, come già evidenziato, “non può considerarsi irrilevante allorquando si tratti di individuare le conseguenze sanzionatorie, applicabili in caso d’inosservanza del limite di cui all’art.18/2 Cost. L’interesse alla base del divieto costituzionale potrebbe, infatti, risultare adeguatamente soddisfatto anche attraverso il mero scioglimento dell’associazione, sufficiente in quanto tale ad eliminare il disvalore insito nell’esercizio in forma occulta della libertà associativa”.
Sarebbe possibile ipotizzare, dunque, un provvedimento amministrativo prefettizio di scioglimento (sottoposto alla possibilità di impugnazione) dell’obbedienza o di una sua articolazione territoriale, e, solo per il caso di persistenza, sotto qualsiasi forma della medesima associazione disciolta, la sanzione penale.
E’ opportuno aggiungere che una norma che vieti, erga omnes, la segretezza di tutte quelle formazioni sociali, massoniche e non, che celino all’esterno e/o all’interno la loro essenza, e dunque così presentando profili di incompatibilità con il libero esercizio dei diritti assicurato dalla nostra Costituzione, non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte dalla stessa paventato.
Una previsione simile colpirebbe sì quelle associazioni massoniche che non proveranno a rivedere il loro ordinamento e ad adattarlo a quello dello Stato, ma non sarebbero soltanto queste, come è ovvio, gli obiettivi di una norma generale. In ogni caso, non può non riconoscersi la peculiarità italiana in tema di massoneria che, in diverse occasioni, si è ben differenziata da analoghe associazioni operanti in altri Paesi, per il grave fatto di essere stata la sede di interessi criminali, eversivi e mafiosi.
Una tale norma, del resto, sarebbe conforme alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, nonostante quanto inopinatamente affermato in proposito dai gran maestri, non salvaguarda il diritto alla segretezza bensì il diritto all’associazione; diritto, quest’ultimo, che, secondo la normativa europea, può certamente essere sacrificato in presenza di una espressa previsione legislativa, del perseguimento di finalità di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, della proporzionalità della sanzione rispetto ad enti che abbiano finalità lecite, della assenza di pratiche discriminatorie individuabili nel trattare in modo diverso situazioni materialmente paragonabili e senza una giustificazione obiettiva ragionevole.
Infine, una norma di rango superiore che vieti concretamente, e non solo come postulato, le associazioni segrete in senso sostanziale, sarebbe risolutiva, a monte, di tutte quelle altre problematiche prima evidenziate riguardo ai soggetti che, a vario titolo, svolgono attività al diretto servizio dello Stato per i quali, spesso, la sanzione disciplinare è correlata alla (improbabile) esistenza di un’associazione ex art. 2 della legge 17/1982 e non all’evidente disvalore di partecipare ad agglomerati segreti, incompatibili con i nostri principi di democrazia. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Le proposte della commissione Antimafia per contrastare le infiltrazioni. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA su Il Domani il 18 aprile 2023
È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie. Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana
Con riferimento all’ulteriore questione delle associazioni “vincolanti”, sebbene non segrete, cioè che presentino caratteristiche tali da generare comunque vincoli di particolare cogenza nei confronti dei loro aderenti sì da potere interferire negativamente con lo svolgimento di un’attività a carattere pubblicistico, sembra possibile, anche alla luce delle indicazioni della Corte Edu riportate nell’ultima parte di questa relazione, individuare situazioni diversificate.
Preliminarmente, però, va segnalata la necessità che le auspicate norme chiariscano espressamente in cosa debbano consistere le situazioni di incompatibilità.
Innanzitutto, il nostro ordinamento, se consente, all’art. 98 della Cost., la possibilità di vietare a talune categorie di soggetti (i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti consolari all'estero) il diritto all'iscrizione ai partiti politici, che sono formazioni tutelate dalla stessa Costituzione, a fortiori può estendere tale divieto ai medesimi soggetti con riguardo ad associazioni che richiedano, per l'adesione, la prestazione di un giuramento o di una promessa con contenuto contrastante con i doveri di ufficio ovvero impongano vincoli di subordinazione gerarchica in opposizione con il loro dovere di assoluta fedeltà alle Istituzioni repubblicane.
A maggior ragione, può ben prevedersi per le categorie di altri soggetti che instaurano un legame di natura diversa con la Nazione (incaricati di cariche pubbliche e pubblici dipendenti) il mero dovere di comunicare, a pena di decadenza, la propria adesione a tali associazioni, e ciò in virtù dell’obbligo di trasparenza nei confronti della collettività che rappresentano o al cui servizio esercitano le proprie funzioni.
Disposizioni con tale portata sarebbero, anch’esse, conformi ai principi della Convenzione europea.
Per la parte inerente il divieto di appartenenza, infatti, è lo stesso art. 11, comma 2 della Convenzione Edu, a prevedere, conformemente al nostro art. 98 della Costituzione, che l'esercizio del diritto di riunione e di associazione può essere sottoposto a legittime restrizioni in relazione ai membri delle forze armate, della polizia o dell'amministrazione dello Stato.
Per la parte inerente il dovere di comunicazione della propria appartenenza a talune associazioni si è visto, alla luce dei criteri evidenziati nella decisione Siveri e Chiellini c. Italia, del 3 giugno 2008, che un tale onere, poiché finalizzato a perseguire interessi superiori, non viola la libertà di associarsi né la privacy e, riguardando certe categorie di associazioni, e non solo quelle massoniche, non potrebbe essere discriminatorio.
Come già si è accennato, però, in assenza dell’effettività della verifica da parte dell’ente pubblico di appartenenza del soggetto (al quale è imposto il divieto di partecipazione ad associazioni segrete e/o vincolanti o il dovere di comunicazione della partecipazione), le norme, sia quelle prima ipotizzate ma già quelle esistenti, si risolverebbero/risolvono in mere enunciazioni prive di efficacia.
Non si vuole di certo auspicare il ripristino delle disposizioni fasciste sopra riportate, seppure, non va dimenticato che, accanto a coloro che perseguivano evidenti volontà illiberali, insigni giuristi apprezzavano tali normative che, per l’eterogenesi dei fini tipica delle leggi, garantivano comunque un sistema di conoscenza e di trasparenza.
Né, all’opposto, il sistema può fondarsi sull’affidamento alle dichiarazioni/autocertificazioni dell’appartenente all’ente pubblico e dell’associazione privata eventualmente richiesta di fornire informazioni, non potendo permettersi che le verifiche sul rispetto dei principi costituzionali possano essere affidate ad un mero postulato di lealtà.
Una soluzione intermedia potrebbe essere individuata nell’introduzione, innanzitutto, del dovere dell’ente pubblico di effettuare periodicamente tali verifiche, a cui deve corrispondere un dovere specifico di risposta, veritiera e tempestiva, dell’associazione, prevedendosi, per quest’ultima, in caso di inadempimento o di mendacio, la possibilità di un controllo da parte delle prefetture e, quindi, l’eventuale avvio della procedura di scioglimento dell’associazione qualora se ne constatino i caratteri della segretezza.
Un’ulteriore riflessione merita la legge 17/1982 che, come evidenziato, non ha offerto uno strumento adeguato per perseguire il delitto previsto nel suo art. 2 nonostante si tratti di fattispecie associativa con rilevante disvalore sociale (volta a sanzionare associazioni segrete che, per di più, svolgono un’attività diretta a interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche).
Da un lato, infatti, la pena edittale prevista (fino a 5 anni per il caso di promotori dell’organizzazione criminale, e fino a due anni nei casi di partecipazione), dà luogo sia a termini di prescrizione tali da non consentire indagini approfondite (che si rivelano invece di particolare complessità, anche per la difficoltà intrinseche nell’individuazione di un’associazione che è segreta per definizione), sia ad un sistema investigativo privo di strumenti fondamentali, come quello delle intercettazioni.
Del resto, una tale tipologia di fenomeno merita quantomeno di essere trattata in maniera non parcellizzata, poiché una singola risultanza probatoria, se non letta congiuntamente a quanto avviene nell’ambito di un più vasto territorio, non potrà mai rilevarsi idonea a dimostrare significative interferenze sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche. Sarebbe pertanto opportuno modernizzare la legge 17/1982 trattando la fattispecie associativa in essa contemplata al pari di altre associazioni per delinquere previste nel nostro ordinamento e inserendola tra i reati di competenza delle Procure distrettuali.
La conclusione di questo lavoro della Commissione parlamentare antimafia, merita alcune riflessioni finali.
È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie.149 Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare.
L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti.
Appare infine auspicabile che nella prossima legislatura il Parlamento valuti quanto prima, da un lato, come e quando inserire nel proprio programma dei lavori l’argomento oggetto della presente relazione, ai fini delle opportune modifiche alla legislazione vigente. Dall’altro, appare altresì utile una contestuale riflessione su come proseguire il lavoro di inchiesta della XVII legislatura, mediante un mandato da conferire alla prossima Commissione Antimafia, anche attraverso ulteriori coordinate della ricerca.
In seno al dibattito sono state avanzate proposte, infatti, che i tempi e le risorse disponibili non hanno consentito di mettere in atto in questa legislatura. Tra queste, rivestono particolare interesse: l’estensione dell’analisi del rischio di infiltrazione mafiosa nella massoneria anche alle restanti regioni d’Italia, senza limitarla solo a Sicilia e Calabria; l’estensione della verifica sulle situazioni giudiziarie non solo ai reati di cui all’articolo 51, comma 3 bis, c.p.p., di mafia in senso strettamente tecnico, ovvero alle misure di prevenzione del “codice antimafia” , ma anche ad una serie ulteriore di “reati spia”; l’estensione delle verifiche sui fattori di rischio derivanti dall’appartenenza alla massoneria o ad altre associazioni similari, in concreto, anche alla dimensione del fenomeno dell’iscrizione a logge massoniche da parte di politici, funzionari pubblici, appartenenti alle forze di polizia, militari, e categorie simili.
COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, XVII LEGISLATURA
Antonio Giangrande: TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.
Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.
Tribunale di Potenza. Ore 12 circa del 21 aprile 2016. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.
Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitate. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.
Per dire: una norma scomoda inapplicata.
Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.
Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.
L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.
Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.
Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?
Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.
Antonio Giangrande: Per dimostrare quello che non si osa dire:
1) La migliore giornalista italiana non è giornalista (Sic) giusto per dimostrare che nelle professioni spesso si abilita chi non lo merita.
2) Grillo vuol solo rottamare l’ordine dei giornalisti. Come tutti gli altri è prono alle lobbies.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Caso Sabella, il Csm respinge le accuse dei media: «Complotto? No, sono le regole». La partecipazione della pm alla Fiera del Libro torna in Commissione ma il plenum respinge le accuse: «Non ha voluto rinunciare al compenso, secondo le circolari non si può fare». Simona Musco su Il Dubbio il 27 aprile 2023.
«Complotto politico», «censura preventiva», «castigo». Il caso della magistrata Marzia Eugenia Sabella, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo che ha chiesto di essere autorizzata a partecipare a incontri con studenti nell'ambito del programma “Adotta uno scrittore” presso il Salone internazionale del libro, si è trasformato in uno show. Il tutto a causa degli articoli che hanno anticipato il voto del plenum del Csm della delibera con la quale si negava l’autorizzazione alla toga, diventata per la stampa militante il tentativo di bloccare la magistrata impegnata nel processo a carico di Matteo Salvini. Il retropensiero è chiaro: il Csm, per la prima volta in mano al centrodestra, cerca di punire la magistrata che vuole incastrare il leader della Lega.
Peccato però il problema fosse solo uno: i mille euro di compenso ai quali Sabella non avrebbe voluto rinunciare, secondo quanto evidenziato mercoledì in plenum. La versione della stampa è stata fortemente criticata dai consiglieri del Csm - senza distinzione di colore politico - che hanno sì deciso di rinviare la pratica in Prima Commissione per un supplemento di istruttoria, date le possibili contraddizioni interne delle circolare sulla cui base era stato deciso il niet, ma respingendo al mittente qualsiasi tipo di dietrologia. Anche perché il motivo del no è semplice: a sborsare quei soldi sarà una società privata, nonostante la circolare sugli incarichi extragiudiziari evidenzi la necessità di «evitare che il prestigio come pure i valori dell’indipendenza ed imparzialità siano oppure appaiano compromessi o anche soltanto esposti a rischio, per effetto di gratificazioni o compensi collegabili ad incarichi concessi o controllati da soggetti estranei all’amministrazione della giustizia».
«È inutile negare che l'attenzione che in parte dedichiamo a questa pratica nasce purtroppo dallo sproporzionato e scorretto clamore mediatico che ha avuto - ha sottolineato il togato di Area Marcello Basilico -. Tanti magistrati fanno attività di pubblicità della vita della Costituzione nella società, della legalità senza richiedere compensi quotidianamente. In questo caso nulla da censurare sulla istanza della collega ovviamente, ma è ovvio che qua c'è in gioco, come è stato detto, nulla di più che il compenso non certo la libertà di manifestazione del pensiero in un luogo prestigioso come il Salone del Libro».
La Prima Commissione aveva proposto il rigetto dell’istanza dopo «una accurata istruttoria», ha sottolineato il laico di Forza Italia Enrico Aimi, pur cercando di fare il possibile per «trovare una soluzione positiva alla richiesta». Ma senza successo, in quanto il soggetto conferente è una fondazione di partecipazione, «configurando un modello atipico di persona giuridica privata che non ha come oggetto sociale esclusivo o prevalente l'attività formativa o scientifica in ambito giuridico», mentre il compenso previsto «costituisce un gettone ulteriore rispetto alle spese di viaggio e di soggiorno che saranno sostenute direttamente dalla organizzazione». Non trattandosi di attività di pubblicistica o di produzione artistica, come precisato dalla stessa lettera di incarico, la Commissione ha ritenuto quindi che si trattasse di un'attività assimilabile a convegni, incontri o seminari, «liberamente espletabile solo se non retribuita», come previsto dall’articolo 1.1 della circolare in materia di incarichi extragiudiziari.
In casi simili, l’autorizzazione è stata concessa a numerosi magistrati, ha evidenziato Aimi, «ma solo a seguito della rinuncia al compenso da parte dei richiedenti». A Sabella, ha dunque aggiunto il laico in quota FI, «non viene assolutamente impedita la partecipazione» all'evento, «come erroneamente è stato riportato anche da taluni mezzi di informazione»: la toga potrà partecipare, «ma a condizione di rinunciare al compenso ulteriore rispetto al rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno». E ciò sulla base di una circolare, ha evidenziato il togato di Magistratura Indipendente Eligio Paolini, voluta non da questo Csm, ma da quello precedente. «Un articolo on-line faceva riferimento addirittura ad un complotto politico ordito da questo Consiglio che riflette una maggioranza parlamentare diversa rispetto all'attività svolta dalla collega, che svolge il ruolo di pm nei confronti di un senatore della Repubblica - ha sottolineato -. Questa circolare è stata approvata non da questo Consiglio ma dal Consiglio precedente, dove c'era una maggioranza del tutto diversa. Dopodiché questo consiglio è stato tacciato di essere burocratico. Se applicare la circolare e le norme a tutti - e sottolineo a tutti - vuol dire essere burocrati, sono orgoglioso di esserlo», ha concluso.
La discussione si è conclusa con l’accoglimento della proposta del procuratore generale Luigi Salvato, che pur sottolineando come «la delibera è ineccepibile perché effettivamente la partecipazione ai convegni e seminari previsto dalla circolare all'articolo 5 è esclusivamente quella focalizzata sulla materia giuridica, quindi evidentemente attività del genere non sembrerebbero autorizzabili», ha proposto un supplemento di istruttoria per una riflessione sul punto 4.2 della circolare, che prevede in termini più ampi la possibilità di svolgere attività a carico dei privati, subordinando l'autorizzazione ad un obbligo di motivazione rafforzata. Una discussione «ridicola», ha commentato fuori onda qualche toga, che però dà l’idea del livello di polemica cui sarà costretto a far fronte il Csm del dopo Palamara.
Dagospia il 18 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1
Il caso Giletti? “Mi dispiace per la chiusura di ‘Non è l’Arena’, quando si chiude una voce è sempre un grandissimo dispiacere ed una perdita per la democrazia”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il giornalista e conduttore di Report Sigfrido Ranucci, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.
La fantomatica foto che ritrarrebbe Berlusconi, Graviano ed il generale Delfino e che Baiardo avrebbe proposto a Giletti è stata proposta anche a Report? “Baiardo lo avevamo intervistato circa un anno e mezzo prima, aveva detto tantissime cose anche a noi, è vero che aveva parlato di questa fotografia, lo ha fatto più volte. Detto questo però non posso dire altro perché su questa vicenda c’è un’indagine in corso”.
Non può dirci se lei ha visto la foto oppure no? “Non lo posso dire perché coperto da segreto istruttorio”. Cosa può dire di Baiardo? “Baiardo con noi ha parlato più volte tantissimo - ha detto a Un Giorno da Pecora Ranucci - è uno loquace, bisogna capire per conto di chi parla e con quali finalità”.
Vuoi vedere che ora il povero Cairo finisce nei guai per aver sospeso la trasmissione di Giletti? Il patron di La7, che paga la vecchia conoscenza con il compianto Cavaliere Silvio Berlusconi, è stato sentito dai pubblici ministeri di Firenze. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 17 agosto 2023
Adesso salta fuori anche, dalle inesauribili migliaia di carte dei “Due Luca” di Firenze, i pm Turco e Tescaroli, che Silvio Berlusconi avrebbe voluto tanto incontrare il presentatore tv Massimo Giletti, ma lui aveva fatto lo sdegnoso e aveva detto di no al messaggero della richiesta. Il quale nega di aver mai fatto quel genere di avance, ma i magistrati non gli credono. È lecito intuire, a questo punto, che qualcuno stia cercando di incastrare Urbano Cairo, editore del Corriere della sera e di La7. È piuttosto evidente, dal momento che gli stanno con il fiato sul collo i pubblici ministeri di Firenze, Luca Turco e Luca Testaroli, che lo hanno sentito come persona informata sui fatti nell’inchiesta sulle bombe del 1993. Ed è già singolare che, a trent’anni da quelle stragi e dopo innumerevoli archiviazioni, ci siano ancora fascicoli aperti.
Ma ancora più paradossale è che, tra la ricerca su una bomba e l’altra, ci sia tempo per chiedere a un editore perché, dopo sei anni di costi altissimi ( saldo negativo di 3- 4 milioni annui) e notevole calo di ascolti, una certa trasmissione della rete La7 sia stata sospesa. E la libera impresa? Perché l’editore dovrebbe render conto delle proprie scelte economiche a magistrati che indagano sui reati di strage? Ma il senso vero di questi interrogatori e di conseguenti articoli di giornale, sempre le solite firme sulle solite testate, è che Urbano Cairo porta addosso le stimmate per aver lavorato in passato al fianco di Silvio Berlusconi, e questo è imperdonabile.
Se lui dice una cosa e uno qualunque come il conduttore di “Non è l’arena”, la trasmissione ormai morta e defunta, dice il contrario, ha ragione il secondo. Anche perché, e soprattutto perché, prima di andare per l’ennesima volta dal magistrato, costui ha consultato un vero oracolo, quel pm Nino Di Matteo, appena reduce dalla sconfitta nell’inchiesta più fallimentare della storia politico- giudiziaria italiana, il famoso processo sull’inesistente “Trattativa” tra lo Stato e la mafia negli anni novanta.
Tutta questa tarantella di notizie e lapidarie certezze emerge dalla consueta valanga di carte che, da trent’anni a questa parte, migrano da un ufficio all’altro, da Palermo a Caltanissetta e poi a Firenze, che è diventata il crocevia di tutto questo smistamento di fascicoli che “odorano” di bombe, anzi di “mandanti”, dal momento che gli autori delle stragi di mafia sono già stati tutti processati e condannati. Ma non finisce mai. Avete presente il movimento che fa la fisarmonica, da un lato all’altro, con una sensazione di avanti e indietro necessaria per produrre suoni musicali? Ecco, queste indagini che riguardano Silvio Berlusconi ( la preda grossa che non viene mollata neppure post mortem) e Marcello Dell’Utri stanno continuando a fare il movimento delle fisarmonica, nell’attesa che qualcosa si spezzi. Che magari il nuovo procuratore capo di Firenze, Filippo Spiezia, possa dare un’occhiata all’attività dei suoi due aggiunti. E magari anche, perché no, che l’ispezione ministeriale che ha già riguardato il pm Luca Turco per la vicenda di Open e di Matteo Renzi e che si è conclusa con una richiesta di azione disciplinare, possa allargarsi fino all’attività apri- e- chiudi del fascicolo sulle stragi. Silvio Berlusconi è stato preso di mira fin dai tempi del suo primo governo del 1994 con la misteriosa “Operazione Oceano”, con cui lo hanno messo sotto controllo gli uomini della Dia. Cui ne seguirono un altro paio. Siamo ancora in terra di Sicilia, quando arriviamo all’archiviazione del 1997 a Palermo. E poi almeno altre tre volte a Caltanissetta e a Firenze, quasi sempre con la richiesta degli stessi pubblici ministeri.
Poi, proprio nel calderone del fallimentare processo “Trattativa”, nel 2019, si scopre che in realtà l’ex presidente del Consiglio è di nuovo indagato, sempre per lo stesso reato e con il sospetto che abbia favorito la mafia, da almeno due anni, in seguito all’intercettazione di vanterie del boss Giuseppe Graviano in carcere. E così continua la fisarmonica, ormai in sede stanziale a Firenze, dove da tempo si è insediato in procura anche il siciliano pm “antimafia” Tescaroli. Ma l’inchiesta langue, e alla fine del 2022 si dovrebbe chiudere con l’ennesima archiviazione. Ma ecco spuntare all’orizzonte il prode gelataio imbonitore Salvatore Baiardo. Plana direttamente, come ospite retribuito, nella trasmissione “Non è l’arena” su La7, la rete di Urbano Cairo.
Il gelataio giocoliere dice di avere una foto di Berlusconi con il generale Francesco Delfino (ormai defunto) e con Giuseppe Graviano. Fa anche intravedere un’immagine sfuocata e al buio in cui Giletti riconosce solo un Silvio Berlusconi giovane, poi, qualche giorno dopo va su Tik Tok e smentisce tutto. Ma gli astuti pm lo hanno intercettato mentre parla al telefono della foto con il conduttore tv e lo accusano di calunnia per la smentita. Con una strana triangolazione procedurale sostengono che è come se avesse imputato a Giletti di aver reso false dichiarazioni ai pm. Ma non basta. I Due Luca vogliono arrestare il gelataio anche per calunnia nei confronti di Gaspare Spatuzza e per favoreggiamento nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri. Tutta la storia della foto avrebbe avuto lo scopo di aiutare i due. I magistrati cercano anche di interrogare, dopo aver perquisito la sua casa e il suo studio, l’ex presidente di Publitalia, ma lui si sottrae. Intanto la fisarmonica si allarga.
La fine di questo pezzetto di storia è che la gip di Firenze, Antonella Zatini, respinge la richiesta di arresto nei confronti di Baiardo, ma i pm ricorrono al tribunale del riesame, i cui giudici rinviano la decisione dal 14 luglio al 6 settembre. E depositano tutti gli atti. Nei quali pare, a leggere le solite firme dei soliti quotidiani La Repubblica e Il Fatto, che l’unica notizia interessante, cui Travaglio dedica un’intera pagina, sia una presunta richiesta di Silvio Berlusconi di incontrare Massimo Giletti. Urbano Cairo, che dovrebbe essere il messaggero portatore dell’invito, lo smentisce. Giletti insiste e i Due Luca sono sospettosi. C’è un faro acceso su Urbano Cairo ora, e non è una buona notizia per l’editore. Procuratore Spiezia e ministro Nordio, a voi tutto ciò pare normale, nell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese?
Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per la Repubblica martedì 15 agosto 2023.
Nel periodo in cui Massimo Giletti raccontava nella sua trasmissione di mafia e politica, puntando l’attenzione su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, l’editore de La7, Urbano Cairo, avrebbe chiesto al giornalista di incontrare l’ex presidente del Consiglio perché doveva parlargli. Giletti si è rifiutato, e per coincidenza, dopo due puntate l’editore ha staccato improvvisamente la spina cancellando il programma dal palinsesto.
Tutto ciò emerge da una valanga di documenti e verbali di testimoni, compreso quello di Cairo, che lo scorso mese i magistrati della procura di Firenze hanno depositato nell’inchiesta in cui è indagato Salvatore Baiardo, il portavoce e favoreggiatore del boss Giuseppe Graviano, accusato di calunnia nei confronti di Giletti e di favoreggiamento di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. I pm vogliono accertare cosa ha spinto Cairo a chiedere a Giletti di incontrare il Cavaliere, di cui l’editore in passato era il segretario particolare, e il motivo che lo ha portato a spegnere il programma televisivo che si stava occupando di mafia e politica.
Dalle testimonianze raccolte dalla procura fiorentina, Cairo avrebbe incontrato Giletti a Roma il 20 marzo. «Cairo mi ha detto: “guarda, forse è meglio che lo incontri, che ti vuole vedere perché qualcuno magari dice che tu ce l’hai contro...”», spiega Giletti ai pm, e aggiunge: «Ho detto: “Presidente (Cairo, ndr)... non voglio mettermi in una condizione psicologica di... preferisco non incontrarlo ». E secondo Giletti l’editore avrebbe risposto: «Fai bene, glielo dirò, se ritieni così».
Cairo, sentito su questo punto, nega. Ricorda solo che a gennaio sarebbe stato Giletti a chiedergli di parlare con Berlusconi per convincerlo ad andare ospite in una delle sue trasmissioni. Dell’incontro a Roma a marzo e della richiesta di cui parla Giletti, Cairo mette a verbale: «Lo escludo, nel modo più assoluto, non ho chiesto nulla a Giletti ». Per i pm ci sono contraddizioni in quello che ha detto a verbale Cairo, su cui sono in corso accertamenti.
Dopo le affermazioni dell’editore, i procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli riconvocano Giletti a luglio e il giornalista risponde: «Confermo ciò che ho detto in precedenza. Colloco l’intervento di Cairo intorno al 20 di marzo, dopo la metà del mese. Si potrebbe chiedere alla mia scorta, perché ricordo che in quell’occasione dopo l’incontro con Cairo lo accompagnai con la mia scorta alla stazione, perché era in ritardo». Giletti chiarisce che le affermazioni di Cairo riguardano «fatti diversi». «A gennaio, ma anche in precedenza, mi è capitato di chiedere a Cairo di contattare Berlusconi per farlo partecipare a una mia trasmissione » si legge nel verbale del giornalista: «Sarebbe stata un’occasione per lo share della trasmissione, perché la figura di Berlusconi è di grande interesse mediatico, e io glielo dissi, visti i rapporti stretti che c’erano fra loro. Ma la vicenda che ho riferito, collocandola nel marzo del 2023, è vicenda diversa.
(...)
I pm hanno sentito un carabiniere della scorta di Giletti ed ha confermato di aver assistito all’incontro con Cairo. E l’autrice del programma, Emanuela Imparato, dice: «Ricordo nitidamente che Massimo si sedette in una sedia spalle al muro e mi disse: mi ha chiamato Cairo e mi ha detto se vado a un incontro con Berlusconi. L’ho guardato e gli ho chiesto cosa intendesse fare. Mi rispose che non aveva voglia di andarci. Replicai dicendo: fai quello che senti». «Erano i giorni in cui Berlusconi cominciava a non stare bene, se mal non ricordo era già stato ricoverato. Naturalmente, mi chiesi il perché in quel momento giungesse tale richiesta, dopo che avevamo ospitato Baiardo in trasmissione ed era uscito il discorso su Paolo Berlusconi », chiarisce Imparato.
L’editore, rispondendo alle domande dei pm, afferma che la chiusura del programma l’ha decisa in base a “costi e perdite”. Per Cairo è solo una questione di soldi.
La decisione, resa nota ufficialmente il 13 aprile, coglie di sorpresa Mazzi, il quale fino a poco tempo prima aveva incontrato Cairo per un rinnovo del contratto e ai pm spiega che Giletti non aveva all’epoca alcuna proposta di lavoro in Rai e sarebbe quindi rimasto a La7.
Baiardo, ospite retribuito dalla trasmissione, racconta di un incontro con il fratello del Cavaliere. È un episodio accertato dai magistrati di Firenze in cui il favoreggiatore della mafia era stato ricevuto nell’ufficio di Paolo Berlusconi. Quest’ultimo, dopo il loro incontro, si sarebbe sfogato con un poliziotto che lo tutelava per dire che «quella persona», indicando Baiardo, «è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo».
Dopo questo episodio riportato in tv, Giletti svela ai pm che «proprio Paolo Berlusconi avrebbe chiamato Cairo, seccato per la messa in onda del programma. Mi sembra che fosse la metà di febbraio 2023. Paolo Berlusconi per quello che mi disse Cairo era molto seccato, perché veniva trattato ancora una volta, a distanza di anni, dell’episodio dell’incontro fra Baiardo e Paolo Berlusconi, e si lamentava del fatto che questa notizia riemergeva in un momento molto delicato, senza però specificare cosa intendesse con questo». Il giornalista precisa che Cairo sapeva chi fosse Baiardo già nel 2021 perché «sono stato io a spiegargli chi era, e che parlava di Berlusconi».
Trent’anni più uno. Le tristi celebrazioni per la strage di Capaci e l’illusione che la mafia sia cambiata. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 2 Giugno 2023
Per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone le cerimonie sono state più fiacche del solito, perché non faceva cifra tonda. Eppure era il primo anniversario successivo all’arresto di Messina Denaro, che mette la Sicilia di fronte alle sue responsabilità nella lotta alla criminalità organizzata
Ma sì, fatemi scrivere qualcosa sull’anniversario della strage di Capaci. Ma come, qualcuno obietterà, oggi? che è già giugno? Non ci potevi pensare una settimana prima, dieci giorni fa, che adesso noi si parla d’altro?
No, ci penso adesso che non ci pensa più nessuno, che sono terminate le celebrazioni, anche quest’anno, di quel 23 maggio dell’ora e sempre. Che poi sono state celebrazioni tristi, quelle per Giovanni Falcone e co., perché era il trentunesimo anniversario, e i numeri primi nella retorica delle commemorazioni non sono mai popolari. L’anno scorso sì che era bello: 1992-2022, l’ho letto dappertutto, insieme a «per sempre con noi», «per non dimenticare». Solo che il per sempre non esiste neanche in amore, pensa te nell’antimafia. E poi, abbiamo già dimenticato dove eravamo ieri, figurati il resto.
Sì, vorrei scrivere qualcosa su questo anniversario, sull’aria malinconica che c’era in queste manifestazioni in tono minore, con sindaci, politici, militanti, dirigenti, influencer e testimonial che si guardavano per dire, e adesso? Chi ci arriva al qurantennale? O magari, un po’ prima, al trentacinquesimo? E come ci arriviamo, soprattutto? Qui bisogna inventarsi qualcosa. E infatti a Palermo sono riusciti a trasformare il corteo in un pomeriggio ad alta tensione, con la polizia che ha caricato le persone che manifestavano. Le manganellate ai cortei antimafia. Ecco, questa mancava.
A proposito. Nella mia città, Marsala, al sindaco qualcuno avrà spiegato che c’è una sorta di tara che garantisce l’impunità ogni tot di manifestazioni antimafia che si organizzano. Solo così si giustifica la quantità di incontri con magistrati, giornalisti, scrittori, tutti rigorosamente antimafia, organizzati nel 2022. E le intitolazioni, soprattutto. Piazze, larghi, vie, rotonde, un intero quartiere popolare, il rione Sappusi, che è un grande luogo di spaccio a cielo aperto. Magari erano convinti che i nomi dei poliziotti della scorta di Falcone o di Borsellino aiutassero a reprimere il fenomeno. È finita con le targhette delle vie scollate dopo un po’, come fragili post-it, mentre il crack continua a girare bellamente.
E quindi, sì, mi fa tenerezza il mio Sindaco che ancora, nel 2023, organizza le manifestazioni per il «trentennale delle stragi», vorrebbe che non finissero mai, e l’altra volta sono entrato nella sua stanza e c’erano nello scaffale tutti i libri presentati quest’anno, le biografie, gli illustri saggi, sempre a tema mafia, antimafia e dintorni, ed erano messi con la copertina in evidenza, nel modo opposto, insomma, che tutti conosciamo su come si mettono i libri in una libreria, quasi a voler creare uno scudo. I libri a questo servono, ormai, non a essere letti, ma a essere esposti, come un altarino.
A Castelvetrano è stata esposta anche la teca che contiene i resti della Quarto Savona Quindici, l’auto di scorta del giudice Falcone. La vulcanica Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonino, gira l’Italia con questo cubo trasparente, portandola come testimonianza della violenza mafiosa.
La teca con i rottami dell’auto è stata collocata nella piazza centrale della città, che è la città dei Messina Denaro, per un paio di giorni, con le scuole in pellegrinaggio tipo La Mecca, e le autorità e loro accompagnamenti vari. Pure il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è arrivato, la prima mattina, ma il fatto è che poi, verso le 13, è andato a pranzo, ed è rimasto in piazza tutto l’apparato di sicurezza, i carabinieri, i poliziotti, si sono fatti tutti un po’ più rilassati, come quando aspetti la campanella che svuota la classe, e allora hanno cominciato a farsi i selfie davanti la teca dell’auto, uno, due, tre foto ricordo e ho pensato a Padre Puglisi, anzi al Beato Padre Puglisi, che non ha pace neanche da morto, gli hanno tagliato dei pezzetti, e le teche con i «frammenti sacri» del suo corpo girano per la Sicilia, e la gente le bacia, le tocca con il fazzoletto bianco, chiede una grazia, la grazia dell’antimafia. Magari si fanno anche loro un selfie. E con questi selfie, come il mio sindaco, si fanno un altarino, da qualche parte.
Ma, dicevamo di Piantedosi, che è arrivato a Castelvetrano, poi a Palermo, per dire una cosa banale: «La mafia è cambiata». È il nuovo refrain, dato che non si può più dire: «Stiamo facendo terra bruciata intorno a Messina Denaro», ora che l’hai preso davvero. La mafia è cambiata. Ma quando mai. È sempre la stessa. È tornata quella di prima, semmai, ma da tempo, dopo l’ultima strage, roba di un’era mafiologica fa. Ed è sempre quella, la mafia, silenziosa, invisibile, borghese.
Forse è questa la condanna che dobbiamo scontare, mi dico:
Ogni anno ricordare Capaci.
Ogni anno sentire come una fitta nel cuore.
Ogni anno manifestare.
Ogni anno ascoltare ministri dire sempre le stesse cose.
Si è persa un’occasione, in questo anniversario del trentunesimo. Perché bastava un po’ di impegno per accorgersi che era in realtà il trentesimo più uno, che si celebrava. Perché è il primo anno che ricordiamo la strage di Capaci, ma con Messina Denaro dentro, il più pericoloso dei latitanti, l’ultimo dei Corleonesi, e questo ci dovrebbe spingere a cambiare tutto, anche il nostro modo di ricordare e commemorare, ed invece sembra quasi a volte – perdonatemi – che ci manca più Messina Denaro che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, a noi altri, perché fin quando il boss era libero e fuori, noi si aveva l’alibi per parlare del grande cattivo che muove i fili, del male che si aggira per la Sicilia e l’Italia, per toccare i tasti facili della caccia all’uomo. E adesso che il grande cattivo è dentro, nemici non ce ne sono più, e siamo orfani. Ci resta solo la memoria, che è una brutta bestia quando è lasciata solo alla nostra responsabilità, quando non abbiamo più qualcuno con cui prendercela.
Si poteva dire: sono i 30 anni+1 dalla strage di Capaci, con l’arresto di Messina Denaro siamo all’anno zero. Aboliamo allora la parola antimafia, cominciamo a parlare di responsabilità. Aboliamo le manifestazioni con le scuole intruppate e torniamo a farli studiare, questi giovani, che non sanno nulla, perché nulla gli insegniamo. Seppelliamo i resti dei nostri morti. Torniamo a considerare la memoria come qualcosa in movimento perenne, di vivo, una specie di pianta che va nutrita, e non un fossile da museo, un ritratto da appendere alle pareti, un oggetto di modernariato per fare bella figura nei nostri salotti.
Invece siamo tornati nel loop, nella comfort zone, solo che adesso è più triste. Ci vuole un pensiero sovversivo, per cambiare la lotta alla mafia, oggi, un atteggiamento diverso, radicalmente opposto, un ribaltamento del tavolo. Abbandonare soprattutto la retorica della speranza, della terra che cambia. Ecco, l’ho detto. «Lasciate ogni speranza o voi che è entrate» è l’iscrizione che Dante Alighieri trova all’ingresso dell’Inferno, nella sua Commedia. Mi ricordo che nel mio manuale di letteratura, al liceo, la nota di testo parlava di una «terrificante scritta».
Non so, ma a me, nell’anno 30+1, questa frase non mette paura. Mette pace. «Lasciate ogni speranza o voi che entrate» la vorrei vedere scritta all’ingresso del Paradiso. Perché la speranza è un inganno, in nome della speranza di una Sicilia libera dalla mafia in questi anni sono stati compiuti anche i più gravi misfatti. E allora mi piacerebbe che un giorno quest’isola mia fosse un paradiso, cioè un luogo dove non c’è bisogno di speranza, la puoi lasciare all’ingresso, perché già c’è tutto: le strade che non crollano, il lavoro, le scuole con le mense, persino i treni (in quel caso l’unica speranza sarebbe quella che arrivino in orario, anziché, come ora, che magari intanto arrivino).
«Lasciate ogni speranza o voi che entrate», non pensate che sarebbe un bel manifesto per una nuova antimafia? Lasciate ogni speranza, le ideologie, gli slogan. State semplicemente nelle cose, vivete il quotidiano, senza fretta. Siate oggi, qui, attenti, sereni, responsabili, per il trentunesimo anniversario, come per il trentaduesimo, per il 23 maggio, come per il 24, e il 19 e il 20 e il 21 luglio, e anche il 30 febbraio se dovesse esistere, un giorno, lasciate anche lì che non entri con voi la speranza.
Ma poi speranza di che? Che arrivino i giudici, i buoni, la cavalleria, i martiri, l’esercito, gli eroi, le vittime, i sacrificati, i «fautori della svolta», i preti-coraggio, i giornalisti scortati, le reliquie, le teche, i ministri? Costruitelo voi, questo benedetto cambiamento che volete vedere nel mondo.
Di Pietro racconta ‘Tangentopoli’. “Quando Borsellino mi disse: Tonì facciamo presto, ci resta poco”. Da CARMEN SEPEDE su isnews.it il 17 Dicembre 2018
Il racconto di una delle pagine più importanti della storia italiana, in una lezione-intervista che l’ex magistrato del Pool di ‘Mani pulite’ ha fatto nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso. Il terrorismo e gli attentati di mafia, la delegittimazione e l’ingresso in politica, l’Italia oggi e il rapporto con il suo Molise, in una ricostruzione che ha lasciato gli studenti a bocca aperta
Antonio Di Pietro doveva morire. Lo aveva deciso la mafia, che lo aveva messo al terzo posto della lista dei nemici da abbattere. Dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo ha raccontato l’ex magistrato del Pool ‘Mani pulite’, oggi a Campobasso, nel ‘Caffè letterario’ dell’Istituto ‘Pilla’ di Campobasso, intervistato dal giornalista Giovanni Minicozzi davanti agli studenti della scuola, rimasti a bocca aperta nel sentire, dal vivo, il racconto di una delle pagine più importanti della storia del nostro Paese. ‘Tangentopoli’ e i rapporti tra Stato e mafia.
“Ero ai funerali di Giovanni Falcione – ha ricordato Di Pietro – Borsellino mi si avvicinò e mi disse. “Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo”. Il tempo che gli era rimasto lo conoscete tutti. A me è andata meglio, a Milano ero più protetto, abitavo in una casetta di campagna, sorvegliato notte e giorno con quattro telecamere collegate alla questura. Dopo gli attentati mandai però la mia famiglia in America, in Costa Rica e in Ohio, con un falso passaporto e protetti dallo Stato. Io invece decisi di restare. Quando morì anche Borsellino – ha aggiunto – tornai a casa a Montenero di Bisaccia. Non avevo più i genitori e mi rivolsi a mia sorella. “Concettì, che devo fare?” le chiesi. E lei, “fai il tuo dovere e pagane le conseguenze”.
Al suo fianco c’erano gli altri magistrati del Pool di Milano, Gerardo D’Ambrosio, Francesco Saverio Borrelli, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Tra il 1992 e il 1993, nel cuore di ‘Tangentopoli’, Antonio Di Pietro era diventato uno degli uomini più potenti d’Italia, sulle copertine di tutti i quotidiani del mondo. Dal lanciare il suo nome come possibile Presidente della Repubblica, com’è pure avvenuto, alla macchina del fango e “allo sputo in faccia”, come ha ricordato, ne è passato poco.
“Dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – le sue parole – lo Stato ha rialzato la testa nei confronti della mafia, come aveva fatto con il terrorismo dopo l’omicidio Moro. Allora, visto che non si è potuto più uccidere, è stata utilizzare un’altra strategia. Quando vuoi fermare una persona puoi utilizzare due metodi: o ammazzarlo, o delegittimarlo, che è la morte civile. Ed è quello che hanno tentato di fare con me. Perciò ‘Mani pulite’ è riuscita solo per metà”.
Dopo la caduta della Prima Repubblica, “che in tanti hanno attribuito a me”, Di Pietro ricevette una telefonata. “Arrivava dall’ufficio della Presidenza della Repubblica. Proposero a me di fare il ministro dell’Interno e a Davigo il Ministro della Giustizia. Io ho rifiutato, perché se avessi accettato sarei stato un ‘padreterno’, ma corrotto”.
L’impegno in politica, con la fondazione dell’Italia dei Valori e la nomina a ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi, arriva dopo le sue dimissioni da magistrato. “Non mi sono certo dimesso per fare politica – ha voluto precisare – ma per difendermi, sono stato processato 267 volte e sempre assolto. A un certo punto hanno anche detto che ero un agente della Cia. Ma che ci azzecco io con la Cia – ha detto utilizzando il ‘dipietrese doc’ – che non so una parola di inglese”.
Se ‘Mani pulite è finita, “è stato un periodo irripetibile”, la corruzione esiste ancora. “Non è però la stessa cosa – Di Pietro ha voluto precisare – oggi se ne parla così tanto perché c’è più lotta alla corruzione. C’è però stata una sbiancatura del reato. Io all’epoca di Tangentopoli ho trovato un pouf pieno d’oro, valanghe di soldi nascosti in uno scarico del bagno. Oggi ci si vende per il viaggio, il regalo, un vantaggio per sé e i propri familiari. Ora come allora la corruzione è però una continua lotta tra guardia e ladri. Quando le guardie scoprono il metodo per incastrare i ladri questi lo cambiano”.
Una lezione di cultura della legalità, voluta dalla dirigente del ‘Pilla’ Rossella Gianfagna, con un monito rivolto agli studenti, “non aspettate che siano gli altri a denunciare, fatelo voi stessi, quando ci sono le circostanze”, come ha detto l’ex ministro. Che ha espresso preoccupazione per il suo Paese, “perché come negli anni Trenta e Quaranta qualcuno parla alla pancia degli italiani”.
Non è mancata una riflessione sulla sua terra d’origine. “Io sono innamorato del mio Molise – ha precisato Di Pietro – e nel corso degli anni credo anche di averlo fatto conoscere. Ma sono convinto che anche in Italia sia necessaria una revisione del sistema delle autonomie. Non credo ci debbano essere più le regioni a statuto speciale e tante regioni piccole, ma servono strutture più ampie con più autonomie, che abbiano più voce in capitolo. Il mio Molise – ha concluso – è troppo piccolo e porta pochi voti. Quindi è poco ascoltato”.
Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 28 maggio 2023.
Siamo ormai un paese piombato in un clima surreale. Ieri cercavamo esecutori e mandanti delle bombe del 1993 messe a Milano, Firenze e a Roma e che procurarono morti e feriti. Oggi che abbiamo arrestato l’ultimo dei mandanti (Messina Denaro) un bravo pubblico ministero, Luca Tescaroli, autore della requisitoria nel processo per la strage di Capaci svoltosi a Caltanissetta, si domanda come mai le bombe sono improvvisamente finite ed i mafiologi di professione gli fanno eco.
Domande surreali per chi conosce i fatti anche se legittime per chi vive nella nuvola dei mandanti occulti, una sorta di “entità centrale” come irresponsabilmente ha detto Pietro Grasso senatore della Repubblica. Vorremmo aiutare Tescaroli a dipanare quella matassa che incatena la sua tradizionale lucidità e bacchettando anche quelli che attaccano lo Stato senza fare nomi e cognomi.
Dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio fu inviato a tutte le autorità un anonimo in cui si diceva quel che sarebbe accaduto nei mesi successivi. Dobbiamo alla intelligenza politica del senatore comunista Lucio Libertini se abbiamo ancora quell’anonimo scritto sottomano perché venne trasformato per intero in una interrogazione parlamentare. In quello scritto si diceva che dopo altri omicidi e confusione l’offensiva della mafia si sarebbe fatta più forte sino ad ottenere alcuni risultati. E così avvenne. Nel novembre del1993, dopo le bombe di Milano, Firenze e Roma, il ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Conso, liberò dal carcere duro ( il famoso 41 bis ) trecento mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti e da quel momento il ministero dell’interno, grazie ad una gestione lassista dei programmi di protezione da parte di una commissione di cui ancora oggi non si conoscono i nomi, liberò sino al 2005 ben 10 mila mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti come ci venne comunicato dal ministro Mastella rispondendo ad una nostra interrogazione parlamentare.
Quella gestione lassista fu tale innanzitutto negli anni novanta quando il parlamento, inorridito da quel che si vedeva e si sentiva, nel 1999 approvò una modifica per cui i pentiti avrebbero dovuto comunque scontare un terzo della pena prima di avere i benefici della normativa premiale. Nel frattempo però gli assassini di Falcone, eccezion fatta di Giovanni Brusca, erano già usciti dal carcere. Senza dilungarci vorremmo suggerire a Luca Tescaroli qualche considerazione. L’uscita di 300 mafiosi dal 41 bis e, da quella data, il via libera della commissione ministeriale ad una gestione molto permissiva dei programmi di protezione con i risultati ricordati non sono motivi sufficienti a mettere fine alle bombe?
Che altro potevano aspettarsi i mafiosi da una folle politica stragista che certo non poteva continuare all’infinito? Lo stesso mancato scoppio della bomba messa all’Olimpico a nostro giudizio non fu un errore ma un messaggio preciso di come quelle scelte fatte dal governo aveva evitato un’altra strage. Forse bisognerebbe capire più a fondo chi durante il governo Ciampi, e poi successivamente, mosse i fili perché a quelle bombe si rispondesse liberando migliaia di pentiti e togliendo 300 irriducibili dal carcere duro. Ma questo forse è più compito degli storici che di un pubblico ministero ancorché bravo come Luca Tescaroli. Ma dopo trent’anni non sarebbe utile e saggio smettere di alludere permanentemente a contiguità criminali di tutto ciò che è alternativo alla sinistra?
E non forse sarebbe altrettanto utile e saggio denunciare l’ignobile costume di quanti affermano la collusione dello Stato con pezzi della criminalità senza mai fare nomi e cognomi? La politica recuperi visioni e qualità di comportamenti se vuole riprendere quel primato da tempo smarrito. Il paese ne ha veramente bisogno.
Dossier Mafia-Appalti. Non sapremo mai come andò. Un mese è già trascorso dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia. Eppure, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano di un millimetro. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 30 Maggio 2023
Non deve essere per nulla facile, dopo averla cavalcata per anni, vedere l’inchiesta che ti ha portato successo e visibilità sciogliersi come neve al sole. A distanza di un mese dall’archiviazione di tutti gli imputati del processo Trattativa Stato-mafia, dalle parti del Fatto Quotidiano non mollano un millimetro e continuano imperterriti nella tesi dei “mandanti occulti” dietro le stragi del 1992-93. Chi contraddice questa narrazione, finalizzata a metter in “ombra le dichiarazione di Giuseppe Graviano sulle presunte responsabilità stragiste di Silvio Berlusconi” lo farebbe utilizzando come “arma di distrazione di massa” l’inchiesta mafia appalti, archiviata il 13 luglio 1992 da Roberto Scarpinato, ora senatore del M5s e all’epoca Pm del processo Trattativa.
Per “mafia e appalti” si intende il rapporto giudiziario che venne depositato dai carabinieri del Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991 sulla “mafia imprenditrice” la quale, invece di imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, era diventata essa stessa imprenditrice con società riferibili ad appartenenti a Cosa nostra. Nel rapporto del Ros si affrontava soltanto la prima fase, quella della aggiudicazione delle commesse pubbliche, attorno ad un tavolo denominato “tavolo di Siino”, da Angelo Siino, poi diventato collaboratore di giustizia e definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ma, più precisamente, dei corleonesi.
Roberto Scarpinato, che firmò l’archiviazione di questo fascicolo, a cui teneva molto Paolo Borsellino, affermò che le indagini erano state fatte “in parte con le intercettazioni dell’Alto commissariato, in parte con intercettazioni che erano state fatte dall’ufficio istruzione”. Entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale tutti i filoni confluirono in unico procedimento.
Nel febbraio del 1991, il Ros depositò allora un’informativa, circa 900 pagine con intercettazioni, riepilogativa delle indagini che erano state fatte.
Scarpinato disse che le intercettazioni “erano state autorizzate in altri procedimenti per il reato di cui all’articolo 416 bis codice penale. Quindi per la normativa del tempo non potevano essere utilizzati in altri procedimenti se non a carico di soggetti indagati per il reato di cui all’articolo 416 bis secondo comma promotori organizzatori non per i semplici partecipi”.
Ferma restando l’inutilizzabilità, ai fini di prova, delle intercettazioni effettuate dall’Alto commissariato, le intercettazioni autorizzate con il vecchio codice (quindi prima del 24 ottobre 1989) dal giudice istruttore avrebbero potuto essere utilizzate anche nei procedimenti disciplinati da quello nuovo. L’articolo 242 delle norme transitorie aveva infatti precisato che si dovesse continuare ad applicare il vecchio codice nei casi tassativi ivi previsti.
Alla pagina 5 della richiesta di archiviazione del 13 luglio 1992, firmata da Scarpinato, si legge che “non si erano, prima del 24 ottobre 1989 realizzate le condizioni prescritte dall’art. 242 delle norme di attuazione del c.p.p. per il proseguimento dell’istruttoria con il rito abrogato. Di conseguenza, gli atti dianzi indicati e le relative intercettazioni confluivano nel procedimento 2789/90 N.C. già instaurato secondo le regole del nuovo rito”. Dalla medesima richiesta di archiviazione (pagina 2) risulta che le intercettazioni “confluite” nel procedimento nuovo rito 2789/90 erano diverse, come ad esempio quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) relative alla vicenda Baucina/Giaccone, quelle nel procedimento 1020/88 (vecchio rito) relative alla vicenda SIRAP e al ruolo di Angelo Siino, o quelle effettuate nel procedimento 2811/89 (vecchio rito) pendente davanti al giudice istruttore contro Giuseppe Giaccone per la vicenda Baucina.
Dalla pagina 6 della richiesta di archiviazione risulta altresì che al procedimento 2789/90 venivano acquisiti copia degli atti dei fascicoli più importanti, come le audizioni della Commissione regionale antimafia dedicata alla situazione dei Comuni delle Madonie.
Pertanto, tutte le intercettazioni effettuate nella vigenza del vecchio rito, fatte tutte “confluire” nel procedimento 2789/90 nuovo rito, erano senz’altro utilizzabili per come scritto da Scarpinato nella richiesta di archiviazione. Paolo Pandolfini
La giustizia che funziona. Magistrati alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia: la storia dei pm fiorentini. Matteo Renzi su Il Riformista il 30 Maggio 2023
Ricordare il trentennale della strage dei Georgofili è stato per i fiorentini come me un tuffo al cuore. La camminata notturna tra Palazzo Vecchio e il luogo della strage ha visto la partecipazione di tanta gente, soprattutto giovani. E la cerimonia è stata impreziosita dalla presenza di Tina Montinaro, vedova di Antonio, caposcorta di Falcone, che ha trasmesso la sua grandezza d’animo a noi e ai ragazzi persino davanti alla Quarto Savona 15, l’auto su cui viaggiava il marito, totalmente distrutta dal tritolo di Giovanni Brusca, auto che la Polizia di Stato ha voluto esporre quest’anno sotto la Galleria degli Uffizi.
Il giorno dopo presso il Palazzo di Giustizia è arrivato il Presidente Mattarella. Dal palco si sono alternati il Presidente della Corte d’Appello, Nencini – cui va dato merito dell’ottima iniziativa – il procuratore nazionale antimafia Melillo, il professor Palazzo, la Prima Presidente della Cassazione Cassano, il Vice presidente Csm Pinelli, la Presidente della Corte di Cassazione Sciarra. Un parterre de roi che ha saputo riflettere e far riflettere in modo eccellente. E il ricordo sullo sfondo dei grandi Pm fiorentini. Mentre ascoltavo gli interventi pensavo a come Firenze abbia avuto una straordinaria storia di Pm credibili, integerrimi, capaci.
E molti erano presenti in sala: Crini, Nicolosi, Quattrocchi, la stessa Cassano. Qualcuno invece ci ha lasciato troppo presto a cominciare dai due magistrati che con coraggio indicarono la strada: Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Se la strage dei Georgofili non è rimasta impunita è perché allora a Firenze ci furono Pm straordinari, magistrati capaci alla ricerca della verità e non accecati dall’ideologia. La verità giudiziaria sui Georgofili è stata scritta perché c’erano loro. Persone serie che rendevano gli uffici giudiziari di Firenze un’eccellenza.
A questo serve una giustizia che funziona: a renderci orgogliosi di essere italiani. A prendere i veri colpevoli. A non confondere la verità giudiziaria con le proprie idee personali. Spesso le cattive abitudini di pochi di loro oscurano il lavoro dei tanti. E allora – nel ricordo dei Vigna, dei Chelazzi, dei bravi investigatori – si renda onore a quei Pm che fanno
bene il loro dovere, anche oggi. Che i ragazzi delle scuole della magistratura possano conoscere la loro storia, la loro grandezza, la loro nobiltà.
Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista
I "torbidi retroscena”. L’ultima trovata dei Pm fiorentini contro Berlusconi e Dell’Utri: “Denegata strage” Tiziana Maiolo su L'Unità il 30 Maggio 2023
Siamo arrivati a contestare il reato di “denegata strage”, alla procura di Firenze. Perché ormai, dopo quattro archiviazioni, essendo ormai impossibile dimostrare il fatto che le bombe del 1993-94 hanno avuto come mandanti Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, si indaga per sapere come mai nel gennaio 1994, proprio alla vigilia delle elezioni vinte da Forza Italia, Cosa Nostra abbia abbassato le armi. Che cosa c’è dietro questa ”denegata strage”? Una risposta arriva dalla saggezza di un illustre pensionato.
Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia e già presidente del Senato, lo ha detto chiaro, domenica scorsa da Lucia Annunziata. L’ho chiesto io a Gaspare Spatuzza, dopo che lui aveva iniziato a collaborare con la magistratura. Come mai, gli ho domandato, come mai dopo che era fallito l’attentato allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, non ci avete riprovato? Perché, dopo quel giorno, sono cessate le bombe di Cosa Nostra? La sua risposta fu semplice: io prendevo ordini da Giuseppe Graviano, e quattro giorni dopo lui fu arrestato a Milano.
Erano stati i carabinieri, arrivati da Palermo al comando del capitano Marco Minicucci, a mettere le manette ai polsi del boss di Cosa Nostra e del fratello, mentre i due erano con le fidanzate al ristorante “Gigi il cacciatore”. Un’operazione pianificata e solo casualmente portata a termine nel capoluogo lombardo. Solo per quel motivo quindi, e perché i boss dei corleonesi uno dopo l’altro stavano entrando all’Ucciardone e nelle altre carceri a loro destinate, direttive per nuove stragi non ne arrivarono più. Lo Stato aveva vinto. Pure, di anniversario in anniversario, di comitato parenti vittime in comitato parenti vittime (due giorni fa si ricordava la data della strage di Brescia, 28 maggio 1974), non si placa l’ossessione di chi non si arrende alla realtà della sconfitta di Cosa Nostra a opera dello Stato.
Quella parte della storia non c’è più, fatevene una ragione. E spiace aver visto lo stesso Presidente Sergio Mattarella, nella stessa giornata in cui aveva impartito una bella lezione su don Milani e reso giustizia alla ministra Roccella dopo il silenzio della sinistra sull’assalto al suo libro, seduto ad applaudire ogni sciocchezza più o meno togata sulla strage dei Georgofili. Lì avrebbe avuto occasione, il Capo dello Stato, anche nella sua veste di numero uno del Csm, per menar vanto, per mostrare l’orgoglio di uno Stato più forte delle mafie e di una magistratura che sappia separare il grano dal loglio, i fatti dalle opinioni. I fatti sono che da tempo ogni bomba, ogni strage, ogni omicidio di mafia degli anni novanta ha avuto processi e condanne. Ogni tassello è andato al proprio posto.
Ma nel frattempo sui “torbidi retroscena” che aprono “inquietanti interrogativi”, refrain banale di chi “dà buoni consigli non potendo dare cattivo esempio”, si sono costruite carriere. Sciascia li chiamava professionisti dell’antimafia, noi li abbiamo soprannominati “fantasmi”, perché gli anni passati sono ormai trenta. Del resto non viviamo nel Paese che si sta ancora baloccando, questa volta insieme alla giustizia dello Stato Vaticano, sulla scomparsa di una povera bambina nel 1983? Per lo meno, in questo caso antico, il mistero esiste davvero, al contrario di quanto accaduto nei processi di mafia, dove i “pentiti” abbondano per numero e per loquela.
Prendiamo Gaspare Spatuzza, per esempio. Il collaboratore è considerato uno dei più attendibili, soprattutto dopo che, addossandosi la responsabilità di uno dei più gravi e simbolici delitti dei corleonesi, l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, ha svelato il più grave complotto di Stato. Quello di chi, forze dell’ordine, magistrati e giornalisti, aveva voluto pervicacemente credere alla parola fasulla di Enzo Scarantino pur di offrire all’opinione pubblica una qualsiasi “verità” su quel delitto. Una comoda verità. Che ha però coinvolto persone innocenti e le ha tenute nelle carceri speciali per quindici anni. Più che “professionisti”, gli inquirenti del tempo sono stati degli incapaci. A voler essere generosi. A non voler applicare nei confronti di tutto il gruppo dei promotori ed estimatori del “processo trattativa” gli stessi metodi complottistici che loro hanno usato, e continuano a usare nei confronti degli altri.
Prendiamo il procuratore Tescaroli. Era giovane al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ventisette anni, ma aveva votato presto la sua attività, professionale e pubblicistica, a inseguire la dimostrazione del teorema che vuole i capitali delle società di Silvio Berlusconi inquinati dalla mafia. Un’intera carriera, partita da Caltanissetta per approdare a Firenze passando per Roma, che pare destinata solo agli insuccessi, se si eccettua una modesta vittoria su una causa di diffamazione. Addirittura, in questo gioco di specchi di fascicoli aperti e chiusi, lo stesso pm ha più di una volta chiesto l’archiviazione. E né Berlusconi né Marcello Dell’Utri sono mai arrivati a ricoprire l’habitus di imputati di stragi.
Perché è difficile dimostrare l’indimostrabile con la tessitura di un patchwork, fin dai tempi dell’operazione “Oceano”, messa in piedi da alcuni uomini della Direzione Nazionale Antimafia, l’organismo che ha onorato della sua attenzione il leader di Forza Italia non molto tempo dopo la propria nascita nel 1991. Ed è ancora la Dia un anno fa, a “rinverdire” le stanche indagini del dottor Tescaroli con un’informativa che, se gli efficienti uomini dell’antimafia lo consentono, fa un po’ ridere. Attraverso un confronto (cercato ossessivamente) tra le celle telefoniche e i cellulari, tentano di dimostrare che se in un certo periodo dell’estate Giuseppe Graviano era in Sardegna, sicuramente era vicino a Berlusconi. E che se il boss, o suoi parenti, erano in Toscana, magari da quelle parti c’era anche Dell’Utri o un suo congiunto.
Tutto fa brodo, perché chiuso un fascicolo se ne può aprire un altro. E si può sostenere senza pudore che, se ci fossero stati gli (indimostrabili) incontri, la coincidenza chiuderebbe il cerchio, perché proprio in quel periodo Berlusconi preparava la propria entrata in politica. Il regalino ai Due Luca procuratori, Turco e Tescaroli, porta la firma del primo dirigente della polizia di stato Francesco Nannucci. Il quale sarà deluso dal fatto che in un anno nulla sia stato dimostrato a supporto della sua non originale tesi. Anche perché nel frattempo hanno pensato bene a entrare in concorrenza con le spifferazioni di Stato sia Giuseppe Graviano dal palcoscenico del processo di Reggio Calabria “’Ndrangheta stragista” che Salvatore Baiardo in esibizione tv da Giletti e Ranucci, con le successive smentite su Tik Tok.
Esilarante prima e dopo. Così i pm specializzati in patchwork possono continuare a cucire i pezzetti scombinati dell’inchiesta eterna. Il procuratore aggiunto Tescaroli lamenta da sempre di non riuscire a far carriera perché è un inquisitore “scomodo”. Tanto da essersi fatto raccomandare, per arrivare alla posizione che occupa oggi, dall’ex magistrato Palamara (il terzo Luca della storia), come confermato dallo stesso, che fu il potente capo del sindacato delle toghe e membro del Csm, in una dichiarazione a Paolo Ferrari su Libero.
E non viene il dubbio, al procuratore aggiunto di Firenze, del fatto che forse un magistrato che non riesce a portare a termine le proprie indagini ma è costretto ad aprire e chiudere continuamente con archiviazioni sempre la stessa vicenda da trent’anni, non sia affatto “scomodo”, ma forse da biasimare? E non teme il ridicolo, essendo ormai ridotto a contestare il reato di “denegata strage”, per lasciare agli storici la propria verità? Tiziana Maiolo
Estratto dell’articolo di Massimo Malpica per “il Giornale” sabato 5 agosto 2023.
Le Polaroid «fantasma» trentennali che proverebbero l'ipotetico incontro in un bar sul lago d'Orta tra il Cav, il boss Giuseppe Graviano e il generale dell'Arma Francesco Delfino […]. Non è l'Arena sospeso […].
Giletti che […] conferma […] di aver visto quello scatto, mostratogli fugacemente da Salvatore Baiardo, e di aver riconosciuto nella foto Berlusconi e il generale, ma di non saper dire con certezza chi fosse il terzo uomo […]. Il pentito e «fotografo per caso», Baiardo […] che invece smentisce […] , rompe col conduttore e annuncia su tik-tok di voler scrivere libri-verità per raccontare la sua versione.
Lo stesso Baiardo che poi, però, pensa bene di confermare l'esistenza di quegli scatti rubati, mentre viene filmato a sua volta di nascosto dalle telecamere di Report. La procura di Firenze che dopo Giletti interroga anche Urbano Cairo, perquisisce Baiardo senza trovare le foto, e infine vuole arrestare l'ex gelataio […]
Già così di materiale nella vicenda ce n'era a sufficienza. Ma ora, sul casino royale della storia Giletti-Baiardo, come se mancassero colpi di scena, piomba pure la querela di Giuseppe Graviano.
Che, dal carcere di Terni dove è rinchiuso, accusa il giornalista - come pure l'opinionista fissa di Non è l'Arena, Sandra Amurri - di diffamazione aggravata. Diffamazione, presumibilmente, che sarebbe sempre e comunque collegata alla vicenda delle fotografie «rubate» di quell'incontro che sarebbe avvenuto nel 1992, in Piemonte, sul lago d'Orta, o al balletto di dichiarazioni e ricostruzioni e ipotesi che ne sono seguite.
Il condizionale è d'obbligo, visto che la procura di Terni […] avrebbe segretato il fascicolo, tanto da negarne l'accesso anche ai legali dei due giornalisti indagati. Di certo, come detto, c'è che il boss di Cosa Nostra, che sta scontando nella città umbra sei ergastoli per mafia, condannato per le stragi del 1992 e del 1993, e alla cui latitanza collaborò attivamente proprio Baiardo, ha deciso ora di querelare Giletti. Che ha preso la notizia con filosofia.
«Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all’incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla», spiega il giornalista alle agenzie di stampa, raccontando di aver ricevuto la notifica della querela già all'inizio di questa settimana.
Ovviamente non è escluso che, conclusi gli opportuni accertamenti investigativi, l’indagine possa essere archiviata, anche se il blog Etrurianews.it, primo a dare la notizia della querela, rimarca come sia «paradossale» trovare «elementi di diffamazione a carico di uno stragista di mafia». E al giornalista è arrivata la solidarietà del vicepremier Matteo Salvini che sui social definisce Giletti «uomo e giornalista libero».
Va peraltro ricordato che nel 2020 Massimo Giletti era finito sotto scorta proprio per le parole di un altro Graviano, Filippo, fratello di Giuseppe, ascoltato mentre parlava in carcere a proposito della campagna portata avanti da Non è l'Arena contro la scarcerazione dei boss in conseguenza dell'emergenza Coronavirus. «Il ministro fa il lavoro suo - disse Graviano riferendosi a Bonafede - e loro (Giletti e il pm antimafia Nino Di Matteo) rompono il caz**». Ora, dopo le minacce di Filippo, nel braccio di ferro tra i Graviano e Giletti è il turno della querela di Giuseppe.
Da agi.it venerdì 4 agosto 2023.
"Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all'incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla". Massimo Giletti è attonito al telefono con l'AGI. Ha ricevuto, un paio di giorni fa, dai carabinieri la notifica dell'atto che lo vede indagato, insieme alla giornalista Sandra Amurri, per diffamazione dalla procura di Terni.
Un reato al quale, alle volte, vanno incontro i giornalisti. Ma che, almeno in questa occasione, lascia abbastanza interdetti. A querelare Giletti, infatti, non sarebbe stato uno qualunque, ma Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere umbro dove sta scontando diversi ergastoli per Mafia. Il fascicolo sarebbe poi stato secretato.
La notizia del procedimento è stata anticipata da EtruriaNews. Non è escluso che, dopo gli opportuni accertamenti investigativi, l'indagine possa essere archiviata.
Nel corso della trasmissione 'Non è L'Arena' in onda su La 7 Giletti aveva intervistato Salvatore Baiardo, considerato uomo dei Graviano, che 'annunciò' l’arresto di Matteo Messina Denaro.
Chi è Giuseppe Graviano
Giuseppe Graviano, nato a Palermo 59 anni fa, ha avuto - secondo i magistrati che lo hanno condannato all'ergastolo - un ruolo centrale nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano e nell’omicidio di don Pino Puglisi.
Graviano è stato arrestato dai carabinieri di Palermo, il 27 gennaio del 1994, a Milano. Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta lo condanna all’ergastolo per la strage di Capaci, insieme, fra gli altri, a Totò Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.
Due anni più tardi, nel 1999, Graviano è ergastolano per la strage di via D’Amelio: secondo vari pentiti, sarebbe stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
Nello stesso anno arriva una nuova condanna: insieme al fratello Filippo è accusato di essere il mandante dell’omicidio del prete anti-mafia don Pino Puglisi. Un nuovo ergastolo arriva nel 2000, per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma.
Massimo Giletti e Sandra Amurri, indagati dalla procura di Terni: avrebbero diffamato il mafioso Graviano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2023
Ci lascia esterefatti vedere una Procura dar credito ad un "personaggio" mafioso" di questo calibro, condannato in via definitiva a “fine pena mai” per le stragi del ’93 e fratello di Filippo autore delle riscontrate minacce di morte fatte proprio a Massimo Giletti.
“Ho sempre fiducia nella giustizia, certo alle volte penso che viviamo in un Paese all’incontrario, ma ormai non mi stupisco più di nulla“. Massimo Giletti dichiara attonito al telefono con l’AGI. Ha ricevuto, un paio di giorni fa, dai Carabinieri la notifica dell’atto di iscrizione nel registro degli indagati della procura di Terni, per il reato diffamazione insieme alla giornalista Sandra Amurri. Il fascicolo attualmente secretato è in carico del capo della procura di Terni Alberto Liguori e del suo sostituto Giorgio Panucci il quale sta di fatto svolgendo le indagini.
Un reato al quale, alle volte, veniamo spesso denunciati noi giornalisti, che ancora una volta, ci lascia abbastanza interdetti. A querelare Giletti e la Amurri , infatti, non sarebbe stato uno qualunque, ma bensì il pregiudicato ergastolano Giuseppe Graviano, che compirà 60 anni alla fine di settembre, sta scontando nel carcere umbro 6 ergastoli per reati di mafia. Si trova detenuto in una cella in regime di 41 Bis (carcere duro) dal gennaio del ’94 e cioè dal giorno in cui i carabinieri lo catturarono in un noto ristorante milanese.
Chi è Giuseppe Graviano
Giuseppe Graviano, nato a Palermo 59 anni fa, ha avuto – secondo i magistrati che lo hanno condannato all’ergastolo – un ruolo centrale nell’organizzazione delle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano e nell’omicidio di don Pino Puglisi. Nel 1997 la Corte d’Assise di Caltanissetta lo ha condannato all’ergastolo per la strage di Capaci, insieme, fra gli altri, a Totò Riina, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.
Due anni dopo nel 1999, Graviano è stato condannato nuovamente all’ ergastolo per la strage di via D’Amelio: secondo vari pentiti, sarebbe stato lui ad azionare il telecomando dell’autobomba che ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Nello stesso anno arriva una nuova condanna: insieme al fratello Filippo è accusato di essere il mandante dell’omicidio del prete anti-mafia don Pino Puglisi eseguito materialmente da Gaspare Spatuzza che, una volta pentito, raccontò i retroscena sui mandanti. Un nuovo ergastolo arriva nel 2000, per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma.
Nel corso della trasmissione ‘Non è L’Arena’ in onda su La 7 il giornalista-conduttore Massimo Giletti aveva intervistato Salvatore Baiardo, considerato uomo dei Graviano, che ‘annunciò’ l’arresto di Matteo Messina Denaro. La notizia del procedimento a carico di Giletti e la Amurri è stata anticipata da EtruriaNews. Non è escluso che, dopo gli opportuni accertamenti investigativi, l’indagine possa essere archiviata dai magistrati titolari del fascicolo d’ indagine.
“È una cosa molto grave – commente Giletti all’ANSA – Anche un ergastolano può fare una querela, però quello che faccio fatica ad accettare è perché a noi sia stato vietato l’accesso agli atti. Vorrei capire quale è la motivazione della querela. Aspetterò e verrà il momento, sempre con fiducia nella giustizia, ma con tutto quello che ho passato e sapendo che Giuseppe Graviano è il fratello di chi mi vuole morto faccio davvero fatica a capire”. “Con l’anno che ho vissuto non mi stupisco più di niente – prosegue -. Come diceva Rodari è un paese all’incontrario, mi sembra sempre più evidente“.
Ci lascia esterefatti vedere una Procura dar credito ad un “personaggio”mafioso” di questo calibro, condannato in via definitiva a “fine pena mai” per le stragi del ’93 e fratello di Filippo autore delle riscontrate minacce di morte fatte proprio a Massimo Giletti. Ipotizzare possibile elementi di diffamazione a carico di un mafioso come Graviano è allucinante. Pensare che un mafioso possa aver subito un danno di immagine fa sorridere ma nello stesso tempo ci preoccupa apprendere che qualche magistrato possa dargli credito. Ma forse qualcuno voleva vedere pubblicato il proprio nome sui giornali. Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di G. SAL. per “La Stampa” il 17 luglio 2023.
Nell'autunno 2022 fu Nino Di Matteo […] a convincere […] Massimo Giletti a rivolgersi alla Procura di Firenze per raccontare che Salvatore Baiardo gli aveva mostrato una vecchia foto a suo dire di Silvio Berlusconi con il boss mafioso Giuseppe Graviano.
Giletti si era recato al Csm e Di Matteo […] lo aveva avvertito […] della necessità di portarla a conoscenza della Procura che indaga sulle stragi del 1993. Lo stesso Di Matteo mise immediatamente a conoscenza il procuratore di Firenze dell'accaduto.
È stato lo stesso Giletti a ricostruire la vicenda negli interrogatori resi a Firenze. In quello del 21 aprile, appena successivo alla chiusura della trasmissione «Non è l'arena» su La7 mentre preparava una puntata su Dell'Utri, Giletti non riesce a trattenere l'emozione π…].
La Procura di Firenze ha perquisito invano la casa di Baiardo […] alla ricerca della foto. Poi ne chiesto l'arresto con due accuse: favoreggiamento in favore di Berlusconi e Dell'Utri, indagati per aver istigato le stragi, e calunnia ai danni di Giletti. Il gip ha negato l'arresto. La Procura ha fatto ricorso. Il tribunale del riesame ha rinviato a settembre la decisione.
I soliti deliri del pm anti Cav nell'anniversario della strage. Tescaroli in un libro per i 30 anni dell’attentato agli Uffizi di Firenze: "Bombe finite quando vinse lui". Felice Manti su Il Giornale il 27 Maggio 2023
L'anniversario di una strage diventa il pretesto per paventare un «nesso eziologico», un rapporto causa-effetto, tra la fine della strategia stragista della mafia e la vittoria di Silvio Berlusconi. Una pista investigativa battuta a vuoto resuscita, non con prove certe e verificate ma nella prefazione scritta dal pm Luca Tescaroli del libro Georgofili: le voci, i volti, il dolore a trent'anni dalla strage sulla bomba che esattamente 30 anni fa all'1:04 del 27 maggio 1993 sventrò via dei Georgofili nel cuore di Firenze. Con il sostituto procuratore Luca Turco, il pm indaga sui presunti «mandanti esterni» che pianificarono l'esplosione di un Fiorino imbottito con oltre 300 chili di tritolo a due passi da piazza della Signoria. Che sfregiò la Galleria degli Uffizi. Morirono Dario Capolicchio, Angela Fiume, Fabrizio e le figlie Nadia e Caterina, di soli 50 giorni. Per Cosa nostra furono condannati Totò Riina, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Da anni si sostiene che ci sia un'unica regia dietro la stagione stragista iniziata per cancellare carcere duro e benefici ai pentiti. La morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, gli attentati di Roma a Maurizio Costanzo e alle basilica di San Giorgio al Velabro e San Giovanni, le bombe in via Palestro a Milano e appunto Firenze sarebbero legate anche al fallito attentato, il 23 gennaio 1994, allo stadio Olimpico. «Perché non venne più riproposto? - si chiede Tescaroli - Il 27 e il 28 marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale e lo stragismo si arenò». Come se la presunta trattativa tra lo Stato e i boss (smontata da sentenze recentissime) «fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali». Come a dire che quella vittoria non solo appagò i boss, ma fu favorita dalle bombe. Cosa aggiunge Tescaroli, che di recente ha nuovamente indagato Berlusconi e Marcello Dell'Utri? Che occorre continuare a indagare «per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso», plasticamente rappresentata dalla famigerata polaroid fantasma scattata nell'estate del 1992 che sarebbe in mano al manutengolo dei Graviano, Salvatore Baiardo. E che ritrarrebbe assieme Berlusconi, Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Baiardo è un propalatore di fesserie che va seminando a pagamento bugie e calunnie a Report e La7», dice il senatore azzurro Maurizio Gasparri. E se questa vicenda fosse una bufala, che ne sarebbe della residua reputazione di chi gli ha dato credito, sui giornali, in tv e in Procura? Possibile che già nel '92 i boss trattassero con un Berlusconi imprenditore, disinteressato alla politica? È corretto che un magistrato riproponga su un libro uno scenario ampiamente smentito da indagini e sentenze? Ci sono segreti investigativi incautamente rivelati? Esiste un profilo di inopportunità, financo meritevole di un'indagine disciplinare? A Via Arenula e al Csm l'ardua sentenza. Altri pm come Antonino Di Matteo hanno passato dei guai per intemerate televisive più innocue. E dire che Tescaroli (penna del Fatto quotidiano) prese un clamoroso abbaglio - come Di Matteo - sul finto pentito Vincenzo Scarantino che lo depistò su Borsellino quando era a Caltanissetta («Nonostante questa sentenza noi gli crediamo ancora», disse il pm dopo l'ennesima assoluzione) e si impuntò sul ruolo di Bruno Contrada, prosciolto dalle accuse sul suo ruolo nelle stragi. A seguire ipotetiche ricostruzioni si sono persi trent'anni, mentre la verità sulle bombe di Capaci e via D'Amelio latitano e l'uccisione del giudice calabrese Antonino Scopelliti è senza verità. Oggi il Csm vuol capire se le toghe in Emilia-Romagna avrebbero chiuso un occhio sui rapporti tra Pd e boss. Invece l'antimafia si è ridotta a inseguire i fantasmi, a ipotizzare indicibili accordi tra Ros e mafia per la cattura di Messina Denaro. A blaterare di credibilità su Chiara Colosimo («Sconcertante che sia stata eletta all'Antimafia») come fa l'europarlamentare Pd Franco Roberti. Che come i suoi predecessori alla Procura antimafia (Pietro Grasso e Federico Cafiero de Raho) si è buttato in politica a sinistra? Tu chiamale, se vuoi, coincidenze.
Mai accettare ricostruzioni di comodo. La mafia, i falsi miti e i pm che hanno scelto di perdere la faccia: il Riformista voce fuori dal coro. Matteo Renzi su Il Riformista il 27 Maggio 2023
I lettori de “Il Riformista” che hanno avuto la pazienza di seguirci in questi giorni sanno bene che il nostro quotidiano ha dedicato questa settimana a riflettere sulla mafia e su come la narrazione trentennale di questo Paese abbia creato falsi miti e veri scandali.
Nel ricordare Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli uomini della scorta, abbiamo scelto di contestare la ricostruzione allucinante che ha offerto Roberto Scarpinato, senatore, ex pm, grillino, che ha insultato l’intelligenza degli italiani offrendo un racconto di quegli anni viziato dall’ideologia, dalla faziosità, dall’odio politico. Scarpinato è uno di quei (pochi) pm che non sazio di perdere i processi ha scelto di perdere la faccia. E Luca Palamara glielo ha ricordato con dovizia di particolari proprio su queste colonne. Abbiamo pubblicato, poi, con Pandolfini, una riflessione a puntate sui diari di Falcone e Torchiaro ha intervistato Claudio Martelli che volle Falcone al Ministero dopo che i suoi colleghi lo avevano umiliato negandogli l’agibilità professionale a Palermo.
Questo giudizio contrasta con la tiritera a reti unificate, ispirata dal travaglismo, che per anni ci ha consegnato una politica impegnata a far fuori Falcone mentre tutti dovremmo ricordare che la guerriglia a Giovanni Falcone l’ha iniziata prima di tutto una parte del CSM. Lo ha ucciso la mafia, sia chiaro. Ma i suoi detrattori gli ferirono l’anima in modo ingiusto.
E poco importa se siamo accusati dai cantori del pensiero unico giustizialista di fare un giornale di parte. Avevamo promesso di fare de “Il Riformista” non il gazzettino di Italia Viva, ma una voce fuori dal coro. E per questo continueremo a dire la nostra ostinatamente contro corrente.
In molti casi indugiando anche sulle emozioni di chi scrive. Lo ha fatto bene ieri Claudia Fusani raccontando la notte di trent’anni fa in Via dei Georgofili quando la Mafia colpì al cuore l’Italia. E oggi il Presidente della Repubblica sarà a Firenze proprio per la cerimonia in ricordo di quella strage.
In quelle ore – scendendo in piazza come tutti – imparai che davanti al dolore mafioso si reagisce insieme, non dividendosi. Quel corteo che dal Liceo Dante ci portava verso una Piazza Signoria talmente piena da impedire l’afflusso di tutti i ragazzi mi ha segnato la vita. Avevo 18 anni, una maturità in arrivo e tanti sogni nel cassetto.
Sapere che il tritolo aveva colpito al cuore la mia città un anno dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino non mi portò solo a iscrivermi a giurisprudenza. Mi insegnò che non avrei mai dovuto accettare una ricostruzione di comodo sulla mafia, da qualunque parte essa provenisse. “Il Riformista” continuerà a farlo, con buona pace di chi ci teme e di chi ci insulta.
Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista
Quel boato a notte fonda che non potrò mai scordare. Attentato dei Georgofili, quei ragazzi che, poco distante dal luogo della tragedia, aspettavano il giorno in cui sarebbero diventati carabinieri. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Domani il 27 maggio 2023
Pur essendo trascorsi ormai trent'anni, non riesco ancora a dimenticare quel boato fortissimo che fece tremare le possenti mura dell'antico convento dei padri domenicani annesso alla basilica di Santa Maria Novella a Firenze. Il convento ospitava dal 1920 la scuola sottufficiali carabinieri ed io quell’anno, poco più che ventenne, stavo ultimando il 44esimo corso biennale di formazione. La cerimonia di chiusura del corso, con la consegna dei gradi, era prevista per il 28 maggio.
Anche la sera del 26 maggio, pur mancando solo due giorni al termine del corso, il “contrappello” era passato puntuale alle 22.30. Ed alle ore 23.00 era risuonato il silenzio. I fumatori, o chi semplicemente non aveva sonno, come il sottoscritto, avevano aspettato che il sottufficiale di giornata spegnesse le luci ed erano andati in bagno per scambiare qualche parola con il collega che difficilmente, terminato il corso, avrebbe poi più rivisto. Le tecnologie dell'epoca non agevolano certamente i rapporti.
Poco dopo la mezzanotte, comunque, tutti erano tornati al proprio letto. La stanza era grandissima ed ospitava quasi una ventina di allievi. Il fortissimo boato, era circa l’una di notte, provocò uno spostamento d'aria che spalancò con violenza le enormi finestre che davano sul cortile principale. Le luci delle camerata si accesero immediatamente e ci fu dato l'ordine di metterci in divisa. Dopo poco, infatti, iniziò a circolare la voce che ci fosse stata una perdita di gas che aveva provocato una immane esplosione in centro.
Rimanemmo per qualche ora a disposizione e quindi ci venne detto di toglierci la divisa e tornare a letto. La mattina successiva, dopo l'alza bandiera, ascoltammo i racconti di chi era andato sul posto, in particolare del personale del quadro permanente, che descriveva macerie e distruzione ovunque proprio dietro piazza della Signoria, precisamente in via dei Georgofili, distante circa 500 metri in linea d’aria dalla nostra scuola. Ci sarebbero state anche alcune vittime. Di una bomba si iniziò a parlare solo in tarda mattina.
La notizia ci sconvolse tutti. Era difficile pensare alla cerimonia del giorno successivo. I superiori decisero che, anche se in tono minore, la cerimonia ci sarebbe stata comunque perché non doveva passare il messaggio che l’Arma subiva il ricatto dei terroristi.
Nessuna grande uniforme, allora, tutti con la divisa ordinaria e con il gonfalone del comune di Firenze listato a lutto. Si respirava però un’aria molto diversa da quella del 15 gennaio precedente quando i carabinieri del Ros avevano catturato a Palermo Totò Riina, il capo dei capi. Terminata la cerimonia ed indossati i gradi ci salutammo fra la commozione generale. Dopo qualche breve giorno di licenza avremmo raggiunto i reparti. Senza scordare mai quella notte di fine maggio del 1993.
La strage 30 anni fa. Attentato di via dei Georgofili, a Firenze per la prima volta la mafia sparò nel mucchio. David Romoli su L'Unità il 27 Maggio 2023
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio di trent’anni fa, 1993, Cosa nostra alzò il tiro più di quanto avesse mai fatto in precedenza. Portò l’attacco allo Stato nel continente, adottò la strategia dello stragismo indiscriminato, prese di mira non solo persone e cose ma i beni culturali del Paese, la sua ricchezza. La bomba esplose in via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, a un passo dall’Accademia dei Georgofili, poco dopo l’una di notte. Uccise l’intera famiglia del guardiano dell’accademia, incluse le due figlie, 9 anni la più grande, appena 50 giorni la piccola. Ci rimise la vita anche uno studente di 22 anni, nell’incendio che coinvolse le abitazioni circostanti. I danni al patrimonio culturale furono ingenti: crollò la Torre dei Pulci, fu danneggiato più o meno gravemente un quarto delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi.
L’ordigno era stato preparato a Palermo da Gaspare Spatuzza, il bombarolo di Cosa nostra, uomo di fiducia dei fratelli Graviano, e di lì portato a Prato. Il gruppo di attentatori, oltre che da Spatuzza, era composto da Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno e Francesco Giuliano, tutti “uomini d’onore” dei mandamenti di Brancaccio, quello dei Graviano, e di Corso dei Mille. La sera del 26 maggio Giuliano e Spatuzza rubarono un furgone Fiat Fiorino, lo spostarono a Prato per caricare l’esplosivo, nella notte fu parcheggiato in via dei Georgofili da Giuliano e Lo Nigro che lo fecero poi esplodere a tarda notte. Ogni strage ha i suoi misteri, veri o presunti che siano: quello di via dei Georgofili sarebbe costituito da un centinaio di chili di esplosivo T4, tra i più deflagranti, che sarebbe stato aggiunto ai circa 150 kg trasportati dalla Sicilia da mani sconosciute.
Non era il primo atto nella strategia d’attacco decisa dall’ala dura dei corleonesi, quella che faceva capo a Luchino Bagarella, dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio di quello stesso anno. La sera del 14 maggio una Fiat Uno rubata e imbottita d’esplosivo era stata fatta esplodere in via Fauro a Roma, molto vicino agli studi dove veniva registrato il Maurizio Costanzo Show. A salvare il conduttore e la moglie, Maria De Filippi, era stata la decisione di lasciare gli studi su una macchina diversa dal solito. A premere il fatale pulsante erano i soliti Lo Nigro e Benigno che restarono spiazzati dalla macchina sconosciuta. Benigno premette il pulsante con un provvidenziale attimo di ritardo. Costanzo e De Filippi rimasero illesi, 24 persone rimasero invece ferite.
Il tentativo di assassinare il più popolare conduttore della tv italiana nel cuore della capitale, lontano da Palermo, era un segnale chiaro di quanto si fosse alzato il livello dello scontro. Costanzo prendeva di mira continuamente Cosa nostra: la decisione di toglierlo di mezzo poteva ancora sembrare consona allo stile della Cosa nostra dominata dai bellicosi e spietati corleonesi. Via dei Georgofili segnava invece un passo in avanti drastico sulla strada della guerra totale. Per la prima volta Cosa nostra sparava nel mucchio, falciava non magistrati, poliziotti o rivali interni ma passanti qualsiasi. Sceglieva lo stragismo.
L’attentato fu rivendicato, come tutti quelli di Cosa nostra in quella fase, dalla fantomatica “Falange Armata”. Nessuno, dal premier Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del consiglio “tecnico” nella storia della Repubblica e capo di un governo costituitosi meno di un mese prima, al ministro degli Interni Nicola Mancino, ebbe mai dubbi sulla matrice mafiosa della strage anche se inevitabilmente, nell’ultimo anno della prima Repubblica, in una fase segnata da massima incertezza e altrettanto elevato rischio, il sospetto di commistioni con soggetti diversi dalle cosche dell’isola era inevitabile.
Il 27 luglio il gruppo dinamitardo colpì ancora, stavolta con una prova di forza anche più temibile perché prese di mira contemporaneamente le due principali città italiane, Roma e Milano. L’attentato più grave fu quello di via Palestro, nel capoluogo lombardo. La sera del 27 luglio i vigili del fuoco intervennero dopo che un agente aveva segnalato che da una Fiat Uno parcheggiata di fronte al Padiglione d’arte contemporanea usciva del fumo. L’autobomba esplose mentre i vigili erano al lavoro: uccise due di loro, un agente e un immigrato che dormiva su una panchina lì vicino, danneggiò le opere del Padiglione che però se la videro anche peggio quando, poche ore dopo, esplose anche una sacca di gas formatasi perché il crollo precedente aveva spezzato le tubature. Anche qui non manca il mistero di turno. Chi materialmente abbia portato in loco l’autobomba e provocato il botto è a tutt’oggi ignoto. I bombaroli in trasferta avevano preparato tutto prima di spostarsi a Roma ma la fase esecutiva non la gestirono loro. Un testimone oculare vide uscire dalla macchina esplosiva una bionda elegante. Possibile che Cosa nostra si fosse affidata a una femmina?
A Roma non ci furono vittime ma il livello degli obiettivi colpiti bastava e avanzava. I picciotti rubarono tre Fiat Uno il 28 luglio. Lo Nigro lasciò la prima, imbottita d’esplosivo, di fronte alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Spatuzza e Giuliano parcheggiarono la seconda autobomba di fronte a San Giovanni in Laterano. Poi se ne andarono tutti insieme sulla terza Fiat, guidata da Benigno. Esplosero a distanza di 4 minuti l’una dall’altra, ferirono 24 persone e danneggiarono seriamente le due chiese. Ma il vero effetto esplosivo fu psicologico dal momento che erano state colpite due delle chiese più famose e antiche di Roma.
Prima di passare all’azione, nel pomeriggio, Spatuzza aveva inviato due lettere vergate da Graviano, indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero. Promettevano sfracelli. Minacciavano di distruggere “centinaia di vite umane”. Non era solo un modo dire. Ci provarono davvero pochi mesi dopo allo stadio Olimpico di Roma il 23 gennaio 1994, una domenica. L’autobomba, in quel caso, avrebbe dovuto esplodere alla fine della partita, mentre passava un furgone pieno di carabinieri di stanza. Con la folla in uscita dallo stadio le vittime, con e senza divisa, sarebbero state innumerevoli. Il telecomando non funzionò, la strage più efferata fu evitata da un caso miracoloso.
Poi, all’improvviso tutto si fermò. Le bombe smisero di esplodere. Difficile dire cosa fosse cambiato. Qual era l’obiettivo di Cosa nostra? Probabilmente si trattava di quello che Giovanni Bianconi definisce “un dialogo a suon di bombe” finalizzato a ottenere l’abrogazione o l’allentamento del 41 bis, l’allora neonato regime di carcere duro per i mafiosi. Nel caos di quell’anno è possibile che si siano intrecciate anche altre mire, miraggi golpisti inclusi. Ma probabilmente quel che decretò la fine dello stragismo mafioso fu la sconfitta dei duri, Bagarella e i Graviano, arrestati e messi in scacco da quella parte di Cosa nostra che aveva subìto senza crederci troppo la guerra totale decisa da Totò “u Curtu” e proseguita dal feroce cognato Leoluca Bagarella. E se c’era un boss che da quella strategia proprio non era convinto era proprio l’uomo chiamato “u Tratturi”, il trattore: Bernardo Provenzano. David Romoli
L'attacco di Cosa Nostra al cuore del Rinascimento. La strage dei Georgofili 30 anni dopo, la fine del mondo era arrivata a Firenze: la poesia di Nadia e il tramonto di Messina Denaro. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Maggio 2023
Ogni volta che ci passo, ed è quasi ogni settimana, è come un clic nella testa. Osservo l’olivo e i suoi rami, dolcissimi seppur di bronzo, e ricordo che le macerie, quella notte arrivano più o meno lì, a circa quattro metri. Il palazzo del Pulci non c’era più, solo massi, anche enormi, arredi, cose della vita. I vigili del fuoco erano lì sopra, messi in fila, quasi una catena. Fu un momento di silenzio surreale in quella fine del mondo: “Ecco, tieni, prendi, dai, via via …”. Si passavano un fagotto chiaro, un bombolotto di stracci, l’ultimo vigile della catena entrò nell’ambulanza che era riuscita ad arrivare fino in via dei Girolami. Poi sparì tra le sirene. Noi tutti si rimase lì. Muti, come muti eravamo da ore.
Fazzoletti bagnati sul naso, l’odore del tritolo, del sangue, della paura e della morte dentro le ossa, la pelle, il cervello. Sapevamo che in quel fagotto c’era una bambina e non poteva che essere la più piccola delle due sorelline. Si chiamava Caterina Nencioni. La speranza che fosse sopravvissuta a quell’inferno durò meno di mezz’ora. Aveva 50 giorni. Nadia, la sorella di 9 anni, il babbo Fabrizio, un vigile urbano, la mamma Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili motivo per cui ebbe assegnato l’appartamento nella Torre, furono estratti dopo ore in quella lunga notte che non finiva mai. Era l’una di notte. Lavoravo come cronista di nera e giudiziaria alla redazione di Repubblica a Firenze.
Il lavoro finiva sempre tardi e cenare tra le 23 e la mezzanotte quasi la norma. Stavo guardando un film, “Sotto tiro”, Nick Nolte che fa il fotoreporter, il fronte sandinista, i ribelli, l’attore che sta per essere giustiziato… bum. Un boato enorme fa tremare i vetri di casa poco dopo Porta Romana, sconquassa la dolce notte di maggio. Partono sirene, allarmi, il centro storico piomba nel buio totale. I telefoni del “giro di nera” – polizia, carabinieri, vigili del fuoco e vigili urbani – non rispondono, occupati, staccati. Riesco finalmente a parlare con una stazione distaccata dei vigili del fuoco. “Probabile grossa esplosione di gas, in pieno cento storico, vicino agli Uffizi…”. Un veloce giro di telefonate con il capo della redazione di Firenze e i colleghi Fabio Galati e Gianluca Monastra. Non si capisce nulla. Claudio Giua, il caporedattore, ci dice “avviciniamoci il più possibile agli Uffizi…”.
Lascio il motorino vicino al Ponte Vecchio, e già davanti a palazzo Pitti vedo gente che cammina confusa, piangono, si stringono, qualcuno è a terra, spaventati, altri scappano, chiedo, non riescono a parlare, tengono le mani sulle orecchie. Ci saranno seicento metri tra ponte Vecchio e via dei Georgofili, stradine e vicoli che si conoscono a memoria e che invece non riconoscevo più: colonne di fumo, polvere, sirene, gente accovacciata in terra che chiedeva aiuto, che non sapeva dov’era. Non so dire quanto tempo fosse passato dalla prima esplosione. Di sicuro la zona non era stata ancora trincerata né messa in sicurezza. si vedeva qualche uomo in divisa che cercava di spingere le persone lontano, oltre l’Arno. Cos’era stato? Gas? Oppure? Ed era finita lì?
Via Lambertesca era coperta da una strana polvere, era tutto grigio, l’odore insopportabile, le fiamme, cadono tegole dai tetti. Si prova a prenderla un po’ più larga, in Chiasso del Buco si entra, anche in chiasso dei Baroncelli fino ad un “dove” irriconoscibile, via Lambertesca, appunto, all’angolo con via dei Georgofili. Quella che prima sembrava “nebbia” da qui è chiaro che sono macerie e polvere. La fine del mondo era arrivata a Firenze, a cento passi da piazza della Signoria. I colleghi junior, io, Fabio e Gianluca, rimaniamo lì, un cellulare in tre. Il caporedattore intanto ha avvisato Roma che è necessario ribattere perché “l’esplosione, se anche fosse gas, ha attaccato il cuore del Rinascimento”. I senior, si erano aggiunti Paolo Vagheggi e Franca Selvatici, vanno in redazione, in via Maggio, a scrivere. Noi restiamo lì, vedere, capire, annotare, restare lucidi. Non fu facile. Tutto è stato irripetibile. E indimenticabile. Metto qui in fila qualche frammento di quella notte. Quelli per me decisivi. Via via che si posa un po’ la polvere, cessano gli allarmi e turisti e residenti sono ormai lontani, resta il rumore dei generatori elettrici e delle pompe d’acqua, l’odore di qualcosa che è anche gas ma non solo e una montagna di macerie davanti agli occhi.
Il cratere lasciato dal Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo (tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina) verrà fuori solo dopo giorni (3 metri di larghezza e due di profondità). Quella notte si vedono solo macerie e macerie e macerie. I periti scrissero che l’esplosione provocò “la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto bellico”. Alzando gli occhi, davanti a quella che era la torre del Pulci, ci sono finestre aperte e soffitti a cassettoni anneriti. Una casa affittata da studenti. I vigili del fuoco hanno provato a salvare Dario Capolicchio ma le fiamme avevano già mangiato la casa. Gas, solo gas? Dopo un po’ di tempo, non so dire quanto, ma prima che venga estratto il fagotto con i resti della piccola Nadia, cammina in questa devastazione il capo della Digos, Franco Gabrielli, con un paio di uomini. Hanno gli occhi all’insù, sono sgomenti, guardano la parete antistante all’accademia rimasta miracolosamente in piedi.
“Considera – riflettono – che l’esplosivo in questo imbuto di strade ha raddoppiato la potenza. E i danni”. La parete è bucherellata come una groviera. Fori concavi, tutti anche se più o meno grandi. “Ecco perché non può essere un’esplosione di gas. L’esplosione è stata esterna ai palazzi”. E solo una bomba può aver fatto quel macello. È stato forse il primo vero sopralluogo. Si attende il procuratore, Piero Luigi Vigna. Ha firmato alcune tra le inchieste più importanti di terrorismo e sequestri di persona. Prima di Vigna, s’intravede Gabriele Chelazzi, il suo sostituto “preferito” (senza nulla togliere agli altri che poi seguiranno le inchieste e i processi: Fleury, Crini e Nicolosi). Chelazzi si lascia avvicinare, sta camminando solo nel piazzale degli Uffizi, buio totale. “Lo senti cosa c’è sotto i piedi? Vetri, camminiamo su un tappeto di vetri. Hanno voluto colpire il cuore di Firenze, dell’arte, del Rinascimento”. Chi? “Non lo so ma…”. Ma un anno prima c’era stata Capaci, poi via D’Amelio e due settimane prima, il 14 maggio, in via Fauro a Roma, una macchina era stata imbottita di esplosivo per Maurizio Costanzo. Attentato fallito. Se Falcone diceva follow the money, Chelazzi ha sempre preferito unire i punti. Mi piace pensare che il primo momento in cui hanno unito i punti sia stato quando ho visti Vigna, Gabrielli, Chelazzi appoggiati al colonnato degli Uffizi, testa bassa, facce tese: quella notte cambiò le loro vite professionali.
Qualche flash back, andata e ritorno dall’angolo tra via Lambertesca e via dei Georgofili quella notte-mattina del 27 maggio 1993. Le parole mafia e Cosa Nostra presero tecnicamente cittadinanza sui fascicoli dell’indagine (strage di stampo mafioso) nel giro di un paio di settimane. Forse un mese. Chelazzi univa i puntini, appunto, ed aveva iniziato dal 1992. Quando due mesi dopo, la notte del 27 luglio 1993, prima a Milano e poi a Roma 3, il tritolo esplose in via Palestro e poi a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la “linea” di Chelazzi disegnò una figura chiara: Cosa Nostra stava attaccando il cuore dello Stato, il patrimonio artistico e religioso e lo faceva fuori dalla Sicilia. Un salto di qualità senza precedenti. Circa sei mesi dopo – era ottobre – il procuratore Vigna convocò i giornalisti nel suo ufficio. Lo faceva raramente. In quel periodo un po’ di più. In quella stanza, c’erano tutti “i ragazzi” e “le ragazze” della sua squadra: Chelazzi, Crini, Nicolosi, Margherita Cassano (oggi procuratore generale in Cassazione) e Silvia della Monica che aveva passato le sue ai tempi del mostro di Firenze.
“Questa procura – ci disse – ha sollevato conflitto per la titolarità di tutte le stragi in continente di Cosa Nostra”. Vinse il procuratore Vigna, a parità di numero di morti (5 a Firenze e 5 a Milano), prevalse l’interpretazione che eravamo di fronte ad un unico disegno stragista, da via Fauro fino a San Giovanni passando per Milano. Non fu facile. I professionisti dell’antimafia nicchiarono: “Cosa ne sa Firenze…”. Iniziò così uno dei periodi più duri ed entusiasmanti di quella procura e di quella squadra di magistrati ed investigatori. Tutte eccellenze. Le indagini, l’arresto di Brusca, l’inizio della sua collaborazione, le indagini dal basso che misero in fila i nomi del gruppo di fuoco Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e poi i mandati, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano. Un centinaio gli imputati chiamati nell’aula bunker di Firenze nell’ex convento di Santa Verdiana. In questa aula per la prima volta Giuseppe Brusca parlò del “papello” con le richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo Stato per cessare la stagione delle bombe e delle stragi.
Ma torniamo a quella notte. Sono le quattro del mattino quando la catena di braccia in fila porta fuori il fagotto bianco con i resti della piccola Caterina. Appena 50 giorni. Albeggia. Sono stati sgomberati alberghi e abitazioni. Il centro storico di Firenze è un campo di battaglia. La polvere sta calando. Le fiamme sono spente. L’odore, quello no, è ovunque. La luce del giorno misura la tragedia. E la montagna di macerie. S’intravedono i poveri resti di vite che sono state felici: fotografie, quaderni, libri, peluche, abiti. Repubblica è uscita in prima pagina: “Bomba nel cuore di Firenze. Il sospetto su Cosa Nostra”. I giornali stranieri chiamano in redazione, “Firenze come Palermo?”. Il 16 gennaio scorso è stato arrestato l’unico boss che ancora mancava all’appello: Matteo Messina Denaro. I carabinieri e la procura di Palermo hanno voluto chiamare l’indagine “Operazione tramonto”. Tramonto è il titolo di una bellissima poesia scritta da Nadia, 9 anni, il 24 maggio, tre giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/ tutto è finito”. Probabilmente c’è ancora da scoprire su quegli anni. Non è finita. Tra i tanti insegnamenti di quei giorni e di quell’inchiesta c’è che esiste una verità storica e una processuale. Quasi mai coincidono.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
30 anni fa la strage di Firenze: un filo la lega alla Trattativa Stato-mafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 26 Maggio 2023.
Il 27 maggio 1993, un boato risvegliò Firenze poco dopo l’una di notte. Un Fiorino imbottito con 250 chili di tritolo esplose sotto la Torre dei Pulci, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Tra le macerie furono ritrovati i corpi di cinque vittime, tra cui quelli di due piccole bambine. L’attentato porta ufficialmente la firma degli uomini di Cosa Nostra, ma non rappresenta un passaggio estemporaneo. La strage di Via dei Georgofili – uno dei tanti episodi dimenticati che hanno segnato la storia recente del nostro Paese – è al contrario un tassello fondamentale della strategia stragista attraverso cui la mafia ricattò lo Stato italiano, che aveva avuto la sciagurata idea di lanciare segnali di dialogo ai suoi rappresentanti. Un progetto eversivo che, molto probabilmente, coinvolse anche entità esterne alle gerarchie mafiose, unite nell’ottica della “destabilizzazione”.
La strage di Via dei Georgofili fu anticipata da un fallito attentato andato in scena il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro, a Roma. L’obiettivo di Cosa Nostra era in quel caso quello di uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, impegnato a promuovere la lotta alla mafia all’interno delle sue trasmissioni, a cui aveva partecipato anche il giudice Giovanni Falcone. Al momento della detonazione, avvenuta alle 21.40, Costanzo era appena uscito a bordo di un auto dal Teatro Parioli, dove registrava il suo Maurizio Costanzo Show, ma si salvò miracolosamente insieme alla sua compagna Maria De Filippi.
Tredici giorni più tardi, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio, l’attentato di Firenze provocò invece conseguenze molto più gravi, lasciando a terra cinque morti. A perdere la vita, insieme ai loro giovani genitori, furono anche Nadia e Caterina Nencioni, due bambine rispettivamente di nove anni e cinquanta giorni di vita, e uno studente di ventidue anni, Dario Capolicchio, che morì bruciato vivo. Quaranta le persone rimaste ferite. Il venticinque per cento delle opere presenti nella Galleria degli Uffizi subì danni, così come la Chiesa di S. Stefano e Cecilia. Insomma, venne lanciato un attacco frontale allo Stato con modalità del tutto simili a quelle che, per tutti gli Settanta fino allo strage di Bologna, avevano caratterizzato gli attentati della “strategia della tensione“. La strage, come avverrà per molti altri attentati che caratterizzarono quella stagione, sarà rivendicata dalla misteriosa sigla della “Falange Armata”.
Per l’attentato, tra i mandanti vennero condannati i membri della Commissione di Cosa Nostra, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Tra gli esecutori materiali puniti dalle condanne, spiccano invece i nomi di Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. In seguito alle rivelazioni di quest’ultimo, che confermò le sue responsabilità nell’attentato, venne processato e condannato anche il boss Francesco Tagliavia, responsabile di aver fornito l’esplosivo per l’attentato.
Proprio la sentenza del processo “Tagliavia” ha ufficialmente collegato le modalità e la tempistica dell’attentato in Via dei Georgofili alla cosiddetta “Trattativa Stato-mafia“, inaugurata dai vertici del Ros dei Carabinieri nella primavera del 1992, nei giorni intercorsi tra la morte di Giovanni Falcone e quella di Paolo Borsellino. All’invito al dialogo, trasmesso ai mafiosi dall’ex sindaco mafioso corleonese Vito Ciancimino, Totò Riina rispose con il famoso “papello”, in cui Cosa Nostra chiedeva allo Stato importanti benefici carcerari (tra cui l’abolizione del 41-bis e dell’ergastolo) in cambio della fine delle violenze.
“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des; L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia; l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d’intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi”, scrisse nel 2012 la Corte d’Assise di Firenze. “Iniziata dopo la strage di Capaci – ricostruirono i giudici -, la trattativa si interruppe con l’attentato di via D’Amelio […] Per tutto il resto del 1992 Cosa Nostra restò in attesa che si ripristinassero i canali interrotti e fermò. Senza però mai rinunciarvi, ogni ulteriore iniziativa d’attacco, motivata dal fatto che proprio lo Stato, per primo, si era fatto sotto“. Dunque, “per stimolare una riapertura dei contatti e dare prova della sua determinazione, e anche perché furente per l’arresto di Riina, dal maggio del ’93 […] l’ala più oltranzista […] riprese a far esplodere le bombe […] in modo che lo Stato capisse e si piegasse. Ed era certo che lo Stato avrebbe capito proprio perché la trattativa era stata interrotta”.
Tale verità, nel 2016, è stata ufficializzata anche dalla sentenza di Appello, in cui si legge che “l’esistenza” della Trattativa è “comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi” ed è “logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista“, dal momento che il ricatto “non avrebbe senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. I giudici hanno dunque considerato provato che, in seguito alla prima fase della trattativa, che si arenò dopo la strage di via D’Amelio, “la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.
La storia ci consegna poi altre due pagine che paiono significative. All’indomani delle bombe di Via Fauro e agli Uffizi, il Consiglio dei ministri presieduto da Carlo Azeglio Ciampi – in cui Giovanni Conso ricopriva la carica di ministro della Giustizia – scelse di destituire dal ruolo di capo dell’Amministrazione penitenziaria, senza nessun margine di preavviso, Nicolò Amato, strenuo difensore della “linea dura” sull’applicazione del 41-bis. Come suo successore venne individuato il “morbido” Adalberto Capriotti, magistrato cattolico legato al Vaticano, estremamente garantista. Pochi mesi dopo lo scoppio, nel mese di luglio, delle bombe di Via Palestro a Milano e delle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma – nuovi episodi della strategia stragista – il ministro Giovanni Conso decise di non rinnovare il “carcere duro” a 334 mafiosi, restituendoli dunque al carcere ordinario.
Sulla “Trattativa Stato-mafia” è nato un processo che ha visto imputati, per il reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, uomini delle istituzioni – tra cui gli ufficiali del Ros – e i vertici della mafia. In primo grado i Carabinieri hanno subito ingenti condanne, in Appello sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato“, mentre in Cassazione (la sentenza è stata emessa lo scorso 27 aprile) sono stati assolti in via definitiva “per non aver commesso il fatto“. Dopo essere stati colpiti dalle condanne nei primi due gradi di giudizio, a causa della riqualificazione del reato in “tentata minaccia”, i boss di Cosa Nostra hanno invece potuto beneficiare della prescrizione. Immediata era stata la reazione dell’Associazione dei familiari delle vittime di Via dei Georgofili dopo l’uscita del verdetto: “Il fatto storico, inoppugnabile, che resta, è che la trattativa Stato-mafia, interrotta con la cattura di Riina, portò alle stragi del 1993, e al sangue innocente di Caterina e Nadia Nencioni, dei loro genitori, e di Dario Capolicchio”. [di Stefano Baudino]
1993, l’anno buio della Repubblica: un mistero che resiste da 30 anni. Lirio Abbate su La Repubblica il 26 Maggio 2023
Il 27 maggio la strage di via dei Georgofili a Firenze inaugurò la stagione delle bombe mafiose contro i monumenti. Per quell’attentato sono stati condannati gli esecutori e chi li armò. Ma la caccia ai mandanti occulti non si è mai fermata
Ci sono ancora i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri scritti sul fascicolo dell'inchiesta sui mandanti delle stragi del biennio 1993 e 1994. Un'inchiesta prorogata più volte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta dei magistrati della procura di Firenze. I pm l'hanno motivata fornendo al gip nuovi elementi che sostengono la necessità di continuare ad indagare sull'ex premier e sul suo amico e co-fondatore di Forza Italia.
All'inizio ci sono state le dichiarazioni in aula a Reggio Calabria del boss Giuseppe Graviano, autore delle stragi, il quale ha saputo calcolare le uscite pubbliche, lanciando messaggi a Berlusconi e allo stesso tempo sostenendo che l'ex presidente del Consiglio non aveva rispettato "i patti" con la famiglia Graviano. Il boss di Brancaccio, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella sono i protagonisti delle bombe a Roma, Milano e Firenze. E dopo vent'anni di detenzione trascorsi in silenzio, Giuseppe Graviano ha iniziato a lanciare pesanti messaggi dal carcere rivolti a Berlusconi, nel tentativo di tornare libero, o ancor di più, di ottenere una grossa somma di denaro. Tutta questa storia, legata anche alla strage di via dei Georgofili del 26 maggio 1993, ha portato i pm fiorentini ad indagare sui due fondatori di Forza Italia, per accertare se vi sia stato un dialogo fra loro e i boss di Cosa nostra. Non risulta alcuna denuncia per calunnia presentata contro il capomafia palermitano.
Prima che iniziasse a fare dichiarazioni in aula, Giuseppe Graviano, intercettato anni fa nella sala colloqui con il figlio Michele, si sentiva potente, grazie ai segreti di quella stagione delle bombe al Nord, e parlando di Berlusconi e dei suoi affari diceva: "Queste persone così potenti dipendono da me". Dopo di che fu visto alzarsi dalla sedia, allargare le braccia e battersi il petto con la mano destra scandendo: "Qui tutto dipende da me". Sono trascorsi gli anni, e qualcosa è cambiato. È sceso in campo il factotum dei Graviano, Salvatore Baiardo, anche lui in giro a seminare messaggi dal tono ricattatorio e allo stesso tempo il boss ha modificato la sua strategia in carcere: non più silenzio, ma sussurri.
Il 1993 è stato uno degli anni più bui della vita della Repubblica, con Roma, Milano e Firenze che divennero scenario di stragi terroristico eversive. Le bombe provocarono la morte di dieci innocenti, il ferimento di 96 persone, danni ingenti e irreparabili al patrimonio artistico. Portarono distruzione, paura e insicurezza, nell'arco di 75 giorni, dal 14 maggio al 28 luglio. L'aggressione mafiosa rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia. All'1,04 del 27 maggio in via dei Georgofili esplode un ordigno collocato in un Fiorino. Muoiono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro bambine Nadia e Caterina, e lo studente Dario Capolicchio, mentre dormivano nelle loro abitazioni. In 38 restano feriti, e viene distrutta la Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, e gravemente danneggiati la Chiesa di Santo Stefano e Cecilia e il complesso degli Uffizi, con danni patrimoniali enormi, per circa trenta miliardi di lire. Gli effetti dell'esplosione si sono propagati per circa dodici ettari nel centro di Firenze. L'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi ha temuto in quel periodo che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese.
I processi che si sono conclusi con pesanti condanne hanno accertato alcune verità. I magistrati evidenziano come "dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell'ideazione e nell'esecuzione delle stragi". Per questo motivo vanno ricordati "alcuni interrogativi rimasti insoluti le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti mandanti a volto coperto".
Come ha detto nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta sulle stragi, partecipando ad un incontro all'università di Pisa: "Si continuerà a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e del pericolo generato per la nostra democrazia, è la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere, la ricerca della verità senza di che non c'è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti". I quesiti irrisolti e gli spunti investigativi riguardano i contatti fra un appartenente all'estrema destra come Paolo Bellini, condannato per la strage del 2 agosto a Bologna e i mafiosi corleonesi nel periodo in cui pensavano alle bombe al Nord. I pm vogliono accertare il ruolo e l'identità di una donna che avrebbe preso parte alla strage di Milano, e se la decisione dei vertici di Cosa nostra di queste stragi fu condivisa con soggetti estranei. E perché dopo aver fallito l'attentato all'Olimpico il 23 gennaio 1994 la campagna stragista si fermò. A marzo di quell'anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale, Silvio Berlusconi divenne il presidente del Consiglio e lo stragismo marcato Cosa nostra si arenò. Le indagini adesso proseguono.
Trent’anni dalla strage dei Gergofili a Firenze: l’ultimo miglio per la verità. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 un’autobomba mafiosa sterminò una famiglia e uccise uno studente. La procura toscana lavora ancora al filone politico della strategia di Cosa nostra. Ecco cosa c’è da sapere su quella stagione di tritolo e patti. Enrico Bellavia su L'Espresso il 25 Maggio 2023
Il 27 maggio, ma in realtà accadde nella notte tra il 26 e il 27, è il 30° anniversario della strage di via dei Georgofili, a Firenze. Cinque i morti e 48 feriti. Persero la vita: la custode dell’Accademia, Angela Fiume, il marito vigile urbano di San Casciano Val di Pesa, Federico Nencioni e le loro figlie, Caterina di appena 50 giorni e Nadia Nencioni, 9 anni. Rimase ucciso anche lo studente palermitano Dario Capolicchio che dormiva con la fidanzata. La ragazza rimase ferita ma si salvò. La madre, Giovanna Maggiani Chelli, scomparsa nel 2019, ha speso la sua vita per la verità sull’eccidio.
La strage di via dei Georgofili arriva a un anno di distanza dall’estate siciliana degli eccidi siciliani del 1992, Capaci e via D’Amelio. Ma il disegno mafioso e non solo è unico. La Cosa nostra corleonese di Totò Riina, dopo il colpo subito con la conclusione del maxiprocesso, all’inizio del 1992, decide di sbarazzarsi dei vecchi collegamenti politici e di eliminare chi l’aveva ostacolata e minacciava di farlo ancora.
Comincia il 12 marzo 1992 con l’eurodeputato Salvo Lima, uomo di Giulio Andreotti in Sicilia e affonda la candidatura del sette volte presidente del Consiglio alla presidenza della Repubblica. All’indomani della strage di Capaci sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro.
La campagna di sangue e tritolo, l’esplosivo che sarà la firma macabra di tutti gli eccidi, consumati e tentati, continua con la strage di Capaci e 58 giorni dopo il 19 luglio del 1992, prossimo 31° anniversario, con l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta (5 poliziotti, tra cui Emanuela Loi, unica donna delle scorte morta in servizio) in via D’Amelio a Palermo.
Lo Stato reagisce con il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi detenuti che vengono trasferiti a Pianosa e all’Asinara. Nel mirino ci sono altri politici, Calogero Mannino (Dc), Claudio Martelli (Psi) e il magistrato Piero Grasso che scampa a un attentato.
Ma sul finire del 1992, Cosa nostra sposta l’attenzione dalla Sicilia al centro nord del Paese. Colpendo il patrimonio storico per dare una prova di forza distruttiva e gettare nel panico istituzioni e popolazione.
Le prove generali, quasi un avvertimento, il 5 novembre del 1992 quando viene fatto trovare un proiettile di artiglieria al Giardino dei Boboli a Firenze.
Il 15 gennaio del 1993 viene arrestato Totò Riina ma la strategia continua. La realizzano: Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, oggi tutti in carcere.
Il primo attentato avviene a Roma, in via Ruggero Fauro ai Parioli, il 14 maggio del 1993: scampano alla morte Maurizio Costanzo e la moglie. Segue, pochi giorni dopo, l’attentato ai Georgofili.
Il 27 luglio 1993 a Milano, un’altra autobomba uccide in via Palestro altre cinque persone. In contemporanea, sempre il 27 a Roma le bombe che non fanno vittime a San Giorgio al Velabro e alla Basilica di San Giovanni.
È in preparazione un ultimo attentato eclatante in via dei Gladiatori a Roma, in occasione di una partita all’Olimpico contro un bus di carabinieri che dovrebbe fare almeno 200 morti. Inizialmente è stato datato a ottobre, poi certamente al 23 gennaio 1994.
Il 26 gennaio del 1994 scende in campo Silvio Berlusconi: con il celebre annuncio tv: “L’Italia è il Paese che amo”
Il 27 gennaio del 1994 a Milano vengono arrestati Giuseppe Graviano e il fratello Filippo. Da quel momento le stragi finiscono.
Perché?
Questo è il cuore del problema: ci si arrovellò il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che in tempi record tra il 1996 e il 2002 concluse i processi contro i mandanti e esecutori mafiosi e morì, stroncato da un infarto, nel 2003 mentre lavorava alla ricostruzione del contesto politico delle stragi. Un lavoro che è tuttora in corso.
Cosa sappiamo?
Nel 2008 inizia a collaborare ufficialmente con la giustizia Gaspare Spatuzza, luogotenente di Graviano. Riscrive lui la vera storia della strage di via D’Amelio e racconta quel che sa, per avervi partecipato, alla ricostruzione delle stragi al Nord. Chiama in causa tra gli altri Francesco Tagliavia. Nella sentenza di condanna di quest’ultimo, a Firenze, 2016, poi ribadita ulteriormente in Cassazione nel 2017, si fa esplicito riferimento alla trattativa.
Ma cos’è questa trattativa?
È pacifico che i carabinieri del generale Mario Mori trattarono con Vito Ciancimino per far cessare le bombe mafiose. Secondo il generale Mario Mori, processato e assolto, il dialogo con l’ex sindaco di Palermo iniziò tra la strage di Capaci e via D’Amelio e si protrasse fino a quando Ciancimino, nel dicembre del 1992 fu arrestato. Un’iniziativa del tutto normale nell’ambito delle prerogative di chi cerca informazioni nell’interesse dello Stato, hanno sostenuto i carabinieri.
Per i magistrati di Palermo, fu proprio la trattativa a convincere i boss dell’arrendevolezza dello Stato e della necessità di altri attentati per far cessare il regime di carcere duro per i mafiosi detenuti.
Cosa non sappiamo?
Gli interrogativi sono molti e riguardano sia le stragi sia il contesto. Perché i boss si esposero alle stragi fin dal 1992, sapendo che la reazione dello Stato sarebbe stata dura, quale calcolo li indusse ad accettare il rischio?
I mafiosi avevano avuto rassicurazioni e da chi?
Spatuzza ci dice che Graviano aveva un canale aperto con Silvio Berlusconi, frattanto entrato in politica legato a un investimento del padre sulla nascita di Milano due. Graviano conferma l’investimento attribuendolo al nonno e lancia segnali senza ammettere un contatto diretto con Berlusconi e con Marcello Dell’Utri. Il suo uomo di fiducia, Vincenzo Baiardo che ne ha custodito la latitanza nel 1993 e nel 1994 fino all’arresto parla invece di contatti mediati da lui e poi al conduttore tv Massimo Giletti avrebbe fatto vedere una foto con Berlusconi e Graviano. Ma lui nega l’esistenza della foto.
A che punto sono le indagini?
Chiuse e riaperte più volte ruotano intorno allo stesso punto: la mafia puntò sul cavallo nuovo, forse per i trascorsi legami. Le stragi cessarono per questo. Ma, la procura di Palermo, ritiene che il nuovo corso fu determinato proprio dalle stragi. Le indagini stanno intanto verificando tutti i movimenti dei Graviano negli anni 92-93 durante la stagione delle bombe. Le vacanze in Versilia e in Sardegna e a Omegna, il paese in cui si era trasferito Baiardo, sul lago d’Orta in Piemonte.
Le misteriose presenze raccontate da Spatuzza e venute fuori dalle inchieste, aprono scenari di compartecipazione al disegno stragista da parte di altri apparati. Spatuzza racconta di un uomo estraneo a Cosa nostra visto nel garage dove si preparava l’autobomba per Borsellino. Dalle testimonianze è emersa la presenza di una donna ben vestita sul teatro della bomba di via Palestro. Nessuno ha mai parlato di donne operative in Cosa nostra. Gli investigatori hanno rintracciato una donna che si dice estranea a tutto che ha condiviso con un suo ex compagno una formazione paramilitare che ricorda molto quella della struttura Gladio.
È doveroso scandagliare in tutte le direzioni, senza riguardi per nessuno. Difficile rintracciare la pistola fumante. Illusorio pensare che Cosa nostra abbia agito su ordine di qualcuno, non è mai accaduto.
Ancora una volta ci viene in soccorso la dottrina di Giovanni Falcone che per i delitti politici di Palermo (Reina, Mattarella, La Torre) parlò di una convergenza di interessi tra mafia e politica. Del resto, senza la politica la mafia sarebbe un’organizzazione criminale e basta. E in molte regioni, anche del Nord, la politica non riesce a liberarsi dell’abbraccio mortale con la mafia.
C’è ancora molto da sapere sulle bombe del 1992-1993. Lo dobbiamo alle vittime e alle generazioni che sono venute dopo. Troppe pagine oscure della nostra storia sono un’ipoteca sul futuro. Ecco perché accanto alle doverose cerimonie è importante non dimenticare che non si tratta solo di celebrare il rito degli anniversari ma di esigere verità su quel che è accaduto. E fin dove è arrivato il livello di compromissione tra mafia e Stato.
Estratto dell'articolo da affaritaliani.it lunedì 2 ottobre 2023.
"Per l’ennesima volta, leggiamo sulla stampa dichiarazioni del signor Salvatore Baiardo che alludono a rapporti di amicizia con la famiglia Berlusconi, nella realtà mai esistiti, e a presunti finanziamenti di origine malavitosa al Gruppo Fininvest, parimenti inesistenti. Non possiamo quindi che ribadire per l’ennesima volta la falsità assoluta delle sue dichiarazioni, acclarata, del resto, da sentenze passate in giudicato ed ulteriori provvedimenti giurisdizionali".
Con queste lapidarie affermazioni l'avvocato Giorgio Perroni, storico legale della famiglia Berlusconi, smentisce categoricamente l'intervista rilasciata da Salvatore Baiardo ad Affaritaliani.it. […]
(ANSA lunedì 2 ottobre 2023) - "Questa fotografia non esiste. Con Giletti si era parlato se c'erano eventuali foto con i Graviano", "ma i Graviano non hanno mai voluto farsi fotografare". E ancora, "è vero che ho incontrato Paolo Berlusconi", per "un aiuto economico ad aprire una gelateria. C'era un rapporto di amicizia con la famiglia Berlusconi" ma "in quei periodi il Cavaliere era inavvicinabile", "non sono riuscito a parlargli. Non è vero che volevo ricattare i Berlusconi. Paolo si è avvalso della facoltà di non rispondere", ma "se l'avessi minacciato mi avrebbe sicuramente denunciato".
Così Salvatore Baiardo parlando con Affaritaliani.it. "Io ho parlato degli incontri - sottolinea l'ex gelataio di Omegna, amico dei fratelli Graviano - così come ne ha parlato lo stesso Graviano nelle ultime deposizioni nel processo sulla 'ndrangheta stragista. Queste cose sono avvenute a Milano, non sul lago d'Orta come dicono i giornalisti. Ma di cosa parlassero non lo so, io li accompagnavo, poi se Graviano mi diceva che parlavano di certe cose… lo diceva lui".
Secondo l'ex gelataio "nelle tre puntate in cui c'è stato Baiardo, e nelle interviste esterne con il Baiardo il programma 'Non è l'Arena' ha fatto visualizzazioni mai fatte, e uno share della madonna - aggiunge -. Non mi sento responsabile della chiusura di 'Non è l'Arena'. Perché Giletti mi ha voltato le spalle? Perché io non sono più voluto stare al suo gioco. Il motivo per cui ho parlato delle foto non posso dirlo, ma qualcuno capisce sicuramente perché non sono più stato al gioco di Giletti e non sono più andato nella sua trasmissione".
Per Baiardo con la morte di Matteo Messina Denaro "uscirà qualcosa sui misteri che ancora ruotano attorno alle stragi e alla trattativa Stato-mafia. Però usciranno a metà dicembre, quando pubblicherò il mio libro. E' anche agli atti che io abbia conosciuto Messina Denaro. Poi ci sono altre cose che non sono agli atti e che ho messo nel libro". "Io ho solo detto chi vedevo, non vedevo, facevo, non facevo in quegli anni - conclude -. Chi se lo immaginava che raccontare oggi cose accadute nel 1989-1990 potesse suscitare un simile polverone. Non avevo interesse a raccontarlo prima, l'ho fatto quando me l'hanno chiesto, nel 2012-13".
Baiardo: "Giletti mi ha voltato le spalle. La foto con Berlusconi non esiste". L'intervista di Affaritaliani.it all'ex gelataio tuttofare dei boss Graviano, al centro dell'indagine sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 di Eleonora Perego il 2 Ottobre 2023 su Affaritaliani.it.
Salvatore Baiardo ad Affari: "GIletti mi ha voltato le spalle. La foto di Graviano con Berlusconi? Non esiste"
Ha deciso di rompere il silenzio Salvatore Baiardo, tuttofare dei boss mafiosi Graviano, indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze nell'ambito della nuova inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993.
Lo ha fatto dopo la decisione del tribunale del Riesame di Firenze, che ha accolto il ricorso della Procura ritenendo fondate le accuse di calunnia nei confronti del conduttore Massimo Giletti e del sindaco di Cerasa, Giancarlo Ricca, disponendo gli arresti domiciliari. Gli stessi non hanno ritenuto sufficientemente provata l’accusa di favoreggiamento a favore di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Uno dei cuori dell’indagine è sempre la fotografia che ritrarrebbe il boss Graviano con l’ex premier e il generale Francesco Delfino. Immagine che secondo il tribunale “sicuramente è stata fatta vedere” a Giletti, al contrario di quello che Baiardo ha detto ai magistrati, sostenendo che il giornalista si fosse inventato tutto (da qui l’accusa di calunnia). Secondo i giudici proprio quella foto può aver causato la chiusura di “Non è l’Arena”. Ma Salvatore Baiardo, in attesa della decisione della Corte di Cassazione – che si dovrà pronunciare perché la misura diventi esecutiva – ha voluto nuovamente replicare, parlando con Affaritaliani.it.
Ranucci e Travaglio ci provano ancora con i pentiti di mafia. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Felice Manti il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.
Se la mafia agisce sostanzialmente indisturbata in questo Paese è perché si passa più tempo a inseguire i fantasmi che a cercare i colpevoli. Il sedicente giornalismo antimafia ci mette del suo, mescolando informazioni e suggestioni, inchieste giudiziarie e kermesse da avanspettacolo, tra selfie, pizzini e Tiktok. Oltraggiando i morti di mafia prima ancora che la verità. Ieri sera Report ha mostrato un’intervista di Paolo Mondani tutt’altro che rubata del 2 marzo scorso a Salvatore Baiardo, manutengolo del boss Giuseppe Graviano e sedicente favoreggiatore della sua latitanza. Tema, la famigerata foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con una polo scura, lo stesso Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, scattata nella primavera del 1992 nei pressi del lago d’Orta (prima delle stragi di Falcone e Borsellino) o forse a luglio dopo via d’Amelio, dallo stesso inaffidabile mafioso. È l’ennesima inchiesta sul Cavaliere, aperta dalla Procura di Firenze, che vorrebbe dimostrare il folle teorema sul ruolo di possibile fiancheggiatore di Cosa nostra nella stagione stragista del ’92-’93 tramite una Forza Italia ancora inesistente. Ai pm Baiardo ha detto che sono fesserie, ai giornalisti dice che le foto esistono.
Ma la storia giudiziaria non si fa con i se, né con foto fantasma. E infatti in tribunale questa ipotesi si è disgregata più volte. Ora, che qualcuno insista su questa narrazione ci può stare. Il conduttore di Report Sigfrido Ranucci da sempre mescola teorie un po’ claudicanti a ipotesi televisivamente suggestive. Lo stesso dicasi per il Fatto quotidiano, che ha nel mascariamento di Berlusconi la sua ragione fondante.
Ci sta anche che Baiardo, ansioso di scrivere un libro e di raggranellare due spicci, alzi la posta tra una comparsata tv e un video su Tiktok (sic), a maggior ragione dopo che Massimo Giletti, il primo a cui aveva promesso la foto che il giornalista avrebbe pure visto nel luglio del 2022, a distanza e senza riconoscere né Graviano né Berlusconi, è saltato per aria assieme alla sua trasmissione su La7, chiusa improvvisamente e senza spiegazioni dall’editore Urbano Cairo.
Chi ha visto il servizio intuisce facilmente che Baiardo sa di essere registrato da Report, tanto che si lascia andare a frasi come «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto». Quale libro? Si sa il titolo, Le verità di Baiardo, manca un editore che potrebbe essere il Fatto, chissà. Secondo la ricostruzione di Giacomo Amadori sulla Verità Baiardo avrebbe mandato a Giletti un selfie con Mondani, con un messaggino tipo «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». In mezzo a questa trattativa commerciale (Baiardo ha già intascato da La7 un bel gruzzoletto, forse un anticipo sulle foto?) ci sono quelle politiche su ergastolo ostativo e i soliti veleni sul Ros dei carabinieri per la cattura di Matteo Messina Denaro. Con il servizio pubblico che si presta a fare da megafono a queste illazioni, alla stregua di Tiktok.
Estratto dell'articolo di Marco Lillo per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.
Sarà un’udienza davvero interessante quella che si svolgerà, purtroppo in camera di consiglio quindi senza il pubblico, davanti al Tribunale del Riesame di Firenze il 14 luglio prossimo.
Il collegio dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di arresto dell’ex favoreggiatore dei boss Graviano Salvatore Baiardo, presentata dai pm di Firenze il 28 aprile e rigettata dal Gip Antonella Zatini il 26 maggio scorso.
Le carte depositate, circa 1.500 pagine, non riguardano evidentemente solo il destino dell’ex gelataio di Omegna, difeso dall’avvocato Elisa Bergamo e dall’avvocato Carlo Fabbri, ma incidentalmente investono un pezzo della storia d’Italia recente. Le accuse rivolte dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli e dal sostituto Lorenzo Gestri a Baiardo sono quelle di favoreggiamento a Berlusconi e Dell’Utri con l’aggravante dell’agevolazione dell’organizzazione mafiosa e di calunnia ai danni di Massimo Giletti.
Baiardo è stato già arrestato nel 1995 e condannato nel 1997 in appello a 2 anni e due mesi per favoreggiamento semplice ai due boss della mafia, Filippo e Giuseppe Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi e gli attentati di mafia del 1992 in Sicilia e del 1993 in “Continente”.
La novità è che i pm fiorentini, competenti sulle stragi di Firenze e Milano (10 morti) e sugli attentati di Roma del 1993 e 1994 ora indagano di nuovo Baiardo per favoreggiamento ma non dei boss bensì dei presunti e ipotetici mandanti esterni. La tesi dei pm è che, (dopo le stragi e gli attentati del biennio 1993-1994 per i quali sono stati condannati anche i suddetti boss Graviano e sono stati indagati Dell’Utri e Berlusconi) Baiardo avrebbe aiutato proprio Berlusconi e Dell’Utri a eludere le investigazioni con i suoi comportamenti recenti.
La parte “politicamente” più sensibile’ dell’accusa è la contestazione dell’agevolazione mafiosa ex articolo 416 bis n.1. Baiardo avrebbe favorito gli indagati celebri “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”. Sono accuse pesantissime tutte da riscontrare che il Gip, nella sua ordinanza di rigetto, non ha recepito.
Non deve stupire che la richiesta di custodia cautelare citi Berlusconi come ipotetico “favoreggiato” da Baiardo perché i pm fiorentini l’hanno presentata a maggio, prima della morte del Cavaliere. Premesso che l’accusa di strage in relazione ai fatti del 1993-94 contro Berlusconi e Dell’Utri è già stata archiviata più volte su richiesta degli stessi pm di Firenze e premesso che il Gip nella sua ordinanza non ritiene provato il favoreggiamento di Baiardo, l’esistenza dei rapporti tra Berlusconi e Dell’Utri con i fratelli Graviano e l’esistenza di una foto ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano, analizziamo le ragioni dei pm fiorentini.
La Procura voleva arrestare Baiardo e dopo il rigetto ha reiterato la richiesta nell’appello presentato al Riesame il 5 giugno scorso perché Baiardo avrebbe fornito indicazioni mendaci e, comunque, reticenti sulle reali ragioni dell'incontro intercorso il 14 febbraio 2011 con Paolo Berlusconi, realmente avvenuto, dopo aver cercato infruttuosamente il contatto con il fratello Silvio, all'epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, il 3 febbraio precedente dello stesso anno. Per i pm avrebbe mentito “per non far emergere i rapporti tra costoro e i fratelli Graviano”. Non solo. Baiardo avrebbe negato l’esistenza della fotografia ritraente Berlusconi e Giuseppe Graviano di cui aveva asseverato l’esistenza a Giletti.
Infine avrebbe mentito nelle sue dirette e parlando a un giornalista de Domani (che correttamente riportava le sue dichiarazioni) intossicando l’informazione. Per i pm, Baiardo avrebbe compiuto il reato di favoreggiamento perché avrebbe fatto dichiarazioni mirate a “ricostruire i rapporti esistenti tra i citati Giuseppe e Filippo Graviano e gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in modo difforme rispetto a quanto realmente accaduto, dosandole abilmente con narrati veridici”.
Come è noto Massimo Giletti ha raccontato che Baiardo gli mostrò fugacemente una foto che, a dire del gelataio, ritrarrebbe Berlusconi con Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, scattata probabilmente nel 1992 sul lago d’Orta. Anche a Paolo Mondani di Report Baiardo ha accreditato l’esistenza della foto (sarebbero addirittura tre) di Graviano con Berlusconi. Poi però subito dopo su Tik Tok Baiardo ha smentito l’esistenza delle foto dando la colpa ai giornalisti.
Per il Gip Baiardo è in mala fede ma la sua condotta non arriva a configurare la calunnia.
I pm fiorentini non ci stanno e hanno depositato un appello di 50 pagine per contestare il rigetto dell’arresto. Uno dei puntelli alla tesi dei pm Turco, Tescaroli e Gestri risiede proprio nelle dichiarazioni a verbale davanti ai pm stessi di Baiardo sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede de Il Giornale a Milano il 14 febbraio 2011.
(...)
Baiardo raccontò ai pm “Già conoscevo Paolo Berlusconi, lo avevo incontrato all’Hotel Quark di Milano dove avevo accompagnato una o due volte nel corso del 1992 Giuseppe Graviano; compresi dal primo incontro, cui ho assistito, che i due Berlusconi e Giuseppe Graviano, già si conoscevano; Graviano si è presentato con il proprio nome”.
Tutte affermazioni negate dai diretti interessati e considerate non riscontrate dal Gip.
La caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia. Scomparsa Kata e le priorità della procura di Firenze: indagare il defunto Berlusconi ‘grazie’ al gelataio Baiardo. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 27 Giugno 2023
La Procura del capoluogo toscano, dopo ben cinque procedimenti chiusi già nella fase delle indagini preliminari, pare sia ad una “svolta” nella ormai pluridecennale caccia ai mandanti esterni per le stragi di mafia del 1993, ad iniziare proprio da quella fiorentina di via dei Georgofili. I procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, per puntellare il quadro accusatorio che vede indagati Silvio Berlusconi, scomparso l’altra settimana, e Marcello Dell’Utri, hanno tirato fuori dal cilindro Salvatore Baiardo, il folcloristico gelataio di Omegna che in passato era stato condannato per aver favorito la latitanza dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ex boss del quartiere Brancaccio di Palermo.
Baiardo sembra destinato a prendere il posto di Massimo Ciancimino, il finto pentito le cui dichiarazioni diedero il via al processo Trattativa Stato-mafia, poi conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il gelataio di Omegna, infatti, è quello che mancava nel quanto mai variegato panorama delle piste investigative seguite fino ad oggi, senza grandi risultati, dagli inquirenti fiorentini. Personaggio a dir poco “esuberante” e per i quali i Pm fiorentini avevano chiesto al gip, senza ottenerlo, l’arresto (l’udienza per il ricorso è prevista il prossimo 14 luglio, ndr) aveva fatto la sua comparsa nei mesi scorsi nei programmi di punta del giornalismo d’inchiesta: Report e Non è L’Arena.
Fra le “primizie” per i fedelissimi di Sigfrido Ranucci e Massimo Giletti, vi fu certamene quella di aver detto di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa su cui il magistrato Paolo Borsellino annotava i suoi appunti riservati in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Attraverso TikTok, il social cinese utilizzato per comunicare ai suoi numerosi follower, Baiardo aveva poi smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver voluto prendere in giro i segugi di Report.
Il meglio di sé, però, il gelataio di Omegna lo aveva dato con Giletti, mostrandogli da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a suo dire ci sarebbe stati ritratti Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. I tre sarebbero stati immortalati sulle sponde del lago d’Orta, in Piemonte, prima del 1994, anno in cui Graviano è finito in carcere senza più uscire in quanto al sottoposto al regime del 41 bis con tutti i divieti possibili. Ed è proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla Procura, che i magistrati fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta per dimostrare il contatto fra Graviano, il mafioso stragista, e Berlusconi, il mandante delle stragi. Il tutto sotto la supervisione del generale della Benemerita Delfino.
Dei tre in foto l’unico ancora in vita è Graviano. Berlusconi, prima di morire, ha sempre smentito tramite i suoi legali tale incontro lacustre. Delfino è morto già da diversi anni in una casa di riposo a Santa Marinella, paese sul litorale laziale. Degrado a soldato semplice al termine di procedimento disciplinare a seguito del coinvolgimento nel procedimento per il sequestro dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini, ai suoi funerali non aveva partecipato nessun rappresentante dell’Arma.
Il procedimento sulle stragi del 1993 della Procura di Firenze ha raccolto alcuni dei teoremi della vecchia inchiesta “Sistemi criminali” condotta dagli ex Pm palermitani Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato e archiviata nel 2000. In particolare, torna l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati, un “terzo livello” composto da potenti massoni, imprenditori, piduisti, e mafiosi assortiti che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel Paese.
Il teorema della Procura di Firenze stride, però, con le risultanze del processo Trattativa Stato-mafia, ormai conclusosi con sentenza definitiva. Secondo quest’ultimo procedimento, Dell’Utri sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi. Secondo la tesi dei Pm fiorentini che vogliono arrestare Baiardo per favoreggiamento, invece, l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. La domanda che bisognerebbe porsi è per quale motivo, allora, era necessario “minacciare” lo Stato se nel contempo venivano poste in essere le stragi.
La ricostruzione fiorentina ha, poi, un “paletto” temporale: durante le stragi del 1992-93, infatti, Berlusconi non aveva ancora fondato Forza Italia ed appoggiava i Pm di Mani pulite. Il sostegno al governo Berlusconi uno è emerso durante il processo Borsellino Ter. Sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra a Forza Italia in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro). Nessuno dei tre mafiosi ha mai fatto comunque riferimento a contatti tra Cosa nostra e Berlusconi già nel 1992, nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Il teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi ha tutta l’aria di essere un tarocco. Forse in procura a Firenze anziché di Berlusconi avrebbero fatto meglio ad occuparsi dello sgombero dell’ ex Astor e della piccola Kata… Paolo Pandolfini
Perché Salvatore Baiardo non è stato arrestato: c’è un giudice a Firenze. Respinta la richiesta dei pm fiorentini. Volevano le manette per favoreggiamento nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi. La gip avrà sbarrato gli occhi...Tiziana Maiolo su L'Unità il 27 Giugno 2023
Doveva capitare, prima o poi, che arrivasse un giudice a Firenze a vagliare l’eterna attività di indagine dei “Due Luca”, gli aggiunti Turco e Tescaroli, e le loro fatiche sui “mandanti” delle stragi del 1993, trent’anni fa esatti. Forse, nel chiedere l’arresto del giocoliere un po’ mafioso un po’ contaballe Salvatore Baiardo, i “Due Luca” hanno fatto un passo falso. O forse erano troppo sicuri di sé.
Fatto sta che per la prima volta hanno perso: richiesta respinta. Parevano intoccabili. Quello che invece pare sempre “toccabile” è Silvio Berlusconi, che continua a essere oggetto dell’attenzione di questi magistrati e dei loro portaborse di redazione, pur se formalmente non dovrebbe essere così, da quando se ne è andato. In ogni caso un giudice a Firenze c’è. Si chiama Antonella Zatini, è stata sommersa da mille e cinquecento pagine con cui i “Due Luca” le chiedevano di arrestare Baiardo con due imputazioni. La calunnia nei confronti di Massimo Giletti, il quale aveva messo a verbale di aver visto nelle mani del gelataio la famosa foto in cui aveva riconosciuto un Berlusconi giovane, ma non le altre due persone, che avrebbero dovuto essere il generale Francesco Delfino (un altro che non potrà testimoniare, perché non c’è più) e il boss Giuseppe Graviano.
Poiché Giletti è attendibile, ed è stato anche intercettato mentre parlava della foto con Baiardo, la successiva smentita di questi è una calunnia nei confronti del presentatore. Perché? Perché è come se lo accusasse di aver reso false dichiarazioni al pm, dicono i “Due Luca”. Ma va là, replica la gip. Poi il gelataio avrebbe anche calunniato il “pentito” aureo Gaspare Spatuzza, il più intoccabile di tutti perché ha ristabilito qualche verità sull’omicidio Borsellino, facendo anche scarcerare quindici innocenti per la cui ingiusta detenzione non ha pagato nessuno. Il gelataio ha cercato di screditarlo, dicono i pm. Ma ancora non basta. Il colpo grosso, quello su cui, immaginiamo, la gip e con lei qualunque persona dotata di buon senso abbia sbarrato occhi e orecchi, è l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ebbene si, secondo il ragionamento dei procuratori aggiunti di Firenze (a proposito che cosa aspetta il Csm a nominare un capo dell’ufficio che venga a mettere un po’ di ordine in questo guazzabuglio?) questo gelataio avrebbe messo in piedi tutta questa storia della foto per fare un favore a Berlusconi e Dell’Utri. Ma non basta. Lo avrebbe fatto “con l’aggravante di aver agevolato l’associazione denominata cosa nostra, interessata a non compromettere le figure di Silvio Berlusconi, quale referente istituzionale, e Marcello Dell’Utri, legato all’organizzazione, ed entrambi parti, secondo l’ipotesi d’accusa, dell’accordo stragista, funzionale allo scambio tra il compimento dei delitti citati e interventi sulla legislazione afferente, fra l’altro, al regime detentivo applicato ai detenuti per mafia”.
Non c’è da stupirsi del fatto che una giudice non abbia accolto una simile richiesta. Basterebbe aver letto qualche giornale per sapere che i governi Berlusconi sono stati, anche contro la parte più liberale di Forza Italia, i più repressivi e intransigenti nell’applicazione degli articoli 4-bis e 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei confronti di mafiosi e terroristi. In che cosa sarebbe consistito dunque lo scambio mafioso? I due leader di Forza Italia avrebbero chiesto, non si sa perché, ai boss mafiosi di fare per conto loro un po’ di stragi, e in cambio Cosa Nostra che cosa avrebbe ricavato? Niente. Non è un caso se questa ipotesi è stata già archiviata quattro volte.
Per fortuna è arrivata una giudice. Di cui non vogliamo sapere se e a quale corrente della magistratura appartenga. Ci basta che sia una che ragiona e che legge le carte, anche se i pm l’hanno sepolta sotto quindicimila fogli. Per ora ha rigettato l’ipotesi dell’accusa perché non ritiene ci sia nessuna prova di rapporti tra Berlusconi e Graviano e perché nutre “seri dubbi” che la famosa foto esista davvero. Anche per quel che riguarda la calunnia, la gip non pensa sia tale. Insomma Baiardo è solo un piccolo imbroglione.
Per quale motivo dovrebbe dunque mettergli le manette ai polsi? Il non detto è che, dopo un po’ di carcere, un po’ di torchiatura, le risposte possono ammorbidirsi, adeguarsi e voila, magari adattarsi perfettamente all’ipotesi dell’accusa. I “Due Luca” non demordono, hanno fatto ricorso al tribunale del riesame contro la decisione della gip. Ci riaggiorniamo quindi al 14 luglio, giorno dell’udienza in camera di consiglio. Udienza non pubblica, ma tanto si saprà tutto, come sempre.
Tiziana Maiolo 27 Giugno 2023
Giletti, Baiardo e le bombe. Indagine su Non è l’Arena, i Pm interrogano pure Cairo. I magistrati fiorentini gli chiederanno perché ha chiuso in anticipo “Non è l’Arena”. Le tentano tutte per tenere in vita la loro indagine eterna... Tiziana Maiolo su L'Unità il 21 Giugno 2023
Urbano Cairo davanti ai pubblici ministeri di Firenze. A parlare di stragi, come fosse cosa normale, come non fossero passati trent’anni da quelle bombe disseminate tra Milano Firenze e Roma nel 1993, come non si conoscessero già i responsabili, processati e condannati. L’editore di Corriere della sera e La 7 sarà interrogato (o forse lo è già stato, alla chetichella), nella veste di persona informata dei fatti. Formalmente un testimone, senza avvocato quindi.
Nudo e inerme di fronte alla forza dello Stato, rappresentato dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, che gli chiederanno conto di una sua scelta editoriale, cioè di aver anticipato di un mese la sospensione del programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti. Il contratto del presentatore era in scadenza a luglio, inoltre la trasmissione era molto costosa e il bilancio decisamente in perdita. Quindi si è deciso di anticiparne la chiusura e di risparmiare qualche centinaio di migliaia di euro. Questa la spiegazione dell’azienda del 13 aprile scorso, alla vigilia della puntata numero 195. Si chiama libero mercato.
Un concetto forse estraneo a qualche burocrate che ha solo vinto un concorso. Infatti, che cosa potrebbe mai spiegare un imprenditore sulle ragioni di una scelta di tipo economico? Potrebbe solo dire quel che ha già detto a chi glielo ha chiesto: la decisione è stata aziendale, non siamo abituati a ricevere suggerimenti e nessuno ci ha chiesto di “mettere a tacere” Massimo Giletti. Del resto la notizia non avrebbe meritato più di, come si dice in gergo giornalistico, una breve in cronaca, non fosse che esistono due o tre quotidiani italiani che si nutrono di trasmissioni che sembrano tribunali del popolo, e “Non è l’arena” era una di quelle.
Quello che stupisce è il comportamento dei magistrati della Procura di Firenze. Hanno sempre mostrato molta sicurezza sulla propria ipotesi accusatoria nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle bombe. E questo nonostante quattro precedenti inchieste sullo stesso tema fossero state archiviate. Pure, questo fascicolo viene continuamente rinnovato e arricchito, come un elastico che alternativamente si tende e si rilascia ma non trova mai un suo punto di equilibrio. Si ha la sensazione che si sia capovolta la prassi che vede i giornalisti come utilizzatori finali dei verbali secretati delle Procure. Pare oggi che siano i magistrati ad andare a rimorchio delle notizie (o non notizie) di stampa a Tv. Il che fa pensare che, se non ci fossero stati i nutrimenti di qualche quotidiano o di trasmissioni come quella di Giletti o “Report” di Rai 3, il 31 dicembre del 2022, ultima scadenza prevista dell’inchiesta, avremmo assistito alla quinta archiviazione, su richiesta degli stessi pm Tescaroli e Turco.
Ma è comparso il gelataio Salvatore Baiardo e ha messo un po’ di carne al fuoco. Alla maniera sua, ovviamente, un po’ mafioso un po’ giocoliere, carta vince carta perde. Da quando gli ha mostrato, da lontano e in penombra, una foto in cui il conduttore tv ha ritenuto di riconoscere un Silvio Berlusconi più giovane, Massimo Giletti non ha più avuto pace: interrogato tre volte dai pm fiorentini, e due volte spiato e teleripreso mentre si incontrava con Baiardo a Roma per preparare le sue trasmissioni. La foto, qualora esistesse, mostrerebbe il fondatore di Forza Italia, intorno al 1992, con il generale Delfino dei carabinieri e Giuseppe Graviano. Sarebbe una “prova” del rapporto tra Berlusconi e un mafioso condannato per strage.
Un mafioso che oltre a tutto, anche lui con metodi un po’ da piccolo truffatore, continua a rivendicare un presunto credito di famiglia, in quanto il nonno avrebbe finanziato la nascita di Fininvest. Naturalmente non c’ è nessuna prova che possa attestare questa “verità”, e casualmente tutti coloro che potrebbero testimoniarla sono morti. Berlusconi compreso, a questo punto. E il ricatto, cui però l’ex presidente del consiglio si è sempre sottratto mostrando indifferenza, non vale più. Perché dunque avrebbe chiesto a Cairo (questo vorrebbero sentirsi dire i pm) di bloccare la trasmissione?
Intanto gli stessi magistrati hanno fatto perquisire la casa di Baiardo, ovviamente la foto non è saltata fuori, e hanno cercato anche di farlo arrestare. E’ stato così che abbiamo scoperto il fatto che anche a Firenze, non solo a Berlino, esiste un giudice. Il quale non ha accolto la richiesta, forse ritenendola solo un mezzuccio per fare pressione su Baiardo per fargli dire la verità. Ma il gelataio ha già usato altri mezzi di comunicazione, come Tik Tok, per ritrattare tutto. Nel frattempo però si fa avanti anche “Report” del 23 maggio a rivendicare che in un’intervista rilasciata al giornalista Paolo Mondani mesi prima e registrata con telecamera nascosta, Baiardo aveva parlato della foto, anzi aveva rilanciato citandone tre. Che nessuno ha mai visto, ovviamente.
L’indomani sarà ancora Tik Tok a ospitare la smentita indignata del gelataio. Che continua a minacciare, non si sa bene chi, con l’uscita di un libro, di cui per ora non c’è traccia. Quello che continuiamo a domandarci, visto che c’è un giudice a Firenze, è perché non chieda conto a questi pm di questo uso così disinvolto dell’indagine eterna per fatti di trent’anni fa, tra una proroga e l’altra, senza uno straccio di prova, ormai al servizio di qualche trasmissione pruriginosa. Tiziana Maiolo 21 Giugno 2023
Il giocoliere. Giornalisti e pm al guinzaglio di Baiardo: la caccia alle foto di Berlusconi è un gioco delle tre carte. Tiziana Maiolo su L'Unità il 24 Maggio 2023
Placido e beffardo, lui, il gelataio Salvatore Baiardo, se li porta in giro tutti come cagnolini al guinzaglio, pubblici ministeri e giornalisti. Loro, dai pm fiorentini Tescaroli e Turco, i due Luca, oltre alla squadretta dei cronisti del Fatto e di Report, sono alla caccia della (o delle) fotografie che inchioderebbero Silvio Berlusconi seduto al bar con il generale dei carabinieri Francesco Delfino e con un mafioso stragista come Giuseppe Graviano. La (le) cercano e non la (le) trovano. Un po’ come “io cerco la Titina, la cerco e non la trovo”, la canzone resa famosa da Charlie Chaplin che la cantava in Tempi moderni, ma soprattutto nella sua versione grammelot senza costrutto e con il guazzabuglio delle lingue mescolate. Ecco, questa ricerca della foto che non c’è è un po’ il simbolo di questa inchiesta della Dda fiorentina sui “mandanti” delle bombe del 1993. Quelle che nelle intenzioni, nonostante l’impiego di quantitativi enormi di esplosivo, avrebbero dovuto essere più “simboli” che stragi. Lo dice senza mezzi termini anche la sentenza d’appello del processo “Trattativa Stato-mafia”, che quei dieci morti a Firenze e Milano non erano stati programmati. Il che naturalmente nulla toglie alla gravità di quegli attacchi dal forte sapore terroristico.
Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, che coordina la Dda di Firenze dopo aver maturato la propria esperienza di magistrato “antimafia” in Sicilia, in un’intervista al quotidiano Nazione-Carlino-Giorno, parla della ricerca dei “mandanti” di quelle stragi in questi termini: “Se dovessimo usare una metafora potremmo dire che il bicchiere è quasi pieno ma non ancora completamente”. Incoraggiante. Se non fosse per almeno due buoni motivi, che ci permettiamo di ricordare all’illustre magistrato. Il primo: la procura di Firenze sta indagando su due persone, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, le cui posizioni sono state archiviate, per gli stessi fatti, già tre volte in quegli stessi uffici siciliani che il dotto Tescaroli ben conosce. Secondo: questa ultima inchiesta avrebbe dovuto essere chiusa entro il 31 dicembre 2022. L’ha riaperta il gelataio Baiardo. Ci dica lei, dottor Tescaroli, se le pare una cosa seria.
I giornalisti con il bollino blu dell’antimafia, come Marco Lillo del Fatto, lo definiscono un giocatore di poker. A noi Salvatore Baiardo ricorda di più uno di quelli del “carta vince, carta perde”, quelli che stanno su uno sgabellino sul marciapiedi e ti danno prima l’illusione lasciandoti vincere, e poi sferrano la mazzata e ti tolgono anche la casa e la fidanzata. Se a questo profilo aggiungi anche quel pizzico di mafiosità che deriva da una condanna per aver aiutato programmatori di stragi ed esecutori di omicidi di Cosa Nostra, ecco la foto, quella esistente e vera, di Salvatore Baiardo.
Fa il giocoliere, e l’abbiamo visto l’ultima volta lunedì sera a Report, dopo averlo già conosciuto al fianco di un affaticato Giletti, che però non si fidava del tutto, non avendo forse il cinismo degli uomini di Ranucci. Il gioco delle tre carte del gelataio consiste in questo: una versione per i giornalisti, una per i magistrati e l’altra per Tik Tok. Con la carotina per tutti del suo libro, che Il Fatto prevede in uscita il 20 giugno con la casa editrice Frascati e Serradifalco. Lì ci saranno le foto di Berlusconi con Graviano? Certo, basta cercarle. E trovarle, così come non fu trovato il mitico documento che avrebbe attestato il finanziamento da parte del nonno dei fratelli Graviano alle prime iniziative imprenditoriali del leader di Forza Italia.
A Massimo Giletti, Baiardo aveva parlato di una sola foto, anzi gliela aveva addirittura mostrata, però al buio e da lontano. Il conduttore di “Non è l’arena” ha riconosciuto con certezza un più giovane Berlusconi, e forse il generale Delfino, personaggio molto conosciuto degli anni novanta e che ora non c’è più e non potrà dare alcuna testimonianza su quello scatto, forse di polaroid e in bianconero. Solo Baiardo, o qualche boss di Cosa Nostra potrebbe dire con certezza (se la foto esistesse), se il terzo uomo, poco più di un ragazzino al tempo, fosse Giuseppe Graviano. In ogni caso, davanti ai magistrati Baiardo ha negato tutto e ancor di più ha irriso i giornalisti creduloni su Tik Tok. Poi Giletti è uscito di scena con la chiusura improvvisa del programma e il pallino passa a Paolo Mondani di Report, vecchia conoscenza del gelataio, che lo interroga davanti a un cornetto in pasticceria e con telecamera nascosta. Macché nascosta, sfotte il giocoliere: l’ho preso in giro perché ho capito subito che mi stava video-registrando. E parla delle tre foto. I magistrati acquisiscono, in accordo con il cronista.
Ma c’è uno scivolone politico, in cui incorrono tutti e tre i soggetti, magistrati, giornalisti e gelataio giocoliere. Le foto sarebbero del 1992, e secondo Baiardo gli incontri con il boss di Cosa Nostra sarebbero finalizzati alla nascita di Forza Italia e la presa del potere da parte di Berlusconi a suon di bombe e stragi. 1992? Forza Italia? Nella prima repubblica e con i governi Andreotti e Amato? Signor Baiardo, aggiusti un po’ le date, mentre porta a passeggio con il guinzaglio pubblici ministeri e giornalisti. Tiziana Maiolo
Da Gelli a Meloni, tutto si tiene. “Report” è meglio di Netflix. SALVATORE MERLO su Il Foglio il 24 maggio 2023.
E’ la trasmissione d’intrattenimento migliore della televisione italiana. Anzi mondiale. Lunedì sera in poco più di un’ora è andato in onda il romanzo delle stragi mafiose. Altro che Sorrentino
Da Licio Gelli a Giorgia Meloni, il romanzo delle stragi. Gli inglesi hanno avuto Ian Fleming e James Bond, John le Carré e Graham Greene, noi abbiamo “Report” e Sigfrido Ranucci su Rai 3, la fantastica macchina visiva, la fiabesca, inesauribile dispensatrice di immagini e parole: che la nuova Rai non ce li tocchi. Guai a lei. E lo diciamo seriamente. “Report” non si tocca! Lunedì sera per oltre un ora, davanti al teleschermo, sul divano, anziché guardare “The diplomat” su Netflix, siamo rimasti incantati davanti a un’opera che dovrebbe essere recensita da Mariarosa Mancuso o Paolo Mereghetti: collusioni tra mafia, politica, carabinieri, terrorismo, massoneria, servizi segreti italiani e americani fluttuavano come gas (o palline da ping pong) sulle pareti, le poltroncine, il tappeto e il tavolino da caffè del soggiorno di casa.
Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” il 24 maggio 2023.
Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell’ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del ‘93. Raggiunto da Report , Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto — di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati — che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. […]
Le immagini sarebbero tre, tutte scattate nella primavera del 1992 in un bar sul lago d’Orta […] di quello scatto sarebbe a conoscenza anche Paolo Berlusconi. Le parole registrate da Report con una telecamera nascosta sono finite subito sul tavolo dei magistrati fiorentini, perché incrociano le dichiarazioni intercettate dagli investigatori e la testimonianza di Giletti, al quale l’editore diLa7 , Urbano Cairo, ha chiuso (i motivi non sono mai stati chiariti) la trasmissione televisiva mentre aveva in scaletta la preparazione di servizi giornalistici proprio su questi fatti.
Lo scorso luglio Giletti aveva intervistato per la prima volta Baiardo per una puntata speciale sulla mafia della sua trasmissione Non è l’Arena su La7 ,dopo averlo visto parlare a Reportai microfoni di Paolo Mondani. In quell’occasione, per accreditare la propria attendibilità con Giletti, il fiancheggiatore dei Graviano aveva mostrato un’immagine con tre persone. «Me l’ha fatta vedere, senza consegnarmela, tenendola lontana da me — la testimonianza del giornalista — eravamo in un bar a Castano, vicino a Milano.
Mi è parsa una foto del tipo di quelle da macchinetta usa e getta, ho visto tre persone sedute a un tavolino. Berlusconi l’ho riconosciuto, era giovane, credo fosse una foto degli anni ‘90, sono certo fosse lui anche perché in quel periodo lo seguivo giornalisticamente». Ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, Giletti ha spiegato perché Baiardo gli ha mostrato il documento: «Perché ho sempre messo in dubbio le sue dichiarazioni». Il giornalista ha aggiunto anche altri dettagli delle confidenze raccolte dal fiancheggiatore dei Graviano, come le telefonate che lo stesso avrebbe ricevuto sul suo telefono — ma destinate al boss — da Marcello Dell’Utri. Lo stesso Dell’Utri che, intercettato, si lamentava delle trasmissioni televisive che Giletti aveva messo in onda sulla mafia.
Salvatore Baiardo, Report e le tre foto di Berlusconi con Giuseppe Graviano: «Le ho fatte io». Alessandro D’Amato su Open.online il 24 maggio 2023.
Le immagini del caso Giletti-Non è l’Arena e le profezie dell’uomo condannato per aver favorito la latitanza dei boss di Brancaccio
Le foto che ritraggono Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino sono tre. Li mostrano seduti a un bar sul lago d’Orta. La data è il 1992. E a scattare le tre Polaroid sarebbe stato proprio Salvatore Baiardo. Che oggi nega l’esistenza degli scatti. Ma che ha detto invece di averle riprese in una registrazione (a sua insaputa) in cui parla con Paolo Mondani di Report. Si tratta delle immagini che Baiardo ha mostrato a Massimo Giletti secondo la testimonianza del conduttore a Firenze, dove si indaga sulle stragi del 1993. E che il gelataio condannato per aver aiutato la latitanza di Madre Natura ha minacciato di voler pubblicare in un libro. Ovvero nell’autobiografia che sta preparando. E che si intitolerà “Le verità di Baiardo“.
Non è l’Arena, gli scatti e i ricatti
Nel verbale il conduttore di Non è l’Arena ha detto ai pm che indagano a Firenze che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Mentre l’ex favoreggiatore dei fratelli Graviano ha subito una perquisizione a marzo. Senza alcun esito. Luca Tescaroli e Luca Turco indagano sulle stragi di Firenze, Milano e Roma. Che si verificarono dopo l’arresto di Totò Riina. E che vedono protagonista tra gli ideatori Matteo Messina Denaro. Mentre viene ripreso a sua insaputa dalle telecamere di Report Baiardo racconta alcuni dettagli sulle fotografie. Le avrebbe scattate lui personalmente. Risalgono a dopo la morte di Paolo Borsellino. E sono collegate alla discesa in campo del Cavaliere: «Nel ’92 era in ballo la nascita di Forza Italia». Berlusconi avrebbe saputo di queste foto perché Baiardo le mostrò al fratello Paolo durante l’incontro tra i due nella sede de Il Giornale.
Cosa succede a marzo?
La Verità oggi racconta che il 2 marzo scorso Baiardo ha mandato a Giletti lo scatto che lo ritrae insieme a Mondani di Report. Gli dice anche che “loro” (cioè la trasmissione) «ricominciano ad aprile, vogliono farla con Netflix». Fa capire al conduttore che lui e Mondani hanno parlato delle foto. E gli dice che a Report sapevano già tutto, sospettando che sia stato lui a parlargliene. Giletti nega. Baiardo dice di aver fatto finta di cadere dalle nuvole. Poi tira fuori un’altra “profezia” delle sue. Dice che dopo il giorno 8 marzo «ne usciranno delle belle». Quello è il giorno in cui la Cassazione deve decidere sulla riforma dell’ergastolo ostativo del governo Meloni. Il 27 marzo la procura di Firenze perquisisce Baiardo. Ma le foto non si trovano. Baiardo intanto smentisce Giletti su Tiktok riguardo la foto.
Le profezie e le istantanee
Baiardo è l’uomo della “profezia” su Matteo Messina Denaro. In un’intervista a Non è l’Arena si era detto convinto che il superlatitante si sarebbe fatto catturare attraverso un accordo. Nei tempi però Baiardo ha parlato un po’ di tutto. Ha profetizzato che Giletti non sarebbe tornato in Rai, ma gli ha consigliato di aprirsi un canale YouTube. Ha provato a rimediare pubblicità per la trasmissione in crisi per l’Auditel. Avrebbe anche detto: «La foto non posso consegnarla se prima non ne parlo con Graviano». Il 26 aprile scorso Mondani è stato ascoltato dalla procura di Firenze. Che ha acquisito anche le immagini dei suoi dialoghi con Baiardo. A parlarne oggi è anche il Fatto Quotidiano.
La versione di Giuseppe Graviano
Giuseppe Graviano ha dato la sua versione dei fatti riguardo gli incontri con Berlusconi. In un memoriale consegnato tre anni fa ai giudici durante il processo ‘Ndrangheta Stragista ha detto che «la morte di mio padre, i rapporti di Totuccio Contorno con la procura di Palermo, quelli del gruppo di Bontate con Berlusconi, gli investimenti finanziari di alcuni imprenditori di Palermo a Milano, la strage di via d’Amelio» fanno parte di una vicenda collegata. Madre Natura ha sostenuto che dell’omicidio del padre, imprenditore «e incensurato» Michele Graviano, per il quale si è accusato Tanino Grado, sarebbe invece anche responsabile il pentito Totuccio Contorno. Graviano ha accusato anche «il pool della procura di Palermo, composto da Falcone, Chinnici e altri» di aver consentito a Contorno di commettere «una serie sconfinata di omicidi» che non avrebbe mai confessato.
Gli investimenti dei palermitani a Milano
Poi c’è il racconto dei 20 miliardi dei palermitani a Milano. Tra 1970 e 1972 suo nonno materno Filippo Quartararo ha deciso di farsi capofila di un gruppo di investitori del palermitano che piazzarono la cifra che equivale a 173 milioni di euro di oggi. Nell’occasione Michele Graviano ha detto al padre di sua moglie che non gli interessa partecipare alla “cordata” perché preferisce gestirsi gli interessi da sé. E gli ha intimato anche di non infilare i suoi figli (sono quattro: oltre a Filippo e Giuseppe ci sono il maggiore Benedetto e la più piccola Nunzia) in questa storia. Quando è morto il padre, sostiene Giuseppe, il nonno gli ha fatto presente che ci sono gli interessi milanesi da curare. Di questi, sempre secondo Graviano, si è occupato finora soltanto suo cugino Salvo Graviano.
La scrittura privata
Sempre secondo Graviano questi 20 miliardi sono garantiti da una scrittura privata tra Berlusconi e gli investitori palermitani. «E questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano. In quell’incontro si parlò di mettere nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno Quartararo e gli altri investitori palermitani», sostiene Graviano. Il quale aggiunge che i palermitani da Berlusconi «volevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti a un notaio». Era stato fissato anche un appuntamento in uno studio per firmarlo nel febbraio del 1993. Poco prima Graviano viene arrestato.
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Report, la minaccia di Salvatore Baiardo a Berlusconi: «Questo governo cade». Alessandro D’Amato su Open.online il 23 maggio 2023.
L’uomo della “profezia” dice di essere pronto a pubblicare le istantanee: «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade». Ma…
«Se non succede quello che succede questo governo cade». È un Salvatore Baiardo in vena di mandare segnali quello che parla della foto di Silvio Berlusconi con Giuseppe Graviano mentre non sa di essere registrato da Paolo Mondani di Report. Le immagini che avrebbe scattato proprio lui ai due e al generale Francesco Delfino sul lago d’Orta a Omegna. E che avrebbe già mostrato in occasione dell’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del Giornale a Milano. Secondo quanto ha raccontato lui stesso – per poi smentirlo – le istantanee con una Polaroid è pronto a pubblicarle in un libro di prossima uscita. Più precisamente: «Se non va tutto come deve andare nel libro usciranno le foto». E quindi «se non succede quello che (deve) succede(re), questo governo cade».
L’indagine
Il Fatto Quotidiano fa sapere oggi che la procura di Firenze ha acquisito nei giorni scorsi le registrazioni dei colloqui di Mondani con Baiardo. I Pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano insieme al sostituto Lorenzo Gestri su Berlusconi e su Marcello Dell’Utri. I pubblici ministeri hanno chiesto alla trasmissione Rai di «volere consegnare le registrazioni oggetto delle interlocuzioni intercorse il 4 ottobre, 2 marzo 2021 o in altre date tra Salvatore Baiardo e il giornalista Paolo Mondani, oggetto della deposizione di quest’ultimo il 26 aprile 2023 ove è stato fatto riferimento alla fotografia ritraente Silvio Berlusconi, Francesco Delfino, Giuseppe Graviano. I pm quindi hanno creduto al conduttore di Non è l’Arena Massimo Giletti. Il quale ha detto che Baiardo gli ha mostrato la foto e che lui nell’occasione ha riconosciuto Berlusconi.
La versione di Baiardo
Secondo Baiardo quindi esistono più foto che ritraggono Berlusconi, Graviano e Delfino. Le foto sono testimonianza di quel rapporto tra Berlusconi e Graviano che “Madre Natura” ha spiegato in un memoriale (sempre che dica il vero). Nel quale sostiene che un numero non imprecisato di imprenditori palermitani tra cui il nonno materno hanno investito nelle aziende immobiliari di Berlusconi negli Anni Settanta una cifra vicina ai 20 miliardi di lire. Graviano dice che gli investimenti erano garantiti da una “scrittura privata” conservata da suo cugino, nel frattempo deceduto. E aggiunge che avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento con un notaio a Milano a febbraio per ratificare l’accordo e per decidere sulla restituzione del prestito. Ma pochi giorni prima è stato arrestato.
La smentita
Nel video di Report quando Mondani gli chiede della reazione di Paolo Berlusconi alla vista delle foto Baiardo fa un gesto con le mani che significa “paura”. Intanto ieri Baiardo su TikTok dopo aver letto le anticipazioni di Report ha smentito tutto. Sostenendo di aver detto “fandonie” contro il povero Berlusconi. E che si augura una denuncia per diffamazione nei confronti della trasmissione. Intanto il 20 giugno uscirà il suo libro per la casa editrice Frascati e Serrafalco. Ma cosa vuole di preciso Baiardo da Berlusconi? Tanto da minacciare la caduta di un governo? Posto che pare ovvio che secondo l’ex gelataio di Omegna che si offende se viene definito “pentito” intenda dire che i danni politici nei confronti di Berlusconi potrebbero mettere in difficoltà il governo, il problema rimane sempre l’ergastolo ostativo.
Quale governo?
Il governo Meloni ha infatti confermato l’ergastolo ostativo in uno dei primi provvedimenti licenziati. Né c’era possibilità che facesse qualcosa di diverso, vista la sensibilità dell’opinione pubblica su questi temi. Ma se la registrazione risale a prima delle elezioni del 25 settembre (la data non è specificata) allora la minaccia è nei confronti di Draghi. Di certo la situazione sembra simile a quella del 1992. Quando i mafiosi volevano ottenere la cancellazione del 41 bis. E non hanno ottenuto nulla.
La pupiata. Report Rai PUNTATA DEL 22/05/2023 di Paolo Mondani
Collaborazione di Marco Bova e Roberto Persia
Siamo alla ricerca della verità
sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Sono passati oltre trent’anni e ancora siamo alla ricerca della verità sui fatti
di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Racconteremo i
particolari fino a oggi rimasti segreti delle fasi propedeutiche che hanno
portato all'arresto di Matteo Messina Denaro, e quelli che riguardano la sua
latitanza. Trent’anni sono passati dalla strage di Firenze in via dei
Georgofili. La mafia in quegli anni metteva bombe qua e là per il Paese, ma
secondo una nota del Sisde non era sola nella pianificazione della strategia
stragista. Grazie al recentissimo lavoro della Commissione parlamentare
antimafia aggiungiamo pezzi di verità sui mandanti e sugli esecutori.
LA PUPIATA. Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Filmaker: Dario D'India, Cristiano Forti, Alessandro Spinnato Montaggio: Elisa Carlotta Salvati, Giorgio Vallati
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Ragazze buongiorno. Sono in autostrada. Niente di nuovo. Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, anche da mia mamma, e quando le persone mi studiano minchia mi infastidisco come una belva.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. Pettegolezzi spacciati come segreti, le sue cartelle cliniche, i suoi selfie, le sue chat, i suoi amori veri o presunti, le amanti gelose che si mortificano e lo esaltano, il suo omertoso paese a fare da scenario, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro tutti da Campobello di Mazara.
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Non ho vissuto nel salottino seduto con le ciabatte. Io sono stato un tipo che il mondo lo ha calpestato. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Come se bastassero il medico Tumbarello, l'alter ego Bonafede e l'autista Luppino, a raccontare i suoi fiancheggiatori. Mancano pezzi decisivi della dinamica dell’arresto. E soprattutto continuiamo a non sapere nulla delle protezioni di cui ha goduto per trent'anni. È un vero boss questo Messina Denaro o solo un simbolo utile a dichiarare la mafia sconfitta?
VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Lo sai questo fatto di scrivere un libro me lo hanno detto tante volte. È che veramente tutta la vita è un’avventura. Se ti raccontassi cose…veramente cose assurde.
ANTONINO DI MATTEO – MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Io ritengo che nessun mafioso per quanto potente può restare latitante per 30 anni senza poter godere di protezione, ovviamente, anche molto alte. Ed è cresciuto in quella provincia di Trapani, che da sempre più delle altre provincie siciliane è stato il crocevia degli intrecci tra Cosa Nostra, la massoneria e ambienti particolari e deviati dei servizi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella di Trapani non è una provincia qualsiasi. Già nel 1986, nel centro storico, all'interno di un circolo culturale, Scontrino, la polizia scopre sei logge massoniche, tra le quali Iside uno e Iside due, quelle che presumibilmente sono state inaugurate dal Gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, ecco dentro quelle liste ci sono i nomi di politici e imprenditori, uomini delle forze dell'ordine e prefetti. Tutti dialogavano con i grembiulini mafiosi. E poi, nel 1987 viene scoperta la base Scorpione, quella riferibile a Gladio, a due passi da San Vito Lo Capo. Insomma, Trapani è la seconda provincia d'Italia per numero di logge massoniche. Nel 2016 il magistrato Marcello Viola, che oggi è capo della Procura di Milano, ha depositato una lista di 460 massoni che erano suddivisi in 19 logge, sei solo a Castelvetrano. Una lista che è stata anche ampliata dalla commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che, con l'aiuto di alcuni grandi maestri dell'obbedienza, ha poi potuto sottolineare il proliferare di massoni nella provincia, nella città di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano. E infine, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro 16 gennaio scorso, emerge che uno dei più grandi fiancheggiatori del super latitante era il medico Alfonso Tumbarello, i cui contatti con Matteo Messina Denaro erano noti ai servizi segreti italiani già negli anni 2000. E si scoprirà solo però dopo l'arresto che il medico era iscritto alla loggia massonica Valle di Cusa di Campobello di Mazara, affiliata al Grande Oriente d'Italia. Ora il magistrato Maria Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro, nel corso di un interrogatorio a Giuseppe Tuzzolino, architetto, scopre che Matteo Messina Denaro aveva messo in piedi una loggia massonica tutta sua, La Sicilia. E la rete della massoneria è stata fondamentale nella copertura della sua latitanza. Il nostro Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2017, l’architetto Giuseppe Tuzzolino, dopo anni di collaborazione con la giustizia, viene arrestato e condannato per calunnia. Aveva raccontato la balla di un pericolo imminente corso dai due magistrati che lo interrogavano. Ma alcune sue rivelazioni erano state riscontrate. Tuzzolino aveva dichiarato di essere iscritto a una loggia massonica coperta di Castelvetrano, denominata La Sicilia, in cui sedeva Matteo Messina Denaro e l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi ha sempre smentito l'appartenenza alla loggia. Oggi è in carcere, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. PAOLO MONDANI Il senatore D’Alì era dentro la loggia?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA D’Alì era al di sopra di ogni tipo di riunione. Quindi tutto quello che avveniva forse in loggia era perché D’Alì lo aveva in parte deciso o chi per lui.
PAOLO MONDANI Una sorta di Gran Maestro emerito.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una sorta di Gran M…, bravissimo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tuzzolino a verbale aveva fatto i nomi degli aderenti alla loggia La Sicilia, peccato che le indagini su questi iscritti eccellenti si siano inspiegabilmente fermate.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In quegli anni il puparo della massoneria era Gasperino Valenti, quindi era lui che gestiva i due mondi massonici del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia Regolare d’Italia. Mi propone di far parte di questa super loggia, La Sicilia, una loggia itinerante, quindi senza un tempio fisso e senza delle riunioni specifiche predefinite. Quindi avvenivano comunicazioni una sera prima e il pomeriggio ti dicevano, tu ti recavi a Castelvetrano, e il pomeriggio ti dicevano: stasera ci vediamo là. Poi magari poteva pure cambiare il luogo. Questa segretezza di questa super loggia era dovuta al fatto che vi appartenevano personaggi politici di un certo spessore come onorevoli e vi appartenevano imprenditori, quindi che non volevano figurare.
PAOLO MONDANI Tutti della zona del trapanese?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tutti gli imprenditori erano assolutamente e solo della zona della provincia di Trapani.
PAOLO MONDANI Lei però raccontò agli inquirenti che questa loggia in qualche modo tutelava la latitanza di Matteo Messina Denaro.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Le posso dire che conosco in loggia un personaggio, di cui tutti avevano una reverenza straordinaria oserei dire, davvero straordinaria. Lui era accompagnato da una donna, quindi brasiliana di origine molto bella, e lui si chiamava per quel periodo Nicolò Polizzi. Si diceva che fosse un imprenditore di origine Castelvetrano, che però operava nel settore mobilificio in Brasile, una città vicino San Paolo. La reverenza era davvero assoluta. Camminava con due macchine, quindi camminava con un’autista e soprattutto veniva in orari specifici, dalle 23 in poi.
PAOLO MONDANI E questo Nicolò Polizzi che ruolo aveva?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Solo dopo la terza volta che lo vidi. Ci incontrammo comunque in una riunione conviviale a Maastricht, in una riunione massonica del tutto internazionale e lì venne anche Nicolò con la sua compagna. Fu in quella specifica occasione che io capii che lui era quell’uomo. Era Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI E lei oggi che ha visto la faccia del vero Matteo Messina Denaro può dire che era lui?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era lui.
PAOLO MONDANI Nicolò Polizzi?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si era lui Nicolò Polizzi.
PAOLO MONDANI Ricorda qualche cosa? Un suo discorso? Due parole che lui ha scambiato con lei o con altri?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, mi disse che io ero una brava persona quindi gli piacqui. Poi mi disse, gli parlai io di un progetto che avevo da svolgere a New York e lui mi raccomandò, mi diede dei contatti su New York e da lì partì la mia esperienza americana. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2016 il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta che frequentava la mafia di Castelvetrano, conferma l'esistenza della loggia La Sicilia.
PAOLO MONDANI E Fondacaro dirà addirittura ai magistrati calabresi che la loggia La Sicilia era una loggia di diretta derivazione della P2.
PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Fondacaro sostiene che Matteo Messina Denaro apparteneva a questa loggia. Quando dice che questa loggia è di derivazione, deriva dalla P2, ecco questa cosa non mi stupisce. Perché anche Bontate, che era massone e che era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che si chiamava la loggia dei Trecento era entrato in rapporti molto stretti con Licio Gelli.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Bontate è stato il capo dei capi di Cosa Nostra ucciso dagli emergenti corleonesi di Totò Riina nel 1981. La sua Loggia dei Trecento era conosciuta anche come Loggia Sicilia-Normanna, e forse stiamo parlando della stessa loggia di Matteo Messina Denaro. Pentiti autorevoli come Gioacchino Pennino e Angelo Siino hanno dettagliato con estrema precisione i viaggi di Gelli in Sicilia.
PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Gelli andava lì per incontrare Bontate perché la loggia di Bontate era collegata alla P2, era considerata una appendice della P2 in Sicilia. Allora se tanti anni dopo viene fuori che anche quella di Matteo Messina Denaro era collegata alla P2 vuol dire che il discorso è andato avanti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è coperto da una rete massonica. L'aveva detto Maria Teresa Principato, il magistrato che ha dato a lungo la caccia al super latitante. Ma nessuno le aveva creduto. Ora che il territorio di Trapani, dove la mafia regna dal 1800, fosse un territorio coperto da un'amalgama di poteri difficilmente penetrabile, l'aveva già detto nel 1838 il prefetto Olloa al procuratore del re. E tra questi poteri c'è sicuramente la massoneria. Il collaboratore, Fondacaro, nel processo del novembre 2022, ha ricostruito davanti al magistrato Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria la penetrazione della 'ndrangheta all'interno della P2, ha ricostruito la rete massonica e ha detto anche di essere entrato in contatto con la Loggia della Sicilia, cioè la loggia voluta da Matteo Messina Denaro, alla quale si erano iscritti per volere proprio del boss solo uomini fidati, per lo più professionisti, ingegneri, avvocati, architetti, imprenditori e anche qualche giornalista e anche qualche politico. Una loggia itinerante nella quale Matteo Messina Denaro si muoveva a suo agio nei panni di un imprenditore, Nicolò Polizzi, e dispensava consigli e anche contatti per chi voleva investire all'estero. Ecco, insomma, poi, secondo Tuzzolino, l'architetto interrogato dalla Principato, a questa loggia faceva anche parte il senatore, l'ex senatore D'Alì, l'ex sottosegretario al ministero dell'Interno del governo Berlusconi 2001-2006. Lui ha sempre smentito l'appartenenza alla Loggia. Ora a vigilare sui terreni di famiglia c'era Messina Denaro, padre, Ciccio, e figlio e la famiglia D'Alì era anche proprietaria della Banca Sicula. Lo zio era proprio il presidente e il nome era nelle liste della loggia P2 di Licio Gelli. Ora l'ex sottosegretario è stato condannato definitivamente ed arrestato a dicembre scorso. Pochi giorni dopo qualcuno ha notato la coincidenza, è stato arrestato Matteo Messina Denaro e a proposito dell'arresto, questa sera siamo in grado di rivelarvi alcuni dei particolari rimasti fino a oggi segreti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Benito Morsicato, soldato di Cosa Nostra di ultima generazione di base a Bagheria si pente nel 2014 e le sue dichiarazioni portano in carcere i parenti di Messina Denaro e vari altri affiliati. Ma lascia il programma di protezione nel 2020 protestando per il trattamento subìto.
PAOLO MONDANI Lei quanti appartenenti alla famiglia di Matteo Messina Denaro ha conosciuto?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nipote del cuore di Matteo Messina Denaro, che è Luca Bellomo, e poi c’è anche un altro nipote sempre del cuore, si chiama Francesco Guttadauro.
PAOLO MONDANI Con questi Messina Denaro ci era diventato amico?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con i nipoti si, lavoravamo assieme nell’ambito delle rapine.
PAOLO MONDANI Ha mai sentito dire da altri appartenenti a Cosa Nostra perché Matteo Messina Denaro non viene catturato?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo che se ne parla. Anche io con altri soldati, ne parlavo anche io con l’ex, con il collaboratore di giustizia...
PAOLO MONDANI Chi?
BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Salvatore Lopiparo. Se ne parlava che c’erano dei personaggi dello Stato, che garantivano diciamo la latitanza di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI In loggia c’erano uomini delle forze dell’ordine?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tantissimi.
PAOLO MONDANI E uomini dei servizi di sicurezza? Che in qualche modo lei è venuto a sapere.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello che era ai tempi il responsabile dei servizi segreti per la Sicilia occidentale.
PAOLO MONDANI Lei a verbale dice anche di sapere che Matteo Messina Denaro frequentava la Spagna e l’Inghilterra.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si. Io nel 2015, il 2 aprile o il 3 aprile con esattezza del 2015, quindi era 2 o 3 giorni prima di Pasqua riferisco in località segreta alla dottoressa Principato la posizione geografica esatta dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI E cioè?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che era a Roquetas De Mar. In una villa a Roquetas De Mar. Gli dico chi era il proprietario…
PAOLO MONDANI Che sta in Spagna?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che sta in Spagna, in Andalusia, sì. Vicino Almeria.
PAOLO MANDANI Lei c’era stato?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per Messina Denaro, il modo migliore per assaporare il fascino di Roquetas de Mar è recarsi a Playa Serena, fare shopping, e osservare una ragazza che spunta dalla piscina di un albergone.
PAOLO MONDANI Quanti giorni è stato là?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una settimana, suo ospite.
PAOLO MONDANI Wow.
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un hotel di lusso, sì
PAOLO MONDANI E lui era contornato da belle ragazze? Ha molti amici?
GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, si, molti amici. Il sindaco di Almeria venne a farci onore quindi che ci venne lì con grande.. erano davvero un ambiente molto spudorato ecco.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Se la Sicilia è metafora del mondo come diceva Leonardo Sciascia, più umilmente, Giovanni Savalle è la metafora di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro. A Savalle, l'imprenditore più facoltoso della zona, la Guardia di Finanza sequestrò, nel 2018, 64 milioni di euro, tra cui una importante quota della proprietà del Kempinsky hotel di Mazara del Vallo. Poi gli è piombata addosso la bancarotta fraudolenta per due sue società. Ma nell'agosto scorso è caduta l'accusa più pesante: essere alle dipendenze di Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI Sui giornali è stato persino definito il cassiere di Matteo Messina Denaro.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, non il cassiere, il tesoriere, che è diverso.
PAOLO MONDANI Vabbè, insomma, diciamo. Una delle contestazioni che le sono state fatte riguarda una società che si chiama Atlas cementi. Alcuni membri della sua famiglia erano parte di quella compagine azionaria.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA È vero.
PAOLO MONDANI L’Atlas cementi era di Rosario Cascio.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no. L’Atlas cementi era di Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI E Rosaro Cascio?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Rosario Cascio l’ha comprata da Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI Benissimo, ma Rosario Cascio è stato coinvolto nell’inchiesta mafia appalti e quindi diciamo così a cascata i suoi famigliari, quindi lei siete stati indicati come….
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Io Io le posso dire che Gianfranco nel 1990, '91 ora non …
PAOLO MONDANI Stiamo parlando di Gianfranco Becchina?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Becchina, quando ha venduto
PAOLO MONDANI Che è un noto trafficante di reperti archeologici.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore, oggi è un trafficante di reperti archeologici. Ma Gianfranco Becchina a me mi è stato presentato da Aldo Bassi, Aldo Bassi...
PAOLO MONDANI Che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Due volte.
PAOLO MONDANI Del quinto governo Andreotti.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Non lo so.
PAOLO MONDANI …e del primo governo Cossiga.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, quindi vede una persona di grande qualità.
PAOLO MONDANI E quando lo ha conosciuto lei non era un trafficante di reperti archeologici?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Assolutamente. Tutti volevano avere a che fare con Gianfranco Becchina.
PAOLO MONDANI Perché lui vendeva olio in tutto il mondo.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Bravissimo. Ricordi che l’olio di Gianfranco Becchina è andato sul tavolo di Bill Clinton.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Gianfranco Becchina il 24 maggio dell'anno scorso è stato confiscato un patrimonio stimato in 10 milioni di euro. Secondo la Dia, Becchina sarebbe stato a capo di un’organizzazione dedita al traffico internazionale di reperti archeologici con cui avrebbe accumulato ingenti ricchezze. Mentre Sarino Cascio, suo socio nella Atlas Cementi, accusato di essere uno dei cassieri di Matteo Messina Denaro, nel 2005 è stato condannato per associazione mafiosa. Ma la Cassazione nel 2021 ha ammesso la revisione della condanna perché già assolto per gli stessi fatti in un altro processo.
PAOLO MONDANI Le hanno contestato i rapporti con un noto mafioso.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Quale?
PAOLO MONDANI Giuseppe Grigoli.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ma allora, anche lì, Giuseppe Grigoli, io ho fatto una piccola consulenza praticamente cinque milioni delle vecchie lire, 2.500 euro, questo è il mio rapporto con Pino Grigoli, ma di cosa stiamo parlando dottore? PAOLO MONDANI Poi le vengano contestati i rapporti con Filippo Guttadauro, che è nientemeno che il marito di Rosalia Messina Denaro. GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, perfetto dottore.
PAOLO MONDANI Alla figlia di loro, Maria, lei ha procurato un posto di lavoro.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore.
PAOLO MONDANI Avrebbe procurato...
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ecco, avrei procurato. Perché Maria Guttadauro era bravissima nel rappresentare il territorio perché lo conosceva, perché aveva studiato per questa cosa.
PAOLO MONDANI I suoi rapporti con Filippo Guttadauro?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, quali rapporti? Conoscenza praticamente così e nulla di particolare, nulla di particolare.
PAOLO MONDANI Con Bellomo?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Luca Bellomo, dottore, anche lì: Luca Bellomo è il figlio del signor Bellomo. Io conosco il signor Bellomo grazie al fatto che...
PAOLO MONDANI Anche lui noto mafioso, Luca Bellomo.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no, non è un mafioso. Luca era un ragazzo che ha sposato la sorella di Maria Guttadauro.
PAOLO MONDANI I suoi rapporti con la politica?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Buoni, buoni. Io ho mantenuto rapporti con tutti.
PAOLO MONDANI Con quale parte della politica?
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, destra, sinistra, centro, non ho mai, ma guardi...
PAOLO MONDANI Sopra, sotto.
GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE – COMMERCIALISTA Totò mi disse una volta: "Perché non ti presenti come senatore?" Totò ma io non faccio la politica, mi piace fare questo lavoro e quant’altro. Non l’ho seguito ed è stato un peccato perché oggi sarei senatore della Repubblica italiana.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il mentore del quasi senatore è Totò Cuffaro che ha scontato cinque anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra. Il resto degli amici di Savalle inizia con Pino Grigoli, re dei supermarket nel trapanese, riciclatore di denaro delle cosche e fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro; poi Filippo Guttadauro, da anni in carcere, sposato con la sorella di Matteo, Rosalia, arrestata nel marzo scorso; e Luca Bellomo, nipote del cuore di Matteo, per anni in carcere per mafia, traffico di droga e rapina. Insomma, una lunga catena di affetti che non si può spezzare. Della quale avrebbe fatto parte anche il medico Alfonso Tumbarello arrestato nel febbraio scorso per aver curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era coperta da quella del geometra, Andrea Bonafede. Il 70enne Tumbarello, in passato impegnato in politica con Totò Cuffaro e con Alleanza nazionale aveva un’altra passione.
PAOLO MONDANI Tumbarello era appartenente alla loggia Valle di Cusa, Giovanni di Gangi 1035 all'Oriente di Campobello di Mazara. Il Gran Maestro che ha da dire rispetto al fatto che questo venga arrestato per concorso esterno?
STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Appena ho saputo che era stato indagato l'ho sospeso. Prima dell'Ordine dei Medici che l'ha sospeso soltanto quando è stato arrestato.
PAOLO MONDANI Alfonso Tumbarello era noto processualmente come ponte verso la famiglia di Messina Denaro sin dal 2012. Voi, l'idea che mi sono fatto è che arrivate sempre molto dopo. Non mancate di vigilanza sui vostri iscritti?
STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Che Tumbarello potesse essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa non me lo sarei aspettato. Io non ho il potere di intercettare, non ho il potere di perquisire, non ho il potere di andare a vedere i conti correnti delle persone.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, il 19 ottobre del 2012, 11 anni fa, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino testimoniando al tribunale di Marsala sosteneva che il suo tramite con la famiglia di Messina Denaro era stato proprio Alfonso Tumbarello. Si voleva prendere il latitante? Bastava inseguire Tumbarello. E un funzionario della polizia giudiziaria ci dice qualcosa in più del medico massone di Messina Denaro.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Il medico Tumbarello era una fonte dei servizi segreti. Ed è lui secondo me che fa confidenze su Messina Denaro ma sin dai tempi delle lettere a Vaccarino.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta parlando di un rapporto epistolare tra il sindaco Antonio Vaccarino e Matteo Messina Denaro intercorso tra il 2004 e il 2007. Una vicenda ancora oggi misteriosa. Perché l'operazione venne organizzata dal Sisde, il servizio segreto civile, diretto dal generale Mario Mori che aveva reclutato Vaccarino nel tentativo di comunicare con il latitante. Ma di questa iniziativa non è mai stato chiaro il fine.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA L'Operazione Vaccarino, non era finalizzata alla cattura di Messina Denaro, ma serviva a preparare il terreno ad un accordo per la consegna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo dice la nostra fonte. E chissà se è vero che anche Tumbarello era della partita. Ma Giuseppe De Donno, ufficiale dei carabinieri e braccio destro di Mario Mori, finito anche lui al Sisde, il 12 maggio del 2020, spiega in un processo a Marsala che lo scambio di lettere fra Vaccarino e il latitante era stato concertato dal servizio per realizzare la consegna spontanea di Matteo Messina Denaro.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questo è un pre-tavolo di trattativa. E Matteo Messina Denaro in una lettera a Vaccarino spiega esattamente quel che vuole.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo febbraio del 2005 Messina Denaro scrive al sindaco Vaccarino: "hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri...hanno istituito il 41 bis, facciano pure e che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità...Per l’abolizione dell’ergastolo penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione". Messina Denaro è chiaro: l'ergastolo e il 41 bis sono il centro della trattativa. Dopo questa lettera passano 18 anni. Matteo si ammala e improvvisamente cambia abitudini.
PAOLO MONDANI Messina Denaro dà il suo cellulare alle signore che fanno con lui la chemioterapia, si fa un selfie con un infermiere della clinica Maddalena di Palermo, prende il nome di Andrea Bonafede nipote di un pregiudicato di mafia, il suo secondo covo a Campobello di Mazara è intestato a un soggetto già indagato per mafia. Come se volesse lasciare delle briciole sul suo percorso, delle tracce. Mi chiedo e le chiedo: si è fatto arrestare?
ANTONINO DI MATTEO - MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Sono tutti comportamenti assolutamente anomali. Nessuno dei grandi latitanti di mafia si è comportato in questo modo, anzi in modo esattamente contrario. Ha adottato quindi un comportamento che è giustificabile solo in due modi: o si sentiva talmente sicuro delle protezioni da comportarsi in maniera incauta sapendo che non sarebbe stato catturato perché non lo volevano catturare oppure si è fatto arrestare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La testimonianza che ora ascoltiamo viene da un investigatore che per anni ha braccato Matteo Messina Denaro.
PAOLO MONDANI Parliamo della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio scorso. Da dove cominciamo?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cominciamo dal maggio 2022, quando la polizia sfiora la cattura di Messina Denaro. Lui inviava delle lettere alle sorelle Giovanna e Bice via posta. E la polizia ne intercetta quattro e accerta su queste lettere la presenza del DNA del latitante. E poi vengono piazzate 150 telecamere vicino alle buche delle lettere di Mazara, Campobello, Castelvetrano e Santa Ninfa in attesa che lui vada lì a imbucarle.
PAOLO MONDANI Poi però Messina Denaro ad un certo punto inspiegabilmente si ferma.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Sì, l'ultima lettera intercettata è del 24 maggio 2022, era indirizzata alla nipote, Stella Como, e aveva come mittente un mafioso di Santa Ninfa. Nella lettera c'erano due pizzini destinati alle sorelle, uno destinato a Fragolone, probabilmente il soprannome della sorella Rosalia. E Matteo scrive: "È andato tutto a scatafascio, la ferrovia non è praticabile, è piena...quindi capirai che non si può".
PAOLO MONDANI Un messaggio in codice, cosa vuol dire?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Vuol dire che Matteo Messina Denaro si era accorto che la Polizia intercettava le lettere e da quel momento non scriverà più.
PAOLO MONDANI Evidentemente c'era una talpa...
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Possibile.
PAOLO MONDANI E i carabinieri come entrano nell'inchiesta?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Ros e polizia hanno sempre condotto delle indagini parallele. Poi a un certo punto succede qualcosa di strano: i carabinieri chiedono alla polizia, a dicembre 2022, le chiavi dell'appartamento di Rosalia. L'appartamento era già pieno delle microspie della polizia e i carabinieri vogliono aggiungerne una nel bagno. La polizia a questo punto si arrabbia: ma come, che ci andate a fare nel bagno, non succede nulla là dentro. Rischiate di compromettere tutto, già Rosalia si era accorta dei movimenti del Ros attorno e dentro le sue case, anche in quella di campagna.
PAOLO MONDANI A questo punto però la polizia non può certo rifiutarsi di dare le chiavi ai carabinieri.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA E infatti consegna le chiavi al Ros che il 6 dicembre del 2022 entra e si concentra nell'intercapedine della sedia dove ci sono le copie dei pizzini e trova degli appunti sulla condizione medica di Matteo.
PAOLO MONDANI Che è il pizzino decisivo, quello che permette ai carabinieri di fare lo screening sui malati di tumore e arrestarlo. Ma loro come sanno del nascondiglio nella sedia?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA A casa di Rosalia era piazzata una telecamera gestita insieme dal Ros e dalla polizia. La polizia monitorava già Rosalia attraverso le microspie che erano sparse in vari punti della casa e voleva intercettarle anche il telefono. La Procura però dà il permesso soltanto ai carabinieri.
PAOLO MONDANI Qui non capisco una cosa, quando la polizia è entrata in casa di Rosalia l'aveva visto quel pizzino sulla malattia di Matteo?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia entra per prima...
PAOLO MONDANI Prima dei carabinieri.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cerca, trova, fotografa tutti i pizzini oggi resi noti, ma non trova quello della malattia.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riassumendo. La sorella di Matteo, Rosalia, è la chiave della cattura del fratello. La polizia lo capisce subito e con i carabinieri si contendono microspie e intercettazioni. Sulla carta, tutti sanno tutto, eppure solo i carabinieri trovano il pizzino con gli appunti sulla malattia di Matteo. La polizia entra prima di loro in quella casa ma quel pizzino non c'è. La cosa lascia pensare, perché solo quel pezzo di carta spiega la cattura di Messina Denaro alla clinica la Maddalena. Senza quel pizzino dovremmo parlare di consegna del latitante. E poi, tutti entrano in casa sua, ma Rosalia non si accorge mai di nulla?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Rosalia impazzisce quando scopre che il 6 dicembre erano entrati i carabinieri e la polizia se ne accorge, lo capisce perché a Rosalia avevano messo una microspia anche nella ciabatta.
PAOLO MONDANI Insomma, carabinieri e polizia non collaborano e si pestano i piedi.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Bah, a me sembra che pestano i piedi alla polizia che stava sulla pista già da parecchio tempo. Quando nel 2021 Matteo Messina Denaro lascia l'Albania è la polizia a capire che si trova qui nel trapanese. E da lì il risveglio dell'interesse per le indagini da parte dei carabinieri.
PAOLO MONDANI E come viene individuato Matteo Messina Denaro in Albania?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Perché la polizia intercetta uno scambio di dati tra Giovanna, la sorella, e Matteo. Matteo viveva praticamente ormai là, in Albania. Tant'è vero che anche la sua amante, Andrea Hassler, l'amante austriaca lo va a trovare lì. Poi improvvisamente Matteo decide di lasciare l'Albania e torna nel trapanese e la polizia traccia Rosalia attraverso alcuni video che Rosalia sposta, a Matteo, erano video registrati e indirizzati a lui con i saluti della vecchia madre.
PAOLO MONDANI Torniamo un attimo però al pizzino del maggio dell'anno scorso, quello dove Matteo scrive: "La ferrovia è piena"... A me sembra la chiave di tutta la vicenda della cattura questo.
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Lo è. Perché lui in quel modo dichiara che non vuole più utilizzare la posta, non è sicura, e solo di questo si preoccupa. E infatti, quando lui poi si trasferisce in Via CB 31 è a poche centinaia di metri da casa sua. Vuol dire che a Campobello lui si sente sicuro. Nonostante la presenza delle telecamere.
PAOLO MONDANI Insomma, in estrema sintesi, qualcuno spinge Matteo a non scrivere più lettere perché non vuole che sia catturato dalla polizia a maggio del 2022, ma questo perché?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questa è un'operazione dell’intelligence.
PAOLO MONDANI Che significa?
FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA I servizi segreti non vogliono che Matteo venga preso dalla polizia a maggio del 2022 perché il governo Draghi non sarebbe caduto. Siamo di fronte a un nuovo round della trattativa. Questo significa che ne hanno a guadagnare anche i vari Graviano, Lucchese, Bagarella, Madonia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo questo alto funzionario di polizia giudiziaria, la cattura di Matteo Messina Denaro sarebbe il segmento di una trattativa che ha le radici nel tempo, da quando cioè l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, incaricato dal Sisde di Mario Mori, cerca di prendere contatti con Matteo Messina Denaro. E lo fa attraverso la mediazione del medico Alfonso Tumbarello, il medico massone. E comincia con il super latitante un singolare scambio di lettere sotto degli pseudonimi, Vaccarino è Svetonio, Matteo Messina Denaro, Alessio. E proprio Alessio scrive, Matteo Messina Denaro scrive, ad un certo punto una lettera particolare: “hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri e hanno istituito il 41 bis. Facciano pure, che mettano anche l'82 quater. Tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”. “Per l'abolizione dell'ergastolo - scrive Matteo Messina Denaro - penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione”. Ecco, Matteo Messina Denaro è chiaro: il 41 bis è ancora un nervo scoperto per la mafia, è un punto della trattativa. Questo singolare scambio epistolare è rimasto a lungo un mistero fino al maggio 2020, quando l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, uomo fedelissimo di Mario Mori, lo segue anche al Sisde, lo spiegherà in un processo a Marsala. Ecco, quelle lettere servivano a preparare il terreno per una consegna di Matteo Messina Denaro. Passano 18 anni. Da allora Matteo Messina Denaro si ammala e cambiano le sue abitudini e verrà arrestato. Come? La storia comincia quando i carabinieri ad un certo punto cercano di, vogliono entrare nell'appartamento della sorella Rosalia per inserire una loro cimice nel bagno. L'appartamento è già pieno di telecamere e cimici della polizia, alcune anche in condivisione. Tuttavia, i carabinieri entrano il 6 dicembre 2022, si soffermano sull'intercapedine di una sedia all'interno della quale trovano i pizzini. Uno in particolare, quello sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro è quello che consentirà di fare lo screening di tutti i malati di tumore e individuare il super latitante. Ora i carabinieri sanno che in quella sede ci sono i pizzini perché l'hanno osservata con una telecamera in condivisione con la polizia. Anche la polizia era entrata in quell'appartamento, aveva trovato i pizzini, li aveva fotografati tutti. Mancava però quello decisivo. Come mai? Perché quella è l'unica carta che giustificherebbe l'arresto di Matteo Messina Denaro presso la clinica La Maddalena. Un arresto che un grillo parlante ben informato aveva anticipato con modalità e anche tempistiche perfette.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto entra in scena Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dello stragista Giuseppe Graviano. Che nel 2020 nel processo 'Ndrangheta stragista a Reggio Calabria aveva raccontato di aver incontrato per tre volte da latitante Silvio Berlusconi, finanziato dalla sua famiglia per 20 miliardi delle vecchie lire. Baiardo, nel 2021, aveva rivelato a Report che gli incontri con Berlusconi erano stati molti di più e che Graviano aveva persino ricevuto l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Tutte fandonie, secondo Berlusconi. Ma nello scorso novembre, Massimo Giletti, che lo aveva visto a Report, porta Baiardo su La7 e lui predice il futuro. Annuncia che "Messina Denaro era molto malato, e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo”.
NON È L’ARENA 5/11/2022 MASSIMO GILETTI E quando avverrebbe questo ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro?
SALVATORE BAIARDO Giletti ci sono delle date che parlano non è che Baiardo si sta inventando…
MASSIMO GILETTI Eh ma lei ha detto che quando allo Stato farà comodo oppure lui non servirà più…
SALVATORE BAIARDO Questo lo avevo detto già in tempi non sospetti
MASSIMO GILETTI …verrà preso. È arrivato questo periodo, questo momento forse?
SALVATORE BAIARDO Presumo, presumo di si
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le parole di Baiardo suonavano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi con la fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis. Il 16 gennaio scorso Messina Denaro viene arrestato e siccome Baiardo indovino non è e qualcuno quelle cose gliele deve aver suggerite, nel marzo scorso chiediamo a lui cosa sa di questa cattura annunciata.
PAOLO MONDANI Come avviene l’arresto di Matteo Messina Denaro? Tu ne sai qualcosa? Perché lì la polizia stava a un passo, come hanno fatto i carabinieri a passargli davanti?
SALVATORE BAIARDO Ma c’era già un accordo che dovevano prenderlo loro
PAOLO MONDANI Qualche particolare in più sulla cattura di Matteo?
SALVATORE BAIARDO In che senso, dimmi cosa vuoi sapere.
PAOLO MONDANI Gli uomini che hanno preso contatti con te e Graviano sono gli uomini di chi?
SALVATORE BAIARDO Dei Servizi.
PAOLO MONDANI Servizi, certo. Ma sono gli uomini di Mori dei servizi? Sì o no?
SALVATORE BAIARDO Sì.
PAOLO MONDANI Ascoltami, Graviano è convinto che lo tolgono il 41 bis?
SALVATORE BAIARDO Se non succede quello che succede questo governo cade, questo governo cade.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'Aisi, il servizio segreto civile, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella cattura di Messina Denaro. A noi Baiardo ha confermato il nome del funzionario dei servizi che avrebbe interloquito con lui. Nome che su richiesta, abbiamo riportato all'autorità giudiziaria. Sarà fatalità ma abitavano tutti a Omegna o lì vicino, fra il '92 e il '93. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro favoreggiatore Salvatore Baiardo e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che aveva una villa a Meina. E qui, come è noto, ci sarebbe di mezzo una foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale dei carabinieri Delfino seduti al bar vicino al lago a prendere un caffè. Di Delfino si può scrivere un libro: impegnato per anni al Sismi, coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Brescia del 1974, condannato per avere intascato i soldi del sequestro dell'imprenditore Giuseppe Soffiantini, accusato da pentiti della 'ndrangheta di essere l'uomo chiave della strategia della tensione e finito dentro un’indagine sugli attentati del 1993. Che ci faceva Delfino al bar con Graviano e Berlusconi? È quella foto esiste davvero? Una cosa sola sappiamo: che sul lago d'Orta, nell'estate del 1992, la mafia si gioca il futuro.
PAOLO MONDANI L’altra volta tu mi dicevi che Graviano ha in mano delle foto. Foto che ritrarrebbero, mi dicevi, Berlusconi, Graviano e Delfino. Queste foto sono una o più di una?
SALVATORE BAIARDO Più di una.
PAOLO MONDANI Ma chi le aveva scattate? Delfino?
SALVATORE BAIARDO Ma che Delfino, Delfino era seduto.
PAOLO MONDANI No, intendo dire era lui ad aver proceduto a farle scattare, Delfino? Voi? Graviano?
SALVATORE BAIARDO (Alza la mano sinistra)
PAOLO MONDANI Tu? Tu hai scattato le foto? Fantastico. Quindi….
SALVATORE BAIARDO E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto.
PAOLO MONDANI Cosa vuol dire nel libro? Stai facendo un libro?
SALVATORE BAIARDO Sì.
PAOLO MONDANI Comunque, queste foto ritraggono seduti a tavolino dove, a Omegna?
SALVATORE BAIARDO A Orta.
PAOLO MONDANI A Orta. In che periodo lo posso sapere?
SALVATORE BAIARDO ’92. C’era in ballo la nascita di Forza Italia.
PAOLO MONDANI La foto con Graviano, Delfino e Berlusconi fatta a Orta nel ’92 quando? In estate? Prima di Borsellino o dopo la morte di Borsellino?
SALVATORE BAIARDO Dopo.
PAOLO MONDANI Mi domando: avete altri documenti, Altre foto, altre cose di questo tipo?
SALVATORE BAIARDO No.
PAOLO MONDANI Berlusconi sa che avete le foto?
SALVATORE BAIARDO Uh.. (in segno di approvazione)
PAOLO MONDANI E come gli è stato comunicato che voi avete queste foto? Glielo hai comunicato tu?
SALVATORE BAIARDO Secondo te come c’è stato l’incontro con Paolo?
PAOLO MONDANI Tu sei andato a parlare con Paolo Berlusconi e all’incontro con Paolo Berlusconi gli hai detto che ci sono le foto? Gliele hai fatte anche vedere a Paolo Berlusconi?
SALVATORE BAIARDO (Annuisce)
PAOLO MONDANI Tosta. E Paolo Berlusconi come ha reagito? Dimmi una cosa almeno.
SALVATORE BAIARDO (Fa il segno della paura)
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’avvocato di Paolo Berlusconi ci informa che “percepito il tono insinuante di Baiardo, Berlusconi lo ha allontanato bruscamente e nessun riferimento fu fatto a fotografie di alcun genere”. Paolo Berlusconi sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più. Niente di vero per Baiardo che a Firenze dice che l'incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro. Quindi non gli avrebbe mostrato le famose foto. Ultimo atto. Massimo Giletti rivela ai magistrati fiorentini di averne vista persino una, a noi Baiardo dice di averle addirittura scattate. Ma dopo la sospensione del programma di Giletti per ragioni ancora da chiarire e dopo che diventa pubblica la sua testimonianza alla Procura di Firenze, Baiardo compie la giravolta: su TikTok nega l'esistenza delle foto e racconta che le sue rivelazioni a Report del 2021 erano tutta un'invenzione.
SALVATORE BAIARDO – 16/05/2023 La Procura l'altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili: che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza.
SALVATORE BAIARDO – 01/05/2023 Quando mi vedo arrivare questo signor Mondani, giornalista di Report, la prima cosa che vedo che cos'è, che questo ha una telecamera nascosta. Perciò, non è che questo mi dice Baiardo facciamo un'intervista, le va bene così gli avrei detto di sì. Gli avrei raccontato altre cose, magari veritiere. Appena mi sono accorto che questo qui aveva una telecamera nascosta, mi ruba l'intervista a telecamera nascosta e il Baiardo cosa fa: il Baiardo si sfoga a raccontargli un mucchio di fesserie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Contento lui. Comunque alcune cose le ha confermate poi alla magistratura, altre le ha confermate parlando al telefono mentre era ascoltato dalla magistratura che lo aveva messo sotto intercettazione proprio a partire dal 2021 dopo la nostra puntata. Ed è così che i magistrati scoprono che l'uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano ad un certo punto mostra una foto a Massimo Giletti e Massimo Giletti viene convocato dai magistrati e a quel punto non può non dire la verità all'autorità giudiziaria. Ecco Giletti dice di aver visto una foto stile Polaroid dai colori sbiaditi. Baiardo gliela mostra nascondendola nella tasca interna della giacca e riconosce, seduti intorno ad un tavolo nella piazza del Lago d'Orta, due persone su tre. E al centro c'è Silvio Berlusconi. Indossa una polo scura e alla sua sinistra c'è il generale Delfino, anche lui vestito in borghese di scuro, che Giletti conosce benissimo perché era suo padre, amico dell'imprenditore rapito Soffiantini. Accanto a loro c'era un giovane seduto che Giletti non riconosce, ma che secondo Baiardo è Giuseppe Graviano. Ora dell'esistenza di queste foto, Baiardo parla anche al nostro Paolo Mondani a marzo 2023. Poco prima che succedesse tutto il caos. E aggiunge anche dei particolari. Dice che le foto sono tre e anche di averla scattata lui. Ecco, è il 2 marzo e Baiardo a quel punto comincia a giocare su due tavoli in via una foto sua e del nostro inviato Mondani a Massimo Giletti e gli dice "Ma gli hai parlato tu delle foto?". Giletti dice: Ma quali? Quelle che ben sai, quelle che conosci. E poi gli dice di fare attenzione alla data dell'8 marzo. Ecco, noi da una prima ricerca abbiamo scoperto che quella data coincide con il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell'ergastolo ostativo del governo. Insomma, una sorta di banco di prova. Ma che gioco gioca Baiardo, per conto di chi gioca Baiardo? Ora noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Massimo Giletti e della sua squadra, ma se dovessero essere questi che abbiamo visto i motivi e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese. L'oracolo Baiado aveva presentato, aveva azzeccato la malattia di Matteo Messina Denaro e anche l'arresto, la data. Aveva detto “è un regalo per il governo” e ha detto “Ci sono delle date - usando il plurale – “date che parlano da sole”. Questo l'aveva detto mesi prima. Poi Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio. Il giorno dopo, cioè quel 15 gennaio in cui fu arrestato Totò Riina trent'anni fa. Quel 15 gennaio che coincide con il compleanno della premier Giorgia Meloni. Ora la mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, la mafia sarebbe anche un po' irritata nei confronti della premier perché non ha ceduto nonostante le pressioni all'indebolimento del 41 bis. E la Meloni ha detto più volte “Io non sono ricattabile”. Vivaddio. Ecco, tra 30 secondi passiamo invece ad un altro oracolo. Giusto il tempo di dare qualche consiglio su come aiutare la popolazione dell’Emilia-Romagna
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di Salvatore Baiardo, l'oracolo che aveva predetto con incredibile precisione la malattia e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi come giornalisti, non possiamo far altro che notare e sottolineare un'altra coincidenza. Nel 1992 ci fu un altro personaggio di quelle presunte foto, il generale Delfino, che aveva Balduccio Di Maggio come confidente, e indossò i panni dell'oracolo. Baiardo ante litteram, profetizzando anche lui un regalino, questa volta per l'allora ministro della Giustizia Martelli. Insomma, o è l'aria del lago che rende tutti così visionari o sono le frequentazioni?
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della cattura di Totò Riina è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che mafia, stato, stragi, e depistaggi si incastrano. Il mafioso Balduccio Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio del 1993 a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina dove svernavano Baiardo, i fratelli Graviano e il generale Delfino a cui Di Maggio racconterà come catturare Totò Riina che verrà arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio successivo. Ecco quel che racconta Giuseppe Graviano al processo 'ndrangheta stragista. Qualche giorno prima della cattura di Balduccio Di Maggio succede qualcosa di strano sul lago d'Orta.
GIUSEPPE GRAVIANO BOSS MAFIOSO PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 21.02.2020 Eravamo io, Baiardo, mio fratello e un’altra persona. Ci facciamo una partitina a carte, a poker. Che cosa è successo? Si erano fatte le sei, sette…sei e mezzo, una cosa del genere. Il signor Baiardo è andato a prendere i cornetti per la colazione. Ritorna e dice…sapete? C’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio. A proposito questo vi dimostra, che se io avessi voluto avrei avvisato o’ signor Riina o chi per lui per dire state attenti c’è Balduccio Di Maggio che sta collaborando e io vi posso indicare anche la villa dove è stato portato.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano non avverte Riina e sa dove è stato portato il neo-pentito Balduccio Di Maggio, che però verrà arrestato formalmente solo tempo dopo, l’8 gennaio del 1993. A che gioco giocava Graviano? Cominciamo a capirlo ascoltando quel che capitò alcuni mesi prima al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli.
PAOLO MONDANI Siamo nell'estate del 1992 e ad un certo punto la viene a trovare il generale Delfino.
CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Eravamo all’indomani della strage di via D’Amelio e ancora però non si erano viste reazioni adeguate. Ha esordito dicendo: “non si angosci, non si preoccupi Presidente glielo portiamo noi Riina. Le facciamo noi un regalo per Natale, noi, noi. Glielo portiamo noi”. Io l’ho guardato tra il sorpreso e l’incuriosito, ma lui non ha voluto aggiungere altro.
PAOLO MONDANI L’8 gennaio del 1993 infatti viene catturato Balduccio Di Maggio, che poi racconterà di Riina eccetera. Balduccio Di Maggio stava a Borgomanero da molto tempo, quindi lei ebbe l’impressione dopo, ci ripensò, rifletté su quello che le aveva detto Delfino? Pensò che l’avessero già preso?
CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Se già da luglio Delfino si espresse in quei termini vuol dire che già da luglio lo avevano perlomeno sondato. Perché l’atteggiamento di Delfino è di chi era molto sicuro del fatto suo, cioè mi ha dato una comunicazione che nessuno poteva immaginare men che meno io, con grande certezza. Addirittura fissando la data.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo predice la cattura di Messina Denaro e trenta anni prima il generale Delfino predice quella di Totò Riina. Due veggenti o dietro di loro si muove la stessa trama, quella di uno scambio dove la mafia incontra uomini dello Stato? Il solito Baiardo, su Di Maggio, Graviano e Delfino, forse non a caso, sa qualcosa in più.
PAOLO MONDANI A dibattimento "‘Ndrangheta stragista" Graviano dice quella storia di te poco prima del Capodanno ‘92 ‘93, che vai a prendere i cornetti una mattina dopo una lunga partita di poker. La racconta Graviano.
SALVATORE BAIARDO Quella è la storia di Di Maggio.
PAOLO MONDANI Quella che torni dicendo Di Maggio, ma Di Maggio era stato portato lì da Graviano.
SALVATORE BAIARDO Sì a Borgomanero lì all’officina, ma lui gli aveva trovato da lavorare lì.
PAOLO MONDANI Perché lui aveva insidiato la fidanzata di Brusca e Brusca non era...
SALVATORE BAIARDO E voleva farlo fuori.
PAOLO MONDANI Ascoltami, ma chi l’ha consegnato Balduccio Di Maggio a Delfino?
SALVATORE BAIARDO Lo ha fatto consegnare Graviano.
PAOLO MONDANI E come lo consegna, glielo presenta? Che fa’? Che succede? Materialmente lui?
SALVATORE BAIARDO È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino.
PAOLO MONDANI È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino? A casa sua? Lì in questo paesino, a Meina?
SALVATORE BAIARDO È così.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stando a questa ricostruzione, Graviano consegna Di Maggio a Delfino. E così vende Totò Riina allo Stato. E la storia si incastra con quanto raccontò il pentito Gaspare Spatuzza, uomo fidato di Giuseppe Graviano che a lui confidò particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al 21 gennaio del 1994 al bar Doney, in via Veneto a Roma.
GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO - 05/02/2019 Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è esplicito su quello che pensa oggi di Berlusconi. E lo indica precisamente come l'Autore.
CARCERE DI ASCOLI PICENO INTERCETTAZIONE TRA GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI - 14/03/2017 Io ti ho aspittatu fino adesso picchì haio cinquantaquattr’anni, i giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando... e no, e tu mi stai facennu morire ‘ngalera senza io aver fatto niente, che sei tu l’autore. Ma ti viene ogni tanto in mente, di fariti ‘na passata... di passarite a mano ‘nta cuscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I fratelli Graviano e il loro favoreggiatore Baiardo hanno sempre detto di essere stati a un passo da Berlusconi. E Berlusconi li ha sempre smentiti. Ora parliamo di due verbali dimenticati. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia e indagava sulle stragi del 1993 insieme al magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, quando firmò due verbali con le rivelazioni di un confidente fino ad allora sconosciuto, Salvatore Baiardo.
PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di avere assistito nella sua casa tra il 91 e il 92 a conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri dalle quali si evinceva che i due avevano interessi economici in comune in Sardegna.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Dunque, lui disse di avere assistito a una conversazione telefonica tra Filippo Graviano e un tale Marcello, non disse che si trattava di Dell’Utri, questo bisogna dirlo per onore della cronaca.
PAOLO MONDANI Successivamente Baiardo aveva capito dai fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo che era Fulvio Lima, parente del politico Salvo Lima, che venivano trasferiti ingenti capitali proprio a Marcello Dell’Utri.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Parlò di questo co-interessamento anche di Fulvio Lima a questo genere di trasferimento di capitale. Ma anche questo comunque fu rammostrato, fu riferito all’autorità giudiziaria.
PAOLO MONDANI La villa dove i Graviano stavano nell’agosto del ’93, dopo le stragi, era ubicata a Punta Volpe, ed è Baiardo che paga l’affitto per conto dei Graviano. Quanto distava dalla villa di Silvio Berlusconi quella villa?
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Ma guardi lui raccontò di avere accompagnato, di avere dovuto recapitare una valigia ai fratelli Graviano che si trovavano in vacanza in Sardegna. E che questa valigia a un certo punto fu recapitata in una villa che era diciamo nel comprensorio vicino a dove c’era la villa del prossimo Presidente del Consiglio.
PAOLO MONDANI Cosa le sembra che Gabriele Chelazzi avesse intuito alla fine del suo percorso investigativo sulla strage di Firenze e sulla strage di Milano, le stragi del’ 93.
FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Io credo che lui avesse percepito chiaramente da tempo, che, diciamo, dietro a questi fatti non c’era soltanto l’ala militare di Cosa Nostra corleonese.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi Salvatore Baiardo diventò testimone fiduciario della Dia e del pubblico ministero Gabriele Chelazzi -che morirà improvvisamente nel 2003- sui presunti rapporti tra Graviano e Berlusconi. Recentemente Baiardo è stato più volte interrogato dal pubblico ministero di Firenze Luca Tescaroli nell'ambito delle indagini sui mandanti delle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, che dopo alcune archiviazioni vedono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri ancora sotto indagine. Mentre è accertato che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati la mente pensante di quelle stragi.
DANILO AMMANNATO - ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME STRAGE VIA DEI GEORGOFILI Cosa Nostra nel ’93 con le stragi colpisce il vecchio per favorire, per facilitare l’avvento del nuovo soggetto politico. La sentenza 5 agosto 2022 secondo grado Trattativa, ci attesta, ci prova che ci fu una convergenza di interessi, cito testualmente: “Vi fu chi come Marcello Dell’Utri tramava, dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi. Dell’Utri portò avanti su imput di Provenzano e Graviano questa opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi alla organizzazione.”
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sulla trattativa Stato mafia, la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros e di Marcello Dell'Utri per non aver commesso il reato che è quello di attentato agli organi politici dello Stato. Però già nella sentenza del 2022 della Corte d'Appello, che assolveva già Marcello Dell'Utri, c'è scritto che Dell'Utri “aveva tramato per assicurare certi risultati elettorali dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. Ecco in queste settimane la Procura di Firenze deve decidere come procedere nei confronti di Dell'Utri e Berlusconi, indagati come mandanti esterni delle bombe del '93 e del '94. È un filone che viene da lontano, dal 1998 e viene rimbalzato tra le procure di Caltanissetta e Firenze. Un reato, lo diciamo, un'ipotesi di reato, per la quale sia Berlusconi che Dell'Utri sono stati già archiviati tre volte. E ora questa nuova inchiesta parte invece dalle nuove intercettazioni in carcere e dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano nel procedimento “'ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. Graviano, che al 41 bis in cerca di benefici, ha detto che sarebbero stati investiti vecchi 20 miliardi di lire dal nonno nelle attività di Silvio Berlusconi. E ora i magistrati hanno avviato anche delle perquisizioni nelle case dei familiari dei Graviano in cerca di questa carta privata e poi hanno avviato anche nuove perizie sui flussi finanziari della Fininvest, che sarebbero risultati 70 miliardi di vecchie lire di cui la provenienza non sarebbe certa. E hanno analizzato anche i flussi di denaro tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sarebbero spuntate fuori delle donazioni per milioni di euro e un compenso mensile di 30mila euro secondo Berlusconi sono un segnale di riconoscimento, di stima, di gratitudine nei confronti dell'amico Marcello e anche per ricompensarlo delle spese legali per i procedimenti che ha dovuto affrontare. Ora per i pm, invece, sarebbero la prova del pagamento di un ringraziamento, diciamo così, nei confronti di Marcello Dell'Utri per non aver coinvolto il Cavaliere nei processi di mafia. Ecco, una tesi che è entrata anche in una informativa della Dia di Firenze del 2021. Ora, ci scrive invece l'avvocato di Silvio Berlusconi, Giorgio Perroni, e dice che tutto il suo patrimonio è perfettamente ricostruibile. Dice che siamo di fronte a una macchina del fango illegale perché le due perizie sarebbero ancora protette da segreto istruttorio. In realtà sarebbero state già depositate al Tribunale del Riesame di Roma in un altro procedimento. Solo che a Giorgio Perroni ancora non erano state notificate, non le aveva ricevute. Ecco, qu questo punto l'avvocato ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze, chiedendo di individuare chi siano gli autori di questa presunta fuga di notizie. Vedremo come andrà a finire. Tornando invece alla strage dei Georgofili del 27 maggio di trent'anni fa, dove hanno perso la vita cinque persone, tra cui due bambine, ecco va detto che il pentito Gaspare Spatuzza ha detto "questi morti non ci appartengono". E allora? E allora insomma, in una recente relazione della commissione Antimafia è spuntato o sono spuntate informazioni e sono inquietanti sull'esecuzione dell'attentato. L'autore è un magistrato che a lungo ha indagato sulle stragi, Gianfranco Donadio.
GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzitutto da un dato indiscusso. A via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all’incirca di 130, 140 chili
PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l’esplosivo militare.
GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi vi sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro. Quindi, altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I periti balistici della strage di Firenze hanno da poco rifatto la perizia sulla bomba dei Georgofili.
PAOLO MONDANI La miscela dell’esplosivo di Georgofili era composta da?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Tritolo, probabilmente in parte preponderante visto gli annerimenti eccetera
PAOLO MONDANI Gli annerimenti delle pietre, della zona.
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Gli annerimenti della zona attorno al punto di scoppio. Poi dinitrotoluene, che potrebbe anche derivare dall’esplosione del tritolo. Poi T4, pentrite e nitroglicerina.
PAOLO MONDANI Per la parte che riguarda l’esplosivo da cava mi è chiaro dove si possa reperire. Ma il T4 e la pentrite dove si reperisce?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Questi due tipi di esplosivo sono assieme nel plastico di fabbricazione cecoslovacca, che veniva utilizzato in campo civile cioè in miniera denominato Semtex H. Separatamente il T4 può stare insieme al tritolo in tritoliti, cosiddetti, di cui la più comune è quella di origine americana Compound B.
PAOLO MONDANI Stabilire se il T4 viene dal Semtex H di produzione cecoslovacca o dal Compound B di produzione americana è possibile?
LORENZO CABRINO- PERITO BALISTICO No.
PAOLO MONDANI Dopo l’esplosione?
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No. Chimicamente non è possibile.
PAOLO MONDANI Quindi non sappiamo se viene dalla Cecoslovacchia o dagli Stati Uniti.
LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No.
ROBERTO VASSALE PERITO BALISTICO - EX COMANDANTE COMANDO RAGGRUPPAMENTO SUBAQUEI LA SPEZIA I reparti speciali hanno due plastici, uno con la pentrite e l’altro con il T4. Però è difficilissimo recuperarlo. Bisogna entrare a Comsubin, ammazzare la sentinella e andarle a prendere.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Rimane quindi un mistero chi ha procurato l’esplosivo al plastico per la strage di Firenze. Ma i misteri irrisolti non finiscono qui. Alcuni uomini della polizia giudiziaria fiorentina fecero indagini che non piacquero a molti.
EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Una nostra fonte interna al mondo massonico fiorentino ci disse che nella Torre dei Pulci c'era un centro di raccolta dati metereologici guidato da Giampiero Maracchi, un climatologo di livello internazionale che è morto pochi anni fa. Ora questo centro era un Laboratorio di Monitoraggio collegato a satelliti con i computer sempre accesi. Quindi per molto tempo si disse che c’era un collegamento con i servizi segreti. Poi ci fu raccontato che l'Accademia dei Georgofili che era ospitata sempre all’interno della stessa Torre era una istituzione in mano alla massoneria, quella che conta di più a Firenze, e che poteva essere diventata il bersaglio di una massoneria collegata alla mafia. Insomma, non era detto che il vero obiettivo della bomba fossero gli Uffizi ma poteva essere che i Georgofili fossero diventati il bersaglio di una mente criminale più raffinata insomma.
PAOLO MONDANI Giungeste a delle conclusioni in queste indagini?
EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Dopo due mesi di indagini accaddero tre fatti. Primo fatto: un ex carabiniere che era stato assunto nella Security di una grande azienda ci venne a dire che se continuavamo con le indagini ci dovevamo ricordare della vicenda dei militari morti dopo Ustica, cioè di quelle morti strane degli ufficiali che avrebbero dovuto testimoniare su quello che era successo la notte che fu abbattuto l'aereo. E noi lo prendemmo come un avvertimento pesante. Secondo fatto: quando dovevamo procedere con la perquisizione a casa del soggetto centrale dell’inchiesta, un nostro superiore lo chiamò e lo avvertì che stavamo arrivando e di fatto ci ha bruciato le indagini. E poi terzo fatto: un importante magistrato improvvisamente impose al nostro capo di troncare le indagini.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da 30 anni si indaga anche sulla presunta presenza di una donna nelle stragi del 1993. Ecco gli identikit della bionda che avrebbe partecipato alla strage di Firenze di via dei Georgofili e della mora che avrebbe preso parte a quella di via Palestro a Milano. In un documento del Sisde, il servizio segreto civile, oggi Aisi, datato 19 agosto 1993 conservato all’archivio centrale dello Stato si legge: “una fonte del servizio operante nell’ambito della criminalità organizzata del capoluogo lombardo ha riferito: il commando che ha preparato e innescato l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano sarebbe stato composto da due artificieri appartenenti ad una organizzazione parallela ed affiliata alla Mafia e da una donna che avrebbe parcheggiato la macchina con l’esplosivo. In passato sarebbe stata soprannominata “Cipollina”. Della bruna Cipollina e della bionda ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso indagato come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci". La catena di comando di questo nucleo occulto di agenti speciali di cui avrebbe fatto parte anche Peluso secondo la signora Castro era formata da Giovanni Aiello, faccia di mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.
PAOLO MONDANI Faccia di mostro per suo marito era il?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però è un suo superiore.
PAOLO MONDANI Contrada?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.
PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, sì, venerdì mattina.
PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si ha detto che a uccidere Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.
PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi segreti hanno fatto saltare Falcone?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto Marianna Castro ci racconta di un viaggio a Milano fatto da Peluso a fine luglio del ’93, alla viglia dell’attentato in via Palestro. Stesso viaggio anche a Firenze poco prima della strage
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La sera stacco dal lavoro alle otto allora ha detto: ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutti e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e lo accompagno là e c’era la macchina che l’aspettava e lì dentro c’era pure Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.
PAOLO MONDANI E dove andavano?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh…no dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano.
PAOLO MONDANI Sì.
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Gli ho detto scusa ma…siete partiti, siete tornati e c’è stato questo attentato? Ha detto: che vuoi dire che siamo stati noi? Ma e scusa che siete andati a fare fin là, a fare le indagini di che?
PAOLO MONDANI E lui come rispose?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. Non…e a Firenze è stata la stessa storia con la strage di Firenze.
PAOLO MONDANI Cioè?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sempre a dire mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua… che là…benissimo lo accompagno là
PAOLO MONDANI E sempre faccia da mostro con...?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti dice…lui diceva: la donna davanti è la segretaria.
PAOLO MONDANI Bionda.
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Bionda, che era la nipote di Parisi.
PAOLO MONDANI Lui dice che era la nipote di Parisi?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh, era la nipote di Parisi quella Antonella. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere l’identikit delle donne bionde…e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa le assomiglia.
PAOLO MONDANI Ma se io le faccio vedere la fotografia della persona eh…che è stata pure dalla Procura di Firenze indicata come la possibile...
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La Cipollina, la possibile Cipollina, che lui chiamava Cipollina.
PAOLO MONDANI Lui chi? Suo marito? La chiamava Cipollina?
MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO E allora a un certo punto siccome a mia figlia quella piccola la chiamava Cipollina io gli ho detto: “Scusa ma perché chiami Cipollina?” dice: “perché io ho una collega che lavoriamo insieme che c’ha……porta i capelli corti mori a uso cipolla”.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Marianna Castro la donna bionda era nipote del capo della Polizia Parisi. In effetti in questi anni indagini calabresi si sono concentrate su Virginia Gargano, parente acquisita di Vincenzo Parisi e ritenuta vicina a Giovanni Aiello, Faccia di Mostro. Vicinanza mai accertata. Il legale di Virginia Gargano ritiene che le ipotesi di accusa siano indimostrate e indimostrabili. Marianna Castro riconosce anche la donna mora, che risulta essere soprannominata Cipollina esattamente come risultava al Sisde. Il 27 luglio del 1993 una bomba in via Palestro a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici. I magistrati ritengono che ci sia un buco di 48 ore nella ricostruzione della preparazione della strage perché nessuno dei collaboratori di giustizia sa dire quel che accadde dopo. Come se i mafiosi avessero passato nelle mani di altri l’esecuzione. Fabrizio Gatti nel 2019 scrive “Educazione americana” la storia di un agente della Cia di stanza a Milano che gli rivela i retroscena della strage.
FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Dice di chiamarsi Simone Pace, il suo nome convenzionale, quindi io credo che sia anche un nome finto, e racconta e rivela che in quegli anni degli attentati così come prima e negli anni successivi esiste in Italia e anche a Milano una squadra clandestina della Cia formata da cittadini italiani e americani e in particolare lui, nei mesi precedenti all’attentato di via Palestro, viene coinvolto dal suo capo americano che dice di chiamarsi Viktor, viene coinvolto in un sopralluogo in via Palestro.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo in un sabato di metà aprile del 1993, il responsabile Cia Viktor porta Simone Pace senza alcun preavviso in via Palestro. Lì prende delle misure con i passi e si annota a matita su un foglio alcune informazioni. E poi, passano ai fatti.
FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Viktor il suo capo, che loro chiamano in gergo "il controllore" chiede a Simone Pace di comprare del fertilizzante a base di nitrati, della carbonella e dello zolfo, che sono i componenti per produrre, per fabbricare la polvere da sparo. Si danno appuntamento al primo maggio, sempre del 1993 in un appartamento dalle parti di Arluno e lì in questo appartamento in un caseggiato popolare dove Viktor dice di abitare, fabbrica, Viktor, con questi ingredienti e un tubo di plastica una miccia e con un timer misurano la durata di combustione di questa miccia che è due minuti e nove secondi circa.
PAOLO MONDANI Si scopre che ad Arluno, a poche centinaia di metri dalla casa di Viktor, "il controllore", il capo di questa squadra clandestina della Cia, i due mafiosi Carra e Lo Nigro avevano portato l’esplosivo per la strage, appunto...
FABRIZIO GATTI GIORNALISTA L’autista del camion Pietro Carra, che poi diventerà collaboratore, racconta di un uomo che prende in consegna questo esplosivo, che arriva all’appuntamento su una 127 bianca e dalla sua descrizione potrebbe trattarsi dello stesso Viktor: un uomo sui quarant’anni, abbastanza calvo, che tra l’altro si muove con una 127 bianca.
PAOLO MONDANI Questo agente della Cia, Simone Paci, che è un po’ la tua fonte, che cosa ti dice a proposito del contesto di quei giorni? Della strage...
FABRIZIO GATTI GIORNALISTA Lui si definiva un facilitatore della storia, laddove i governi non possono arrivare ci sono gli agenti segreti che in qualche modo anticipano gli eventi e creano le condizioni perché tutto questo accada.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell'ultima relazione l’Antimafia scrive: “si impone una verifica dei dati e delle informazioni raccolte dal Sisde in ordine all'esistenza di un'organizzazione parallela con finalità terroristiche che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi”. Ecco, noi di Report in questi anni abbiamo dimostrato, raccontato, portato prove e testimonianze che le stragi del '92 e del '93 non sono altro che la continuazione di quella strategia della tensione cominciata negli anni '70 e '80 con lo stesso sistema criminale. E poi è quello anche che è emerso dalle recenti sentenze della strage di Bologna. Ora la domanda è questa verifica dei fatti che chiede l'antimafia, qualcuno la sta facendo?
Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “la Stampa” il 23 maggio 2023.
Questo Baiardo comincia a diventare stucchevole, oltreché losco: rivela, minaccia, confida, prevede, allude, chiede soldi; non sembra aver paura, né che gli tappino la bocca i suoi vecchi sodali, né che qualche giudice gli metta le manette (e, francamente, non si capisce il perché non lo facciano). Si capisce perché la trasmissione di Giletti su La 7 sia stata chiusa – l'editore non voleva finire nei guai -, si capisce meno perché la Rai abbia mandato in onda ieri sera un'ennesima puntata della saga del gelataio, in cui Baiardo rivela che l'ormai famosa foto (virtuale) del trio Berlusconi – Graviano – Generale dei CC Delfino, seduti tranquilli al bar della piazza di Orta San Giulio, sono non una, ma tre e che le ha scattate lui.
A poco sono servite le proteste dei legali e della famiglia Berlusconi, per l'infamia che sottendono; se La 7 si è ritirata dallo show, la Rai insiste; e io non riesco veramente a capire il perché. Né, di nuovo, capisco perché carabinieri o magistrati lascino libero Baiardo di imperversare, da sei mesi. Forse pensano di risalire attraverso di lui ai suoi mandanti?
O forse pensano di lasciar passare senza troppi colpi di scena, l'anniversario della strage di Capaci, il trentunesimo per l'esattezza: un altro secolo, un'altra vita, un'altra generazione.
O forse c'è – intorno a Baiardo – qualcosa di indecoroso e di indicibile.
Nelle righe che seguono vi propongo di riconsiderare una sequela di eventi, la maggior parte dimenticati, che formano una possibile narrazione, come si dice ora.
Dunque, nel 1992, Giuseppe Graviano, boss palermitano semi sconosciuto, ma in realtà molto ricco, molto potente e molto protetto, conduce una latitanza dorata e senza problemi di sicurezza tra il paese di Omegna e Milano, dove ha "nella sua disponibilità", un appartamento a Milano 3, la creatura di Berlusconi, con cui, dice lui, è in rapporti di affari (affari molti seri).
Ad Omegna invece è Salvatore Baiardo, un affiliato al clan, a fargli da segretario e autista tuttofare. Il generale dei carabinieri Francesco Delfino, dopo anni passati a Miano ad occuparsi di sequestri di persona (il suo reparto, piuttosto che "La Benemerita" era chiamato "La Benestante", perché il generale, quando liberava un rapito, lo convinceva a ringraziare l'Arma). Delfino conosceva Berlusconi?
Non c'è prova, ma è probabile, di certo pescò tra i carabinieri gli uomini per la sicurezza privata della sua famiglia. Delfino conosceva Graviano? Sicuramente, in quanto Graviano gli fece fare "il colpo del secolo", con l'arresto dell'autista di Riina, nel paese di Borgomanero, a pochi chilometri da Orta. Non solo, ma Delfino si premurò di avvertire, sei mesi prima del fatto, politici potenti che sarebbe stato lui ad arrestare Riina. Giuseppe Graviano, tre anni fa, pubblicamente rivelerà di conoscere Delfino e si vanterà di aver fatto un servizio allo Stato contribuendo alla cattura di Riina. (E' un argomento che il generale Mario Mori, uscito indenne dopo un ventennio dal famoso processo trattativa, non ama affrontare. Il merito tocca a lui. Delfino non ribatte, perché è morto, in disgrazia peraltro).
Dunque, sicuramente la notizia della foto che ritrae il trio è falsa, ma naturalmente è verosimile; siamo insomma nella situazione peggiore.
Ma torniamo al nostro gelataio. Salvatore Baiardo il 27 gennaio 1994 accompagna con la sua Mercedes 190 i Graviano Giuseppe e Filippo da Omegna a Milano. I due, le loro fidanzate e altri amici palermitani, vengono arrestati la sera mentre mangiano al ristorante. Ma nessuno trova loro le chiavi di casa, né di Omegna, né di Milano Tre.
In sostanza, un po' come era successo per la casa di Riina a Palermo, nessuno tocca le sue cose, i suoi documenti, i suoi effetti personali, i suoi soldi o i suoi telefoni.
Salvatore Baiardo sarà arrestato più di un anno dopo e accusato di reati gravissimi: avrebbe organizzato la logistica dell'attentato degli Uffizi a Firenze, organizzato un imponente riciclaggio di denaro per contro dei Graviano. È verosimile che Baiardo abbia preso in consegna gli effetti personali dei fratelli Graviano? Sì.
Molto strano è il passaggio di Salvatore Baiardo attraverso il mondo giudiziario. Arrestato dalla DIA di Firenze e passato sotto la supervisione di Pier Luigi Vigna, parla molto, ma non mette a verbale.
Fa nomi, elenca circostanze, ricostruisce la filiera dei soldi, ma non diventa un "collaboratore di giustizia". Viene liberato dopo due anni e due mesi. Quando si andrà a processo, sorpresa: contro di lui Vigna firma solo una richiesta – risibile – per favoreggiamento. E per questo viene liberato e perdonato. Se ci sia stata una trattativa privata tra il procuratore e l'imputato non si saprà mai.
Vigna intanto è diventato procuratore nazionale antimafia e quell'esperienza "baiardesca" gli viene utile, quando, luglio 1997, viene arrestato a Palermo Gaspare Spatuzza, il killer più in gamba del clan Graviano. Spatuzza e Baiardo si conoscono, eccome. Il clan Brancaccio si sta dissolvendo, tra pentiti e semi pentiti. Gaspare Spatuzza non è da meno e spiffera tutto subito: "se volete la verità, guardate a Milano Due" sono le sue prime parole: il procuratore Vigna lo cura, lo fa trasferire al carcere di Tolmezzo (il penitenziario preferito per colloqui riservati) e lì, insieme al suo vice Piero Grasso, Spatuzza racconta tutto, luglio 1998, ma proprio tutto: le stragi, Capaci, via D'Amelio, i Graviano, Dell'Utri, Berlusconi, la nascita di Forza Italia, l'impostura del falso pentito Scarantino, il ruolo malefico del questore Arnaldo La Barbera.
Ne esce un verbale di 164 pagine […] quando sembra che l'accordo sia fatto, Spatuzza non firma, affermando che le garanzie per sua moglie non sono sufficienti. Succede spesso così, nelle grandi trattative, ma stranamente Vigna non rilancia; eppure era facile: avrebbe potuto coprirla d'oro la moglie di Spatuzza e lui medesimo, la coppia era terribilmente venale.
Per dire, quando Spatuzza uccise don Puglisi, al Brancaccio, prese dal suo portafoglio la marca della patente.
Quando Graviano gli impose di controllare i freni della Fiat 126 che avrebbe ucciso Borsellino, si fece dare cinquantamila lire, ma non li diede al meccanico).
E invece, niente, i tre si salutano… Resta però un verbale scritto (quello audio invece pare proprio si sia perso) che riaffiora quindici anni dopo in un dimenticato faldone della procura di Caltanissetta, davanti alla quale Spatuzza nel 2010 ha finalmente concluso la trattativa sul suo pentimento light. E dire che quel documento non avrebbe mai dovuto saltare fuori.
C'è un altro particolare che lega Baiardo a questa grande vicenda.
Nel 2010, quando, […] viene resa nota la testimonianza di tale Fabio Tranchina ("Giuseppe Graviano ha schiacciato il telecomando di via D'Amelio"), il gelataio di Omegna si fa vivo con i giornali: io so la verità! Tranchina mente, quel giorno Graviano era con me ad Omegna, un poliziotto può testimoniarlo; si fa forte del fatto che, in fin dei conti, è stato solo un favoreggiatore, reato minore. L'alibi era palesemente falso, ma nessuno neanche pensa di incriminare Baiardo. Chissà perché.
Ora, quindici anni dopo, tutto sembra dimenticato e Salvatore Baiardo è in grado di tenere sulla corda mezzo mondo. Ha la foto del Trio, ha visto, anzi l'ha addirittura fotocopiata, l'Agenda Rossa di Borsellino, ha trattato una soluzione del caso con Paolo Berlusconi, sta per pubblicare un libro, nessuno lo può fermare, Tik Tok lo ospita volentieri, Report anche. Sa anche perché è stato ucciso Falcone: l'hanno ucciso i comunisti perché indagava sui finanziamenti russi al Pci.
Ma davvero siamo ridotti così, che dopo 31 anni di antimafia, chi comanda la scena è il gelataio di Omegna?
[…] Oggi è l'anniversario, e Baiardo è l'unico a festeggiarlo. E' diventato famoso, ha vinto. Ed è un peccato che noi – noi opinione pubblica, noi magistrati, noi Stato, noi giornalisti gli abbiamo permesso tutto questo scempio di verità. Resta davvero l'amaro in bocca, inoltre, che la verità si sapesse fin dall'inizio e che sia stata così facilmente occultata.
Baiardo: "Ho tre fotografie di Berlusconi con Graviano". Luca Serranò su la Repubblica il 23 maggio 2023.
Il fiancheggiatore dei boss torna a minacciare: "Se le cose vanno male usciranno nel mio libro"
Torna a parlare Salvatore Baiardo, il fiancheggiatore del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano che più volte nell'ultimo anno è stato sentito dai pm fiorentini che indagano sui mandanti occulti delle stragi del '93. Raggiunto da Report, Baiardo ha risposto alle domande sulla foto dei misteri, lo scatto - di cui aveva parlato anche con Massimo Giletti, come confermato da alcune conversazioni intercettate, salvo poi smentire la circostanza ai magistrati - che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.
Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per repubblica.it il 22 maggio 2023.
Il favoreggiatore della mafia stragista, Salvatore Baiardo, ha parlato della foto che ritrae Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino anche con Report, in onda su Rai 3 e su Raiplay.it, confermando di fatto ciò che aveva detto a Massimo Giletti. Baiardo si è dunque vantato con due giornalisti di avere la foto scattata nella primavera del 1992 attorno alla quale adesso ruota la nuova inchiesta della procura di Firenze. È un'immagine che metterebbe insieme la mafia stragista e la politica.
[...] le foto sarebbero tre, e a scattarle sarebbe stato proprio lui, Salvatore Baiardo, nei pressi del lago d’Orta.
Dell’esistenza di questa immagine, racconta Baiardo, è a conoscenza anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’ex premier. Il favoreggiatore dei boss a gennaio 2011 si è presento da Paolo Berlusconi in via Negri a Milano e gli avrebbe mostrato una vecchia polaroid con l’immagine dei tre personaggi. Il fratello dell’ex premier quando Baiardo si è allontanato dal suo ufficio avrebbe protestato con gli agenti della sua tutela sulle richieste fatte dall’uomo. Chiamato dai pm fiorentini si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Si potrebbe dunque trattare della stessa foto che Massimo Giletti racconta di aver visto ai magistrati di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, che indagano sul ruolo di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri rispetto le stragi del 1993.
[...]
Se questa immagine fosse vera, potrebbe provare accordi e conoscenze di Berlusconi, sempre negati, con Graviano, ancor prima delle stragi di Falcone e Borsellino.
Estratto dell’articolo Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 maggio 2023.
Una foto fantasma continua ad agitare il mondo della politica. A dicembre […] Massimo Giletti aveva raccontato alla Procura di Firenze di aver visionato, solo a distanza, uno scatto sulla cui autenticità, però, non poteva garantire e in cui sarebbero stati immortalati Silvio Berlusconi e il mafioso Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo per le stragi del 1993, per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo e altre uccisioni.
Stasera la trasmissione Report svelerà nuovi particolari sull’intricata e contraddittoria vicenda. A rendere il quadro particolarmente confuso è il protagonista della storia, Salvatore Baiardo, levantino favoreggiatore della latitanza dei fratelli Graviano. È lui che, nel luglio del 2022, avrebbe mostrato a Giletti una vecchia Polaroid con i contorni bianchi, nascosta nella tasca interna della giacca.
L’istantanea, a detta di Baiardo, sarebbe stata realizzata ai tavolini di un bar della piazza di Orta, sull’omonimo lago, e ritraeva Berlusconi (al centro, con una polo scura), il defunto generale Francesco Delfino (in abiti civili), chiacchieratissimo ex ufficiale dell’Arma (condannato per essersi intascato i soldi di un sequestro e accusato dai pentiti di «essere l’uomo chiave della strategia della tensione»), e un giovane che Giletti non riconosce, ma che Baiardo sostiene essere Giuseppe Graviano […].
Baiardo è lo stesso che aveva anticipato a Giletti che il capo della mafia Matteo Messina Denaro era «molto malato e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo». Sui tempi della resa, aveva detto sibillino che «ci sono delle date che parlano». Il 16 gennaio 2023 […] il boss è finito in ceppi […]
Il «veggente» siciliano aveva affrontato l’argomento, a ottobre, a Palermo, anche con l’inviato di Report, Paolo Mondani. Quest’ultimo, il 2 marzo scorso, incontra nuovamente Baiardo, sempre nel capoluogo siciliano, e lo registra di nascosto.
Il factotum dei Graviano non è più il Baiardo loquace di fine 2020, quando venne intervistato per la prima volta dalla trasmissione di Ranucci. È diventato diffidente. Ammette solo che le foto sono «più di una» e, quando l’inviato gli chiede chi le abbia scattate, alza la mano. E, un po’ minaccioso, annuncia: «E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto».
In effetti, l’ex gelataio un’autobiografia lo sta scrivendo e si intitolerà Le verità di Baiardo. Nelle immagini rubate da Report, l’uomo riferisce anche che gli scatti sarebbero stati effettuati a Orta nel 1992, dopo la morte di Paolo Borsellino. «C’era in ballo la nascita di Forza Italia» specifica sornione. Mondani, a questo punto, domanda: «Berlusconi sa che avete le foto?». Nel video Baiardo annuisce e conferma di averne parlato con Paolo Berlusconi.
Il quale, fa sapere Report, «sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più». Baiardo ai magistrati ha, invece, raccontato che «l’incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro».
Il 2 marzo scorso, Baiardo manda a Giletti un selfie che lo ritrae insieme con Mondani e gli scrive: «Loro ricominciano ad aprire, vogliono farla con Netflix». Quindi fa capire a Giletti di aver discusso con l’inviato Rai degli scatti di Orta: «Ma tu hai parlato in giro di alcune foto? Mondani lo sapeva già. Quelle che sai tu». Giletti resta sorpreso: «Come fa a sapere?». Baiardo ribatte: «Lo chiedo a te».
Giletti gli suggerisce di cercare la fonte di Mondani e Baiardo replica: «Lunedì che viene, voglio chiedergli questa fesseria per vedere cosa mi risponde. Perché io ho fatto finta di cadere dalle nuvole». L’ex complice di Graviano fa anche riferimento a una data: «Dopo il giorno otto ne vedrai delle belle». E aggiunge che, per questo, «si stanno muovendo tutti».
Che cosa è successo l’8 marzo? Lo spiega Sigfrido Ranucci nella puntata in onda stasera: «La data coincide con la pronuncia della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell’ergastolo ostativo del governo. Insomma una sorta di banco di prova». Il 27 marzo la Procura di Firenze perquisisce Baiardo alla ricerca della foto. L’uomo, interrogato dall’aggiunto Luca Tescaroli, ne nega l’esistenza. Ad aprile, la trasmissione di Giletti viene sospesa. Noi, il 15 dello stesso mese, raccontiamo la vicenda dell’istantanea e del selfie di Baiardo con Mondani, ipotizzando che potesse servire «a scatenare un’asta tra trasmissioni concorrenti».
Il 16, su Tiktok, Baiardo prova a smentire tutto: «La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili.
Che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza». E poi, in una sorta di excusatio non petita, aggiunge di essersi accorto che Mondani aveva una telecamera nascosta e allora gli aveva raccontato «un mucchio di fesserie».
Lo scorso 26 aprile Mondani è stato sentito dalla Procura fiorentina e i magistrati hanno acquisito immagini e registrazioni degli incontri dell’inviato con Baiardo. Nella puntata di stasera Ranucci si domanda: «Ma a che gioco gioca Baiardo? Per conto di chi gioca? Noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Giletti e della sua squadra. Ma se dovessero essere questi i motivi (la storia delle foto, ndr), e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese».
E poi ha concluso: «La mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, sarebbe anche un po’ irritata nei confronti del premier (Giorgia Meloni, ndr) perché non ha ceduto, nonostante le pressioni, all’indebolimento del 41 bis. E Meloni ha detto più volte “io non sono ricattabile». Infine, Report raccoglie la testimonianza di un funzionario di polizia (oscurato in viso) che farà discutere.
Nella casa della sorella di Matteo Messina Denaro, Rosalia, i poliziotti avevano trovato e fotografato di nascosto dei pizzini, ma solo dopo che in quell’abitazione entrarono i carabinieri sarebbe stato rinvenuto il messaggio che parlava dei problemi al colon del capo della Piovra e che ha permesso di dare una svolta alle indagini. Per il funzionario, i colleghi dell’Arma avrebbero «pestato i piedi» alla polizia e la Procura avrebbe autorizzato solo i carabinieri a intercettare il telefono di Rosalia. Anche per Baiardo, Messina Denaro, «dovevano prenderlo loro», gli uomini della Benemerita. Accuse che rischiano di bissare le polemiche seguite alla cattura di Riina.
Estratto dell’articolo di Enrico Deaglio per “La Stampa” il 23 aprile 2023.
Non c'è nulla che dia più fastidio alla mafia che la televisione. Non le piace: la tv comunica un senso della realtà difficile da dimenticare e poi raggiunge troppe persone, che poi magari prendono coraggio; la tv mostra i mafiosi per quello che sono, spesso dietro le sbarre, deboli, tutt'altro che invincibili; e loro invece sono abituati ad essere rispettati. Neanche la parola scritta, gli piace; ma quella la leggono in pochi. La televisione è peggio.
[…]
Il binomio mafia-televisione è tornato di attualità in questi mesi e sta al centro di una notevole conversazione pubblica: è il "caso Giletti", con le sue clamorose rivelazioni in diretta, culminate con la chiusura improvvisa del programma e un retrogusto di mistero.
Chi è veramente questo Baiardo, un gelataio capace di profetizzare, con due mesi di anticipo, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro? Esiste davvero la fotografia del boss mafioso insieme all'imprenditore e al generale dei carabinieri in piacevole colloquio sul lago d'Orta? Davvero tutto l'arresto di Salvatore Riina fu una colossale messa in scena? E chi sono veramente questi tenebrosi fratelli Graviano, ancora oggi in grado di ricattare lo Stato?
[…]
I fratelli boss
Partiamo dai misteriosi fratelli Graviano. Sono due, Filippo (nato nel 1961) e Giuseppe (nato nel 1963), boss del quartiere Brancaccio di Palermo. Passati sotto i radar negli anni Ottanta (sono condannati al maxiprocesso, ma a pochi anni), diventano potentissimi e ricchissimi "urban developers" di Palermo: la loro opera più grandiosa è un grande albergo di lusso, il San Paolo Palace Hotel, al centro del loro malfamato quartiere, che diventa il luogo di incontro dell'élite della città, dai politici ai magistrati, agli investigatori e ai sindacalisti, che entrano nella hall sfiorando i locali della "camera della morte" in cui la mafia del quartiere ha eliminato qualche centinaio di nemici. Nell'attico abita la madre dei due, cui il clan è devoto, come al vero Capo (Invece che Godfather, la chiamano Godmother).
All'inizio degli anni Novanta il clan dichiara di voler trasferire la propria residenza e la propria attività economica nel Nord Italia e in Svizzera. Non figurano tra i sospetti, né tra gli esecutori delle stragi del '92-'93, ma vengono considerati i mandanti dell'omicidio di don Puglisi avvenuto nel settembre 1993, nel loro quartiere. Vengono arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, in un ristorante alla moda con le loro fidanzate. Sono al 41 bis da allora.
E un signore di Omegna, provincia di Verbania; tra il '91 e il gennaio 1994 ha organizzato nella cittadina la residenza dei Graviano, facendo loro da autista, organizzando le loro vacanze e introducendoli nell'ambiente cittadino. Per questo motivo subì un arresto nel 1995 e fu condannato in appello a Palermo nel 1999 per "favoreggiamento" (essendo cadute le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso e di riciclaggio di denaro).
È il personaggio televisivo del momento; ha predetto l'arresto di Messina Denaro, ha promesso altre grandi rivelazioni e ha mostrato (mano sua) a Giletti una fotografia (tipo Polaroid) in cui si vedono – a suo dire – Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino seduti a un tavolino di un bar in quella che sembra la piazza principale di Orta-San Giulio, luogo incantevole e turistico. Vestiti primaverili, probabile anno 1992.
Giletti ha riferito questa circostanza ai pm di Palermo che indagano sulla vicenda; gli stessi hanno intercettato Baiardo che parla con Giletti della fotografia; Baiardo non risulta incriminato per alcunché. In seguito a questi fatti, Urbano Cairo, editore de La7, ha chiuso la trasmissione.
Francesco Delfino (generale dei carabinieri e superagente del Sismi, morto in disgrazia nel 2014) viene indicato come il terzo uomo della fotografia, insieme a Berlusconi e Graviano. Possibile? Un tempo si sarebbe detto: impossibile e assurdo; ora però non più. Da qualche tempo si parla parecchio del suo vero ruolo nella cattura di Riina.
Secondo Graviano stesso, e Baiardo di rimando, il famoso pentito Balduccio Di Maggio, che guidò i carabinieri alla cattura del capo dei capi, sarebbe stato convinto a farsi arrestare, a Borgomanero, pochi chilometri da Omegna, in cambio di molto denaro dal Graviano medesimo, in accordo con il generale (non nuovo a queste operazioni spregiudicate).
Delfino, in compenso dell'aiuto ricevuto da Graviano, gli avrebbe fatto avere una "favolosa protezione" per le sue malefatte e i suoi affari. Che Delfino potesse conoscere Berlusconi non deve stupire; i due erano in contatto fin dai tempi dei sequestri di persona a Milano. Il primo come investigatore, il secondo come potenziale vittima. Berlusconi, peraltro, quando costruì Milano Tre, ci volle una stazione dei carabinieri, che regalò ai carabinieri stessi, che dall'epoca sono grati (Ed è tornato alla mente che Giuseppe Graviano ha fatto sapere di aver avuto un appartamento a disposizione a Milano 3 e l'ha collocato «nei pressi della stazione dei carabinieri»).
La gloria di Delfino per l'arresto di Di Maggio e quindi di Riina durò poco: nel 1998 fu lui stesso arrestato per aver estorto un miliardo alla famiglia di un notissimo industriale bresciano, suo amico, Giuseppe Soffiantini, in cambio della sua liberazione da un lunghissimo rapimento. Si scoprì all'epoca che non era la prima volta che il generale si comportava così; amava molto il lusso e perdeva al gioco.
[…] Killer del quartiere Brancaccio, Spatuzza venne arrestato per l'omicidio di don Puglisi e per la partecipazione alla strage di via dei Georgofili, ma rimase una figura di secondo piano fino al 2009, quando – al termine di «un percorso di pentimento religioso» certificato addirittura dal vescovo dell'Aquila – venne presentato all'opinione pubblica con una bomba: Spatuzza disse di essere stato lui a preparare l'attentato Borsellino, distruggendo dalle fondamenta tutto il lavoro – quindici anni – degli investigatori e dei giudici di Caltanissetta che avevano presentato un altro colpevole – un ragazzo di borgata di nome Vincenzo Scarantino – come l'organizzatore dell'eccidio.
Scarantino aveva chiamato correi un'altra dozzina di persone che erano al 41 bis: erano completamente innocenti. Si trattò della peggior débacle in tutta la storia della lotta alla mafia, cui la magistratura reagì con imbarazzato silenzio.
Ma Spatuzza era un fiume in piena: rivelò di essere stato lui ad aver compiuto gli attentati di Roma, Firenze, Milano; di essere agli ordini dei fratelli Graviano, disse che questi avevano protezioni molto importanti e che erano soci in affari di Dell'Utri e Berlusconi, essendo stati tra i primi finanziatori dell'impero Fininvest. I Graviano, poi, avevano aiutato Forza Italia a vincere le elezioni del 1994. Tutte queste accuse, però, non vennero riconosciute come credibili dalla magistratura.
Ma, a confermarle, con sempre maggiori dettagli ci hanno pensato proprio i Graviano, che negano – naturalmente – di essere gli autori delle stragi, ma non negano, anzi rivendicano i loro rapporti con Berlusconi. Secondo Giuseppe Graviano, autore di una recente (e pregevole per chiarezza) memoria difensiva, la sua famiglia ha contribuito con il venti per cento del capitale iniziale Fininvest e Berlusconi gli aveva promesso di rendere questo contributo palese, invece che occulto. Quando? In un incontro a Milano nel gennaio 1994, alla presenza di avvocati, dopo essersi assicurato l'appoggio dei Graviano per la campagna elettorale. E invece? E invece, sostiene Graviano, «mi ha fatto arrestare!».
Sono le fantasie di chi sta da troppo tempo in carcere? Naturalmente sì – la Fininvest nega qualsiasi cosa – ma… E qui comincia la storia che rende così appassionante la vicenda televisiva attuale.
Partiamo dalla "sera delle beffe". 27 gennaio 1994, in tarda mattinata Salvatore Baiardo da Omegna accompagna Filippo e Giuseppe Graviano a Milano, con la sua Mercedes 190: vanno a fare shopping (Giuseppe è un patito dello shopping). Li lascia in centro e poi torna al paese. La sera apprende che sono stati arrestati, ma lui non lo vengono a cercare. Eppure i Graviano hanno tutta la loro roba lì: vestiti, documenti. O no? O forse avevano un'altra casa a Milano? Non si saprà mai, perché dopo l'arresto, compiuto in circostanze fantozziane, non seguono gli atti che normalmente si accompagnano, perquisizioni, ricerca dei telefonini, indagini sui documenti falsi. Niente.
[…]
Baiardo, comunque, sta tranquillo, anche se a Omegna vedono le foto dei boss arrestati che assomigliano tanto a quei distinti industriali siciliani (si erano presentati così) «in viaggio di affari», e qualcuno si preoccupa un po' perché hanno avuto business con loro; dopo un anno (senza clamore) Baiardo viene arrestato dalla Dia di Firenze. Accuse pesantissime: hanno rintracciato il suo telefono e lo hanno collegato a una villa di Forte dei Marmi in cui, dicono, è stato preparato l'attentato di via dei Georgofili; lo accusano di aver riciclato miliardi e miliardi dei Graviano al Nord, fanno i nomi di Dell'Utri e Flavio Carboni (il riciclatore del caso Calvi).
Baiardo parla? Lui dice di no, ma c'è una cosa strana: alla fine, per lui, in un processo stralcio presso la Corte d'Appello di Palermo, la condanna è solo per favoreggiamento. Caselli, all'epoca procuratore capo di Palermo avrebbe voluto l'associazione con 416 bis, ma si è imposto Vigna, allora procuratore capo a Firenze. No, solo favoreggiamento. Così invece di andare al 41 bis, Baiardo torna a casa, anche se lo metteranno di nuovo in carcere per alcuni mesi nel 1998. Non sarà per caso che Baiardo ha vuotato il sacco? Lui nega.
Anzi, proprio in virtù di essere solo un favoreggiatore, nel 2011 fornisce un alibi (falso) per Giuseppe Graviano, che a questo punto è accusato da due pentiti di aver partecipato materialmente all'eccidio di via D'Amelio. «No, era con me a Omegna quel 19 luglio 1992». Non lo prendono neppure in considerazione. Non lo denunciano nemmeno, però.
[…]
Il fatto è che tutta questa storia dei Graviano, all'epoca non sembra interessare proprio nessuno. La magistratura ha imboccato un'altra strada e assiste felice ai suoi successi: Riina è stato catturato e Di Maggio ha rivelato il "bacio" con Andreotti; il ragazzo Scarantino è stato il factotum del delitto Borsellino. Sì, ci sono state delle bombe in continente, ma sono dovute a un ricatto della belva Riina contro lo Stato: la famosa "trattativa", rivelata da uno dei tanti falsi pentiti; parte un'inchiesta che impegnerà i migliori eroi dell'antimafia, coinvolgendo ministri, governo e addirittura il presidente Napolitano, in cui tutti hanno un ruolo e solo i Graviano sono dimenticati.
Solo dopo trent'anni si è stabilito, in un' aula giudiziaria, che il "caso Scarantino" è stato «il più grande depistaggio della storia italiana», ma si è evitato di dire che a questa impostura ha partecipato, volenterosamente, tutta la magistratura italiana, spalleggiata dal miglior giornalismo. È passato praticamente inosservato che l'ormai famoso Spatuzza, dodici anni prima di pentirsi di fronte al vescovo, aveva già spifferato tutto, alla Dia e alla procura nazionale antimafia. Tutto, ma proprio tutto: addirittura nel 1998, nel carcere speciale di Tolmezzo, dove aveva chiesto e ottenuto di essere messo vicino a Filippo Graviano, davanti alle orecchie attente dei procuratori nazionali Vigna e Grasso.
Racconta Spatuzza: sono stato io, per ordine dei Graviano, il loro rapporto con Berlusconi è la chiave di tutto. E poi, un sacco di particolari: Omegna, il riciclaggio, Baiardo, le vacanze del 1993, uno strano viaggio estivo in Sardegna. Naturalmente, ha poi aggiunto che quella di Scarantino era un'impostura ordita dalla polizia. Certo, stupisce un po' che i vertici della magistratura non abbiano fatto tesoro di queste informazioni, per dodici anni; e che non si siano adoperati nemmeno per togliere dalla galera una dozzina di ingiustamente accusati. Dispiace, ma le cose andarono così. Nello stesso anno, abbiamo uno Spatuzza che spiffera tutto e un Baiardo graziato come semplice favoreggiatore. Forse il procuratore Vigna aveva anche lui un piano.
E per quanto riguarda i fratelli Graviano, furono trattati con tutto il rispetto: un 41 bis che sembra un grande albergo, dove i due fratelli si sposano, figliano, ricevono i loro avvocati, trasferiscono i loro capitali, depistano, inquinano, e ogni tanto ricordano che sono loro a essere in dcredito, con la Fininvest in particolare. Per il resto, sembrano abbiano fatto pace con tutti; Filippo si è dissociato ufficialmente, Giuseppe da tempo collabora con i pm di Firenze, non sono irritati con Spatuzza che ha rivelato i loro affari, quanto con Berlusconi che lo ha fatto arrestare e poi non ha rispettato i patti.
Da anni hanno rivelato i misteri della cattura di Riina e il ruolo del generale Delfino, ma stranamente non hanno trovato orecchie disposte a sentirli; la loro versione della faccenda, infatti, mina alle basi tutta la retorica della lotta alla mafia. Dice infatti Giuseppe Graviano: Riina ve lo abbiamo consegnato noi, sappiatelo. Anzi, ringraziateci due volte, perché avremmo potuto farlo fuggire. Il fido Baiardo, recentemente da Giletti, ha confermato. Non solo, ma poi ha fatto sapere che la stessa cosa è successa con Messina Denaro: sono stati i Graviano a consigliargli di farsi prendere. Già: e se fosse andata proprio così? Sta a vedere che lo sapevano tutti.
Grande potenza della televisione: ora tutti si appassionano alla vicenda. Grande errore di Giletti: è andato a toccare dei fili scoperti, da cui l'Italia ormai pacificata da trent'anni, ha cercato di stare lontana. Per fortuna di tutti – della storia d'Italia, soprattutto – Giletti è stato fermato in tempo. Dispiace per il licenziamento della sua squadra, ma si troverà senz'altro una soluzione.
Estratto da open.online il 24 aprile 2023.
«La Procura l’altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi : sono saltate fuori cose inimmaginabili, che addirittura avrei delle foto che lo ritraggono con i Graviano e il generale Delfino. Tutte cose da fantascienza».
A parlare è Salvatore Baiardo, che nega categoricamente l’esistenza di una foto che ritrae insieme il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi. Ma a rivelare l’esistenza di quella foto sarebbe stato Baiardo stesso a Massimo Giletti […].
[…] Il Fatto Quotidiano ha pubblicato il verbale dell’interrogatorio del conduttore di Non è l’Arena, in cui Giletti dice che lo scatto fu “rubato”, cioè fatto di nascosto. Il conduttore avrebbe anche aggiunto di aver chiesto di vedere la foto perché metteva «in dubbio le sue dichiarazioni. Credo, quindi, che per dimostrare che i rapporti li teneva mi ha mostrato la foto».
L’ex gelataio, molto vicino ai fratelli Graviano, ora però smentisce quella ricostruzione […]: «Non so chi abbia potuto dire una cosa del genere, io ho altre cose da dire ma sono veritiere, non come le fantasie delle Procure. Sulla famiglia Berlusconi sono state dette cose non vere, per cui quelle vere ve le dirò io. Anche sull’incontro con Paolo Berlusconi nella sede del giornale, è stato raccontato come una fantasia, che sono andato lì a intimidire e minacciare Paolo Berlusconi. Tutte fesserie».
Estratto dell’articolo di Roberto Pavanello per “La Stampa” il 3 giugno 2023.
Vita, carriera, opere, ma anche qualche omissione. Urbano Cairo si è sottoposto ieri, al Festival della tv di Dogliani, alla centrifuga di domande "belvesche" di Francesca Fagnani. Piatti forti, il futuro prossimo di La7, il passato remoto con Berlusconi e il futuro da «mai dire mai» in politica.
[…] La conduttrice Rai gli chiede di confermare le voci, quasi urla ormai, dell'approdo di Massimo Gramellini su La7. Il patròn le offre in risposta una mezza conferma: «Appena tutto quanto sarà formalizzato, lo comunicheremo. Sarebbe bellissimo, ma non è ancora fatto».
Insomma, […] manca solo la firma, giacché il numero di maglia gli sarebbe già stato assegnato: dovrebbe essere quello della domenica sera, nella collocazione oraria di Massimo Giletti. […] Resterà invece un'occasione mancata il passaggio di Fabio Fazio alla corte di Cairo. Fagnani lo stuzzica, ed ecco il retroscena: «Questa volta non l'ho cercato, ma ci provai 6 anni fa. Andai a pranzo a casa sua con il suo agente Beppe Caschetto, ma alla fine non se ne fece nulla».
Stavolta invece nessun tentativo di sottrarlo a Discovery, sua prossima destinazione. «Non se lo poteva permettere?», incalza Fagnani. Notevole la risposta: «Se mi sono potuto permettere Giletti, mi sarei potuto permettere anche Fazio».
Doveroso parlare della chiusura di Non è l'Arena […] Cairo ribadisce che nulla c'entrano le puntate sulla mafia con Salvatore Baiardo: «Non ho ricevuto lamentele». Nega anche di essere stato a conoscenza della foto, mostrata da Baiardo a Giletti, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, con il generale dei carabinieri Delfino e il boss Giuseppe Graviano nel 1992: «Non me ne ha mai parlato».
La fine del rapporto sarebbe giunta per ragioni editoriali ed economiche: «Gli ho dato piena libertà per 194 puntate in 6 anni», ribadisce per poi entrare nel dettaglio: «I primi due anni il programma è andato alla grande, nel secondo biennio per colpa del Covid c'è stato il calo pubblicitario. Ma nel terzo biennio ha voluto cambiare giorno e andare in onda al mercoledì nonostante noi lo sconsigliassimo».
[…] «Ha perso due punti - ricostruisce Cairo - e poi, quando è tornato alla domenica, non ha più recuperato». […] «Ho deciso di chiudere prima, parlandone con l'amministratore delegato e il direttore di rete, senza l'ingerenza di nessuno. La motivazione è solo editoriale».
Il tycoon si infervora: «Ho chiamato Mentana e gli ho detto "chiude Giletti, non La7. Se ci sono cose così importanti di cui parlare, ci sei tu, ci sono Floris, Purgatori, Formigli...». Il canale tv di sua proprietà è adesso visto come l'unica opposizione alla destra pigliatutto. Una linea politica che piace al suo editore? «Io non sono di destra né di sinistra. La7 viene considerata un po' più di sinistra, ma io l'ho trovata così, anzi lo era anche di più». Nella filosofia cairesca, «il dna di una tv o di un giornale non lo puoi cambiare, Berlusconi portò a destra Panorama e perse un sacco di lettori». […] C'è solo una cosa in più che vorrebbe se dovesse rinascere: «5 cm». Come Berlusconi.
Estratto dell’articolo di Paola Pica per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2023.
L’affondo della Belva Francesca Fagnani sul caso Giletti arriva dopo più di mezzora di domande personali e a bruciapelo […] al presidente «di quasi tutto» come lo chiama la giornalista, l’editore Urbano Cairo che qui a Dogliani, sotto il tendone del Festival della Tv, parla prima di tutto come patron de La7.
[…] «Ha mai ricevuto telefonate o lamentele per la presenza di Salvatore Baiardo (storico collaboratore del mafioso Giuseppe Graviano, ndr) a “Non è l’Arena” la trasmissione condotta da Massimo Giletti che è stata improvvisamente sospesa?». «No», è la risposta di Cairo. «Ma allora perché ha chiuso una trasmissione che aveva ancora nove puntate davanti a sè?».
«Prima di tutto tengo a precisare che Giletti ha fatto sei anni e 194 puntate su La7, potendo lavorare in piena autonomia — premette Cairo — . Poi va detto che nell’ultimo biennio i costi della trasmissione erano diventati insostenibili — racconta l’editore —. Lui si era impuntato di passare dalla domenica al mercoledì, un’operazione che gli ha fatto perdere quasi due punti di share mai recuperati nonostante poi sia tornato alla domenica». «Ma perché tutta questa fretta di chiudere non è l’Arena», insiste Fagnani.
«Per i costi, ne avevo parlato del resto con lo stesso Giletti e Mazzi, il suo agente o amico non ho ben capito, già nel mese di gennaio». «Lei era a conoscenza» dell’ipotesi o del fatto che Baiardo avrebbe mostrato a Giletti «una foto che ritrae Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino»? «No, Giletti non me ne ha mai parlato. Come detto, aveva autonomia e io mi sono fidato». Fagnani: «I magistrati l’hanno chiamata?». «No, non mi ha cercato nessuno».
Tante le domande su Silvio Berlusconi e gli inizi della carriera di Cairo nel mondo del Biscione: «È stato un grande maestro per me, mi ha insegnato a non mollare mai, a motivare le persone. Perché gli sono piaciuto? Per l’intraprendenza. Non piacevo a Marcello dell’Utri? A quanto pare. Perché sono stato licenziato dalla Mondadori?
L’allora amministratore delegato Franco Tatò, un altro grande maestro, mi comunicò che avevano deciso di spostarmi a Pagine Utili. Io dissi va bene, ma voglio il 50% di quella società. Dopo un mese sono stato licenziato. Ricca liquidazione? Stendiamo un velo pietoso. Mi rimboccai le maniche e fondai la Cairo pubblicità, per i primi contratti con Rcs facevo tutto io. Una cordata per comprare Mediaset? Non c’è nulla di vero».
E ancora: «Quanto mi piaccio? Non tanto, mi do un 7+. Io uno squalo? No, penso sempre a salvare i posti di lavoro. Destra e sinistra? Sono superate. Ma penso si debba investire nell’accoglienza dei migranti e nei giovani. I salotti buoni? Mi invitano, ma non li frequento. Tra indiani e cow boy mi collocano tra i primi? Come direbbe Meloni sono stato un underdog. Cosa mi piace del potere? Avere la possibilità di realizzare le idee. Chi riporterei in vita almeno per qualche minuto? Mia madre».
NON È L'ARENA E LA FOTO DEI MISTERI. Baiardo conferma l’incontro tra Graviano e Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 27 aprile 2023
I magistrati antimafia di Firenze hanno svolto accertamenti e «attività tecniche», intercettazioni, su Salvatore Baiardo, l'ex gelataio diventato famoso per aver predetto l'arresto dell'ultimo latitante stragista, Matteo Messina Denaro, approfondimenti che precedono la sua profezia.
Baiardo, inoltre, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.
Emerge dagli atti dell'inchiesta, che Domani può rivelare, coordinata dalla procura di Firenze, sui mandanti esterni alle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
La foto dei misteri sui rapporti tra i mafiosi stragisti Graviano e Berlusconi, la chiusura di Non è l’Arena e l’ipotesi che circola in procura antimafia a Firenze di sentire come testimone Urbano Cairo, l’editore di La7 e del Corriere della Sera, in quanto persona informata sui fatti, dopo che i pubblici ministeri hanno già ascoltato Massimo Giletti.
Il conduttore ha raccontato ai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco di aver visto uno scatto che ritrae l’ex presidente del consiglio, uno dei fratelli Graviano e il generale Francesco Delfino, il militare al centro di svariati misteri italiani. A mostrargli il documento prezioso a tal punto da poter riscrivere la storia della seconda Repubblica è stato, secondo Giletti, Salvatore Baiardo: il personaggio reso celebre da un’intervista rilasciata a Non è l’Arena in cui ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro. Per quelle apparizioni televisive Baiardo è stato pagato regolarmente dalla produzione esterna a La7.
Baiardo da mago che prevede il futuro si è trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993 in corso a Firenze. È il collante che tiene insieme diversi piani: è stato condannato in passato per favoreggiamento ai fratelli Graviano, ritenuto un loro portavoce, è a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti ottenuti da Domani, degli incontri tra uno dei fratelli stragisti e Berlusconi, in procinto di “scendere in campo”.
Baiardo dunque è il ponte che unisce passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori) con l’ex presidente del consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che la foto non esiste, tuttavia intercettazioni dimostrerebbero il contrario.
Sullo sfondo di questo intreccio c’è uno scenario investigativo che punta a svelare l’identità dei mandanti occulti degli attentati eseguiti dalla mafia di Totò Riina nel 1993, le bombe sul continente, successive al tritolo che aveva trasformato le strade di Palermo in Beirut con la mattanza delle scorte e dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I due indagati eccellenti sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, in passato già coinvolti in inchieste sui mandanti e prosciolti da ogni accusa. Il filo seguito dai detective lega la nascita di Forza Italia, le stragi del 1993, le presunte relazioni pericolose tra i mafiosi stragisti e Silvio Berlusconi, mediati dal fedelissimo Marcello Dell'Utri, che ha scontato una condanna per complicità con le cosche siciliane.
IL BOSS E BERLUSCONI
Per riannodare i fili di questa storia iniziata 30 anni fa è necessario partire dalla figura di Baiardo. I magistrati antimafia di Firenze hanno intercettato Baiardo almeno fino al 2021: a partire dal primo interrogatorio cui è stato sottoposto l’uomo dei Graviano. Inoltre un fatto è certo, Baiardo, è stato utilizzato già nel 2011 «per far giungere un messaggio all'esterno del carcere a Silvio Berlusconi», a nome di altri due stragisti, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Questi elementi emergono dagli atti dell'inchiesta di Firenze, in via di conclusione prima della deflagrazione del caso Giletti, e che ora invece si è arricchita di ulteriori indizi con consequenziale dilatazione dei tempi.
Arriviamo così alla foto Berlusconi-Graviano-Delfino, la cui esistenza è stata svelata da Domani, e che secondo alcuni potrebbe essere una delle cause della fine anticipata del programma condotto da Giletti. Sulle reali motivazioni della decisione non c’è nulla di ufficiale: fonti interne alla rete hanno imputato ai costi eccessivi del programma, altri sostengono che sia stata invece l’operazione Baiardo a portare a una scelta così drastica. Di certo, al momento, non c’è una versione ufficiale esaustiva.
Giletti sostiene di aver visto la foto, individuando solo un giovane Berlusconi. Convocato dai pm racconta del documento in possesso di Baiardo. I pm fiorentini peraltro hanno riscontrato la possibile esistenza ascoltando le conversazioni degli incontri tra l'ex volto di La7 e il pregiudicato. Non sarebbe così assurdo che Baiardo custodisse uno scatto tra Graviano e Berlusconi. Il motivo è da ricondurre al suo ruolo originario avuto per i padrini palermitani. C’è traccia di questo nelle carte dell’inchiesta.
A far ripartire l'indagine sui mandanti esterni ci sono i colloqui intercettati in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno di cella, Umberto Adinolfi, nei quali lo stragista parla di accordi economici con Berlusconi e di quegli anni di bombe e sangue innocente. In queste registrazioni c’è un riferimento a Baiardo presente agli incontri con Berlusconi: «Quando si preparavano gli incontri” e a me mi accompagnava (…) Baiardo...mi accompagna lui, io incontravo a lui», dice Graviano e specifica la ragione degli incontri «per mantenere i patti». In pratica Graviano parla della propria latitanza e della disponibilità di una casa a Milano 3, la cui proprietà apparteneva a un soggetto che lo stragista non nomina, lo definisce come ‘lui’.
«Graviano riferiva di aver utilizzato un soggetto prestanome per creare una copertura su tale immobile mentre, quando si recava agli incontri, necessari per mantenere i patti, si faceva accompagnare da Salvatore Baiardo», scrive la direzione investigativa antimafia. La novità è che, ora sappiamo, Baiardo avrebbe confermato a verbale di aver accompagnato il boss agli incontri, presunti, con Berlusconi. Per l’entourage del Cavaliere si tratta solo di falsità, messe in giro per colpirlo.
MESSAGGI AL CAVALIERE
Tra i colloqui intercettati in carcere c’è una conversazione che, nella parte finale, diventa cruciale: «Rileva l’intenzione di poter far giungere un messaggio all’esterno del carcere a Silvio Berlusconi, nella circostanza definito “B”, e così era accaduto nel 2011 quando, a tale scopo, aveva utilizzato Salvatore Baiardo», scrive Francesco Nannucci, capo centro della Direzione investigativa antimafia.
Tra il 2011 e il 2012 gli avvocati dei Graviano scrivevano alle procure competenti invitandole ad ascoltare Baiardo e lui, in quel periodo, faceva una cosa che ricorda la strategia adottata negli ultimi tempi: parlare ai giornali. Accusava, ritrattava, smentiva nominando Berlusconi per la solita storia dei presunti rapporti con i Graviano, e, anche allora, riferiva di incontri, prove e foto.
Si scopre che, in quel periodo, ha incontrato anche Paolo Berlusconi, il fratello dell’allora primo ministro, come dirà in un interrogatorio del 2011. L’incontro, aveva spiegato Baiardo, serviva a chiedere un posto di lavoro, mai ottenuto. Certamente è curioso che a distanza di tanti anni, dopo la rottura con Giletti, Baiardo annunci sui social un fantomatico ingaggio con Mediaset della famiglia Berlusconi. All’azienda non risulta, secondo molti è l’ennesimo messaggio dell’uomo dei Graviano.
I magistrati di Firenze hanno ascoltato Baiardo quattro volte e alcuni suoi racconti risulterebbero fondati e riscontrati, «il Baiardo televisivo è diverso da quello che si reca in procura», confida un investigatore.
L’INCROCIO CALABRESE
L’indagine di Firenze sui mandanti incrocia un processo calabrese sulla strategia stragista della ‘ndrangheta, la mafia calabrese, in combutta con i siciliani. Imputato e condannato Giuseppe Graviano. E in quel mare di atti spuntano diversi rapporti investigativi sia su Baiardo sia sul generale Delfino. I protagonisti della foto con Berlusconi. Nomi che ricorrono nelle carte e che si incrociano, in quegli anni, pericolosamente.
Uno degli audio che Giletti avrebbe mandato in onda se la trasmissione non fosse stata chiusa, riguarda le dichiarazioni del pentito Nino Fiume: è lui a rivelare l’impegno preso dal capo dei capi della ‘ndrangheta al nord, Antonio Papalia, per evitare il rapimento di Piersilvio Berlusconi, il figlio del Cavaliere. Papalia, c’è scritto nelle note degli investigatori reggini, era in contatto con il generale Delfino.
Molto del materiale del processo sulla ‘ndrangheta stragista è conosciuto anched dai magistrati di Firenze. Per esempio la parte in cui i detective ricostruiscono il collegamento tra i Graviano e Dell'Utri: favorito dall'imprenditore, sodale dell'ex senatore, Filippo Alberto Rapisarda, pregiudicato e socio del sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. «Il nome di Filippo Alberto Rapisarda... è indicato da Salvatore Baiardo quale trait d’union tra Dell'Utri e i Graviano per la gestione di interessi economici e, in particolar modo immobiliari, in Lombardia e Sardegna», si legge in un'informativa depositata.
Ma dalle carte, a proposito degli incroci tra Baiardo e Graviano, è spuntato anche un documento investigativo, definito di «portata eccezionale», relativo all'analisi dei movimenti dei due fratelli stragisti, eccezionale «alla luce delle nuove risultanze sulle mancate attenzioni istituzionali sulla figura di Baiardo», si legge.
I Graviano, nell'estate del 1993, erano in vacanza in Sardegna. «Il dato che qui preme evidenziare è la presenza dei due ricercati, nell’agosto del 1993, a un tiro di schioppo dalla residenza estiva del leader della istituenda Forza Italia, rendez vous dei collaboratori di Berlusconi e, si presume, anche di Dell'Utri», si legge.
Erano gli anni della decisione di Berlusconi di “scendere” in politica, la prima discussione avveniva in Sardegna nell’estate 1993, come ha confermato Gianni Letta, ascoltato nel processo Dell'Utri.
L’allora cavaliere accetta i consigli di quest’ultimo piuttosto che quelli di Confalonieri e Letta, entrambi contrari alla discesa in campo. Perché Silvio si è fatto convincere da Dell’Utri snobbando i consigli persino di Letta? I motivi non li ha rivelati né Berlusconi, né Dell'Utri.
Nell’aprile 2021, gli inquirenti hanno chiesto conto a Graviano di un'intervista in cui Baiardo riferiva che lo stragista avrebbe portato, negli anni novanta, molti soldi al Cavaliere in Sardegna. «Non ho mai incontrato Berlusconi in Sardegna», ribatteva Graviano.
CAIRO IN PROCURA
Le puntate di Giletti sulla mafia e le stragi infastidiscono Dell’Utri. In un’intercettazione, anticipata da La Repubblica, l’ex senatore manifestava irritazione contro gli approfondimenti di Giletti sui suoi rapporti con la mafia, per i quali è stato anche condannato a sette anni di carcere.
Gli investigatori della Dia scrivono: «Altra situazione che preoccupa Dell'Utri è la diffusione della puntata della trasmissione “Non è l'Arena” di Massimo Giletti, andata in onda il 10 giugno (2021, ndr), di cui si è parlato nella richiesta di cessazione a naturale scadenza delle attività tecniche a carico di Salvatore Baiardo», si legge nelle carte dell'indagine. Un altro riferimento a Baiardo, da cui è chiaro che esisteva all’epoca un intesa operazione di intercettazione sull’uomo dei Graviano. Ancora una volta inserito in una informativa sull’ex manager e senatore berlusconiano.
Siamo a giugno 2021, dunque. Dell’Utri a un pranzo parlava con l’avvocata di Mediaset, Enrica Maria Mascherpa, e con il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Dell'Utri esprimeva la necessita di riabilitare, mediaticamente, la sua figura e costruire una strategia per difendere Berlusconi e le aziende, anche perché di lì a breve ci sarebbe stata la sentenza di secondo grado sulla trattativa stato-mafia, processo in cui Dell'Utri è stato assolto.
Tre mesi più tardi Dell’Utri ha rilasciato un’intervista affatto tenera nei confronti di Cairo pubblicata da Il Foglio: «Era un ragazzo sveglio, gli feci fare l’assistente personale di Berlusconi (…) Lui era, ed è ancora, un tipo assai rampante. E se posso, anche un pizzico irriconoscente. So bene che un editore bravo non interviene. Ci mancherebbe. Però, diamine, lui mi conosce. Come può pensare di me le cose che dicono in alcune sue trasmissioni? L’informazione è una cosa. L’accanimento è tutto un altro paio di maniche», diceva Dell'Utri.
L'ex senatore Messina ricorda il disappunto di Dell'Utri per le puntate di Giletti, tuttavia dice: «Io non ho chiamato Cairo, non saprei se lo ha fatto Dell'Utri. Di certo è stato nostro collaboratore, dipendente e assistente del presidente Berlusconi». Ora questi rapporti conditi dai riferimenti diretti espressi da Dell’Utri tornano di attualità con la decisione di chiudere “Non è L’Arena”.
Così dopo la testimonianza fornita da Giletti ai pm, un’ipotesi sembra farsi certezza: la possibile convocazione di Cairo per sentirlo come persona informata sui fatti in relazione al caso Giletti.
Contattati da Domani, l’ufficio stampa di La7 smentisce al momento una convocazione ufficiale. Dalla procura nessuna conferma e neppure nessuna smentita.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 29 aprile 2023.
Essere amico di Marcello Dell’Utri costa caro a Silvio Berlusconi. Questa è la prima certezza che emerge da alcuni documenti inediti e da decine di relazioni dell’antiriciclaggio lette da Domani. Materiale che permette di ricostruire i rapporti economici tra i due fondatori di Forza Italia, entrambi indagati a Firenze nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 tra il capoluogo toscano, Roma e Milano.
Una tassa, quella Dell’Utri, che per Berlusconi era diventata insostenibile a tal punto da dover trovare un accordo che riequilibrasse questo flusso a senso unico, da Silvio a Marcello. Delle riunioni riservate c’è traccia nelle informative della Direzione investigativa antimafia fiorentina.
Incontri in cui è stato deciso il vitalizio mensile, elemento già emerso nei mesi scorsi. Ora con le nuove carte ottenute è possibile svelare come si è arrivati alla decisione di regolarizzare le donazioni a Dell’Utri, stabilendo la cifra di 30mila euro mensili, e chi sono i protagonisti di questa trattativa segreta, che coinvolge oltre a Berlusconi anche alcuni manager di Fininvest e il tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina.
(...)
Gli investigatori antimafia hanno documentato «una trattativa e una mediazione per raggiungere un accordo volto a definire, una volta per tutte, e sistematicamente, le somme di denaro che Berlusconi dovrà versare a Dell’Utri, situazione più volte sollecitata anche da Miranda Ratti (moglie dell’ex senatore, ndr)... Se in precedenza vi erano bonifici saltuari, di importo variabile, ora l’accordo ha stabilito definitivamente una somma mensile, alla quale si andranno ad aggiungere altre somme indirette, quali pagamenti per acquisto e ristrutturazione di immobili, per notule degli avvocati di Dell’Utri e situazioni simili».
A condurre questa «mediazione» e «trattativa» per conto di Berlusconi c’è Alfredo Messina, ex potente manager Fininvest, vicepresidente di Mediolanum e tesoriere di Forza Italia, con Maria Enrica Mascherpa, attuale direttore dell’Ufficio Legale di Fininvest e in un’occasione anche Nicolò Ghedini, lo storico avvocato del Cavaliere scomparso l’anno scorso.
«Alfredo (Messina, ndr) mi ha chiamato che andava ad Arcore ... dove c’era Ghedini...che facevano la riunione e decretavano questa cosa mia ... perché dice che ci vuole il consenso», dice Dell’Utri intercettato, in attesa di ottenere una risposta sulla definizione del sostentamento di Berlusconi. Le riunioni più importanti in cui definiscono i contorni dell’accordo sono tre, tutte a inizio 2021: il 23 febbraio ad Arcore, il 28 febbraio e il 2 marzo negli uffici Fininvest. Nel mezzo e nelle settimane successive sono stati organizzati pranzi e cene alla presenza anche di Dell’Utri.
All’esito di di una di queste riunioni, negli uffici di Fininvest, le intercettazioni rivelano un ulteriore novità: «Trattandosi di cifre elevate, all’esito dell’incontro è stato richiesto a Dell’Utri di scrivere una lettera da recapitare a Silvio Berlusconi al fine di far autorizzare tutte le spese sopra evidenziate», è scritto nell’informativa della Dia.
«Adesso gli faccio la lettera e gli mando anche un messaggio a parte», è il desiderio dell’ex senatore, che i detective spiegano così: «È intenzione di Dell’Utri accompagnare la lettera da un messaggio scritto separato. Inoltre, in occasione del prossimo incontro con Messina, nel corso del quale consegnerà la lettera e il biglietto manoscritto, Dell’Utri chiederà al predetto di chiamare al cellulare Berlusconi per poterci parlare».
Arriviamo così all’11 maggio. È il giorno in cui il ragioniere Giuseppe Spinelli, contabile dei segreti finanziari di Berlusconi, ha ricevuto una mail da due manager di Fininvest, con il via libera all’operazione vitalizio per Dell’Utri. L’oggetto del messaggio di posta elettronica: «Lettera all’amico - risposta».
Il testo: «Gentile Dottor Dell’Utri, il Dottor Berlusconi mi ha dato disposizione di accreditare a Suo favore la somma di euro 30.000 mensili. Provvederemo quanto prima all’accredito della somma corrispondente al primo semestre 2021 e successivamente con cadenza semestrale anticipata. Voglia cortesemente farmi avere gli estremi del Suo Iban. Con i migliori saluti». Accordo raggiunto, quindi, e seguito passo passo dai vertici dell’ufficio legale del colosso aziendale della famiglia Berlusconi.
«Berlusconi non abbandona mai gli amici», replica Messina, che sulle riunioni sostiene di non ricordare, ma di avere eseguito solo disposizioni. «I versamenti sono stati fatti sempre dai conti personali del presidente mai dall’azienda», specifica Messina, «30 mila euro, troppi? Chi riceve ha avuto un ruolo centrale nella crescita delle aziende con incarico di vertice in Publitalia». Nessun ricatto, perciò, solo enorme riconoscenza.
Che sia andato tutto per il verso giusto per Dell’Utri emerge anche dai documenti dell’antiriciclaggio finora inediti.
Una segnalazione di operazione sospetta con cui l’autorità di Banca d’Italia evidenzia anomalie finanziarie rivela la buona riuscita della trattativa: «Da analisi del rapporto sono emersi due bonifici, ciascuno di 90.000 euro, disposti a maggio e giugno 2021 da Silvio Berlusconi, entrambi recanti causale “Donazione di modico valore”. Il cliente ha chiesto l’emissione di una carta di credito che la filiale ha però negato e, a fine giugno, ha quindi richiesto di effettuare un bonifico di 10.000 euro direzionato su una carta prepagata a sé intestata, emessa da una società lituana, chiedendo contestualmente le credenziali per l’accesso all’home banking, onde poter gestire in autonomia il rapporto di conto corrente».
Entrambe le richieste, tuttavia, sono state negate dalla banca. Il segno dei tempi e dei processi, il cliente Dell’Utri non è più affidabile come un tempo.
DA PUBLITALIA A OGGI. Le indagini dell’antiriciclaggio sui milioni di Berlusconi versati a Dell’Utri. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 30 aprile 2023
Oltre a un vitalizio da 30mila euro al mese, Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore. La storia dei soldi dati dal pregiudicato alla banca di Verdini poi fallita. Il faro sui bonifici dei tempi delle stragi
Prima dell’accordo grazie al quale Marcello Dell’Utri ha beneficiato di un vitalizio mensile da 30mila euro al mese, Silvio Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore, condannato per collusione con la mafia. Domani ha svelato le riunioni e le trattative condotte per fare fronte alle continue richieste dell’ex senatore, cofondatore di Forza Italia ed ex manager del colosso televisivo.
Negoziati portati avanti da manager di Fininvest, da avvocati e dal tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina. Il patto economico è stato raggiunto nei primi mesi del 2021. Figlio di una vera e propria «trattativa», così la definiscono gli investigatori dell’antimafia nelle informative depositate nell’inchiesta di Firenze sulle stragi del 1993 condotta dai magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, nella quale sono indagati sia Berlusconi sia Dell’Utri per concorso in strage.
I documenti finora inediti dell’antiriciclaggio permettono di ricostruire nei dettagli questi flussi precedenti all’accordo, ritenuti sospetti anche perché disposti negli anni dei processi per collusione con la mafia di Dell’Utri. Decine di segnalazioni sul denaro che da Berlusconi sono approdati sui conti Dell’Utri e famiglia. Una montagna di denaro, che a partire dal 2011 arrivano al 2021.
DEBITI E VERDINI
La segnalazione più rilevante è sugli 8 milioni di euro versati dal Cavaliere, Dell’Utri li utilizza in gran parte per effettuare bonifici e soprattutto per ripianare debiti con le banche. È il 2011. Tra i creditori c’era il Credito Fiorentino. Dei soldi ricevuti da Berlusconi, Dell’Utri usa 1,6 milioni per ridurre il debito con l’istituto allora presieduto da Dennis Verdini, altro fedelissimo finito in disgrazia. La banca è fallita l’anno successivo, nel 2012. Per il crack Verdini è stato condannato in via definitiva a sei anni.
Il 2012 è un altro periodo di grande generosità berlusconiana in un momento difficile per Dell’Utri, all’epoca ancora sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. La segnalazione 2012 rileva «fondi di importo considerevole trasferiti da Berlusconi a Dell’Utri o a soggetti allo stesso riconducibili, presumibilmente nell’ambito della compravendita di un complesso immobiliare sito in Comune di Torno (CO) denominato “Villa Comalcione” ceduto da Dell’Utri a Berlusconi». In particolare, a marzo 2012, Berlusconi aveva disposto un bonifico di quasi 3 milioni in favore di Dell’Utri, titolare del conto nella banca di Verdini. Altri 15,7 milioni il Cavaliere li versa alla moglie dell’ex senatore. La donna con quella provvista effettuerà un giroconto su un suo conto nella Repubblica domenicana di 11 milioni, causale «per acquisto immobile».
IL CARCERE E LA YACHT
Nel 2016, Dell’Utri era in carcere per scontare la pena a sette anni per concorso esterno alla mafia, l’ex primo ministro versa a uno dei figli un milione di euro, usati da Dell’Utri junior per «pagare i legali del padre e somme ingenti per il noleggio di uno yacht di lusso». Lo stesso anno, segnala l’antiriciclaggio, sui conti della moglie dell’ex senatore Berlusconi invia 2 milioni di euro come «prestito infruttifero».
Nel 2017 sul conto della moglie di Dell’Utri i detective antiriciclaggio, oltre a segnalare operazioni su conti esteri, sottolineano un bonifico dell’ex presidente del consiglio di mezzo milione di euro.
Il 2018 è l’anno della condanna in primo grado nel processo trattativa stato-mafia, Dell’Utri è poi stato assolto nei giorni scorsi in Cassazione. Quell’anno la moglie incassa da Berlusconi tre bonifici per un totale di 1,9 milioni, causale è sempre la solita: «Prestito infruttifero». Oltre 200mila servono per pagare uno degli avvocati di Dell’Utri.
Due mesi prima della sentenza di primo grado sulla trattativa stato-mafia, Berlusconi fa un altro regalo da 1,2 milioni alla moglie dell’amico imputato. A venti giorni dal verdetto palermitano un nuovo versamento sui conti della donna pari a 800mila euro: 300 li gira al figlio, il quale userà parte della provvista per un «finanziamento soci infruttifero» alla società di cui è azionista, la Finanziaria Cinema srl. Soltanto nel 2018, quindi, il capo di Forza Italia ha versato quasi 4 milioni ai Dell’Utri.
LA CASA
L’anno successivo, il 2019, l’antiriciclaggio segnala un altro movimento sospetto: un bonifico da mezzo milione destinato alla consorte di Dell’Utri, proveniente dal solito Berlusconi. Tuttavia i detective di Banca d’Italia individuano anche una compravendita di una villa liberty in un quartiere di Milano da poco riqualificato, “il villaggio del sarto”. In pratica ad attirare l’attenzione è un atto preliminare di vendita tra i Dell’Utri e la società “Quartiere del sarto” il cui rappresentante legale è Simon Pietro Salini, dell’omonima famiglia di costruttori coinvolti nella progettazione del Ponte sullo Stretto, pallino di Berlusconi e riportato in auge da Matteo Salvini.
Il prezzo pattuito per la casa di pregio in centro a Milano è di 1,2 milioni di euro. Dai documenti letti risulta però che alla fine di dicembre 2019 l’atto è stato annullato e alla signora Dell’Utri ha ottenuto la restituzione di 200 mila euro versati come caparra. Poco dopo però Salini ha avuto una nuova offerta della stessa cifra. Il nuovo acquirente è l’immobiliare Dueville srl, tra gli azionisti diverse società, molte delle quali «riconducibili a Silvio Berlusconi», si legge nelle carte dell’antiriciclaggio.
Negli anni successivi, fino al 2021, il canovaccio si ripete fino al vitalizio concordato per l’ex senatore di 30mila euro al mese. Alla pensione d’oro offerta all’ex senatore vanno aggiunti altri benefit, come la ristrutturazione della casa della figlia.
ANNI NOVANTA
Nel fascicolo dell’inchiesta sulle stragi del 1993 c’è molto altro sulle origini dei rapporti economici tra Dell’Utri e Berlusconi. Sono stati allegati gli atti del processo di Torino scaturito dall’inchiesta su Publitalia e le fatture false con Fininvest. Dell’Utri era il principale imputato. Da quelle carte emergono dazioni di denaro extra ricevute dall’allora manager berlusconiano, principale artefice della nascita di Forza Italia. Berlusconi sentito come testimone in quel processo contro l’amico aveva confermato le elargizioni, dal canto suo Dell’Utri aveva dichiarato di aver ricevuto una somma intorno ai 5 miliardi di lire tra contante e valori mobiliari.
Per l’antimafia sono regali importanti se contestualizzati al periodo in cui si concretizzano, «storicamente individuabile in quello delle stragi continentali, ma anche della nascita del partito di Forza Italia, dell’impegno politico di Silvio Berlusconi, del concorso di Dell’Utri nella nascita del partito e del suo ruolo nei rapporti tra Berlusconi e persone appartenenti alla mafia siciliana, e, non ultimo, tra il 18 e il 21 gennaio 1994, l’incontro al bar Doney, per arrivare all’arresto dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994».
I Graviano sono i mafiosi stragisti attorno ai quali ruota l’inchiesta di Firenze e ai loro rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. Secondo il pentito Gaspare Spatuzza, al bar Doney, Giuseppe Graviano gli disse che «avevano il paese nelle mani» grazie all’interlocuzione con Berlusconi e il loro compaesano Dell’Utri.
LA CARTA DIMENTICATA
Per tutti questi motivi, secondo gli investigatori antimafia è rilevante anche un altro documento del processo Publitalia: si tratta della causa di lavoro che Dell’Utri ha mosso contro Fininvest nell’ottobre 1994 per demansionamento. Era l’anno d’oro della discesa in politica e della vittoria elettorale, Berlusconi e Dell’Utri erano una cosa sola. Ancora più strano quel che è accaduto il giorno stesso della presentazione della causa con una conciliazione tra i legali delle due parti che riconosce a Dell’Utri un ammontare di tre miliardi e mezzo di lire «quale risarcimento del danno e incentivo all’esodo», somma più alta di quella chiesta dal fido sodale.
La causa di lavoro serviva a giustificare un’elargizione personale di Berlusconi a Dell’Utri «in modo legale», emerge dalla sentenza di Torino.
La conclusione degli inquirenti in una delle informative dell’inchiesta sulle stragi lega quelle dazioni del 1994 al mutato contesto di relazioni con la mafia: «L’appunto sequestrato (sui 3 miliardi e mezzo, ndr) è relativo al giugno 1994, la causa del lavoro è del fine ottobre dello stesso anno. Ancora una volta il 1994. Dopo l’arresto dei fratelli Graviano, il quadro dell’anno offre un dinamismo finanziario “intenso”, volto quasi a impostare nuovi andamenti, scevri dalla necessità di confrontarsi economicamente con una vecchia compagine mafiosa siciliana, verso la quale si era debitori al fine di instaurare affari economici legati al mondo dell’edilizia, ma per proporsi, anche per il tramite di nuovi contatti con la mafia, individuati da Dell’Utri, a cui va riconoscenza, non per consolidare gli affari immobiliari o televisivi, ma per acquistare, questa volta, potere politico». Ipotesi per chi indaga. Solo teoremi e fango come sostengono i fedelissimi del capo di Forza Italia. Per capire chi avrà ragione bisognerà attendere la fine dell’indagine di Firenze.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Mario Mori ha confessato la “trattativa Stato-mafia”? Ecco perché è una bufala. L'ex Ros nel 1998 ha detto nella sua deposizione al processo di Firenze quello che già aveva riferito nel 1993 alla procura di Palermo. Ma non ha nulla a che fare con la tesi della "trattativa". Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2023
Pur di non ammettere che la tesi giudiziaria è polverizzata, si cerca di confondere l’opinione pubblica sovrapponendo la “trattativa” (o meglio un bluff), quella intercorsa tra gli ex Ros e Vito Ciancimino (e riferita alla procura di Palermo già nel 1993, senza che giustamente i pubblici ministeri ravvisassero elementi “indicibili”) e la “Trattativa Stato- mafia” che racconta una storia totalmente diversa e smantellata con le assoluzioni definitive.
Prima di entrare nel merito della “confessione” dell’ex Ros Mario Mori, bisogna ripartire dai capi d’accusa che dettero l’avvio al processo Trattativa. È qui che si costruisce la storia – in seguito completamente sbugiardata dai fatti - raccontata dai pubblici ministeri palermitani di allora. Il capo A della richiesta di rinvio a giudizio indica l’esistenza, a partire dal 1992, di un articolato piano di attentati ordito dai vertici di Cosa nostra per “ricattare lo Stato” e costringerlo a ridimensionare l’azione di repressione e contrasto alle organizzazioni mafiose, la cui realizzazione avrebbe avuto inizio con l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima per poi proseguire con la progettazione di omicidi e l’esecuzione di stragi.
Secondo l’accusa, il proposito criminoso dei vertici mafiosi si sarebbe rafforzato in ragione della condotta tenuta da alcuni esponenti delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza interna e all’applicazione di misure repressive delle azioni criminali. Più precisamente, sulla base della tesi esplicitata dal pubblico ministero, in alternativa a una fisiologica repressione del crimine mafioso senza mediazione alcuna da parte degli organi pubblici competenti (forze dell’ordine, polizia giudiziaria, magistratura), alcuni pubblici ufficiali e alcuni esponenti politici di primo piano avrebbero attivato “canali di dialogo” con esponenti mafiosi, manifestatisi trasversalmente e in forme diverse nel circuito istituzionale a partire dall’estate del 1992. Il “dialogo” avrebbe avuto a oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefici penitenziari e sull’intervento penale in cambio della cessazione degli attentati. In altri termini gli atti di minaccia indicati dai Pm di Palermo, suscettibili di integrare l’ipotesi di reato cui all’art. 338 del codice penale (violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario), e materialmente attribuiti ai capi della organizzazione mafiosa, vengono connessi alle condotte degli ex Ros ed esponenti politici (più precisamente Calogero Mannino in qualità di ministro) che, agendo con abuso di potere e in violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, hanno finito per rafforzare il proposito criminoso dei primi sempre pronti a rinnovare le minacce per ottenere quanto preteso, così integrando una ipotesi di concorso morale.
In sostanza, così come d’altronde si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, la storia “Trattativa Stato-mafia” si svolge in questo modo: le ripetute minacce all’indirizzo dell’onorevole Mannino, a partire dal febbraio del 1992, sarebbero finalizzate a creare un “rapporto di interlocuzione nuovo” con il mondo politico, per la cura degli interessi finanziari e per contenere l’azione repressiva dello Stato, una volta che Cosa nostra ha deciso di eliminare alcuni referenti del passato quali l’onorevole Lima. Quindi cosa accade secondo questa narrazione meta- giudiziaria? Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di questa trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex ros Mori e De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il cosiddetto “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa, relativi principalmente alla legislazione penale, in cambio della cessazione delle stragi. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, uomo vicino a Riina.
Tutta questa narrazione è stata smantellata da varie sentenze definitive che hanno dovuto affrontare anche la storia della “trattativa Stato-mafia”: a partire da quella su Mannino il quale scelse il rito abbreviato, quella sulla cosiddetta mancata perquisizione del “covo” di Riina e la “Mori-Obinu” sulla presunta mancata cattura di Provenzano, fino all’esito giudiziario attuale sancito dalla Cassazione. Non è vero che Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Nessun patto indicibile con la mafia.
Ma quindi Mori ha confessato tale “trattativa Stato- mafia”? Non ha confermato una sola virgola di questa narrazione. In questi giorni si ripesca la sua deposizione del 24 gennaio 1998 durante il processo di Firenze sulle stragi continentali del 1993. Si riporta in sostanza questo suo passo in merito ai contatti che ha avuto con don Vito: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Ha confessato cosa? Sostanzialmente ciò che era già a conoscenza dalla procura di Palermo nel 1993, quando Ciancimino stesso fu sentito e messo al verbale tutto. Nulla che ha fatto sobbalzare i pubblici ministeri di allora. Nulla a che fare con la storia della “Trattativa Stato- mafia” narrata in seguito dalla pubblica accusa. E in che cosa è consistita? Mori stesso lo ribadisce in quella famosa deposizione che ora va di moda ripescarla. Fu un bluff. Ciancimino abboccò all’amo. Nel quarto incontro, infatti don Vito disse a Mori: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”.
Ebbene, sempre Mori racconta che a quel punto non poteva più allargare il brodo, perché sapeva benissimo che quella manovra della trattativa fosse un escamotage per uscire dai domiciliari e rifugiarsi in sicurezza all’estero. E allora gli disse: “Beh, noi offriamo questo: i vari Rina, Provenzano e soci si costituiscano e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. A quel punto Ciancimino si inalberò, comprese il bluff, e rispose: “Ma voi mi volete morto!?”. Un bluff che poi servì perché si aprì un varco: Ciancimino li ricontattatò per accettare di aiutarli ad arrivare a Riina e Provenzano, si propose di fare una specie di agente provocatore per inserirsi nel mondo degli appalti, voleva in cambio un aiuto per aggiustare la sua posizione giudiziaria, e propose di voler essere ascoltato in commissione antimafia. Non male. Ma tutto sfumò nel momento in cui Ciancimino fu – su segnalazione dell’allora guardasigilli Martelli – riportato in carcere di Rebibbia. Dopodiché decise in quale modo di continuare a collaborare. A quel punto Mori avvisò il neocapo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Quest’ultimo e l’allora pm Ingroia, decisero di ascoltare Ciancimino. Ed è proprio quest’ultimo – precisamente parliamo del verbale datato 17 marzo 1993 - a raccontare di trattative, contatti con gli intermediari mafiosi a seguito del dialogo instaurato con i Ros. Parlò pure della proposta da lui considerata oscena che gli fece Mori: quella della resa, la consegna di Riina e Provenzano. Tutto. Ma non è la “trattativa Stato-mafia”, quella che poi verrà narrata in seguito al livello processuale. Altrimenti, Caselli stesso, persona indiscutibilmente seria ed integerrima, avrebbe subito inquisito Mori. Nessuna confessione. E ci vuole tanta disonestà intellettuale nel riproporre questa bufala ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza di questi fondamentali dettagli.
(ANSA il 4 maggio 2023) - L'avvocato di Silvio Berlusconi Giorgio Perroni ha annunciato che domani presenterà una denuncia contro la "ignobile e illegale fuga di notizie" riguardo le indagini della Procura di Firenze sulle stragi del 1993.
"Ancora oggi - ha spiegato il legale - appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM.
Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell'inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti".
Ma, ha sottolineato Perroni, "da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione". Ed è "doveroso" ricordarlo".
"Di fronte a questa continua, incessante e calunniosa macchina del fango - ha concluso -, confermo che, come già anticipato, domani presenterò una denuncia alla Procura della Repubblica, chiedendo che i Magistrati si adoperino per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie".
Estratto dell’articolo di M.L. per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.
Sono passati 30 anni dalle stragi del 1993. Il 14 maggio sarà il trentennale dell’autobomba esplosa in via Fauro vicino al Teatro Parioli, a Roma, al passaggio della Mercedes che portava a casa il conduttore tv Maurizio Costanzo insieme alla futura moglie, l’allora semisconosciuta Maria De Filippi. Seguirà nella notte tra 26 e 27 maggio la strage di via dei Georgofili, dietro agli Uffizi. […]
Quindi, il 27 luglio, il doppio botto intorno alla mezzanotte: un’autobomba davanti al Pac di via Palestro a Milano uccide 5 persone, mentre altri due ordigni sfigurano (senza vittime) le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. Quella notte i centralini di Palazzo Chigi saltano e il premier Ciampi pensa al colpo di Stato.
[…] Tutto finisce con l’attentato fallito dell’Olimpico di Roma. Il 23 gennaio 1994, dopo Roma-Udinese, dovevano morire 100 carabinieri ma la Lancia Thema imbottita di tritolo non esplode per un guasto al telecomando. Il 27 gennaio 1994 vengono arrestati i boss Giuseppe e Filippo Graviano. Il giorno prima era sceso in campo Silvio Berlusconi che due mesi dopo vincerà le elezioni. La mafia non farà esplodere più nulla. Nemmeno un cassonetto.
Nel disinteresse generale i pm di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli stanno cercando di capire perché le stragi sono iniziate e perché sono finite. Berlusconi e il fido Dell’Utri sono indagati per l’ipotesi di strage in concorso con i Graviano, ipotesi che gli interessati respingono ovviamente con sdegno.
La Procura di Firenze indaga da 27 anni a intermittenza sui fondatori di Forza Italia. L’inchiesta sui “mandanti esterni” (le uniche condanne per ora sono state inflitte solo a boss mafiosi) è stata aperta e chiusa già 4 volte su richiesta dei pm stessi. […]
La commemorazione con la censura incorporata sulle indagini in corso non fa onore a nessuno. […] Una trasmissione televisiva ha osato avvicinarsi a questa inchiesta. Non è l’Arena si sarebbe occupata delle indagini sui rapporti triangolari tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra.
Massimo Giletti aveva chiesto a chi scrive di partecipare a una o più trasmissioni sull’inchiesta fiorentina, portando in tv il bagaglio di conoscenze mostrate sulle pagine del Fatto. Eravamo perplessi sul fatto che l’editore Cairo fosse d’accordo su una trasmissione certamente non gradita a Berlusconi e compagni.
Giletti ci aveva rassicurato entrando persino nel dettaglio dei contenuti: le conversazioni intercettate e i milioni di euro da Berlusconi a Dell’Utri, gli antichi rapporti con la mafia di quest’ultimo. Il 12 aprile Giletti ci aveva scritto questo messaggio: “Poi ci dobbiamo vedere per pianificare...!”. Il giorno dopo Non è l’Arena è stata cancellata con una email di La7.
[…]
Estratto dell’articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 4 maggio 2023.
Secondo la Dia, Giuseppe Graviano nel 2016 avrebbe confidato al compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, un segreto: la strage dello Stadio Olimpico, tentata e fallita dagli uomini dello stesso Graviano, il 23 gennaio 1994, gli sarebbe stata chiesta da Silvio Berlusconi. È solo un’ipotesi investigativa. Lo stesso Graviano, interrogato sul punto, non ha confermato la lettura data dalla Dia delle sue parole.
Però le ultime righe dell’informativa del 16 marzo 2022 di 72 pagine, firmata dal capo centro della Dia di Firenze, Francesco Nannucci, sono nette: “Si può affermare che la conversazione ambientale del 10 aprile 2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’Olimpico del 23 gennaio 1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’Utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”.
Vediamo come la Dia arriva a queste conclusioni. Si parte dal video registrato il 10 aprile 2016 in cella ad Ascoli Piceno. Graviano parla con Adinolfi e le telecamere nascoste riprendono. “Graviano – scrive la Dia – fa alcuni riferimenti all’investimento di 20 miliardi di lire che il nonno e altre persone hanno effettuato nelle attività delle imprese riconducibili a Silvio Berlusconi”. Va detto subito che Berlusconi e Dell’Utri negano tutto e i legali parlano di accuse infondate e fantasiose.
Graviano torna sul punto con i pm di Firenze il 20 novembre 2020: “Mio nonno portò me e Salvatore (cugino di Graviano, ndr) a Milano a incontrare Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne all’Hotel Quark (…) con Berlusconi ho avuto un incontro anche nel 1985/1986, allorquando ero già latitante (...) sapeva che io ero latitante”.
Nell’informativa c’è spazio per la sentenza Dell’Utri: “I legami di Silvio Berlusconi con la mafia palermitana erano già noti sin dagli anni 70, come peraltro emerso nel processo palermitano a carico di Marcello Dell’Utri”, nel quale “venivano confermati i rapporti con Cosa Nostra almeno fino all’anno 1992”. Poi si torna al colloquio Graviano-Adinolfi. La Dia prosegue così: “Altro aspetto importante è il riferimento che Graviano fa al tentativo da parte di alcuni esponenti della politica siciliana del tempo, convenzionalmente definiti ‘i vecchi’, di far cessare le stragi”.
Per la Dia, Graviano si riferisce ad alcuni esponenti della vecchia Democrazia Cristiana “tra i quali il senatore Vincenzo Inzerillo, strettamente legato a Giuseppe Graviano”, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’interpretazione data alle parole di Graviano dalla Dia, Inzerillo voleva far cessare le stragi a fine 1993 mentre, sempre per la Dia, Graviano sostiene che Berlusconi voleva farle proseguire. Tesi accusatorie tutte da provare che la Dia argomenta partendo dal video del 10 aprile 2016.
Il boss di Brancaccio quando parla della “bella cosa” fa un gesto con la mano che per la Dia è una “mimica riconducibile a un evento esplosivo”. Lo fa quando corregge l’errore di comprensione del compagno di detenzione. “Adinolfi sembra convinto – scrive la Dia – che Silvio Berlusconi avesse anch’egli interagito con Giuseppe Graviano al fine far terminare il periodo stragista (“per bloccare l’azione”), ma al contrario, quest’ultimo prima risponde negativamente: “Noo!” e poi aggiunge: “Anzi meglio, anzi... lui mi disse, dice: ‘Ci volesse una bella cosa’”.
Secondo l’interpretazione della Dia, quindi, la “bella cosa” sarebbe l’attentato di cui Graviano parlò ai tavolini del bar Doney a Gaspare Spatuzza nel gennaio 1994 per chiedergli di dare ‘il colpo di grazia’ allo stadio Olimpico.
[…] Per puntellare il ragionamento la Dia ricorda le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia (Pietro Romeo e Giovanni Ciaramitaro) che nel 1995/96, parlarono, de relato, della confidenza riferita loro da Francesco Giuliano, un altro mafioso non pentito, sulla richiesta di Berlusconi di fare le stragi. Romeo già il 14 dicembre 1995 riferisce la confidenza di Giuliano sul fatto che c’era “un politico di Milano che aveva detto a Giuseppe Graviano di continuare a mettere bombe”.
Poi il 29 giugno 1996 Romeo precisa che il nome lo aveva appreso in un colloquio a tre con Spatuzza e Giuliano. Quando chiesero a Spatuzza, “se era Berlusconi la persona che c’era dietro gli attentati. Spatuzza aveva risposto di sì”. Giuseppe Graviano, però, sentito nel 2020 e nel 2021 dai pm di Firenze, ammette che si riferiva a Berlusconi solo quando parlava degli investimenti del nonno e della sua delusione per le leggi sul 41 bis. Ma a domanda specifica “Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi?” il boss glissa: “Non lo so se è stato lui”.
La Dia vede il bicchiere mezzo pieno: “Graviano non nega che Berlusconi sia stato il mandante, ma neanche lo ammette, prendendo una posizione interlocutoria”. E sottolinea che nel colloquio intercettato in cella del 14 marzo 2017 “è lo stesso Graviano che imputa a Silvio Berlusconi di essere il mandante delle stragi (...) ‘Tu mi stai facendo morire in galera... che sei tu l’autore... io ho aspettato senza tradirti...’” .
L’autore, inteso come autore delle stragi, è dunque l’interpretazione della Dia che non crede ai verbali più vaghi sul punto di Graviano. “In sede di contestazione da parte dei magistrati, Graviano, cercando di fornire un improbabile giustificazione, riconducendo il tutto alla mera questione relativa agli investimenti economici del nonno materno, di fatto forniva indirettamente la conferma che il mandante delle stragi era appunto Silvio Berlusconi. Infatti – prosegue la Dia – opportunamente incalzato sul punto, alla domanda del pm: ‘E che sei tu l’autore, l’autore di cosa?’, Graviano ribadiva con un laconico: ‘Non posso rispondere’, volendo, evidentemente, coprire, o non escludere, il possibile coinvolgimento di Berlusconi”.
Secondo la Dia “è chiaro, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che Graviano ha inteso ‘coprire’ Berlusconi, non lo ha voluto tradire raccontando tutto quello che sa, sia nei rapporti con suo nonno e suo cugino, sia in rapporti ulteriori e diversi di cui Berlusconi era attore, ma che non ha voluto specificare. Il termine ‘tradire’, infatti, trova più giustificazione verso la rivelazione di un segreto che avrebbe certamente procurato un forte nocumento a Berlusconi, per qualcosa di cui quest’ultimo era ‘autore’, più che in un mancato rispetto di un patto economico che lo stesso avrebbe consolidato con il nonno di Giuseppe Graviano”.
Per la Dia “sono stati raccolti sufficienti indizi per ritenere che i riferimenti di Graviano nel colloquio con Adinolfi, siano per il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nella strage dell’Olimpico di Roma del 23.1.1994 e non per altri episodi, mai riscontrati. […] Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate.
Narrazioni fantasiose dei Pm. Berlusconi, stop a ignobile macchina del fango. Il legale: “Presenterò denuncia contro il Fatto Quotidiano”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 4 Maggio 2023
Il legale di Silvio Berlusconi, l’avvocato Giorgio Perroni spiega in una nota la volontà del suo assistito a presentare una denuncia alla Procura della Repubblica per la “continua, incessante e calunniosa macchina del fango contro il Cavaliere”.
Perroni sollecita i Magistrati affinché si adoperino “per individuare quanto prima i responsabili e far cessare questa ignobile ed illegale fuga di notizie”. Ancora oggi – prosegue il legale – “appaiono sul Fatto Quotidiano due articoli che riportano il contenuto di atti di indagine, coperti da segreto istruttorio, compiuti nel procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze, PP.MM. Tescaroli e Turco, nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.”
L’avvocato di Berlusconi sottolinea che “addirittura, il giornalista afferma che è sua intenzione celebrare il trentennale dalle stragi del 1993 parlando dell’inchiesta fiorentina sui mandanti esterni con la pubblicazione di documenti inediti”. Secondo Perroni, tuttavia, “è, anzitutto, doveroso ricordare, ancora una volta, che da almeno un quarto di secolo tutte le più insensate accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti sono stati costretti a chiederne la archiviazione”.
Solidale con Berlusconi anche il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri: “La clamorosa sentenza sulla presunta trattativa Stato-mafia evidentemente irrita gli inventori di teoremi. Da quel processo, dopo decenni, sono usciti a testa alta il generale Mori, il generale Subranni, il colonnello de Donno e lo stesso Marcello dell’Utri. Erano state inventate ricostruzioni incredibili. E ancora ne circolano in alcune procure. Io mi chiedo se il Ministro della Giustizia non debba disporre delle ispezioni anche in queste procure, che alimentano ricostruzioni che definire fantasiose vuol dire usare un termine fin troppo riduttivo.”
La mafia – conclude il senatore – “è stata stroncata soprattutto dai governi di centrodestra. Che hanno reso permanente e poi irrobustito il 41 bis. Che hanno dato forza e fiducia ai reparti speciali delle Forze dell’Ordine, che hanno registrato risultati eclatanti. Questa è la verità della storia. Invece toghe rosse e toghe creative alimentano narrazioni smentite del resto dagli stessi tribunali o dalla Cassazione, che hanno avuto il coraggio di certificare la verità. Alcuni articoli poi rappresentano un penoso modo di alimentare campagne basate su teoremi inesistenti e irrispettosi della verità. Che squalificherebbero chi le sigla, se non fosse già sommerso da una montagna di fanfaluche che ha prodotto nel corso dei decenni”. Giulio Pinco Caracciolo
Anticipazione da “Gente” il 18 maggio 2023.
Massimo Giletti è stato censurato dalla casa editrice Solferino. È quanto rivela il settimanale Gente, in edicola da venerdì 19 maggio.
Giletti aveva scritto l’introduzione al libro di Ferruccio Pinotti “Attacco allo Stato”, uscito in libreria martedì 16 maggio per Solferino, casa editrice che fa capo a Urbano Cairo. Ma il suo testo è stato tolto poco prima della stampa del volume, e il nome del conduttore è stato cancellato dalla copertina, come provano le due versioni della copertina che Gente è in grado di mostrare.
L’introduzione di Giletti affrontava i temi che sono stati oggetto delle ultime puntate di Non è l’Arena, su La7, rete sempre di proprietà di Cairo: Messina Denaro, Baiardo, le stragi del ’93, “i rapporti delle associazioni mafiose con realtà a loro esterne”, “l’anello di carattere politico che potrebbe aver concorso a definire questa singolare riedizione della strategia della tensione”. Il testo integrale dell’introduzione scomparsa è pubblicato su Gente.
Estratto dell’introduzione di Massimo Giletti al libro “Attacco allo Stato”, di Ferruccio Pinotti (ed. Solferino), poi rimossa dalla casa editrice
Ci sono storie che scegliamo di raccontare, le troviamo nelle decine e decine di notizie che ogni giorno entrano nelle nostre vite sotto forma di mail o di lettere, le valutiamo e le facciamo nostre in un racconto che possa arrivare a tutti nel miglior modo possibile.
Una di questa mi spinse ad andare nell'autunno del 2019 a Mezzojuso, nel cuore della Sicilia occidentale, non lontana dalla più «famosa» Corleone. Lì avevo saputo che tre sorelle Marianna, Ina e Irene lottavano da sole contro la mafia dei pascoli. Per raggiungerle dovevo salire una strada sterrata a strapiombo con una serie di burroni che mettevano i brividi.
A un certo punto incontrammo un pastore con un gregge di pecore. Il maresciallo Saviano disse di fermare la vecchia Campagnola Fiat con cui stavamo salendo. Il pastore ci guardò ma non disse nulla. In un attimo ebbi la sensazione che sapesse già tutto: dove stessimo andando e il perché.
Allora, in quel momento, mi venne in mente una frase che aveva citato poco prima il colonnello Antonio Di Stasio, allora comandante provinciale dei carabinieri di Palermo ricordando Pirandello: «In Sicilia ho incontrato molte maschere e pochi volti». Andando oltre la metafora, voleva dire che è sempre difficile comprendere la vera anima di chi ci si trova davanti.
Ecco perché ogni libro che parla di mafia è importante se ha radici profonde e verità pericolose. Per queste ragioni ho scelto di scrivere questa mia breve presentazione al collega della carta stampata Ferruccio Pinotti, caposervizio Interni al «Corriere della Sera» […]
Dagospia il 18 maggio 2023.Riceviamo e pubblichiamo: In merito al pezzo pubblicato in data odierna, dal titolo: “Lo scoop di Gente: Urbano Cairo ha censurato Massimo Giletti....” precisiamo che la prefazione al libro di Pinotti è stata chiesta personalmente dall’autore a Giletti e la decisione di non pubblicarla è stata presa dall’autore stesso che ha avvisato la casa editrice Solferino delle sue intenzioni.
Urbano Cairo non era a conoscenza del fatto che la prefazione era stata chiesta a Giletti, né tantomeno del fatto che era stato deciso di non pubblicarla.
Cordialmente,
Alessandro Bompieri Direttore Generale News RCS MediaGroup
Non è l'Arena, “intercettazioni su mafia, politica e imprese”. Retroscena sull'addio a Giletti. Il Tempo il 05 maggio 2023
Perché Non è l’Arena è stata chiusa? A quasi un mese dallo stop inaspettato della trasmissione domenicale di La7 condotta da Massimo Giletti arriva un nuovo articolo di retroscena sui motivi che hanno spinto Urbano Cairo a prendere tale decisione. “Seconda una fonte molto qualificata al centro dell’appuntamento (mai trasmesso) del 13 aprile scorso ci sarebbero state le intercettazioni su mafia, politica e imprese” la spiegazione che arriva dal sito Affari Italiani.
Che poi continua tracciando un quadro della situazione sul programma televisivo: “Sui rapporti, ad altissimi livelli, tra Cosa Nostra, politici di peso e sulle aziende che erano coinvolte da questa triangolazione malata. I nomi che circolano sono, d’altronde, di primissimo rilievo ed è perfino comprensibile che il rischio di toccare gangli imprescindibili della nostra vita pubblica fosse altissimo”. Nei giorni scorsi è circolata anche l’ipotesi che dietro al cartellino rosso sventolato in faccia a Giletti ci sia la vicenda che coinvolge Carlo Bertini, ex funzionario di Bankitalia che aveva denunciato lo scandalo dei diamanti: secondo il sito non è questo il motivo della chiusura di Non è l’Arena.
Così i clan volevano sequestrare il figlio di Berlusconi: ecco l’audio del caso Giletti. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 aprile 2023
Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio su Silvio Berlusconi, i fratelli Graviano (i boss della mafia stragista) e le dichiarazioni di un gruppo di collaboratori si giustizia agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria.
In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare.
Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.
Massimo Giletti aveva in programma di mandare in onda alcuni audio di deposizioni del mafioso, Giuseppe Graviano, e di pentiti che parlavano di Silvio Berlusconi, materiale agli atti del processo ‘ndrangheta stragista istruito dalla procura antimafia di Reggio Calabria. Registrazioni di cui hai parlato sul Quotidiano del Sud il giornalista Paolo Orofino.
In particolare l’attenzione si era concentrata su due tracce che Domani può rivelare. Tracce che riportano di attualità il filone sul quale la trasmissione stava provando a fare luce, quello che incrocia l’ex primo ministro, i fratelli Graviano e il generale, Francesco Delfino.
Nomi che sono i protagonisti della foto dei misteri, quella che ha provocato la rottura dei rapporti tra Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento degli stragisti Graviano, e Giletti.
L’esistenza di questa foto resta ancora un giallo, come ha raccontato Domani nella serie di articoli pubblicati nei giorni scorsi. Baiardo avrebbe mostrato lo scatto, che potrebbe essere la prova di un patto sporco, al conduttore senza rilasciargli copia.
Così Giletti ha raccontato tutto ai magistrati di Firenze che indagano sui mandanti esterni alle stragi sul continente del 1993, inchiesta che vede indagati Berlusconi e il fido, Marcello Dell’Utri, per concorso in strage (indagini analoghe sono già state aperte e chiuse). I protagonisti si difendono e parlano di una ricostruzione infamante.
Dagli atti emerge che Baiardo ha più volte fatto riferimento all’esistenza di questa fotografia nei colloqui con Giletti, colloqui che gli investigatori hanno registrato per verificare la veridicità delle dichiarazioni del conduttore.
GLI AUDIO DEL PENTITO
Gli audio, vista la cancellazione del programma, non saranno mai trasmessi su una televisione nazionale, sono stati mandati in onda da Lacnews24 nello speciale sul processo realizzato dal giornalista Pietro Comito. Queste registrazioni incrociano i protagonisti della foto che, nel caso esistesse, riscriverebbe la storia delle stragi e un pezzo di storia repubblicana.
Partiamo dal primo audio, che vede protagonista Antonino Fiume, un collaboratore di giustizia di primo livello della ‘ndrangheta. Interrogato dal pubblico ministero, Giuseppe Lombardo, risponde a questa domanda: «Mi spiega meglio, questo fatto di non rapire il figlio di Berlusconi?». «I palermitani erano andati ad Africo, Peppe Morabito (boss di ‘ndrangheta, ndr) si era assunto la responsabilità perché i palermitani dicevano che gli fa dei regali e di non sequestrarlo, era un periodo che i sequestri c’era chi voleva farli e chi no, e Antonio Papalia l’aveva passata per novità questo discorso che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare». Lo aveva mandato a dire Antonio Papalia che «il figlio di Berlusconi non si tocca».
Papalia non è il nome qualunque non solo per il peso che ha avuto nella ‘ndrangheta, ma anche perché diversi collaboratori di giustizia indicano in rapporti con il generale Francesco Delfino. Il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’onta della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, sarebbe uno dei protagonisti della foto dei misteri. Anche Delfino, ma dal punto di vista investigativo, si occupava di sequestri, nel suo caso per evitarli.
«È emersa, in modo fin troppo evidente, la collocazione verticistica dei Papalia (e in primis di Domenico Papalia) e dei fratelli del generale Francesco Delfino nel panorama 'ndranghetistico e massonico», scrivono gli investigatori autori del rapporto ‘ndrangheta stragista.
«In quel quadro di analisi era stata, anche, evidenziata la posizione di Francesco Delfino, generale dell'Arma dei carabinieri, in un periodo in fuori ruolo presso il Sismi (i servizi segreti interni, ndr), originario di Platì (cuore della ‘ndrangheta) e attore, in più ricorrenze, di accadimenti criminali della massima importanza in questo procedimento», proseguono gli inquirenti.
Un capitolo dell’informativa è dedicato al potere dei Papalia e di uno dei parenti di Delfino su Buccinasco, provincia di Milano, feudo nordico della cosca, dove ancora oggi hanno una fortissima influenza.
Nell’informativa agli atti del processo ‘ndrangheta stragista in cui i pubblici ministeri calabresi hanno dimostrato il ruolo delle cosche reggine nella strategia eversiva degli anni Novanta guidata da cosa nostra e Totò Riina, emerge più volte il nome di Delfino.
IL GENERALE E I PADRINI
Soprattutto per i suoi rapporti con il gotha della ‘ndrangheta, cioè i Papalia, che erano sovrani non solo in Calabria. Anzi, i fratelli Papalia erano considerati ai tempi i capi dei capi della mafia al nord, in particolare in Lombardia, dove all’epoca, come raccontato al pm Lombardo da diversi pentiti esisteva una sorta di “consorzio” unico delle tre mafie più potenti (camorra, ‘ndrangheta e cosa nostra) con Papalia a farla da padrone.
Proprio lì dove organizzava sequestri degli industriali e contemporaneamente interloquiva con la politica locale.
Su Delfino oltre ai rapporti con i boss Papalia erano emersi i legami con un altro potente padrino di ‘ndrangheta, intimo dei Papalia: «Altro tema di interesse a queste indagini è la collocazione, nello scenario criminale che stiamo esplorando, di Giuseppe Nirta, soggetto legato - dalle risultanze giudiziarie note - al generale Francesco Delfino». Anche la famiglia Nirta, di San Luca (altro santuario della ‘ndrangheta) all’epoca coinvolta nei sequestri di persona.
Delfino ha avuto un ruolo anche nella collaborazione di Balduccio Di Maggio, colui il quale porterà gli investigatori nel covo di Totò Riina. Come ha raccontato il nostro giornale abitavano tutti lì, fra il 1992 e il 1993. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro amico gelataio Salvatore Baiardo che li ospitava ad Omegna “con altre persone”, abitava lì anche il generale Francesco Delfino che aveva una villa a Meina, e a Borgomanero era stato catturato Balduccio Di Maggio. Un altro audio che sarebbe stato trasmesso durante la trasmissione è quello nel quale Giuseppe Graviano riferiva di aver investito, in particolare il nonno, nelle attività finanziarie di Silvio Berlusconi. Audio che resteranno sconosciuti al grande pubblico.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Estratto dell'articolo di Marco Lillo per "il Fatto quotidiano” il 5 maggio 2023.
Nell'informativa del 16 marzo 2022 della Dia di Firenze confluita nel fascicolo recentemente riaperto nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri con l'ipotesi tutta da riscontrare di avere avuto un ruolo di 'mandanti esterni' nelle stragi di Milano e Firenze e negli attentati di Roma del 1993-94, c'è una pagina dedicata alla 'compresenza' di Marcello dell'Utri e dei boss della mafia Giuseppe e Filippo Graviano nelle stesse zone nel 1993-94.
A pagina 40 dell'informativa di 72 pagine […] la Dia scrive, riferendosi alle vecchie indagini svolte già nel 2010: “La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina (Fabio Tranchina, faceva l'autista di Graviano e poi è divenuto collaboratore di giustizia, Ndr), nonché i seguenti e ulteriori elementi”.
Segue un elenco con incroci telefonici, date e luoghi sparsi per l'Italia. Un elenco si badi bene non di incontri provati (tra Graviano e Dell'Utri) ma di spunti investigativi derivanti dall'analisi delle celle telefoniche dei ripetitori agganciati dai cellulari nonché dalle agende e dalle testimonianze raccolte.
Berlusconi e Dell’Utri hanno sempre negato qualsiasi rapporto con i Graviano. Precisiamo subito quindi che stiamo parlando di spunti investigativi. Vale come sempre la presunzione di innocenza sopratutto in questo caso visto che si tratta di indagini per fatti gravissimi di 30 anni fa e che già in passato inchieste sulle medesime accuse sono state chiuse con archiviazioni. L'analisi delle celle telefoniche di Dell'Utri e dei favoreggiatori di Graviano non fu considerata decisiva già 12 anni fa. Tanto che Berlusconi e Dell'Utri furono archiviati su richiesta degli stessi pm fiorentini.
Ora quelle analisi però sono state rispolverate e messe in relazione con i nuovi elementi emersi nell'informativa del 16 marzo 2022 che conclude così: “Vi è infatti il fondato motivo di credere che Silvio Berlusconi, tramite la mediazione di Marcello Dell'Utri e di altre persone allo stato ignote, abbia intrattenuto nel tempo rapporti con esponenti di spicco della mafia siciliana, per ultimo Giuseppe Graviano, per garantirsi inizialmente fondi volti ad effettuare gli investimenti, che poi gli hanno consentito di creare il suo impero economico, e poi, per quanto strettamente d'interesse, la sua ascesa in politica del 1994, facendo veicolare i voti dell'allora costituendo movimento politico Sicilia Libera nel neonato partito Forza: Italia di cui Berlusconi era il leader”.
L'informativa del 16 marzo 2022 è un atto che non è stato depositato nel procedimento principale su Berlusconi e Dell'Utri […] ma in quello incidentale sulle perquisizioni ai fratelli di Giuseppe Graviano, non indagati. […]
Ma qual è il senso del lavoro della DIA? Gli investigatori sanno che Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento nel 1997, accompagnavano Giuseppe Graviano e talvolta anche il fratello Filippo nei primi anni novanta. Sanno anche che, quando i boss sono stati arrestati a Milano il 27 gennaio 1994, i Carabinieri sequestrarono un cellulare intestato a un tal Costantino Taormina, incensurato.
Incrociando i tabulati telefonici con le celle agganciate dai cellulari di Baiardo, Tranchina e Taormina con quelli dei telefonini di Marcello Dell'Utri e dei suoi accompagnatori gli investigatori hanno trovato elementi per ipotizzare dei luoghi e delle date di quelle che la Dia chiama 'compresenze', cioé volgarizzando possibili e ipotetici (ripetiamolo solo ipotetici) incontri tra il boss e il manager di Publitalia nonché futuro senatore, proprio nel periodo in cui Giuseppe Graviano ordiva il suo piano stragista e Silvio Berlusconi preparava la sua discesa in campo.
Il periodo chiave è quello del 1993-1994. Scrive il capocentro della Dia di Firenze Francesco Nannucci a marzo 2022 ricordando l'evoluzione delle vecchie indagini “sulla base degli elementi segnalati nella nota prot. 6246 del 15/10/2010, allegata all'informativa del 2018, nella quale era stato rendicontato l'esito dei riscontri sugli spostamenti dei fratelli Graviano nel periodo delle stragi, e la compresenza dei due loro favoreggiatori, ovvero Fabio Tranchina e Salvatore Baiardo, nei medesimi luoghi frequentati dai fratelli Graviano.
Per completezza di indagine, venne altresì effettuata un'analisi del materiale in possesso agli investigatori, rendicontata nella nota n.7762 del 17.12.2010 , concernente pregresse attività di polizia giudiziaria espletate a carico di (…) e Marcello Dell'Utri. La disamina permise di poter accertare la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano, Dell'Utri e Tranchina, nonché i seguenti e ulteriori elementi”.
Seguono una serie di punti. Qui ne riportiamo alcuni: “(…) Compresenza Dell'Utri-Graviano a Venezia in occasione del carnevale 1993;Possibile spostamento in Toscana di Dell'Utri il 27.04.1993 compatibile con la presenza a Firenze dei Graviano ivi prelevati da Tranchina, il giorno 29.04.1993;(...)Compresenza su Roma il giorno 08.08. 1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda (la moglie ovviamente estranea all’indagine, Ndr) e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina; […] Presenza di Dell'Utri Marcello, il giorno 18.01.1994, presso l'Hotel "Majestic'' di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l'incontro tra Graviano e Spatuzza al Bar Doney a Roma e con la strage dell'Olimpico, che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri”.
A difesa di Dell'Utri va detto che a tutti può capitare di trovarsi con il telefonino acceso nella stessa zona in cui si trova un boss sconosciuto e che un tempo le celle telefoniche erano molto più ampie di adesso.
[…] Cerchiamo di spiegare perché la Dia segnala queste 'compresenze', sparse per l'Italia in un periodo delicato sul fronte politico e stragista. La prima 'compresenza' segnalata è quella del Carnevale di Venezia del 1993. I fratelli Graviano insieme al loro braccio destro Cesare Lupo e alle rispettive consorti alloggiavano in un palazzetto affittato dal loro favoreggiatore Salvatore Baiardo.
Quell'anno il Carnevale era organizzato dalla società del gruppo Fininvest 'Grandi Eventi Publitalia 80'. Il cellulare di Baiardo il 21 febbraio alle 13 e 42 fa una telefonata di un minuto e mezzo al centralino del comitato organizzatore che faceva capo alla società suddetta.
[…] La Dia però ritiene che anche Marcello Dell’Utri fosse a Venezia nei giorni in cui c'erano i Graviano perché sull'agenda dell'ex senatore in quei giorni c'è scritto ‘Venezia’ e un testimone ricorda di averlo visto. Ciò non prova comunque che, anche ove fossero stati nello stesso luogo, Marcello Dell'Utri e i Graviano si siano incontrati.
[…].Andiamo ora a Roma. La Dia nelle sue precedenti informative segnalava la presenza a Roma di un telefonino di Marcello Dell'Utri che agganciava la cella 06 in data 8 agosto mentre il giorno prima e quello seguente si trovava in Sardegna. La Dia annota che anche il cellulare di Fabio Tranchina, allora autista di Giuseppe Graviano, l'8 agosto intorno alle 12 e 30 aggancia la cella telefonica 06. Di qui probabilmente nell’informativa dello scorso anno si legge della possibile “Compresenza su Roma il giorno 08.08.1993 di Dell'Utri Marcello - Ratti Miranda e Graviano Giuseppe ivi accompagnato da Tranchina”. Dal 31 agosto 1993 invece il cellulare di Fabio Tranchina, fino al 5 settembre 1993, aggancia la cella 070 corrispondente alla Sardegna.
La Dia nei tabulati telefonici dei telefonini in uso a Dell'Utri trova chiamate sulla cella telefonica sarda a fine agosto e anche il 2 settembre.Sono quelli momenti decisivi perché, come ha raccontato Gianni Letta al processo Dell’Utri, a fine agosto del 1993 in Sardegna, a Villa Certosa, per la prima volta Berlusconi gli parlò della sua intenzione di scendere in politica.
Letta e Confalonieri erano contrari mentre, ha raccontato l’ex sottosegretario, Dell’Utri era favorevole.Un cellulare di Publitalia che secondo la Dia era in uso a Marcello Dell'Utri inoltre aggancia la cella di Padova-Venezia il primo ottobre e per questa ragione la Dia segnala una possibile compresenza con i Graviano. Secondo le inchieste sul loro favoreggiatore Antonino Vallone, infatti, i Graviano in quei primi giorni di ottobre erano latitanti ad Abano Terme.
Ovviamente potrebbero essere tutte coincidenze fortuite. Come anche la presenza a Roma di Marcello Dell'Utri all'hotel Majestic di via Veneto il 18 gennaio 1994. Una data vicina a quella in cui si è svolto l'incontro tra Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza a poche centinaia di metri di distanza, al Bar Doney. In quell’incontro, secondo Spatuzza, Graviano avrebbe parlato dei suoi rapporti con Berlusconi e Dell'Utri. Giuseppe Graviano è già stato condannato per le stragi in 'Continente' con gli altri boss non collabora con la giustizia e si professa innocente. Ha fatto dichiarazioni imbarazzanti per Silvio Berlusconi, mai per Dell'Utri.
L'ex senatore è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ma solo per i suoi rapporti con i mafiosi fino al 1992. Secondo l’informativa Dia del 16 marzo 2022 “tale attività investigativa permise di cristallizzare la presenza di Dell'Utri in Roma nei giorni tra il 17 e il 21 gennaio 1994, ovvero negli stessi giorni in cui vi èra la presenza di Giuseppe Graviano e Gaspare Spatuzza per la preparazione della strage all'Olimpico con il loro incontro al Bar "Doney" di Via Veneto, in cui Graviano disse a Spatuzza·la frase 'abbiamo il paese nelle mani'”, introducendo poi i nomi di Berlusconi e Dell'Utri”. Quando però i pm di Firenze il primo aprile 2021 vanno a interrogare Giuseppe Graviano lui rimane fermo sul punto: “vi posso assicurare che io il signor Dell'Utri non lo conosco”.
Crolla la Trattativa Stato-mafia, ma la procura di Firenze riesuma un altro teorema. Per la quinta volta si tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi continentali con Berlusconi e Dell’Utri mandanti. Forse i pm hanno trovato il loro “Ciancimino”: Salvatore Baiardo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2023
Crollato miseramente il teorema della (non) Trattativa Stato-mafia, rimane in piedi ancora l’asso nella manica, quella che permette di perdere altri anni di risorse. Una carta che vede come mandanti delle stragi Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, la quale ha sempre viaggiato parallelamente alla tesi trattativa. Anche se va in antitesi con essa.
Tale tesi della procura di Firenze non ha mai dato sbocco a un rinvio a giudizio. Puntualmente archiviata per mancanza di prove. Anche l’inchiesta trattativa fu inizialmente archiviata. Nel 2004, infatti, i pm di Palermo chiesero l’archiviazione a causa della non poca confusione dei risultati probatori raggiunti. Ma poi entrò in scena Massimo Ciancimino, colui che – ricordiamo ancora una volta – poi sarà condannato per calunnia, il “papello” da lui consegnato e dichiarato falso. L’inchiesta a quel punto venne riaperta nel 2008. Sarà grazie a Ciancimino jr. che le indagini furono estese nei confronti degli ex Ros e anche di Calogero Mannino. Grazie a Ciancimino - in quel frangente elevato a icona antimafia -, questa volta il terzo tentativo andò a buon segno: fu così possibile imbastire il processo trattativa.
Ebbene, dopo ben cinque tentativi, ora la procura di Firenze, per quanto riguarda la tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni, potrebbe avere il suo “Ciancimino”. Parliamo di Salvatore Baiardo, riesumato per la prima volta dalla trasmissione Report. Tra sorrisini e ammiccamenti, ha affermato di aver visto le fotocopie della famosa agenda rossa di Borsellino in mano a diversi boss, da Graviano fino a Matteo Messina Denaro. Qualche settimana fa, attraverso Tik Tok (sic!), ha smentito quelle affermazioni dicendo chiaramente di aver trollato i giornalisti di Report. Ma pare che abbia trollato anche l’ignaro Massimo Giletti, conduttore di Non è L’arena, facendogli mostrare da lontano, e per pochi secondi, una foto dove a detta ci sarebbe ritratto Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Tutti e tre appassionatamente in un bar, a bella vista di tutti, sulle sponde del Lago d'Orta, in Piemonte. E proprio grazie a questa presunta foto, mai trovata con le perquisizioni disposte dalla procura, che i pm fiorentini hanno potuto riaprire per la quinta volta l’inchiesta.
Questo procedimento giudiziario, che indaga sulle stragi continentali del 1993, è un mix tra la vecchia inchiesta “sistemi criminali” condotta dagli ex pm palermitani Ingroia e Scarpinato archiviata nel 2000, e quella dove si riesuma l’ipotesi di personaggi esterni alla mafia che avrebbero partecipato agli attentati. Primeggia la vicenda della presenza delle “donne bionde”. In sostanza, si tratta di una specie di terzo livello composto da massoni, imprenditori, P2 e mafie di vario genere che avrebbero dato l’avvio alle stragi per destabilizzare la vita democratica nel nostro Paese. Un teorema che in realtà affiorava già ai tempi di Giovanni Falcone, visto che lui stesso – anche dopo aver vagliato la questione Gladio - l’ha stigmatizzato in tutte le occasioni.
Il teorema della procura di Firenze, come detto, confligge con quello della trattativa. Basterebbe un po’ di logica, che poi è quella che ritroviamo nella sentenza d’appello sulla trattativa che ha assolto con formula piena Marcello Dell’Utri. Secondo il teorema, l’ex senatore sarebbe stato colui che ha veicolato la minaccia mafiosa al governo Berlusconi. Cosa non torna? Secondo l’altra tesi giudiziaria, invece l’ex presidente del Consiglio sarebbe arrivato al governo grazie alle stragi e all’appoggio di Cosa nostra. E allora che bisogno c’era di minacciare?
Così come è difficilissimo trovare una logica nella tesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti. Pensare che i boss corleonesi prendessero ordini da persone completamente estranee, vuol dire che Falcone non ci ha capito nulla di mafia. Ovviamente, non può essere. Parliamo di un giudice che aveva una mente talmente geniale, che lo stesso Riina l’ha annichilito per farlo soprattutto smettere di pensare. Per capire che si tratta di un’ipotesi che rasenta il fallimento logico, basterebbe attenersi ai fatti. Nel biennio delle stragi del ’92 e ’93, ancora non era nata Forza Italia. Berlusconi non poteva, come ha detto anche Riina nelle intercettazioni, essere avvicinato visto che non aveva nessun potere politico. «Era solo una palazzinaro!», ha detto Riina in 41bis. L’unico contatto era il pagamento del cosiddetto “pizzo”. Lo stesso Riina parla della minaccia di attentati alla ex Standa e ai ripetitori televisivi in Sicilia.
Non solo. Durante il processo Borsellino Ter, sia Giovanni Brusca che Angelo Siino e Tullio Cannella, hanno parlato di un consistente sostegno di voti fornito da Cosa nostra al partito di Forza Italia creato da Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 1994. Sostegno offerto nella prospettiva di ottenere consistenti modifiche anche legislative nel senso auspicato dall’organizzazione mafiosa (cosa mai realizzata, tra l’altro), ma nessuno di loro ha fatto riferimento a contatti tra quell’organizzazione e Berlusconi già nel 1992 nell’ambito della ricerca di nuovi referenti politici. Anzi, le dichiarazioni rese dai predetti pentiti sono state assai puntuali nel far riferimento al tentativo di Cosa nostra nel corso del 1993 di promuovere la nascita in Sicilia di un movimento politico indipendentista, una sorta di Lega del Sud, che si affiancasse a quella del Nord nel richiedere la creazione di una federazione di Stati che sostituissero quello unitario. Solo agli inizi del 1994, invece, tale progetto sarebbe stato accantonato per sostenere la nuova formazione politica promossa da Berlusconi. Ma sappiamo pure come è andata. La stessa Forza Italia si è poi separata dalla coalizione con la Lega Nord, da quel movimento, cioè, il cui collante - stando alle emergenze sulle leghe meridionali - avrebbe dovuto essere proprio il collegamento con Cosa nostra. Sappiamo che il governo presieduto da Berlusconi, cadrà dopo pochi mesi. Il fallimento logico del teorema che vede Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi è evidente.
Pronta ennesima inchiesta per lee stragi del '93. Foto fantasma di Baiardo mostrata a Giletti, scatta nuova caccia a Dell’Utri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Aprile 2023
L’attesa messianica è per il 27, cioè tra due giorni. Quando la Corte di cassazione dirà forse la parola definitiva sul processo “Trattativa”. E su Marcello Dell’Utri, per il quale il pg ha chiesto la conferma dell’assoluzione, già definita nella sentenza di appello. La richiesta è del 14 aprile. L’ex presidente di Publitalia avrà appena fatto in tempo quel giorno a tirare un piccolo sospiro di sollievo e aprirsi alla speranza. Ma ancora non conosceva la sorpresa del giorno dopo.
Perché, va da sé, se non hai commesso un attentato contro corpi dello Stato, almeno avrai messo delle bombe mafiose. Che importa se ti hanno già archiviato tre-quattro volte? Ecco quindi quel giorno la pubblicazione di un verbale di perquisizione fatta nella casa di Salvatore Baiardo, uno scaltro giocatore di poker mezzo mafioso, con la ricerca di una foto misteriosa e forse inesistente. E la notizia di una nuova inchiesta che ti vede ancora, e ancora e ancora, indagato per strage insieme al tuo amico Silvio Berlusconi. Dell’Utri nella presunta foto non dovrebbe neanche esserci, ma che importa? Lo iscrivono ugualmente nel registro degli indagati.
I pubblici ministeri di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli, ecco la notizia del 15 aprile, hanno chiuso il 31 dicembre 2022, a termini scaduti, la quarta inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri come mandanti delle bombe del 1993. Con una richiesta di archiviazione, si suppone, come le tre precedenti, dopo esser andati a caccia di fantasmi. Ma pronti ad aprire la quinta, secondo quanto riportato dall’house organ delle procure. Quella che porta le impronte digitali del conduttore tv Massimo Giletti e del suo ospite fisso Baiardo e di una fotografia di cui non si sa se esista, né dove sia né da chi sia stata scattata né quando né che vi sia ritratto, perché è piccola e buia. Il pataccaro amico dei boss di Cosa Nostra Filippo e Giuseppe Graviano dice che uno dei protagonisti, ripreso insieme a uno dei due fratelli, sarebbe Berlusconi, e l’altro il generale dei carabinieri Francesco Delfino, deceduto nel 2014, quindi inservibile come testimone.
Ecco la “notitia criminis”, quella che avrebbe fatto aprire la quinta inchiesta sulle stragi. Bravo Giletti, hai fatto il tuo dovere di cittadino. E cattivi (complici?) quelli che ti hanno tolto la trasmissione. Perché tutto sarebbe partito da lì, dalle deposizioni, ormai tre, dell’ex conduttore di “Non è l’Arena” ai pm di Firenze, i due Luca, di cui non si riesce più a capire dove finisca l’ingenuità e dove cominci l’ossessione. Perché di Salvatore Baiardo è appurata anche in diverse sedi giudiziarie la totale inattendibilità. Bravo giocatore di poker, indubbiamente, capace di alludere e sfottere. E anche di illudere il giornalista vanesio di aver pronto, nelle mani tenute dietro la schiena come per fare la sorpresa al bambino, lo scoop del secolo. Del resto, non era stato questo mezzo mafioso a “prevedere” l’imminente arresto di Matteo Messina Denaro?
Anche in quel caso alludendo sapientemente a una possibile “trattativa” tra Stato (procura di Palermo?) e mafia? E non è sempre lui a gettare ombre sugli arresti di Riina e Provenzano, e sui pentiti Spatuzza e Balduccio Di Maggio? Nell’attesa di capire se anche i due Luca di Firenze, come già tanti loro colleghi, in particolare di Sicilia, ma ultimamente anche di Calabria con il processo “ ’Ndrangheta stragista”, intendano farsi storiografi, al centro della scena è ormai Massimo Giletti. Che ha rubato i riflettori al gelataio di Omegna. E’ stato lui a coprirsi le spalle (con i mafiosi non si scherza), andando dai magistrati di Firenze, proprio nei giorni in cui si stava chiudendo con un nulla di fatto la quarta indagine sui mandanti delle stragi del 1993. La scadenza dell’inchiesta era fissata in modo inderogabile per la fine dell’anno.
Giletti si è presentato in procura il 19 dicembre 2022, e poi il 23 febbraio 2023. Ha raccontato la storia della foto, una foto che “ove esistente”, riporta Marco Lillo sul Fatto riferendo le parole dei magistrati, potrebbe essere “la prova dei rapporti tra il boss Graviano e Berlusconi prima dell’arresto di quest’ultimo”. L’arresto di Berlusconi? La gaffe esprime il sogno dei pm o del giornalista? Ma non c’è solo quella vecchia polaroid, nel racconto di Giletti. Si parla anche del processo “Trattativa”. Si, sempre quello, l’incubo di tutti i professionisti dell’antimafia. Perché Baiardo avrebbe detto al conduttore di La7 di avere un documento fondamentale. Che, come accade nei film gialli, si sarebbe poi dovuto distruggere. Naturalmente anche questo foglio, così come la foto, non c’è. Ma i due Luca ritengono Giletti sincero, e sicuramente lo è.
Lo sentono due volte, poi decidono di far perquisire la casa di Baiardo, ma solo dopo aver video-ripreso e intercettato il conduttore tv mentre parla della foto con Baiardo. E’ la prova della sua attendibilità. Quindi emettono il famoso decreto di perquisizione, firmato da un gip il 23 marzo, pubblicato dal Fatto il 15 aprile, due giorni dopo la sospensione della trasmissione di Giletti e il giorno successivo le richieste del pg della cassazione al processo “Trattativa”, in cui viene richiesta di nuovo l’assoluzione di Dell’Utri “perché il fatto non sussiste”. Ovviamente la foto non c’è, e neanche il documento fondamentale sulla “trattativa”. Forse sarà stato già bruciato, magari insieme alla polaroid. Si arriva così al terzo interrogatorio di Giletti. I magistrati vogliono sapere perché l’editore Cairo gli abbia sospeso la trasmissione, forse gli suggeriscono di non partecipare alla maratona di Mentana, che infatti viene sospesa.
E lui, all’uscita dalla procura, con sapiente regia lancia una frase così ambigua che pare scritta da Salvatore Baiardo: “Ci sono vicende che non si possono risolvere all’interno di uno studio televisivo, vanno affrontate nei luoghi deputati, cioè gli uffici di un’azienda, altrimenti si rischia di finire in un’aula di tribunale”. Probabile che parli semplicemente del proprio contratto aziendale, che scade alla fine di giugno, e che il “tribunale” sia un’aula di processo civile, non penale. Ma ha imparato anche a lui a dire e non dire, alludere e lasciar intendere, proprio come il suo ospite fisso Baiardo. Così tutti ritengono stia parlando di mafia e non di “piccioli”, o del proprio vincolo di riservatezza rispetto all’azienda. Prodigi della comunicazione! In attesa del 27 e della sentenza sulla “trattativa”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
«Incontrai Berlusconi a Milano 3». I pm trovano la casa del boss. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 05 maggio 2023
I magistrati antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine del complesso realizzato dall’ex premier.
Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord.
Un appartamento sospetto corrisponde alla descrizione fatta da Graviano: al tempo era in uso a un mafioso.
Milano 3 è stato l’ultimo sogno edilizio realizzato da Silvio Berlusconi con la sua società immobiliare Edilnord. Ed è tra queste palazzine, immerse nel verde, realizzate tra il 1980 e il 1991, che è ambientato l’ultimo grande mistero delle stragi di mafia del 1993: l’incontro presunto tra il boss stragista Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, raccontato per la prima volta dal mafioso durante un’udienza del processo sulla presunta ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria, in cui era imputato proprio Graviano.
Le stragi di 30 anni fa sono iniziate il 14 maggio con l’attentato a Maurizio Costanzo e sono proseguite fino al gennaio successivo con la bomba inesplosa allo stadio Olimpico: nel mezzo i morti di Firenze di via Georgofili e le bombe a Milano e Roma. Sugli esecutori ci sono ormai pochi dubbi, i mafiosi di cosa nostra, tra loro Giuseppe Graviano. La procura di Firenze, però, oggi punta a individuare i mandanti occulti del tritolo piazzato per colpire il patrimonio artistico italiano.
I pm Luca Tescaroli e Luca Turco indagano da alcuni anni sul livello politico del terrorismo mafioso e hanno iscritto nel registro degli indagati Berlusconi e Marcello Dell’Utri. La direzione investigativa antimafia di Firenze ha prodotto diverse informative ricche di informazioni e riscontri alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e soprattutto del boss mai pentito Graviano, il quale gioca su più tavoli e, pur mostrando chiusura a qualunque tipo di collaborazione, ha parlato in alcune occasioni del suo rapporto privilegiato con Berlusconi tra gli anni Ottanta e Novanta, a cavallo delle stragi del ‘93.
È stato lui a riferire dell’incontro con il Cavaliere in un appartamento di Milano 3. Se il randez vous fosse provato, confermerebbe i sospetti di un patto tra il fondatore di Forza Italia e la mafia palermitana. I legali di Berlusconi hanno bollato queste ricostruzioni come fantasiose e infamanti, e si dicono pronti a difendere l’onore del loro assistito nelle sedi opportune.
L’APPARTAMENTO SEGRETO
Per riscontrare le parole di Graviano il primo passo compiuto dai detective – scopre ora Domani – è stato quello di setacciare il complesso residenziale di Milano 3, un elemento che emerge dagli atti depositati. Seguendo la descrizione molto generica del padrino di mafia.
L’appartamento era «ubicato a Milano 3»; «era un appartamento piccolo, forse un paio di stanze, sito al primo o secondo piano di una palazzina servita da ascensore»; «dalla finestra sul retro si vedeva una caserma dei carabinieri»; «la strada di fronte a tale palazzina si attraversava tramite un ponticello (ve ne era più d'uno su tale strada) che conduceva a uno spazio antistante una piscina e più avanti vi era un albergo e un centro commerciale».
Sulla base di queste indicazioni gli investigatori scrivono: «Gli elementi fattuali e documentali che hanno condotto, fra i numerosi edifici analoghi costituenti il Comprensorio Milano 3 di Basiglio, ad individuare nella residenza Alberata lo stabile, verosimilmente l’appartamento 223, quello indicato da Giuseppe Graviano». Nell’informativa, si legge: «Partendo dall'imprescindibile elemento fornito dal dichiarante (Graviano, ndr) che dall'appartamento fosse visibile la locale ed unica stazione dei carabinieri lo stabile di interesse è stato agevolmente individuato nell'edificio A della residenza Alberata».
La sorpresa per procura e investigatori arriva dall’analisi dei proprietari e dei locatari a partire dagli anni in cui Graviano sostiene di aver incontrato Berlusconi nell’appartamento di Milano 3. L’interno 223, scala 2 e piano secondo, era di proprietà di tale Corrado Cappellani di cui non c’è traccia sul web. Ma soprattutto scoprono che all’epoca era stato affittato a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012. Fiore è lo zio paterno di un mammasantissima di Cosa nostra.
O meglio è lo zio di Antonino Mangano, ritenuto il successore dei Graviano dopo il loro arresto. Una coincidenza degna di nota. La domanda cui ora stanno cercando di dare una risposta in procura a Firenze è se poteva essere Mangano la persona cui si riferiva Gravano senza mai nominarlo, definendolo “Lui”, durante un dialogo in carcere, intercettato.
CASA E FOTO
Nelle stesse intercettazioni il boss riferiva, inoltre, di aver utilizzato un prestanome per creare una copertura sull’immobile milanese, usato per gli incontri «necessari per mantenere i patti». Quali patti con Berlusconi? Graviano non lo dice: per i pm si tratta delle stragi ma anche dei miliardi, questo sì confermato dal boss, che il nonno aveva affidato al Cavaliere. Ad accompagnare Graviano anche a questi incontri c’era Salvatore Baiardo, l’uomo diventato celebre per avere predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Correggiamo la storia distorta dalle indagini di mafia e di Tangentopoli. La sentenza della Cassazione sulla Trattativa segna la fine della pretesa della magistratura di essere protagonista nelle vicende sociali e politiche. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 7 maggio 2023
La recente sentenza sulla trattativa tra lo Stato e la mafia non ha avuto un adeguato commento dalla grande stampa eppure si tratta di una decisione della Cassazione eclatante e fondamentale per la storia civile, politica e umana del nostro Paese.
È una sentenza che non può soltanto essere pubblicata nel Massimario e dare lustro a magistrati che hanno dimostrato la loro serena indipendenza come prevista dall’art. 104 della Costituzione, ma deve avere conseguenze nella valutazione attenta da parte della cultura giuridica e del mondo giudiziario. Come è noto la Cassazione ha stabilito che il fatto “trattativa” non è stato commesso e non costituisce reato; e quando un “fatto” non è reato e non è stato compiuto il processo penale non ha consistenza.
Viene da dar ragione a chi si pone la domanda perché è stato intentato un processo lungo venti anni che ha costruito una storia che non esiste. La magistratura non può inquinare le vicende della storia con cronache non vere che incidono fortemente sul tessuto sociale e sulla convivenza dei cittadini.
Perché è iniziato questo processo e tanti altri che hanno avuto meno clamore e che hanno interessato leader politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, campioni assoluti più di tanti altri della legalità repubblicana, come tanti esponenti dell’amministrazione dello Stato, delle forze di polizia, della struttura intima dello Stato?! È una domanda che ogni cittadino si pone.
Al di là di sospetti particolari e specifici la risposta ingenua che possiamo dare è che una certa magistratura voleva essere protagonista nello scrivere la storia del nostro Paese, nel far diventare protagonista fuori misura l’antimafia nella sua dissennata esasperazione di ritenere che tutto il mondo è mafia e che la politica è inquietante deviando dai fondamentali canoni della ricerca della prova e della razionalità delle decisioni.
La sentenza dunque segna la fine della pretesa della magistratura essere protagonista nelle vicende sociali e politiche, capace di far trionfare il bene sul male e di esprimere un modello etico di riferimento completo e complessivo di tutta la società, come tutore della moralità. Questa fase è iniziata negli anni 90 con le indagini giudiziarie di Tangentopoli e con le indagini giudiziarie nei confronti di Andreotti, Mannino del giudice Carnevale che non dobbiamo dimenticare, che hanno portato a sentenze clamorose di assoluzione perché il fatto non è stato riscontrato, con valutazioni severe, contenute nelle sentenze che bisognerebbe ogni tanto rileggere, nei confronti dei pubblici ministeri.
In una di queste sentenze della Cassazione è stato scritto che le modalità di indagine giudiziaria utilizzate per quel processo debbono essere di monito per “come non si deve fare un processo”! Ho scritto varie volte che tutte le formule di condanna o di assoluzione restano coerenti nell’ambito del processo penale escluso quella del “fatto che non esiste” o del fatto che non è stato compiuto, che dà una responsabilità in più a chi ha iniziato l’azione penale e non si è reso conto che non c’era il “fatto” o che il fatto non era reato e non è stato compiuto.
Come non rendersi conto di questo?! Se si vuole riformare il ruolo del magistrato e adeguarlo ai tempi si deve ancor più esaltare la sua indipendenza che non si può non collegare a una responsabilità.
La indipendenza non determina irresponsabilità e una esasperata “autonomia” porta alla chiusura e alla “casta” incontrollata. L’autonomia, bisogna ormai riconoscerlo, è un istituto dell’aciern regime che i costituenti mutuarono perché dovevano prevedere una vera e propria separatezza della magistratura rispetto al governo e alle altre istituzioni segnare una forte discontinuità rispetto al regime fascista! Il costituzionalismo moderno non può non porsi questo problema, che riconosco è molto arduo e complesso, ma è un problema che ha bisogno di essere risolto.
La riforma della magistratura è soprattutto di natura costituzionale ed è la premessa per le altre riforme che sono state indicate dal ministro Nordio che portano alla distinzione istituzionale tra pm e giudice, a una composizione diversa del Csm, per evitare che vi sia la prevalenza del giudiziario sul Parlamento, sul governo e quindi sulla politica.
Si deve sviluppare un grande dibattito su queste questioni, perché la magistratura vuol conservare inopinatamente il suo anomalo potere, la sua funzione di supplenza e questo non è coerente con la nostra Costituzione.
Nell’ultimo numero della rivista Questione giustizia, organo ufficiale della corrente magistratura democratica, il direttore scrive: “In moltissimi casi della vita sociale ed economica – scrive Nello Rossi – è il giudiziario ad intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall'inerzia della politica… e quindi c’è bisogno di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone… all'affermazione di diritti dolorosi come quelli relativi al fine vita; alle soluzioni offerte sul terreno dell'eguaglianza di genere; alla protezione di diritti umani fondamentali come nel caso dei migranti; alle azioni a tutela dei risparmiatori e delle finanze pubbliche in contesti finanziari sempre più complicati e vorticosi; agli interventi sulla condizione dei lavoratori marginali, come i rider o i lavoratori della logistica… il magistrato non può pensare di essere un semplice passacarte, un freddo tutore dell'ordinamento giudiziario, ma deve rivendicare il suo ruolo speciale nella società, anche a costo di allargare il perimetro delle proprie prerogative… La Costituzione non indica più una direttrice di marcia univoca nel cui solco il giudiziario possa identificare una sua funzione unitaria, storica…!” Questo scritto è in coerenza con quanto scritto nel lontano 1983 sulla stessa rivista che io ho ricordato molte volte in questi anni, dal pubblico ministero Gherardo Colombo.
“La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente e istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all'accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura...”
“È stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quella giurisdizionale. In tema di terrorismo, ad esempio, tutto il complesso fenomeno, di chiarissima natura politica, è stato affrontato a livello giudiziario e risolto - per quanto si è potuto attraverso strumenti utilizzati dalla magistratura.
Quello del terrorismo è uno dei tanti settori nei quali si è verificata l'imposizione alla magistratura di un'attività di supplenza da parte di altri apparati dello Stato… non mancano altri campi, più o meno estesi e più o meno evidenti, in cui sono state scaricate sulla magistratura responsabilità che spetterebbero, in linea di principio, ad altri organi o settori dello Stato. Ciò ha portato necessariamente l'ordine giudiziario ad invadere, perché richiesto, sfere di intervento istituzionalmente riservate ad altri. È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza o dalla più o meno grave insufficienza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall'intervento giudiziario”.
È molto significativo come vi sia una costante in parti della magistratura di costruire un protagonismo istituzionale fuori dal dettato della Costituzione, ed è incomprensibile questa ostinazione di costruire una magistratura – politica. So bene che la colpa è della politica ma è la classe dirigente non solo la politica che deve avere consapevolezza e allarmarsi. L’evoluzione del ruolo della funzione della magistratura non può avvenire in queste forme perché costituirebbe un vulnus per la democrazia.
La distinzione dei poteri non è superata perché dall’epoca di Montesquieu sono passati tanti anni, ma è l’anima dello stato di diritto, dell’equilibrio tra i poteri perché nessuno deve prevalere sull’altro e ogni potere deve essere fedele alle sue rigorose competenze.
La sentenza della Cassazione vogliamo sperare chiude questo lungo periodo di “supplenza”, ristabilisce la consistenza dei fatti e cancella una distorta e mendace cronaca di tutti questi anni per la quale abbiamo patito tutti e hanno patito i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel nostro Paese opposto a quello che le sciagurate iniziative giudiziarie hanno voluto indicare. È arrivato davvero il momento di correggere la storia distorta che le indagini di Tangentopoli e quelle contro la mafia hanno fittiziamente costruito, e ristabilire un rapporto virtuoso tra la società e le istituzioni, tra la società e la politica.
La sconfitta non esiste...Fatto Quotidiano come i soldati giapponesi, Travaglio pubblica accuse ‘non dimostrate’ sulla Trattativa mai esistita. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 6 Maggio 2023
Come i soldati giapponesi che, finita la seconda guerra mondiale, rimasero nascosti sulle isole delle Filippine in attesa di ricevere ordini per sferrare l’offensiva contro l’esercito americano, al Fatto Quotidiano, nonostante la Cassazione abbia detto che la trattativa Stato-mafia non è mai esista, sono sempre pronti a raccogliere le testimonianze di qualcuno che affermi il contrario, e che Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri abbiano avuto un ruolo di ‘mandanti’ delle stragi di mafia del 1993-94.
Per proseguire tale narrazione, ovviamente, si ricorre come nelle migliori tradizioni alla classica fuga di notizie. Ieri, infatti, il quotidiano di Marco Travaglio ha tirato fuori dal cassetto una inedita informativa della Direzione nazionale antimafia (Dia) del 16 marzo del 2022. Nell’informativa, mai depositata alle difese di Berlusconi, si descrivono le attività d’indagine svolte sui telefoni dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio, arrestati nel 1994 e da allora in carcere al regime del 41 bis. I cellulari dei Graviano, in particolare, nel 1993 avrebbero agganciato diverse volte le stesse celle telefoniche di quelli in uso a Dell’Utri e Berlusconi. Tale coincidenza sarebbero la prova, dunque, dell’avvenuto incontro fra loro anche se Dell’Utri e Berlusconi hanno sempre smentito rapporti con i due boss.
Nell’informativa, poi, si evidenzia la circostanza che quando i Graviano ordivano il loro piano stragista, Berlusconi si preparava a scendere in campo. La nota, firmata dal primo dirigente della Polizia di Stato Francesco Nannucci, era stata trasmessa al procuratore facente funzione di Firenze Luca Turco e all’aggiunto Luca Tescaroli. Quest’ultimo è noto perché da giovane magistrato in servizio alla Procura di Caltanissetta negli anni ‘90 indagava sulle medesime vicende per poi giungere invariabilmente all’archiviazione.
Un canovaccio che si ripete dunque con gli stessi protagonisti e con le stesse vittime, cui non viene concesso neppure il diritto di essere imputate in un regolare processo per potere poi, seppur a distanza di qualche decennio, sostenere di essere innocenti. Di ciò sembrano essere in qualche misura consapevoli anche al Fatto Quotidiano in quanto, senza timore evidentemente di scadere nel ridicolo, alla fine del pezzo scrivono: “Accuse pesantissime che gli indagati smentiscono e che allo stato non sono dimostrate”.
Sicché ci si chiede come possa Nannucci, dal 2019 capo centro della Dia dopo essere stato per oltre 15 anni capo della Squadra mobile di Prato, mettere nero su bianco accuse simili sebbene “non dimostrate”, e quale interesse ad una corretta e veritiera informazione possano avere un giornalista e un quotidiano a pubblicare accuse da loro stessi ritenute “non dimostrate”, se non orientare politicamente il lettore contro l’avversario di turno. Sarebbe quindi il caso che la Procura di Firenze, in attesa che il Csm decida finalmente di nominare il nuovo procuratore, si dedicasse con lo stesso impegno e zelo a perseguire reati conclamati quale quello segnalato dalla giudice Sara Farini, anziché ingolfare la macchina della giustizia con indagini che tutti sanno che porteranno a nulla, se non all’ennesima archiviazione, come ci ha abituato Tescaroli da quasi un trentennio.
Si dà il caso, infatti, che in una recente audizione davanti alla Commissione giustizia del Senato, per la precisione il 2 febbraio scorso, Turco nulla aveva risposto alla senatrice Erika Stefani (Lega) che gli chiedeva conto dell’indagine sulla ormai famosa fuga di notizie del 29 maggio 2019 quando il Corriere, Repubblica e il Messaggero con articoli fotocopia avevano pubblicato le intercettazioni allora in corso a Perugia sull’indagine a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, determinando le dimissioni di ben cinque consiglieri del Consiglio superiore della magistratura.
La giudice del tribunale di Firenze Farini, con un provvedimento del 27 gennaio 2021, quindi di oltre due anni fa, a proposito della divulgazione degli atti dell’indagine perugina del 29 maggio 2019, aveva testualmente affermato che “sussiste senza dubbio il fumus commissi delicti del reato in iscrizione, considerata la circostanza – non controversa alla luce della documentazione prodotta dal denunciante (Palamara, ndr) e dalla scansione temporale dei fatti riferita in querela – della pubblicazione su varie testate giornalistiche di notizie ancora coperte da segreto investigativo”.
“Appare dunque configurabile – aveva aggiunto la giudice – la fattispecie di cui all’art. 326 c.p. (rivelazione del segreto d’ufficio, ndr): vi è stata una condotta di illecita rivelazione di dette notizie da parte di un pubblico ufficiale, allo stato non identificato, che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso la Procura della Repubblica di Perugia, le ha indebitamente propalate all’esterno”. E a proposito della condotta tenuta dalla Procura di Firenze nella per- sona di Turco, la medesima dottoressa Farini non aveva mancato di precisare che “ad oggi non risulta- no infatti compiuti atti di indagine volti quantomeno a circoscrivere la platea di soggetti che possono esse- re venuti in contatto con le notizie segrete indebitamente propalate all’esterno della Procura della Repubblica di Perugia”.
Tornando comunque alla fuga di notizie da parte del Fatto Quotidiano, l’avvocato romano Giorgio Perroni, difensore di Berlusconi a Firenze, ha depositato ieri una denuncia alla Procura di Firenze.
Paolo Pandolfini
Estratto dell’articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 9 maggio 2023.
La Procura di Firenze ha interrogato Giuseppe Graviano in cella in due occasioni il 20 novembre 2020 e il 1º aprile del 2021 nell’ambito dell’indagine poi chiusa e riaperta a fine 2022 su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi del 1993.
In entrambi i casi il pm Luca Tescaroli ha chiesto al boss dei suoi rapporti con Dell’utri partendo da due conversazioni in cella del 1998 e 1999 con la sorella Nunzia in cui, per la Dia, parlerebbe proprio dell'ex senatore cercando di portare, tramite l'avvocato Fragalà, messaggi all’esterno verso vari soggetti tra cui, appunto, un ‘Marcello’ che sarebbe Dell’utri .
Ovviamente l’intento, anche se fosse stato nella mente di Graviano, non è detto si sia realizzato e non è riscontrato. Peraltro negli interrogatori ha negato questa interpretazione e ha negato soprattutto di conoscere Dell’utri. La Dia e i pm di Firenze però non mollano e nell’informativa del 16 marzo 2022 elencano una serie di elementi che sembrano andare in senso inverso.
ALLORA, fatte le solite premesse (Dell’utri, come Berlusconi, è stato indagato già in passato per le stragi del 1993 a Milano e Firenze e per gli attentati di Roma – per i quali è stato condannato Gravian – e più volte il procedimento sui “mandanti esterni” è stato archiviato; parliamo di spunti investigativi che per ora non hanno portato nemmeno a un avviso chiusura indagine ma che sono di interesse pubblico perché rivitalizzati dalla Dia e messi in relazione con atti e fatti più recenti) passiamo a riportare quel che scrive il capocentro Dia di Firenze Francesco Nannucci: “Altri elementi di connessione tra Giuseppe Graviano e Marcello Dell’utri vennero desunti anche dall’esito delle indagini condotte dal centro operativo Dia di Palermo nell’ambito dell’operazione ‘Lince’ (procedimento¸penale n. 1519/08-21 DDA) in particolare; vennero intercettati, rispettivamente in data 24 giugno 1998 e 24 marzo 1999, due colloqui presso il carcere di Spoleto tra il detenuto Giuseppe Graviano e i suoi familiari ai quali il predetto esprimeva la necessità di riportare all’esterno della struttura carceraria suoi messaggi da recapitare a terzi tramite l’avvocato Fragalà.
Tra i destinatari dei messaggi, nel primo colloquio, – prosegue la Dia – faceva riferimento più volte a tale ‘Marcello’, mentre nel secondo colloquio cita il cognome ‘Dell’utri’ e la necessità di reperire l’indirizzo del citato avvocato”.
La Dia evidentemente fa riferimento a Enzo Fragalà, parlamentare di An dal 1994 al 2006, professore e avvocato di aggredito da un manipolo di mafiosi di Palermo il 23 febbraio del 2010, a bastonate all'uscita dal suo studio. Dopo tre giorni di coma, morto.
I mafiosi, secondo i collaboratori di giustizia, volevano punirlo perché negli ultimi tempi sarebbe diventato troppo ‘sbirro’, cioé troppo incline a far parlare i suoi assistiti con i magistrati. Quindi Fragalà è una vittima di mafia.
La Dia sostanzialmente scrive che nel 1998, quando Fragalà era parlamentare An e Dell'utri senatore Fi, Graviano parla alla sorella Nunzia dell’avvocato pensando di far portare un messaggio a Marcello. La Dia richiama indagini del 2013 e scrive: “In considerazione degli accertamenti (...) gli investigatori identificarono il citato ‘Marcello’ proprio in Marcello Dell'utri”.
[…] La Dia riporta un estratto dell’intercettazione che effettivamente è di per sé poco comprensibile. Secondo la Dia oltre a Fragalà Graviano cita anche un secondo avvocato, Zito. La Dia evidenzia i punti salienti della conversazione, in particolare le parole Sismi e “barba”, accompagnata da gesti che farebbero riferimento al rischio che ci siano microspie in giro in grado di intercettare il discorso che lui vuol portare fuori dalla cella.
[…] Difficile davvero dare un senso al discorso di Graviano tra barbe, SISMI, avvocati e messaggi. Infatti la Dia prosegue spiegando che i pm andavano “a sentire Graviano rispettivamente in data 20.11.2020 e 1.4.2021”. Graviano nella prima audizione chiede di sentire l’audio. Nella seconda, quando gli dicono che non c’è più, dice che “la trascrizione non è esatta”. Alle domande del pm Tescaroli su chi fosse “barba” risponde: “ho conosciuto l'avvocato Zito e l’avvocato Fragalà come avvocati di processi, mentre non ho mai utilizzato il nomignolo barba per indicare una qualche persona, o per lo meno non ricordo”.
P.M. Tescaroli: “Se ha menzionato Marcello, no? Come risulta, a chi si riferiva? Chi è questo Marcello”?
Graviano: “Può essere anche Marcello Tutino. Vi assicuro che se ...”
P.M. Tescaroli: “Marcello”? Graviano: “Tutino o qualche altro Marcello che conoscevamo ... però vi posso assicurare che io il signor Dell’utri non lo conosco. Ve lo ripeto ancora”.
La Dia non crede molto a queste parole. Graviano dice che quel Marcello poteva essere un suo uomo di secondo livello come Marcello Tutino ma effettivamente quel soggetto poco c'entrerebbe nel discorso fatto dal boss alla sorella Nunzia su “SISMI”, avvocati e sul misterioso “barba”.
Nell’informativa la Dia, dopo aver riportato le risposte di Graviano su Dell’utri, chiosa richiamando un collaboratore che dice cose ben diverse:“al fine di dirimere ogni dubbio, si riportano di seguito gli esiti degli interrogatori del collaboratore Gaspare Spatuzza i quali forniscono una chiave di lettura oggettiva e lineare in merito al possibile coinvolgimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri in ordine al fallito attentato all'olimpico di Roma il 23 gennaio 1994”. Seguono le dichiarazioni di Spatuzza e le parole dette da Graviano in cella nel 2016 sulla “bella cosa” che a suo dire gli sarebbe stata chiesta da un “lui” che negli interrogatori sostiene essere Berlusconi.
POI LA DIA riporta la versione di Graviano sulla “bella cosa” (nulla a che fare con bombe ma solo un riferimento a investimenti immobiliari) e dopo aver spiegato perché non crede a questa versione minimal scrive: “In conclusione, si può quindi affermare che la conversazione ambientale del 10.4.2016, oggetto di rivalutazione nel corso dell’odierna delega di indagine, è riconducibile al contesto criminale relativo alla strage dell’olimpico del 23.1.1994, con il coinvolgimento di Silvio Berlusconi, per il tramite di Marcello Dell’utri, quale diretto interessato alla sua realizzazione”. Una linea interpretativa tutta da dimostrare che al momento non ha trovato riscontri e non è escluso che l’indagine contro Berlusconi e Dell'utri sia archiviata come già in passato su richiesta dei pm.
Marcello Dell’Utri è un numero uno della politica e della cultura italiana (e se ne fotte di Massimo Giletti). L’ex ad di Publitalia ed ex parlamentare di Forza Italia ha ben altro da fare che pensare alle accuse del trombato Massimo Giletti e del noiosissimo Peter Gomez. Legge, viaggia, si gode i figli e la “sua” Milano2. Stefano Bini su Notizie.it il 9 Maggio 2023
Marcello Dell’Utri è definitivamente un uomo libero, criticabile come chiunque persona al mondo ma a questo punto esonerato per sempre da ogni accusa giuridica e morale. Anche perché di moralità Marcello Dell’Utri ne ha da vendere: la vecchia guardia di Publitalia lo ricorda con sincero affetto per quanto ha insegnato “ai fu giovani pionieri” della concessionaria, quando tutto era da costruire e nessuno sapeva come sarebbe andata a finire. Da Silvio Berlusconi ai figli, da Publitalia a Mediaset, da Fininvest al Milan, fino a Forza Italia, tanti devono dire grazie a Marcello Dell’Utri, non solo per l’esperienza, l’umiltà, la cultura e la diligenza che è riuscito a trasmettere a centinaia di persone ma per l’approccio umano, che riusciva e riesce a conquistare tutti. Dell’Utri è un uomo di una cultura immensa, che ama alla follia moglie e figli, non ha mai smesso di leggere libri di letteratura e saggi, di guardarsi intorno alla ricerca di giovani da sostenere e promuovere nelle sue attuali attività culturali. Sorriso bonario, spirito giovane ed entusiasmo fanno il resto.
Dopo decenni, sarebbe il momento di mettere la parola “fine” alle accuse ingiuriose e infamanti nei confronti di un uomo che, a questo punto ingiustamente, ha fatto anni di carcere tra Parma e Rebibbia a Roma, passato momenti di depressione, lontano dalla famiglia e con un tumore; ora è un uomo libero e può fare ciò che vuole, come ogni essere umano cosciente. Il peso di queste situazioni è stato fortissimo eppure non si è lasciato mai scalfire, né dagli attacchi televisive finanche quelli mediatici, provenienti soprattutto da Repubblica e dal Fatto Quotidiano, i quali ormai hanno la credibilità dei pupazzi Uan e Four.
Massimo Giletti accusa e Peter Gomez attacca, una storia ripetuta migliaia di volte che ormai non ha più appeal. Attaccare Marcello Dell’Utri, come Silvio Berlusconi, è diventato di una noia e banalità pazzesche. Secondo i suddetti giornalisti, Dell’Utri sarebbe intervenuto per far cacciare Massimo Giletti da La7; addirittura si sono spinti a dire che in televisione l’ex senatore è un tabù e i programmi che ne parlano spariscono. Situazioni incomprensibili, che talvolta fanno ben capire il livello intellettuale e professionale di certe persone.
Marcello Dell’Utri, che si parli o meno di lui, rimane un esperto di politica, management e cultura, punto di riferimento di milioni d’italiani che da una parte lo hanno conosciuto e dall’altra ammirato nelle varie attività svolte in cinquant’anni di carriera. Chi ha avuto modo di starne a contatto sa bene che non si sporcherebbe mai le mani per avvenimenti o persone che non meritano la minima attenzione.
In questi giorni, giornali e giornalisti, blog e blogger, giornalai e amanti del ciarpame mediatico hanno straparlato; di contro, Marcello Dell’Utri non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Questione d’intelligenza, stile e superiorità morale.
Gli occhiuti storiografi giudiziari. La foto del mafioso con Berlusconi che non c’è e la nuova storia sull’arresto di Totò Riina: gli ‘scoop’ di Domani e Fatto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2023
La foto “prova regina” del legame tra Silvio Berlusconi e la mafia non si trova. Ovviamente. Ma potrebbe sbucar fuori una casa. Vuoi che un ricco imprenditore brianzolo non abbia nemmeno uno straccio di villa sul Lago Maggiore? Magari a due passi da quella a Meina del generale Francesco Delfino, colui che nella fantasia dei mafiologi professionisti sta prendendo il posto di Mario Mori.
E, se non proprio a due passi, magari a trenta-quaranta chilometri, da quei luoghi del lago d’Orta e vicinanze, Omegna e Borgomanero, dove nei primi anni novanta trovarono rifugio i latitanti fratelli Graviano e quel Balduccio Di Maggio, l’autista che ha fatto arrestare il suo capo, Totò Riina. Tutti in fuga dal nemico Giovanni Brusca. Ogni notizia, ormai lo sappiamo, è quella che “riscrive la storia”. Non quella del Risorgimento o della grande guerra o della seconda e del fascismo e la resistenza e l’arrivo degli americani. E neanche quella della ritrovata democrazia e la nostra bella Costituzione e poi la ricostruzione.
Niente di tutto ciò. La storia da riscrivere, in cui sono impegnati sempre i soliti, che poi sono un pugno di penne e di toghe, è una e una sola, quella delle stragi di mafia. Un mondo e una storia che ormai esistono non solo in sentenze che credevamo definitive, ma soprattutto in qualche atto giudiziario di passaggio e negli occhi stanchi di chi passa troppo tempo a spulciarli dopo il consueto dono delle mani amiche. Così i primi anni Novanta, fino al 1994 quando è entrato in scena Silvio Berlusconi, vengono letti e riletti, e aggiustati e maneggiati e rivoltati, per arrivare sempre alla medesima conclusione. Chi ha messo le bombe nelle mani di quel contadino analfabeta di Totò Riina? E perché? E ogni volta, a ogni nuova “notizia”, che in genere notizia non è, come l’ultima sulla foto con il generale Delfino e il mafioso Graviano, si squarcia un velo. Ma gli articoli sono tutti uguali.
Anche se c’è una novità nel panorama della comunicazione. La Repubblica, il quotidiano che fu capostipite nella campagna politico-giudiziaria contro Silvio Berlusconi, contro il suo ingresso in politica, con l’occhio attento delle dieci domande sulla sua vita personale, è ormai tagliata fuori. I nuovi esecutori dell’ O di Giotto con cui l’allievo superò il maestro Cimabue, sono gli storiografi giudiziari di Domani e del Fatto. Che si accapigliano e si scopiazzano senza pudore. Dopo lo scoop della foto su Berlusconi che non c’è, e che ha creato quel parapiglia nella redazione di La 7 su cui ci illuminerà Enrico Mentana domenica sera, è ora la volta di squarciare anche l’oscurità dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, due ore prima dell’arrivo a Palermo del nuovo procuratore Giancarlo Caselli.
La spiata era arrivata dal “traditore” Balduccio Di Maggio, che del boss dei corleonesi era stato l’autista. Quello che noi boccaloni credevamo fosse stato fermato pochi giorni prima, l’8 gennaio. Pare invece che il “traditore” e “pentito” fosse nelle mani della giustizia già da qualche giorno, da prima del capodanno 1992. Nelle mani di chi? Domanda ingenua. Del generale Delfino.
Delfino chi? Ma quello della foto con Berlusconi e Graviano no? E dove? Ma sul lago D’Orta, ovvio. E qui il cerchio si chiude, perché Di Maggio viene arrestato a Borgomanero, luogo a quindici chilometri da Omegna dove il gelataio Baiardo, quello che ha fatto fuori Giletti da La 7, ospitava i fratelli mafiosi Graviano, uno dei quali, Giuseppe, sarebbe il protagonista della famosa foto. Inoltre, guarda caso, il generale Delfino aveva una villa a Meina, cittadina che non c’entra niente con gli altri due luoghi, perché è sulla punta sud del lago Maggiore.
Però agli occhiuti storiografi giudiziari non può sfuggire il fatto che tutto sommato stiamo parlando di soli trenta chilometri di distanza. Poi, se vogliamo proprio dirla tutta, quanti laghi ci sono tra Lombardia e Piemonte? Lasciamo stare il Garda che è più sopra, ma non vogliamo vedere se non c’è stato qualche mafioso nascosto in quegli anni per esempio sul lago di Varese? L’onore dello scoop andrebbe al Fatto del 17 aprile, se il giorno dopo, il 18, Domani non avesse schierato la corazzata Attilio Bolzoni, che come il suo collega Giuseppe Pipitone conosce a spanne la geografia del nord d’Italia, ma viene dalla scuola di Repubblica, quindi ci mette il carico di chi conosce la storia dall’inizio.
Sentite: “In un angolo d’Italia lontano da Palermo è accaduto qualcosa che può ribaltare la scena intorno alla cattura di Totò Riina, che poi è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che si incastra tutto: mafia, stato, stragi, depistaggi, patti. Oggi possiamo avere una visione meno incompleta sulle uccisioni di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, sulle bombe di Firenze”. Manca solo una villa di Silvio Berlusconi sul Lago Maggiore, possibilmente con dépendance affittata all’amico Marcello Dell’Utri.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Dagospia il 19 aprile 2023.
Caro Dago
Come è noto Fremantle Italia è solo il produttore esecutivo di Non è l’arena e non gestisce la raccolta pubblicitaria del programma che è, invece, di competenza della rete. Eventuali retroscena su questo argomento sono dunque fantasiose ricostruzioni dei fatti.
Ufficio stampa Fremantle Italia
Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per “Il Foglio” il 19 aprile 2023.
Chissà perché viene raccontato come un mistero. Urbano Cairo ha chiuso il programma di Massimo Giletti su La7, quello grazie al quale l’Onu è stata sul punto di inserire l’Italia nell’elenco dei paesi sottosviluppati, perché ormai Giletti gli faceva perdere una barca di soldi. E nell’ultimo mese la situazione si era fatta addirittura insostenibile: circa centocinquantamila euro di passivo ogni puntata.
Insomma ogni santo giorno in cui “Non è l’Arena” andava in onda, Cairo, uno che a La7 riesce a tagliare i costi persino delle colazioni al mattino, che rinegozia al ribasso pure i contratti già chiusi verbalmente, era costretto alla più spaventosa (per lui) delle ginnastiche: quella di svuotare il portafogli. Circa duecentomila euro di spesa a puntata per tenere in piedi la trasmissione di Giletti, quando un talk-show, pure il più lussuoso, costa al massimo – volendo esagerare – centocinquantamila euro a puntata. Con una raccolta pubblicitaria compresa tra i cinquanta e i sessantamila euro. Dunque in passivo. Assai in passivo.
[…] il programma più redditizio di La7 è “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, che non ha servizi giornalistici, non ha inviati in esterna, non ha impianto scenico di studio e i cui unici costi sono all’incirca il compenso della conduttrice e quello di alcuni ospiti fissi. I denari si fanno così: spendendo il minimo e raccogliendo il massimo di pubblicità. Un equilibrio delicato. Se salta, perché calano gli ascolti, si va in perdita. E Cairo in perdita non ci vuole andare mai. Il verbo che preferisce è ovviamente “guadagnare”, mentre “pagare” gli piace un po’ meno. […]
Cairo non è un finanziere come Caltagirone, che possiede il Messaggero. Non costruisce automobili come Elkann, che possiede Repubblica. Vive di tivù e giornali. Che devono andare bene. O perlomeno benino. Inoltre, ha una ben nota fissazione, si direbbe quasi patologica, per le marginalità. Anche quelle minime. C’è chi racconta di avere contrattato con lui per ore su cifre intorno ai ventimila euro. Altri per quella somma acquistano un’automobile semi utilitaria. Lui, per risparmiarli, ci perde una giornata.
[…] Partito nella stagione 2017-2018 con 1.403.813 spettatori, Giletti nei successivi cinque anni quegli spettatori li ha dimezzati arrivando oggi a una media di 779.979. E anche se in questa stagione si stava forse riprendendo, la pubblicità non entrava comunque.
[…]
D’altra parte persino Giletti era consapevole del calo degli introiti pubblicitari. E se ne lamentava. Però più andava male, più lui si spingeva su temi controversi, per così dire. Compresa la mafia e la stagione delle stragi. Spesso infatti l’insuccesso costringe questi conduttori di talk-show ad acrobazie nel ramo dell’informazione a fumetti. Addirittura pare che a un certo punto il famoso Salvatore Baiardo, il mezzo mafioso che lui ospitava a pagamento, quello della presunta foto di Berlusconi con lo stragista Graviano, si sarebbe offerto di dare una mano per trovare lui aziende interessate a investire nella pubblicità di “Non è l’Arena”. Roba tipo “Catania arancino express”.
Dicono che questa ipotesi, nei giorni scorsi, avesse mandato nel panico i dirigenti di Fremantle, la casa di produzione che confezionava il programma di Giletti. La settimana scorsa un dipendente di Fremantle avrebbe infatti ricevuto questo incarico noiosissimo: andare a rivedere tutti i passaggi pubblicitari di “Non è l’Arena” in questa stagione e verificare che non ci fossero cose tipo aziende di Corleone operanti nell’export di olio d’oliva. Erano terrorizzati che qualche azienda non precisamente specchiata potesse avere acquistato sul serio gli spazi pubblicitari. Sarebbe imbarazzante. Ma sarà stata certamente solo una spacconata, una delle tante, di Baiardo.
[…] Il narcisismo di Giletti lo spinge a pensarsi vittima di un’epurazione, perché è per natura incapace di accettare un fallimento professionale. Se lo prenderà la Rai? Chissà. E’ già iniziata una battaglia tra Matteo Salvini e Fratelli d’Italia. Fino a luglio Giletti non dirà praticamente nulla di questa faccenda, in quanto è ancora sotto contratto con La7. Ma il racconto giornalistico che se ne fa, fitto di suggestioni e inafferrabili collusioni che fluttuano come gas sulle pagine dei quotidiani più sbrigliati, prepara forse il terreno per una sua mega intervista di denuncia.
Essere epurati, in Italia, equivale al Nobel. Dunque Massimo Giletti non solo riceve ancora il suo compenso da La7, ma deve anche rispettare delle clausole di correttezza e di riservatezza. Insomma deve stare zitto. E infatti domenica è improbabile persino che vada da Enrico Mentana che ha annunciato di volergli dedicare uno speciale. […]
[…] Dopo l’estate, una volta libero dal contratto che lo costringe al silenzio, che ne sarà di lui? Andrà alla Rai? Matteo Salvini, negli ultimi tempi ospite frequentissimo di “Non è l’Arena”, è stato l’unico leader politico a intervenire pubblicamente a sua difesa. Sentendosi forse in colpa per aver contribuito al flop degli ascolti di Giletti (basta guardare le curve auditel per constatare che Salvini è stato un diserbante sugli ascolti già non rigogliosi di Giletti: dove passa il leghista ormai non cresce più l’erba), gli ha espresso solidarietà.
Con un tweet. Questo: “Il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. Salvini lo voleva già candidare sindaco prima a Torino, e poi a Roma. Adesso dicono tutti che voglia officiarne il ritorno in Rai. Bisogna però probabilmente aspettare che nell’azienda cambi la governance e venga mandato via l’attuale amministratore delegato. Si vedrà.
Tuttavia gli uomini di Giorgia Meloni non sono inclini all’idea di prendere Giletti. Almeno così sembra. Giampaolo Rossi, che è il direttore generale in pectore, ha escluso che ci siano stati contatti con Giletti. Roberto Sergio, invece, che è l’amministratore delegato in pectore ed è un interno Rai, ha ammesso riservatamente di aver incontrato Giletti. Ma richiesto di dare spiegazioni ha precisato: “Era soltanto per un caffè”.
Trattandosi di una trasmissione che in Rai rientrerebbe nell’incongrua definizione di “approfondimento”, il ritorno di Giletti dovrà coinvolgere anche il direttore dell’approfondimento. Che, nel futuribile organigramma della Rai meloniana, dovrebbe essere Paolo Corsini. Giornalista di destra, sì, ma non leghista. Sicché ieri sera girava una leggenda talmente fantastica e inverosimile da essere certamente vera: “Finirà che non potendolo riportare in Rai, Salvini candiderà Giletti capolista alle europee”.
Caso-Giletti, la mossa di Baiardo: toh, chi sceglie come avvocato. Libero Quotidiano il 21 aprile 2023
Salvatore Baiardo ha confermato l'avvocato d'ufficio Carlo Maria Fabbri come suo avvocato di fiducia. Fabbri, come sottolinea il Fatto quotidiano, è uno storico difensore di collaboratori di giustizia, ed era stato chiamato dalla Procura di Firenze per assistere Baiardo, appunto, nell’interrogatorio del 27 marzo scorso. Quel giorno Luca Tescaroli, pm di Firenze, chiese all’ex gelataio amico dei fratelli Graviano di parlare della famosa presunta fotografia che ritrarrebbe Silvio Berlusconi con il boss Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, e della quale aveva accennato, sempre davanti ai pm Massimo Giletti il 19 dicembre scorso. L'ex gelataio, quindi, in modo assolutamente non scontato, ha confermato Fabbri che è già stato avvocato di pentiti come Francesco Marino Mannoia. Anche se Baiardo non vuole essere considerato un pentito visto che ha scontato la sua pena e non si è pentito di nulla.
Ma c'è di più. In un video pubblicato sul suo profilo TikTok l'ex gelataio riferisce anche di un incontro al ristorante Pierluigi tra Urbano Cairo e Giletti e ha invitato il conduttore di Non è l'arena a dire che cosa si sono detti. Il faccia a faccia è stato immortalato anche dal re dei paparazzi Rino Barillari il 15 febbraio alle 23:40 all’uscita del Pierluigi appunto e pubblicata il 13 aprile dal sito Leggo.it. Ma quella sera, come scritto il 19 aprile dal Fatto, "c’erano anche l’ad di La7 Marco Ghigliani e il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi, amico di Giletti. Che ci faceva Mazzi?". Anche su questo punto, al momento, non c'è risposta.
Salvatore Baiardo minaccia Libero: "Sarete querelati". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 20 aprile 2023
«...Perché qui mi stan facendo fare la fine di Berlusconi. Sto passando tutti i weekend con i miei avvocati da quando è scoppiata questa bomba di Giletti...». Capelli al vento, occhiali sul naso, inflessione piemontese e sfondo pseudo bucolico, Salvatore Baiardo, senza più le telecamere puntate di Non è l’Arena, affida a Tik Tok il suo sfogo. L’uomo dei misteri ora fa la vittima, e già qui ci sarebbe da ridere. Il gelataio di Omegna, ma con origini palermitane, che a novembre aveva rivelato a Massimo Giletti che la cattura di Matteo Messina Denaro era vicina («è malato, non ne ha per molto»), è tornato sui social con le sue “profezie” e con qualche minaccia ai giornalisti che non pendono dalle sue labbra. Dopo avere annunciato, la scorsa settimana, che sarà protagonista di nuove iniziative su altri canali televisivi competitor de La7, che a breve darà alle stampe un libro scoppiettante, ha assicurato che il suo conduttore preferito non firmerà alcun contratto con la Rai («Giletti racconta solo quello che vuole raccontare, ma non dice della cena con Cairo al ristorante da Pierluigi in piazza de’ Ricci a Roma. Perciò io devo stare lì ancora a perdere tempo con Giletti? No»).
Poi ammette che la mafia «sì, in Italia ce l’abbiamo, la stanno combattendo, è giusto che sia così, però non bisogna neanche sempre infangare le persone...». Povera stella: non ci sta. Guai ad accostarlo ai cattivi. Salvatore passa alle vie legali e, non sapendo cosa fare, punta il dito contro Libero, in particolare attacca Filippo Facci, che di lui ha scritto in prima pagina almeno tre pezzi specie venerdì scorso quando è scoppiato il bubbone sul presunto cachet del gelataio gola profonda ed è emersa un’indagine della Direzione investigativa antimafia di Firenze. «Tanti mi dicono che io sono amico di Berlusconi, lo difendo, lo attacco, no: io comincio a querelare Libero», fa sapere Baiardo mischiando politica e giornali, «nella persona del giornalista Facci, che continua a darmi del “pentito” e anche le mie figlie sono preoccupate del fatto che si scriva di me che sono un “pentito”. Ma se Facci trova un verbale di un magistrato firmato da me in cui c’è scritto che io sono un pentito... Invece non c’è perché io non ho niente di cui pentirmi di quello che ho fatto nella mia vita».
Il video prosegue con lui che si augura che Facci venga condannato non per una questione di soldi - «io non voglio un euro», giura, «devolvo tutto il risarcimento a queste associazioni di bambini autistici» ma basta scrivere «fesserie». Insomma, “l’indovino seriale”, come l’ha chiamato Attilio Bolzoni in un pezzo sul Domani in cui ripercorre “tutti i misteri irrisolti attorno al generale Delfino” (defunto dal 2014), non vuole proprio essere accostato ai pentiti di mafia, ma noi intendiamo tranquillizzarlo: Libero non l’ha scritto, casomai è il tg de La7 che sul sito l’ha chiamato così e cosa fa: querela anche loro? Per essere sicuri al cento per cento abbiamo riguardato gli articoli di Facci, ma si dà il caso che il collega editorialista sia esperto della materia giudiziaria e per questo molto attento alle parole. Infatti, a domanda precisa: Filippo, hai scritto di Baiardo che è un pentito?, la risposta è stata lapidaria.
«Su Libero del 7 febbraio e del 14 e 15 aprile ho scritto tre frasi praticamente identiche in cui specifico che Massimo Giletti non ha dato la parola a un pentito, ma a un favoreggiatore di stragisti mafiosi che in precedenza aveva detto talmente tante sciocchezze da non riuscire neppure a ottenere lo status di collaboratore di giustizia». Baiardo, per chi l’avesse conosciuto soltanto come ospite del talk show della domenica sera, è un ex consigliere comunale del Psdi della cittadina in provincia di Verbania, ma è soprattutto la persona che ne 1996, dopo la cattura dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, ha parlato segretamente con gli investigatori della Dia rifiutandosi di mettere a verbale le sue frasi in cui spiegava di essere stato un riciclatore dei Graviano, i boss del quartiere Brancaccio di Palermo, considerati i mandanti dell’assassinio di don Pino Puglisi nonché ritenuti i responsabili delle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino.
LA MOSSA DI MENTANA. Estratto dell'articolo di Grazia Longo per “La Stampa” il 18 aprile 2023.
Una trasmissione su La7, per ricostruire la vicenda che ha portato alla chiusura anticipata di Non è l'arena. Andrà in onda, a cura di Enrico Mentana, la sera di domenica prossima, proprio nello spazio dedicato al programma soppresso. Lo ha annunciato ieri sui suoi profili social proprio il direttore del TgLa7: «Sul caso Giletti continuo a pensare che queste crisi si superano solo con la chiarezza».
E all'origine della decisione dello stop a Giletti pare esserci proprio la vicenda della foto proposta al giornalista dal fiancheggiatore dei fratelli Graviano, Salvatore Baiardo, che ritrarrebbe Silvio Berlusconi insieme all'ex generale dei carabinieri Delfino e al boss mafioso Giuseppe Graviano.
Il condizionale è d'obbligo perché di quello scatto non è mai stata trovata traccia dagli inquirenti della procura di Firenze che indagano sull'episodio. Massimo Giletti ha raccontato al procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli, «di aver visto quella foto da lontano, di non averla potuta tenere in mano e di aver riconosciuto solo Berlusconi e Delfino, perché non avevo un'immagine in mente di Graviano».
E ora Mentana precisa che «Giletti non informò l'editore Cairo né della foto fantasma fattagli intravedere da Baiardo, né della conseguente convocazione dai pm fiorentini. È nelle prerogative di un editore sospendere un programma, ma forse Urbano Cairo non poteva immaginare che sarebbero poi emersi tutti questi elementi, che rischiano di dare allo stop di Non è l'arena un segno diverso».
Che la storia della foto […] avesse influito sulla decisione di Cairo era stato ipotizzato anche dallo stesso Giletti. Ai suoi collaboratori, come riferito da La Stampa, aveva infatti precisato: «Chiediamoci perché ci hanno chiuso. Stavamo preparando tre puntate importanti, delicatissime. Deflagranti. E siamo stati fermati». Ma Cairo ha smentito ogni censura […].
Enrico Mentana, d'intesa con il direttore di rete, Andrea Salerno, ha così deciso di fare luce sull'intera vicenda. Interpellato al telefono, racconta che preferisce non dire nulla in più sulla puntata rispetto a quanto ha scritto nel suo post. Ma è certo che preparerà la trasmissione leggendo accuratamente le carte dell'inchiesta della procura di Firenze.
Domenica prossima è anche possibile la presenza di Giletti, ma al momento non si trova conferma.
«Massimo è ancora sotto contratto, e la domenica resta libera – conclude Mentana –. E allora per domenica prossima stiamo pensando a una trasmissione che affronti tutte le questioni più scottanti emerse attorno a questa vicenda, adeguata testimonianza del fatto che da noi non si nasconde nulla, soprattutto quando si parla di mafia. E chissà che poi...». I puntini di sospensione sembrerebbero alludere proprio alla partecipazione dell'ex conduttore di Non è l'arena. Ma, appunto, non è ancora certo. […]
Estratto dell’articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 18 aprile 2023.
[…] Mentana non si è rivolto ai suoi telespettatori guardando in camera, ma ai suoi followers, attraverso i propri seguitissimi canali social. In tal modo dando l’impressione del capitano, rimasto finora prudentemente silente, che riprende vistosamente il timone in mano. Domenica, quindi, nei fatti andrà in scena il processo.
Niente pm e giudici, per carità. Forse qualcosa di più simile a un’ambasciata o a un moviolone grazie al quale il direttore maratoneta, vestendo panni forse un po’ più simili a quelli dell’indimenticato Aldo Biscardi, farà comunque lo scatto in avanti che serviva per provare a stemperare i toni del clamoroso giallo che nella settimana appena trascorsa ha messo in subbuglio contemporaneamente il mondo del giornalismo, della tv e della politica, senza tralasciare i giornalisti professionisti dell’antimafia che con Giletti, va detto, hanno avuto sempre il dente abbastanza avvelenato.
ARTICOLO DI FRANCESCA FAGNANI IN DIFESA DI MASSIMO GILETTI - LA STAMPA - DOMENICA 16 APRILE 2023
Particolare, quest’ultimo, sottolineato domenica con un circostanziato articolo di Francesca Fagnani (che di Mentana è la compagna) su La Stampa e ritwittato dalla vicedirettrice del TgLa7, Gaia Tortora. Con Fagnani che, papale papale, ha scritto come, in questo caso, «la libertà di stampa finisce dove inizia quella di chi ci sta antipatico» perché Giletti «non è di sinistra, anzi mostra confidenza con i leader della destra, ammicca da piacione alla telecamera e piace più alla pancia del suo pubblico che ai critici e ai colleghi». Mentre Gaia Tortora aveva parlato di «coraggio che manca a molti e libertà d’informazione a senso alternato».
Prese di posizione nette e troppo vicine al direttore del TgLa7 perché lui stesso non intervenisse in prima persona a ingaggiare da un lato, muso a muso, il proprio confronto con la ricostruzione della verità ma dall’altro facendo oggettivamente (e in pieno accordo e collaborazione col direttore di rete) da garante rispetto al proprio editore.
Oltre a piazzare, da par suo, quello che sarà anche televisivamente un vero “colpo perfetto”. Nulla a che vedere col film americano dal titolo ammiccante o in questo caso fin troppo autoironico scelto da La7 come improbabile surrogato di Giletti, fermatosi a un umiliante 2,3% di share, ovvero meno della metà dell’ audience abituale di “Non è l’Arena” che viaggiava abitualmente tra il 5 e il 6% con un picco oltre l’8% proprio nella puntata successiva all’arresto di Messina Denaro, presente in studio il discussissimo Salvatore Baiardo. […]
Domenica su La7 speciale di Mentana. Il pataccaro Baiardo, lo scherzetto a Giletti e la foto di Berlusconi con Graviano che non esiste. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Aprile 2023
Nel 1978 in Calabria con Bettino Craxi e il boss Peppe Piromalli, nell’agrumeto di uomini della ‘ndrangheta. Nel 1992 con il generale Delfino dei carabinieri e il mafioso Giuseppe Graviano, in un bar sul lago d’Orta. Ecco l’ultimo ritratto di Silvio Berlusconi che saltella tra cosche calabro-siciliane, negli scatti ossessivi del triangolo mafiologi di penna-mafiosi-mafiologi di toga.
Non ci dormono la notte, gli uomini della trattativa tra giornalisti, mafiosi e pubblici ministeri. Così in Calabria, in quel processo surreale chiamato “’Ndrangheta stragista”, che pare il fratello minore di quello palermitano sulla trattativa, un “pentito” di nome Girolamo Bruzzese ha potuto raccontare sotto l’occhio impassibile di procuratori e giudici un ricordo di se stesso quindicenne. Era il 1978, subito dopo l’assassinio di Aldo Moro. E “si doveva cambiare prospettiva politica”, riflette il quindicenne.
Fu per quello che un giorno comparvero in Calabria, nell’agrumeto del padre del ragazzino, due signori eleganti, con soprabiti neri e cappelli borsalino del tipo di quelli indossati “dai gangster americani”. Il baby-mafioso, non ancora “pentito”, li riconosce immediatamente, sono Silvio Berlusconi e Bettino Craxi, scesi in Calabria per trattare con Piromalli il cambiamento politico italiano. Se qualcuno pensa che si tratti di pura fantasia di un ragazzino o dello scherzo del “pentito”, non ha ancora visto niente. Parliamo della fotografia che sarebbe stata vista, ma “da lontano”, dal conduttore tv Massimo Giletti, ma che nessuno riesce a trovare, che avrebbe fissato l’immagine del mafioso Giuseppe Graviano con un alto ufficiale dei carabinieri, il generale Delfino e, ovviamente, Silvio Berlusconi.
I tre erano seduti in un bar “molto buio” sul lago D’Orta. Non siamo neppure inondati dal sole della Calabria, né inebriati dal profumo degli agrumi, ma nel buio di un bar sul lago nero e morto di Orta. Anche in questo caso, i più creduloni paiono essere i magistrati. Quelli di Calabria hanno il piccolo alibi di dover credere, o almeno far finta, alla testimonianza di un proprio collaboratore di giustizia, la cui parola non va mai screditata per non correre il rischio di vedere messa in discussione l’intera testimonianza. I pubblici ministeri di Firenze, quelli che dopo tre inchieste fallimentari e archiviate, ancora pensano di poter provare che Berlusconi e Dell’Utri abbiano messo le bombe delle stragi nelle mani di Cosa Nostra, non hanno eppure quell’appiglio, per evitare di rendersi ridicoli.
Così paiono dare credibilità al pataccaro Baiardo, uno che sembra inventato apposta per dare sostanza e patente di “antimafia” alla trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti su La 7. Un signore già condannato non solo per il favoreggiamento dei fratelli Graviano nei processi di mafia, ma anche per calunnia e falso. Uno ritenuto credibile da nessuno, del resto basta guardare le sue occhiate sornione, il suo dire e non dire, alludere e smentire, per aver voglia di mettergli in mano qualche spicciolo e mandarlo a comprarsi un gelato.
Invece la rete di Urbano Cairo lo invita quale ospite d’onore per tre volte in trasmissione e lo retribuisce: trentamila euro, quarantamila? In chiaro, in nero? Quel che conta è il fatto che il pataccaro Baiardo, amico di chi, se le sentenze non hanno sbagliato, le stragi di mafia le ha fatte davvero, pare avere più credibilità, agli occhi del conduttore Giletti e del suo editore (il quale ha detto di aver sempre lasciato il massimo di libertà alla trasmissione) di Silvio Berlusconi. E lasciamo perdere il momento storico, con le patacche sparate quasi sul letto della terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano. Ma il fatto grave è che in quel di Firenze, all’indirizzo della Procura della repubblica, ci sono dei pubblici ministeri, Luca Tescaroli e Luca Turco, che ancora vanno a caccia di farfalle, sperando di acchiappare nella retina Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle bombe.
La loro indagine sulle stragi del 1993 avrebbe dovuto essere chiusa già dal 31 dicembre del 2022, ma a quanto pare di proroga in proroga viene tirata in avanti da un invisibile elastico che la sta rendendo eterna, per quanto fallimentare. Mancava solo il pataccaro Baiardo. Che, ovviamente, ha già ritrattato tutto. E mai consegnerà una foto che non esiste. Dopo aver tirato un bello scherzetto al povero Giletti. Come faranno adesso i due pm Luca, visto che “Non è l’arena” è stata chiusa, e che le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri sono state già archiviate tre volte e si avviano alla quarta?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Da adnkronos.com il 21 aprile 2023.
"Ci sono vicende che non si possono risolvere all'interno di uno studio televisivo. Vanno affrontate nei luoghi deputati per farlo, cioè gli uffici di un'azienda, altrimenti vanno a finire in un'aula di tribunale". A dirlo è Massimo Giletti che, in un video, comunica che domenica non sarà presente allo speciale condotto da Enrico Mentana su La7 che riguarderà la vicenda del blocco anticipato della sua trasmissione 'Non è L'Arena'.
"Come vedete -dice Giletti nel video- sono appena uscito dalla Procura di Firenze e questo vi fa capire la situazione complessa, difficile e delicata che stiamo vivendo. Per questo, pur dicendo davvero grazie a Enrico Mentana, non mi è possibile partecipare allo speciale previsto per domenica da La7. Lo devo soprattutto ai magistrati che stanno lavorando a questa indagine, lo devo anche forse per rispettare me stesso. Io parlerò sicuramente ma questo non è il momento giusto per farlo e forse non è neanche il modo giusto", conclude il conduttore.
(ANSA il 21 aprile 2023) – ''Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione''. Lo dice Massimo Giletti nel corso della sua trasmissione su RTL 102.5 insieme a Luigi Santarelli in chiusura di puntata.
''Vorrei dire tante cose, e verrà il giorno in cui potrò dirle. In questo momento - ha detto ancora Giletti a proposito della chiusura di Non è l'Arena su La7 - ho tanto rispetto per i magistrati, data la situazione delicata.
L'importante è avere la coscienza a posto, poi la verità verrà fuori. Ho un contratto che mi vincola all'azienda in cui ho lavorato per sei anni, e per rispetto a questo contratto non posso parlare senza autorizzazione e chiarire in modo serio. Devo dire grazie alle centinaia di persone che continuano a mandarmi messaggi di sostegno, non per me ma per tutto il gruppo di lavoro.
Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione, che va a disturbare chi sta nei palazzi, ma bisogna avere il coraggio di farla. Quando c'è una situazione delicata, abbiamo il dovere doppio di andare nelle sedi corrette, io l'ho fatto, il resto sono chiacchiere.
Ci sono intercettazioni terribili, dove qualcuno di importante dice 'Va chiuso Giletti'. L'ho letto su La Repubblica, Marcello Dell'Utri. Sono intercettazioni che fanno capire quanto quel lavoro era importante. Ma noi non molliamo e continueremo a farlo. Lo devo alle persone che ci hanno seguito ma per rispetto dell'azienda per cui ho lavorato non posso dire altro, se non ringraziarla per ciò che mi ha fatto fare in questi ultimi anni''.
Il caso della trasmissione di La7. Caso Giletti, salta lo speciale La7 con Mentana: “Certe vicende non si possono risolvere in tv”. Redazione su Il Riformista il 21 Aprile 2023
È saltato lo speciale di Enrico Mentana sul caso di Massimo Giletti che doveva andare in onda domenica sera su La7. Giletti ha rifiutato l’invito alla puntata che avrebbe trattato la chiusura della sua trasmissione Non è l’Arena. A farlo sapere lo stesso direttore del TgLa7, tramite i suoi social. “Massimo Giletti mi ha appena inviato un breve messaggio video all’uscita dalla procura di Firenze. Lo potete vedere sul sito e sui social del Tgla7. È ovvio che di fronte alle argomentazioni che potete sentire non si può che raccogliere la richiesta di Giletti di rinviare la trasmissione di domenica prossima”.
Non è l’Arena è stato sospeso la settimana scorsa senza una motivazione ufficiale. “La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma Non è l’Arena che da domenica prossima non sarà in onda. La7 ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione”. Da subito c’era stato stretto riserbo sulle motivazioni. Si era parlato anche di un possibile passaggio in Rai del giornalista e conduttore. Successivamente i giornali si erano concentrati sulle partecipazioni di Salvatore Baiardo. I magistrati stanno indagando sui pagamenti effettuati dalla trasmissione a Baiardo, che negli anni Novanta aveva scontato quattro anni di carcere per favoreggiamento e riciclaggio di denaro in favore dei fratelli Graviano.
Baiardo in una puntata aveva alluso alla possibilità che il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro venisse arrestato in una sorta di accordo con lo Stato. “Magari chi lo sa, che arriva un regalino. Che magari, presumiamo, che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso. E così arrestando lui magari esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore. Sarebbe un fiore all’occhiello per il governo, un bel regalino”. La puntata era andata in onda in giorni in cui era all’ordine del giorno la questione dell’ergastolo ostativo, la pena prevista per alcuni reati di particolare gravità che impedisce ai condannati che non collaborano con la giustizia di accedere a misure alternative alla detenzione e che la Corte Costituzionale aveva ritenuto incostituzionale. Il decreto legge approvato dal governo Meloni non aveva abolito la pena, la modifica approvata dal parlamento aveva previsto che dai benefici venissero comunque esclusi i detenuti in regime di 41-bis.
A gennaio il latitante è stato catturato nei pressi di una clinica a Palermo e Baiardo era stato più volte invitato in trasmissione, al quotidiano Domani aveva confermato i pagamenti per le sue partecipazioni. “Mi hanno pagato alcuni gettoni di presenza, ma tutto è stato fatturato, è tutto regolare, nessun pagamento è avvenuto in nero. I miei rapporti con Giletti si sono incrinati per altre questioni”. Dopo la sospensione della trasmissione aveva detto di esser stato interrogato e ha annunciato altre dichiarazioni in un suo libro che sarà pubblicato prossimamente. L’indagine della Dia sarebbe in corso almeno da dicembre scorso. Il conduttore aveva smentito perquisizioni della Dia a casa sua.
Oggi Giletti è stato sentito dalla Procura di Firenze, ha commentato così la sua posizione nel video diffuso: “Ci sono vicende che non si possono risolvere in uno studio televisivo. Sono appena uscito dalla Procura di Firenze e questo vi fa capire la situazione complessa, difficile e delicata che stiamo vivendo. Per questo, pur dicendo davvero grazie ad Enrico Mentana, non mi è possibile partecipare allo speciale previsto per domenica su La7”. Prima, nella sua trasmissione su RTL 102.5, aveva detto che “vorrei dire tante cose, e verrà il giorno in cui potrò dirle. Ho tanto rispetto per i magistrati, data la situazione delicata. L’importante è avere la coscienza a posto, poi la verità verrà fuori. Ho un contratto che mi vincola all’azienda in cui ho lavorato per sei anni, e per rispetto a questo contratto non posso parlare senza autorizzazione e chiarire in modo serio”.
“Devo dire grazie alle centinaia di persone che continuano a mandarmi messaggi di sostegno, non per me ma per tutto il gruppo di lavoro. Nel nostro Paese non è facile fare un certo tipo di televisione, che va a disturbare chi sta nei palazzi, ma bisogna avere il coraggio di farla. Quando c’è una situazione delicata, abbiamo il dovere doppio di andare nelle sedi corrette, io l’ho fatto, il resto sono chiacchiere. Ci sono intercettazioni terribili, dove qualcuno di importante dice ‘Va chiuso Giletti’. L’ho letto su La Repubblica, Marcello Dell’Utri. Sono intercettazioni che fanno capire quanto quel lavoro era importante. Ma noi non molliamo e continueremo a farlo. Lo devo alle persone che ci hanno seguito ma per rispetto dell’azienda per cui ho lavorato non posso dire altro, se non ringraziarla per ciò che mi ha fatto fare in questi ultimi anni”.
Si è scritto anche di una “foto dei misteri”, com’è stata definita dai giornali, delle stragi mafiose di inizio anni Novanta che avrebbe incrinato i rapporti tra Giletti e Baiardo. L’esistenza della foto è un giallo, non è stata comprovata. A Giletti era stata rafforzata inoltre la scorta dopo le minacce ricevute negli scorsi mesi. Enrico Mentana ha spiegato, sempre in commento al video: “Nel colloquio immediatamente successivo all’invio del video si è convenuto di riprovarci appena le ulteriori indagini che si sono aperte potranno consentire una testimonianza televisiva adeguata per lo scopo della trasmissione”.
Soldi ai pentiti, spunta pure Corona. Giletti ora è un caso e Cairo lo "liquida". Il benservito del patron di La7: "Ha potuto trattare ogni argomento, spero trovi ancora la stessa libertà". Nel mirino i 48mila euro al testimone Baiardo, il conduttore sentito due volte dai pm di Firenze. Laura Rio il 15 aprile 2023 su Il Giornale.
In tutta questa vicenda, una sola cosa è certa: Massimo Giletti si è fatto tanti nemici. E, in queste ore, nell'ombra, i nemici stanno gettando benzina sul fuoco. Quello stesso fuoco che lui ha contribuito ad appiccare con le sue trasmissioni.
Cogliendo l'occasione della defenestrazione del giornalista da La7, si stanno aprendo cassetti pieni di indiscrezioni, malumori, odio, insofferenza verso il conduttore di Non è l'arena. Mafia, pentiti, stragi, politica corrotta, guerra in Ucraina: si è messo in mezzo di tutto per motivare la decisione della rete di sospendere il programma di punto in bianco e di fatto chiuderlo anche se il giornalista resta a disposizione fino a giugno, data di scadenza del contratto.
Forse, semplicemente, la risposta va cercata nelle parole dette ieri dal patron Urbano Cairo: «Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto, inclusi quelli relativi alla mafia, sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere». Frasi molto dure che fanno capire che la rottura sarebbe dovuta alla trattativa del giornalista per il ritorno in Rai. L'editore - a cui alla fine importa solo l'utile delle sue aziende - avrà concluso: con tutti i casini giudiziari e politici che ha creato, ora questo se ne vuole andare, quindi meglio chiudere la trasmissione per evitare altri guai e nel contempo risparmiare anche i soldi delle ultime puntate.
Questa la sostanza, poi i retroscena si sono sprecati. Alcuni mettono in pessima luce il lavoro giornalistico del conduttore, altri lo fanno passare per martire. Di certo Giletti, che assicura di non capire i motivi dell'allontanamento, non ci sta all'idea che il suo show sia stato chiuso per questioni di costi, o di mancanza di pubblicità, altra cosa che è stata fatta paventare. Comunque finisca, a questo punto non sarà neppure facile per lui tornare in Rai, nonostante la nuova governance che potrebbe arrivare alla guida della tv pubblica a fine aprile non gli sia nemica e neppure la parte della politica che esprime questa nuova dirigenza, leggasi le parole di sostegno di Salvini.
Comunque, tra i tanti retroscena emersi, il più probabile resta quello legato alle dichiarazioni di Salvatore Baiardo che a Non è l'Arena aveva annunciato in anticipo la cattura di Matteo Messina Denaro che si sarebbe praticamente fatto prendere perché malato. Giletti, in questa chiave, si sarebbe infilato in un pasticcio che avrebbe creato un corto circuito investigativo. Il conduttore, infatti, è stato sentito due volte nelle scorse settimane come persona informata sui fatti dalla procura di Firenze, la stessa che indaga sulle stragi mafiose del 1993. I magistrati stanno anche svolgendo accertamenti sui compensi elargiti a Baiardo (si parla di 48mila euro). Sulla questione Giletti precisa che «è falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il signor Baiardo che è stato compensato come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente». Il Domani, invece, dice che nelle prossime puntate si sarebbero mostrate foto di Berlusconi con i fratelli Graviano (che però lo stesso Baiardo sostiene di non avere).
In difesa di Giletti sono scesi in campo l'ex magistrato Antonio Ingroia per cui il giornalista si «sarebbe spinto troppo in avanti nelle inchieste sulla mafia» e la giornalista Sandra Amurri secondo cui la «sospensione del programma sarebbe scaturita da inchieste in cantiere su intoccabili». E c'è chi dice addirittura che Fabrizio Corona abbia fatto da tramite per ottenere gli audio delle donne di Messina Denaro mandate in onda. A questo punto, Giletti potrebbe essere accusato di tutto.
(ANSA il 14 aprile 2023) – "Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate di "Non è l'Arena" dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla Mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere".
Lo dice all'ANSA il patron di La7, Urbano Cairo.
(ANSA il 14 aprile 2023) - Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Valerio Staffelli consegna il Tapiro d'oro a Massimo GILETTI, dopo che Non è l'arena è stato chiuso improvvisamente e senza spiegazioni da La7.
"Non è che Fabio Fazio, che la fece mandare via dalla Rai...", dice l'inviato di Striscia, ipotizzando che il conduttore di Che Tempo che fa sia anche stavolta il mandante dell'allontanamento di GILETTI.
"E Fazio andrebbe a La7? Neanche i Dumas padre e figlio potrebbero scrivere una sceneggiatura di questo tipo. Ma Cairo è più bravo ancora", replica GILETTI. Che aggiunge, scherzosamente: "Magari vengo a Mediaset".
"Bisogna chiedere a Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l'ha fatto perché sono juventino", continua il conduttore. Quando Staffelli gli chiede se l'allontanamento sia collegato con la discussa messa in onda dello speciale su Matteo Messina Denaro, risponde: "L'Italia non è ancora pronta ad ascoltare certe verità, fa più comodo tenerle nei cassetti". Infine, GILETTI liquida così il chiacchierato gossip che lo vede a fianco alla sciatrice Sofia Goggia: "Il niente del niente". Per Massimo Giletti si tratta del quinto Tapiro d'oro ricevuto dal tg satirico. Il servizio completo stasera a Striscia la notizia.
"Non è che Fabio Fazio..?". Massimo Giletti riceve il Tapiro di Striscia. Dopo la sospensione di Non è l'arena, Giletti è stato raggiunto da Valerio Staffelli e ricevendo il Tapiro ha scherzato: "Forse mi ha cacciato perché sono juventino". Novella Toloni il 14 aprile 2023 su Il Giornale.
Se non è attapirato poco ci manca, ma almeno non lo ha dato a vedere. In seguito alla sospensione del suo programma Non è l'arena, Massimo Giletti è stato raggiunto da Valerio Staffelli, che gli ha consegnato il tapiro d'Oro per quanto avvenuto nelle ultime ventiquattro ore, ma il giornalista l'ha presa con ironia. Il servizio della consegna dell'ambito premio ideato da Striscia la notizia andrà in onda nella prossima puntata del tg satirico (Canale 5, ore 20.35), ma già trapela qualche indiscrezione.
Dopo Antonio Cassano è toccato al popolare conduttore ricevere il Tapiro. La chiusura improvvisa e senza spiegazioni da parte di La7 di Non è l'arena ha lasciato il pubblico a bocca aperta, ma a quanto pare anche lo stesso Massimo Giletti, che ha ricevuto il Tapiro dalle mani di Staffelli. "Non è che Fabio Fazio, che la fece mandare via dalla Rai…", ha scherzato l'inviato di Striscia, consegnando il premio al giornalista. L'ipotesi che il conduttore di Che Tempo che fa sia stato (ancora una volta) il mandante dell'allontanamento di Giletti, come si vociferava fosse successo anni fa, ha scatenato Valerio Staffelli, ma Giletti ha replicato a tono: "E Fazio andrebbe a La7? Neanche i Dumas padre e figlio potrebbero scrivere una sceneggiatura di questo tipo. Ma Cairo è più bravo ancora".
"Ecco perché Giletti è stato sospeso...". Le voci sullo stop di Non è l'Arena
Perché Giletti è stato allontanato da La7?
I motivi della chiusura del programma e della sospensione di Massimo Giletti non sono chiari. Nelle ultime ore si è detto e scritto di tutto, ma una definizione precisa il conduttore l'ha data rispondendo a Valerio Staffelli, confermando di essere stato mandato via: "Bisogna chiedere a Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l'ha fatto perché sono juventino". A quel punto l'inviato di Striscia non si è fatto sfuggire l'occasione di fare un'ipotesi, collegando l'allontanamento da La7 allo speciale su Matteo Messina Denaro andato in onda settimane fa. "L'Italia non è ancora pronta ad ascoltare certe verità, fa più comodo tenerle nei cassetti", ha replicato Giletti mettendo a tacere anche le voci su un presunto coinvolgimento sentimentale con la sciatrice Sofia Goggia. Per Massimo Giletti si tratta del quinto tapiro d'oro ricevuto dal tg satirico, che va ad aggiungersi agli altri.
Massimo Giletti sospeso? "Vento politico in poppa", cosa succederà. Daniele Priori su Libero Quotidiano il 15 aprile 2023
Cairo stoppa Giletti. All’improvviso, prima del tempo. Come un fulmine a ciel sereno scrosciato dal cielo dell’etere ai rulli delle agenzie nel primo pomeriggio di ieri. Così Non è l’Arena, dopo sei annidi puntuale presenza nelle serate domenicali di La7, è costretta a chiudere bottega e cedere il posto nel palinsesto. Con tanti ringraziamenti al conduttore che, ovviamente, «resta a disposizione della rete», precisa la nota ufficiale dell’editore. Il quale, chiaramente, ringrazia Giletti per l’impegno e la professionalità profusi ma evidentemente non sufficienti ad arrivare alla fine di questa turbolenta stagione politica e televisiva. Che al centro ha visto, proprio Non è l’Arena e il suo interprete principale.
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IL FILONE - In prima linea, anzi forse ancor prima della prima linea, specialmente nelle settimane appena precedenti l’arresto di Matteo Massina Denaro. Tanto da finire sotto la lente dell’Antimafia. A insospettire la Dia le dichiarazioni decisamente puntuali del faccendiere, ex gelataio Salvatore Baiardo, rese proprio ai microfoni di Massimo Giletti. Baiardo fu vicinissimo ai fratelli Graviano, oggi condannati all’ergastolo. In molti, nel corso di quelle settimane, si sono chiesti, senza ottenere risposte, come un uomo con amicizie tali potesse prendersi la briga di parlare tanto serenamente in tv, ammiccando anche alle telecamere di La7. In alcuni video en plen air, all’aperto, in altri, come quella volta in cui disse a Giletti che se la stava rischiando alquanto, direttamente negli studi dell’emittente di Urbano Cairo. Giletti ascolta e con lui anche qualcun altro nei paraggi a controllare se, come riferito da Dagospia, proprio ieri mattina la Direzione Investigativa Antimafia pare abbia visitato casa del conduttore, poi spento all’improvviso e senza preavviso da La7. Voci, queste ultime, smentite nel tardo pomeriggio di ieri dallo stesso Giletti che le ha definite false, affermando che non c’era stata nessuna perquisizione nella sua abitazione. «Nessuna notifica delle forze dell’ordine, nulla di nulla».
Nella ridda di rumors che, come detto, ormai da mesi avvolgono Massimo Giletti come un’aura fumosa, oltre alle voci che in molti danno ormai quasi per ufficiali, legati a un sempre più prossimo ritorno in Rai del giornalista, ci sarebbe anche il sospetto su un passaggio di 30mila euro dalle mani dell’anchor man a quelle dell’ex gelataio, profeta a favore di telecamera. Ieri sera la Procura di Firenze ha smentito perquisizioni a carico di Giletti, il quale però sarebbe stato sentito due volte in Procura riguardo alle dichiarazioni rilasciate da Baiardo, l’ultima il 23 febbraio. Oltre al caso-Baiardo, a demotivare a tal punto l’editore de La7 dal portare avanti per altri due mesi l’appuntamento domenicale, sarebbero stati anche i costi elevati della trasmissione, a fronte di una minore corrispondenza da parte degli sponsor. Una sommatoria di ingredienti tale da convincere l’editore de La7 a mettere Giletti in panchina.
Sta di fatto che la sospensione, per quanto edulcorata al meglio nei lanci stampa diffusi dalla rete, non è stata affatto uno zuccheretto da ingoiare per Giletti che si è smarcato con eleganza proprio da tutte le chiacchiere, sulle quali tuttavia, inevitabilmente, il dibattito insiste e insisterà a lungo. Ci ha tenuto, invece, a rivolgere il proprio pensiero ai lavoratori che con lui operano da sei anni alla realizzazione di Non è l’Arena. «Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada» sono state le uniche parole che Giletti aveva pronunciato a caldo, nel primo pomeriggio di ieri ai microfoni delle agenzie di stampa. Alle quali nelle ore successive ha detto ancora: «Ognuno ha la sua versione ma io ho le spalle larghe». E il vento in poppa, anche politico, se dagli ariosi corridoi di viale Mazzini non si spiffera solo di un contratto di ritorno ormai lì lì da firmare, ma si parla già anche della rete alla quale Giletti sarà destinato. Se, infatti, inizialmente, doveva essere RaiUno, già sede dell’Arena originale, nel primo dopopranzo domenicale, ora si parla con insistenza di RaiDue come meta finale, dove ad attenderlo ci sarebbe nientemeno che la prima serata del giovedì. Collocazione storica dei talk destinati a fare rumore. Esattamente come Giletti.
Il caso del giornalista. Perché è stato sospeso Giletti e chiusa Non è l’Arena, “la Dia indaga su 30 mila euro a Baiardo”. Paolo Comi su il Riformista il 14 Aprile 2023
Dopo sei anni chiude la trasmissione televisiva Non è l’Arena. Lo hanno deciso ieri i vertici de La7 che, in un comunicato, hanno voluto ringraziare Massimo Giletti “per il lavoro svolto con passione e dedizione”, annunciando che lo stesso rimarrà a “disposizione” dell’azienda. La chiusura di Non è l’Arena ha colto un po’ tutti di sorpresa in quanto nel palinsesto de La7 erano previste puntate fino al prossimo mese di giugno. Fra le ipotesi, vi sarebbero alcuni contrasti con Urbano Cairo che non avrebbe apprezzato i recenti rumors su un suo rientro in Rai.
Secondo Dagospia, invece, ci sarebbero degli accertamenti in atto da parte della Direzione investigativa antimafia a proposito dei rapporti con Salvatore Baiardo, che, intervistato lo scorso novembre durante lo speciale “Fantasmi di Mafia”, aveva parlato della malattia di Matteo Messina Denaro, anticipandone una potenziale cattura. Cosa poi effettivamente avventa due mesi dopo mettendo così fine a decenni di latitanza del boss di Castelvetrano. Giletti, in particolare, avrebbe consegnato 30 mila euro a Baiardo.
Ufficialmente gelataio ad Omegna, Baiardo, di origine palermitana, era stato condannato per favoreggiamento aggravato perché aveva curato la latitanza dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano, catturati nel 1994. Proprio in quel periodo, Baiardo aveva reso dichiarazioni alla Dia di Firenze, dove si indaga tuttora sui mandanti occulti delle stragi, ma le sue rivelazioni non furono ritenute credibili. Personaggio ben noto ai magistrati e agli investigatori, Baiardo aveva sostenuto che dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, mai ritrovata, esisterebbero diverse copie, precisando comunque di non essere “un portavoce dei Graviano”, anche perché, essendo i due boss reclusi al 41 bis, veicolare i loro messaggi all’esterno avrebbe determinato una sua incriminazione.
“Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, vengono lasciate per strada”, ha commentato il giornalista. Con la chiusura di Non è L’Arena termina, per il momento, il ‘’modello Giletti’’ di fare giornalismo, un modello basato, oltre che su un meccanismo autoreferenziale, su un mix di congetture ed ipotesi, spesso senza riscontro. “Devo dire grazie a chi mi ha costretto ad andare via, nelle tempeste si costruiscono le persone. Il mandante politico? So benissimo chi è ma non voglio dirlo”, erano state le sue parole pronunciate a “Belve” nelle scorse settimane a proposito della esperienza in Rai.
Nel 1988 Giletti ha fatto il suo esordio come giornalista nella redazione di Mixer. Nel 1994 il debutto come conduttore televisivo in “Mattina in famiglia” e in “Mezzogiorno in famiglia” su Rai 2. Dal 1996 al 2001 è il presentatore di “I fatti vostri” e nel 2002 di “Casa Raiuno”. Nel 2004 presenta “Domenica In” insieme a Mara Venier. Dal 2005 fino al 2016 conduce il talk-show “L’arena” e nel 2017 passa a La7 per condurre “Non è l’arena”.
Dal 2020 vive sotto scorta a causa delle minacce di morte ricevute, proprio da Filippo Graviano, in seguito ad alcuni servizi sulle scarcerazioni di mafiosi durante i primi mesi della pandemia. “Sospeso il programma di Giletti su La7: il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. Così ieri su Twitter il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini. Paolo Comi
Estratto dell’articolo di Erika Pontini per quotidiano.net il 14 aprile 2023.
Massimo Giletti, il conduttore di “Non è l’Arena”, la cui trasmissione è stata sospesa da La7, è stato sentito negli ultimi giorni per ben due volte - come persona informata sui fatti - dalla procura di Firenze nell’ambito dell’indagine in corso sui mandanti delle stragi nel continente.
In particolare il giornalista è stato ascoltato dal procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Luca Tescaroli (lo stesso che portò avanti Mafia Capitale) e dagli investigatori della Dia diretti da Francesco Nannucci dopo che l’Antimafia fiorentina aveva ascoltato a Palermo Salvatore Baiardo, l’uomo di fiducia dei fratelli Graviano. […]
L’interesse dell’Antimafia fiorentina comunque non sarebbe stato quello di svelare la presunta bufala di Baiardo ma di indagare sul ruolo, sui contatti e sugli incontri a cui avrebbe assistito lo stesso Baiardo quando tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 nascose i boss di Brancaccio.
[…] La procura di Firenze vuole verificare se ci fu una mano esterna che aveva interesse a proseguire nella strategia della tensione per destabilizzare il Paese dopo gli attentati di Falcone e Borsellino. Tutto ruota intorno all’attentato prima fallito, e poi abortito, ai carabinieri in servizio all’Olimpico, ultimo tassello di un attacco allo Stato iniziato con la bomba a Maurizio Costanzo e passata attraverso i morti di Firenze dei Georgofili […].
La procura di Firenze, in particolare, indaga attorno alle figure di Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri, mai raggiunti da un avviso di garanzia (ma a conoscenza dell’iscrizione) e ai rapporti economici con i Graviano negli anni ‘70.
Nelle settimane scorse l’Antimafia ha depositato al tribunale del Riesame […] una nuova consulenza economica, dopo una analoga che venne fatta a Palermo, per verificare punti oscuri nei fondi con cui venne costituita all’epoca la Fininvest e per tracciare i soldi transitati dai conti del Cavaliere a quelli di Dell’Utri, la maggior parte giustificati come regalie.
Il contenuto del verbale di Baiardo è top secret ma il gelataio, più che attivo sul suo profilo tik tok in cui invita a riflettere sull’importanza del carcere come riabilitazione nella società e attacca i pentiti, è da sempre una figura controversa: fu lui a nascondere ‘Madre Natura’ durante la latitanza ed è sempre lui a parlare dei Graviano come di ‘ragazzi, giovani che hanno fatto fesserie’. […]
Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “La Stampa” il 14 aprile 2023.
[…] Non solo Massimo Giletti è stato sentito dai magistrati di Firenze, in due occasioni, come semplice testimone, ma dalla procura filtra addirittura preoccupazione per la sua vita. Si teme per la sua sicurezza personale - nonostante sia già sotto scorta - per l'attività giornalistica svolta nelle interviste a Salvatore Baiardo, l'uomo che coprì la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (ora in carcere), reato per cui scontò 4 anni di carcere negli Anni Novanta.
[…] La procura di Firenze è […] molto interessata a tutto ciò che gravita intorno a Messina Denaro. Di qui l'intenzione di approfondire le affermazioni di Salvatore Baiardo di fronte a Massimo Giletti. Il noto conduttore tv è stato così interrogato, come persona informata dei fatti, due volte: il 19 dicembre 2022 e il 23 febbraio scorso.
Nulla emerge da quei due incontri, coperti dal segreto istruttorio, se non l'intenzione a ricostruire come siano state organizzate le interviste a Baiardo (oltre a novembre, fu ospite su La 7 anche il 5 febbraio). E inoltre filtra, appunto, la preoccupazione sull'incolumità di Giletti.
La puntata su cui è concentrato il faro degli inquirenti è, comunque, quella del 5 novembre, due mesi prima del clamoroso arresto del capo di Cosa nostra.
«Chissà che non arrivi un regalino – aveva detto Baiardo – che un Matteo Messina Denaro, che presumiamo sia molto malato, faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi per un arresto clamoroso. In questo modo, qualcuno in ergastolo ostativo potrebbe uscire senza che si faccia troppo clamore».
Per questa intervista Baiardo è stato pagato? E con quelle parole spese in tv il pentito stava anche inviando messaggi a esponenti mafiosi? Si sta indagando per scoprirlo.
Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 14 aprile 2023.
Uno scoop che si è trasformato in un boomerang. Anzi, in un vero e proprio terremoto che ha portato alla chiusura improvvisa della trasmissione domenicale di La7, “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Dalla direzione della rete sostengono che si è trattato di una normale scelta televisiva, nulla di più. Ma modi e tempi non hanno precedenti nella storia recente dei talk politici, e dunque le motivazioni forse vanno cercate anche altrove.
In particolare in alcune interviste fatte da Giletti a Salvatore Baiardo, un pregiudicato condannato per favoreggiamento (negli anni novanta) agli stragisti della mafia, i fratelli Graviano. […] Una presenza che sarebbe stata pagata, tanto che alcune fonti ipotizzano di un gettone di circa 30mila euro.
Baiardo a Domani conferma i pagamenti, ma non la cifra: «Mi hanno pagato alcuni gettoni di presenza, ma tutto è stato fatturato, è tutto regolare, nessun pagamento è avvenuto in nero. I miei rapporti con Giletti si sono incrinati per altre questioni», racconta. […] Al tempo Baiardo non era indagato e risultava anche testimone in importanti indagini, come quella di Firenze sui mandanti esterni alle stragi.
[…] Cosa è successo? Quello che è certo, al netto di tutte le voci circolate, è che allo stop ha contribuito anche una verifica delicatissima della procura antimafia di Firenze, il pool guidato dal magistrato Luca Tescaroli, e affidata alla direzione investigativa antimafia. Il magistrato e gli investigatori della Dia, è fatto noto, sono impegnati nell’indagine sulle stragi di mafia del 1993 in cui sono indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Parla Baiardo
Nei giorni scorsi Baiardo è stato di nuovo sentito a Palermo dai pm fiorentini. […] Contattato da Domani esordisce così: «Sono Salvatore Baiardo, ora vi racconto tutto». Poi spiega: «Non andrò più a La7, ma sto scrivendo un libro perché ho scoperto cose assurde». Baiardo è figura complessa, già in passato ha mostrato di saper mescolare il vero al sentito dire, verità a bugie.
«Lunedì scorso sono stato ascoltato dalla procura dal dottor Tescaroli, e mi ha riferito che Giletti ha detto che gli avrei mostrato delle fotografie che ritraggono Berlusconi con Graviano e il generale Delfino. Non è vero, è falso, non gli ho mai fatto vedere queste foto. Loro dicevano “Giletti le ha viste, Giletti le ha viste”, ma non è vero. Io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente», dice Baiardo.
È certo che Giletti - sotto scorta perché minacciato dai fratelli Graviano - ha riferito quanto di sua conoscenza, qualche mese fa, in un colloquio con i magistrati. Baiardo aggiunge a Domani anche un altro elemento (senza riscontro ad ora) che avrebbe verbalizzato e riferito al pubblico ministero Tescaroli.
«Prima delle trasmissioni con Giletti c’era sempre un colloquio nel quale si parlava degli argomenti da affrontare. Durante la pausa di tre minuti in mezzo alla trasmissione è arrivato con un pezzo di carta con scritto “Dici in trasmissione che sono minacciato”, e io come un cretino ho detto quelle cose che lui era minacciato a 360 gradi», dice.
Baiardo sostiene che il tutto sia avvenuto all’esterno dello studio dove si registra la trasmissione. Il conduttore sarebbe uscito di corsa, avrebbe mostrato il biglietto a Baiardo e poi sarebbe tornato indietro per riprendere la conduzione. Il tutto in pochi minuti di pausa e con nessun testimone.
L’unica cosa riscontrata in questa storia sono i pagamenti avvenuti e fatturati. Dallo scoop al terremoto, in mezzo c’è sempre lui, Baiardo, l’uomo dalle molteplici vite: gelataio, favoreggiatore, super testimone ed ex ospite del conduttore silurato.
Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 15 aprile 2023
La chiusura della trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti è sempre più una trama di un film giallo: il ruolo dell’antimafia che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, e quello di una foto che cambierebbe la storia del biennio stragista; la figura di Salvatore Baiardo, amico e portavoce dei mafiosi stragisti Graviano, diventato celebre per aver predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro alcuni mesi prima in un’intervista con Giletti; lo scontro con la rete dovuto ai costi troppo alti della trasmissione e a un possibile passaggio del conduttore in Rai.
[…]
Se ieri Baiardo in esclusiva su Domani ha raccontato la sua versione dei fatti («sono stato pagato per andare a “Non è l’Arena, Giletti dietro le quinte mi chiese di dire in diretta che era minacciato», ha detto, ma testimoni negano l’accaduto) oggi autorevoli fonti investigative spiegano al nostro giornale che l’incolumità di Giletti – già sotto scorta – sarebbe a rischio, e che per questo motivo è stata potenziata la protezione.
Nell’inchiesta condotta dalla Direzione investigativa antimafia di Firenze e dai magistrati guidati da Luca Tescaroli, Giletti è testimone e vittima di una storia incentrata anche su una vecchia foto misteriosa, un’istantanea che sarebbe prova di un ipotetico patto sporco tra pezzi di stato e della mafia stragista rappresentata dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. È proprio il conduttore che, lo scorso dicembre, si fionda in procura a raccontare ogni particolare della fotografia che […] il pregiudicato avrebbe mostrato al giornalista tempo fa.
La domanda è ora una: perché sospendere un professionista così esposto per le sue inchieste sulla mafia? Urbano Cairo, editore de La7, non è entrato nel merito della sua scelta. Ma ha solo detto che «Giletti ha condotto in sei anni 194 puntate di “Non è l'Arena” dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto includere quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate […]».
Qualche altra fonte ben informata dentro l’azienda ci dice invece che la questione Baiardo sarebbe solo parallela alle altre motivazioni che avrebbero spinto la reta a sospendere Giletti. Il programma sarebbe in forte perdita, i gettoni pagati a Baiardo per le ospitate non sarebbero stati ritenuti “opportuni”, così come i rapporti con Fabrizio Corona, che tramite la società Athena avrebbe ceduto gli audio delle chat tra Messina Denaro e due pazienti ricoverati con il padrino (andate in onda su Non è l’Arena), mentre la trattativa per il rinnovo del contratto portata avanti da Cairo con l’agente del conduttore Gianmarco Mazzi (attuale sottosegretario del governo Meloni alla Cultura) non sarebbero decollati.
In molti però credono che la vicenda della sospensione nasconda altro: non si è mai visto nella storia della televisione che un programma di successo venga chiuso d’emblée a poche puntate dalla fine della stagione. «I motivi dello scontro riguardano le rivelazione e la gestione del caso Baiardo» dice chi non crede alla versione aziendale. Dagospia ha parlato di un compenso da 30mila euro ottenuti dal pregiudicato, da La7 hanno spiegato che tutto era noto e fatturato.
Baiardo diventa per tre puntate ospite retribuito di “Non è l’Arena”. In questo contesto […] Giletti acquisisce informazioni delicate. Non tutte spendibili in diretta. Alcune sensibili a tal punto da spingere il conduttore a bussare dai magistrati antimafia di Firenze, che da due anni e mezzo stanno conducendo un’inchiesta sui mandanti esterni alle stragi di mafia del 1993, tra gli indagati ci sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sullo sfondo il ruolo dei Graviano.
Giletti riferirisce in particolare l’esistenza di una foto che ritrarrebbe Berlusconi, il generale Francesco Delfino e uno dei fratelli Graviano seduti in piazza a Orta, in Piemonte. È Baiardo ad aver detto a Domani che Giletti ha rivelato la vicenda della foto, ma l’amico dei mafiosi sostiene che questa foto non esista, e che quindi è impossibile che abbia mai mostrato lo scatto a chichessia. Fatto sta che la Dia di Firenze – dopo aver sentito il conduttore – ha deciso di perquisire la casa di Baiardo alla ricerca della fotografia.
Ma perché Giletti avrebbe dovuto mentire ai pubblici ministeri? A quanto ci risulta l’aver riferito dell’esistenza di questa immagine avrebbe messo Giletti in elevato pericolo. Il generale Delfino, deceduto nel 2014, è l’uomo che anticipò l’arresto di Totò Riina mesi prima. Era proprietario di una villa vicino alle zone dove abitavano i Baiardo e i Graviano latitanti.
Esistesse la foto, cambierebbe forse un pezzo della storia del paese e di quel biennio stragista. Dopo la testimonianza di Giletti, i suoi rapporti con Baiardo si rompono.
Dove va a bussare Baiardo, l’amico dei Graviano? A Mediaset, dice lui. «Indipendentemente dal gettone, lì mi garantiranno libertà», spiega a Domani. A Mediaset, di proprietà di Berlusconi, cioè il destinatario principale dei messaggi obliqui lanciati da un lustro dai Graviano? «Certo, certo», risponde.
Baiardo difende Berlusconi anche in un video su Tiktok: «Basta dire che è delinquente», spiega.
Eppure, in una intervista rilasciata a Report nel 2021, Baiardo parlava proprio di rapporti anche economici tra i Graviano e Berlusconi.
Il tempo passa e torna alla mente un racconto, rivelato da Domani, di quando Baiardo aveva avvicinato Paolo Berlusconi, fratello dell’allora primo ministro Silvio, per chiedergli un posto di lavoro, senza esito. Un posto di lavoro che aveva un altro sapore. A distanza di anni potrebbe riuscirci.
Nelle prossime puntate Giletti si sarebbe occupato dei rapporti dei Graviano con Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi e già condannato per collusione con la mafia. Ora non potrà più farlo. Almeno su La7.
Dagospia il 14 aprile 2023. “CHI CONOSCE COSA NOSTRA SA CHE IL FILO SCOPERTO HA UN NOME: SALVATORE BAIARDO” – SANDRA AMURRI SCRIVE A DAGOSPIA SULLA SOSPENSIONE DI "NON È L'ARENA": “C'È DAVVERO QUALCUNO DISPOSTO A CREDERE CHE LA RAGIONE DI UNA TALE DECISIONE DELLA RETE, POSSA ESSERE DIPESA DAL PAGAMENTO DI BAIARDO? E NON SIA SCATURITA DAL SUSSEGUIRSI DI INCHIESTE SU FATTI DI MAFIA-POLITICA-SERVIZI DEVIATI-MASSONERIA?” - "COSA SAREBBE ACCADUTO, SE FOSSE STATO CHIUSO UN ALTRO PROGRAMMA DI PUNTA E NON QUELLO DEL "BRUTTO ANATROCCOLO" GILETTI?" - VIDEO
Riceviamo e pubblichiamo:
Al di là delle ricostruzioni, utili ad ognuno, a sostegno della propria tesi, forse, sarebbe utile parlare dei fatti. Mi chiedo: c'è davvero qualcuno disposto a credere che la ragione di una tale decisione della rete, possa essere dipesa dal pagamento di Baiardo per le sue partecipazioni al programma?
E non sia, invece, scaturita dal susseguirsi di inchieste su fatti di mafia-politica-servizi deviati-massoneria, già in parte noti, ma prevalentemente, solo agli addetti ai lavori. Fatti che Non E' L'Arena ha portato alla conoscenza di un più vasto pubblico che ignorava, ad esempio, la scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, del depistaggio Scarantino, della mancata perquisizione della villa di Totò Riina, e della mancata cattura di Provenzano alla base della Trattativa Stato-mafia, dell'arresto per mafia dell'ex sottosegretario all'Interno Antonio D'Alì, della volontà di abolire l'ergastolo ostativo e il regime del 41 bis, necessità prioritarie dei boss Graviano, fino a svelare le debolezze e i vizi del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.
E, aggiungo, non sia scaturita dalle inchieste in cantiere su altre verità nascoste sui cosiddetti “intoccabili”? Un grande investigatore, che ha pagato sulla sua pelle il non essersi piegato è solito ripetere: “Una variante quando non può essere gestita, viene eliminata”. Non sempre fisicamente, per fortuna, ma anche, come è accaduto ieri, dando il via alle trombe della delegittimazione iniziata con la notizia su twitter della perquisizione della Dia a casa di Massimo e a La7.
Notizia inventata per un messaggio chiaro però: Massimo non era la vittima , bensi il colpevole. Lungi da me dal delineare i tratti di un santino, non sarebbe nel mio stile e, non sarebbe neppure credibile, vista la sua contraddittoria natura ribelle-conservatrice,che spesso ha prodotto confronti accesi fra noi.
Confronti che si sono sempre ricomposti, perchè accumunati dalla, forse, ingenua, convinzione, che, per dirla con Cicerone: “La libertà non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto”.
Che Massimo Giletti sia il brutto anatroccolo nella cosiddetta “compagnia di giro” o, se si preferisce, del “conclave mediatico” piu raffinato, è stato certificato ieri dal silenzio, con cui è stata ignorata l'inedita e dirompete notizia, fatta eccezione dal Tg La 7 di Enrico Mentana. Provate solo ad immaginare, per un istante, cosa sarebbe accaduto, se, giusto il tempo di bere un sorso d'acqua, fosse stato chiuso un altro programma di punta.
E questo riguarda il “come”. Ora torniamo al “cosa”. Chi, come me, scusate il peccato di umiltà, conosce da molti anni Cosa Nostra, sa che il filo scoperto ha un nome: Salvatore Baiardo, già condannato per favoreggiamento per la latitanza dei boss Giuseppe e Filippo Graviano.
Uno strumento nelle mani di un puparo, forse? E chi sarebbe il puparo che ha “bruciato” Massimo Giletti quando ha ritenuto che non servisse più perchè ha fatto qualcosa di troppo dissonante? Non resta che sperare che la Procura di Firenze che ha ascoltato Massimo come persona informata dei fatti, e interrogato Baiardo, possa dare le adeguate risposte in tempi ragionevoli per far tacere le trombe, così efficaci, per mascariare, restando in tema. Sandra Amurri
Estratto dell’articolo di Ignazio Stagno per “Libero quotidiano” il 10 maggio 2023.
L’intervista al generale Mario Mori a Quarta Repubblica, il talk show di Rete 4 condotto da Nicola Porro, ha scatenato un vero e proprio putiferio in studio. A innescarlo è stata Sandra Amurri, giornalista e opinionista di Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti chiuso qualche settimana fa nel giro di poche ore.
La Amurri […] ha voluto riscrivere a suo modo la realtà dei fatti di quella stagione dei primi anni Novanta citando un’intervista di Paolo Borsellino con due giornalisti francesi poco prima della strage di via D’Amelio del luglio 1992. La Amurri sostiene che Borsellino abbia fatto il nome di Dell’Utri in quel colloquio legandolo a presunti rapporti con Cosa Nostra, ma in studio smontano subito la ricostruzione affermando in modo netto che il nome dell’ex senatore di Forza Italia non è mai stato citato dal giudice ucciso dalla mafia.
«Borsellino il nome di Marcello Dell’Utri non l’ha mai fatto, certe cose non si possono dire. A casa passa questo messaggio, la realtà è ben diversa ed è doveroso chiarire» afferma Andrea Ruggieri, direttore de Il Riformista.
Gli animi si accendono e così poco dopo, proprio la Amurri […] fa un riferimento alla chiusura di Non è l'Arena che a suo dire sarebbe legata ad alcune inchieste che lei, la redazione e Giletti stavano portando avanti. Le parole che usa sono pesantissime: «Allora ascolta Piero - afferma la Amurri interrompendo Piero Sansonetti, direttore dell’Unità, ospite in studio - ci hanno chiuso una trasmissione per le inchieste, fammi parlare».
La frase della Amurri non passa inosservata e poco dopo Porro torna sulla Amurri e chiede: «Scusa, perché ti hanno chiuso la trasmissione?». La risposta è netta: «Hanno chiuso Non è l’Arena per le inchieste che stavamo facendo. Questo è sicuro». Porro ribatte: «Quindi Cairo ha interrotto un programma per questo motivo?». La Amurri replica subito: «Cairo dovrà spiegare ai magistrati i motivi della chiusura, c’è un’indagine in corso. Di certo la trasmissione non è stata chiusa perché andava male come leggo sui giornali».
[…] la rivelazione della Amurri suona come una vera bomba sganciata tra una frase e l’altra all’indirizzo del suo, ormai ex editore. Parole che scaldano ancora di più lo studio. E Porro la incalza: «Ma quindi c’è un’inchiesta? A me hanno chiuso un programma, ma inchieste non ne ho avute». Apriti cielo, la Amurri è un fiume in piena: «L’inchiesta c’è. Ma scusa, a te ti sembra normale chiudere una trasmissione da un’ora all’altra? C’è un’indagine in corso e Cairo dovrà spiegare», afferma la giornalista rivolgendosi al conduttore.
Insomma a quanto pare la battaglia tra Giletti e Cairo non è affatto chiusa e a questo punto non si possono escludere colpi di scena. […] Ma sui social si è scatenata la tempesta: «Caro Porro mi dispiace cambiare canale, ti seguo da anni, ma stasera mi è venuto il volta stomaco a sentire Sabella e la Amurri. Scusami», scrive un utente. E un nostalgico di Non è l'Arena twitta: «Ma lo ricordiamo quante volte Giletti rimproverava la Amurri. E lei subito si zittiva». Questa volta non è andata così […].
Dagospia il 14 aprile 2023. Thread di Giuseppe Candela su Twitter
Repubblica parla di 48 mila euro parzialmente in nero a Baiardo. La Stampa fa sapere che Giletti avrebbe incontrato più volte Roberto Sergio (in corsa per ruolo di Ad Rai). Cairo al Fatto: "Non posso rispondere. Comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho nulla da aggiungere".
Il Fatto parla di dissensi sulla linea editoriale e di puntate in arrivo su D'Alì e Dell'Utri. Baiardo a Domani conferma di aver preso gettoni ma "tutto è stato fatturato". Giletti avrebbe detto ai pm di Firenze che Baiardo gli avrebbe mostrato delle foto dell’incontro tra Berlusconi, i fratelli Graviano e il generale Delfino. Baiardo smentisce. Baiardo parla poi di una strana richiesta del conduttore.
La precisazione di Roberto Sergio
In merito a quanto riportato da alcuni organi di informazione ed in particolare dal quotidiano La Stampa che ha scritto: “Giletti più volte ha incontrato Roberto Sergio, indicato come prossimo ad… ” si precisa che si tratta di è notizia totalmente infondata. Il Direttore di Rai Radio ha avuto solo un breve scambio di saluti con il giornalista di La7 nel pomeriggio del 10 gennaio 2023 in occasione della conferenza stampa di presentazione del programma Mixer tenutasi presso la sala A di via Asiago, sede di Rai Radio.
Dagospia il 17 aprile 2023. Dal profilo Facebook di Enrico Mentana
Sul caso Giletti continuo a pensare che queste crisi si superano solo con la chiarezza. So che Giletti non informò l'editore Cairo né della foto fantasma fattagli intravedere da Baiardo, né della conseguente convocazione dai pm fiorentini. È nelle prerogative di un editore sospendere un programma, ma forse Urbano Cairo non poteva immaginare che sarebbero poi emersi tutti questi elementi, che rischiano di dare allo stop di Non è l'arena un segno diverso.
Massimo Giletti è ancora sotto contratto, e la domenica resta libera. E allora per domenica prossima stiamo pensando a una trasmissione che affronti tutte le questioni più scottanti emersi attorno a questa vicenda, adeguata testimonianza del fatto che da noi non si nasconde nulla, soprattutto quando si parla di mafia. E chissà che poi...
Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per “il Fatto quotidiano” il 17 aprile 2023.
Dice Massimo Giletti che Salvatore Baiardo gli parlò dell'arresto di Balduccio Di Maggio. Prima di fargli vedere la foto in cui, a dire di Baiardo, compaiono Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, l’uomo che ha “predetto” la fine della latitanza di Matteo Messina Denaro gli parlò di un altro arresto clamoroso: quello dell’autista di Totò Riina, l’uomo che trent’anni fa portò i carabinieri a prendere il capo dei capi di Cosa nostra.
La possibile esistenza del fantomatico scatto, su cui si sono concentrate le ricerche della Dia, potrebbe illuminare di una luce nuova alcune delle vicende più misteriose della stagione delle stragi. E non solo perché potrebbe provare i rapporti tra Berlusconi e il boss di Brancaccio, mai dimostrati e sempre negati dall’uomo di Arcore.
In questa vicenda della foto, infatti, s’inserisce un personaggio controverso: il generale Delfino, processato e assolto per la strage di Brescia, esperto di rapimenti nella Milano degli anni 70, poi condannato per truffa nella vicenda Soffiantini.
Nel suo curriculum anche l’esperienza come unico agente segreto italiano a Londra, subito dopo la morte di Roberto Calvi nel 1982. Dieci anni dopo va a comandare i carabinieri in Piemonte, dove ha una splendida villa a Meina, sul Lago Maggiore. In quella primavera del ’92, come ha scoperto Enrico Deaglio, i personaggi di questa storia stavano tutti lì: la dimora del generale, infatti, dista appena una ventina di chilometri dalla gelateria di Baiardo a Omegna, sul lago d’Orta, dove all’epoca si muovevano i fratelli Graviano. Ad appena 15 chilometri, invece, c'è Borgomanero, dove aveva trovato riparo Di Maggio, fuggito dalla Sicilia per evitare di farsi ammazzare da Giovanni Brusca.
È in un’officina del paese in provincia di Novara che arrivano i carabinieri, allertati da una soffiata su un traffico di stupefacenti: non trovano droga, ma trovano Di Maggio. Secondo la versione ufficiale è l'8 gennaio del '93: il mafioso chiede subito di parlare con Delfino e a lui racconta che sa come arrivare a Riina. Un vero colpo di fortuna per il generale che pochi mesi prima aveva voluto incontrare Claudio Martelli, per fargli una promessa: “Glielo faccio io un regalo di Natale, le portiamo Riina”. Il resto è storia: Di Maggio viene portato a Palermo, dove il 15 gennaio – poco dopo Natale – finiscono i 25 anni di latitanza del capo dei capi.
Davanti ai pm, però, Giletti racconta una versione diversa: “Baiardo sosteneva che Di Maggio fosse stato arrestato intorno al 26 dicembre 1992 e non il 7-8 gennaio 1993, e che una persona molto importante delle istituzioni lo aveva avvisato in questi giorni di festa dell’arresto, tant’è che lo disse subito a Graviano”. Chi era questa persona delle istituzioni? “Abitava vicino al lago d'Orta”, ha detto il conduttore, riportando le parole di Baiardo […] Baiardo […] Al processo Graviano non parla di nessuna “persona importante delle istituzioni”, ma dice solo che “Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto”. […]
Che sulle rive del lago d’Orta possano esserci i segreti delle stragi sembrava averlo intuito anche Gabriele Chelazzi, il pm di Firenze che indagava sulle stragi prima di morire d'infarto nel 2003. Il 24 aprile del '97 il magistrato sta interrogando Di Maggio ed è particolarmente interessato al periodo trascorso dal pentito nel Nord Italia. Gli spiega di avere saputo da Brusca che i Graviano sapevano della sua presenza in Piemonte: lo avevano saputo da un tale “di origine palermitana, che faceva il gelataio lì, a pochi chilometri da Borgomanero”. […] Stavano tutti lì, affacciati sul lago nella stagione delle bombe.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 17 aprile 2023.
[…] In estate Baiardo aveva chiesto a Giletti di raggiungerlo con urgenza vicino a Milano. La stessa sera il conduttore si era recato presso la fonte, la quale gli aveva annunciato un clamoroso scoop in arrivo e gli aveva mostrato (senza fargliela toccare), a garanzia della bontà delle sue rivelazioni, una fotografia, una di quelle vecchie Polaroid degli anni ‘80-‘90.
Nell’immagine Giletti aveva riconosciuto Berlusconi e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, ma non la terza persona, che a detta di Baiardo era il mafioso Giuseppe Graviano. Giletti avrebbe detto ai magistrati di non poter garantire sull’autenticità di quello scatto, ma che, dopo alcune verifiche su Internet, era arrivato alla conclusione che il terzo soggetto potesse in effetti essere il malavitoso siciliano.
Lo scatto immortalava i tre seduti all’aperto, probabilmente al tavolino di un bar, in abiti primaverili. Per Baiardo si trovavano sul lago d’Orta. Con i magistrati ha negato la ricostruzione di Giletti: «Non è vero, io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente».
Ma come La Verità è in grado di rivelare il gelataio di Omegna aveva riferito dell’esistenza scatto (o addirittura lo aveva mostrato) anche ad altri giornalisti, per esempio, sembra già a gennaio, all’inviato di Report Paolo Mondani. Lo stesso Baiardo, a inizio marzo, aveva inviato a Giletti un selfie con lo stesso Mondani in cui chiedeva al conduttore se fosse stato lui a parlare all’inviato Rai «delle foto». Una domanda che magari serviva a confondere le acque o a scatenare un’asta tra trasmissioni concorrenti.
Di certo, sempre utilizzando l’esca della competizione tra programmi, Baiardo era riuscito a ottenere alcuni pagamenti per le sue ospitate a Non è l’Arena. Ma dalla trasmissione hanno ribadito che, nel rispetto della policy aziendale, i pagamenti sono stati fatti tutti in chiaro e in modo tracciabile. Baiardo avrebbe incassato circa 25.000 euro per due speciali e due ospitate.
Dopo l’arresto di Messina Denaro e le ulteriori puntate tv, Giletti è stato sentito nuovamente in Procura il 23 febbraio scorso e questa volta al centro della convocazione c’era un misterioso documento di cui Baiardo aveva parlato al conduttore: «Quando te lo mostrerò e leggerai quello che c’è scritto resterai senza parole e capirai che il rapporto tra Graviano e Berlusconi era reale, ma non potrò lasciartene una copia» avrebbe detto.
Lo scorso 27 marzo Baiardo è stato sentito dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, quando ormai era calata la sera, presso il commissariato di San Lorenzo, in veste di testimone assistito nel procedimento fiorentino contro Berlusconi e Marcello Dell’Utri, essendo stato condannato in via definitiva per il favoreggiamento dei Graviano.
«Sono stato chiamato ad assistere questo Baiardo verso le 20:30 di sera e siamo rimasti lì due o tre ore» ci ha raccontato l’avvocato Carlo Fabbri, già legale del pentito Francesco Marino Mannoia. Il difensore ci ha anche confermato che al centro del verbale c’era proprio la famosa foto.
Dopo essere stato perquisito e interrogato Baiardo ha ottenuto di potersi allontanare e raggiungere i famigliari in Nord Italia per le vacanze pasquali. Giovedì è ricomparso su Tik tok più acido che mai con Giletti, che, evidentemente, ritiene responsabile delle sue nuove disavventure: «Non sarò più a La7, probabilmente mi vedrete in Mediaset: lì almeno lasciano dire quello che uno pensa, non ti condizionano nel parlare, ne scoprirete delle belle». Sul suo faccia a faccia con Tescaroli, ha puntualizzato: «È stato interessante anche perché ho scoperto delle cose talmente assurde che è stato un bene, da una parte, perché le aggiungerò al mio libro ormai in chiusura».
Baiardo ha approfittato dell’occasione per fare pubblicità alla sua fatica letteraria e anticipare la sua partecipazione al Salone del libro di Torino. Ha poi attaccato Giletti: «Alla fine della fiera non so che gioco faccia anche lui perché se uno va in trasmissione ci va per dire qualcosa, poi alla fine non ti fanno mai dire niente...». In realtà il giornalista ha sempre provato a farlo parlare apertamente, ma lui ha preferito dire e non dire e giocare su più tavoli.
Adesso Giletti, forse anche per colpa anche di questo signore, è stato licenziato direttamente da Cairo. Nessuna telefonata o comunicazione a quattr’occhi. Il conduttore stava trattando con l’azienda un rinnovo di un paio d’anni, ma, a quanto ci risulta, Cairo aveva già deciso di chiudere la trasmissione, visti i costi di oltre 200.000 euro a puntata non compensati dalle entrate pubblicitarie.
Ma la decisione si è clamorosamente saldata con i boatos sulle perquisizioni e in tanti hanno collegato le due vicende. Giletti non ha smentito subito le voci perché è corso in redazione per tranquillizzare la sua squadra e confrontarsi con l’amministratore delegato della Fremantle Gabriele Immirzi.
Ma perché Cairo non ha aspettato giugno, data di scadenza naturale del contratto, per chiudere la trasmissione? Qualcuno ipotizza che l’editore, ex dipendente di Silvio Berlusconi e in buoni rapporti con i leader dell’attuale maggioranza, potrebbe aver ritenuto che le prossime puntate in cantiere sui rapporti con Cosa nostra dell’ex sottosegretario di Forza Italia Antonio D’Alì, ma anche di Dell’Utri, non ancora pronta, ma in fieri, stridessero con le attuali condizioni di salute del Cavaliere, ricoverato al San Raffaele per una leucemia cronica.
Cairo […], però, con l’Ansa, ha voluto allontanare da sé i sospetti di censura: «Giletti ha condotto in 6 anni 194 puntate di "Non è l'Arena" dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere».
Quasi contemporaneamente Giletti ha negato di avere in corso trattative con la Rai […]
Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 17 aprile 2023.
Caro Merlo, non so in quale Tv andrà a lavorare Massimo Giletti, ma chiudergli il programma a fine stagione, e proprio quand’è in uscita, non significa regalargli una grande pubblicità?
Non mi piace il giornalismo populista e di destra di Giletti e dubito che la scorta che gli hanno assegnato lo qualifichi come giornalista antimafia. Non crede che in Italia ci siano troppe persone sotto scorta?
Le confesso che non ho capito quanto sia squalificato il pentito Baiardo, ma sarebbe indecente se Giletti lo avesse pagato in nero e sono sicuro che questa foto di Berlusconi con Graviano e il generale Delfino verrà distrutta. Anche dalla terapia intensiva Berlusconi saprà cosa fare.
Giulio Sorrentino — Torino
Risposta di Francesco Merlo:
Premetto che non mi piacciono gli atti d’imperio e dunque non mi piace la chiusura d’imperio del programma di Giletti. Guardo poco la tv e benché fosse di successo, guardavo poco anche Giletti, ma questa brutta chiusura me lo fa rimpiangere. Come altri giornalisti, Massimo Giletti vive sotto scorta perché ha ricevuto minacce che non sono diplomi di nobiltà, ma rischi che il ministero degli Interni prende sul serio. In Italia sono troppe le scorte o sono troppe le minacce?
[...] Insomma, non condivido le sue considerazioni sulla scorta di Giletti, la cui sicurezza non è misurabile con il pregiudizio politico. Del suo giornalismo ho già scritto che Giletti, partito come allievo di Minoli, è diventato l’erede di Santoro, un misto di scoop e narcisismo, la piazza-tv dove le sfide sono giostre e i nemici compari, ma dove tutti vogliono andare e vanno. E dunque è vincente perché è l’audience che, non solo in tv, misura la qualità. [...]
Escludo che Giletti e l’editore che lo ha autorizzato possano avere pagato in nero un qualunque ospite, non solo un mafioso patentato. Sulla foto, che Giletti dice di avere malamente intravisto da lontano, credo che la paura della foto abbia molta più sostanza della foto stessa che potrebbe non esistere ma alla quale tutti ormai credono. Vedo una sapienza (mafiosa e politica) nella sua gestione: il nulla non si annulla e dunque, se non la vedremo mai, sarà “la prova” che è stata distrutta, perché si sa che in Italia solo le prove vengono distrutte, e più si distrugge e si fa sparire più si rafforza la prova.
Giletti furioso per la chiusura di Non è l'Arena: "Chiediamoci perché". All'ultima riunione di redazione della trasmissione Giletti appare furioso per la chiusura di Non è l'Arena. Giampiero Casoni su Notizie.it il 15 Aprile 2023
Dopo qualche giorno di silenzio e numerose voci smentite oggi Massimo Giletti è furioso per la chiusura di Non è l’Arena: “Chiediamoci perché”. Il conduttore ha fatto capire che nel mirino ci sono finite 3 puntate in programma ed ai giornalisti nell’ultima riunione di redazione o ha spiegato senza mezzi termini: “Chiediamoci perché ci hanno chiuso. Stavamo preparando tre puntate importanti, delicatissime. Deflagranti. E siamo stati fermati“.
Giletti furioso per la chiusura: “Perché?”
Quali sarebbero le tre puntate non gradite a La7? Erano quelle sulla strage di via d’Amelio, su Marcello dell’Utri e sull’ex sottosegretario di Forza Italia D’Alì che era stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo La Stampa l’ultima riunione a La7 non è il preambolo del ritorno del conduttore in Rai ed esattamente a causa del defenestramento da parte di Urbano Cairo: “E dopo tutto questo, col cavolo che ce lo riprendiamo”. Ma Cairo ha smentito e i dirigenti di viale Mazzini dicono che non ci sono stati incontri con Giletti. In questi giorni c’era stata la testimonianza di Giletti davanti ai pubblici ministeri Turco e Tescaroli che indagano sulle stragi del 1993.
La foto di Berlusconi “con Graviano”
l conduttore ha detto ai giudici che Salvatore Baiardo “gli ha mostrato una foto che ritraeva Silvio Berlusconi insieme a Giuseppe Graviano e al generale dei carabinieri Francesco Delfino”. La collaboratrice di Giletti e giornalista del Fatto Sandra Amurri ha detto: “Mi chiedo: c’è davvero qualcuno disposto a credere che la ragione di una tale decisione della rete possa essere dipesa dal pagamento di Baiardo per le sue partecipazioni al programma? E non sia, invece, scaturita dalle inchieste in cantiere su altre verità nascoste sui cosiddetti intoccabili?”.
La7 cancella l’Arena di Giletti prima di 2 puntate su D’Alì&Dell’Utri
Nel pomeriggio voci poi smentite di perquisizioni della Dia. Presidente Cairo – replichiamo su Whatsapp dopo aver provato vanamente a telefonare al patron di La7 –, ma ci può dire solo la motivazione della sospensione di Non è l’arena […]
(DI GIAMPIERO CALAPÀ – Il Fatto Quotidiano 14 aprile 2023) – “Non posso rispondere, comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho niente da aggiungere. Saluti Uc”. Presidente Cairo – replichiamo su Whatsapp dopo aver provato vanamente a telefonare al patron di La7 –, ma ci può dire solo la motivazione della sospensione di Non è l’arena: share e costi? Linea editoriale? O la trattativa con la Rai di cui si parla?
“Faccia lei”.
Urbano Cairo, insomma, nella serata di ieri non chiarisce nulla sulla decisione di cancellare le puntate finali della trasmissione di Massimo Giletti dai palinsesti. Decisione comunicata ieri pomeriggio e che anche lo stesso Giletti avrebbe appreso dalle agenzie di stampa. È delle 14:01 il lancio dell’Adnkronos: “La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma Non è l’arena che da domenica prossima non sarà in onda. Lo rende noto l’emittente in una nota in cui ‘ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione’. ‘Massimo Giletti – conclude La7 – rimane a disposizione dell’Azienda’”. A quel punto tra social e Dagospia hanno cominciato a rincorrersi le voci più disparate.
Ipotesi 1: share basso e costi elevati
Tra le varie ipotesi circolate c’è quella dell’insoddisfazione degli inserzionisti per i numeri del programma, elemento per Cairo decisivo se combinato con i costi della trasmissione, di molto superiori a quelli medi sostenuti dalla rete per gli altri talk. Numeri di ascolto, però, tra il 4,8 e il 5%, che Giletti non giudica negativi.
Ipotesi 2: trattativa con la Rai
L’ipotesi 1 sarebbe strettamente intrecciata con l’ipotesi 2: Cairo avrebbe infine preso la decisione di negare il finale di stagione a Giletti per le voci che si rincorrono da tempo di una trattativa in stato avanzato per un ritorno in Rai dopo sei anni, proprio nella fascia serale della domenica. Anche perché altre voci danno Fabio Fazio in uscita verso Discovery, quindi Che tempo che fa si trasferirebbe sul Nove, lasciando libera la prima serata della domenica per un programma di peso.
Ipotesi 3: dissensi sulla linea editoriale
Un’altra voce che si è rincorsa ieri raffigurava uno scenario in cui i vertici editoriali di La7 abbiano spinto Cairo a prendere questa decisione per le posizioni di Giletti sulla guerra in Ucraina, considerate troppo filorusse, e sulla mafia, considerate troppo “complottiste”. Proprio D’Alì e Dell’Utri, i rapporti della politica con Cosa Nostra, erano tra i temi previsti per le prossime puntate. E proprio ieri mattina, prima del putiferio scatenato dal comunicato di La7, sul social Tik Tok è comparso quel Salvatore Baiardo, personaggio ambiguo considerato vicino ai fratelli Graviano, che preannunciò mesi prima l’arresto di un Matteo Messina Denaro malato proprio davanti alle telecamere di Giletti. Ieri Baiardo ha annunciato: “Ci sono nuove iniziative, probabilmente mi vedrete in Mediaset, lì uno può dire quello che pensa e non ti condizionano nel parlare. Ne scoprirete delle belle”. E ancora: “Anche Giletti, sotto scorta, ma alla fine della fiera non so che gioco faccia anche lui. Se uno va in trasmissione va per dire qualcosa, poi alla fine non ti fanno mai dire niente”. Poi rispondendo a un commento che gli dava del “veggente” dopo la pubblicazione della notizia della sospensione di Non è l’arena, Baiardo scrive: “Tutto previsto, anche la Rai non gli farà il contratto”. Intanto Dagospia lanciava un’altra ipotesi: la decisione di Cairo sarebbe arrivata in seguito a indagini e perquisizioni della Dia proprio relative alle ospitate di Baiardo nel salotto televisivo di Giletti. Tutto smentito da fonti della stessa Dia e della Procura di Firenze.
Cairo al Fatto: “Faccia lei, non posso dire nulla”
Anche Giletti rimanda i chiarimenti e si limita a dichiarare all’Ansa: “Ognuno ha la sua versione, tutto si chiarirà al momento giusto”, esprimendo poi rammarico per “i 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo sei anni”. Di certo c’è che nel governo, Matteo Salvini sarebbe ben contento di rivedere Giletti in Rai, come rivelato dallo stesso capo della Lega sui social: “Il mio abbraccio a Massimo e alla sua squadra. L’ho sempre stimato e spero di rivederlo in video al più presto”. D’altra parte Giletti aveva recentemente sostenuto nella trasmissione Belve che la rottura con la Rai sei anni fa gli procurò un “dolore profondo”, affermando di conoscere “il mandante politico” di quella decisione: “So chi è, ma non voglio dirlo”.
Intanto, prima di chiudere il giornale, proviamo a insistere per avere una spiegazione da Cairo, che però declina: “Stasera proprio non posso”. Per trattarsi di informazione e giornalismo non proprio modelli di chiarezza e trasparenza, dichiarazioni a mezza bocca che ricordano tanto le trattative del calciomercato a fine stagione sportiva. Mercato, appunto.
La7 sospende “Non è l’Arena” di Giletti: tutte le ipotesi. Baiardo: “Io pagato per andare in tv”. Da Iacchite il 14 Aprile 2023
Il programma “Non è l’Arena” di Massimo Giletti su La7 è stato sospeso dall’editore Urbano Cairo. Che però non ne ha spiegato i motivi: «Non posso rispondere. Comunque abbiamo fatto un comunicato e non ho nulla da aggiungere. Stasera proprio non posso», ha detto al Fatto Quotidiano. Anche il conduttore non ha voluto dire molto, limitandosi a smentire le voci di una perquisizione della Direzione Investigativa Antimafia. Ma l’ipotesi di un incidente sulle storie di mafia continua a circolare in queste ore. In particolare si punta su Matteo Messina Denaro e su Salvatore Baiardo. Ed è proprio l’ex gelataio amico dei fratelli Graviano a irrompere nella scena. Prima con un video in cui annuncia un nuovo libro e il suo passaggio a Mediaset. E poi con un articolo di Domani in cui si dice che è stato il suo “scoop” a far chiudere la trasmissione. Confermando di aver ricevuto compensi regolarmente fatturati per le comparsate. Mentre Repubblica parla di 48 mila euro parzialmente “in nero”.
I compensi regolarmente fatturati
Tutto infatti comincia con la “profezia” su Messina Denaro. Baiardo ipotizza prima del suo arresto che l’Ultimo dei Corleonesi sia malato. E che stia per morire. Non si tratta di una novità: della salute di ‘U Siccu si occupavano da tempo i rapporti degli investigatori. Ipotizzando malattie anche gravi, ma non il cancro al colon. Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia risponde a lui (e ad altri) parlando di “terrapiattisti dell’Antimafia”. Ma i pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi del 1993 ascoltano Giletti come testimone. E chiedono anche a Baiardo di parlare del suo incontro con Paolo Berlusconi a Milano dopo l’arresto dei Graviano. Mentre proprio l’Ultimo dei Corleonesi lo smentisce sulla sua malattia: «Avrà tirato a indovinare». Adesso, scrive Domani, si parla di nuovo delle sue comparsate su La7. E dei compensi “regolarmente fatturati”, come ha confermato la produzione del programma.
La presunta indagine sui 48 mila euro “in nero”
La Repubblica invece parla di un’indagine aperta a Firenze sul compenso ricevuto dal programma e sulle sue dichiarazioni. Si parla di almeno 48 mila euro e, scrive il quotidiano, di cui una parte pagata “in nero”. La questione è stata affrontata da Giletti ieri, quando il conduttore ha detto che «è falso che io abbia pagato personalmente Baiardo», ammettendo – e spiegando che si tratta di un trattamento riservato a tutti – il pagamento da parte della produzione per le ospitate. Di certo Freemantle, la casa di produzione di Non è l’Arena, ha pagato Baiardo con un accredito bancario e con fattura. Domani aggiunge che Giletti avrebbe detto ai pm di Firenze che Baiardo gli avrebbe mostrato delle foto dell’incontro tra Berlusconi, i fratelli Graviano e il generale Delfino. L’ex gelataio smentisce tutto: «Sono stato anche perquisito ma i giudici non hanno trovato niente».
Le perquisizioni e le indagini (smentite)
Ieri Baiardo ha annunciato il suo nuovo libro e l’approdo a Mediaset quando doveva ancora scoppiare il caso Giletti. In un filmato successivo dice che sulla sospensione del programma lui aveva «previsto tutto. Anche la Rai non gli farà il contratto». La procura di Firenze smentisce perquisizioni e indagini su “Non è l’Arena”. Marco Lillo spiega sul Fatto che Giletti è stato sentito dai pm di Firenze per due volte. Il 19 dicembre e il 23 febbraio di quest’anno. Pochi mesi fa il suo livello di protezione è stato alzato. La puntata di lunedì prossimo avrebbe dovuto poi occuparsi di Antonio D’Alì, ex sottosegretario di Forza Italia. Condannato in via definitiva per associazione mafiosa. D’Alì fa parte di una famiglia che a Castelvetrano aveva la proprietà terriera più grande della Sicilia. E tra i suoi campieri (ovvero coloro che organizzavano il lavoro dei contadini) si sono alternati prima Francesco Messina Denaro e poi il figlio Matteo.
Marcello Dell’Utri
Sempre il Fatto Quotidiano sostiene che Giletti volesse costruire altre trasmissioni sul ruolo di Marcello Dell’Utri. Anche lo storico dirigente di Berlusconi è stato condannato per associazione mafiosa. Secondo il giornalista l’ipotesi di accusa (tutta da dimostrare) relativa alle stragi del 1993 è un tabù in tv. Giletti voleva infrangere il divieto. Lavorando anche sulle perizie sui primi capitali di Fininvest. Ma il giornale di Travaglio dà spazio anche alle altre ipotesi sulla chiusura del programma. La prima è l’insoddisfazione degli inserzionisti per lo share, unita ai costi della trasmissione. L’Auditel però certificava una media tra il 4,8% e il 5%: numeri che secondo Giletti non sono negativi. Poi c’è la trattativa con la Rai. Che sarebbe intrecciata a quella con Fabio Fazio. Il quale si trasferirebbe a Discovery lasciando spazio libero proprio a Giletti nel palinsesto della tv pubblica.
Gli inserzionisti, il passaggio in Rai, la rabbia di Cairo
Anche La Stampa parte da questa ipotesi. E sostiene che sarebbero stati proprio i contatti con la tv pubblica a mandare su tutte le furie Cairo. Il quale, sapendo che dall’anno prossimo Giletti sarebbe tornato a viale Mazzini, avrebbe accelerato il trapasso sospendendo la trasmissione. Come quei presidenti di società di calcio che esonerano gli allenatori o mettono fuori rosa i calciatori. Una ipotesi poco credibile in assenza di altri riscontri. Se non altro perché così l’editore si dà la zappa sui piedi. E si mette in cattiva luce sia con il pubblico che con gli altri conduttori.
Baiardo attacca Massimo Giletti. Il giallo delle foto di Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 aprile 2023
Uno scoop che ha fatto il giro del mondo si è trasformato in un boomerang, di più in un vero e proprio terremoto che ha portato alla chiusura della trasmissione domenicale di La7, ‘Non è l’arena’, condotta da Massimo Giletti.
Lo scoop è l’intervista realizzata a Salvatore Baiardo, pregiudicato per favoreggiamento agli stragisti Graviano, che anticipava di qualche mese l’arresto di Matteo Messina Denaro, il boss latitante da 30 anni, ammanettato nel gennaio scorso dai carabinieri del Ros e dalla procura di Palermo.
Da allora Baiardo, che per la prima volta aveva parlato mesi fa a Report, è stato diverse volte ospite nelle trasmissioni di Massimo Giletti. I compensi sono stati regolarmente fatturati, fanno sapere dalla produzione del programma. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Da adnkronos.com il 13 aprile 2023.
La7 ha deciso di sospendere la produzione del programma 'Non è l'Arena' che da domenica prossima non sarà in onda. Lo rende noto l'emittente in una nota in cui "ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione". "Massimo Giletti - conclude La7 - rimane a disposizione dell'Azienda".
"Prendo atto della decisione di La7 - dice Giletti, contattato dall'AdnKronos - In questo momento, l'unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada".
Da open.online – 23 gennaio 2023
Durante il suo intervento a Non è l’Arena su La 7 Salvatore Baiardo ha detto che Matteo Messina Denaro sta per morire: «Penso non ne abbia per molto, altrimenti non succedeva quanto è successo, almeno questo presumo».
L’uomo che gestì la latitanza dei Graviano ha detto di non poter rivelare in televisione chi gli disse che l’ultimo dei Corleonesi era malato nel novembre 2022. Ma la sua tesi, riecheggiata anche in altre, è che Messina Denaro si sia semplicemente fatto prendere il giorno del suo arresto: «Sappiamo bene che non è tutto finito. È finito con l’arresto di Denaro quel tipo di epoca. Stiamo dando troppa credibilità ai pentiti. Trovatemi un pentito che si sia pentito da uomo libero. Tutti si sono pentiti per non fare galera. Non sono un pentito. Non l’ho mai fatto. Ho fatto 12 querele contro chi mi chiama pentito».
Nell’intervento Baiardo ha ribadito che la notizia della malattia di Denaro gli è arrivata «da un ambito palermitano ma non dai fratelli Graviano. Sono 30 anni che non li vedo e sento. Sono 1022 le persone che hanno l’ergastolo ostativo». E quindi la cattura di Denaro «non può far comodo solo ai Graviano.
I Graviano hanno staccato la spina da Palermo». Poi ha parlato dell’agenda rossa di Paolo Borsellino: «Il passaggio di mano dell’agenda rossa l’ho visto nel ’92-93. Ho visto dei fogli che la riproducevano. Io dico che Graviano non era lì come dicono i pentiti a proposito dell’omicidio di Borsellino. Graviano ha 12 ergastoli. Non devo difenderlo per fargliene togliere uno». Infine, Baiardo si è rivolto al conduttore della trasmissione Massimo Giletti sostenendo che è in pericolo: «Lei sta rischiando parecchio. A 360 gradi. Fa del buon giornalismo ma sta rischiando, e non solo a livello di mafia».
Susanna Picone per fanpage.it – articolo del 22 gennaio 2023
Salvatore Baiardo, presentato da Massimo Giletti come "l’uomo che ha previsto l’arresto di Matteo Messina Denaro", è tornato a parlare della cattura del boss mafioso nel corso della trasmissione di questa sera Non è l’arena su La7.
"Presumo sia una resa sua, non è che lo Stato lo sta prendendo", aveva detto Baiardo, che per anni ha tutelato la latitanza dei fratelli Graviano, in una intervista realizzata mesi prima dell’arresto di lunedì scorso a Palermo, aggiungendo che il capomafia era molto malato e che la cattura sarebbe stata "un bel regalino".
Baiardo e le rivelazioni su Matteo Messina Denaro
È stata una coincidenza? Quella "profezia" è un indizio di una trattativa tra parti deviate dello Stato e la mafia? "Le profezie vorrei farle in altro ambito, giocando al Superenalotto, queste non sono profezie, sono cose serie", ha detto questa sera Baiardo.
Come faceva a sapere che Messina Denaro era malato? "I giornalisti dicono che ‘correva voce’, ma nessuno lo ha mai detto", così Baiardo in tv evitando di rivelare le sue fonti sul boss. "Non ci sono solo i Graviano, ci sono altre persone", ha detto quindi smentendo di parlare per bocca dei Graviano.
"Matteo Messina Denaro, Totò Riina, Bernardo Provenzano dove sono stati arrestati? Tutti e tre in Sicilia, mentre i fratelli Graviano sono stati arrestati a Milano, c'è qualcosa che non torna. I fratelli si stavano rifacendo un'altra vita. I pentiti non possono continuare a inventarsi le barzellette. Se i Graviano dovevano continuare a delinquere, sarebbero rimasti a Brancaccio", così Baiardo a Non è l’Arena.
Baiardo a "Non è l’arena"
Il regalino per chi era? "Per chi ne beneficia", risponde a Giletti. "Non penso che ne abbia per molto, non succedeva quello che è successo", ha detto ancora facendo riferimento alle gravi condizioni di salute di Messina Denaro. […]
Da lasicilia.it – 5 febbraio 2023
Ha affidato a un breve video su tik tok la cronaca della sua giornata romana Salvatore Baiardo, controverso personaggio già condannato per favoreggiamento della mafia, sedicente depositario di segreti sul boss Matteo Messina Denaro.
"Sono già arrivato a Roma e ho voluto iniziare con la colazione al bar Doney, quello della famosa rivelazione di Spatuzza", ha detto in un video riferendosi al locale in cui il pentito Gaspare Spatuzza raccontò di aver appreso dal boss Giuseppe Graviano dei rapporti con Marcello Dell’Urto. Al termine del filmato Baiardo, come un influencer qualunque che disquisisce di futilità, ha dato appuntamento ai suoi follower su la 7, dove stasera sarà ospite della trasmissione Non è l'Arena per nuove rivelazioni.
Intanto il quotidiano La Repubblica oggi riporta che nel 2011Baiardo avrebbe avuto un incontro a Milano con Paolo Berlusconi. Sarebbe stato l'ex favoreggiatore dei Graviano a chiedere l’incontro: era alla ricerca di un lavoro, avrebbe riferito ai pm della Dda di Firenze titolari dell’inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993 che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’utri.
Il quotidiano spiega inoltre che i magistrati fiorentini, nell’ambito di accertamenti svolti nel 2020 per quell'incontro, hanno cercato di sentire Paolo Berlusconi, il quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato. Presi a verbale invece due poliziotti che erano nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi a Milano nel 2011. […]
Dagospia il 13 aprile 2023. "Smentisco le fantasie che sono state divulgate ad orologeria in queste ore che raccontano di presunte perquisizioni avvenute in casa mia o negli uffici della società che produce “ Non è l ‘ Arena “ . Nessuno ne ‘ oggi , ne’ nelle settimane passate si è presentato per notificarmi atti giudiziari . È inoltre falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il sig Salvatore Baiardo che è stato compensato per le proprie apparizioni nel programma e nello speciale di novembre interamente costruito sulla sua intervista , come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente e tracciabile"
(ANSA il 13 aprile 2023) - "Tutto si chiarirà al momento giusto". Così Massimo Giletti commenta con l'ANSA la nota de La7 che oggi annuncia la sospensione di Non è l'Arena. "Ognuno ha la sua versione. Non voglio aggiungere altro, non parlo, penso solo ai miei, ai 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo 6 anni.
Massimo Giletti: "La polizia a casa mia? Falso". Lo stop di Non è l'Arena è un caso. Il Tempo il 13 aprile 2023
Èun caso la sospensione da parte di La7 della trasmissione Non è l'Arena condotta da Massimo Giletti ogni domenica sulla rete di Urbano Cairo. Secondo indiscrezioni dietro allo stop ci sarebbe un deterioramento del rapporto a causa dei contatti tra il giornalista e la Rai per un possibile rientro nel servizio pubblico, magari al posto di Fabio Fazio in scadenza di contratto. Ma prima Selvaggia Lucarelli e poi Dagospia hanno parlato anche di una perquisizione della polizia.
"Nelle redazioni si rincorre da un’ora la notizia che ci sarebbero le forze dell’ordine in casa di Giletti, nonché in alcuni uffici amministrativi", aveva scritto la giornalista per poi integrare: "Secondo indiscrezioni il rapporto tra Urbano Cairo e Massimo Giletti, un tempo idilliaco, negli ultimi tempi era diventato molto teso, anche per la notizia di trattative tra Giletti e la Rai (o tra Giletti e chi provava a portarlo in Rai…). La notizia delle perquisizioni di stamattina avrebbe dunque convinto Cairo ad agire d’anticipo e chiudere il programma". Il sito di Roberto D'Agostino aveva poi tirato in ballo le interviste a Salvatore Baiardo.
Ricostruzioni e sospetti a cui risponde, lapidario, lo stesso Giletti: "Perquisizioni in casa mia della Dia? È una notizia falsa", dice il giornalista all’Agi. In un commento all'Ansa, riportato da Dagospia, afferma inoltre che "non c'è stata nessuna perquisizione nella mia abitazione. Nessuna notifica delle forze dell'ordine, nulla di nulla. Del resto era tutto facilmente verificabile e riscontrabile". Sullo stop al programma ha detto che tutto si chiarirà al momento giusto e che "ognuno ha la sua versione".
"Smentisco le fantasie che sono state divulgate ad orologeria in queste ore che raccontano di presunte perquisizioni avvenute in casa mia o negli uffici della società che produce Non è l‘Arena. Nessuno né oggi, né nelle settimane passate si è presentato per notificarmi atti giudiziari" sono le parole di Giletti citate da Dagospia, "è inoltre falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il sig Salvatore Baiardo che è stato compensato per le proprie apparizioni nel programma e nello speciale di novembre interamente costruito sulla sua intervista, come un qualsiasi ospite, in maniera trasparente e tracciabile".
Dopo la diffusione della notizia della sospensione del suo programma, Giletti aveva rivolto un pensiero ai suoi collaboratori: "Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l’unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all’altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada", aveva detto all’AdnKronos il giornalista.
Cairo chiude Non è l'arena: Giletti resta a disposizione di La7 (ma guarda alla Rai). Francesco Canino su Panorama il 13 Aprile 2023
Il programma sospeso senza preavviso. Dietro la rottura col patron di La7, le indiscrezioni sui contatti per un passaggio in Rai, i problemi sui costi e la raccolta pubblicitaria della trasmissione e i dissidi col direttore di rete sulle puntate dedicate alla mafia
Il blitz di Urbano Cairo è di quelli destinati a creare un mezzo terremoto televisivo: con un colpo di scena totalmente inaspettato, il patron di La7 ha deciso di sospendere Non è l'arena. Tradotto in altri termini, da domenica prossima il programma ideato e condotto da Massimo Giletti non andrà più in onda. Lo ha reso noto la stessa emittente attraverso uno stringatissimo comunicato in cui «ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione» e precisa che il conduttore rimane a disposizione della rete. Tutto facile, tutto liscio? Non proprio. A cominciare dalla tempistica sospetta, che s'incrocia con le indiscrezioni sempre più insistenti che ipotizzano il ritorno di Giletti in Rai. «Sento in modo profondo il legame con Cairo che mi ha sempre lasciato assoluta libertà», commentò il giornalista due anni fa, al momento del rinnovo del contratto con La7. «Giletti è un numero uno, che ha la tv nel suo dna . Con noi ha fatto benissimo fin dal suo arrivo nel 2017, con risultati eccellenti alla domenica», rispose Urbano Cairo in uno scambio di affettuosità che oggi pare lontanissimo. Il contratto scadrà tra poche settimane ed è impossibile che venga rinnovato, visto che Massimo Giletti ha un piede in Rai. Per ora solo informalmente, ma da mesi pare cosa fatta il suo ritorno sulla tv di Stato dopo la sua "cacciata" nel 2017, com'è stata definita da più commentatori. «Lasciare la Rai è stato dolore profondo, ma a volte non esserci è un valore: fai delle scelte. Devo dire grazie a chi mi ha costretto ad andare via, nelle tempeste si costruiscono le persone», ha rivelato poche settimane a Belve, ribadendo di avere ben chiaro che la sua uscita dalla Rai ebbe «un mandante politico, non ho la certezza ma posso avere delle intuizioni. So benissimo chi è ma non voglio dirlo». Anche però questo appartiene al passato. Questione di giorni e verranno rinnovati i vertici della Rai, con un assetto a trazione centro-destra, e l'arrivo di Roberto Sergio come nuovo amministratore delegato (stimato da più fronti, va detto) potrebbe coincidere con il ritorno di Giletti. Dove? Su Rai1, forse. Più probabile però approdi su Rai2, magari con un talk show in prima serata il giovedì sera, per un rilancio in grande stile dopo i troppi tentativi andati a vuoto (ultimo, il flop del programma di Ilaria D'Amico). «Secondo le indiscrezioni che circolano a La7, sarebbero stati proprio icontatti avuti con la tv pubblica a determinare la rottura con l'emittente di Urbano Cairo. Di fronte alla prospettiva di un rapporto destinato aterminare, negli ultimi giorni l'azienda avrebbe deciso di accelerare i tempi arrivando alla decisione della sospensione del programma», scrive l'Ansa. Che poi aggiunge altri dettagli a proposito di Non è l'Arena: secondo l'agenzia stampa sarebbero «sorti problemi in relazione ai costi e alla raccolta pubblicitaria della trasmissione». Il tutto nonostante gli ascolti comunque buoni del programma, che in alcune puntate ha toccato anche il 10% di share. «Prendo atto della decisione di La7. In questo momento, l'unico mio pensiero va alle 35 persone che lavorano con me da anni e che da un giorno all'altro - senza alcun preavviso - vengono lasciate per strada», replica Giletti. Ma c'è un ultimo dettaglio, rivelato da La Stampa, forse non del tutto secondario, che riguarda alcune delle puntate più criticate di Non è l'Arena (assieme a quelle in diretta da Mosca). «Dietro la sospensione ci sarebbe una disparità di vedute tra il conduttore e il direttore di rete Andrea Salerno sul taglio del programma, in particolare sulle puntate dedicate alla mafia e alla partecipazione di Salvatore Baiardo, l’ex tuttofare dei fratelli Graviano», scrive il quotidiano di Torino. «Le dichiarazioni sulla latitanza di Matteo Messina Denaro e in seguito sul suo arresto avevano fatto discutere e non a tutti erano piaciute».
Colpo di scena a La7. L’editto bulgaro di Cairo: chiusa l’Arena di Giletti. Non è l’Arena, il programma su La7 di Massimo Giletti, è stato sospeso. Questa domenica non andrà in onda. Redazione su Nicola Porro il 13 Aprile 2023
La7 ha deciso di sospendere Non è l’Arena, il programma condotto dal giornalista Massimo Giletti e in onda da novembre 2017. Lo ha reso noto la stessa emittente, che ha comunque deciso di ringraziare “Massimo Giletti per il lavoro svolto in questi sei anni con passione e dedizione”. Commentando la decisione dell’editore sulle colonne dell’agenzia Ansa, il giornalista investigativo ha affermato che “tutto si risolverà al momento giusto”, senza voler aggiungere altro.
“Ognuno ha la sua versione. Non voglio aggiungere altro, non parlo, penso solo ai miei, ai 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo 6 anni. Io ho le spalle larghe, penso solo a loro”, ha continuato Giletti che ha smentito anche le voci, incorse in queste ultime ore, di una presunta perquisizione dell’Antimafia nella sua abitazione: “È tutto falso, non c’è stata nessuna perquisizione nella mia abitazione. Nessuna notifica delle forze dell’ordine, nulla di nulla. Del resto era tutto facilmente verificabile e riscontrabile”. La notizia è arrivata come “un fulmine a ciel sereno“, hanno dichiarato i redattori che erano al lavoro per la puntata di questa domenica sera.
Il mistero, comunque, continua ad avvolgere la decisione dell’emittente di Urbano Cairo. Negli ultimi giorni, si erano diffuse altre voci, questa volta che riguardavano un potenziale cambio di casacca di Giletti, pronto ad abbandonare l’emittente di Urbano Cairo alla volta della Rai, segnando quindi un riallineamento della tv pubblica che il governo di centrodestra vorrebbe compiere. Queste voci non sono state né confermate, né smentite. Ancora, secondo le ultime indiscrezioni, dietro la sospensione del programma ci potrebbero essere problemi in relazione ai costi e alla raccolta pubblicitaria della trasmissione.
Nel frattempo, la Rai presenterà la sua programmazione autunnale a giugno e le decisioni arriveranno proprio in settimana. A quel punto, molti nodi potranno avere risposta.
Legale Berlusconi, intollerabili le accuse infondate di mafia. (ANSA il 15 aprile 2023) - "Sono accuse infondate e offese gravissime che calpestano la storia di un uomo che, oltre ad essere uno dei più grandi imprenditori italiani, ha ricoperto per ben quattro volte il ruolo di Presidente del Consiglio" secondo Giorgio Perroni, avvocato di Silvio Berlusconi, quelle pubblicate oggi da diverse testate quanto detto da Massimo Giletti ai magistrati di Firenze, che lo hanno sentito, sul fatto che Salvatore Baiardo gli mostrò una foto di Berlusconi, allora non ancora sceso in politica, il generale dei carabinieri Francesco Delfino e il boss Giuseppe Graviano.
"Da almeno un quarto di secolo tutte le più assurde accuse di presunta mafiosità contro Silvio Berlusconi si sono sempre dimostrate false e strumentali, tant'è vero - ha sottolineato il legale - che ogni volta gli stessi inquirenti hanno dovuto ammettere che erano infondate, disponendo l'archiviazione di tutti i vari procedimenti penali. Ora viene riattivato il circo mediatico, questa volta attorno a una foto spuntata all'improvviso dopo trent'anni, la cui esistenza è smentita dal diretto interessato". "
Tutto questo avviene perché la stampa ha in mano documenti che non potrebbero circolare in quanto coperti da segreto istruttorio, senza che peraltro la magistratura si attivi in modo deciso per mettere fine a una fuga di notizie che va avanti da troppo tempo. A tal proposito - ha annunciato Perroni -, ci riserviamo di adire in tutte le competenti sedi giudiziarie contro questo uso indegno di informazioni riservate". "Va poi detto che questa fuga di notizie e il clamore mediatico che ne consegue sono ancor più intollerabili, e lo dico in questo caso non solo da avvocato di Silvio Berlusconi, ma anche da cittadino, perché si verificano proprio nei giorni in cui il Presidente è ricoverato e sta combattendo una battaglia molto delicata. Quanto dovremo continuare a tollerare- ha concluso - un sistema in cui i processi si fanno prima sui giornali che nei tribunali, in violazione della legge e senza alcun rispetto per le persone?". (ANSA).
Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per ilfattoquotidiano.it il 15 aprile 2023
Il giovane boss di Cosa nostra, l’imprenditore rampante e il generale dei carabinieri che si occupava di rapimenti nella Milano degli anni ’70. Graviano, Silvio Berlusconi e Francesco Delfino ritratti nella stessa fotografia. È uno scatto fantomatico quello che si allunga sullo sfondo della chiusura del programma di Massimo Giletti decisa a sorpresa da La7.
[…] a tenere banco nel day after dello stop alla trasmissione è ancora una volta l’ospite più controverso delle 194 puntate di Non è l’Arena: Salvatore Baiardo, l’uomo che ha curato la latitanza dei fratelli Graviano e che dagli schermi di La7 ha “profetizzato” l’arresto di Matteo Messina Denaro.
[…] Contattato dal quotidiano Domani, Baiardo ha alzato la posta sul tavolo, raccontando il contenuto del suo incontro col procuratore aggiunto Luca Tescaroli. “Lunedì scorso sono stato ascoltato dalla procura dal dottor Tescaroli, e mi ha riferito che Giletti ha detto che gli avrei mostrato delle fotografie che ritraggono Berlusconi con Graviano e il generale Delfino“.
Un episodio che, se confermato, sarebbe esplosivo. Baiardo, però, non è un collaboratore di giustizia ma un favoreggiatore dei boss che hanno fatto le stragi: dice e non dice, annuncia rivelazioni che poi smentisce. E infatti subito dopo nega tutto: “Non è vero, è falso, non gli ho mai fatto vedere queste foto. Loro dicevano: Giletti le ha viste, Giletti le ha viste, ma non è vero. Io sono stato anche perquisito, ma non hanno trovato niente“.
[…] In tutta questa storia di sicuro c’è solo che Giletti è stato effettivamente sentito come teste per ben due volte dalla procura di Firenze: pochi giorni prima di Natale e poi di nuovo il 23 febbraio scorso. Nello stesso periodo gli è stata rafforzata la protezione, che gli era stata assegnata nel 2020 per le minacce pronunciate in carcere da Filippo Graviano, il cervello economico del clan di Brancaccio, fratello maggiore di Giuseppe, che invece era l’uomo d’azione della famiglia.
Fino a questo momento Giletti non ha smentito quanto sostenuto da Baiardo, cioè di aver raccontato ai pm di aver visto queste foto con un giovanissimo Graviano (non è chiaro se fosse Filippo o Giuseppe), Berlusconi e il generale Francesco Delfino. È opportuno sottolineare ancora una volta che fino a prova contraria questi scatti non esistono.
È facile però intuire perché una vicenda del genere abbia catalizzato l’interesse della procura di Firenze, che sta ancora indagando su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del ’93. Intanto perché nel 1996, molti anni prima di “predire” l’arresto di Messina Denaro, Baiardo è stata la prima persona a parlare di rapporti economici tra il braccio destro dell’uomo di Arcore e i fratelli Graviano.
[...] Accusa tutte da dimostrare e che i legali del leader di Forza Italia hanno sempre smentito. È un fatto, però, che i boss di Brancaccio hanno trascorso parte della loro latitanza nella stessa zona in cui dimorava proprio il generale Delfino, il terzo personaggio immortalata nella fantomatica fotografia citata dai racconti di Baiardo e Giletti.
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, infatti, i Graviano si muovevano tra Milano e Omegna, sul lago d’Orta. È lì, di fronte all’Isola di san Giulio, che li accoglie Baiardo, gestore della storica Nuova Gelateria Pastore, nel centro della cittadina del Verbano- Cusio-Ossola.
[…] Nei primi anni ’90 Baiardo diventa il gestore della latitanza dei fratelli siciliani: li presenta come suoi amici industriali, gli apre il conto corrente in una banca della zona, li porta in giro con la sua Mercedes 190. A Milano, ad Alessandria, ma pure a Orta, all’Hotel San Giulio, dove il boss avrebbe incontrato Berlusconi, secondo quanto sostenuto dall’ex gelataio davanti alle telecamere di Report. A venti chilometri di distanza […] dimorava Delfino, proprietario di una splendida villa a Meina, sul lago Maggiore.
[...] Delfino era a Brescia ai tempi della strage di piazza della Loggia, per la quale fu processato e assolto. Poi, nel 1977, va a lavorare a Milano: indaga sui sequestri di persona, che in quel periodo spaventano a morte gli imprenditori lombardi.
Compreso Silvio Berlusconi, che nel 1974 aveva assunto come fattore nella sua villa di Arcore un siciliano di nome Vittorio Mangano. “Eravamo negli anni 70, e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati in un periodo violentissimo della storia di questo paese. C’erano i rapimenti allora“, ha ammesso di recente al Foglio Dell’Utri: pure lui in quel periodo lascia Arcore per andare a lavorare agli ordini di Filippo Alberto Rapisarda, un finanziere siciliano trapiantato a Milano, amico di molti boss di primo piano di Cosa nostra.
Sui metodi seguiti per risolvere i sequestri di persona, spesso organizzati da altri calabresi, il generale Delfino finirà sotto inchiesta due volte: archiviato nel 1994, nel 2001 sarà condannato per truffa ai danni della famiglia di Giuseppe Soffiantini. Tra le sue varie e misteriose avventure c’è anche quella di essere stato l’unico agente segreto italiano presente a Londra dopo la morte di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato sotto al ponte dei Frati Neri nel 1982.
Nel 1992, quando i Graviano si muovono da mesi tra Milano e Omegna, Delfino viene mandato a comandare i carabinieri in Piemonte. Sarà una casualità, ma all’epoca si trova in Piemonte pure Balduccio Di Maggio, un mafioso di San Giuseppe Jato che a Riina faceva da autista, ma che era fuggito dalla Sicilia perché temeva di essere ucciso da Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.
Di Maggio si ripara a Borgomanero, provincia di Novara, 15 chilometri dalla villa di Delfino a Meina, poco più di venti dalla gelateria di Baiardo a Omegna, dove spesso si vedono i Graviano. L’8 gennaio del 1992 arriva una soffiata ai carabinieri, che si fiondano in una carrozzeria e arrestano Di Maggio.
Il mafioso chiede subito di parlare col generale Delfino, dice di conoscerlo bene. A lui racconta subito una cosa molto interessante: sa come arrivare a Riina, il capo dei capi di Cosa nostra che ha appena ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una vera fortuna per Delfino, che solo pochi mesi prima, subito dopo la strage di via d’Amelio, aveva chiesto d’incontrare l’allora guardasigilli, Claudio Martelli, per fargli una promessa: “Glielo faccio io un regalo di Natale, lei vedrà che le portiamo Totò Riina”. Passano cinque mesi e Riina viene arrestato dopo 25 anni di latitanza, venti giorni dopo Natale. Un’altra profezia, trent’anni prima di quella di Baiardo.
Salvatore Baiardo, l'uomo dei Graviano: la rottura con Giletti e il giallo della foto di Berlusconi. Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023
Lo scatto non è mai stato mandato in onda. Ma ora l'uomo che predisse la cattura di Messina Denaro a Non è l'Arena ne smentisce l'esistenza
Da qualche mese è approdato pure su Tik Tok, il social dei giovani. Trentamila followers, qualche migliaio di like e dirette interminabili in cui alterna l’annuncio di rivelazioni esplosive sui grandi misteri della Repubbica a teneri siparietti sul nipotino. Fac totum- «spiccia faccende» si direbbe in Sicilia- dei fratelli Graviano, i boss che vollero la morte di don Pino Puglisi, di mestiere ufficiale ha sempre fatto il gelataio. Ma la condanna a 4 anni per il favoreggiamento dei capimafia di Brancaccio, che avrebbe ospitato durante la latitanza, racconta l’altra faccia di Salvatore Baiardo, il giocatore d’azzardo con la passione per il poker, che non vuole essere chiamato pentito.
Siciliano di Trabia, una vita passata in Piemonte, dalle sponde del lago D’Orta, mesi fa, «predisse», al giornalista Massimo Giletti, davanti alle telecamere di Non è l’Arena, l’arresto di Matteo Messina Denaro che, stanco e malato, di lì a poco si sarebbe arreso. Anzi, dirà dopo la cattura del padrino, «sarebbe stato consegnato» in cambio di un regalo dello Stato, l’abolizione dell’ergastolo ostativo ai boss di Brancaccio, seppelliti al 41 bis da decine di condanne al carcere a vita. Un legame rivendicato quello con i due stragisti mafiosi definiti con indulgenza «due bravi ragazzi che hanno fatto delle fesserie da giovani».
Per alcuni una sorta di veggente riuscito a profetizzare l’arresto del superlatitante, per altri un impostore a caccia di soldi (dalla trasmissione di Giletti avrebbe intascato 32mila euro), Baiardo in tv c’è andato più di una volta. Ad alternare silenzi e ammiccamenti a rivelazioni mai riscontrate (una per tutte: «Ho visto il passaggio di mano dell’agenda rossa di Paolo Borsellino»), tutto detto o non detto con l’aria di chi la sa lunga. Il non pentito Baiardo si trincera però dietro un totale mutismo quando si entra nei particolari o gli si chiede chi sia la sua fonte. E rinvia la risposta a tempi migliori.
Nonostante le sue fortune televisive siano nate con le apparizioni a Non è l’Arena, Baiardo con Giletti e la sua trasmissione (poi sospesa da la 7) ha rotto da settimane. Su Tik Tok spiega di aver abbandonato la rete «per nuove iniziative» che gli consentiranno di dire davvero quel che pensa. E sempre su Tik Tok, nell’annunciare l’imminente presentazione di un suo libro a Torino, fa intendere di ingaggi ormai certi sulle reti Mediaset, che però hanno prontamente smentito. Sempre sulla piattaforma social è stato il gelataio di Omegna a rendere noto che il procuratore di Firenze Luca Tescaroli, che indaga sulle stragi mafiose del ’93, è volato a Palermo per interrogarlo (l’ultimo di una lunga serie di verbali compilati).
Tra le (tante) questioni di cui i magistrati chiedono conto a Baiardo c’è una foto della primavera del ’92, prima del tritolo di Capaci e Via D’Amelio: un’istantanea che l’ex favoreggiatore dei boss di Brancaccio avrebbe mostrato a Giletti e che immortalerebbe, dice lui stesso al giornalista non sapendo di essere intercettato, Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino.
Lo scatto sarebbe stato mostrato al conduttore come prova che, nonostante la fama di baro, quando dice di sapere dei rapporti tra il leader di FI e Cosa nostra Baiardo non bluffa. Giletti l’istantanea (che risalirebbe agli anni ’90 e sarebbe stata «rubata» forse con l’intenzione di farci su un po’ di soldi) l’ha vista, riconoscendo nell’immagine l’ex premier insieme a due uomini. Alla fine però non è mai stata mandata in onda perché il giornalista pretendeva ben altri riscontri. Per darla a La7 Baiardo almeno in principio non avrebbe preteso nulla, «ma non escludo che volesse denaro», ha detto ai pm lo stesso conduttore. Interrogato però il gelataio ha negato tutto, a dispetto delle intercettazioni. E dal suo rifugio di Trabia annuncia nuove scottanti rivelazioni.
Un giallo, insomma. Su cui è intervenuto il legale dell’ex premier, l’avvocato Giorgio Perroni, che ha parlato di «assurde accuse di presunta mafiosità contro Berlusconi, sempre dimostratesi false e strumentali. Tant’è vero che ogni volta gli stessi inquirenti hanno dovuto ammettere che erano infondate».
Le chat di Messina Denaro vendute da Fabrizio Corona a “Non è l’ arena” di Giletti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Aprile 2023
I retroscena non mancano : la procura Antimafia di Firenze ha avviato un’indagine sulle ospitate televisive a pagamento di Salvatore Baiardo, "fedelissimo" dei mafiosi Graviano, mentre secondo un quotidiano romano Fabrizio Corona avrebbe venduto all’amico Giletti le chat del boss stragista Matteo Messina Denaro
Ventiquattr’ore dopo l’annuncio dello stop alla produzione del programma “Non è l’Arena“, decisa da La7, emergono nuove rivelazioni sulla discussa messa in onda dello “speciale” su Matteo Messina Denaro. Secondo fonti aziendali dell’emittente televisiva sarebbe stato l’ex agente fotografico Fabrizio Corona a vendere, tramite un’agenzia, alla trasmissione di Massimo Giletti le chat audio tra il boss mafioso e due pazienti conosciute durante la chemioterapia.
I motivi della sospensione non sono stati rivelati né dai vertici aziendali, né dal giornalista che alla consegna del Tapiro d’oro di “Striscia la Notizia” ha risposto con un laconico “Bisogna chiedere a Urbano Cairo il perché mi abbiano mandato via, forse l’ha fatto perché sono juventino. Magari vengo a Mediaset.
A rompere il silenzio è stato Urbano Cairo, editore di “La7” e del “Corriere della Sera” che si è sentito tradito da Massimo Giletti e senza tanti giri di parole o mezze frasi ha parlato chiaro e tondo in una dichiarazione all’agenzia Ansa: “Ha condotto in 6 anni 194 puntate di Non è l’Arena dove ha potuto trattare in totale libertà tutti gli argomenti che ha voluto inclusi quelli relativi alla mafia sulla quale ha fatto molte puntate, con tutti gli ospiti che ha voluto invitare. Gli auguro di trovare la stessa libertà incondizionata nella sua prossima esperienza televisiva o di altro genere”.
L’editore torinese si riferisce alla presunta trattativa intercorrente tra il giornalista e la Rai (o chi ne fa le veci) per un suo ritorno a Viale Mazzini, nonostante Massimo Giletti abbia smentito la circostanza all’ agenzia Adnkronos: “A proposito di presunti contatti con i dirigenti Rai relativi al mio futuro, smentisco in modo categorico di aver avuto incontri sia con dirigenti che con funzionari della televisione pubblica aventi per oggetto questo tema“. L’eventuale ritorno di Giletti alla tv pubblica, sarebbe legato anche al previsto cambio dei vertici di Viale Mazzini, che secondo le indiscrezioni potrebbe realizzarsi entro fine aprile con la nomina di Roberto Sergio attuale direttore di Radio Rai ad amministratore delegato e quella dell’ex consigliere di amministrazione Giampaolo Rossi a direttore generale della RAI. Entrambi, però, contattati, smentiscono di aver avuto incontri con il conduttore.
I retroscena non mancano : la procura Antimafia di Firenze ha avviato un’indagine sulle ospitate televisive a pagamento di Salvatore Baiardo, “fedelissimo” dei mafiosi Graviano, mentre secondo il quotidiano “La Repubblica” Fabrizio Corona avrebbe venduto all’amico Giletti le chat del boss stragista Matteo Messina Denaro, arrestato a gennaio dopo 30 anni di latitanza. Corona era stato contattato dal conoscente di una delle donne divenute amiche del capomafia durante le cure alla clinica La Maddalena di Palermo. Le pazienti non conoscevano la vera identità del padrino che aveva detto di chiamarsi Andrea Bonafede. Corona ha poi incontrato in Sicilia il suo tramite per avere gli audio poi venduti a Non è l’Arena. Il contenuto era stato anticipato dal sito mowmag.com.
In relazione alle voci circolate di eventuali pagamenti in nero però, sono arrivate smentite sia dal giornalista che dall’intervistato, che in un video sui social ha assicurato che le somme pattuite sono state fatturate. “È falso che io abbia pagato personalmente e di nascosto il signor Baiardo. È stato compensato per le proprie apparizioni in maniera trasparente e tracciabile” assicura Giletti che ai magistrati avrebbe parlato di un cachet di 10 e 5 mila euro.
In difesa di Massimo Giletti sono intervenuti l’ex magistrato Antonio Ingroia secondo cui il giornalista si “sarebbe spinto troppo in avanti nelle inchieste sulla mafia” danneggiando quelle in corso della magistratura e delle forze dell’ ordine, e la giornalista Sandra Amurri (ex Fatto Quotidiano, collaboratrice di Giletti) secondo la quale la “sospensione del programma sarebbe scaturita da inchieste in cantiere su intoccabili“.
Redazione CdG 1947
Tutte le bufale sulla cacciata di Giletti da La7. Chiuso il programma Non è l’Arena. Tanti misteri e una secchiata di bufale. di Nicola Porro il 15 Aprile 2023
La cosa di questi giorni che più mi sta divertendo è questa vicenda di Giletti. Dietro alla chiusura di Non è l’arena si nasconde infatti il doppio standard secondo cui esistono alcuni giornalisti intoccabili, mentre altri che possono essere cacciati da un giorno all’altro. Non credo sia un mistero e i fatti di queste ore non fanno altro che confermarci che la chiusura dei programmi di alcuni giornalisti come Giletti e il sottoscritto non fa scomporre nessuno.
L’altro elemento emerso è il fatto che, intorno a Giletti, è nata tutta una grandissima letteratura di fake news che i giornali “per bene” hanno scritto. Ovviamente tutti zitti e muti e nessuno ne parla, tranne il mitico Filippo Facci su Libero che, quando serve, fa telefonate, legge le carte e chiama i soggetti interessati. Insomma, Facci cerca di fare quello che ha fatto per una vita, cioè il giornalista.
Le fake news a cui mi riferisco riguardano le motivazioni della chiusura. Se ne sono dette tante, compresa la perquisizione mai avvenuta a casa del conduttore o i soldi in nero che avrebbe dato a Baiardo. Ovviamente tutto falso. Poi c’è da considerare anche la caccia alla fantomatica foto del 1992 di Berlusconi con Graviano e Delfino, che Baiardo avrebbe fatto vedere a Giletti. Già qui ci sarebbe da discutere: pur di gettare fango su Berlusconi si riesce a credere a Baiardo. Su questa foto sta indagando la procura di Firenze che ha già ascoltato Giletti due volte, per capire meglio di cosa si trattino queste foto, considerato che non sono emerse in nessuna perquisizione.
Alla procura, l’ormai ex conduttore di La7 ha detto che Baiardo gli aveva fatto vedere delle foto in cui ci sarebbero Berlusconi e il generale Delfino insieme ad una terza persona che potrebbe essere Graviano. Tuttavia, dice che quella foto non l’ha potuta nemmeno toccare quindi non sa se sia vera o meno.
Peccato però che quella foto sia diventata immediatamente la prova regina di questo complotto contro Giletti: il non detto dei giornali è che sia stato censurato per evitare che facesse una grande inchiesta contro Berlusconi e Dell’Utri.
Vedete, questi giornali sono straordinari: come scrive giustamente Facci, l’unico aspetto di questa vicenda che gli interessa è usare la storia di un collaboratore di giustizia come “un pezzettino di fango che potrebbe nascere da questa foto”. Insomma, questa roba è incredibile: nessuno si preoccupa del fatto che sia stato fatto fuori e ignorano il fatto che lo stesso Giletti, l’unico ad aver visto quelle foto, ai procuratori ha fatto intendere che non si può escludere che si tratti di fotomontaggi. Per di più, si parla di polaroid in cui non si riconoscono bene le persone.
Per capire quanto fantasiosa sia l’ipotesi di questi geni, provate ad immaginarvi Berlusconi ed un generale dei carabinieri che, nel ’92, si mettono in posa per farsi una foto con un mafioso e mandante di stragi. Quanto si deve essere coglioni per fare una cosa del genere? Ragazzi, queste sono stronzate alla Ciancimino. Ve lo ricordate? Per anni siamo stati dietro a Repubblica, a Santoro, e al giornalismo investigativo italiano per la trattative stato mafia. La conclusione? Erano tutte minchiate e tutti furono assolti. Nonostante ciò, oggi basta questa vicenda per credere che ci sia una polaroid di Berlusconi con Graviano.
Nicola Porro, 15 aprile 2023
Foto fantasma col boss, solo fango sul Cavaliere "Accuse false e gravi". Felice Manti il 16 Aprile 2023 su Il Giornale
Pm di Firenze a caccia di uno scatto negato dallo stesso "pentito". I legali: "Ricorreremo"
Succede sempre così. Ci sono teoremi costruiti su tesi traballanti che dovrebbero schiantarsi già davanti al gip. E invece no, passano anni e le stesse tesi inconsistenti naufragano clamorosamente durante i processi, con innocenti alla sbarra marchiati a fuoco per sempre, soldi pubblici gettati al vento e magistrati impuniti nonostante continuino a inseguire fantasmi giudiziari. Mentre fantasmi veri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non trovano giustizia piena perché i loro colleghi si innamorano di facili suggestioni dal sapore politico e sono troppo distratti per comprendere i depistaggi che si consumano sotto i loro occhi.
L'ennesimo corto circuito mediatico-giudiziario ruota intorno a una foto fantasma, che ritrarrebbe insieme Silvio Berlusconi, l'allora generale dei carabinieri Francesco Delfino e Giuseppe Graviano. Una vecchia istantanea degli anni Novanta, che secondo la Procura di Firenze «ove esistesse» dimostrerebbe i rapporti tra il Cavaliere e il boss di Brancaccio e il loro indicibile accordo per spartirsi l'Italia a suon di bombe già a partire dal 1992. Le indagini sulle stragi a carico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri nascono da colossali balle e sono già state sepolte quattro volte dagli anni Novanta a oggi, ci sono milioni di pagine di sentenze che per le stragi del 1992-1993 portano altrove, ad altri pupari, ma tant'è. Stavolta c'è il fumus commissi delicti, e il fuoco lo ha acceso a Non è l'Arena Salvatore Baiardo, manutengolo della famiglia Graviano. C'è Massimo Giletti che - sentito come persona informata sui fatti il 19 dicembre e il 23 febbraio scorsi - davanti ai pm fiorentini avrebbe riconosciuto Berlusconi in una foto mostratagli da Baiardo ma «da lontano e in un luogo scuro». I soliti quotidiani forcaioli da giorni costruiscono l'ennesimo capitolo di letteratura giudiziaria, come avvenne tanti anni fa con il bacio tra Totò Riina e Giulio Andreotti. Baiardo che dice, conferma? Macché, ai magistrati giura che la foto non esiste, anche se a Giletti l'avrebbe promessa perché sarebbe collegata a un'evoluzione della situazione sull'ergastolo ostativo. «Se le cose non dovessero andare in un certo modo (quale?, ndr) - dice il giornalista cacciato da La7 - Baiardo me la potrebbe dare. Ha anche detto che con tale foto si potrebbe fare un sacco di soldi, ma che non gli interessava la circostanza». Certo, come non credergli. Tanto basta per far scattare una perquisizione a Baiardo, come riportava ieri il Fatto citando il decreto di sequestro numero 16249/2022 R.G.N.R. eseguito il 27 marzo scorso su ordine della Dda di Firenze, con una violazione plateale del segreto istruttorio e della riservatezza degli atti su cui il Guardasigilli Carlo Nordio non si è ancora mosso. Ci sarebbe anche un documento potrebbe «fare chiarezza» sulla presunta trattativa Stato-mafia ma Baiardo l'avrebbe strappato. Ovvio, no?
Berlusconi sta lottando con un problema di salute serio e non può difendersi dall'ennesima fucilata giudiziaria, per lui parla il suo legale, Giorgio Perroni, che annuncia azioni legali contro l'uso indegno di informazioni riservate da parte di alcuni giornali: «Accuse infondate e offese gravissime calpestano la storia di uno dei più grandi imprenditori italiani e del quattro volte presidente del Consiglio, tutte le più assurde accuse di presunta mafiosità si sono sempre dimostrate false e strumentali. Ora viene riattivato il circo mediatico, questa volta attorno a una foto spuntata all'improvviso dopo trent'anni, la cui esistenza è smentita dal diretto interessato, la stampa ha in mano documenti coperti da segreto istruttorio per una fuga di notizie che va avanti da troppo tempo. L'intollerabile clamore mediatico che ne consegue si verifica mentre Berlusconi è ricoverato. Quanto dovremo tollerare un sistema in cui i processi si fanno prima sui giornali che nei tribunali, in violazione della legge e senza alcun rispetto per le persone?».
Massimo Giletti, complottismo e querele: cosa c'è dietro allo stop. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 15 aprile 2023
Ci sono 35 giornalisti a spasso di cui non frega niente a nessuno, dopodiché le notizie restano due e non più di due, ben separate tra loro e non prive di misteri: 1) L’inspiegabile chiusura anticipata della trasmissione Non è l’Arena su La7, programma che andava benissimo; 2) L’indagine fiorentina sulla triplice presenza in trasmissione del favoreggiatore mafioso Salvatore Baiardo, improbabile profeta dell’arresto di Matteo Messina Denaro e possibile dispensatore di messaggi che l’Antimafia vorrebbe decodificare.
Il resto è farina del diavolo macinata da vari giornalisti che hanno azionato il mulino secondo la loro linea editoriale, ma con qualche malizia di troppo: piccole vendette per vecchi trascorsi personali contro Massimo Giletti, patologici tentativi di vederci sempre lo zampino di Dell’Utri o Berlusconi e un’ennesima indagine su di loro, invenzioni su esplosive puntate del programma che il patron di La7, Urbano Cairo, avrebbe voluto bloccare, poi ancora la sciocchezza secondo la quale a sospendere il programma abbia contribuito l’Antimafia di Firenze, la quale, unica cosa vera, ha interrogato per due volte Giletti (19 e 23 febbraio scorsi) sul suo reclutamento di Baiardo come ospite. Più generale, resta la sensazione che l’antimafia giornalistica stia un po’ infierendo su Giletti dopo averlo vissuto come un corpo estraneo rispetto al loro navigato vassallaggio da pigri topi di procura, diffidenti come lo furono le truppe della carta stampata verso le tv del Biscione all’inizio di Mani pulite.
Corona: «Il problema di Giletti non sono gli audio del boss, ma la foto di Berlusconi». GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 15 aprile 2023
Parla Fabrizio Corona. Difende l’amico Massimo Giletti silurato da La7, risponde alle domande sugli audio con la voce di Matteo Messina Denaro andati in onda nella trasmissione Non è l’Arena comprati da una società per cui lavora Corona.
E accusa Salvatore Baiardo, l’amico dei boss stragisti Graviano, di bluff sulla presunta foto con Silvio Berlusconi e il mafioso Graviano sulle cui tracce la procura antimafia di Firenze si è messa grazie all’indicazione di Giletti. Che è stato ascoltato dai pm che indagano su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del 1993.
«La foto? Se esistesse l’avrei venduta io a Giletti», esordisce Corona.
Parla Fabrizio Corona. Difende l’amico Massimo Giletti silurato da La7, risponde alle domande sugli audio con la voce di Matteo Messina Denaro andati in onda nella trasmissione Non è l’Arena comprati da una società per cui lavora Corona.
E accusa Salvatore Baiardo, l’amico dei boss stragisti Graviano, di bluff sulla presunta foto con Silvio Berlusconi e il mafioso Graviano sulle cui tracce la procura antimafia di Firenze si è messa grazie all’indicazione di Giletti. Che è stato ascoltato dai pm che indagano su Berlusconi e Marcello Dell’Utri per le stragi del 1993. «La foto? Se esistesse l’avrei venduta io a Giletti», esordisce Corona.
Sul caso Giletti-La7, con la decisione della rete di chiudere in anticipo la trasmissione Non è l’Arena, oltre al formale e scarno comunicato dell’editore Urbano Cairo, che non è entrato nel merito della sua scelta, c’è ben poco di ufficiale sui reali motivi che hanno portato alla scelta drastica.
Domani ha riportato le informazioni fornite da qualche altra fonte ben informata dentro l’azienda di Cairo secondo cui la gestione delle ospitate di Salvatore Baiardo (l’amico, favoreggiatore, dei boss stragisti Graviano, che ha predetto l’arresto di Matteo Messina Denaro in un’intervista con Giletti un mese prima della cattura) sarebbe solo parallela alle altre motivazioni che avrebbero spinto la reta a sospendere Giletti: il programma sarebbe in forte perdita, i gettoni pagati a Baiardo per le ospitate non sarebbero stati ritenuti “opportuni”, così come i rapporti con Fabrizio Corona, mentre la trattativa per il rinnovo del contratto portata avanti da Cairo con l’agente del conduttore Gianmarco Mazzi (attuale sottosegretario del governo Meloni alla Cultura) non sarebbe decollata.
LA VOCE DI MESSINA DENARO
I rapporti con Corona avrebbero avuto al centro la consegna degli audio tra il padrino Messina Denaro e due pazienti della clinica in cui era ricoverato il mafioso latitante per 30 anni. Gli audio sono stati mandati in onda in alcune puntate della trasmissione. «Se così fosse, se gli audio fossero arrivati tramite me qual è il problema?», dice Corona a Domani.
Il tutto sarebbe stato gestito da una società con la quale collabora Corona, un tempo Re dei paparazzi, legatissimo all’agente dei Vip Lele Mora, al centro di numerosi processi con diverse condanne alle spalle. «Ma cosa c’entrano gli audio e chi li ha portati a Giletti con la chiusura del programma? Credo che il problema sia altro e lo dico a voi che avete fatto l’unico scoop che c’è su questa storia, quello della foto», aggiunge.
Il riferimento è all’articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla testimonianza di Giletti in procura antimafia a Firenze sull’esistenza di una foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, Graviano e il generale Francesco Delfino. Documento che esisterebbe, secondo il conduttore, e lo ha visto da Baiardo, il quale nega l’esistenza dell’immagine, ma lo confermerebbe negli incontri con il conduttore registrati dagli inquirenti.
La procura di Firenze è molto interessata allo scatto perché proverebbe un patto sporco su cui sta indagando da due anni e mezzo: si tratta dell’inchiesta sulle stragi del 1993 per la quale sono indagati pure Berlusconi e Dell’Utri.
A cedere gli audio a Non è l’Arena «con l’interessamento di Corona» sarebbe stata la società Athena. «Basta guardare i contratti della società Athena, con cui lavoro io, collabora con Non è l’Arena da sette anni», spiega Corona. Vorremmo capire di più sul metodo con cui sono stati ottenuti. Su come la società è entrata in contatto con i proprietari dei messaggi scambiati con Messina Denaro.
«Questo non è un problema, noi facciamo un lavoro giornalistico, noi diamo anche tanti scoop alle Iene, a Mediaset, alla Rai, vendiamo contenuti giornalistici. In questo ufficio si lavora su contenuti giornalistici, facciamo documentari, facciamo testi, facciamo tutto. Che lavoro facevo prima? Lo ricordi? Perché tu da dove le prendi le notizie?», controbatte.
Per capire però, a Corona chiediamo se il cellulare con gli audio è stato proposto da Athena o richiesto dalla produzione di Non è l’Arena: «Ci manca che rilascio un’intervista su sta roba in questo momento, te lo dico per rispetto di Massimo».
Corona critica i giornalisti che sono alla ricerca di risposte sul modo in cui gli audio sono finiti a Giletti. «Un giornalista non dovrebbe cercare notizie tipo Corona ha venduto gli audio». D’accordo, ma qui parliamo di Messina Denaro, il cui arresto è stato predetto da Baiardo in trasmissione.
«Parliamo di Matteo Messina Denaro che ha avuto delle relazioni con cinquemila persone. E allora chiediti perché Matteo Messina Denaro aveva il mio libro sul comodino. Aveva venti libri. Ve lo siete chiesti perché?». Sinceramente no, non ci siamo posti questa domanda cruciale. «Perché lui è un narcisista malato e voleva capire come funzionava».
Corona si definisce molto amico di Giletti, «uno che stava cercando la verità e si è fatto abbindolare da Baiardo, un giocatore di poker, uno che bluffa e manda messaggi ai suoi amici».
Perciò secondo lui «bisogna essere solidali in questo momento, lasciare da parte il becero gossip». Detto da lui, che di gossip ha campato per una vita, c’è da fidarsi. «Chi ha dato gli audio? Basta chiedere a Non è L’Arena, se vi han detto che sono stati venduti da una società che lavora con me sarà così. Punto. Che cosa cambia? Non è uno dei motivi per cui hanno mandato via Giletti».
Facciamo notare a Corona che fonti interne all’azienda hanno riferito di questo interessamento suo per ottenere gli audio del boss. Quanto sono costati gli audio?, chiediamo. «Lo vengo a dire a voi? ma va!». Ma quanto può essere costato, mica 100 mila euro? «Questo non lo posso dire. Non ti dico assolutamente neanche che sono stati pagati, se lo scrivete, scrivete una cazzata. Ma non credo che sia questo il problema».
BAIARDO E LA FOTO DI BERLUSCONI
Corona non ritiene che il suo eventuale interessamento per ottenere gli audio di Messina Denaro possa aver contribuito alla chiusura del programma, elemento indicato da fonti aziendali come uno dei punti di rottura del rapporto con Giletti, anche se quei rapporti sono noti da tempo. «L’ultima cosa che ha fatto Giletti era, lo avete scritto voi, riportare in televisione un mondo stragista legato a Berlusconi, non lo puoi fare».
Domani ha ricostruito per primo la storia della foto di cui ha parlato Baiardo a Giletti che ritrae assieme Berlusconi, il mafioso stragista Graviano e il generale dei carabinieri Delfino (nome affiorato in diversi casi e misteri d’Italia). Corona su questo ha una sua idea: «Secondo voi quella foto esiste veramente? L’unica cosa che vi dico è una battuta: se esistesse quella fotografia lì, l’avrei venduta io a Giletti? Questo è il titolo».
In pratica, secondo Corona, Baiardo ha sfruttato Non è l’arena. Per parlare a chi? «Solo per prendere i soldi, ora esce col libro e va a Mediaset». In quale programma?, chiediamo. «Ma figurarsi, è sempre una provocazione di Baiardo, lo dice lui che va a Mediaset perché in teoria ha fatto il gioco di Berlusconi….Baiardo è legato a Graviano. Graviano a Berlusconi. Lui (Baiardo) non arriva a fine mese perché i soldi non bastano mai perché ha fatto vita di mafia».
Dunque poi ha trovato nella televisione un’opportunità? «Ha visto Giletti e se l’è giocato, gli ha raccontato tutto una serie di cose. Ora esce stranamente con un libro, ora. Annuncia un arrivo a Mediaset, la televisione di Berlusconi, che in questo momento non gli interessi nulla, perché sta veramente male. In quale programma? Chi glieli dà i soldi? A Mediaset non hanno un euro? È un bluff, è un giocatore di poker, capite? È stato bravo a giocare con l’informazione. Massimo, a prescindere dal rapporto lavorativo che ho con lui da anni, è uno dei miei più cari amici».
Corona dice di averlo sentito dopo la notizia della chiusura: «Ha sbagliato, si è fatto utilizzare da un grandissimo pezzo di merda, un giocatore di poker». Baiardo, secondo Fabrizio Corona.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 16 aprile 2023.
«Giletti è solo la pedina meno importante. Questa è una grande storia italiana. Ed è tutta qui». Ed Enrico Deaglio sbatte sul tavolo il suo libro, Qualcuno visse più a lungo (Feltrinelli), la bibbia sui fratelli Graviano.
Come ci sei arrivato?
«Dei Graviano mi ha sempre colpito che nel 1991 si erano trasferiti a Omegna, sul lago d’Orta. Godendo, ha detto, di una “favolosa protezione”».
Da parte di chi?
«Dallo Stato - politica, apparati investigativi, magistrati - per averlo aiutato a catturare Riina».
[…] Però nel ’94 sono stati arrestati.
«Potrebbe esserci lo zampino di Berlusconi. Gli stavano addosso. Volevano uscire dal ruolo di soci occulti».
Congetture.
«Graviano ha parlato di una “colletta tra palermitani” per finanziare Berlusconi con 20 miliardi di lire. Fininvest ha sempre smentito».
Dove comincia questa storia?
«A Borgomanero, dieci chilometri da Orta, con l’arresto di Balduccio Di Maggio, l’autista di Riina, gestito dal generale del Sismi Delfino. L’uomo più corrotto d’Italia».
Che sarebbe nella foto con Berlusconi e Graviano.
«Verosimile, ma non ne avevo mai sentito parlare. Quella piazza, a Orta, si presterebbe. Baiardo sarebbe il fotografo».
Berlusconi con un superboss latitante? Mah.
«Dipende dal periodo. All’epoca Graviano non era considerato un superboss. Nel ’94 il suo arresto a Milano fu quasi ignorato dai giornali».
Chi è Baiardo?
«Un trafficone di paese, figlio dello stimato capostazione di Omegna, siciliano […] Portavoce dei Graviano. Che in una trattativa lunga trent’anni ora rivendicano il secondo regalo allo Stato: l’arresto di Messina Denaro, di cui hanno rivelato la malattia, dopo quello di Riina».
Chi ha cercato chi?
«Baiardo contatta Report e Giletti. Per soldi, ma non solo. Giletti fa lo scoop. Poi lo porta in trasmissione, dopo l’arresto di Messina Denaro. E mi invita. Quando parlo, Baiardo reagisce male».
E Giletti?
«Manda la pubblicità. Poi parlo più».
[…] Hai più sentito Giletti?
«No. In compenso mi ha cercato Cairo. Voleva parlarmi. Di queste storie. Sono andato a Milano. Era spaventato».
Perché?
«Lui è in mezzo. Ci teneva a farmi sapere che quando era assistente personale di Berlusconi, fu messo in guardia: “Attento, Dell’Utri vuole farti fuori”».
In che senso?
«Figurato. Credo».
Perché scoppia il caso Giletti?
«La mia impressione è che volesse fare il grande colpo: la foto di Graviano e Berlusconi. Mentre Berlusconi è in ospedale e si riparla di Mediaset in vendita. Un incubo. Per tutti».
Dagospia il 16 aprile 2023.
Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago, in merito all’intervista di oggi alla Stampa rilasciata da Enrico Deaglio e rilanciata dal tuo sito, ci tengo a precisare quanto segue.
Deaglio sostiene che durante un nostro incontro, avvenuto a gennaio di quest’anno, mi trovò spaventato per la trasmissione di Massimo Giletti alla quale aveva partecipato con Baiardo in studio.
Non ero per nulla spaventato, lo dimostra il fatto che Giletti è andato in onda tranquillamente per molte puntate dopo il nostro incontro, affrontando lo stesso argomento in totale libertà.
Ricordo anche che lo stesso Deaglio partecipò subito dopo, ospite in studio, ad una puntata di Atlantide con Andrea Purgatori, sulla cattura di Messina Denaro.
In merito alla battuta su Dell’Utri, ovviamente si parlava di questioni legate a dinamiche e rivalità tutte aziendali, di tempi passati e lontani. Urbano Cairo
Il circo e la giustizia. Il meccanismo perverso che sovrintende al circuito mediatico-giudiziario che ha ridotto ai minimi termini il garantismo in questo Paese non conosce limiti. Augusto Minzolini su Il Giornale il 16 Aprile 2023
Il meccanismo perverso che sovrintende al circuito mediatico-giudiziario che ha ridotto ai minimi termini il garantismo in questo Paese non conosce limiti. Mentre Silvio Berlusconi è ricoverato in terapia intensiva - come tutti sanno - spunta l'ultima trovata del cantastorie Salvatore Baiardo, che avrebbe parlato con Massimo Giletti di una foto del '92 che ritrarrebbe il Cav con un boss mafioso, Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Naturalmente Baiardo - che non è né un «pentito», né un informatore - ne ha smentito successivamente l'esistenza, ma intanto la pseudonotizia, in barba a ogni simulacro di segreto istruttorio, è finita nel frullatore mediatico alla vigilia della sentenza in Cassazione del processo sulla trattativa Stato-mafia nel quale il pg ha smontato le accuse contro gli imputati a cominciare da Dell'Utri.
Cose del genere possono avvenire solo in un Paese che ha trasformato la lotta alla mafia in un'ideologia, in lotta politica e in una sorgente inesauribile di sceneggiature per serie televisive in cui l'immaginifico sostituisce il rigore dell'indagine. La foto in questione in fondo fa il paio con il bacio tra Andreotti e Riina. Insomma, parodie da romanzo di scarsa qualità, tutto meno qualcosa di serio. Un approccio e uno stile che farebbero rigirare nella tomba sia Leonardo Sciascia, sia Giovanni Falcone, e che spesso hanno ridotto la giustizia ad un circo.
Questa è sicuramente una di quelle. Per anni si è dato un palcoscenico, televisivo e non, a Baiardo, che da anni lancia allusioni per ricattare e guadagnare popolarità. Per alimentare il proprio personaggio, il cantastorie ne spara una sempre più grossa, seguendo le regole del gioco al rilancio. L'assurdo è che tutti sanno che non è credibile. Gli inquirenti che lo hanno interrogato lo hanno definito «un cazzaro» - espressione letterale - fin dal primo colloquio dopo il suo arresto. Il personaggio aveva fatto sapere che aveva molte cose da dire e Giancarlo Caselli lo fece sentire. Per sondarne l'attendibilità nel primo interrogatorio lo misero alla prova chiedendogli notizie su fatti di mafia che millantava di conoscere: non tirarono fuori un ragno dal buco. Baiardo pregò di essere riascoltato. Caselli lo fece reinterrogare e alla seconda domanda chiese soldi (un miliardo di lire) per parlare di Berlusconi.
La cosa con Caselli finì lì, ma il personaggio - per quello che millantava - poteva esser ghiotto per qualche toga che puntava al bersaglio grosso, cioè al Cav. Allora, per renderlo «credibile», per anni ci sono stati magistrati che hanno tentato di farlo passare per l'uomo a cui si deve l'arresto dei Graviano. Solo che malgrado le insistenze non era vero: gli autori della cattura hanno sempre dato un'altra versione. La soffiata era arrivata da una donna di facili costumi. C'è chi dice - quelli che debbono difendere il fatto di avergli creduto - che il personaggio mescoli bugie e verità. In realtà si tratta di bugie e ovvietà. Nel circo fa sempre comodo avere il pappagallo che ripete ciò che si vuole sentire. Il punto è che non si tratta di giustizia o di giornalismo d'inchiesta, semmai, dispiace dirlo, della loro negazione.
Giletti sospeso, "non è di sinistra, quindi...". Bomba Fagnani: cosa c'è dietro. Libero Quotidiano il 16 aprile 2023
Il suo compagno Enrico Mentana aveva commentato la sospensione di Non è l'arena su La7 e il congelamento di Massimo Giletti con un laconico ma esaustivo "no comment". Francesca Fagnani, conduttrice di Belve su Rai 2, sceglie invece un lungo intervento sulla Stampa per comunicare la propria solidarietà a Giletti e avvertire tutti, non solo il mondo dell'informazione in tv, che la stop imposto dall'editore Urbano Cairo è "un brutto signale, da tanti punti di vista".
"Per le persone che ci lavorano e non solo per lo stipendio alla fine del mese, che per quanto prioritario sia, non vale più della dignità e dell'orgoglio professionale di chi ci collaborava", scrive la Fagnani sul quotidiano torinese diretto da Massimo Giannini. In ballo perà c'è anche "la difesa della libertà di stampa per cui in tante altre occasioni (e giustamente!) ci si è stracciati le vesti. Qui, invece, la libertà di stampa finisce dove inizia quella di uno che ci sta antipatico, verrebbe da dire, parafrasando il noto detto".
A indignare la Fagnani il silenzio generalizzato del mondo del giornalismo, che ha preferito scatenarsi fin da subito in "un profluvio di illazioni. Alcune palesemente false, altre fuorvianti, altre screditanti verso lo stesso Giletti". Il riferimento è alle voci di perquisizioni della Dia in casa di Giletti, a cui accennava su Twitter Selvaggia Lucarelli (che per inciso ha pessimi rapporti sia con Giletti sia con Fagnani) poche ore dopo l'annuncio della sospensione del talk.
Alla Fagnani non convince nemmeno la versione ufficiale di una rottura per via del possibile ritorno di Giletti in Rai: "Si chiude una trasmissione di peso per questo, due mesi prima della fine già prevista?". Tanto più che la rete non ha fatto alcun riferimento né ad "ascolti bassi" né "costi alti", argomenti spuntati solo in alcuni retroscena. I 30mila euro pagati al pentito di mafia Baiardo per andare in trasmissione? Roba vecchia, sottolinea la conduttrice di Belve, che non giustifica una scelta così improvvisa.
"Colpisce - prosegue - che non ci sia stata da parte del mondo dell'informazione, salvo poche eccezioni, quella forte e partecipata levata di scudi che abbiamo visto quando chiusero, per esempio, la trasmissione di Sabina Guzzanti Raiot, un atto di evidente censura, fu considerato da tutti. Senza dire per citare i casi più clamorosi dell'indignazione e della mobilitazione provocate vent'anni fa dall'editto bulgaro, pronunciato da Sofia dall'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei confronti di Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi, estromessi dalla Rai. Cosa ha di diverso Giletti da loro? Non è di sinistra, anzi mostra confidenza con i leader della destra, ammicca da piacione alla telecamera e piace più alla pancia del suo pubblico che ai critici e ai colleghi. Ma allora come funziona la difesa dell'informazione? Vale solo per chi ci piace? Non dovremmo difenderla sempre e a prescindere dai nostri gusti personali?". No, qualcosa decisamente non torna.
Giletti, spunta anche Sigfrido Ranucci: "Cos'hanno offerto a Report". Libero Quotidiano il 16 aprile 2023
Oggi sarebbe stato il giorno della messa in onda per Non è l'Arena, che però in onda non andrà: come è noto il programma di Massimo Giletti è stato sospeso da Urbano Cairo con un provvedimento immediato e dirompente. Da quel momento, circolano diverse teorie sulla vicenda.
A corredo, il caso di Salvatore Baiardo, più volte ospite di Giletti, il quale avrebbe affermato di avere una foto di Silvio Berlusconi al fianco di Giuseppe Graviano, boss di Cosa Nostra. Illazioni "indegne", secondo il legali del Cavaliere, che hanno già fatto sapere di voler rispondere per via giudiziaria alle voci. Di quella foto, Baiardo, ne avrebbe parlato con Giletti. Ma non solo: secondo quanto scrive La Stampa, il ventriloquo dei boss di quella foto ne avrebbe parlato anche con Report, il programma di Sigfrido Ranucci in onda su Rai 3.
E ancora, si legge sul quotidiano di Torino: "Ha detto di averla, l'ha fatta vedere da lontano, ma non l'ha consegnata a nessuno". Insomma, c'è puzza di patacca. Interpellato dalla Stampa, Ranucci spiega: "C'è un'indagine in corso e non posso scendere nei dettagli. Posso solo dire che noi non abbiamo mai pagato una fonte in 25 anni di storia".
Per inciso, fonti investigative fanno trapelare che quello di Baiardo potrebbe essere un ricatto, anche se non è ancora semplice capire nei confronti di chi. Anche perché la foto, ammesso e non concesso che esista, secondo quanto si apprende potrebbe anche essere un banale e velenosissimo fotomontaggio.
Dagonews il 13 aprile 2023.
Gli avvocati penalisti querelano Sigfrido Ranucci per la puntata realizzata sul 41 bis e a rappresentarli contro il conduttore di Report scelgono l'avvocato di Renzi. "Il Direttivo della Camera Penale di Roma all'unanimità ha deciso di proporre denuncia querela nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci" perché "Nella trasmissione Report del 3 aprile scorso sono andate in scena gravissime insinuazioni e gratuite diffamazioni che sfociano persino nella calunnia nei confronti di alcuni dei più apprezzati componenti della nostra associazione, incredibilmente additati a sospetto come possibili veicoli per la diffusione al di fuori del carcere di ordini criminali provenienti dai detenuti posti in regime di 41 bis".
L'auspicio è che i vertici della Rai "avviino una seria riflessione al riguardo". La speranza è che anche i magistrati Di Matteo ed Ardita, "a loro volta apparsi nella puntata di Report con brevi interviste sul punto, vogliano prendere fermamente le distanze dal taglio diffamatorio che ha contraddistinto la puntata andata in onda".
I penalisti hanno indicato a rappresentarli Giandomenico Caiazza, avvocato di Renzi e Boschi nei processi di Firenze sulla vicenda Open. Caiazza aveva posto la questione dell'inviolabilità delle prerogative parlamentari ha spazio fisso su Riformista, l'Opinione e il Dubbio. Se ha tutti gli avvocati penalisti contro, con in testa l'avvocato di Renzi, ce ne sarà uno disponibile a tutelare il povero Ranucci ? nel frattempo si difende da solo sui social.
La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera'. "Nessuna diffamazione o insinuazione. Solo fatti documentati. La puntata di 'Report' oggetto di contestazione aveva come unica finalità evidenziare le falle del 41 bis in un contesto di estrema attualità partendo dalla ricostruzione del caso Cospito.
Ho chiarito all'inizio della trasmissione che il 41 bis è uno strumento che è al limite della violazione dei diritti umani e che si regge esclusivamente sul presupposto di tutelare la sicurezza della collettività e che per questo va gestito con estrema cautela.
Il documento pubblicato da 'Report' denunciava che i casi di oltre 100 mafiosi al 41 bis fossero gestiti da un solo avvocato: è un fatto e non era assolutamente secretato, sottolinea il giornalista. "Che sia un'anomalia è l'idea, non di 'Report', ma della commissione parlamentare antimafia che ha approfondito la vicenda proprio per valutare la portata. 'Report' ha correttamente riportato la notizia sottolineando il rischio che comporta un'anomalia del genere, coadiuvato anche dal parere di esperti magistrati antimafia, sottolineando la buona fede e professionalità degli avvocati".
Per Ranucci, "aver mostrato tale anomalia rappresenta, come detto in trasmissione, una tutela per gli stessi avvocati". La difesa dei diritti non è una maglietta che si indossa di giorno per poi riporla in un cassetto la sera. Chi accusa 'Report' di non avere cura per i diritti dei detenuti e la possibilità di un loro reinserimento nella società, non ricorda le numerose puntate realizzate negli anni, l'ultima appena due anni fa in pieno Covid.
Report da sempre si batte per la difesa dei diritti dell'uomo e della libertà di espressione. Ma Report ha anche il culto per la memoria: quello di ricordare il dolore dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e del terrorismo e che il 41 bis è un'architrave della lotta alla mafia che Totò Riina voleva far abolire inserendolo nel papello. Sigfrido Ranucci
Vietato informare: gli effetti della legge Cartabia sul giornalismo in un report. Stefano Baudino su L'Indipendente il 13 aprile 2023.
Notizie di uccisioni e accoltellamenti non trattate in tempo reale dagli organi di stampa perché le forze dell’ordine si rifiutano di comunicarle. Cronisti che finiscono sotto inchiesta solo per aver svolto il loro lavoro. Procuratori-dominus chiamati a valutare l’interesse pubblico di un fatto al posto dei giornalisti, diramando comunicati spesso così scarni da non dire praticamente nulla. Sono questi i devastanti effetti della riforma Cartabia sulla “presunzione d’innocenza”, denunciati dal Press Report 2023 del Gruppo cronisti lombardi, quest’anno coadiuvati anche da giornalisti provenienti da altre regioni.
La riforma Cartabia è entrata in vigore il 14 dicembre 2021. Al suo interno, è stata recepita la Direttiva Europea 2016/343, che indica la necessità di non esprimere giudizi e affermazioni di colpevolezza nei confronti degli indagati e degli imputati non condannati in via definitiva, per non recare danno alla loro immagine e onorabilità. A tal fine, si dunque stabilito che la diffusione di notizie sugli atti di indagine compete solo al Procuratore della Repubblica (che può eventualmente “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria”) e che possa avvenire “esclusivamente tramite comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa“, a cui si può procedere solo “con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse” che possano giustificarle. Inoltre, si vieta alle autorità pubbliche “di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.
Le ingessature partorite da questa legge si traducono in un vero e proprio bavaglio per l’informazione. Afferma Daniele De Salvo nella relazione: “Con il pretesto della legge Cartabia, molti procuratori hanno chiuso tutti i canali informativi. Non viene data più comunicazione degli arresti effettuati, nemmeno dopo le udienze di convalida: gli indagati sottoposti a misure di custodia cautelare semplicemente ‘spariscono’, come se fossimo in un Paese sudamericano. Nulla neppure delle risultanze di indagini che coinvolgono personaggi con incarico pubblico o in settori che riguardano tutti i cittadini, come la salute, le società, il fisco, i contributi statali. Nulla su omicidi, aggressioni, rapine, furti, truffe e altri reati che rivestono interesse pubblico, specie in comunità medio-piccole. I comunicati, le poche volte che vengono diramati, sono senza nomi né cognomi, né età, quasi si riferissero a fantasmi o personaggi di fantasia“. Su questo versante, l’apice è stato raggiunto lo scorso marzo, al momento della chiusura delle indagini sull’inchiesta Covid, quando la Procura di Bergamo diramò soltanto un brevissimo comunicato in cui mancavano i nomi degli indagati (tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e il governatore lombardo Attilio Fontana) e le fattispecie dei reati di cui risultano accusati.
Il risultato è dunque, su più livelli, la mancata diffusione ai cittadini di notizie di pubblico interesse. Il report cita molti casi concreti di cronaca nera: l’uccisione di due turiste belghe dello scorso ottobre, travolte da un’auto pirata a Roma, che divenne di dominio pubblico solo dopo alcuni giorni, quando i parenti ne parlarono sui social network; a Milano, l’omicidio di un ragazzo algerino, di cui i carabinieri seguirono le tracce di sangue arrivando fino all’abitazione dell’aggressore, non consentendo però ai cronisti di conoscerne il nome (sebbene il killer fosse stato fermato praticamente in flagranza di reato); la violenta aggressione di stampo razzista ai danni di un’impiegato di un fast food di Piazza Navona, nella Capitale, appresa dai giornalisti solo tre giorni dopo i fatti. E si potrebbe continuare a lungo.
Addirittura, Daniele De Salvo è stato indagato per aver scritto che una persona trovata morta all’interno della sua auto, ripescata nel lago di Como, non era stata uccisa (come si ipotizzava) ma si era suicidata: a confermarlo erano l’autopsia e la presenza di acqua nei polmoni. Il cronista è stato convocato dai carabinieri di Merate (Lecco) per la notifica dell’apertura di indagini preliminari nei suoi confronti per la “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”.
“Un colpo pesantissimo al diritto di cronaca è stato dato dalla Riforma Cartabia – si legge nella relazione -. Molti avvenimenti vengono divulgati quando ormai sono terminati o risolti, creando una evidente distorsione della realtà sociale, dove tutto sembra che vada bene. Una narrazione falsata verso la quale si stanno allineando molti editori, capistruttura e giornalisti”. Questi ultimi, in particolare, non avrebbero più “la forza di ribellarsi a causa di una precarietà economica e contrattuale ormai generalizzate, ma anche di una non piena consapevolezza del ruolo”, essendo “convinti, probabilmente, che non disturbando i manovratori e stando lontani da ogni contrattazione collettiva e rappresentanza professionale si verrà trattati con benevolenza, finendo invece per mettersi nelle mani dei poteri forti”. Il Gruppo cronisti lombardi lancia un appello: “Senza una presa di coscienza dei giovani colleghi e senza il coinvolgimento dei cittadini sarà difficile far fronte alle circostanze e agli attori che schiacciano l’informazione”. [di Stefano Baudino]
Ladri di Case.
Le Occupazioni.
Le Speculazioni.
I Morosi.
Occupazioni, per i proprietari di casa cambia tutto: per gli abusivi la pacchia è finita. Fabio Rubini su Libero Quotidiano il 29 novembre 2023
Tempi duri per gli occupatori abusivi di case e capannoni. Prima il decreto legge del governo, poi la sentenza della Cassazione che di fatto costringe chi occupa a risarcire sempre e comunque i danni al proprietario dell’immobile. Un uno-due micidiale che potrebbe avere conseguenze importanti da Nord a Sud del Paese. E che potrebbe finalmente arginare una piaga che riguarda migliaia di proprietari costretti non solo a subire una presenza indesiderata in una loro proprietà, ma anche di doversi sobbarcare tutte le spese per rimettere in ordine quello che gli occupanti distruggono.
I fatti riguardano una società che nella sua ragione sociale ha la locazione di immobili. Uno di questi era stato occupato e danneggiato. Dopo la solita trafila processuale il caso era approdato alla Corte d’Appello di Trieste che- tra lo stupore e l’indignazione dei proprietari - aveva stabilito che gli occupanti non dovessero versale un solo euro di risarcimento al proprietario.
Questo perché, secondo le toghe triestine, si era manifestata una «carenza probatoria in merito all’interesse dei proprietari rispetto alla sussistenza di un diverso utilizzo fruttifero dei medesimi, incorrendo in un manifesto errore di interpretazione della giurisprudenza più recente in materia, con conseguente contraddizione». Cioè, se tu hai un immobile, ma te ne disinteressi, se te lo occupano non puoi chiedere i danni.
IL RIBALTAMENTO - La Corte di Cassazione, invece, ha ribaltato completamente la sentenza, ponendo l’accento su quella che ritiene un’impostazione sbagliata della sentenza della Corte d’Appello civile triestina e disponendo che il proprietario di una casa occupata abusivamente debba sempre essere risarcito, indipendentemente dall’uso o dal non uso dell’immobile in questione. Nel suo dispositivo la Cassazione ha fatto anche di più. Intanto ha rimandato alla Corte d’Appello di Trieste (che dovrà avere una composizione differente) il procedimento, con il preciso compito di stabilire l’entità del danno subito dall’occupazione. Di più, ha anche disposto che qualora i proprietari non riuscissero, carte alla mano, a quantificare il danno, esso dovrà essere stabilito sul parametro dei canoni di locazione del mercato.
L’episodio ha fatto esultare anche il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini, che da anni si batte contro la piaga delle occupazioni abusive: «Si tratta di una svolta importante che va nella stessa direzione del decreto approvato pochi giorni fa dal governo sulle occupazioni abusive, grazie alle misure fortemente volute dalla Lega. Questa sentenza - chiude Salvini è un bel segnale di legalità e giustizia».
IL NUOVO REATO - Come detto c’è poi il capi tolo che riguarda l’ultimo decreto sicurezza che, tra le altre cose, contiene pure un giro di vite sulle occupazioni abusive. Nel testo vie ne previsto un reato specifico per questo tipo di comportamento. La nuova fattispecie si chiama “Occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui” e prevede la reclusione dell’occupante abusivo da due a sette anni (prima era da uno a tre anni e una multa da 103 a 1.032 euro). Il nuovo reato, però, contiene anche una norma per velocizzare la liberazione degli immobili. Se, infatti, l’occupante abusivo collabora all’accertamento dei fatti e lascia volontariamente lo stabile occupato, non verrà perseguito penalmente. Ma solo civilmente per i danni arrecati.
La stretta contro le occupazioni abusive, però, non si ferma all’aggravio della pena detentiva. La norma stabilisce anche che, nel caso in cui l’abitazione occupata sia l’unica a disposizione del proprietario, le forze dell’ordine che hanno ricevuto la denuncia avranno la possibilità di sgomberare direttamente l’immobile illegalmente occupato. Toccherà poi sempre a un giudice confermare o meno lo sgombero forzato. Un cambio di rotta deciso, che nelle intenzioni del governo dovrebbe servire non solo a bloccare le occupazioni abusive, ma anche l’odioso racket che vi sta dietro. A Milano - ma non solo nel capoluogo lombardo- da anni la Procura indaga sulla correlazione esistente tra alcuni centri sociali e un vero e proprio mercato delle case sfitte, che nottetempo vengono prese d’assalto da bande che poi le subaffittano ad altri. Il tutto ovviamente in maniera illegale. Queste nuove regole e la sentenza della Corte di Cassazione potrebbero davvero segnare una svolta per tutti quei proprietari che si sentono danneggiati dai delinquenti e beffati dalla giustizia.
Il prete che incita a occupare casa. Appello alle famiglie bisognose a Como: "C'è la lista degli alloggi sfitti, vi do una mano". Alberto Giannoni l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ero senza casa e mi avete incitato ad occuparla abusivamente. Deve suonare più o meno così, il messaggio evangelico aggiornato e rivisto da don Giusto Della Valle, prete rivoluzionario di Como tornato alla ribalta con un nuovo fiammeggiante editoriale («Una lotta perché tutti abbiano casa») pubblicato su un periodico ecclesiastico locale.
Uomo di Chiesa evidentemente più incline all'azione che alla preghiera, sulle colonne del suo bollettino parrocchiale, «Il Focolare», don Giusto ha letteralmente firmato un appello a «occupare» casa, proponendosi oltretutto di aiutare chi fosse intenzionato a raccogliere il suo invito. «Darò loro una mano ad entrare - si legge - presenterò loro i vicini di casa, li inviterò a rispettare le regole del condominio e se dovessero esserci sospensioni di energia elettrica chiamerò in aiuto l'elemosiniere del Papa Francesco».
L'articolo si riferisce chiaramente, ma senza ombra di ironia, al caso del cardinale Konrad Krajewski che nel 2019, a Roma, tolse i sigilli ai contatori di un palazzo a due passi da San Giovanni, riallacciando l'elettricità a un gran numero di alloggi abusivamente occupati da centinaia di famiglie che avevano accumulato un'enorme morosità con l'azienda fornitrice di elettricità.
Illuminato da questo intervento - non divino, ma porporato - anche don Giusto ha pensato di doversi mettere a disposizione nel segno della disobbedienza. Non è difficile immaginare il pandemonio che ne è venuto fuori in riva al lago, tanto che perfino il sindaco di Como Alessandro Rapinese - un amministratore civico che ha uno stile istituzionale non certo improntato alla pavidità - stavolta ha deciso di sottrarsi a ogni reazione, opponendo un fermo «no comment», «grosso come una casa».
Eppure il prete comasco è tutt'altro che uno sprovveduto. Referente della Pastorale diocesanana dei migranti, sacerdote delle comunità di Rebbio e Camerlata, alle porte del capoluogo, l'ex missionario aveva già riscosso una certa notorietà alcuni mesi or sono, con un altro articolo sul bollettino parrocchiale. In quel caso aveva rivolto ai fedeli una sorta di invito all'obiezione di coscienza fiscale antimilitarista, incitando personalmente «a non pagare la parte delle nostre tasse che finisce in spese militari».
Stavolta aveva deciso di occuparsi di emergenza abitativa. E la ricetta che è venuta fuori non è molto diversa. In quella che il giornale ha definito modestamente la sua «riflessione», don Giusto premette che la «situazione di famiglie senza un'abitazione richiede uno sforzo comune», e avanza tre proposte.
Le prime due sono rivolte ai sindaci. La prima è che si facciano «portavoce di chi ha diritto alla casa», la seconda è un invito ad affidare casa non all'Aler (l'azienda regionale) ma alle associazioni, e la terza - come detto - «come ultima opzione», eccola qui: «Se qualche famiglia avente diritto alla casa si trovasse messa in strada, propongo di passare in casa parrocchiale a Rebbio perché le si dia la lista degli appartamenti comunali vuoti dei nostri quartieri (Via Spartaco o Via Turati in primis) affinché ciò che ingiustamente non viene dato venga occupato». «Saluti cari - ha concluso come un no global qualsiasi - e buona lotta perché tutti abbiano casa».
De Luca, a Caivano case popolari assegnate dalla camorra
(ANSA venerdì 1 settembre 2023) - "Ora vediamo se riusciamo stavolta a fare passi avanti concreti al Parco Verde. E' certo che ancora oggi lo Stato non c'è a Caivano". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, su Facebook.
"Ho segnalato - ha detto De Luca riferendosi all'incontro di ieri con la premier Meloni dopo la visita del Governo al Parco Verde di Caivano - che la maggioranza degli occupanti di alloggi di Caivano sono abusivi. Molte case sono state liberate ultimamente e la nuova assegnazione è stata decisa dalla camorra. C'è bisogno di risolvere questo problema, altrimenti ancora una volta facciamo propaganda"
De Luca ha riferito anche di aver "avuto la segnalazione di 100 famiglie che abitano regolarmente in locali popolari e si è pensato di realizzare spazi sociali alla base di quei palazzi, con uso di sanitari, assistenti sociali e di volontariato. Ma su questo ricordo che serve prima di tutto la sicurezza, possiamo fare anche un centro ascolto degli psicologi ma nessuno ci andrebbe senza sicurezza nel Parco Verde.
Su questo finora ringrazio la caserma dei carabinieri, perché c'è stata un'insistenza dell'assessore regionale Morcone negli ultimi anni per aprire la stazione dei carabinieri. Oggi ringrazio il capitano Cavallo e i carabinieri ma è evidente che devono coprire anche altri 4-5 territori vicini e quindi non basta.
Servono carabinieri, polizia ed esercito in strada 24 ore su 24". De Luca ha sottolineato che "in questi anni - ha detto - la Regione ha fatto una supplenza anche senza avere competenza diretta sulla sicurezza e su interventi sociali e di scuola. Abbiamo cercato di essere presenti, realizzando due impianti sportivi e dandoli ad associazioni, abbiamo finanziato 4 scuole di Caivano per scuola viva, voucher sportivi a 350 ragazzi, abbiamo stanziato 8 milioni di euro per assistenti sociali. Erano programmati 42 assistenti sociali, ma il Comune di Caivano ha solo 3 assistenti sociali. Scontiamo purtroppo che i Comuni sono disastrati o sciolti, come Caivano, sciolto tre anni fa per un problema camorristico, poi elezioni e poi sciolto di nuovo ad agosto. Non si sa con chi parlare".
Blitz nelle case popolari a Bari. Appartamenti occupati abusivamente, case arredate in stile “gomorra”. Finalmente un barlume di legalità. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Luglio 2023
Nel capoluogo pugliese, sono pressochè quotidiane le denunce di assegnatari che raccontavano di aver trovato persino gli appartamenti abitati ed a loro assegnati, occupati abusivamente da famiglie malavitose che utilizzando delle pesanti intimidazione in alcuni casi avevano impedire ai legittimi assegnatari di denunciarli.
Abitazioni abusive ed altrettanto abusivamente abitate da persone legate alla criminalità organizzata barese parenti ed affiliati agli esponenti del clan Campanale. Sui tetti dei palazzi delle case popolari nel quartiere di San Girolamo, realizzati abusivamente persino degli attici con vista mare, utilizzando i locali tecnici previsti sui tetti dei palazzi., scoperti dall’alto Nucleo elicotteri della Polizia di Stato. Quando i poliziotti, vigili e funzionari dell’Arca Puglia Centrale e del Comune di Bari sono arrivati ai piani alti degli stabili, si sono trovati davanti tetti in lamiera e antenne paraboliche. Terrazze arredate con piante, ed aree attrezzate per i barbecue. Esterni realizzati con legname con pertinenze recintate da staccionata, interni in cartongesso piastrellato e vetro strutturale, con servizi e allacci già predisposti per gas, acqua e fogna. ( ma come hanno fatto le società ad allacciarle se erano abusive ?)
L’ avvocato Piero De Nicolo, attuale amministratore unico dell’Arca Puglia Centrale, dopo aver raccolto una serie di esposti e proteste, ha subito informato la Polizia. ” Voglio ringraziare il questore Giovanni Signer che ha accolto le nostre segnalazioni e si è attivato immediatamente con la Squadra mobile. Abbiamo proceduto in soli 20 giorni alle verifiche. dalle quali sono emerse cinque situazioni di abusivismo, una delle quali era già nota, mentre le altre quattro sono emerse nel corso delle ispezioni degli stabili, e verranno prontamente denunciate”
“Gli amministratori di condominio adesso dovranno spiegarci – continua l’ avv. De Nicolo – perché non si sono mai accorti di niente. Sono convinto che in un paio di mesi al massimo gli abusi verranno eliminati. Ci hanno fatto molto piacere i complimenti ricevuti in tempo reale da alcuni inquilini stanchi di subire soprusi e di farsi carico delle spese anche per conto degli abusivi”.
Nel capoluogo pugliese, sono pressochè quotidiane le denunce di assegnatari di case popolari di Arca Puglia che raccontavano di aver trovato persino gli appartamenti abitati ed a loro assegnati, occupati abusivamente da famiglie malavitose che utilizzando delle pesanti intimidazione in alcuni casi avevano impedire ai legittimi assegnatari di denunciarli.
Dieci anni fa, nel luglio del 2013 gli investigatori della Squadra Mobile di Bari affiancati dalle Fiamme Gialle del Gruppo pronto impiego e dai Carabinieri del Reparto operativo del Comando Provinciale di Bari, nel corso delle perquisizioni effettuate nei confronti di 16 nuclei familiari legati alla “malavita” di San Girolamo, disposte dalla Direzione Distrettuale Antimafia, scoprirono l’esistenza, scoprirono sui tetti delle palazzine C/1 e C/2, nella zona compresa tra strada San Girolamo, via Van Westerhout, via don Cesare Franco e Lungomare IX Maggio l’esistenza una dependance con una piscina a disposizione della famiglia Campanale.
Per arrivare agli appartamenti “popolari” all’ultimo piano , si fa per dire , del boss locale Leonardo Campanale ras del quartiere di San Girolamo, attualmente detenuto in carcere e di suo figlio gli agenti dovettero prima rimuovere dalla rampa delle scale una porta di accesso dotata di vetri antiproiettile e tutte le irregolarità rilevate vennero segnalate all’ Arca Puglia.
L’operazione di ieri ha origine da una serie di verifiche incrociate, che hanno consentito di accertare che nel corso degli anni sui tetti dei palazzi di San Girolamo erano cambiate troppe cose, puntualmente illegali senza rispettare le regole di assegnazione e le norme di Legge. Attici realizzati in legno sui terrazzi condominiali laddove in realtà avrebbero dovuto esserci esclusivamente locali tecnici o, al massimo, dei locali di lavanderia.
In tre delle quattro case ispezionate sono stati identificati i proprietari, mentre per una abitazione non è stato possibile identificarlo, ed è stato scoperto un appartamento sotto l’attico vuoto nel quale erano in corso lavori di ristrutturazione, che lo stavano trasformando in un’abitazione di lusso in “stile Gomorra”. per la quale non si è riusciti a risalire alla persona che lo stava ristrutturando e che avrebbe dovuto occuparlo.
Il “blitz” congiunto della Polizia di Stato, affiancata dalla Polizia Locale ed il personale tecnico dell’Arca e dell’Ufficio tecnico comunale, ha consentito di accertare e portare alla luce molteplici situazioni illegittime e quindi illegali. Quando gli investigatori hanno chiesto i documenti alle persone che occupavano le abitazioni vista mare occupate abusivamente si sono trovati davanti in un caso Severina Cifarelli, la moglie del boss malavitoso barese Leonardo Campanale attualmente detenuto in carcere, figlio del boss Felice Campanale ucciso in un agguato mafioso nell’agosto 2013 .
Un’altro caso di abusivismo edilizio è stato contestato ad un uomo che è stato ritenuto affiliato in passato al “clan Campanale” e che attualmente scontando una condanna per omicidio agli arresti domiciliari in quanto gravemente malato, che aveva fatto installare delle lastre d’acciaio sul pianerottolo per impedire ai condomini dello stabile l’accesso sul terrazzo che era diventato il suo suo attico “personale”.
Tutti gli accertamenti proseguiranno con ulteriori verifiche concordate tra il Comune di Bari assegnatario delle case popolari e l’ Arca Puglia Centrale che le gestisce, a cui spetterà eliminare gli abusi edilizi ed occupazionali, grazie alle necessarie ordinanze di demolizione degli eventuali manufatti abusivi accertati da parte dei competenti uffici comunali. Redazione CdG 1947
Estratto dell’articolo di Davide Desario per leggo.it il 29 giugno 2023.
Ministro Piantedosi, la vicenda dello sgombero dell’hotel Astor di Firenze, da dove è scomparsa la bambina peruviana di 5 anni, ha rimesso al centro dell’attenzione lo scandalo delle occupazioni abusive. Cosa state facendo?
«[…] il Ministero dell’Interno […] sta […] attuando una strategia di intervento che punta alla liberazione degli immobili garantendo soluzioni alloggiative a chi […]si trovi in una condizione di bisogno e di fragilità».
Intanto però arrivano altre occupazioni illegali.
«Stiamo intensificando l’attività di prevenzione: vogliamo evitare nuove occupazioni di stabili. Se ci saranno, provvederemo alla loro liberazione immediatamente».
Dunque tolleranza zero sulle nuove occupazioni?
«Nuove occupazioni non possono essere tollerate. Ad esempio, lo scorso 22 giugno, a Roma, circa 150 persone appartenenti a gruppi antagonisti hanno occupato una scuola in disuso in via Tiburtina. Come avevamo già fatto in un simile caso a Torino, l’immobile è stato liberato il giorno stesso […]. […]A Roma deve continuare la sinergia tra Prefettura, Comune e Regione che coordinai da prefetto della Capitale, mediante la quale abbiamo liberato occupazioni storiche come Viale del Caravaggio, Via di Torrevecchia e Viale delle Province, senza alcun problema per l’ordine pubblico, tutelando chiunque versasse in una condizione di necessità».
Nelle grandi città è molto diffuso il fenomeno dell’occupazione di appartamenti di edilizia residenziale.
«L’occupazione degli appartamenti di edilizia residenziale pubblica è, se possibile, ancor più odiosa. I “legittimi proprietari” di quegli alloggi infatti sono proprio quelle migliaia di persone, magari da anni utilmente collocate in graduatoria, che da sole una casa non possono procurarsela.
Tra l’altro, in un circolo vizioso che va stroncato, quando un appartamento finisce nell’orbita dell’illegalità, quelle stesse persone a cui sarebbe di diritto destinato si trovano a doverlo pagare ai clan, che utilizzano il racket delle occupazioni per rafforzare il proprio controllo sul territorio, aggravando la condizione di quartieri già segnati da disagio economico e marginalità sociale».
Quali clan?
«A Roma, abbiamo liberato appartamenti occupati dai Moccia, dagli Spada, dai Marando, dai Di Silvio, consapevoli che restituire quegli immobili al patrimonio pubblico non ha significato soltanto ridare una casa a chi ne ha bisogno, ma restituire credibilità allo Stato […]».
Il centrosinistra non la vede così.
«Chiariamo il punto. Un’immigrazione sicura e regolamentata rappresenta un fenomeno positivo non solo per l’Italia, ma anche per i migranti stessi. L’immigrazione irregolare gestita da reti criminali che si arricchiscono con il traffico di esseri umani espone infatti le persone a gravi rischi per la propria incolumità. Peraltro, chi arriva tramite questi pericolosissimi canali il più delle volte non ha diritto a rimanere. Per questa ragione il Governo Meloni ha aumentato con il “decreto flussi” il numero di persone che possono fare ingresso legale nel nostro Paese, molto più dei suoi predecessori. Per la stessa ragione abbiamo scelto una linea inflessibile nei confronti di un vero e proprio sistema strutturato e per nulla estemporaneo, quello dei trafficanti, che senza scrupoli sfruttano la disperazione per arricchirsi»
Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 28 giugno 2023.
Poche cose funzionano peggio delle amministrazioni comunali, specialmente se guidate dalla sinistra, essendo questa particolarmente tollerante quando si tratta di occupazioni abusive, borseggio sui mezzi pubblici e generi criminali affini.
Dove si può chiudere un occhio i progressisti, che amano strafare, ne chiudono due, se solo potessero, persino tre, così accade quello che è di recente accaduto: una bambina è scomparsa in pieno giorno dall’edificio in cui viveva con la madre, una palazzina interamente occupata, un albergo rimasto vacante e prontamente abitato da immigrati i quali pagavano abitualmente l’affitto ai gestori del racket, che, a quanto pare, non disdegnavano affatto il ricorso alle maniere forti, addirittura sanguinarie, per indurre gli inquilini a versare tutto il dovuto e in modo puntuale.
Ci siamo accorti di questa situazione di generale illegalità, che pure stava sotto lo sguardo di chiunque ed era arcinota a chiunque in quanto subita e lamentata dagli abitanti della zona, solamente perché Kataleya Alvarez, 5 anni, è stata rapita intorno alle 15 di sabato 10 giugno dall’ex hotel Astor, a Firenze. Adesso ci stupiamo di come sia stato possibile che una creatura sia stata vittima di un crimine così terribile, quale il sequestro di persona, nel cuore di una città come Firenze. Eppure è chiaro che una bimba lasciata incustodita, libera di entrare ed uscire, di girare in lungo e in largo, su e giù per un palazzo che sembra essere il quartier generale della mala, mentre gli adulti sono in altre faccende affaccendati e si guardano bene dal sorvegliare figli e nipoti, è una infanzia soggetta ad ogni fattispecie di delitti.
Ecco perché il clima di generale tolleranza, ma diciamo pure lassismo, anche e soprattutto da parte delle istituzioni, il quale ha permesso che germinasse e si sviluppasse, consolidandosi, codesta situazione di totale irregolarità, è la condizione presupposta che ha generato la sparizione di Kata.
(...) Quanti edifici attualmente, da Nord a Sud, nelle grandi come nelle piccole città, sono nelle mani di bande criminali che la fanno da padrone, stabilendo tariffe, organizzando gli affari sporchi all’interno di quelle mura, seminando sia dentro che intorno il terrore? Non sono pochi. Sono semmai troppi. E ritengo che dovremmo smetterla di considerare quei luoghi delle aree franche in cui la polizia è inutile che ci ponga piede “ché tanto non cambia nulla”.
Urge mettere ordine e liberare tutte le strutture occupate, riqualificarle e magari conferire loro, ove possibile, una pubblica utilità, per ora esse possiedono soltanto una pubblica dannosità. Non so se Kata e i suoi genitori potranno mai riabbracciarsi, ma intanto facciamo in modo che questa tragedia ci insegni quantomeno qualcosa e segni un cambiamento di cui si avverte l’esigenza e non più prorogabile.
Da corriere.it il 28 giugno 2023.
Dieci condanne a 2 anni e 2 mesi di reclusione. È quanto deciso dal giudice monocratico di Roma nell'ambito del processo che vede imputati per occupazione abusiva militati di Casapound del palazzo di via Napoleone III a Roma, nel quartiere Esquilino. Tra gli imputati, accusati di occupazione abusiva di stabile aggravata, Gianluca Iannone, Simone e Davide Di Stefano. Disposta provvisionale immediatamente esecutiva di 20mila euro e il risarcimento in sede civile per l'Agenzia del Demanio. Ordinato anche il dissequestro dell'immobile e la sua restituzione al Demanio.
«Le condanne spropositate a due anni e due mesi per l'occupazione di via Napoleone III confermano ancora una volta la faziosità di una certa magistratura», questo il commento di Casapound Italia. «Mentre a Roma il Comune - continua Cpi - acquista e regala spazi ai centri sociali come nei casi del Porto Fluviale e dello Spin Time con milioni di euro, si vuole colpire l'unica occupazione non conforme della città dove famiglie italiane hanno trovato negli anni un luogo di confronto e aiuto.
Senza CasaPound, il palazzo di via Napoleone III sarebbe l'ennesimo simbolo del degrado della Capitale, mentre ora è un punto di incontro culturale, sociale e politico in un quartiere lasciato a sé stesso dalla solita politica. Questa sentenza non ci trova in ogni caso impreparati: siamo pronti a difendere il palazzo e le famiglie in difficoltà che qui hanno trovato un porto sicuro e ricorreremo certamente in appello».
La storia di un genitore malato. Uno sfratto, un calvario: tempi biblici, escamotage e sgomberi coatti, così i prezzi delle case aumentano. La nuova rubrica “Giustizia in-civile” di Andrea Viola, avvocato e consigliere comunale. Perché una Giustizia civile che funziona, non solo aiuta il cittadino a sentirsi tutelato e protetto, ma crea le condizioni basilari per il funzionamento di ogni comparto economico-produttivo. Andrea Viola su Il Riformista l'11 Giugno 2023
Nel ringraziarvi per tutte le segnalazioni ricevute e nel constatare che anche l’ultimo articolo, sulle problematiche relative alla Magistratura Onoraria, ha suscitato grande dibattito e interesse è utile oggi affrontare un tema sempre più attuale e concreto, ossia la procedura di sfratto.
Per capire l’entità del problema è doveroso ricordare qualche numero fornito dal Ministero dell’Interno.
Dal 2002 al 2021 su tutta la penisola, sono stati eseguiti con l’ufficiale giudiziario 519.243 sfratti. Un dato che se comparato ai casi già dichiarati esecutivi (ossia da mettere in esecuzione) è molto preoccupante. Sono, infatti, 1.091.065 gli sfratti esecutivi: 29.068 (2,66%) per necessità del locatore, 150.687 (13,81%) per finita locazione e la stragrande maggioranza, 911.310 (83,52%), per morosità e altro. In generale le richieste di esecuzione, in 20 anni, superano quota 2 milioni.
Numeri enormi che incidono pesantemente sulla tenuta socio-economica del nostro Paese. Da una parte i giusti interessi e la tutela dei diritti dei proprietari di casa e dall’altra la tutela di chi ha necessità di una abitazione. In mezzo però la necessità di una giustizia che sia rapida ed incisiva su temi fondamentali come questi per cui si discute.
I tempi e soprattutto la procedura per ottenere uno sfratto non sono del tutto veloci e pratici.
Per prima cosa esistono due grandi temi, ossia l’occupazione di un immobile senza alcun titolo ed occupazione di un immobile con regolare contratto. A seconda dei casi le procedure sono diverse. Accade spesso che nella pratica molti cittadini diano in locazione un immobile senza un regolare contratto registrato o addirittura senza alcun contratto.
Le conseguenze pratiche sono molteplici e senza entrare troppo nei vari tecnicismi è utile evidenziare che un’eventuale sfratto per morosità o cessata locazione può essere fatto con la procedura apposita e più snella solo nel caso in cui ci sia un regolare contratto di locazione.
Diversamente dovrà essere intrapresa una causa ordinaria con tempi e costi più gravosi. Il tutto con i vari risvolti che ogni causa specifica può avere. Ma fermiamoci ad un caso concreto recentemente accaduto. Un proprietario di un immobile si rivolge al proprio avvocato perché vuole ottenere lo sfratto per morosità persistente da parte di colui che ha preso la casa in locazione. Bene, prima cosa da fare è preparare un atto denominato: intimazione di sfratto per morosità.
Nel caso in esame, il proprietario cercava di ottenere un pagamento dei canoni già ampiamente scaduti attraverso un semplice decreto ingiuntivo. Non voleva sfrattare l’inquilino ma ottenere almeno un titolo esecutivo per i canoni scaduti. Il tutto anche perché la persona in locazione otteneva agevolazioni pubbliche proprio per avere la possibilità di pagare i canoni di locazione. Purtroppo, però i soldi non venivano utilizzati per il reale scopo e il proprietario non riceveva mai il proprio affitto. Bene, la richiesta di decreto ingiuntivo veniva fatta nel gennaio 2021.
Di solito la procedura per ottenere il decreto è di poche settimane. Nel caso di specie il cittadino otteneva il provvedimento solo a giugno 2021 dopo numerosi solleciti anche al CSM. Per metterlo in esecuzione ci vollero ovviamente altri mesi ma purtroppo senza alcuna possibilità di reale incisività. Anche perché nel frattempo la persona in affitto aveva ben nascosto il proprio eventuale capitale aggredibile.
A questo punto, persi soldi a settembre 2021 il proprietario di casa decide di passare almeno allo sfratto. E quindi altre spese e altro iter per ottenere almeno la liberazione del proprio appartamento. E qui inizia l’iter e la cosiddetta farsa. Alla prima udienza fissata a novembre l’inquilino cosa fa? Chiede il fantomatico termine di grazia, ossia la possibilità prevista dalla legge di sanare il debito entro un termine di 90 giorni. Ossia, quasi sempre una colossale presa in giro. Ed, infatti, nella successiva udienza del marzo 2022 l’inquilino neanche si presentava e ovviamente non aveva saldato il debito.
E da qui inizia la fase dell’esecuzione, o meglio la vera tribolazione. Dopo tutta la fase per ottenere il provvedimento esecutivo si inizia l’iter più problematico, ossia quello dello sgombero coatto. Perché è sempre più raro che l’inquilino vada via spontaneamente dall’immobile, soprattutto se questo ha bambini a suo carico. Per di più, questo tema meriterà altri approfondimenti, esiste l’ulteriore carenza di organico degli Ufficiali Giudiziari, ossia coloro che hanno il compito di mettere in esecuzione lo sfratto. Nel caso che stiamo raccontando venivano fatti vari tentativi ma l’inquilino si faceva trovare con il bambino e con problemi di salute.
Insomma, per farla breve, alla fine solo grazie all’intervento dei Servizi Sociali del Comune si è riusciti a sgomberare l’appartamento dopo tre anni. Questo sicuramente non è il caso peggiore ma nella fattispecie il proprietario di casa aveva una esigenza impellente, la propria salute. Infatti, il proprietario aveva appena scoperto di aver una malattia incurabile e voleva a tutti i costi risolvere ogni questione per lasciare alla propria unica figlia ogni cosa risolta.
Questa cara persona ci ha lasciato qualche giorno fa e poco prima per fortuna era riuscita a risolvere la questione giudiziale. Ecco immaginatevi quanti risvolti può avere una giustizia in-civile, non solo interessi economici ma anche semplicemente umani e di buon senso. Il tutto ben ricordando che se poi gli affitti delle case aumentano a dismisura un motivo deve essere anche ricercato in questa poca efficienza da parte del sistema giudiziario.
Andrea Viola, Avvocato, Consigliere Comunale Golfo Aranci, Coordinatore Regionale Sardegna Italia Viva; Conduttore Rubrica Vivacemente Italia su Radio Leopolda
IN GIUSTIZIA – Il diritto alla casa. Redazione su L'Identità il 17 Maggio 2023
di ELISABETTA ALDROVANDI
Forse ci siamo. Forse, coloro che subiscono da anni l’occupazione abusiva della propria casa da parte di sedicenti bisognosi che antepongono le loro necessità, reali o pretestuose che siano, ai diritti altrui, potranno avere giustizia. Ma non quella giustizia formale, scritta tanto bene sulla carta e così altrettanto bene difficile da attuare nella realtà. Non quella giustizia che, spesso, varcata le aule di tribunale si trasforma nel suo contrario, mortificando legittime aspettative di coloro che, credendo in lei, le si sono affidati fiduciosi di ottenere tutela ai loro diritti violati. Ma una giustizia diversa, cui è impressa un’accelerazione e che, per la mentalità a volte così politicamente corretta da risultare indigesta, potrà far storcere il naso a più di qualcuno. In Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, infatti, ieri si è tenuta l’audizione informale di ben sette progetti di legge, rivolti a modificare l’attuale normativa che disciplina le modalità con cui il proprietario di un immobile, sia esso un ente pubblico o un cittadino, può ottenerne la liberazione nel caso in cui sia occupato illegittimamente.
Un’audizione alla quale, come presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime, sono stata invitata a relazionare, esprimendo pareri e suggerimenti. La ratio di questa riforma nasce anche dalla spinta propulsiva delle varie inchieste mediatiche che hanno portato alla luce innumerevoli casi, sparsi in tutta Italia, di case popolari o di privati occupate senza diritto da persone che, ricorrendo spesso a violenza e a minacce, si appropriano di ciò che non appartiene loro, togliendo quel diritto agli altri. Attualmente, l’occupazione abusiva di un immobile è sia un illecito civile, che obbliga l’autore alla restituzione e al risarcimento dei danni, sia un reato procedibile a querela di parte, ed è punito con la reclusione sino a tre anni. La vittima, oltre a potersi costituire parte civile nell’ambito del procedimento penale, può cercare di recuperare il possesso dell’immobile abusivamente occupato con l’azione civile di reintegrazione, esercitabile non solo dal proprietario del bene, ma anche da chi disponga ad altro titolo dell’immobile, come ad esempio l’usufruttuario o il conduttore. Ottenuta la sentenza di reintegra del possesso, se l’occupante si rifiuta ancora di rilasciare l’immobile si deve procedere con l’esecuzione forzata. Sulla carta è tutto molto lineare, e neppure troppo complicato. È la pratica, che cambia tutto. Non soltanto perché l’esecuzione di tutti i passaggi necessari per arrivare alla sentenza che condanna l’occupante a liberare l’immobile richiede tempo, denaro, e attività legale intensa e complicata da un punto di vista burocratico, bensì perché pure la fase di esecuzione della sentenza è altrettanto, se non ancor più, lunga e difficile. E così, accade di sovente che il proprietario di un immobile debba aspettare anni e spendere migliaia di euro per tornare in possesso di ciò che è suo, con la certezza di non recuperare un euro di quanto speso, e il timore di ritrovarsi la casa distrutta da chi, per nulla tenenza e faccia tosta, non ha niente da perdere. In questo quadro così sconfortante, un cambio di rotta che acceleri la liberazione di quanto indebitamente occupato, evitando alla persona offesa tempi morti ed esborsi a volte insostenibili, è fondamentale: e così, in sede di audizione, si sono discusse proposte di legge che, da un lato, aumentano notevolmente le pene per questo tipo di reato (arrivando fino a sette anni di reclusione), e dall’altro forniscono alle forze dell’ordine il potere di procedere all’arresto in flagranza degli occupanti, qualora questi non collaborino, rifiutino di fornire le loro generalità o di aprire la porta agli agenti. Una soluzione che certamente velocizza l’attuale procedura, anche se restano alcune domande aperte, peraltro palesate in sede di audizione: ossia, se quel termine di 48 ore previsto per la liberazione dalla denuncia è perentorio, se esistono risorse adeguate per provvedere a tutte le liberazioni (si stima che in Italia siano circa 50mila le case occupate), e soprattutto se, nelle more dell’udienza di convalida diretta a decidere la custodia in carcere o la più probabile liberazione dell’arrestato, il proprietario abbia la facoltà di liberare la propria casa di quanto portato dagli occupanti, senza obbligo di diventarne custode, cambiando immediatamente la serratura, senza correre il rischio di cadere nel reato di esercizio arbitrario dei propri diritti. Osservazioni che si auspica siano prese in considerazione, perché se riforma dev’essere, lo sia tale da cambiare lo stato di fatto. E non solo, di diritto.
Estratto dell'articolo di Gabriele Guccione per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2023.
«Difendere i più deboli dai prepotenti è di destra o di sinistra? Per me è di sinistra». Stefano Lo Russo, 47 anni, è il primo cittadino di Torino, città dove venerdì le forze dell’ordine hanno sgomberato otto famiglie rom (con trenta figli) che da tre anni occupavano illegalmente altrettanti alloggi popolari nel quartiere di Mirafiori Nord.
Sindaco Lo Russo, c’è chi ha criticato lo sgombero, soprattutto perché c’erano di mezzo dei bambini, mentre gli esponenti torinesi di FdI hanno subito plaudito all’iniziativa. Lei da che parte sta?
«Io sto dalla parte della legalità coniugata con l’umanità. Non possiamo, come centrosinistra, pensare che questo terreno sia appannaggio della destra. Lo dico perché in casi come questo a pagare gli effetti sono soprattutto i più deboli. Come gli abitanti di quel quartiere, che da tre anni erano costretti a subire violenze e soprusi, ampiamente documentati e denunciati».
[…]
Si riferisce alle famiglie di appartenenza?
«Per mesi i servizi sociali della città hanno lavorato a trovare una soluzione: a queste famiglie è stata offerta ripetutamente una sistemazione alternativa, nella legalità, ma alcune hanno sempre rifiutato. In quelle case popolari la situazione era ormai tale da mettere a rischio la tenuta sociale dell’intero quartiere. E questo non possiamo permetterlo. Se non si interviene in casi come questo, non solo si legittima la prepotenza di chi occupa abusivamente e minaccia gli altri ma soprattutto si alimenta l’intolleranza di cui si nutre certa politica».
[…]
Lei è tra i firmatari della lettera del «partito dei sindaci» contro le politiche sull’immigrazione del governo Meloni. È qui che la sinistra è diversa dalla destra?
«Se vogliamo che le persone vivano nel nostro sistema di regole e le rispettino integrandosi, dobbiamo assicurare loro una via legale diversa e più certa perché possano diventare a tutti gli effetti cittadini italiani a partire dall’istituzione dello ius scholae per i bambini delle nostre scuole.
Non è solo un tema etico, ma anche politico, a fronte del cambio demografico, sociale ed economico in atto in Italia. L’immigrazione, se gestita in modo inclusivo, può smettere di essere vissuta come un’emergenza e diventare una occasione di crescita».
Chi è il sindaco dem che ha sgomberato 8 famiglie rom. Massimo Balsamo il 17 Aprile 2023 su Il Giornale.
Il primo cittadino Stefano Lo Russo ha messo la parola fine al problema che attanagliava Mirafiori Nord. E ammonisce i suoi: “Non lasciamo la legalità nelle mani della destra”
A Torino lo scorso venerdì un’operazione di polizia municipale, polizia di stato e carabinieri ha portato allo sgombero di alcuni alloggi occupati abusivamente da tre anni nelle case popolari di via Scarsellini, in zona Mirafiori Nord. Coinvolte otto famiglie rom, con trenta figli. L’azione è stata plaudita dal centrodestra, ma non sono mancate le critiche al sindaco Stefano Lo Russo."Io sto dalla parte della legalità coniugata con l’umanità. Non possiamo, come centrosinistra, pensare che questo terreno sia appannaggio della destra", le parole del primo cittadino Pd ai microfoni del Corriere della Sera: "Lo dico perché in casi come questo a pagare gli effetti sono soprattutto i più deboli. Come gli abitanti di quel quartiere, che da tre anni erano costretti a subire violenze e soprusi, ampiamente documentati e denunciati".
Lo Russo promuove lo sgombero dei rom
Le operazioni di sgombero sono state complicate e non sono mancate le minacce da parte dai rom. “Devono bruciare”, il veleno degli stranieri nei confronti delle forze dell’ordine impegnate nell’azione. Un sospiro di sollievo, invece, per i residenti regolari che negli ultimi mesi avevano effettuato parecchie segnalazioni di atti vandalici nelle palazzine. Tra il danneggiamento dei citofoni esterni e l’imbrattamento delle porte della palazzina, gli inquilini hanno puntato il dito contro gli abusivi.
Discorso diverso per i bimbi rom, i primi a non potersi difendere: per questo Lo Russo ha posto l’accento sul dovere di tutelarli. "Per mesi i servizi sociali della città hanno lavorato a trovare una soluzione: a queste famiglie è stata offerta ripetutamente una sistemazione alternativa, nella legalità, ma alcune hanno sempre rifiutato. In quelle case popolari la situazione era ormai tale da mettere a rischio la tenuta sociale dell’intero quartiere. E questo non possiamo permetterlo", ha rivelato il sindaco piddino:"Se non si interviene in casi come questo, non solo si legittima la prepotenza di chi occupa abusivamente e minaccia gli altri ma soprattutto si alimenta l’intolleranza di cui si nutre certa politica".
Complice la crisi economica, l’emergenza abitativa si fa sentire di più. Dodici mesi fa il Comune di Torino e la Prefettura hanno messo nero su bianco un protocollo per sgomberare 220 alloggi pubblici occupati. In questo contesto, non si può prescindere dal rispetto delle regole “restituendo gli alloggi popolari alle tante famiglie in lista di attesa”: “La sfida è coniugare appunto la legalità con l’umanità, ed è quello che stiamo facendo”.
Estratto dell’articolo di Andrea Bulleri per “il Messaggero” il 30 marzo 2023.
Fino a 9 anni di carcere. E una sanzione che può arrivare a 25mila euro. Con l'obbligo per l'autorità giudiziaria di intervenire «entro 48 ore» dalla denuncia. E l'esenzione, per i proprietari danneggiati, dal pagamento dell'Imu.
[…] La battaglia approda in parlamento. Dove è appena arrivata una proposta di legge targata Fratelli d'Italia, a prima firma del capogruppo meloniano a Montecitorio Tommaso Foti.
Obiettivo: rendere più dura la vita di chi occupa illegalmente un immobile. E mettere un freno a una pratica che, soltanto a Roma, sottrae ai legittimi proprietari o assegnatari oltre 7mila abitazioni, in buona parte di edilizia pubblica o di proprietà di enti previdenziali. […]
Di fatto, si tratta di un nuovo reato che verrebbe inserito nel codice penale (all'articolo 634), per punire la «spoliazione o turbativa violenta del possesso o della detenzione di cose immobili». La norma, insomma, punta a colpire in modo preciso le occupazioni.
Contro le quali, a oggi, non esiste un reato specifico: per contrastarle si applica perlopiù l'articolo che colpisce la «invasione di terreni o edifici». Ma le cose, così come stanno, non funzionano, lamentano i proponenti (oltre a Foti, la pdl è stata firmata da un buon numero di deputati di FdI).
Perché di fatto, si legge nella premessa del testo, le pene previste «non fungono da effetto deterrente»: in caso di condanna, «si può beneficiare della sospensione condizionale della pena», mentre in caso di flagranza di reato «non è consentito l'arresto né l'adozione di misure cautelari, salvo per le ipotesi aggravate».
Condizioni che, secondo i firmatari, tendono a lasciare «sostanzialmente impuniti gli autori del delitto» […] Ecco perché il nuovo testo introduce la possibilità dell'arresto in flagranza contro i responsabili. […]
Severe le sanzioni previste: «Reclusione da sei mesi a quattro anni» e multa da 2 a 10mila euro, che salgono «da 5 a 25 mila» (con reclusione da 5 a 9 anni) se il reato è commesso «in danno di una civile abitazione o delle sue pertinenze». […]
Veneto, oltre 50 indagati tra gli attivisti per il diritto alla casa. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 7 Febbraio 2023.
Sono cinquantadue gli indagati con accuse a vario titolo per reati di “violenza e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali in danno ad appartenenti alle forze di polizia” nell’ambito dell’operazione scattata all’alba di martedì 31 gennaio nelle città di Padova, Mestre, Treviso e Schio e portata a termine da oltre un centinaio di agenti delle forze dell’ordine. L’operazione, predisposta dalla procura di Padova, è legata allo sgombero di una casa occupata da studenti il 9 novembre scorso a Padova. Qui, sono state perquisite le case di 13 persone e altre 9 nel resto del Veneto. Sette soggetti sono stati sottoposti a misure cautelari, dall’obbligo di dimora all’obbligo di firma quotidiano. Sequestrati anche telefoni e computer personali. L’operazione va a colpire direttamente gli attivisti per il diritto alla casa, criminalizzati nelle parole del ministro dell’Interno Piantedosi ma che nei fatti cercano di portare l’attenzione su di una problematica particolarmente urgente nella zona di Padova e provincia.
Gli episodi contestati risalgono al novembre scorso, quando le forze dell’ordine misero in atto alcune operazioni di sgombero di appartamenti dell’Ater (Agenzia Territoriale per l’Edilizia Residenziale) occupati da militanti del centro sociale Pedro attivi per il diritto alla casa. In quell’occasione, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si era detto soddisfatto «per l’operazione di sgombero di quattro appartamenti Aver occupati abusivamente dai gruppi antagonisti», a suo dire necessaria per «proseguire con determinazione il percorso di ripristino della legalità anche per evitare che immobili occupati abusivamente possano diventare luoghi per organizzare azioni di contestazione violenta».
Tuttavia, l’emergenza abitativa a Padova è una realtà conclamata, in particolare modo per quanto riguarda il contesto studentesco, mettendo di conseguenza a repentaglio il diritto allo studio. Poche settimane prima dello sgombero vi era stata una protesta degli attivisti del Catai, che denunciavano come la disponibilità di posti letto per gli studenti in città fosse di 700, a fronte di 2000 ragazzi con diritto ad alloggio pubblico. «Ci sono quindi 1.300 idonei non assegnatari, a cui vanno sommati moltissimi studenti internazionali, che si trovano abbandonati e costretti a cercare un affitto privato» denunciavano gli attivisti del Catai. Le alternative, per gli studenti fuori sede, sono tornare a casa o affittare una stanza ad un prezzo medio di 450 euro al mese. Secondo alcune ricerche, Padova si colloca infatti al terzo posto come città universitaria più cara d’Italia, al pari con Firenze, subito dopo Milano e Roma. Con i fondi del PNRR sono stati aggiunti ulteriori 63 posti letto (insieme ad altri 62 nella sede distaccata di Vicenza). Evidentemente, un investimento ben lontano dal soddisfare la richiesta. Ma il problema non riguarda solo gli studenti. «Sono anni ormai che l’emergenza abitativa è diventata una condizione strutturale per Padova e provincia. Perché sui 122 immobili sfitti da tempo non sono intervenuti prima, quando i costi per riattarli sarebbero stati sicuramente più contenuti e si sarebbe potuto dare sollievo a tante famiglie» dichiarava nell’agosto dello scorso anno la segretaria del Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICET) di Padova e Rovigo, Giulia Zago.
Come denunciato dalla Coalizione Civica per Padova, “Il diritto all’abitare è fuori dall’agenda politica da troppo tempo, mancano un pensiero, un investimento strutturale e delle azioni concrete, in particolare a livello nazionale e regionale”. Il fenomeno è complesso e causato da fattori diversificati, che vanno dall’impoverimento generale della popolazione alla vendita degli alloggi di edilizia pubblica residenziale da parte della Regione, passando per la crisi energetica e l’impennata degli affitti brevi e delle locazioni turistiche. Ancora una volta, quindi, la repressione e la criminalizzazione dell’attivismo da parte delle istituzioni volte a tutelare i cittadini tenta di sviare l’attenzione da un problema ben più grave e strutturale, ovvero l’incapacità dello Stato di garantire adeguato accesso al diritto all’abitare alla popolazione. [di Valeria Casolaro]
Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 6 febbraio 2023.
La storia dei nostri governanti è costellata da case acquistate e affittate a prezzi scontati da enti previdenziali. La politica che nomina i controllori di questi enti ha sempre avuto le informazioni giuste per andare a chiedere l’affitto di questo o quell’appartamento a canoni calmierati.
Così Ciriaco De Mita nel 1988 da presidente del Consiglio finì al centro delle polemica per la sua dimora da trenta vani, undici finestre più 200 metri quadrati di terrazzo in via Arcione a due passi dal Quirinale: un appartamentino affittato a equo canone dall’Inpdai, l’istituto di previdenza dei dirigenti d’azienda.
E poi Massimo D’Alema con la sua casa affittata dall’Inps a Trastevere che lasciò da presidente del Consiglio, Walter Veltroni che ricomprò la casa dove era nato dall’Inpdai e, ultime, le polemiche nei primi anni Duemila con le case ricomprate da enti previdenziali e assicurativi da una pletora di ex Dc e sindacalisti che ne erano inquilini: come l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’ex ministro Clemente Mastella, l’ex presidente del Senato Franco Marini, solo per citarne alcuni. Mentre non si contano gli ex Pci e i giornalisti che hanno comprato nel palazzo ex Ina di piazza dell’Emporio a Testaccio, detto il Cremlino non a caso. [..]
Poi qualche giorno fa un’inchiesta de Il Domani denuncia che il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon e l’ex presidente della Croce Rossa oggi candidato del centrodestra alla Regione Lazio, Francesco Rocca, hanno comprato con sconti delle case dell’Enpaia, l’ente degli agricoltori: nel primo caso con un iter a dir poco strano, nel secondo invece, come raccontato da Repubblica , si è poi scoperto le regole del bando le aveva scritte l’ex avvocato della Croce Rossa.
Ma oggi davvero ci sono ancora molte case in mano agli enti previdenziali? E come continua questo mercato? […]
Analizzando i bilanci degli enti previdenziali privati e dei fondi pensioni, salta fuori che dal 2001 hanno venduto immobili che sul mercato avevano un valore intorno ai 16 miliardi di euro: migliaia di case e appartamenti nei migliori quartieri residenziali e dei centri storici di Roma e di Milano, andati in grandissima parte a chi già abitava queste case con sconti fino al 45 per cento. Quindi l’incasso per gli enti è stato di molto inferiore.
Ma quello che pochi sanno è che ancora oggi gli enti e i fondi previdenziali hanno in pancia case che in bilancio mettono a un valore di mercato pari a 7 miliardi. Questo enorme patrimonio continua a esser messo a bando per affitti a prezzi agevolati o per la vendita con prelazione agli inquilini. Solo che gli avvisi sono poco pubblicizzati, nella migliore delle ipotesi, e comunque prevedono dei cavilli che, di fatto, lasciano mano libera agli amministratori. […]
C’è un altro filone di strusciamento tra enti e politica. Diversi enti hanno creato dei fondi ad hoc e poi ne hanno affidato a terzi la gestione. Il gruppo Caltagirone, a esempio, ha la gestione dei fondi della cassa forense, ma anche di quella degli psicologi, degli ingegneri o degli architetti.
L’ente previdenziale dei geometri qualche anno fa ha conferito beni per un miliardo di euro al fondo gestito da Polaris e all’Anac è arrivato un esposto per porte girevoli tra consulenti della cassa e amministratori del fondo. A conferma di un groviglio poco armonioso nella gestione di questi beni tra amministratori, politici e mondo della finanza: oggi gli enti e i fondi previdenziali hanno immobili affidati a fondi gestiti per un valore di 15 miliardi. […]
Dagospia il 10 febbraio 2023RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – LA PRECISAZIONE DELL’ENPAIA RIGUARDO ALLE INFORMAZIONI DI STAMPA PUBBLICATE SULL’ACQUISTO DI UN APPARTAMENTO DELLA FONDAZIONE ENPAIA DA PARTE DEL DIRETTORE GENERALE ROBERTO DIACETTI: “IL DOTT. DIACETTI NEL MESE DI LUGLIO DEL 2019 HA CHIESTO IN LOCAZIONE UN IMMOBILE AD USO ABITATIVO PER SOPRAGGIUNTE ESIGENZE PERSONALI....”
Dismissione del patrimonio immobiliare Enpaia. La Fondazione respinge insinuazioni e dietrologie
In relazione alle informazioni di stampa pubblicate oggi sull’acquisto di una unità immobiliare della Fondazione Enpaia da parte del dott. Roberto Diacetti si precisa quanto segue:
– il dott. Diacetti nel mese di luglio del 2019 ha chiesto in locazione un immobile ad uso abitativo per sopraggiunte esigenze personali; la locazione è stata istruita dalla Direzione Immobiliare e autorizzata dal Presidente senza alcuna interferenza del Direttore Generale;
– Il canone mensile di locazione complessivo, pari ad Euro 2.855,00, è in linea con i canoni praticati a tutti i conduttori senza alcuna agevolazione, considera la prevista maggiorazione del canone unitario applicato dalla Fondazione in considerazione del coefficiente di piano ed è stato sempre corrisposto regolarmente;
– La Fondazione ha assunto una serie di delibere dirette a dismettere il patrimonio immobiliare dell’Ente che, in considerazione della vetustà e degli alti costi di manutenzione, aveva rendimenti vicini allo zero; nonostante la scontistica praticata – come peraltro hanno fatto tanti Enti previdenziali – il 30% degli immobili in via Gramsci non sono stati acquistati dai conduttori;
– La Fondazione ha applicato indistintamente le medesime regole e la medesima scontistica a tutti i conduttori interessati all’acquisto delle proprie unità immobiliari, ivi compresi impiegati, quadri e dirigenti dell’Enpaia ai quali, nel corso degli anni, sono stati concessi in locazione e, in seguito in vendita, ove previsto, le unità immobiliari di proprietà dell’Ente;
– Il dott. Diacetti non ha mai partecipato alla discussione e all’approvazione delle diverse delibere concernenti la dismissione degli immobili e il Cda ha dato al Presidente e alla Direzione immobiliare il mandato di eseguirle; pertanto è totalmente infondato e surrettizio parlare di conflitto di interessi;
– Il dott. Diacetti ha ottenuto uno sconto del 20% all’atto dell’acquisto in funzione dei due anni di locazione;
– Il prezzo di vendita dell’immobile di via Gramsci stabilito in di Euro 5.080,00 per mq. (ricompreso nella forchetta valori Omi secondo semestre 2020 stabilita tra 4.500 e 6.400 euro per mq.) è assolutamente in linea con i prezzi di mercato. Si fa presente inoltre che il dott. Diacetti è stato nominato all’unanimità nel novembre 2018 ed è stato confermato sempre all’unanimità e con un plauso per i risultati conseguiti nel luglio 2021 da un cda composto da 15 componenti di cui 14 espressione dei datori di lavori e dei sindacati del mondo agricolo e uno designato dal Ministro del Lavoro (all’epoca Poletti). Inoltre, occorre sottolineare che la Fondazione nell’ultimo quadriennio ha ottenuto significativi risultati economici e organizzativi. In estrema sintesi:
– ha chiuso il bilancio 2020 con 15 milioni di utile, il bilancio 2021 con 18 milioni di utile e il bilancio 2022, il migliore della sua storia, con oltre 38 milioni di utile;
– Il rendimento del patrimonio dell’Ente è passato dal 2,3% del 2018 al 4,88% del 2021;
– nel quadriennio 2019/2022 la Fondazione Enpaia con le dismissioni immobiliari ha realizzato complessivamente 46.6 milioni di euro di plusvalenze;
– è in corso di svolgimento un beauty contest per la vendita massiva di tutti gli immobili invenduti nelle precedenti dismissioni.
Infine, la Fondazione Enpaia auspica di non essere ulteriormente chiamata in causa e lesa da una campagna stampa che poggia su insinuazioni e dietrologie che sono contraddette da comportamenti e atti conformi alle norme di legge e ai regolamenti interni. Enpaia continuerà ad avere un atteggiamento di totale trasparenza nei confronti degli organi di stampa ma al contempo valuterà se ricorrere alle vie giudiziarie a tutela della propria immagine e reputazione.
Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per “Domani” il 7 febbraio 2023.
Lo scandalo delle case di lusso cedute con lo sconto a politici e potenti tocca ogni giorno nuove vette (immobiliari). Domani nei giorni scorsi ha dato conto della vendita di appartamenti da parte dell’ente di previdenza dei periti agricoli (l’Enpaia, guidata dal direttore generale Roberto Diacetti) ai capi politici della destra nel Lazio. Cioè il leghista Claudio Durigon e il candidato alla presidenza della Regione Lazio Francesco Rocca, che hanno comprato recentemente due appartamenti di oltre 170 e 185 metri quadri nella prestigiosa zona della Camilluccia a circa mezzo milione di euro l’uno, ottenendo uno sconto del 30 per cento sui prezzi di mercato valutati da consulenti terzi di Enpaia […]
[…] ieri la vicenda è finita anche sulle scrivanie dei magistrati di piazzale Clodio (il segretario dei Verdi Angelo Bonelli ha consegnato un esposto in procura) […]
Enpaia […] ha emanato un comunicato stampa dove dichiara che «la fondazione ha dismesso il patrimonio immobiliare nel rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità». Domani ne prende atto, e aggiunge all’opera meritoria dei vertici di Enpaia un nuovo elemento di chiarezza: cioè la vendita, da parte di Enpaia guidata da Diacetti, di un appartamento di lusso a Diacetti stesso. Nel cuore dei Parioli. Anche questo, naturalmente, acquistato con lo sconto.
Il direttore generale è un uomo navigato: è stato amministratore delegato di Atac ai tempi di Gianni Alemanno sindaco, poi presidente di Eur spa con Ignazio Marino, ed è diventato il capo di Enpaia nel novembre 2018, quando al governo le deleghe degli enti previdenziali erano in mano al sottosegretario al Lavoro del Conte I, Claudio Durigon.
A leggere documenti e visure camerali, dunque, si scopre che nel dicembre 2019 Diacetti – un anno dopo essere diventato dg di Enpaia – entra come affittuario in un bellissimo attico nel cuore dei Parioli, a via Gramsci, di proprietà esclusiva dell’ente che guida da qualche mese. Non sappiamo se abbia, come ha detto Rocca, trovato l’annuncio sul sito della stessa fondazione che dirige, come un comune mortale.
Ma è certo che nell’atto di compravendita si fa riferimento a una delibera del consiglio di amministrazione del 2019 (con ogni probabilità antecedente il contratto di affitto, ma anche fosse di pochi giorni dopo l’ingresso di Diacetti nella nuova casa poco cambierebbe) che «ha determinato di voler procedere all’alienazione del predetto complesso immobiliare» dei Parioli. Diacetti sapeva già – al netto della sua evidente posizione di privilegio informativo - che diventando inquilino avrebbe avuto poi la possibilità di avere diritto di prelazione.
Esattamente due anni dopo, nel dicembre 2021, dopo aver maturato uno sconto pari al 20 per cento, Diacetti infatti compra l’attico. O meglio ne compra l’usufrutto, concedendo la nuda proprietà alle due figlie minorenni. L’affare che il direttore generale mette a segno è notevole: l’appartamento nel condominio di lusso è al sesto piano, ha nove vani distribuiti in oltre 190 metri quadri, terrazzo perimetrale con vista, cantina e due posti auto, e viene comprato a soli 870 mila euro, pagati senza fare ricorso al mutuo.
A poco più, dunque, di 4mila euro al metro quadro, mentre i valori della zona per case di pregio arrivano a quasi 6-7mila euro, senza considerare che la presenza del terrazzo fa prezzo a sé.
Abbiamo chiamato Enpaia per chiedere se la compravendita del dg di Enpaia rispettasse tutte le regole interne, e se non ci fosse il rischio di una svendita in pieno conflitto di interessi a danno della cassa della fondazione. Enpaia dice: «Ogni nostro dipendente se vuole può prendere in affitto un immobile, se disponibile e se si può permettere l’importo. Il direttore generale per evitare conflitti di interessi ha persino evitato di partecipare alle riunioni di cui si è parlato di dismissioni immobiliari. Diacetti poi è diventato inquilino dopo essersi lasciato dalla moglie, e ha chiesto casa ad Enpaia dopo aver passato un periodo dai genitori». […]
Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per “Domani” l’8 febbraio 2023.
La “Scontopoli” dell’Enpaia, l’ente previdenziale dei periti agrari che ha svenduto a politici, potenti e amici degli amici parte del suo patrimonio immobiliare si è arricchita ieri di un dettaglio non banale. L’acquisto da parte dello stesso direttore generale della fondazione, Roberto Diacetti, di un attico ai Parioli a prezzo stracciato, compravendita scoperta da Domani.
[…] l’Enpaia ha aggiunto che «per evitare conflitti di interesse il dg ha persino evitato di partecipare alle riunioni in cui si è parlato di dismissioni immobiliari».
Pur di comprare un appartamento a quasi metà del prezzo di mercato (e usufruendo di uno conto certo del 20 per cento) Diacetti avrebbe dunque rinunciato a parte del mandato che lo statuto Enpaia assegna al suo dirigente lautamente stipendiato, come la cura dell’«attività diretta al conseguimento dei risultati e degli obiettivi» (a cui contribuisce anche la gestione dell’enorme patrimonio immobiliare) […]
La spiegazione di Diacetti convince poco, anche perché il numero uno di Enpaia risulta citato in una delibera del cda del gennaio 2020 che fa riferimento diretto «alla relazione del direttore generale», e che ha definito «i criteri e limiti di investimento» del patrimonio Enpaia, comprese case e appartamenti.
A Via Gramsci, nel cuore del quartiere Parioli, nello stesso condominio di Diacetti, altri personaggi noti hanno affittato e comprato da Enpaia. C’è per esempio Alessandro Casali, noto lobbista e buon amico di Massimo D’Alema, finito in alcune registrazioni del caso Amara oggi oggetto d’indagine alla procura di Milano. […]
Al piano di sotto abita anche Fabrizio Centofanti. Amico di Luca Palamara, è finito al centro della vicenda giudiziaria che ha travolto l’ex magistrato romano. L’imprenditore ha comprato dall’ente previdenziale a giugno del 2022, portandosi a casa un grande appartamento simile a quello di Casali a 950mila euro, godendo di una riduzione di prezzo del 30 per cento. «Ma io ero in affitto sin dal 2015 con la mia società Energie Nuove, di cui ero anche presidente. Successivamente, nel 2017, ho volturato il contratto alla mia persona» scrive Centofanti in una mail, allegando la registrazione del contratto di affitto. […]
Enpaia ribadisce, nonostante le polemiche sulla vicenda, di aver «rispettato i principi di trasparenza e di imparzialità». Sia nei casi suddetti, sia in quelli di Claudio Durigon (che ha potuto comprato insieme alla compagna Alessia Botti, anche grazie a nuove linee guida emanate dall’ente nel gennaio del 2021) e di Francesco Rocca, candidato per il centrodestra alla presidenza della regione Lazio, che ha comprato con uno sconto del 30 per cento nel dicembre 2022.
I maligni ipotizzano l’esistenza di un sistema per favorire i soliti noti, di cui avrebbe beneficiato anche Francesco Scacchi, importante avvocato penalista della capitale che l’anno scorso ha comprato un appartamento sullo stesso pianerottolo di quello di Rocca: quasi 190 metri quadrati più box auto a 560mila euro nella zona della Camilluccia. Scacchi è finito sui giornali perché è da anni anche avvocato del sindacato Ugl e di Durigon. E perché assiste civilmente Rocca, che ha dichiarato di aver affittato grazie alla consultazione del sito internet della fondazione e non «grazie a raccomandazioni o informazioni privilegiate».
Scacchi è consulente pure di Enpaia, che lo indica in un comunicato di qualche giorno fa come l’uomo che «ha fornito un supporto» alla scrittura delle «linee guida predisposte dalla direzione immobiliare dell’ente». Quelle stesse linee guida che hanno permesso all’Ugl, ufficialmente conduttore del contratto d’affitto della casa di Durigon, di indicare il sottosegretario al ministero del Lavoro (con delega sugli enti previdenziali Enpaia compresa) come «soggetto utilizzatore dell’immobile». E che determinano che, oltre ai familiari dell’affittuario, possono comprare case con lo sconto anche «i conviventi di fatto». […]
Sentito da Domani, Scacchi – che ha anche difeso Raffaele Marra, arrestato per corruzione per una vicenda immobiliare scoperta da chi scrive, finita con una condanna in appello ora prescritta – spiega però che l’apparenza inganna. «Innanzitutto io sono stato inquilino di Enpaia dal lontano 2007, quindi molti anni prima della decisione della fondazione di vendere il plesso di via Calalzo» dice il legale.
«È vero che ho avuto un incarico per le linee guida dall’Enpaia nel marzo 2020, ma faccio la conoscenza di Rocca solo quando diventa per puro caso mio vicino di casa nel 2019. Prima lo avrò incontrato al massimo in qualche evento. Ammetto che è nato un buon rapporto, e che oggi lo assisto in una causa su fatti riguardanti la Croce rossa».
Scacchi però è da anni anche avvocato di Durigon e dell’Ugl. Per la precisione dal lontano 2011, quando è stato chiamato dall’allora segretaria del sindacato Renata Polverini. Non solo. Dell’Ugl Durigon è stato (lo è ancora?) vicesegretario e uomo forte: il sottosegretario leghista avrebbe beneficiato di linee guida a cui ha lavorato anche Scacchi.
Non c’è dunque il rischio di un conflitto d’interesse gigantesco? «No. Io di Durigon mi reputo buon amico, e se capita lo assisto personalmente. Ma le linee guida dell’Enpaia non le ho proposte io, ma il consiglio di amministrazione. Non ho scritto io né dell’entità degli sconti né quali parenti potevano comprare. Capisco che dentro Enpaia forse vogliono scaricare la situazione su altri: io sono anche avvocato del direttore generale Diacetti (quest’ultimo era all’Atac nel 2012, Scacchi era legale della partecipata ndr), uno che ha deciso di dismettere immobili che permettevano a qualcuno di fare guadagni sui lavori di manutenzione delle case».
Scacchi aggiunge poi che il suo cliente Diacetti non ha fatto nulla di male a comprare l’attico «visto che si è astenuto», e che lui da consulente Enpaia ha solo «aiutato a revisionare» le linee guida, approvate poi dal cda guidato da Giorgio Piazza. […]
Lo scandalo dei palazzi pubblici venduti e poi ricomprati: chi ha guadagnato miliardi a spese dello Stato. Immobili ceduti ai privati a prezzi convenienti. Gli enti costretti a rimanerci in affitto. Ora, diciotto anni dopo, devono riacquistarli. A decidere tutta l’operazione un governo di centrodestra. La stessa maggioranza di oggi. Sergio Rizzo su L’Espresso il 19 gennaio 2023.
Immaginate di essere costretti a vendere la vostra bella casa perché vi servono soldi. Dalla vendita incassate un milione. Ma siccome non vi potete trasferire, immaginate di dover rimanere lì, pagando un affitto al nuovo proprietario dell’ex vostro appartamento. Con un contratto che siete stati obbligati a firmare controvoglia: un canone dell’8 per cento annuo e tutte le spese a carico vostro.
DIRITTO ALL’ABITARE. Il diritto alla casa in Italia non esiste. Benvenuti nella stagione degli sfratti. Sono 7 milioni le abitazioni inutilizzate, pari al 25 per cento degli appartamenti. Ma 2,3 milioni di famiglie non possono permettersi un alloggio, le politiche pubbliche latitano e chi non è ricco subisce anche la gentrificazione dei quartieri. Diletta Bellotti su L’Espresso il 4 Gennaio 2023.
«Conoscevo persone obbedienti e le loro vite non erano migliori delle nostre. Continuavano ad arrabbiarsi, continuavano a perdere le loro case, continuavano ad andare in prigione, continuavano a morire per strada» (Hunter, 2019). La casa è uno strumento di irradiazione di molti diritti fondamentali: la sua garanzia rappresenta il mezzo per rendere gli altri diritti non solo effettivi, ma anche dotati di senso. I movimenti e i sindacati per il diritto all’abitare si muovono intorno a numerose rivendicazioni, tra le principali troviamo: l’utilizzo immediato degli alloggi e degli edifici pubblici inutilizzati; il blocco dell’esecuzione con la forza pubblica degli sfratti; la gestione del sovraffollamento negli affittacamere; lo stop alla compenetrazione tra pubblico e privato, cioè la cessazione dello stanziamento di fondi pubblici ai privati che speculano e aumentano il valore di intere aree cittadine contribuendo così ai processi di gentrificazione.
Per gentrificazione si intende il processo socioculturale che trasforma un’area urbana da proletaria a borghese a seguito dell’acquisto di immobili con conseguente rivalutazione sul mercato, costringendo così lo spostamento verso zone periferiche della città, e il conseguente cambio radicale delle condizioni di vita delle persone. In questo senso, le politiche abitative sono, quindi, chiamate a garantire non solo l’accesso a un alloggio dignitoso, ma anche il diritto a vivere in un contesto sostenibile, sotto il profilo ambientale e sociale. In questa cornice, gli sfratti sono la punta dell’iceberg di una sofferenza abitativa strutturale del nostro Paese che riguarda l’intero comparto dell’affitto e dei senza casa.
In Italia le famiglie in affitto sono circa il 20 per cento delle famiglie residenti, rappresentando circa il 45 per cento dei 5,6 milioni di persone in povertà assoluta, di queste 1,3 milioni sono minori. Povertà assoluta significa non potersi permettere le spese minime per condurre una vita dignitosa. Nel 2005 la percentuale era il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia; nel 2021 era il 9,4 per cento; nel 2022 5,6 milioni di persone, dunque il 10 per cento della popolazione. Nel 2022 gli sfratti eseguibili in Italia erano circa 150 mila, il 90 per cento eseguibili per morosità (Sole 24 Ore). Le convalide di sfratto sono attualmente 37 mila, numeri particolarmente alti anche perché si stanno eseguendo quelli accumulati con il blocco degli sfratti durante il periodo pandemico.
A dicembre l’Unione Inquilini ha lanciato l’allarme rispetto alla decisione del governo di azzerare i fondi di contributo per l’affitto e la morosità incolpevole. La decisione di azzerare le dotazioni di bilancio, insieme all’assenza di misure strutturali contro l’emergenza abitativa, causerà un aumento drammatico degli sfratti e delle persone senza casa, in una situazione già estremamente precaria. Nonostante la natura non strutturale e le modalità di erogazione delle risorse, il contributo affitto e i fondi per la morosità incolpevole hanno costituito negli ultimi anni uno strumento utile per alleviare il disagio abitativo, impedendo o ritardando gli sfratti fino a consentire ai nuclei familiari in difficoltà di trovare un’altra sistemazione abitativa. In Italia, con i finanziamenti che venivano erogati, 600 mila famiglie beneficiavano di fondi di contributo per l’affitto, mentre 650 mila persone sono utilmente collocate in graduatoria: hanno cioè il diritto alle case popolari, ma le case non vengono loro assegnate. Per far un esempio della gravità della gestione di queste, si consideri che nel 2022 l’Unione Inquilini di Ladispoli è riuscita a ottenere un’assegnazione di casa popolare in emergenza, la prima assegnazione dal 1986.
Il 20 dicembre l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti di Roma ha protestato davanti alla sede del dipartimento del Patrimonio e delle Politiche abitative con lo slogan «Basta persone senza casa, basta case senza persone», denunciando così i 7 milioni di case inutilizzate in Italia, ovvero il 25 per cento degli appartamenti in un Paese in cui 2,3 milioni di famiglie non possono permettersi un alloggio. Inoltre, denuncia l’Assemblea, sono quasi 50 mila gli alloggi di liste di edilizia residenziale pubblica non utilizzati perché non hanno ricevuto la giusta manutenzione dall’ente gestore.
Premio gentrificazione
A Bologna, dal 2014, le strutture extra-alberghiere sono triplicate. Al momento in città ci sono quasi quattromila Airbnb. D(i)ritti alla città ha stimato che a Bologna ci sono 547 case vuote, di cui 183 pubbliche, con un totale del vuoto immobiliare di 1.079.902 metri quadrati, equivalente a più di quattro volte i Giardini Margherita (2021).
Premio sfratti
Nel 2021 a Pisa, c’è stato un aumento di più del 600 per cento di richieste di esecuzione e di più del 550 per cento di sfratti eseguiti con la forza pubblica. Solo nel 2022 ci sono stati oltre trecento sfratti. La comunità di quartiere di Sant’Ermete, dieci giorni fa, ha preso in gestione tre palazzine abbandonate, con sei alloggi l’una, e iniziato un processo di autorecupero dal basso. Sono case che il Comune di Pisa avrebbe dovuto demolire e ricostruire, le ha, invece, abbandonate. Dopo l’operazione di autorecupero la comunità chiede al Comune di assegnare le case alle famiglie in graduatoria.
Premio repressione
A novembre di quest’anno il tribunale di Milano ha emesso una sentenza contro nove membri del Comitato abitanti Giambellino Lorenteggio per «associazione a delinquere con finalità di occupazione e resistenza». L’accusa è quella di avere aiutato a occupare una serie di appartamenti vuoti di proprietà dell’Aler, cioè l’ente gestito dalla Regione che si occupa di buona parte dell’edilizia residenziale pubblica della città.
Nella complessità delle cause dell’erosione del diritto all’abitare si può additare con certezza il processo storico neoliberista in cui lo Stato si è sottratto al proprio ruolo pubblico di regolatore del mercato immobiliare e delle trasformazioni urbane, svendendo di fatto città intere, svuotandole e rendendole inabitabili. Ha fallito così nel garantire una vita dignitosa e, soprattutto, ha contribuito nel costruire una colpa sociale intorno alla povertà. Le realtà che lottano per il diritto all’abitare vogliono ristabilire la casa come diritto fondamentale, non solo come struttura che fornisce riparo, ma come luogo, fisico e non, che permette di localizzare le proprie memorie, svolgendo così un ruolo centrale nei processi di costruzione dell’identità.